Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2021

 

LA MAFIOSITA’

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L'alfabeto delle mafie.

In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.

La Cupola.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Intimidazioni.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

La Dia: Il Metodo Falcone.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare: segui i soldi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La ‘Ndrangheta.

Cosa Nostra. 

Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.

La Mafia romana.

La Camorra. La Mafia Napoletana.

La Mafia Milanese.

La "Quarta mafia" del foggiano.

La Mafia Molisana.

Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

La Moralità della Mafia.

La Mafia Molisana.

Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

La Mafia Nigeriana.

La Macro Mafia.

La Mafia Statunitense. 

La Mafia Cinese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.

Non era mafia: era politica.

Santi e Demoni.

I Mafiologi.

L'Antimafia delle Star.

Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.

Il Pentitismo.

Hanno ucciso Raffaele Cutolo.

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.

Non era Mafia.

Antimafia: A tutela dei denuncianti?

Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.

È incandidabile?

Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

Il Contrabbando.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …”Viva i Boss”.

La Gogna Parentale e Territoriale.

Il caso di Mesina spiegato bene.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.

Il Caporalato Parlamentare.

Gli schiavi del volantinaggio.

La Vergogna del Precariato. 

Il caporalato sui rider.

Il Caporalato agricolo.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpa delle banche.

Fallimentare…

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…la Lobby.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.

Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.

I dipendenti della presidenza del Consiglio.

I Giornalisti Ordinati.

Gli Avvocati.

I Medici di base.

I Commercialisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

Le Assicurazioni…

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa c’entra la massoneria?

Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’occupazione delle case.

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L'alfabeto delle mafie.

L'alfabeto delle mafie. A come Antimafia. Non solo norme, commissioni e magistrati specializzati. In nessun'altra parte del mondo alle prese con gli stessi problemi si combattono le mafie con il sostegno attivo di una parte della popolazione. In particolare quella giovanile. Isaia Sales su La Repubblica il 16 settembre 2021. Con il termine antimafia ci si riferisce a quell'insieme di norme, apparati e istituzioni predisposto in Italia per la lotta alle mafie: una legislazione speciale (416 bis, reato di associazione mafiosa; 41 bis, carcere speciale per i mafiosi; sconti di pena per i collaboratori di giustizia; introduzione del sequestro e della confisca dei beni; possibilità dello scioglimento degli enti locali per infiltrazione mafiosa) e inoltre magistrati specializzati in materia; forze dell'ordine coordinate; uffici investigativi appositamente costituiti (Dna, direzione nazionale antimafia; DDA, direzione distrettuale antimafia; DIA, direzione investigativa antimafia); uffici giudiziari specializzati nel sequestro e nella confisca; un'agenzia nazionale per il riuso (ANBSC); una commissione parlamentare specifica; relazioni semestrali e annuali dedicate, ecc.

 L'alfabeto delle mafie. B come Borghesia mafiosa. La modernità delle mafie consiste nel fatto che esse si svincolano dalle condizioni storiche che le hanno prodotte e diventano un metodo: l'uso della violenza come arricchimento e potere attraverso le relazioni politiche e sociali. Isaia Sales su La Repubblica il 30 settembre 2021. Con l'espressione "borghesia mafiosa" non si intende, certo, che la borghesia italiana sia criminale, ma si fa riferimento a due distinte caratteristiche storiche delle mafie italiane. Innanzitutto ci si riferisce all'origine sociale dei mafiosi, in gran parte provenienti - secondo gli studiosi che fanno ricorso a questa terminologia - dalle file della borghesia siciliana, mentre diversa sarebbe la provenienza di classe dei camorristi e degli 'ndranghetisti.

L'alfabeto delle mafie. C come Chiesa cattolica. Negli ultimi anni la comunità cattolica italiana ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso. Ecco le tappe che hanno portato a questa mutazione.  Isaia Sales su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Per chi si occupa del rapporto storico tra mafie italiane e Chiesa cattolica i cambiamenti degli ultimissimi anni sono davvero impressionanti. La comunità cattolica italiana (nel suo insieme) ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso rispetto ad un lungo passato di connivenza, silenzio o indifferenza. E in questa radicale revisione si sono impegnati i vertici delle gerarchie vaticane. Vediamo nell'ordine le principali novità intervenute. Nel 2010 la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha scritto parole nette sull'argomento: "Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato". È la prima volta che viene argomentata l'avversione alla mafia utilizzando il termine "struttura di peccato" che la "teologia della liberazione" (elaborata da alcuni teologi della chiesa latino-americana) applicava all'analisi del capitalismo in quella parte del mondo esprimendosi a favore di una Chiesa dalla parte dei poveri e delle loro lotte per emanciparsi da inaccettabili condizioni di sfruttamento. La teologia della liberazione aveva contestato il silenzio e, in diversi casi, la complicità delle gerarchie cattoliche sudamericane verso le dittature militari, così come i cattolici più avvertiti in Italia avevano contestato il lungo silenzio storico (e a volte l'aperta connivenza) delle gerarchie verso la "dittatura" mafiosa. A maggio del 2021 è stato beatificato il giudice Rosario Livatino, un magistrato dal profondo sentire cristiano vittima della mafia. Già nel 2013 Padre Giuseppe Puglisi era stato proclamato beato. Un fatto straordinario: era la prima volta in assoluto che un uomo di Chiesa veniva beatificato per aver avversato la mafia e per esserne stato vittima. Per il passato, infatti, i sacerdoti che si erano opposti alle prepotenze mafiose, isolati dai credenti e dalle gerarchie ecclesiastiche, erano stati dimenticati dalla Chiesa. E la richiesta di beatificazione per don Peppe Diana, ammazzato da un clan camorristico a Casal di Principe, si è fatta sempre più pressante. Nel 2014, poi, Papa Francesco in Calabria ha pronunciato la parola "scomunica" nei confronti dei mafiosi ("I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati") dopo che per decenni e decenni questa parola era stata bandita dal linguaggio dei vertici della Chiesa nei confronti degli appartenenti alle mafie. E proprio sul tema della scomunica è stato promosso in Vaticano un gruppo di lavoro con la presenza di diversi esponenti del mondo cattolico che si sono segnalati per il loro impegno contro le mafie. Prima di Bergoglio anche Giovanni Paolo II nel 1993 aveva preso posizioni pubbliche contro le mafie nel celebre discorso nella Valle dei templi ad Agrigento, ma nessun Papa prima di allora (cioè a più di due secoli dalla nascita delle mafie in Italia) aveva parlato di mafie in un suo discorso, in una sua omelia, in un suo libro. Nel 2015 si è registrata anche la ferma presa di posizione dell'arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, di non ammettere come padrini di battesimo e di cresima coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o coloro che appartengono ad associazioni mafiose. La mamma di don Peppe Diana commossa al passaggio di una manifestazione in ricordo del figlio ucciso dalla camorra  Si può parlare, dunque, a ragione di un cambio epocale dell'atteggiamento delle gerarchie cattoliche verso i fenomeni mafiosi. Una novità di assoluto valore umano, culturale, civile, storico prima che religioso. E proprio per valorizzare al meglio questi radicali cambiamenti degli ultimissimi anni, che vanno ripercorse storicamente tutte le ampie zone d'ombra del rapporto con le mafie del mondo cattolico italiano. Perché la domanda assillante che ci si pone sul piano storico è questa: come mai i fenomeni mafiosi si sono sviluppati in società e ambienti cattolicissimi pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti dell'etica cristiana? E, in particolare, come spiegarsi il fatto che in quattro cattolicissime regioni italiane si siano prodotte alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo, senza che - fino a pochissimi anni fa - ci fosse contrasto tra esse e le gerarchie cattoliche? Queste domande, naturalmente, valgono anche nei confronti della corruzione, tema su cui si registra un altro ritardo storico del Vaticano: solo nel 2017, infatti, si è ventilata la possibilità di una scomunica anche verso i condannati per corruzione. È del tutto evidente che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell'Italia meridionale (e negli altri paesi latino-americani alle prese con analoghi problemi) non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso, anzi. Ancora oggi manca dall'interno della Chiesa una spiegazione storica e dottrinale del proprio comportamento, che purtroppo non è estraneo al duraturo successo delle mafie. Certo l'uso della devozione e della ritualità nei sistemi mafiosi non è una peculiarità solo del cattolicesimo. Anche la Yakuza giapponese e le Triadi cinesi praticano riti di iniziazione vicini alle tradizioni religiose di quei paesi, così come all'interno del cristianesimo vanno considerate le pratiche di bande criminali mafiose russe e di altri paesi slavi che si richiamano a quelle della religione ortodossa. Nella criminalità mafiosa nigeriana cospicui sono i riferimenti a pratiche religiose che hanno a che fare con l'occultismo, con la stregoneria e con i riti "vudu". Così come meritano grande attenzione sia il rapporto tra terrorismo jihadista e religione musulmana sia alcuni comportamenti di stampo mafioso in territori arabi. Se si esclude Matteo Messina Denaro, non si conoscono mafiosi atei o apertamente anticlericali nei paesi cattolici, non ci sono appartenenti alle mafie che non abbiano ostentato o ostentino apertamente la loro fede. Sono cattolici osservanti i peggiori assassini che l'Italia abbia mai avuto nell'ultimo secolo e mezzo. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare loro la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti), fanno da padrini di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l'estrema unzione se muoiono nel loro letto e pretendono il funerale religioso, sono tra i massimi benefattori di molte parrocchie, organizzano le feste dedicate ai santi patroni e li si vede in prima fila nelle processioni. Nel frattempo sciolgono ragazzini nell'acido, scannano "cristiani" come pecore, ordinano omicidi a ripetizione, opprimono con il racket migliaia di persone, avvelenano con le droghe intere generazioni. E mentre scrivono in codice ordini di morte, si servono normalmente di espressioni di pietà cattolica quali "con l'aiuto di Dio", o "ringraziando Gesù Cristo", come faceva nei suoi pizzini Bernardo Provenzano. Alcuni fra loro esprimono una religiosità superstiziosa (il segno della croce prima di ammazzare o la benedizione delle pallottole con l'acqua santa), altri una religiosità tenue (andare a messa, osservare i precetti), altri sono dediti allo studio e alla lettura quotidiana della Bibbia e del Vangelo, altri usano libri di preghiera o si dedicano a letture religiose più sofisticate, altri ancora hanno eretto cappelle per la messa nel loro rifugio di latitanti, i più istruiti si sono cimentati anche con la teologia. Forse questo è uno degli aspetti più contraddittori della storia italiana: nel Paese cattolico per antonomasia, sede del cuore mondiale della cristianità, dove più forte e determinante è stata l'influenza della Chiesa cattolica nel plasmare la storia e il carattere stesso della popolazione, si sono sviluppate le criminalità organizzate di tipo mafioso che più di altre hanno condizionato e influenzato il crimine nel mondo. Nelle regioni italiane considerate più legate alla Chiesa, nel cuore della cristianità sono nati e cresciuti gli assassini più spietati. Questi criminali non hanno abiurato la loro fede religiosa, anzi spesso se ne sono serviti per giustificare le loro azioni criminali. E la cosa non riguarda solo il passato, quando più forte era l'influenza della Chiesa sulla società nel suo complesso, ma anche il periodo in cui l'Italia si è secolarizzata e addirittura gli ultimi decenni, quando è sembrato che la Chiesa avesse meno influenza sulla vita quotidiana della nazione. Altri tipi di delinquenti, altri cattolici di dubbia moralità (politici, imprenditori, capi di Stato, dittatori) hanno posto la religione a guida della loro azione pubblica e privata; e la storia ci ricorda quanti crimini e misfatti sono stati compiuti in nome della fede, quante atrocità al grido "Dio è con noi". Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più grave e inedito: una dimestichezza, una familiarità, una quotidianità plurisecolare tra fede e crimine che non si può camuffare neanche dietro una presunta funzione pubblica o imprescindibili esigenze nazionali o statuali. La loro natura di assassini e gli scopi malavitosi della loro organizzazione sono sempre stati chiari e lampanti. Nei loro covi si sono rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi, e altre forme di acculturazione religiosa e di forte e sentita credenza. In alcuni casi sono stati scoperti dei veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a dei ricercati per efferati delitti. Dunque, non c'è alcun dubbio: i capi e gli aderenti alle quattro criminalità italiane di tipo mafioso sono devoti e ferventi cristiani che non avvertono minimamente alcuna contraddizione tra l'essere degli assassini e credere in Dio e nella sua Chiesa. Essi pensano di avere un rapporto del tutto particolare con la divinità e non li sfiora neanche lontanamente la sensazione di inconciliabilità tra il macchiarsi di efferati delitti ed essere parte della grande famiglia cattolica. I mafiosi non hanno mai avvertito la Chiesa nelle sue varie articolazioni come una nemica o una oppositrice del loro disegni e comportamenti. Un paradosso così eclatante poche volte si è riscontrato nella storia moderna della Chiesa. Questa è una constatazione storica incontestabile. Certo, ci sono preti che in diversi quartieri dominati dalle mafie svolgono una straordinaria opera sociale, culturale e perfino economica per contendere bambini, ragazzi e giovanissimi al reclutamento mafioso. E a volte questa vera e propria azione missionaria si svolge nella totale assenza delle istituzioni statali e comunali e del volontariato non religioso. Ma i preti missionari nei quartieri mafiosi non annullano il danno sociale e civile degli altri preti che nel tempo sono stati proni alle mafie. È del tutto ovvio che le mafie non avrebbero potuto radicarsi così profondamente nella storia meridionale senza un'acquiescenza degli esponenti della Chiesa cattolica, che spesso hanno piegato la dottrina cristiana alle esigenze di dare buona coscienza a degli assassini. La domanda che molti studiosi della criminalità si pongono è questa: le mafie avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell'intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell'indifferenza, della sottovalutazione della Chiesa cattolica e della sua dottrina? La risposta è no. Senza di ciò le mafie non sarebbero arrivate a tenere in pugno il futuro di intere popolazioni. Insomma, il successo delle mafie italiane deve essere considerato sul piano storico anche come un insuccesso della Chiesa cattolica. Fino alla seconda metà del Novecento la Chiesa italiana non ha mai prodotto un documento ufficiale, una presa di posizione "contro" le mafie, non le ha mai combattute apertamente, non c'è stato mai un aperto contrasto fino ai tempi recenti. Un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, ha dominato incontrastato accompagnando l'evolversi di quei fenomeni criminali anche quando avevano assunto fama internazionale e la parola mafia era diventato il termine per antonomasia in tutto il globo per indicare la criminalità organizzata. Un lunghissimo silenzio durato per più di un secolo, un tempo enorme, incredibile, insopportabile. Se degli assassini hanno creduto in Dio, se si sono sentiti dei buoni cristiani pur ammazzando, se non li ha sfiorati minimamente la inconciliabilità tra il macchiarsi le mani di sangue e sentirsi parte della grande famiglia cattolica, ciò di per sé dovrebbe essere motivo di preoccupata riflessione. Nel passato ci si è limitati a bollare la religiosità dei mafiosi come una forma evidente di superstizione, quando non si poteva fare a meno di commentare episodi palesi della loro religiosità. Ma se queste testimonianze di fede dei mafiosi andavano etichettate come superstizione, allora si sarebbe dovuta dichiarare superstiziosa gran parte della popolazione cattolica. I mafiosi, infatti, non fanno altro che manifestare la loro religiosità nelle forme in cui normalmente si è manifestata nei secoli la fede cattolica nel Sud d'Italia. Il messaggio della Chiesa si è dimostrato capace di coesistere senza conflitti con l'appartenenza mafiosa. Se i mafiosi si sono sentiti dei buoni cristiani, è perché hanno respirato e introiettato "una religione che non infonde virtù". Ciò vuol dire che nel Mezzogiorno d'Italia, nelle regioni infestate dal fenomeno mafioso, il cattolicesimo non è stato del tutto "religione della virtù", come voleva Lorenzo Valla. Don Pino Puglisi fu assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993 Le cose sono cambiate, appunto, nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, ma lentamente e senza coinvolgere pienamente gli esponenti delle chiese locali. Il silenzio fu squarciato dalle omelie del cardinale Pappalardo nel 1982 in occasione di alcuni delitti eccellenti. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra contro la camorra, poi Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. In seguito, gli omicidi di don Pino Puglisi a Palermo e di don Peppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alle basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, hanno spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al richiamato documento citato della Conferenza episcopale italiana nel 2010. E questo atteggiamento nuovo (anche se minoritario) si è manifestato solo dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine della Dc, cioè dell'unità politica dei cattolici. Si può dire che è stata la fine della contrapposizione tra comunismo sovietico e mondo occidentale a consentire alla Chiesa di lottare le mafie senza sembrare filocomunista (visto che i comunisti all'epoca erano gli unici a farlo), ed è stata la fine della Dc a consentire alla chiesa di lottare le mafie senza l'imbarazzo di dover ammettere che a coprirle erano gli esponenti di un partito che si professava cristiano. Il nesso tra partito cattolico e mafie è stato fattore di imbarazzo per la Chiesa, e spesso ha stimolato una posizione negazionista del fenomeno mafioso, di giustificazionismo e spesso di aperto sostegno per timore che i comunisti potessero prendere il potere in Italia.  In un suo libro, l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha ricordato in un suo libro di memorie che fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967, a mettere in guardia la Dc: "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì, disse. E con quelli lì intendeva i mafiosi". Per una gran parte della Chiesa dell'epoca i mafiosi erano considerati un "male minore" rispetto al pericolo comunista. Ci sono sicuramente spiegazioni "funzionali" sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una "normale" attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Stessa cosa per i mafiosi. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la "ratio" delle azioni mafiose e criminali e che è pronto al perdono per tutto quello che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. Anche chi non crede riconosce alle religioni (a tutte le religioni) un presidio morale contro il male. Tutte le religioni tentano, ciascuna a proprio modo, di contenere il male che si sprigiona dall'uomo. Ancora di più ciò viene riconosciuto alla religione di Cristo. Ma se degli assassini non provano neanche rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in un auto-assolvimento di assassini. È chiaro che i mafiosi non vogliono essere avvertiti come delinquenti dalla società che li circonda, dalle comunità in cui operano. Perciò si appoggiano alla Chiesa: come si fa a ritenerli delinquenti se la loro presenza è accettata dalle gerarchie cattoliche, se ad essi sono riservate le cerimonie più fastose, se li si sceglie come organizzatori delle feste religiose, se si consente loro di portare sulle spalle i santi, se sono tra i principali benefattori nelle attività caritative? È dunque sul concetto di pentimento e di perdono che deve soffermarsi l'analisi a proposito del rapporto mafie-Chiesa. Nella dottrina cattolica, la violazione di alcuni comandamenti che hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare) non rende necessario riparare con atti concreti l'ingiustizia commessa e il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti. L'ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l'autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento di questa traslazione di colpa è il sacramento della confessione e il sacerdote ne è il tramite. La colpa, dunque, non è mai verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma è innanzitutto colpa verso Dio, peccato contro il Signore. La confessione serve a ripristinare il rapporto di fiducia con Dio che il peccato aveva compromesso. Deve essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone in carne e ossa oggetto del male. Colui che ha subìto le conseguenze del peccato resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e della espiazione. Così concepita la confessione si trasforma in una "deresponsabilizzazione etica" che salta in blocco la dimensione pubblica e sociale del peccatore. Alla Chiesa è sufficiente il pentimento interiore, non quello rivolto all'oggetto del proprio atto peccaminoso o verso la collettività offesa. Insomma tutto si regge sul principio che bisogna riparare nei confronti della Chiesa (rappresentante in terra di Dio) ma non nei confronti della vittima. Questa si chiama "etica dell'intenzione" che si basa su questo assunto: se tu, peccatore, modifichi la tua interiorità che ti ha portato al peccato mediante il pentimento, ciò è sufficiente a farti rientrare tra coloro che possono riavere l'amore di Dio. Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione. Sembra che la dottrina cattolica consideri più appagante il recupero di ogni singolo peccatore piuttosto che mettere in moto la reciprocità tra offeso e offendente. In questa ottica si considera secondario il giudizio terreno sulle colpe commesse e il sottoporsi all'autorità dello Stato. Non si fa nessuna distinzione tra peccati con conseguenze sociali e peccati senza conseguenze per gli altri. La Chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c'è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare per il recupero del danno arrecato socialmente e collettivamente sopportato. Padre Nino Fasullo l'ha definita "privatizzazione della salvezza". È a questa concezione che si rifanno i mafiosi, a questa idea del rapporto con Dio che si rapportano, e hanno trovato nei preti e nella Chiesa un autorevole avallo. E che il problema riguardi anche lo strumento della confessione ne era consapevole il cardinale Carlo Maria Martini. In un confronto con Eugenio Scalfari, il porporato propose un concilio specifico sul tema della confessione, o come lui si esprime "sul percorso penitenziale della propria vita". "Vede", risponde a Scalfari: "la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale". La teologia morale cattolica, alle prese con l'impatto che le mafie hanno avuto con la società, ha mostrato tutti i suoi ritardi e tutte le sue incongruenze; o meglio, la lotta alle mafie fa venire allo scoperto lo scarto esistente tra teologia morale e spirito civico. La facilità del perdono è un punto irrinunciabile dell'identità della Chiesa cattolica, anche quando tale facilità ha confermato nei propri convincimenti assassini seriali come i mafiosi facendoli sentire non estranei al messaggio cristiano. Se questa analisi ha qualche fondamento, forse il passo successivo, dopo la scomunica, è mettere mano un adeguamento dottrinale. Partendo da questa semplice constatazione: i mafiosi che non si intendono di teologia morale, hanno avvertito i precetti della Chiesa come una forma di involontaria accondiscendenza verso il loro modello valoriale. Manca il peccato civico, inteso come mancanza contro lo Stato, contro la comunità, contro i beni comuni, così come aveva suggerito di introdurre qualche anno fa Alberto Monticone, l'ex presidente dell'Azione cattolica. Insomma, è ancora lunga la strada per la elaborazione e l'attuazione di una vera e propria teologia della liberazione delle mafie da parte del mondo cattolico nel suo insieme, ma la via è intrapresa, anche se a livello locale si continuano a manifestarsi atteggiamenti sconcertanti. Per esempio il funerale religioso del boss Vittorio Casamonica a Roma nel 2015, proprio nella città sede del Vaticano, durante il quale il prete celebrante ha sostenuto di non essersi accorto di nulla; non si era accorto, cioè, che stava celebrando i funerali di un notissimo mafioso. Eppure erano stati affissi enormi manifesti davanti alla Chiesa inneggianti al boss (ritratto con un enorme crocefisso al petto, che sormonta la basilica di S. Pietro e il Colosseo e la scritta: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il Paradiso"), un elicottero sorvolava la zona e gettava fiori sui presenti, una banda intonava la musica de Il Padrino, e la bara era stata collocata dentro un enorme cocchio trainato da un numero cospicuo di cavalli. E il parroco di una chiesa intitolata a S. Giovanni Bosco (che ha impegnato tutta la sua esistenza per l'educazione) non solo non ha avuto la forza di dire di no, ma anzi ha affermato che lo avrebbe rifatto. Eppure nella stessa chiesa fu vietata la cerimonia religiosa per Piergiorgio Welby, afflitto da sclerosi multipla e militante del Partito Radicale, deceduto grazie all'assistenza di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla lunga agonia. Ad un giornalista che ha chiesto al cardinale Camillo Ruini, all'epoca vicario del pontefice per la diocesi di Roma, se era pentito di aver negato il funerale a Welby, il porporato ha risposto: "Negare a Piergiorgio Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, che ho preso perché ritenevo contraddittoria una scelta diversa. Su questo non ho cambiato parere. Ho comunque pregato parecchio perché il Signore lo accolga nella pienezza della vita". Ciò vuol dire che il caso era stato affrontato direttamente dalla curia romana e non affidata al prete della chiesa di don Bosco. Perché non si è fatto lo stesso per Vittorio Casamonica? Al boss Casamonica il funerale religioso, al mite Welby no. La Chiesa italiana, in conclusione, non può tirarsi fuori dalle proprie responsabilità storiche per il successo dei fenomeni mafiosi. Padre Bartolomeo Sorge aveva scritto: "Mi sono sempre chiesto perché questo sia potuto accadere: il silenzio della Chiesa sulla mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo delle beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni." E mentre questo giudizio va riaffermato senza sconti, è altresì vero che senza un generale impegno della Chiesa cattolica non vedremo mai la fine delle mafie.

L'alfabeto delle mafie. D come Donne di mafie. La detenzione dell'uomo è stato il presupposto affinché la donna esercitasse un ruolo pregnante nella criminalità organizzata. Anche i sequestri dei beni hanno spinto verso l'intestazione di proprietà a membri femminili delle famiglie, e il coinvolgimento delle donne in strumenti finanziari per sfuggire all'individuazione dei beni accumulati con i delitti. Isaia Sales su La Repubblica il 26 Novembre 2021. È ampiamente noto che le donne delinquono molto meno degli uomini, in tutti i tempi, in tutte le circostanze, in tutte le società, all'interno di tutti i contesti criminali. Questa macroscopica differenza la si può notare nelle statistiche dei reati, a partire dall'assoluta predominanza dei maschi tra i condannati e tra i detenuti nelle carceri italiane.

L'alfabeto delle mafie. F come Fiction. Da "Il padrino" ai "Cento passi": quando il cinema svela il mondo della criminalità. Pellicole cult e altre meno note. Una guida ai 15 film per capire come sono cambiate nel tempo le modalità con cui l'industria cinematografica ha raccontato la criminalità organizzata. Lucio Luca su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Nel 1963, dopo aver visto un film "di mafia", Leonardo Sciascia scrisse un articolo passato alla storia: "Quando capita di assistere a un'opera del genere - fu la riflessione dello scrittore di Racalmuto - lo spettatore è portato a chiedersi non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è. E poiché la Sicilia è terribilmente di moda nel cinema, crediamo che questa domanda dello spettatore sia destinata, nei prossimi mesi, a investire tutta la realtà siciliana: che cosa la Sicilia non è?".

'Una storia chiamata Gomorra': in un documentario la serie e il suo viaggio straordinario. Dal 24 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su NOW il docufilm che racconta la genesi della serie e il suo percorso verso il successo mondiale. La Repubblica il 23 ottobre 2021. Con Genny che inizia la sua latitanza, ancora ignaro di una rivelazione che cambierà tutto per sempre, la fine della quarta stagione di Gomorra - La serie precede una resa dei conti che è ormai vicina e in vista della quale occorre voltarsi, guardare indietro e riavvolgere il nastro, prima di fare gli ultimi passi dentro la quinta stagione, al via dal 19 novembre su Sky e in streaming su NOW. Ci aiuta a farlo Una storia chiamata Gomorra - La serie, da domenica 24 ottobre per per quattro settimane alle 21.15 su Sky Atlantic e in streaming su NOW. Diretto da Marco Pianigiani, scritto da Federico Chiarini e Alessia Colombo e prodotto da Brandon Box per Cattleya in collaborazione con Sky e con Beta Film, il documentario descrive la genesi e lo sviluppo di uno dei prodotti culturali italiani di maggior successo nel mondo: Gomorra - La serie, il cult Sky Original prodotto da Cattleya in collaborazione con Beta Film.

'Gomorra 5", la sfida finale

La docu-serie riavvolge il nastro: Gomorra viene raccontata da chi l’ha creata e vissuta, dalla prima idea di Roberto Saviano agli ultimi giorni di set. La complessa fase della stesura della sceneggiatura, la sfida delle riprese in location ora iconiche ma all’inizio quasi inaccessibili, il fenomeno di costume che ha circondato la serie, il successo internazionale e l’emozione e i ricordi di chi ha partecipato. Accompagnano lo spettatore quattro narratori d’eccezione: l’ideatore Roberto Saviano, il regista a cui è stata affidata la trasposizione seriale di Gomorra nel corso delle prime stagioni Stefano Sollima, i coniugi Avitabile-Savastano, ovvero Ivana Lotito e Salvatore Esposito.

Quattro puntate da 25 minuti che analizzano la creazione di un immaginario, descritto da un libro che ha venduto più di 10 milioni di copie in tutto il mondo, delineato in immagini prima attraverso un film che ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes e poi con una serie tv con milioni di fan in tutto il mondo.

Salvatore Esposito è Genny Savastano  

Ad impreziosire la docu-serie tanti altri ospiti e addetti ai lavori, tra cui gli sceneggiatori Stefano Bises (“Per raccontare cose vere devi conoscere le cose vere. Siamo andati a Napoli tante volte, cercando di stabilire dei rapporti che ci consentissero di entrare in quei mondi”), Leonardo Fasoli (“Le esplorazioni sul territorio hanno fornito tutti i materiali narrativi, perché Scampia è un posto che contiene milioni di storie, ed è un posto un po’ di guerra”) e Maddalena Ravagli (“Una volta a Napoli un tassista mi ha detto che era salito un finlandese che non voleva andare a piazza Plebiscito ma alle Vele, perché aveva visto Gomorra”). Ci sono anche Riccardo Tozzi (fondatore e ceo di Cattleya), Nils Hartmann (senior director original productions Sky Italia) e Gina Gardini (produttrice). Non mancano gli altri registi principali della serie, Francesca Comencini e Claudio Cupellini ma anche Marco D’Amore, dall’inizio protagonista ma dalla quarta stagione anche dietro la macchina da presa. E ancora, Maria Pia Calzone (Donna Imma), Fortunato Cerlino (Don Pietro), Loris De Luna (Valerio) Cristina Donadio (Scianel), Arturo Muselli (Enzo Sangue Blu). Ognuno ha voluto portare la propria testimonianza nel racconto di un progetto che ha creato legami indissolubili, come racconta il protagonista Salvatore Esposito: “Una volta finita l’accademia è arrivata un’opportunità, partecipare a dei provini, non come attore ma come spalla, dando le battute agli attori che venivano al provino. Il progetto si chiamava Gomorra - La serie: all’inizio pensavo potesse essere una grande opportunità per migliorare. A vedere ora, dopo cinque stagioni, cos’è successo... è stato molto, ma molto di più". Una storia chiamata Gomorra - La serie offre a tutti gli appassionati tante storie che si sono sviluppate all’ombra di Gomorra nel corso degli ultimi dieci anni. Tanti aneddoti e curiosità, come quelli descritti da The Jackal nei video virali Gli effetti di Gomorra sulla gente.

«Gomorra», tra fiction e realtà: gli ex attori finiti nei guai con la giustizia. Gli interpreti del film di Matteo Garrone - ma anche della serie tv ispirata al romanzo di Roberto Saviano - che negli anni sono finiti in manette. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 17/1/2021.

1. Salvatore Russo. Salvatore Abbruzzese, soprannominato Totò per il ruolo che aveva interpretato nel film di Matteo Garrone «Gomorra» (quando aveva 13 anni), è finito in manette per spaccio. Non è l’unico attore non professionista della pellicola ispirata al best-seller di Roberto Saviano ad essere finito nei guai con la giustizia. Prima di lui, nel 2018, le forze dell’ordine avevano arrestato Salvatore Russo nell'ambito dell'operazione che ha sgominato l'organizzazione criminale che gestiva lo spaccio nel Lotto P di Scampia (noto anche come «Case dei Puffi»). Nel film del 2008 ha impersonato l’affiliato che testa il coraggio delle future vedette sparando contro il giubbotto antiproiettile che indossano.

2. Nicola Battaglia. Tra i ragazzi che affrontano la prova di coraggio per entrare nel clan organizzata dal personaggio interpretato da Salvatore Russo c’era anche Nicola Battaglia: accusato di spaccio è stato fermato nel 2012.

3. Bernardino Terracciano. In «Gomorra» Bernardino Terracciano detto Zì Bernardino (che aveva già lavorato con Garrone nel film del 2002 «L'imbalsamatore») era Peppe 'o cavallaro, un estorsore del clan dei Casalesi. È stato condannato all'ergastolo nel 2016 - sentenza poi confermata nel 2018 - accusato del duplice omicidio di Luigi e Giuseppe Caiazzo, padre e figlio, uccisi nel 1992.

4. Pjamaa Azize. Da pusher nella pellicola a pusher anche nella realtà: nel 2015 è stato arrestato a Castel Volturno Pjamaa Azize.

5. Giovanni Venosa. Arrestato nel 2008 Giovanni Venosa, nipote del boss Luigi Venosa, nel 2012 è stato condannato a 13 anni e 10 mesi di reclusione per tre tentativi di estorsione ed una estorsione aggravati dal metodo mafioso. Nel film interpretava un boss della zona Pinetamare.

6. Vincenzo Sacchettino. Tra gli attori fermati negli anni dalle forze dell’ordine c’è anche Vincenzo Sacchettino, conosciuto per aver prestato il volto a Danielino (giovanissimo meccanico protagonista della famosa scena con Marco Palvetti/Salvatore Conte «Vienete a piglia' ‘o perdono») nella serie tv «Gomorra»: è stato arrestato nel 2019 con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

·        In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.

Matteo Messina Denaro, un latitante protetto dallo Stato. Enrico Bellavia su L'Espresso il 10 novembre 2021. Chi ha permesso i 28 anni di libertà dell’ultimo stragista in circolazione. Nel libro di Marco Bova la storia dei passi falsi nelle inchieste sulla cattura. Un itinerario sui passi falsi. Le piste colpevolmente abbandonate, le mani leste che hanno sottratto prove, le coperture che hanno protetto la fuga, gli affari che governano l’intima necessità della sua libertà. Un percorso di guerra tra nemici riconoscibili e molti dalla doppia e tripla identità, annidati ovunque. Cecchini anche ai piani alti dei palazzi che contano, la politica, la magistratura, gli apparati investigativi e dei servizi, capaci di sparare a vista con precisione millimetrica per atterrare i cacciatori. Anche per questo, una preda come Matteo Messina Denaro, diventa un «latitante di Stato» come lo è nel titolo del saggio inchiesta che Marco Bova ha scritto per Ponte alle Grazie, con la prefazione di Paolo Mondani. La biografia, al limite del mitologico, della quasi trentennale latitanza dell’ultimo dei padrini stragisti dell’ala corleonese in circolazione, rimane, come è giusto, sullo sfondo in una ricerca che è densa di dettagli. Messi in fila, squadernano una sceneggiatura più sconcertante della pur prolifica produzione sul tema. Ne viene fuori un’analisi puntigliosa delle tracce cancellate che hanno allungato i giorni e gli anni della fortuna di un boss, nato nella culla dell’intreccio tra mafia e massoni. In quella provincia trapanese che coltiva il potere con la formidabile arte di dosare segreti e misteri, per conservare l’essenza di una Cosa nostra capace di adattarsi alle circostanze, pur di mantenere il proprio predominio. Grande distribuzione, turismo, energie rinnovabili, sanità, produzione vinicola, fondi pubblici, tanti e a pioggia, grandi eventi. Nulla sfugge ai mafioimprenditori protetti dal cartello che ha in Matteo e nel suo esteso clan familiare le leve che muovono tutto. Un dialogo telefonico con il sottosegretario Antonino D’Alì, discendente della genia che ebbe il padre del latitante, Francesco, come campiere, condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è un capolavoro di inventiva cinematografica. Ma è stato raccontato a verbale in procura generale nel 2015 dal vicequestore Giuseppe Linares. Perché purtroppo non è una fiction. Siamo nel gennaio del 2002, all’indomani di una retata condotta dal poliziotto che per 14 anni, da capo della Mobile, ha dato la caccia a Messina Denaro. «In quella occasione D’Alì si congratulò pacatamente dell’operazione, e mi disse testualmente “Sarebbe il caso che lei se ne andasse”, e mi disse che ero troppo esposto. Il tono era algido». Un consiglio da amico o, se preferite, un’offerta che non si può rifiutare da parte del ras forzista che aveva fatto di tutto per far saltare la poltrona di Linares, riuscendoci con il compianto prefetto Fulvio Sodano. Tra «covi caldi» e «cerchi che si stringono», le cronache riattizzano periodicamente l’attenzione su un latitante che riesce a farla franca da 28 anni, avendo contro, sulla carta, praticamente tutti: polizia, carabinieri, finanza, perfino i forestali. E, naturalmente gli 007 che fissano pure sostanziose taglie che alimentano un indotto della ricerca già di suo consistente. Mettere d’accordo tutti i cacciatori è il primo problema, per evitare sovrapposizioni. È accaduto anche che nella foga di spiare le mosse dei sodali dell’imprendibile i finanzieri abbiano sorvegliato dei poliziotti e poliziotti e carabinieri si siano trovati in contemporanea sullo stesso teatro di osservazione. Per il resto, cimici che smettono di funzionare, che i familiari di Messina Denaro rintracciano con provvidenziali bonifiche, talpe che soffiano dettagli salvifici, punteggiano interi paragrafi di questa «corsa avvelenata». Nel suo lavoro, Bova ricostruisce con l’aiuto del protagonista, morto nel maggio scorso, il carteggio epistolare intrattenuto tra Alessio, alias Matteo Messina Denaro e Svetonio, lo pseudonimo affibbiato dal latitante all’ex sindaco della sua città, Castelvetrano, il professore Antonino Vaccarino, infiltrato dai servizi con l’obiettivo della cattura ma poi inspiegabilmente bruciato. Una delle vittime incruente, almeno tante quante quelle lasciate per strada con il piombo, del sistema Messina Denaro. Capace di stritolare e annichilire gli avversari anche con l’arma della legalità, vera o presunta. Pende ancora a Caltanissetta, per dire, l’inchiesta sulla misteriosa sparizione dell’archivio delle indagini condotte per anni dal pm, poi procuratore aggiunto, Teresa Principato. Nel 2015, il suo braccio destro, Carlo Pulici finì denunciato per molestie, e subì improvvisamente l’ostracismo della procura di Palermo, guidata da Franco Lo Voi, ritrovandosi nel gorgo del désordre giudiziario che servì a sbarrare la strada alla procura di Roma di Marcello Viola, allora procuratore a Trapani. Pulici, assolto da tutto dopo 5 processi, ha dovuto pensionarsi dalla Finanza che aveva tagliato fuori dalle inchieste un altro solerte investigatore, Carmelo D’Andrea. Viola, è uscito a testa alta dall’accusa di aver ricevuto sottobanco proprio da Pulici verbali del pentito Giuseppe Tuzzolino, legati alle ricerche di Messina Denaro che era legittimo che avesse. Ma a Roma non è mai arrivato. Teresa Principato, che al suo braccio destro aveva confidato lo sconforto per le domande a cui era stata sottoposta dai colleghi, ha avuto il suo quarto d’ora di tribolazioni, fino alla migrazione alla procura nazionale antimafia. Tuzzolino è stato bollato come falso pentito senza ulteriori approfondimenti sulla pista americana che pure aveva indicato. Così come è stata abbandonata la fonte Y che aveva iniziato a fidarsi di D’Andrea. E Matteo? Si sarà fatto una compiaciuta risata. Tanto più che il sassolino nell’ingranaggio della macchina delle ricerche gli ha permesso di conoscere una infinità di interessanti retroscena venuti a galla con l’inevitabile contorno di veleni. Era già accaduto nel 2012, durante lo scontro alla procura di Palermo, guidata allora da Francesco Messineo, poi arrivato da commissario regionale proprio a Castelvetrano, sulla opportunità di procedere a un blitz ad Agrigento. A giudizio di Teresa Principato, si era bruciata in quel modo l’ennesima pista per arrivare alla cattura. Come succede, ha precisato la magistrata, quando intorno ai personaggi chiave individuati si spande l’odore delle logge. Lui, il latitante, è dappertutto e in nessun luogo. In Nord Europa e in Africa, in Turchia o a Dubai. A Castelvetrano e a Bagheria. Ad operarsi agli occhi a Barcellona, in vacanza nella Costa del Sol, in viaggio in barca per la Tunisia o per Malta, in volo su un piccolo aereo verso l’Inghilterra. Puntuale, come sempre nelle storie delle latitanze più eccellenti, è pure circolata voce che sia morto. E in tanti lo sperano. Scommettendo, che in caso di arresto aprirebbe la bocca. E per gli eccellentissimi protettori, sarebbe un inferno.

Nel regno di Messina Denaro stanno tornando gli “esiliati di mafia”. Manager, killer, rampolli. Alla testa di aziende impegnate nelle energie rinnovabili, tornati semiliberi o in circolazione dopo la diaspora corleonese. La rentrée degli scappati nel feudo del superlatitante trapanese allarma la Dia. Marco Bova su L'Espresso il 20 ottobre 2021. Le dinasty della mafia siciliana sono tornate nei territori da cui erano fuggite dopo aver perso le guerre sanguinarie scatenate da Totò Riina. Genie che si credevano scomparse riemergono nella capitale come tra masserie e centri industriali di un’isola dagli indecifrabili equilibri criminali in cui tutti cercano Matteo Messina Denaro, senza però più tracce certe della sua presenza. Gli scappati, esponenti di quelle famiglie costrette a una diaspora forzata negli anni della dittatura corleonese, si riaffacciano nelle città e nelle province. Si riprendono ruolo e posizioni costringendo tutti a interrogarsi sui nuovi assetti. La storia degli Inzerillo, negli anni Ottanta leader nel traffico degli stupefacenti, a lungo nascosti negli Stati Uniti e recentemente ricomparsi a Palermo e nelle intercettazioni degli investigatori che li hanno arrestati, non è un capitolo isolato. Il nastro che si riavvolge rivela invece una tendenza generalizzata, confermata dagli analisti della Dia nella relazione semestrale presentata al Parlamento.  Per Cosa nostra una riorganizzazione silente nella quale gioca un ruolo non secondario il ritorno in libertà di killer protagonisti della sanguinosa stagione degli anni Ottanta. Il rischio, paventato dagli analisti, è di una saldatura tra nemici di un tempo, capaci di archiviare rancori, vendette e ostracismi in nome di solide prospettive di affari. Dopotutto c’è il fondato pericolo che con le vecchie famiglie, rientrino dalla finestra anche i grossi capitali del boom economico mafioso. La corrente di risacca rimasta non ha risparmiato il feudo trapanese dell’ultimo stragista Messina Denaro. Come un sismografo, le indagini registrano l’influenza dei blitz che puntano alla sua cattura sulle gerarchie interne alle famiglie. Come a Castellammare del Golfo, culla della Cosa nostra emigrata negli Stati Uniti, in cui i colonnelli dei corleonesi sono stati sostituiti da vecchi boss come Francesco Domingo, di recente tornato in carcere. «Ho fatto una guerra per cacciare via i Saracino e metterci a loro», diceva il capomafia, ignaro di essere intercettato, confermando il proprio ruolo egemone. Ma rifuggiva, pragmaticamente, dall’idea di innalzare ulteriormente il livello dello scontro: «Non c’è più nessuno disposto a fare una cosa di questa, i tempi sono diversi». I pm della Dda di Palermo evidenziano fibrillazioni anche a Marsala, dove può capitare di incontrare per le vie del centro anche due pentiti che hanno testimoniato sulla mafia trapanese. Un ulteriore segno di quella «diversità dei tempi» che è forse la spia di un ritorno all’antico. L’ultimo caso in esame riguarda gli Ingoglia, rientrati a Partanna a trent’anni di distanza dalla faida con gli Accardo, detti Cannata, su cui, negli anni da procuratore a Marsala, indagò Paolo Borsellino. Un conflitto le cui radici si perdono nel tempo ma che per sentenza riconducono alla spartizione dei traffici di droga. Al tempo, gli Accardo erano sostenuti dal vecchio don Ciccio Messina Denaro, ma soprattutto dagli squadroni della morte capitanati dal figlio Matteo. Una faida di mafia con famiglie decimate in una guerra raccontata da alcuni testimoni di giustizia, Rita Atria e Piera Aiello, tornata d’attualità di recente con il ritrovamento dell’audio originale di Matteo Messina Denaro di un’audizione al tribunale di Marsala in uno dei processi su quegli omicidi. Il rientro degli scappati a Partanna è avvenuto quasi alla luce del sole, con la partecipazione ad una tavola rotonda online sugli ecobonus, organizzata lo scorso aprile dal sindaco, di Benedetto Roberto Ingoglia. Proprio il figlio di Filippo, detto Fifiddu, indicato dai pentiti come il boss della città, strangolato in un casolare nelle campagne di Castelvetrano e seppellito nell’Agrigentino da Matteo Messina Denaro il 19 marzo 1988, senza che si trovasse mai traccia del corpo. L’ultimo erede che negli ultimi anni ha anche patrocinato la nascita di un impianto di mini eolico a Mazara del Vallo, era fuggito dalla Valle del Belice nei primi anni Novanta, ben conscio dei rischi che correva. Al procuratore Borsellino aveva detto: «Essendo io rimasto l’unico superstite maschio della famiglia Ingoglia mi è naturale pensare di essere un obbiettivo pericolo». In quegli anni aveva preso a spostarsi tra il nord Italia e Londra mentre intorno a lui si moltiplicavano i segnali di allarme. Gli investigatori notarono che «contemporaneamente a questo inizio di attività delittuosa in Partanna anche in Inghilterra stavano succedendo dei fatti che riguardavano soggetti comunque visti in contatto, o comunque per attività commerciali sia con Ingoglia Antonino, sia con Roberto». Quest’ultimo aveva scelto di allontanarsi ancora, prima in Svizzera, quindi in Brasile, poi chissà dove. Il suo sorprendente ritorno in Sicilia lo vede alla testa, da amministratore delegato, di Energy Italy, un’azienda veronese con numerose filiali che si occupa di energie alternative e opera da general contractor per l’accesso alle agevolazioni per le rinnovabili. Un’azienda attiva dal 2012, le cui origini riportano a un’altra società aperta in Croazia, e sin da allora presente a Partanna anche patrocinando concorsi scolastici a premi. Nella sua rentrée di aprile, Roberto Ingoglia ha ringraziato sindaco e assessori del Comune per averci «messo la faccia direttamente, affinché le persone possano essere tranquille e affidarci i loro lavori». Un riconoscimento della necessaria copertura politica sulle attività di un imprenditore pulito nonostante il cognome ingombrante. Che miete successi, a giudicare dagli investimenti in piccoli impianti di fotovoltaico dinamico e dai numerosi teloni, con su scritto il nome dell’azienda, che campeggiano per le vie cittadine. Uno di questi si trova nella piazza centrale di Partanna dove il nome Ingoglia rimanda al piombo degli anni Ottanta solo a chi ha memoria lunga. «Il nostro è un gruppo limpido, composto da soci trasparenti e validi. Il fatturato che viene dagli investimenti in Sicilia sono quattro soldi rispetto alle attività che abbiamo in tutta Italia. Il mio riavvicinamento è dovuto all'evidenza che in questi anni, anche grazie al lavoro delle forze dell'ordine, qualcosa è cambiato», spiega Ingoglia all’Espresso. Il passato e il presente, però, interroga gli investigatori, interessati a decifrare la posizione assunta da Matteo Messina Denaro rispetto a queste dinamiche. Il ramo di attività è infatti quello che tradizionalmente è stato più a cuore del network del superlatitante. L’intera Valle del Belice costituisce una distesa di terreni che fanno gola alle multinazionali delle energie alternative e le compravendite da tempo sono finite al centro di indagini. Le ultime tracce finanziarie degli Ingoglia si trovano in Lussemburgo e nei rapporti economici con un imprenditore originario di Castelvetrano anche lui sfiorato dalle inchieste. Poi, più nulla. Anche a Trapani, del resto, sono tornati in auge vecchi cognomi con la riemersione economica e commerciale degli eredi di Totò Minore, il boss, ricercato fino al 1993, quando si scoprì che era stato sciolto nell’acido su ordine di Riina già 11 anni prima. Un mistero gelosamente custodito tra le pieghe di una guerra emersa con gli omicidi ma combattuta essenzialmente con le lupare bianche, silenti e capaci di confondere gli investigatori con elementi contraddittori. Come lo è il sostegno economico assicurato a Pietro Armando Bonanno, sicario della mafia di Trapani, protagonista della guerra agli Ingoglia e accusato dell’omicidio, rimasto impunito, del giudice Alberto Giacomelli. Anche lui è tornato a farsi vedere in giro. Da semilibero, del resto, prendeva l’aperitivo con il pm di Modena Claudia Ferretti. Una frequentazione costata alla magistrata il trasferimento a Firenze. Lasciata l’Emilia, Bonanno è ricomparso a Trapani. Ma solo dalle 7 alle 22.30. La notte no. Ancora dorme in carcere.

Da lasicilia.it l'11 settembre 2021. Un uomo che secondo le forze speciali olandesi sarebbe il superlatitante Matteo Messina Denaro è stato arrestato mercoledì scorso a L’Aia. Le notizie, di cui dà conto anche l’autorevole Telegraaf, il più importante quotidiano dei Paesi Bassi, sono ancora frammentarie. L’uomo che secondo la magistratura olandese è il boss di Castelvetrano è stato fermato mentre stava cenando in un ristorante, l’Het Pleidooi, dell'Aia. Il blitz è durante pochi minuti: le forze speciali hanno fatto irruzione e hanno arrestato e portato via tre uomini. Ma l’avvocato della persona arrestata, che dice di chiamarsi Mark, ha sostenuto che si tratta di un turista di Liverpool, in Olanda per vedere il Gran Premio e ha dunque spiegato che si tratta di uno scambio di persona: «Se il mio cliente è un boss mafioso siciliano, io sono il Papa» ha detto. I tre uomini seduti al tavolo sono stati portati via con gli occhi bendati. «Improvvisamente – ha detto il proprietario del locale – sono arrivate sette auto e delle persone sono entrate armi in pugno». Secondo quanto si è appreso – e secondo quanto riporta il Telegraaf che cita fonti della polizia olandese – le forze dell'ordine sono entrate in azione su richiesta delle autorità italiane.

Arrestato in Olanda Messina Denaro. Ma è scambio di persona (con giallo). Valentina Raffa il 12 Settembre 2021 su Il Giornale. Ragusa. Il super latitante Matteo Messina Denaro, sul cui capo pendono diversi ergastoli, è stato arrestato a Deen Hag, nei Paesi Bassi? Il blitz delle forze speciali olandesi avvenuto mercoledì sera in un ristorante a L'Aja, l'Het Pleidooi, non lascerebbe dubbi, ma sull'identità dell'arrestato si insinuano adesso delle perplessità. Il personale e i clienti del locale sbalorditi hanno assistito all'irruzione degli agenti dell'unità speciale della polizia nel ristorante e hanno visto portare via tre uomini che, prima di essere scortati fuori, sono stati bendati. «Improvvisamente c'erano 7 auto davanti all'azienda. Ufficiali con pistole estratte», racconta il proprietario del locale secondo quanto riportato dal quotidiano online Het Parool di Amsterdam. A quel punto la notizia si diffonde velocemente e i giornalisti locali, dopo avere consultato le loro fonti, parlano dell'arresto del secolo. Ne danno notizia anche i più autorevoli quotidiani dei Paesi Bassi. Il clamore iniziale, però, via via inizia a lasciare spazio alla possibilità di un errore di persona, anche se il giallo sull'identità dell'arrestato, che potrebbe essere la primula rossa della Mafia siciliana, latitante da trent'anni, ha tutte le carte in regola per restare in piedi. «Se il mio cliente è un boss mafioso, io sono il Papa» tuona l'avvocato Leon Van Kleef a difesa del suo assistito. Il legale tenta di dimostrare l'errore di persona alla base dell'arresto delle forze speciali su mandato internazionale puntando sul fatto che il sig. Mark L., come sostiene di chiamarsi l'arrestato, sia un turista originario di Liverpool giunto in Olanda per assistere al Gran Premio di Formula 1 a Zandvoort. L'uomo sostiene di vivere attualmente in Spagna. Ad avallo di questa dichiarazione il legale dice che il suo cliente «è stato condannato in Inghilterra negli anni '90. Quindi ci sono le sue impronte digitali». Una prova che non è affatto schiacciante, in quanto di Matteo Messina Denaro non si possiedono le impronte digitali, per cui non è possibile effettuare il confronto. Non si può escludere, dunque, che l'arrestato, al momento della condanna scontata negli anni '90 in un carcere inglese, possa anche avere fornito la sua identità di copertura, una delle tante identità che si pensa abbia assunto nel tempo il super boss che, seppure sparito dalla circolazione da un trentennio, continua a interagire con i mafiosi attraverso pizzini e mezzi anche più attuali e questo grazie a una rete capillare di fedelissimi, spesso messa in serie difficoltà da brillanti operazioni delle nostre forze dell'ordine. Il giallo olandese risulta, pertanto, assai complesso e, stando al portale Het Parool, il presunto boss arrestato è stato condotto all'EBI di Vught, il carcere più sorvegliato dei Paesi Bassi, dove sono rinchiusi criminali di spessore. L'avvocato continua a sostenere l'innocenza del suo assistito arrestato mentre cenava col figlio e un'altra persona. Dice di avere scoperto che si trattava della sua vecchia conoscenza solo quando lo ha visto, perché gli inquirenti lo avevano chiamato al telefono dicendo che Matteo Messina Denaro aveva bisogno del suo avvocato, ma a lui quel nome non diceva niente.

L’operazione fiasco in Olanda. “Prendiamo Matteo Messina Denaro!”, blitz da film in un ristorante: ma era un turista inglese. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. La soffiata direttamente dall’Italia: Matteo Messina Denaro, “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana, il più ricercato dei latitanti italiani, sarà in un ristorante con altre due persone, mercoledì 8 settembre. E quindi si imbastisce l’operazione, un blitz imponente, con armi spianate, agenti dei reparti speciali. L’irruzione però si rivela un clamoroso fiasco: a essere arrestato Mark L., turista inglese, che si trovava a l’Aja, nei Paesi Bassi, per il Gran Premio di Formula 1 (che si era tenuto il 5 settembre a Zandvoort). A imbastire l’operazione la polizia olandese e la Procura italiana di Trento. Matteo Messina Denaro, 57 anni, originario di Castelvetrano, provincia di Trapani, è sparito nel nulla nel 1993, quando esplosero le bombe della Mafia a Milano, Firenze e Roma. Le sue tracce si sono perse dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. È ricercato anche all’estero per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. Secondo alcune voci si troverebbe ancora in Sicilia, stando ad altre si sarebbe sottoposto a interventi di chirurgia ai polpastrelli e facciale per modificare sua fisionomia. Decine al mese, costanti, le segnalazioni di avvistamenti che arrivano alle forze dell’ordine. Zero, mai trovato, sembra imprendibile. Doveva essere sembrato un po’ meno imprendibile, il boss, quando alla Procura di Trento, seguendo altre indagini era saltata fuori la segnalazione di un informatore: Messina Denaro sarà al ristorante Het Pleeeidoi mercoledì 8 settembre. La Procura avverte la magistratura dell’Aja, vengono preparate le forze speciali per l’operazione, mentre non è stata informata la Procura di Palermo né la Direzione Investigativa Antimafia. Sarebbero state avvertite a cose fatte, secondo quanto riporta La Repubblica. “Abbiamo operato in maniera corretta – ha commentato al quotidiano il Procuratore Nazionale Cafiero De Raho – Se l’indagine di Trento avesse avuto profili di sovrapposizione con l’inchiesta della procura di Palermo allora sarebbe stato dovuto il coinvolgimento anche di quell’ufficio. Ma l’indagine di Trento, che non riguardava il latitante, era fondata su fatti autonomi. In nessun modo si è intaccato il lavoro dei colleghi di Palermo, perché si è operato in un contesto del tutto avulso e separato”. La frittata comunque è fatta, la storia è dominio di giornali e dei social. E si spreca l’ironia. L’operazione è stata fulminea: una decina di mezzi tra suv neri e auto, agenti dei reparti speciali vestiti di nero, con passamontagna e armi in mano, hanno fatto irruzione nel locale, spinto a terra tre persone ammanettate e bendate e trasportate vi al Nieuw Vosseveld di Vught, considerato il carcere più sicuro e inviolabile dei Paesi Bassi. L’uomo tra i tre che doveva essere Messina Denaro era invece Mark L., arrivato da Liverpool. Il suo avvocato Leo van Kleef è stato chiamato per conto del suo cliente Matteo Messina Denaro. “Ho ricevuto dal carcere una telefonata. Mi hanno detto che un erto Matteo Messina Denaro mi voleva come suo avvocato. Io non lo avevo mai sentito nominare, ho dovuto cercarlo su Google”, ha detto al giornale Het Parool. Il suo assistito era stato arrestato in Inghilterra negli anni ’90 e quindi l’avvocato ha invitato le forze dell’ordine a controllare le impronte digitali nei database britannici. “Gli accertamenti hanno dimostrato che l’arrestato non è l’italiano ricercato – il comunicato della polizia – Questa sera il pubblico ministero ha emesso un provvedimento di rilascio immediato”. Per questo genere di operazioni esiste un protocollo collaudato per le verifiche. Messina Denaro è stato avvistato recentemente allo stadio durante una partita, a passeggio a Milano e in un pub a Dublino, durante una battuta di caccia a Castelvetrano e a Camden Town a Londra. Altre segnalazioni lo vogliono in Bulgaria oppure in Guatemala, secondo altre avrebbe acquistato una flotta di pescherecci in Sicilia. Un collaboratore di Giustizia ritiene si muova tra la Sicilia e la Versilia. Resta introvabile.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

 Salvo Palazzolo per "la Repubblica" il 14 settembre 2021. È nato a Trento il blitz delle forze speciali olandesi che mercoledì scorso è scattato in un ristorante dell'Aja. Il procuratore Sandro Raimondi e la sua squadra di finanzieri della sezione di polizia giudiziaria erano sicuri di aver trovato la pista giusta per catturare l'ultimo grande latitante di Cosa nostra, il siciliano Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993. Agli olandesi era arrivata un'indicazione secca dall'Italia: la primula rossa di Cosa nostra sarà nel ristorante Het Pleidooi, insieme ad altre due persone. Blitz imponente, armi spianate, tre fermati caricati velocemente su un furgone mentre venivano bendati. Peccato che Messina Denaro non era lì: la prova del Dna sul sospettato - il signor Mark L. di Liverpool, in Olanda col figlio per assistere al Gran Premio - ha dato la certezza. E mentre l'avvocato del malcapitato (rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Vught) rilasciava dichiarazioni di fuoco alla stampa, montava un forte imbarazzo. Innanzitutto, delle autorità investigative olandesi, messe sotto accuse sul web per il blitz show finito in farsa: «Noi non c'entriamo niente con questa storia», continuano a ripetere. Imbarazzo e malumori sono arrivati anche in Italia, perché prima del blitz la procura di Trento non ha condiviso alcuna informazione con la procura di Palermo e con i reparti speciali di polizia e carabinieri che da anni portano avanti la delicata indagine sulla Primula rossa di Cosa nostra. Le segnalazioni di Messina Denaro in giro per il mondo sono ormai decine ogni mese, e c'è un protocollo sperimentato per le verifiche. Qualche giorno fa, ad esempio, la polizia di Manchester, ha dato conto di una segnalazione di Messina Denaro a Londra, in un appartamento di Camden Town. La macchina investigativa coordinata dalla procura di Palermo ci ha messo poco per risolvere il caso: la segnalazione arrivava da un mitomane conosciuto da Scotland Yard, che negli ultimi mesi ha già denunciato nel quartiere la presenza di terroristi di Al Qaeda e di un latitante della Camorra. Per la segnalazione in Olanda, invece, la complessa macchina delle investigazioni su Messina Denaro non ha saputo nulla prima del blitz di mercoledì. È stata avvertita a cose fatte, quando il latitante sembrava ormai nel sacco: è stato chiesto di fornire il Dna con cui fare il confronto con il signor Mark. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, getta acqua sul fuoco dei malumori e difende il procuratore Raimondi: «Abbiamo operato in maniera corretta. Se l'indagine di Trento avesse avuto profili di sovrapposizione con l'inchiesta della procura di Palermo allora sarebbe stato dovuto il coinvolgimento anche di quell'ufficio. Ma l'indagine di Trento, che non riguardava il latitante, era fondata su fatti autonomi. In nessun modo - ribadisce De Raho - si è intaccato il lavoro dei colleghi di Palermo, perché si è operato in un contesto del tutto avulso e separato». Insomma, per il procuratore nazionale non ci sarebbe stata alcuna invasione di campo. «E d'altro canto nessuno ha mosso contestazioni ufficiali», precisa. Dunque caso chiuso. Anche se la storia del londinese scambiato per Messina Denaro continua a impazzare sui social. Fra ironia, polemiche e le domande ancora senza risposta: com' è possibile che il pupillo di Totò Riina, il mafioso che conosce i segreti delle stragi e della trattativa fra Stato e mafia, sia diventato un fantasma? Chi lo protegge ancora?

Mafia: perquisizioni in Sicilia, si cerca Messina Denaro. (ANSA l’1 ottobre 2021) - La Polizia sta eseguendo decine di perquisizioni in Sicilia con l'obiettivo di individuare dove si nasconde il boss numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento, supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. I poliziotti stanno operando a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena (Palermo) L'immagine del volto del numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro ripreso da una telecamera di sicurezza: le ha trasmesso il Tg2 in un servizio in onda nell'edizione delle 20.30. Le immagini, afferma il servizio, sono state registrate da una telecamera in strada in provincia di Agrigento, risalgono al 2009 e sono le uniche che inquirenti e investigatori hanno dal 1993. Nelle immagini, che durano pochi secondi e risalgono al dicembre del 2009, si vede un suv blu che percorre una strada sterrata in piena campagna. A bordo ci sono due persone: l'autista e, sul sedile del passeggero, un uomo stempiato e con gli occhiali. Secondo investigatori e inquirenti, afferma il servizio, quell'uomo potrebbe essere proprio Matteo Messina Denaro. Le immagini, sostiene sempre il Tg2, sono state riprese da una telecamera di sicurezza a poche centinaia di metri dalla casa di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi e fedelissimo del numero uno di cosa nostra che in quel periodo era protetto dalle famiglie agrigentine e, forse, stava andando proprio ad un incontro con i capi mafia locali.

Mafia, caccia a Messina Denaro: venti perquisizioni in Sicilia. Salvo Palazzolo su La Repubblica l’1 ottobre 2021. Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori. La polizia sta eseguendo venti perquisizioni in Sicilia con l'obiettivo di individuare dove si nasconde il boss numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993.  Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento, supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. I poliziotti stanno operando a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena (Palermo). Sono perquisizioni che si ripetono periodicamente sul territorio per cercare di cogliere qualche segnale nella rete che continua a proteggere il superlatitante condannato per le stragi Falcone, Borsellino, per le bombe di Firenze, Roma e Milano, è latitante ormai dal giugno 1993. Al centro delle nuove verifiche, mafiosi e favoreggiatori già finiti nella rete delle indagini, ma anche insospettabili su cui adesso si concentra l'attenzione della polizia. La primula rossa di Castelvetrano non è ufficialmente il capo di Cosa nostra, ma è il padrino ormai simbolo dell'organizzazione mafiosa, negli anni Novanta era il pupillo di Salvatore Riina, il regista della stagione delle stragi.

Le perquisizioni nella rete del boss di Cosa Nostra. Operazione Matteo Messina Denaro, blitz a tappeto in Sicilia dopo il video esclusivo del superboss. Antonio Lamorte su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. A poche dalle immagini esclusive che ritrarrebbero il “fantasma” della Mafia, il “superlatitante” e “ultimo Padrino di Cosa Nostra” ancora in libertà, la Polizia di Stato sta effettuato controlli e perquisizioni in mezza Sicilia sulle tracce di Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano, scomparso nel nulla dal 1993. Le operazioni proprio a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena. Solo qualche ora prima, al TG2 andato in onda ieri sera, erano state diffuse le immagini, che potrebbero essere le ultime, del superboss ricercato. “Eccolo il fantasma”, esordiva il servizio mostrando un uomo con gli occhiali, a bordo di un Suv nella campagna di Agrigento, seduto sul sedile del passeggero. Immagini che risalivano al dicembre 2009, quando “u’siccu” era presumibilmente protetto da alcune famiglie agrigentine, e riprese nei pressi dell’abitazione di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi. Per la magistratura e la polizia si tratterebbe proprio del padrino introvabile. Fotogrammi che risalgono a oltre dieci anni fa ma che comunque sarebbero un passo avanti: le ultime immagini di Messina Denaro erano del 1993, poi solo ricostruzioni grafiche e virtuali. Il sospetto, scrivono i giornali locali in queste ore, è che comunque la “primula rossa” della mafia siciliana sia rimasto sempre nel suo territorio. Centinaia le segnalazioni lanciate negli ultimi anni. L’ultima aveva portato a un clamoroso abbaglio: in Olanda, in un ristorante all’Aja, era stato arrestato per sbaglio un turista inglese; un’operazione da film, con dispiegamento imponente di forze e agenti dei reparti speciali, che ha messo in imbarazzo la polizia olande e la Procura di Trento. L’operazione in corso è coordinata dalla polizia di Stato di Trapani, coadiuvata dal Servizio centrale operativo della Direzione centrale anticrimine si ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Perquisizioni partite da una serie di sospetti fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. Impegnati 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Questo genere di perquisizioni in realtà si ripete periodicamente sul territorio per cercare di cogliere qualche segnale nella rete considerata prossima al boss. Agli atti di questa inchiesta, come riporta La Sicilia, c’è un colloquio intercettato dagli investigatori tra l’avvocato Antonio Messina, un anziano massone radiato dall’albo per i suoi precedenti penali, mentre parla con Giuseppe Fidanzati, uno dei figli di Gaetano Fidanzati, boss dell’Acquasanta di Palermo e trafficante internazionale di stupefacenti, morto otto anni fa. “Iddu veniva a Trapani accompagnato in Mercedes da Mimmo”, sussurra Giuseppe Fidanzati. Per gli inquirenti “Iddu” sarebbe proprio il superlatitante Matteo Messina Denaro. “U’ siccu” è ricercato in tutto il mondo per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. È sparito nel nulla nel 1993, quando esplosero le bombe della Mafia a Milano, Firenze e Roma. Le sue tracce si sono perse dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Le segnalazioni si verificano continuamente: la “primula rossa” di Cosa Nostra è stata avvistata recentemente allo stadio durante una partita, a passeggio a Milano e in un pub a Dublino, durante una battuta di caccia a Castelvetrano e a Camden Town a Londra. Altre segnalazioni lo vogliono in Bulgaria oppure in Guatemala, secondo altre avrebbe acquistato una flotta di pescherecci in Sicilia. Un collaboratore di Giustizia ritiene si muova tra la Sicilia e la Versilia. Avrebbe anche modificato tramite chirurgia i suoi tratti somatici e le impronte digitali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Filmato relativo al 2009: dal 1993 è l'unica immagine (sfocata). Il video del boss Matteo Messina Denaro: “Stempiato e con gli occhiali”. Redazione su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. Dal 1993 a oggi gli investigatori avrebbero tra le mani una sola immagine, sfocata, del boss Matteo Messina Denaro. A diffonderla il Tg2 in un servizio andato in onda giovedì 30 settembre nell’edizione delle 20.30. La primula rossa della mafia siciliana, 59 anni, è considerato dalla Direzione Investigativa Antimafia ancora una “figura criminale carismatica della mafia trapanese” anche se negli ultimi anni sarebbero emersi “segnali di insofferenza” da parte dei suoi affiliati, insoddisfatti dalla gestione continua e costante della latitanza del boss. Stando al servizio trasmesso dal Tg2, una telecamera di sicurezza avrebbe ripreso per pochi secondi il volto del boss. Le immagini sono datate 2009 e sono state registrate nell’Agrigentino da una camera posta a qualche centinaio di metri dalla casa di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi e considerato uomo di fiducia di Messina Denaro. Nel video si vedono due persone a bordo di un suv in una strada di campagna. Il passeggero, stempiato e con gli occhiali, è l’uomo individuato come Messina Denaro. Messina Denaro, “u siccu”, “il magro”, letteralmente sparito nel nulla nel 1993, l’anno delle bombe a Milano, Firenze e Roma, dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano: è ricercato in campo internazionale per “associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro”. Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano (Trapani) e del relativo mandamento, nell’ultima tranche dei suoi 59 anni ha visto farsi “terra bruciata” intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. Protagonista di un numero imprecisato di esecuzioni e tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo – rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci e poi strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia – Messina Denaro secondo molti inquirenti non sarebbe il capo di Cosa nostra ma sicuramente continua a rivestire un ruolo di assoluto rilievo: la rivista “Forbes” lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi del mondo. Difficile distinguere il vero e il falso in quello che di Messina Denaro raccontano informatori e pentiti: che, beffando chi lo bracca da anni, vivrebbe in Sicilia, spostandosi di continuo; che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla ‘ndrangheta. Di volta in volta, c’è chi lo ha collocato sulle tribune del “Barbera” per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania. Ma l’unica certezza resta la sua irreperibilità dal 1993. La soffiata direttamente dall’Italia: Matteo Messina Denaro, “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana, il più ricercato dei latitanti italiani, sarà in un ristorante con altre due persone, mercoledì 8 settembre. E quindi si imbastisce l’operazione, un blitz imponente, con armi spianate, agenti dei reparti speciali. L’irruzione però si rivela un clamoroso fiasco: a essere arrestato Mark L., turista inglese, che si trovava a l’Aja, nei Paesi Bassi, per il Gran Premio di Formula 1 (che si era tenuto il 5 settembre a Zandvoort). A imbastire l’operazione la polizia olandese e la Procura italiana di Trento.

"I latitanti tornano nei loro territori": De Raho dice una cosa ovvia. Matteo Messina Denaro, la caccia diventa uno show: dal video indecifrabile al blitz mediatico. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Prima il servizio in apertura di un tg nazionale, poi i controlli a tappeto il giorno successivo con l’annuncio ai quattro venti di ben 150 poliziotti in campo per perquisizioni e controlli nei confronti di persone ritenute vicine a Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani) latitante dal 1993 e di cui, a parte il frame del video diffuso dal Tg2 (con gli investigatori che considerano improbabile la sua presenza in quell’auto), non si hanno tracce. Dodici ore di show mediatico nella speranza, tuttavia, di poter acquisire qualche piccolo indizio in più sulla rete dei fiancheggiatori di chi si fa beffe dello Stato da quasi 30 anni. Dettagli che potrebbero essere arrivati dalle possibili fibrillazioni tra i fedelissimi di Messina Denaro e quindi dalle utenze sotto intercettazione telefonica o da quelle ambientali, o che potrebbero arrivare dalle nuove attività investigative avviate in queste ore con i controlli, che consistono in venti perquisizioni, effettuati in mattinata. La speranza degli investigatori è quella di dare un’accelerata alle ricerche di “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana che secondo la Direzione Investigativa Antimafia rappresenta ancora una “figura criminale carismatica della criminalità organizzata” anche se negli ultimi anni sarebbero emersi “segnali di insofferenza” da parte dei suoi affiliati, insoddisfatti dalla gestione continua e costante della latitanza del boss. Dodici ore per provare a far sentire il fiato sul collo a Messina Denaro. Quindi prima assistiamo alla pubblicazione di un video di ben 12 anni fa (una eternità dal punto di vista investigativo) dove l’uomo “stempiato e con gli occhiali”, quasi non identificabile a causa delle immagini sgranate, potrebbe essere lui. Condizionali che vengono quasi smentiti dopo poche ore. Stando infatti a quanto filtra dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, la segnalazione (arrivata da una fonte) è stata scandagliata approfonditamente dagli investigatori senza tuttavia trovare alcuna conferma. Le immagini in questione sono state registrate nell’Agrigentino da una camera posta a qualche centinaio di metri dalla casa di Pietro Campo, boss di Santa Margherita Belice e considerato uomo di fiducia di Messina Denaro. Nel video si vedono due persone a bordo di un suv in una strada di campagna. Secondo chi indaga pare assai improbabile che uno dei maggiori ricercati al mondo circolasse in auto, in pieno giorno, davanti alla masseria di Campo, strettamente controllato proprio per la sua vicinanza a “u’ siccu”. All’alba 150 poliziotti delle Squadre Mobili di Trapani, Palermo, Agrigento e del Servizio Centrale Operativo, su disposizione della Dda palermitana, dotati (si legge nelle veline della polizia) di apparecchiature speciali e supportati dai Reparti Prevenzione Crimine di Sicilia e Calabria, coadiuvati dall’auto dagli elicotteri, hanno effettuato perquisizioni e controlli a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena. Zone dove vivrebbero decine di fiancheggiatori della primula rossa, appartenenti agli storici mandamenti mafiosi.  Si tratta di “vecchie conoscenze” degli investigatori per i loro rapporti con il latitante: tra i 20 destinatari dei decreti di perquisizione ci sono anche soggetti già condannati per associazione a delinquere di tipo mafioso. Poi arrivano le parole di Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale Antimafia, che a Radio Rai dichiara una serie di ovvietà: “I capi nella loro latitanza possono allontanarsi dai luoghi di origine ma certamente devono tornare”. Inoltre i latitanti “devono avvalersi di una rete che opera sul territorio, altrimenti non potrebbero mantenere una posizione di comando e capi storici come Matteo Messina Denaro è evidente che non abbandonerebbero mai la loro posizione”. In sostanza “u’ siccu” così come tanti suoi noti predecessori e altri capi camorra e ‘ndrangheta, si troverebbe nel suo territorio nel sud della Sicilia. “Benché non sia ufficialmente il capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro – chiosa de Raho – unitamente a Totò Riina e ad altri capi ha guidato un piano d’attacco al nostro Paese e quindi necessariamente deve essere catturato e assicurato alla giustizia anche per confermare che il mafioso non avrà mai tregua“. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Camorra, il fantasma di Antonio Bardellino: storia del boss scomparso nel nulla. Legato a Cosa Nostra siciliana e progenitore del clan dei Casalesi, ufficialmente è stato ucciso in Brasile nel 1988. Ma il corpo non è mai stato ritrovato. Gli indizi che raccontano una verità diversa. Dario del Porto su La Repubblica il 30 settembre 2021. Buzios, Stato di Rio de Janeiro, Brasile. Fine maggio del 1988, pomeriggio. Un uomo rientra a casa. E' italiano, da un pezzo fa la spola fra la provincia di Caserta, Santo Domingo e il Sudamerica. Parcheggia l'auto, apre il cancello del villino affacciato sull'oceano. All'interno lo aspetta un vecchio amico appena arrivato dall'Europa che si è fatto accompagnare da un tassista di San Paolo.

Giovanni Motisi, Attilio Cubeddu e Renato Cinquegranella. Chi sono i cinque latitanti più ricercati d’Italia: da Messina Denaro a Graziano Mesina, ai sospetti di morte. Ciro Cuozzo su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. In alto da sinistra Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi. In basso da sinistra: Renato Cinquegranella, Attilio Cubeddu e Graziano Mesina. Sono cinque i latitanti di massima pericolosità ricercati dalle forze dell’ordine italiane. Si tratta di due boss di Cosa Nostra (Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi), un camorrista (Renato Cinquegranella, Raffaele Imperiale è stato arrestato il 4 agosto 2021 a Dubai) e due responsabili di ‘gravi delitti’ (Attilio Cubeddu e Graziano Mesina), entrambi sardi che, pur non facendo parte di organizzazioni criminali di spicco, sono ricercati in quanto responsabili di delitti di particolare gravità ed efferatezza, tali da essere percepiti come soggetti socialmente pericolosi. E’ quanto emerge dall’ultimo report (17 agosto 2021) diffuso dal Ministero dell’Interno e redatto dalla direzione centrale della Criminalpol quale sintesi dell’attività svolta dal Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti (Giirl). Dal 2010 al 2020 sono stati assicurati alla giustizia 22 latitanti di massima pericolosità, di cui 17 arrestati in Italia, e 110 latitanti pericolosi, di cui 69 nel nostro paese. All’estero spiccano gli arresti nell’ultimo anno di due esponenti di spicco della ‘ndrangheta, Francesco Pelle (scovato in Portogallo lo scorso 29 marzo ed estradato in Italia a settembre) e Rocco Morabito (rintracciato in Brasile il 24 maggio), entrambi inseriti nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità ed in attesa di estradizione.Per quanto riguarda, invece, i latitanti pericolosi, l’elenco include, attualmente, 62 soggetti, di cui 18 affiliati alla ‘ndrangheta, 3 alla camorra, 4 alla criminalità pugliese, 2 a cosa nostra, 2 all’area dei sequestri di persona e 33 responsabili di ‘gravi delitti’. Ai latitanti di massima pericolosità, il sito web del Ministero dell’Interno dedica un’apposita sezione, pubblicandone le foto e una descrizione del profilo criminale. La finalità di tale iniziativa è duplice: da un lato, far conoscere i soggetti più pericolosi ricercati dallo Stato, dall’altro, stimolare lo “spirito di collaborazione” della collettività con le Forze dell’ordine nello svolgimento dell’attività di ricerca.

Matteo Messina Denaro e le leggende sulla sua latitanza

Le due ‘primule rosse‘ di Cosa Nostra figurano anche nell’elenco dei più ricercati a livello europeo. Il più popolare resta Messina Denaro, “u siccu”, “il magro”, letteralmente sparito nel nulla nel 1993, l’anno delle bombe a Milano, Firenze e Roma, dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano: è ricercato in campo internazionale per “associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro”. Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano (Trapani) e del relativo mandamento, nell’ultima tranche dei suoi 59 anni ha visto farsi “terra bruciata” intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. Protagonista di un numero imprecisato di esecuzioni e tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo – rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci e poi strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia – Messina Denaro secondo molti inquirenti non sarebbe il capo di Cosa nostra ma sicuramente continua a rivestire un ruolo di assoluto rilievo: la rivista “Forbes” lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi del mondo.

Difficile distinguere il vero e il falso in quello che di Messina Denaro raccontano informatori e pentiti: che, beffando chi lo bracca da anni, vivrebbe in Sicilia, spostandosi di continuo; che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla ‘ndrangheta. Di volta in volta, c’è chi lo ha collocato sulle tribune del “Barbera” per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania. Ma l’unica certezza resta la sua irreperibilità dal 1993.

Giovanni Motisi e il sospetto che possa essere morto

Giovanni Motisi, “u pacchiuni”, “il grasso”, 59 anni, palermitano doc, ricercato dal ’98 per omicidio, dal 2001 per associazione di tipo mafioso e dal 2002 per strage. Ha l’ergastolo da scontare, il killer di fiducia di Totò Riina, secondo un collaboratore di giustizia presente anche quando si parlò per la prima volta di ammazzare il generale Dalla Chiesa. Nel ’99, durante la perquisizione della sua villa di Palermo, spunta una fitta corrispondenza tra lui e la moglie Caterina, bigliettini recapitati da ‘postini’ fidati assieme a vestiti e regali. Ed è dello stesso anno l’ultima ‘apparizione’ certa in Sicilia di “u pacchiuni”, alla festa di compleanno della figlia: nelle foto ritrovate diversi anni dopo risaltano le pareti coperte con lenzuola bianche per non far riconoscere il posto. Da allora, più niente tanto da alimentare il sospetto – ricorrente nelle grandi latitanze – che Motisi possa essere morto. Un’altra ipotesi è che abbia cercato, e trovato, riparo in Francia: l’esattore del racket Angelo Casano ha raccontato che nel 2002 Motisi “perse” la reggenza di Pagliarelli a vantaggio di Nino Rotolo e che per un paio d’anni si nascose nell’Agrigentino, “terra” di Giuseppe Falsone. Boss arrestato nel 2010 dalla Gendarmeria francese a Marsiglia

Renato Cinquegranella e il brutale omicidio

Elemento apicale della camorra, anche di Renato Cinquegranella, 72 anni, si sono praticamente perse le tracce dal 2002. Ricercato da quasi venti anni per associazione a delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro, originariamente legato alla “Nuova Famiglia”, storici rivali della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, di lui resta negli archivi una vecchia foto sgranata in bianco e nero, calvizie incipiente, occhiali, baffi neri e sguardo fisso nell’obiettivo. Un volto come tanti, eppure il suo nome compare nelle cronache giudiziarie di due dei delitti che più hanno scosso Napoli: l’omicidio di Giacomo Frattini, alius “Bambulella”, soldato della Nco, torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio dell’82 (un delitto efferato per vendicare l’omicidio in carcere di un fedelissimo dell’allora boss di Secondigliano, Aniello La Monica. Il corpo di Bambulella fu trovato avvolto in un lenzuolo nel bagagliaio di un’auto, mentre la testa, le mani e il cuore furono trovati chiusi in due sacchetti di plastica all’interno dell’auto) e il massacro del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, ‘firmato’ nel luglio dello stesso anno dalle Brigate Rosse cui Cinquegranella diede supporto logistico. L’episodio confermò l’esistenza di un ‘patto scellerato’ tra le Br e i capi-zona della camorra del centro di Napoli. Dal dicembre 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, finora senza esito. “Fu già arrestato una volta ma approfittò di un permesso per evadere e da allora è irreperibile” ha sottolineato nel dicembre 2020 il procuratore di Napoli Giovanni Melillo.

Attilio Cubeddu e l’ipotesi che sia morto

Attilio Cubeddu, nome storico dell’Anonima sequestri sarda, nasce ad Arzana, in provincia di Nuoro, nel 1947 e dopo diversi reati commessi da giovanissimo si scopre una vocazione per i rapimenti: partecipa tra gli altri a quelli Rangoni Machiavelli, Bauer e Peruzzi, fino all’arresto del 1984 a Riccione. La condanna a 30 anni sembra l’inizio della fine, ma lui che è furbo e determinato si comporta da detenuto modello e riesce ad ottenere diversi permessi premio: da uno di questi, concessogli nel gennaio del 1997 a Badu ‘e Carros per vedere moglie e figlie, “dimentica” di rientrare. E’ da quei giorni che diventa praticamente un fantasma. Un fantasma che si materializza solo nei giorni del sequestro Soffiantini, di cui è implacabile carceriere (“il più cattivo di tutti”, secondo l’imprenditore bresciano) e che polizia e carabinieri cercano inutilmente ovunque: in Corsica, in Spagna, in Germania, in Sud America e, naturalmente, in Sardegna, dove secondo alcuni avrebbe trascorso gran parte della sua latitanza, protetto da un network di fiancheggiatori. Negli anni si è fatta strada l’ipotesi che in realtà sia morto, ucciso da un complice per una storia di soldi: ma nel dubbio, anche per lui la caccia resta aperta.

Graziano Mesina e l’ultima fuga

Altro sardo doc – di Orgosolo – è Graziano Mesina, per gli amici ‘Gratzianeddu‘, penultimo di undici figli e primatista di evasioni: ventidue, di cui 10 riuscite, alcune in modo romanzesco. Il suo ‘esordio’ criminale è precocissimo, denunciato a 14 anni per il possesso abusivo di un fucile, e il primo tentato omicidio arriva a 19 anni: ferisce a colpi di pistola, in un bar del suo paese – ma lui si dichiara estraneo – un pastore ‘rivale’ della sua famiglia guadagnandosi una condanna a 16 anni. Trasferito dal carcere di Nuoro a quello di Sassari per un altro processo, alla stazione di Macomer salta giù dal treno ma viene riacciuffato poco dopo. La fuga è solo rinviata: il 6 settembre scavalca una finestra e scende lungo un tubo dell’acqua dell’ospedale in cui era stato ricoverato e resta per tre mesi nascosto in montagna. E’ solo il primo di una lunga serie di dentro e fuori: gira le carceri di mezza Italia e da tutte o quasi in momenti diversi fugge o tenta la fuga. Nel ’92, durante il sequestro del piccolo Farouk Kassam, Gratzianeddu veste addirittura i panni del mediatore nel tentativo di trattare la liberazione. Nel 2004, ottenuta la grazia, lascia il carcere di Voghera e torna da uomo libero a Orgosolo dove si reinventa guida turistica ma meno di dieci anni dopo finisce di nuovo in manette, stavolta per droga. Il 2 luglio 2020 i carabinieri bussano alla sua porta per notificargli il verdetto con il quale la Cassazione ha respinto il suo ultimo ricorso ma non lo trovano: Mesina, a 79 anni, è di nuovo irreperibile.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Messina Denaro e gli altri super latitanti, chi sono i 6 imprendibili più ricercati d'Italia. Tra le primule rosse due camorristi, due mafiosi e due criminali dell'Anonima sequestri. Il loro identikit in un report del Viminale. La Repubblica il 17 agosto 2021. Sono sei. Pericolosi e probabilmente con i connotati completamente cambiati. Sono quelli “scomparsi nel nulla”, nonostante siano i più ricercati d’Italia. A braccarli da anni, polizia, carabinieri, antimafia, anticrimine, informatori, finanza, cani anti droga. Sui loro passi, a volte, persino gli agenti di pool internazionali. Ma nulla... Di due mafiosi, due camorristi e due criminali comuni, non c’è traccia. Volatilizzati da anni.  Chi sono?  Ce lo racconta il Viminale che ha reso pubblico il report, della direzione centrale della Polizia criminale, "Latitanti di massima pericolosità”. Si tratta di Matteo Messina Denaro, Giovanni Motisi, Renato Cinquegranella, Raffaele Imperiale, Attilio Cubeddu e Graziano Mesina.  Primule rosse inserite nella lista dei most wanted.

"U siccu", il super boss della Cupola. Senza dubbio, il più popolare, negativamente parlando, è Matteo Messina Denaro, conosciuto nel suo ambiente come "u siccu", "il magro", sparito nel nulla nel '93, quando scoppiarono le bombe a Milano, Firenze e Roma. Accusato di aver ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, Messina Denaro, di cui è riapparsa da poco la voce in un vecchio nastro processuale, si è dato alla macchia dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Lunghissima la lista dei suoi crimini: è ricercato anche all’estero per "associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro". Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, nell'ultima tranche dei suoi 57 anni ha visto farsi "terra bruciata" intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. La rivista "Forbes" lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi al mondo. Di lui si dice vivrebbe in Sicilia, beffando tutti. Ma anche che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla 'ndrangheta. Di volta in volta, c' è chi lo ha collocato sulle tribune del "Barbera" per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania.

"U pacchiuni", Il killer di Riina. Altro imprendibile (finora) è Giovanni Motisi, detto “u pacchiuni", "il grasso", 59 anni, palermitano doc, ricercato dal '98 per omicidio, dal 2001 per associazione di tipo mafioso e dal 2002 per strage. Ha l'ergastolo da scontare, il killer di fiducia di Toto' Riina, secondo un collaboratore di giustizia era presente anche quando si parlò per la prima volta di ammazzare il generale Dalla Chiesa. Nel '99, durante la perquisizione della sua villa di Palermo, spunta una fitta corrispondenza tra lui e la moglie Caterina, bigliettini recapitati da 'postini' fidati assieme a vestiti e regali. Ed è dello stesso anno l'ultima 'apparizione' certa in Sicilia di "u pacchiuni", alla festa di compleanno della figlia: nelle foto ritrovate diversi anni dopo risaltano le pareti coperte con lenzuola bianche per non far riconoscere il posto. Da allora, più niente o quasi tanto da alimentare il sospetto - ricorrente nelle grandi latitanze - che Motisi possa essere morto. Un'altra ipotesi è che abbia cercato, e trovato, riparo in Francia.

Il camorrista della Nuova famiglia. Boss della camorra, classe 1949, anche di Renato Cinquegranella si sono praticamente perse le tracce dal 2002. Ricercato per associazione a delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro, originariamente legato alla Nuova Famiglia, storica rivale della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, di lui resta negli archivi una vecchia foto sgranata in bianco e nero, calvizie incipiente, occhiali, baffi neri e sguardo fisso nell'obiettivo. Un volto come tanti, eppure il suo nome compare nelle cronache giudiziarie di due dei delitti che piu' hanno scosso Napoli: l'omicidio di Giacomo Frattini, alius "Bambulella", soldato della Nco, torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio dell'82; e il massacro del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, 'firmato' nel luglio dello stesso anno dalle Brigate Rosse. L'episodio confermò l'esistenza di un "patto scellerato" tra le Br e i capi-zona della camorra del centro di Napoli. Dal dicembre 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, finora senza esito.

Il broker della droga. Raffaele Imperiale, 46 anni, originario di Castellammare di Stabia, noto anche come "Rafael Empire", è invece ricercato per traffico internazionale di stupefacenti dal 2016 ed e' ritenuto uno dei piu' grandi broker mondiali della droga. Amante del lusso, cinque anni fa all'interno di una sua vecchia casa, in una intercapedine, vennero recuperati due van Gogh rubati in Olanda. Vittima da ragazzo di un tentativo di rapimento al quale riesce misteriosamente a sfuggire, eredita dal fratello maggiore un coffee shop ad Amsterdam e da qui inizia la sua carriera criminale, tessendo pazientemente contatti e alleanze con i narcos sudamericani e con il clan Amato-Pagano - destinato a diventare famoso come clan degli Scissionisti - che gli consentono di diventare uno dei maggiori fornitori di cocaina delle piazze di spaccio partenopee.

Il più cattivo dell'Anonima sequestri. Attilio Cubeddu, nome storico dell'Anonima sequestri sarda, nasce ad Arzana, in provincia di Nuoro, nel 1947 e dopo diversi reati commessi da giovanissimo si scopre una vocazione per i rapimenti: partecipa tra gli altri a quelli Rangoni Machiavelli, Bauer e Peruzzi, fino all'arresto del 1984 a Riccione. La condanna a 30 anni sembra l'inizio della fine, ma lui si comporta da detenuto modello e riesce ad ottenere diversi permessi premio: da uno di questi, nel gennaio del 1997 per vedere moglie e figlie, "dimentica" di rientrare. È da allora che si materializza solo nei giorni del sequestro Soffiantini, di cui è implacabile carceriere ("il più cattivo di tutti", secondo l'imprenditore bresciano) e che polizia e carabinieri cercano inutilmente ovunque: in Corsica, in Spagna, in Germania, in Sud America e, naturalmente, in Sardegna, dove secondo alcuni avrebbe trascorso gran parte della sua latitanza, protetto da un network di fiancheggiatori. Negli anni si è fatta strada l'ipotesi che in realtà sia morto, ucciso da un complice per una storia di soldi. Nel dubbio, anche per lui la caccia resta aperta.  

Le evasioni di "Gratzianeddu". Altro sardo doc - di Orgosolo - è Graziano Mesina, per gli amici "Gratzianeddu", penultimo di undici figli e primatista di evasioni: ventidue, di cui dieci riuscite, alcune in modo romanzesco. Il suo esordio criminale è precocissimo, denunciato a 14 anni per il possesso abusivo di un fucile, e il primo tentato omicidio arriva a 19 anni: ferisce a colpi di pistola, in un bar del suo paese - ma lui si dichiara estraneo - un pastore rivale della sua famiglia, guadagnandosi una condanna a 16 anni.

Trasferito dal carcere di Nuoro a quello di Sassari per un altro processo, alla stazione di Macomer salta giù dal treno ma viene riacciuffato poco dopo. La fuga è solo rinviata: il 6 settembre scavalca una finestra e scende lungo un tubo dell'acqua dell'ospedale in cui era stato ricoverato e resta per tre mesi nascosto in montagna. È solo il primo di una lunga serie di dentro e fuori: gira le carceri di mezza Italia e da tutte o quasi in momenti diversi fugge o tenta la fuga. Nel '92, durante il sequestro del piccolo Farouk Kassam, Gratzianeddu veste addirittura i panni del mediatore nel tentativo di trattare la liberazione. Nel 2004, ottenuta la grazia, lascia il carcere di Voghera e torna da uomo libero a Orgosolo dove si reiventa guida turistica ma meno di dieci anni dopo finisce di nuovo in manette, stavolta per droga. Il 2 luglio 2020 i carabinieri bussano alla sua porta per notificargli il verdetto con il quale la Cassazione ha respinto il suo ultimo ricorso ma non lo trovano: Mesina, a 79 anni, è di nuovo irreperibile

Il conto dei criminali arrestati. Dal 2010 al 2020 sono stati assicurati alla giustizia 22 latitanti di massima pericolosità (di cui 17 arrestati in Italia) e 110 latitanti pericolosi (di cui 69 in Italia). Tra i restanti, localizzati in Paesi europei ed extraeuropei, spiccano gli arresti nell'ultimo anno di due esponenti di rilievo della 'ndrangheta, Francesco Pelle e Rocco Morabito, entrambi inseriti nell'elenco dei latitanti di massima pericolosità.

Matteo Messina Denaro: ecco perché, con Riina, volle le stragi di Falcone e Borsellino. I giudici: “Sapeva della trattativa Stato-Mafia”. Depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’assise di Caltanissetta aveva condannato all’ergastolo il boss. Lirio Abbate su L'Espresso il 19 agosto 2021. Il boss Matteo Messina Denaro, “u siccu”, ha partecipato alla deliberazione e all’attuazione delle stragi di Falcone e Borsellino. Ha sostenuto la strategia terroristica mafiosa di Riina e l’attacco allo Stato, al quale i Corleonesi avevano dichiarato guerra. Ed il capomafia è stato uno snodo della trattativa Stato-mafia. Sono alcuni dei punti su cui si sviluppa la lunga motivazione della sentenza di condanna del maggiore latitante italiano, depositata il 18 agosto. La Corte d’assise di Caltanissetta aveva inflitto l’ergastolo lo scorso ottobre a Messina Denaro per le stragi del 1992, così come aveva richiesto il pm Gabriele Paci, che ha istruito il processo, e che dal 18 agosto è il nuovo procuratore di Trapani. I giudici scrivono che il latitante «condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale di Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue Istituzioni allo scopo, da un canto, di colpire i nemici storici, gli inaffidabili e i traditori di Cosa nostra, dall'altro canto, di entrare in contatto con nuovi referenti con cui trattare per giungere ad un nuovo equilibrio». E sottolineano che questo mafioso trapanese-corleonese era a conoscenza della «trattativa Stato-mafia, l'altra faccia della medaglia del piano stragista» scrive la Corte. E aggiunge su questo punto: «Furono resi edotti Matteo Messina Denaro e Graviano (“i picciotti sanno tutto”), con sicuro coinvolgimento del boss trapanese». «In definitiva, Matteo Messina Denaro fu in assoluto un membro del cerchio magico di Riina e, anche solo in tale veste (senza nulla togliere alla comunque accertata reggenza della provincia di Trapani), è uno dei protagonisti dell'attacco sfrontato che Cosa nostra intraprese contro lo Stato al fine di destabilizzarne le Istituzioni e costringerlo tramite nuovi canali referenziati a trovare un compromesso favorevole ad entrambi i fronti». Per i giudici Matteo Messina Denaro «mise fattivamente a disposizione della causa stragista le proprie energie e le sue forze militari e logistiche convogliando in senso unidirezionale tutta la nomenclatura trapanese. Man mano che il piano stragista prese corpo in parallelo Matteo Messina Denaro - in via diretta o indiretta (ovvero anche a mezzo degli uomini d'onore della provincia mafiosa da lui retta) - dimostrò tangibilmente la sua perdurante adesione e in tal guisa, ribadendo la fedeltà a Riina in quel delicato momento per la sua leadership e per l'intera Cosa nostra». La Corte ha fatto un certosino lavoro di ricostruzione dei fatti e della storia criminale dei corleonesi. È entrata nei meandri mafiosi che hanno portato alla genesi delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il movente. La deliberazione degli attentati e le singole riunioni in cui i boss ne hanno discusso. La creazione da parte di Riina della “Super cosa” che andava al di sopra della commissione di Cosa nostra.

Il piano stragista. La Corte nella motivazione sviscera i rapporti d’affari e criminali fra i corleonesi e i trapanesi. Gli interessi economici-patrimoniali di Riina nelle terre di Messina Denaro. I legami con la massoneria trapanese. E poi la figura di questo boss latitante e il suo ruolo al fianco del capo dei capi. Il protagonismo di “u siccu” nel periodo stragista, sia siciliano che nel “continente”, descrivendo «il motivo genetico dell’avversione di Cosa nostra a Borsellino» e l’attacco al patrimonio culturale e le ragioni «alla base delle sollecitazioni di Messina Denaro all’eliminazione di Borsellino». C’è in lui la consapevolezza di queste bombe. E i giudici spiegano bene, sulla base delle prove prodotte dal pm Paci, della sua responsabilità. «Sarà, si badi, in particolare il duo Messina Denaro-Graviano, a gettare la Penisola nello scompiglio appena l'anno successivo alle stragi del 1992)». Per i giudici che hanno condannato il boss all’ergastolo «Messina Denaro, seppur non ebbe alcun ruolo nella fase esecutiva delle stragi di Capaci e via D'Amelio, mise immediatamente a disposizione la propria persona e quella degli altri uomini d'onore e soggetti a lui legati trapanesi per una morsa a tenaglia dei due magistrati ovunque si trovassero contribuendo al loro stretto monitoraggio e a infuocare gli animi dei complici verso la loro morte che avvenne nella provincia di Palermo, ma che sarebbe potuto accadere anche a Roma, a Marsala o nelle diverse opzioni geografiche che per ipotesi si sarebbero potute presentare». E non mancano i giudici di ricordare le connessioni con la politica e con i politici. E i collegamenti che Messina Denaro ha cercato, e forse attuato dopo le stragi, con nuovi referenti. Il boss, che nelle scorse settimane è diventato nonno, è ricercato ufficialmente dal 1993. È sempre più ricco e potente. Tutte le persone che hanno avuto contatti con lui sono state arrestate, compresi i suoi familiari. E sequestrati i beni. Li ha resi poveri e isolati in carcere. Nonostante ciò, la sua invisibilità non lascia trasparire alcuna crepa.

Tanti soprannomi, un solo volto. Diabolik, U siccu, Alessio, Luciano, “La testa dell'acqua”, Iddu, “U Diu”, il Premier, “il noto”. Tanti soprannomi per indicare un solo nome: Matteo Messina Denaro.

Messina Denaro sette soprannomi per un mistero. Salvo Palazzolo su AMDuemila il 14 Novembre 2019. Tratto da: La Repubblica Palermo. Lo chiamavano “u siccu”, oppure Luciano, poi è diventato Alessio Adesso è “la testa dell’acqua”, Iddu, il premier o anche “il noto”. All’inizio, fra Castelvetrano e Marinella di Selinunte, era solo “u siccu”, niente più che un soprannome. Oppure, Luciano, chissà perché. Ventisei anni dopo, l’imprendibile Matteo Messina Denaro è il “premier”, questo diceva di lui Antonello Nicosia, l’assistente della deputata Occhionero arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di essere stato l’ambasciatore della primula rossa nelle carceri. Nei nomi con cui lo chiamano c’è la sua storia misteriosa. Per Totò Riina sepolto al 41 bis era semplicemente "l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa". E lo diceva in senso dispregiativo: "Questo ragazzo suo padre l’aveva affidato a me, perché era dritto, gli ho fatto scuola io... a me dispiace dirlo". E, d’un tratto, l’enfant prodige di inizio anni Novanta diventò il “signor Messina”: "Questo fa il latitante con i pali eolici per prendere soldi - sbottava il capo dei capi di Cosa nostra all’ora d’aria - ma non si interessa… ". “La testa dell’acqua” come lo chiamano i suoi fedelissimi nelle intercettazioni ha rinnegato la strategia stragista del più sanguinario dei suoi padri - Totò Riina - ed è diventato “Iddu”, come chiamavano l’altro padrino di Corleone, Bernardo Provenzano, che dopo la stagione delle bombe sembrava essere diventato un santone. “Iddu” il vecchio e anche il giovane (che nei pizzini con Binnu si firmava Alessio) conoscono il segreto della trattativa con pezzi dello Stato, sanno perché all’improvviso le bombe terminarono di scuotere l’Italia nel 1993. E Riina non riusciva a darsi pace. Nelle intercettazioni fatte nel 2013 nel carcere di Opera criticava la scelta di fare solo affari e nessun attentato, arrivando persino a dare del “carabiniere” al suo “ragazzo” di un tempo. La stessa espressione che il capo dei capi aveva utilizzato per Provenzano: "Allora qualcuno ti dice cosa fare…". A Riina è rimasto il sospetto che dietro la fine delle bombe ci sia stato un patto, con chissà quale lasciapassare. E a proposito del “ragazzo” diventato ormai il “signor Messina” diceva pure: "Io penso che se n’è andato all’estero". Chissà se era solo uno sfogo con il compagno dell’ora d’aria o sperava di essere intercettato. Magari per vendicarsi, a modo suo, di un’altra soffiata. Di sicuro, ormai da tempo, non ci sono più tracce della “testa dell’acqua”, il premier di una mafia liquida che ha scelto gli affari importanti e ha abbandonato il controllo del territorio mafioso. “U siccu” è diventato un fantasma. Un giorno qualcuno l’ha chiamato “Padre Pio”, uno strano fantasma in aria di santità, un mafioso diventato modello criminale. Ma sempre ben radicato da qualche parte, perché qualcuno di importante continua a pensare a lui. Così in un’intercettazione è rimasta impigliata un’altra espressione molto curiosa: lo chiamavano anche “il noto”, con un termine sbirresco che racconta molto del mistero Messina Denaro. "Ascolta bene - diceva al telefono l’agente dei servizi segreti Marco Lazzari all’avvocato romano Giandomenico D’Ambra - ciò che prevedevamo è stato confermato da Cristiano... ti devi allontanare da zio per un periodo, io già ci ho parlato". Lo “zio” era il boss gelese Salvatore Rinzivillo. L’avvocato chiedeva: "Allontanarmi radicalmente?". Lo 007 dell’Aisi spiegava: "Eh sporadicamente, io già ci ho parlato, già gliel’ho detto che ti avvertivo... non è nulla di particolare, è solo un’attenzione... capito per il noto che stanno cercando giù, si so n’cafoniti, perché... poi ti spiego a voce, tanto ci vediamo... dagli anni 80 fino ad adesso vogliono controllare tutti capito". Il “noto che stanno cercando giù” era proprio il superlatitante Matteo Messina Denaro. E questa intercettazione del Gico della Guardia di finanza di Roma, risalente al 10 marzo 2016, ha provocato un terremoto. Come aveva fatto un agente dei servizi segreti, operativo a Roma, a sapere delle indagini siciliane sul “noto”? E chissà per quanti altri infedeli il capomafia delle stragi di Roma, Milano e Firenze è ancora il “noto”. Nei nomi con cui lo chiamano c’è davvero la sua storia. E qui in Sicilia qualcuno ha cominciarlo a maledirlo, per tutti gli arresti della procura di Palermo che stanno falcidiando la provincia di Trapani. Così Messina Denaro è diventato “questo”, o anche il “purpu”. "Ma questo che minchia fa? Un cazzo, si fa solo la minchia sua, e scrusciu non ci deve essere". C’è una frangia di fedelissimi che la pensa come Totò Riina: "Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello... purpo, svita tutti... se avete i coglioni uscite tutti fuori, sennò vi faccio saltare". Ma Matteo, u Siccu, il premier, Padre Pio e tutto il resto sembra davvero essere andato via. L’ultimo che l’ha visto è il suo amico fidato Vincenzo Sinacori, killer pure lui. Era il 1994. Tratto da: La Repubblica Palermo

Mafia e poteri occulti. Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra protetto dallo Stato-Mafia. Giorgio Bongiovanni su Antimafiaduemila il 12 - 18 Aprile 2021. Nei giorni scorsi, su Nove, è andato in onda la videoinchiesta “Matteo Messina Denaro - Il Superlatitante”, prodotta da Videa Next Station per Discovery Italia, sviluppata da Giovanni Tizian e Nello Trocchia in collaborazione con il quotidiano "Domani". Uno speciale che suona non solo come un'occasione persa, ma a tratti appare anche fuorviante sul ruolo che ancora oggi riveste il boss trapanese, ultimo stragista rimasto latitante. E lo diciamo senza nulla togliere all'impegno dei cronisti che hanno raccontato la storia. Perché se da una parte è sicuramente apprezzabile la scelta di aver dato voce ai familiari vittime delle stragi dei Georgofili e di via Palestro, accanto alle intercettazioni più recenti dei suoi sodali che parlano della sua figura, o le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, dall'altra ci sono le scelte discutibili di intervistare personaggi ambigui. Molto si è parlato del primo Matteo Messina Denaro, del giovane "killer" e "latin lover" che ama la bella vita, nonostante la latitanza. Solo qualche accenno sulle grandi connessioni con il sistema politico, imprenditoriale e massonico che, probabilmente, garantiscono la sua latitanza. Nulla su quei mandanti esterni delle stragi che hanno accompagnato Cosa nostra in quella strategia di attacco allo Stato. Per questo il prodotto finale, a nostro parere, è rimasto mediocre. E così facendo il rischio che l'opinione pubblica abbia un'idea incompleta sul latitante più famoso del mondo è altissimo. Ma è soprattutto nel dossier giornalistico "Dopodomani", pubblicato dal quotidiano, che siamo rimasti sconcertati. Perché è qui che abbiamo ravvisato grossolani errori, nella migliore delle ipotesi per disattenzione, nella peggiore per volontà "devianti" e "manipolatrici" sul ruolo che lo stesso Messina Denaro ha ancora oggi nel panorama del Sistema criminale. E ciò avviene per bocca di Giacomo Di Girolamo, autore del libro "L'Invisibile - Matteo Messina Denaro". Come? Nel momento in cui sminuisce in maniera grave l'intera storia del progetto di attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, lasciando intendere che si tratti di una bufala generata da collaboratori di giustizia che avrebbero millantato conoscenze e fatti. E lo fa in barba a quei riscontri trovati dagli stessi pm nisseni e alla convergenza nei racconti di collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dalle procure. L'inchiesta sull'attentato a Di Matteo è stata archiviata, come è scritto anche sul dossier, ma tacere quelle conclusioni dei pm in cui si mette in evidenza come la condanna a morte non sia stata mai revocata è un'omissione pesante. Un'inchiesta sempre pronta ad essere riaperta in quanto si continua a cercare il tritolo arrivato a Palermo per colpire il magistrato antimafia. Questione di ignoranza? Di pregiudizio? Di superficialità? Comunque è grave. Perché così facendo si fa esattamente il gioco di chi vuole isolare, delegittimare e uccidere quei magistrati scomodi al potere e che da anni cercano la verità su stragi e delitti. Quel gioco che piace anche a Matteo Messina Denaro che resta latitante. Del boss di Castelvetrano (figura ben più importante di un fuggitivo che "si fa solo gli affari propri"); delle protezioni su cui può contare grazie allo Stato-mafia; dell'attentato a Di Matteo e quei contorni inquietanti che riguardano il capomafia trapanese ed i suoi "amici romani" parliamo di seguito in maniera approfondita. Perché la mafia può anche aver cambiato "politica", puntando sulla sommersione, ma non è stata ancora vinta e la strategia stragista non è affatto un lontano ricordo.

Tanti soprannomi, un solo volto. Diabolik, U siccu, Alessio, Luciano, “La testa dell'acqua”, Iddu, “U Diu”, il Premier, “il noto”. Tanti soprannomi per indicare un solo nome: Matteo Messina Denaro.

Il boss di Castelvetrano è latitante dal 1993 ed i ventotto anni di fughe non gli hanno impedito di compiere omicidi, stragi, crimini efferati, né di gestire affari milionari nei settori più svariati. Su di lui sono stati scritti libri, articoli e sono state fatte trasmissioni televisive. Certo è che il suo è un "curriculum" di primissimo piano nell'organizzazione criminale siciliana. Prima accanto al padre, don “Ciccio”, Francesco Messina Denaro. Poi, alla morte di quest'ultimo, si fece largo tra i “corleonesi”, “adottato” da Riina in persona, fino a diventare protagonista dello stragismo della criminalità organizzata siciliana. Autore, secondo gli investigatori, di almeno una settantina di omicidi come mandante ed esecutore, nei primi mesi del 1992, assieme ad altri boss di Brancaccio, il giovane “Diabolik” fece parte del gruppo che doveva uccidere a Roma Giovanni Falcone, a colpi di kalashnikov, fucili e revolver. Salvatore Riina, forse “preso per la manina” da qualcuno come ha poi raccontato il pentito Salvatore Cancemi, cambiò idea all'improvviso, optando per un altro luogo ed una modalità decisamente più eclatante. E così fu “l'Attentatuni” lungo l'autostrada, all'altezza di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Anche di quell'attentato, così come per la strage di via d'Amelio, è stato ritenuto responsabile, in qualità di mandante, nel processo di primo grado tenuto davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta che lo ha condannato all'ergastolo. Una sentenza che di fatto conferma come vi sia stato un collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati nel nord Italia. L'opera sanguinaria di Messina Denaro si estende anche ad altri fatti. Sempre in quella calda estate del 1992, poco prima dell'attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti di scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina), partecipò come esecutore materiali ad uno dei delitti più crudeli di Cosa nostra: il duplice omicidio dei fidanzati Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all'autorità di Riina) ed Antonella Bonomo (incinta di tre mesi, ritenuta testimone scomoda degli affari di Cosa nostra). Nel 1993, a soli 31 anni, fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. E' l'anno delle stragi di Firenze, Milano e Roma che provocarono in tutto dieci morti (tra cui Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni) e 106 feriti a cui sono da aggiungersi i danni al patrimonio artistico. Stragi per cui è stato condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 2002. Basterebbe già questo per far comprendere il peso di Matteo Messina Denaro. Ma vi è molto di più. 

Scalata Cosa nostra. Continuando a scorrere l'elenco di fatti e misfatti è noto che nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, appena 12enne, per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell'acido. Un altro omicidio efferato per una nuova condanna all'ergastolo, stavolta in appello. Nonostante la sua longeva latitanza, come dimostrato da decine di indagini e testimonianze, non ha mai perso il controllo nella gestione del mandamento di Trapani e, in seguito agli arresti di storici boss come Bernardo Provenzano (2006) e Salvatore Lo Piccolo (2007) è divenuto indubbiamente il vero punto di riferimento per Cosa nostra. Proprio nella Provincia di Trapani, secondo le relazioni della Dia più recenti, Messina Denaro regna incontrastato senza, in apparenza, inserirsi nelle scelte criminali a livello interprovinciale e regionale. Se nel recente tentativo di ricostruzione della Cupola a Palermo non era stato interpellato, così non era stato nel 2008 (operazione Perseo) quando dispensò in maniera chiara consigli anche condizionando le scelte dell'organizzazione nel Capoluogo. Consigli che non vengono disdegnati neanche oggi, almeno stando a quanto emerso nelle carte dell’operazione antimafia "Xydi". Nell'inchiesta della Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese.

Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese. In un'intercettazione il boss Giancarlo Buggea, uomo d’onore della famiglia di Canicattì, parlava della primula rossa mentre legge un pizzino scritto a mano: "Messina Denaro. Iddu, la mamma del nipote che è di qua, è mia commare, hanno sequestrato tutti i telegrammi mandati dalla posta di Canicattì, per vedere, per capire”. Il “nipote” di cui si parla è Girolamo Bellomo, marito di Lorenza Guttadauro, figlia della sorella del superlatitante. La Dda di Palermo indica in Buggea l’uomo “in condizione di intrattenere rapporti direttamente con Matteo Messina Denaro, essendo a conoscenza della segretissima rete di comunicazione e protezione utilizzata dal capo di Cosa Nostra latitante”. In un altro incontro Buggea parlava sempre del boss di Castelvetrano. “Quelli di Trapani lo sanno dov’è?”, gli domandava l’affiliato. “Lo sanno…”, rispondeva il boss. “Con Matteo glielo dovremmo dire, ci volevano altri due che ci andavano”, diceva ancora l’interlocutore. Secondo gli inquirenti si faceva riferimento ad un affare sul quale Messina Denaro deve dare il proprio assenso. La prova che il superlatitante viene riconosciuto come un importante riferimento, non solo a Trapani, dove regna incontrastato. Ma anche fuori. Certo è che da qualche anno a questa parte il cerchio attorno al boss trapanese si è fatto sempre più stretto. 

Ricchezze infinite. Nonostante i numerosi arresti di fedelissimi, familiari e continui sequestri di beni (secondo le stime ad oggi sarebbero stati sequestrati beni per oltre 3,5 miliardi di euro, ndr), il boss trapanese continua ad essere libero e ad intrecciare importanti rapporti con soggetti di altissimo livello nell'ambito politico ed imprenditoriale e ad accumulare infinite ricchezze. Un esempio sarebbe dato dai rapporti che la sua famiglia avrebbe avuto con l'ex senatore di Forza Italia Antonino D’Alì, ex sottosegretario agli Interni dal 2001 al 2006, finito sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Attualmente è in corso a Palermo il processo in appello dopo che la Cassazione ha annullato con rinvio il precedente giudizio di assoluzione (e dichiarato prescritti i fatti precedenti al 1994). Sul piano economico sono noti gli affari del boss di Castelvetrano con Giuseppe Grigoli, re dei supermarket, prestanome e riciclatore di denaro delle cosche trapanesi. E in questi anni è emerso il suo forte interesse nel settore turistico e delle energie alternative. Le inchieste hanno portato al sequestro di beni ad imprenditori ritenuti prestanome del boss: Carmelo Patti, patron della Valtur (brand che dal 2018 ha cambiato gestione e che non ha più nulla a che fare con Carmelo Patti e con una mala gestione), e l'imprenditore dell'eolico, Vito Nicastri. Quest'ultimo è stato condannato lo scorso ottobre dal Gup di Palermo a 9 anni di reclusione, in abbreviato, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma indagini più recenti come "Eden 3", che portò a novembre dello scorso anno a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara e Milano, hanno svelato l'esistenza di legami ed interessi anche nel campo del traffico di droga. Tra le figure coinvolte nell'indagine ci sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l’ex avvocato Antonio Messina, considerati i “vertici del sodalizio” vicino a Messina Denaro. Altro dato interessante, che emergeva nell'inchiesta, è il contatto che alcuni personaggi siciliani hanno avuto con figure come Giuseppe Calabrò, legato alle cosche di San Luca, Vincenzo Stefanelli (indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle ‘ndrine liguri e a Calabrò, e Giovanni Morabito, secondo gli inquirenti legato “all’articolazione milanese della ’ndrina Morabito” di Africo. Un asse, quello tra Cosa nostra e 'Ndrangheta, che si conferma nel racconto di numerosi collaboratori di giustizia, non solo nel traffico di stupefacenti. Negli anni Novanta lo stesso Riina trascorse proprio in Calabria un periodo di vacanza. Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti, ammazzato il 9 agosto del 1991 a Villa San Giovanni mentre faceva rientro a Campo Calabro. La Procura di Reggio Calabria ha riaperto il fascicolo d'inchiesta scrivendo nel registro degli indagati 17 persone, tra boss e affiliati a cosche siciliane e calabresi: tra i nomi figura anche Matteo Messina Denaro ricercato dal 1993. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo da tempo sta indagando sulla partecipazione della criminalità organizzata calabrese in stragi ed omicidi eccellenti tanto che davanti alla Corte d'assise di Reggio Calabria si è celebrato un processo, denominato 'Ndrangheta stragista, che ha visto lo scorso luglio le condanne all'ergastolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati di essere i mandanti di una serie di attentati contro i carabinieri, in cui morirono anche i militari Fava e Garofalo, avvenuti tra il 1993 ed il 1994. Ma l'asse Sicilia-Calabria emerge anche nella storia recente nelle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo il quale riferì che Cosa nostra acquistò proprio dai calabresi il tritolo per eliminare un altro magistrato: Nino Di Matteo.

La lettera di Messina Denaro e l'attentato contro Di Matteo. Che ne dica il Di Girolamo di turno non si tratta solo di dicerie di qualche collaboratore di giustizia. Ma vi sono anche intercettazioni telefoniche come quelle in cui Galatolo viene registrato a colloqui con la moglie. Alla donna confida di essere stato pesantemente coinvolto nella preparazione di un attentato a un magistrato. E lo fa riferendosi, fra l’altro, alla festa dell’Immacolata dell'8 dicembre 2012, quando si era dovuto allontanare da casa per partecipare urgentemente a una delle riunioni operative. Ciò avviene prima della sua collaborazione con la giustizia. Di questo progetto stragista ci siamo occupati più volte in questi anni. Una vicenda tornata alla ribalta dopo le recenti dichiarazioni del collaboratore di giustizia Alfredo Geraci, ex mafioso di Porta nuova e uomo riservato vicino al boss Alessandro D'Ambrogio di fatto confermando alcuni dettagli già forniti da Galatolo. Entrambi parlano proprio di quel dicembre 2012 quando i boss di Palermo Alessandro D'Ambrogio (capomafia di Porta Nuova), Girolamo Biondino (capo a San Lorenzo), Vincenzo Graziano e Vito Galatolo (Acquasanta) si incontrarono segretamente dopo una riunione con altri capimafia. Un incontro per parlare di un tema preciso: l'attentato da organizzare contro il magistrato di Palermo. Una richiesta che portava una firma di peso: quella del boss Matteo Messina Denaro. Entrambi i pentiti hanno confermato che il boss trapanese avrebbe inviato delle missive in cui spiegava che Di Matteo andava fermato in quanto "si è spinto troppo oltre". Di questi elementi Vito Galatolo, da quando nel 2014 ha deciso di “togliersi un peso dalla coscienza” diventato collaboratore di giustizia, ha parlato in svariati processi. “La prima lettera me la porta Biondino (Girolamo, capomandamento di San Lorenzo e fratello del più noto Salvatore, autista storico di Totò Riina e depositario dei segreti del boss corleonese) e c'era anche Graziano e iniziava così: 'caro fratello, spero che tu stia bene' - ha raccontato il pentito durante il processo sulla trattativa Stato-Mafia - Messina Denaro voleva indicarmi come capomandamento di Resuttana e Biondino per quello di San Lorenzo. Lì si accenna all'attentato, chiedendo la disponibilità dei mandamenti ad eseguirlo, ma non si spiegano i motivi. La prima lettera scritta in corsivo e la seconda lettera in stampatello. Nella seconda invece si spiegano i motivi dell'attentato, poi la strappammo subito. Dell'attentato, mi disse Biondino, non dovevamo parlare a nessuno perché ci avrebbero ammazzato pure i bambini”. Dell'attentato a Di Matteo si parlò poi anche nella seconda lettera. “Qui si spiegò il motivo e c'era il riferimento ai processi. Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato - ha detto Galatolo - anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all'attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, “Manuzza”, Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza. Se accettavamo di fare l'attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell'esplosivo. C'erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.

A detta di Galatolo a chiedere a Messina Denaro di uccidere il magistrato sarebbero stati dei mandanti esterni, "gli stessi di Borsellino". Quel progetto di morte, forse anche grazie alle parole dell'ex boss dell'Acquasanta non è stato ancora eseguito ma, come hanno scritto i magistrati nisseni nella richiesta di archiviazione delle indagini, si tratta di un progetto di attentato "ancora in corso". Resta da capire perché una figura come Matteo Messina Denaro, attuale vertice di Cosa nostra, nel pieno della sua latitanza possa decidere di ritornare a quella strategia stragista chiedendo ai palermitani di adoperarsi. Una decisione inquietante e terribile che evoca anche la stagione dei delitti eccellenti, accantonata proprio dopo l'attacco allo Stato dei primi anni Novanta. 

Benestare Riina. Una decisione che, appena un anno dopo quelle missive, fu in qualche maniera avallata dal Capo dei capi, Totò Riina, che dal carcere "Opera" di Milano lanciava i suoi strali contro il magistrato. E' così che si realizza quella che può essere definita "convergenza di due prove autonome". Da una parte le dichiarazioni di alcuni protagonisti di quelle riunioni in cui si parlava del progetto di attentato. Dall'altra la voce di Riina dal carcere. Il boss corleonese auspicava che quel progetto di attentato fosse eseguito il prima possibile. “Io dissi che lo faccio finire peggio del giudice Falcone” diceva il boss corleonese il 16 novembre 2013 al boss pugliese Alberto Lorusso, durante l'ora d'aria. “E allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e non ne parliamo più - continuava ancora ‘U curtu - Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile ad ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo”. Quelle conversazioni, cruente e drammatiche, venivano registrate dagli inquirenti che da qualche tempo avevano messo sotto intercettazione il capomafia. Durante il passeggio Riina parlava liberamente anche degli attentati del passato come quello a Rocco Chinnici, nel 1983. In quei dialoghi di Riina vi erano segni di insofferenza nei riguardi di Messina Denaro. Al contempo, nonostante i dissensi nella gestione quotidiana di Cosa nostra, in quelle registrazioni si evince la perfetta sintonia quando si devono intraprendere strategie importanti come uccidere il magistrato, Di Matteo, che in quel momento stava conducendo con il pool di Palermo (Del Bene, Teresi, Tartaglia, ndr) delle delicatissime indagini e si apprestava ad aprire un processo, quello sulla trattativa Stato-mafia, portando alla sbarra alti vertici delle istituzioni. Una tempistica temporale che non può passare inosservata.

I segreti delle stragi e della trattativa. Tornando a guardare a Matteo Messina Denaro all'interno di Cosa nostra, è innegabile che ad oggi sia, tra le persone in stato di libertà, il personaggio con il più alto spessore in Cosa Nostra. Un boss latitante che comanda strategicamente l'organizzazione criminale in quanto detentore di segreti indicibili. Segreti che danno potere. Un collaboratore di giustizia come Nino Giuffrè ha dichiarato che a lui sono stati consegnati i documenti segreti della cassaforte di Riina. “Probabilmente una parte di questi è finita a Matteo Messina Denaro - ha riferito in diversi processi l'ex boss di Caccamo - Posso dire che si tratta di una intuizione, più che una fonte. Perché non l’ho data per sicura, l’ho data per probabile che una parte di questa, sempre dai ragionamenti che ho fatto che si agganciano alla vicinanza di Salvatore Riina a Matteo Messina Denaro, dalla statura, dallo spessore mafioso di Matteo Messina Denaro e dalle indiscrezioni, diciamo, di Provenzano stesso che asseriva sempre come Matteo Messina Denaro era uno dei soggetti più fidati e più vicini a Riina. L’ipotesi è data da un complesso di piccole cose. Che a casa di Riina c’erano dei documenti me l’ha detto Provenzano, su questo punto non ho dubbi, e d’altronde so perfettamente che Riina mandava delle lettere a Provenzano”. E' dietro a quelle carte riservatissime che si nasconde parte dell'immenso potere di cui gode l'imprendibile padrino. Al processo contro Messina Denaro per le stragi del 1992, il pentito Brusca ha riferito quanto gli fu detto dal Capo dei capi Totò Riina: “Mi ebbe a dire che, qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto. Queste cose me le dice alla fine del 1992, tra novembre e dicembre. Era il periodo in cui non avevamo più notizie e lui iniziava a preoccuparsi che poteva essere arrestato”. E sempre Brusca ha messo a verbale con i magistrati di Palermo, che Messina Denaro gli disse che Graviano incontrava l'imprenditore Silvio Berlusconi, fornendo persino dei dettagli su orologi che lo stesso avrebbe avuto. Del resto non è un mistero che nel periodo compreso fra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, Messina Denaro ha trascorso diversi momenti della latitanza proprio assieme al capomafia di Brancaccio. Ecco dunque la forza di Messina Denaro nel 2020: la conoscenza di segreti indicibili. Come il perché la strategia delle bombe venne esportata in continente con l’adozione di modalità terroristiche mai appartenute, in precedenza, a Cosa Nostra, colpendo monumenti e causando vittime innocenti, o perché quelle stragi, subito dopo il fallito attentato all'Olimpico, si siano interrotte. Non può spiegarsi tutto con il semplice arresto dei fratelli Graviano, il 27 gennaio del 1994. Messina Denaro conosce la verità nascosta dietro la strage di Pizzolungo, dalla Chiesa, Chinnici, Capaci, via d'Amelio, e di quelle in Continente (Firenze, Roma e Milano) perché è stato parte attiva di quel mondo. Tutti questi segreti costituiscono, ancora oggi, un'arma di ricatto formidabile contro quello Stato che gli dà la caccia. Cosa accadrebbe se Messina Denaro, finisse in manette? E' pensabile che, vista la giovane età ed una vita vissuta tra gli agi (sempre secondo quanto riferito dai pentiti), possa scegliere di collaborare con la giustizia? E se così fosse cosa accadrebbe? Quanti pezzi dello Stato di ieri e di oggi cadrebbero? Nelle lettere a "Svetonio", lo pseudonimo dell'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, il boss di Trapani diceva che si sarebbe ancora sentito parlare di lui. Così è stato in questi anni. Messina Denaro si è dato da fare, non solo organizzando gli attentati. Nel processo di Caltanissetta ha testimoniato anche il collaboratore di giustizia Rosario Naimo, a lungo considerato un “re del narcotraffico” (per decenni a cominciare dalla fine degli anni ’60, si occupava dal New Jersey di maxi traffici di cocaina dal Sud America verso la Sicilia). Il capo dei capi Totò Riina lo descriveva come un soggetto “più potente del presidente degli Stati Uniti”. Non a caso era stato indicato come garante del patto tra siciliani d’America e siciliani di Sicilia secondo il quale agli "scappati" (i perdenti della guerra di mafia) sarebbe stata risparmiata la vita a patto che non rimettessero piede in Italia. Ma dalla Cupola siciliana era anche riconosciuto come un riferimento per i contatti con altissimi ambienti istituzionali americani. E a lui si rivolse Messina Denaro anche per portare avanti i “piani politici” dopo l'arresto di Riina: “Messina Denaro - ha raccontato Naimo - mi dice: “Senta Saruzzo, c'ho un abbraccio da parte di Luchino (Leoluca Bagarella, ndr) che ti saluta e mi ha detto di dirti una cosa nel caso tu possa dare una mano e aiutare”. Mi spiegò che in quel momento avevano degli agganci politici e delle cose per le mani, che si poteva creare una cosa buona per tutti noi. Un partito che potrebbe fare diventare la Sicilia autonoma, e far separare la Sicilia. Disse 'abbiamo agganci ma ci vorrebbe un aiutino dell'America". Quel gancio tra Trapani e gli Stati Uniti non era affatto nuovo. Nino Giuffrè ha raccontato ai magistrati proprio come già ai tempi in cui al vertice vi era il padre di Diabolik fosse un elemento fondamentale nella composizione del Sistema criminale. La mafia trapanese, ha affermato il pentito “è quella più intatta, meno colpita dalle forze dell’ordine, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e diverse componenti che girano attorno alla mafia, per esempio la massoneria e i servizi segreti deviati. Oggi a capo di questa zona c’è il personaggio più importante di Cosa nostra: Matteo Messina Denaro. Lui è pupillo di Salvatore Riina”. Trapani, dunque è il fulcro di rapporti con l'esterno (“Posso dire serenamente che vi sono relazioni fra la mafia e i terroristi. Cosa nostra non chiude le porte a nessuno: quando gli interessi convergono, fa alleanze”). Sono questi i legami del Sistema criminale integrato che ha in Cosa nostra una componente essenziale. Nella mafia che si riorganizza i vecchi padrini restano centrali proprio per quel ruolo di protagonisti che hanno recitato negli anni delle stragi di Stato e trattative. E dagli elementi raccolti in questi anni appare evidente che figure come Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella, Salvatore Biondino, i Madonia di Palermo, a cui si affiancano gli Inzerillo, tornati in auge dopo l'esilio imposto da Riina, sono i veri punti di riferimento che comandano la mafia siciliana. 

Latitanza protetta. Ad oggi resta difficile individuare il luogo in cui il superlatitante sia nascosto. C’è chi sostiene che Messina Denaro abbia cambiato volto e voce per sfuggire alla cattura, chi dice che si trovi in Sicilia, nella sua terra, chi ritiene che si sia recato all’estero, in Sudamerica. Tra i possibili luoghi dove il boss di Castelvetrano potrebbe nascondersi non si esclude neanche la Calabria. Resta il fatto che, nonostante una taglia farsa da un milione e mezzo di euro fissata dai servizi di sicurezza, ad oggi Messina Denaro continua ad essere un ricercato e le domande aperte sono continue. Anche perché proprio parte di quei servizi di sicurezza dello Stato, a nostro giudizio, è verosimile che siano gli stessi che lo proteggono. Come è possibile? Perché? E quali sono i segreti che il padrino trapanese custodisce? Possibile che l'archivio segreto di Totò Riina, sparito dal covo di via Bernini e a lui consegnato, sia un formidabile strumento di ricatto con cui garantirsi la latitanza? Possibile che ancora oggi vi sia un "do ut des"? Si potrebbe spiegare in questo modo il motivo per cui il tentativo di eliminazione del magistrato Nino Di Matteo abbia trovato il suo input esternamente a Cosa nostra. E secondo questa chiave di lettura quell'attentato può essere letto come la moneta di scambio utile per prolungare ulteriormente la latitanza. Per questo motivo la guardia non può essere mai abbassata. Quel che appare evidente è che Messina Denaro gode di fortissima protezione. Nel gennaio 2017, il magistrato Teresa Principato, oggi alla Procura nazionale antimafia, quando era procuratore aggiunto a Palermo diede a lungo la caccia al boss trapanese, spiegò in Commissione antimafia che "Messina Denaro è protetto da una rete massonica". Di fronte a questo quadro disarmante la politica cosa fa? In questi anni di Governo di “non cambiamento” abbiamo registrato un certo immobilismo sul fronte della lotta alla mafia. Al di là dei proclami (nel programma stilato da Movimento Cinque Stelle e Pd la lotta alla mafia era relegata ad un miserabile 13esimo posto) c'è stato poco o nulla. Ed ancor più grave è ciò che è avvenuto dopo con il tradimento di Grillo che ha portato i pentastellati al governo accanto a Berlusconi. E il fatto che oggi si parli di una possibile fine per 41 bis ed ergastolo ostativo è l'ennesima prova del disastro. Matteo Messina Denaro non può che esserne felice e vincente perché Cosa nostra ottiene così ciò che ha sempre voluto. La politica non parla della ricerca della verità sulle stragi e sulla trattativa Stato-mafia, di fatto, escludendo i lavori della Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore Nicola Morra, è piombato un oscuro silenzio dal giorno della sentenza di primo grado del 20 aprile 2018. In un intervento pubblico a Milano Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm, aveva ricordato come “per andare avanti c’è bisogno di tutto e di tutti. Ci sarebbe bisogno di una politica che, non soltanto con la commissione parlamentare antimafia, ma anche con le direttive che i ministri dovrebbero dare alle forze di polizia, spinga per il completamento di quel percorso di verità. E invece quando la magistratura va avanti loro frenano piuttosto che spingere”. Un'inerzia certificata dalla lunga serie di mancati provvedimenti a cominciare dall'incremento delle stesse forze di polizia, necessarie per un'efficace ricerca di latitanti, o quelli per intervenire in materia di carcerario per impedire, nonostante le richieste che arrivano dall'Europa, l'indebolimento del 41 bis. In assenza di misure simili è possibile ipotizzare che vi sia ancora oggi, dopo il sangue versato da martiri ed innocenti, una trattativa in corso tra la politica e Cosa nostra? E' possibile che la stessa si basi su quel "quieto vivere" che trova le sue radici proprio nel patto Stato-mafia stipulato a colpi di bombe tra il '92 ed il '94? I dati raccontano di una Mafia che non è stata sconfitta e che raggiunge profitti pari a circa 150 miliardi di euro l'anno, che è in grado di investire in borsa e di ottenere ingenti capitali grazie al traffico internazionale di stupefacenti. Traffico di stupefacenti che è in mano alla 'Ndrangheta (detiene il monopolio mondiale con un giro d'affari pari a 80 miliardi di euro l'anno) e che incredibilmente entra nel calcolo del Pil, così come viene richiesto dalla stessa Ue. Anche da questo dato si può cogliere il perché, ad oggi, la lotta alla mafia non è vista come una priorità da una politica che resta colpevolmente silente. E' lo specchio di quel che sta accadendo nel nostro Paese in cui la magistratura, sconquassata da recenti scandali giudiziari che hanno coinvolto alcuni rappresentanti, dopo essersi leccata le ferite è riuscita a trovare il coraggio di processare se stessa ed avviare un profondo rinnovamento. Basta osservare le recenti azioni del Consiglio superiore della magistratura. Un organo che abbiamo criticato aspramente in passato, definendolo anche come un Sinedrio, partendo da una serie di interventi sconsiderati rivolti contro i magistrati in prima linea sin dai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi il Csm sta dimostrando di avere un nuovo spirito, cercando di abbandonare le logiche correntizie ed adottando criteri meritocratici nell'assegnazione dei ruoli direttivi, avviando pratiche a tutela nei confronti di magistrati impegnati in delicatissime inchieste, o anche aprendo procedimenti di trasferimento per altri colleghi che si sono resi protagonisti di un modus operandi quantomeno discutibile. Diversamente la politica, marcia nel suo animo, sembra essere allergica alle riforme e all'assunzione di responsabilità. E la dimostrazione è nel dibattito che ancora oggi si manifesta ogni qual volta si parla di riforma della giustizia, di prescrizione, di intercettazioni. O ancora nell'illogica scelta di non inserire la lotta alla mafia ai primi posti dell'agenda politica. In questi anni abbiamo assistito a tante promesse di cambiamento rimaste nell'etere. Abbiamo visto politici onesti, che non sono collusi, essere, loro malgrado, fagocitati o privati di qualsiasi possibilità di azione. E' la logica perversa dei patteggiamenti e delle trattative che lo Stato-mafia conduce nel 21°secolo. Matteo Messina Denaro lo sa bene e ringrazia. Finché non sarà abbattuto il Sistema criminale che infiltra lo Stato la sua latitanza è destinata a durare ancora a lungo!

La voce del boss Matteo Messina Denaro impressa su un nastro magnetico. Ansa / CorriereTv il 12 Agosto 2021. Per la prima volta il Tg1 trasmette un documento audio esclusivo con la deposizione del latitante di Cosa Nostra più ricercato in Italia. 18 marzo 1993, processo Accardo, uno dei tanti processi di mafia nel trapanese. «Senta- gli chiede la pubblico ministero- ricorda se fu sentito dalla squadra mobile di Trapani, dopo la morte di un certo Accardo Francesco da Partanna?». «Guardi- risponde il boss - io, in quel periodo, ho subito decine di interrogatori per ogni omicidio che è successo». Due mesi e mezzo dopo diventerà latitante. La cassetta, custodita nell'archivio del Tribunale di Marsala, è stata trovata grazie al lavoro dell'Associazione Antimafie Rita Atria e della testata "Le Siciliane".

Massimo Arcidiacono per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2021. Dall'archivio del Tribunale di Marsala riemerge la voce di Matteo Messina Denaro, il ricercato numero 1 di Cosa Nostra. È impressa in un audio che il Tg1 ieri sera ha mandato in onda. A ritrovarlo, come sorta di archeologi della memoria, l'Associazione Antimafie Rita Atria e la rivista bimestrale Le Siciliane , dopo una ricerca durata un anno. La registrazione risale al 18 marzo 1993 quando il boss testimoniò al processo Accardo+30 sugli omicidi di mafia a Partanna, dove Messina Denaro già spadroneggiava. Il boss si mostra arrogante, infastidito. La pm fa domande sull'omicidio Accardo, chiede se fosse già stato sentito dalla polizia, lui risponde con distacco: «Guardi, io in quel periodo ho subito decine di interrogatori per ogni omicidio che è successo». È l'ultima volta che metterà piede in un tribunale, ha già partecipato alle stragi di Capaci e via D'Amelio e due mesi dopo si darà alla latitanza. Lo straordinario documento arriva per vie traverse. «Pensavamo - spiega Nadia Furnari dell'Associazione Atria - che la storia di Rita non potesse essere dimenticata. Ci siamo messi al lavoro con l'idea di un libro in cui ricostruire il contesto in cui maturò il suicidio. Cercavamo le dichiarazioni di Rita, non Messina Denaro». Rita Atria si tolse la vita all'indomani della morte di Borsellino, a cui aveva affidato il suo percorso di ribellione, e le sue testimonianze erano proprio nel processo Accardo. «Abbiamo visionato 60 faldoni - ricostruisce Furnari -. A un certo punto tra i testi è comparso il nome del boss e ci siamo accorte che c'erano delle registrazioni». Vecchi Vhs privati del segnale video dai quali non è stato facile salvare quell'audio.  «Sentire la voce di Messina Denaro - ha detto ieri Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia - è molto importante, acquisire questo tipo di documenti permette di fare confronti». Quei materiali, però, si stanno deteriorando: «Sono in locali umidi, accatastati, servono fondi per salvarli. Lì c'è un pezzo di memoria, la storia della mafia trapanese». Di Messina Denaro e di come è diventato l'inafferrato e spietato erede di Totò Riina.

La voce del super latitante Messina Denaro nella registrazione di un’udienza. Giornale di Sicilia il 12 Agosto 2021. Con un documento audio inedito il Tg1 ha fatto sentire la voce del boss della mafia Matteo Messina Denaro. L'audio risale al 1993, poco prima della latitanza, ed è contenuto in una cassetta che è rimasta "sepolta" per anni nell’archivio del tribunale di Marsala, tornata alla luce grazie all’azione dell’associazione antimafia Rita Atria. In tribunale come testimone, a Messina Denaro viene chiesto se ricorda di essere stato interrogato dalla squadra mobile in seguito a un omicidio a Partanna, nel suo mandamento. "In quel periodo ho fatto decine di interrogatori per ogni omicidio che è accaduto", risponde il boss. In un altro passaggio, Messina Denaro ricorda un episodio: "Stiamo per salire in macchina e l’Accardo mi dice di non prenderla". Dopo aver fatto ascoltare la registrazione, il Tg1 ha intervistato Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia. "Sentire la voce di Messina Denaro è qualcosa di molto importante, tuttavia devo dire che nei suoi confronti le indagini si sviluppano da oltre un ventennio, quindi è evidente che Ros, Polizia e Scico hanno documenti anche sonori idonei a fare comparazioni", ha detto De Raho. "E' importante acquisire questo tipo di documenti per fare confronti - ha aggiunto - Le attività sono enormi, negli ultimi anni sono stati arrestati centinaia appartenenti a cosa nostra" legati al boss "e sono quasi 3 mld di euro i beni sequestrati nell’ambito di questa indagine. E’ una rete enorme che si supporta attraverso elementi appartenenti all’organizzazione e che costituisce la rete di fiducia del latitante". In merito alle speranze di catturarlo dopo quasi 30 anni di latitanza, De Raho risponde: "Già due anni fa lo avevo detto, ritenevo che potesse avvenire quell'anno. E’ certo che l'impegno che lo Stato sta investendo è enorme. Ci sono tanti filoni investigativi coordinati dal procuratore distrettuale di Palermo, quindi vi è uno sviluppo investigativo enorme e su questo tutti poniamo grande affidamento".

(ANSA il 24 luglio 2021.) L'uomo più ricercato d'Italia, latitante dal 1993, è diventato nonno. La figlia del boss mafioso Matteo Messina Denaro, Lorenza Alagna, che porta il cognome della madre Francesca e il nome della nonna paterna, il 14 luglio scorso ha partorito un bambino, avuto col suo compagno. Il bimbo non si chiama come il nonno Matteo. Lorenza ha 26 anni e da tempo ha lasciato la casa della nonna paterna a Castelvetrano, in cui viveva con la madre, scegliendo di vivere libera senza dover trascinare il peso del cognome del padre che però non ha in alcun modo ripudiato e che, secondo gli investigatori, non avrebbe mai visto. "Quanto vorrei l'affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino... " aveva scritto su Facebook Lorenza che conduce una vita come tutte le ragazze della sua età dopo il diploma al liceo scientifico e il tentativo di raggiungere la laurea. Anni fa, al Tg 2, dietro le serrande abbassate della sua abitazione aveva detto: "Non voglio rilasciare interviste, non voglio stare sotto i riflettori. Basta. Io sono una ragazza normalissima come tutte le altre. Voglio essere lasciata in pace. Dovete fare finta che io non esisto". Matteo Messina Denaro è ricercato in tutto il mondo per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. E' l'ultimo grande boss mafioso latitante che ha goduto di una fitta rete di protezione nel trapanese anche grazie all'enorme disponibilità di soldi.

Matteo Messina Denaro era in Via D’Amelio: lo dice Totò Riina. Analizzando le intercettazioni abbiamo scoperto che Riina indica Messina Denaro tra gli esecutori della strage di Via D'Amelio. Parla anche di un altro uomo che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis... Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 luglio 2021. Matteo Messina Denaro è stato condannato in primo grado dalla Corte di assise di Caltanissetta per essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Dalle intercettazioni abbiamo scoperto che Totò Riina lo indica chiaramente. Ma Il Dubbio, analizzando attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era in 41 bis, ha scoperto che il capo dei capi ha chiaramente indicato il superlatitante Messina Denaro, “quello della luce”, così lo definisce, tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio nella quale perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Era lì. Tanto che Riina gli ha dato ordine di tenersi preparato. Le intercettazioni di Totò Riina offrono nuovi spunti. Tra le sue parole c’è la chiave di volta del movente delle stragi (che non è la “trattativa” visto che la smentisce diverse volte), omicidi eccellenti commessi, ma anche di come hanno operato per compiere gli indicibili attentati.

Totò Riina parla di un altro uomo proveniente dall’Albania. La strage di Via D’Amelio è stata descritta da Riina a più riprese durante i suoi colloqui con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Parla anche di un altro uomo, tra gli esecutori, che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis. Per capire il riferimento alla partecipazione esecutiva di Matteo Messina Denaro alla strage di Via D’Amelio, bisogna contestualizzare.

Matteo Messina Denaro conosce bene i meccanismi decisionali di Cosa nostra. Il superlatitante appartiene a una generazione più giovane rispetto a boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano, secondo alcuni non avrebbe più alcun ruolo all’interno di Cosa Nostra, ma è certamente l’ultimo grande latitante della mafia siciliana. Non solo.

Conosce bene i meccanismi decisionali dell’organizzazione visto che ha partecipato alle riunioni, ha contribuito al famoso tavolino a tre gambe (mafia, imprenditori e politici) per la spartizione degli appalti pubblici e custodisce, quindi, i moventi che dettero impulso alla stagione stragista.

Il superlatitante figura centrale nel processo per gli attentati stragisti tra il ’93 e il ’94. La Procura di Caltanissetta, in particolar modo grazie al magistrato Gabriele Paci, ha avuto il merito di attenzionare la figura di Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92.

Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage e devastazione.

Designato dal capo dei capi a fare il “reggente” della provincia di Trapani. Grazie ad un’attenta rilettura degli atti giudiziari, si è potuto ricostruire il fatto che in rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92.

Messina Denaro per Riina era “quello della luce”, perché si interessava all’eolico. «Si, si, ci combattono da diversi anni con questo Gricoli (ex braccio destro economico di Messina Denaro, ndr) perché sempre … hanno detto … prestanome di … piritumpiti … piritampiti…, pali, pali e pali … pali e pali … sempre a pali vanno …, sempre pali di luce».

È Totò Riina che parla. Lo fa riferendosi a Matteo Messina Denaro, sul fatto che si sia dato allo sfruttamento della green economy. Ovvero all’energia eolica. Riina ce l’ha particolarmente con Messina Denaro per il fatto che si sia dedicato all’eolico. “I pali della luce”, li chiama. E fa una provocazione: «Io …visto che questo è cosi intelligente, così stravagante … solo … com’è che non me lo ha passato a me questo discorso di fare pali della luce? Perché io ho terreni là … ho dei terreni che sono i migliori che ci sono là … non è che gli sembra che sono terreni che non valgono niente. Lui si faceva vendere il posto del terreno, e lui sicuramente non aveva niente altro. Perché non mi faceva, non mi diceva di fare questi pali, di questi pali della corrente?».

Nelle intercettazioni Riina non nasconde la sua delusione per il suo ex pupillo. Riina, a più riprese, ritorna su Matteo Messina Denaro. Sembrerebbe proprio che non gli sia andata giù che il suo pupillo (dalle intercettazioni che non riportiamo per motivi di spazio, si evince che aveva molto puntato su di lui per rispetto del padre) abbia deciso di dedicarsi a questo business. «Stravagante quello e quello … quello dei pali della luce più stravagante ancora di lui. Però sono tutti stravaganti», qui Totò Riina indica Messina Denaro inequivocabilmente come “quello dei pali della luce”. «Ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse», dice sempre Riina in 41 bis. «No, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque. Fa luce. Fa pali per prendere soldi, per prendere soldi». Totò Riina è chiaramente infervorato con Messina Denaro, perché «si è messo a fare la luce!». Davvero una delusione per lui, che cercava invece un prosecutore della sua strategia stragista.

Il capo dei capi racconta di come ha organizzato la strage di Via D’Amelio. Ma ora veniamo al dunque. Come detto, Totò Riina a più riprese parla anche della strage di Via D’Amelio. Racconta di come è riuscito ad organizzare l’attentato in tre o quattro giorni, perché qualcuno gli disse di fare presto. Non in due giorni, ma tre o quattro giorni.

Importante il numero, perché sarebbe interessante capire cosa ha detto o fatto Borsellino qualche giorno prima, tanto da mettere in allarme quel “qualcuno” che poi ha avvisato Riina di fare presto. Forse Borsellino qualche giorno prima si è esposto in maniera plateale?

Riina ribadisce che “quello della luce” era in Via D’Amelio. Giungiamo ora al punto cruciale. Riina, ai colloqui del 6 agosto 2013, ad un certo punto dice: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Ora sappiamo, che “quello della luce” è Matteo Messina Denaro. Difficile dare altra interpretazione. Totò Riina ha detto a “quello della luce” che doveva prepararsi, sistemare, farsi ritrovare pronti e se serve, di mettere altro esplosivo in più. Si riferisce alla Fiat 126 imbottita con 100 kg di tritolo che i mafiosi hanno parcheggiato sotto l’abitazione della madre. «Però io ci combattevo, tre giorni, quattro giorni la macchina messa là, andavo a cambiare il posteggio», dice Riina. «Quando io dico che uno deve lavorare! Deve lavorare perché deve capire che se ti serve un posto vicino alla portineria, lo devi lavorare, lo devi cercare, ci devi “combattere” (perdere tempo ndr) te lo prendi, te lo prendi e te lo conservi, metti la macchina», prosegue Riina.

E spunta “quello dall’Albania” esperto di esplosivo. «Esci con una macchina e ci metti quella. E poi vai a trovarlo, vai a cercarlo, …. come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo», dice ancora Riina. A chi si riferisce? Chi è quello che venne dall’Albania? Potrebbe essere l’uomo che Spatuzza non riconobbe al garage di via Villasevaglios dove è stata imbottita la macchina? Riina aggiunge: «Ai domiciliari a Palermo, ci vuole fortuna». Chi era? C’è un proseguo, ma è omissato. Forse in quell’omissis si potrebbe trovare una risposta.

Un ricordo del giudice del primo maxiprocesso Alfonso Giordano. Questa inchiesta la dedichiamo al giudice Alfonso Giordano scomparso oggi all’età di 92 anni. È stato il presidente della Corte del primo maxiprocesso. Per la prima volta è stata processata e condannata la mafia. Un uomo coraggiosissimo, accettò l’incarico per gestire il dibattimento, dopo che ben 10 colleghi l’avevano rifiutato, e per bene. Nonostante ciò è rimasto umile fino all’ultimo.

«Messina Denaro era in via D’Amelio»: ora la procura di Caltanissetta vuole vederci chiaro. Dopo l’esclusiva de Il Dubbio sulla presenza di Messina Denaro in Via D’Amelio i magistrati nisseni hanno deciso di riascoltare le intercettazioni di Riina. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 luglio 2021. La Procura di Caltanissetta, dopo l’esclusiva de Il Dubbio sulla presenza del superlatitante Matteo Messina Denaro in Via D’Amelio, sta svolgendo alcuni accertamenti. Ricordiamo che Il Dubbio ha scartabellato attentamente tutte le intercettazioni di Totò Riina avvenute nel 2013 durante la permanenza in regime di 41 bis in carcere. Lo indica come “quello della luce”, perché si interessava del mercato e gli appalti sull’eolico.

Per Totò Riina è “quello della luce”. Durante i colloqui del 6 agosto 2013, l’ex capo dei capi afferma chiaramente: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più».

I magistrati nisseni riascolteranno il file audio originale. Una frase “spezzata”, dicono dalla procura di Caltanissetta, su cui verranno eseguiti degli accertamenti, tra cui il riascolto del file originale, anche per valutare la corrispondenza tra quanto detto, in siciliano, dal capo dei corleonesi e il testo riportato nelle trascrizioni.In ogni caso, chiariscono dalla procura, qualsiasi sia l’esito, cambierebbe poco dal punto di vista processuale, visto e considerato che il latitante Matteo Messina Denaro, lo scorso anno, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale di Caltanissetta come mandante delle Stragi del ’92 di Capaci e via D’Amelio.

E restano gli omissis su “quello che venne dall’Albania”. Ci auguriamo, però, che venga riascoltato anche il file audio originale dove Totò Riina indica anche un altro uomo che potrebbe aver preparato l’attentato insieme a Messina Denaro e gli altri già condannati, forse imbottendo di tritolo la Fiat 126: ma in quelle intercettazioni c’è un omissis proprio in quella parte. «Quello che venne solo dall’Albania…vallo a trovare un esperto come questo», ha detto Totò Riina.

Morto Antonio Vaccarino, l’uomo che voleva far catturare Messina Denaro. Antonio Vaccarino, che per 30 anni ha subito un accanimento giudiziario, era in carcere con gravi patologie in attesa di giudizio. A Catanzaro ha contratto il Covid, le innumerevoli istanze di domiciliari sono state respinte, tranne l’ultima che è arrivata troppo tardi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 maggio 2021. È morto dopo trent’anni di accanimento giudiziario, così lo definiscono i suoi avvocati, in particolar modo l’avvocata Giovanna Angelo che lo ha assistito per vent’anni. Parliamo dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, morto in ospedale dove era stato trasferito di urgenza dopo che il Covid, contratto nel centro clinico del carcere di Catanzaro, ha peggiorato il suo stato clinico già precario. E pensare che, dopo innumerevoli istanze per differimento pena, finalmente i giudici gli hanno concesso i domiciliari. Sì, ma dopo che oramai non c’era più nulla da fare.

Vaccarino aveva gravi patologie cardiache. «Nonostante tutto – spiega l’avvocata Giovanna Angelo con un animo scosso dall’accaduto -, il professor Vaccarino credeva nelle istituzioni, è sempre stato disponibile con la giustizia, ha dato tutto sé stesso per poter essere utile alla cattura del latitante Matteo Messina Denaro». Eppure, il paradosso vuole che è stato recentemente condannato in primo grado per aver addirittura favorito la latitanza del boss da poco condannato per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Per questo motivo, da oltre un anno e mezzo, all’età di 76 anni e con gravi patologie cardiache, era in carcerazione preventiva.

Nel centro clinico del carcere di Catanzaro ha contratto il Covid. Era in carcere nonostante fosse affetto da cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmia per fibrillazione atriale persistente. Come avevano scritto, nelle continue istanze, i suoi avvocati Laura Baldassarre e Giovanna Angelo, «il mancato impianto di pacemaker, consigliato dai periti, e la somministrazione del farmaco Cardior stava esponendo l’uomo ultrasettantenne a rischio blocco cardiaco e, conseguentemente, la morte». Poi è arrivato il Covid che ha infestato il carcere di Catanzaro. Ma si era detto che il centro clinico fosse al sicuro. Invece, alla fine, il terribile scherzo del destino: tra i detenuti del centro, Vaccarino è stato l’unico a subire il contagio.

Le istanze di domiciliari sono state sempre rigettate. Nella penultima istanza, gli avvocati hanno chiesto subito un trasferimento a casa, perché gli stessi medici del carcere hanno detto chiaro e tondo che non sarebbero stati in grado di assisterlo. Eppure la Corte ha rigettato e indicato il trasferimento presso un carcere adeguato. Operazione impossibile. Passano i giorni, fin quando il detenuto Vaccarino viene trasferito in ospedale a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni cliniche. Ricoverato in terapia sub intensiva, la Corte d’appello di Palermo, presieduta dalla giudice Adriana Piras, accoglie finalmente l’istanza urgente di concessione dei domiciliari presentata dai suoi difensori, rilevando che sono venute meno le esigenze cautelari. Ma a casa non ci andrà più. Troppo tardi, perché alla fine muore, da solo, sul letto di un ospedale. Parliamo dell’ennesimo arresto che ha subito nella vita. Sei anni di carcere per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento con l’aggravante mafiosa, con il coinvolgimento nella vicenda di due carabinieri. Secondo l’accusa – dalla quale scaturì il processo terminato con la sentenza di condanna emessa lo scorso 2 luglio dal Tribunale di Marsala – l’ex sindaco di Castelvetrano avrebbe rivelato a un condannato per mafia il contenuto di un’intercettazione ricevuta da un colonnello della Dia. Quest’ultimo è l tenente colonnello dei carabinieri Marco Alfio Zappalà, colui che lavorava per conto della Procura di Caltanissetta. E proprio lui, coordinato dalla procura, si era rapportato con Vaccarino proprio per avere materiali, che hanno contribuito alla condanna del superlatitante Matteo Messina Denaro.

L’accusa di favoreggiamento su intercettazioni insignificanti. C’è il giornalista Gian Joseph Morici, direttore del giornale on line La valle dei Templi, gran conoscitore delle vicissitudini giudiziarie di Vaccarino, che evidenzia come «né l’uomo al quale Vaccarino avrebbe rivelato i contenuti dell’intercettazione, né i soggetti intercettati, erano indagati, e – particolare di non poco conto – i contenuti di quell’intercettazione apparivano del tutto insignificanti ai fini delle indagini sul latitante Matteo Messina Denaro». Non si comprende, quindi, come possa essere valutata come prova di chissà quale favoreggiamento. Eppure la condanna, seppur ancora di primo grado, arriva.

Recluso a Pianosa per le accuse di un pentito rivelatosi inattendibile. Ma com’è detto, Vaccarino è stato già vittima di malagiustizia nel passato, tanto da finire recluso ingiustamente nel supercarcere di Pianosa subendo indicibili torture. Finì lì dentro per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito – tale Vincenzo Calcara – che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Vaccarino verrà assolto per l’accusa di 416 bis. Gli era rimasta quella sul traffico di droga, ma di recente è stata accolta la richiesta di revisione del processo perché l’accusa si era basata sempre sulle parole di Calcara. L’avvocata Giovanna Angelo che ha lavorato per quella revisione fin dal 2011. Alla fine è riuscita a ottenerla. Vaccarino è morto, ma molto probabilmente i familiari decideranno di proseguire. Non per giustizia, alla quale comprensibilmente non ci credono più, ma per una questione di “dignità”.

Collaborò con i Servizi per catturare Messina Denaro. Ricordiamo che Vaccarino, nei primi anni del 2000 ha collaborato con i servizi segreti capitanati da Mario Mori per la cattura di Matteo Messina Denaro. Operazione vanificata dopo una fuga di notizie. Il dramma è che per quella collaborazione, chiara e con un fine genuino, ancora oggi c’è chi la tira fuori adombrando ombre. Parliamo in realtà di una operazione d’intelligence durata dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006. In sostanza Vaccarino era riuscito a intraprendere dei contatti epistolari con il latitante. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e un’indagine – poi subito archiviata – della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro.

Una fuga di notizie fece saltare la copertura di Vaccarino. La fuga di notizie svelò tutto e la copertura di Vaccarino saltò. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera – ma questa volta minacciosa e rabbiosa – di Matteo Messina Denaro. «Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto – scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera – perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere».

Matteo Messina Denaro avrà accolto bene la sua morte. Ora che Vaccarino è morto, e la sua famiglia è distrutta dal dolore, sicuramente Matteo Messina Denaro ha accolto con gioia la sua dipartita. Era quello che sperava. Mentre l’avvocata Giovanna Angelo lo ricordo al Dubbio con un commovente messaggio: «Castelvetrano e le Istituzioni tutte abbiamo perso una persona eccezionale. Un Uomo che ha fatto dell’onestà, della correttezza e dell’amore per il prossimo il suo stile di vita. È stato il professore di tutti, il professore di quanti abbiamo avuto il privilegio di stare al suo fianco. Conosco il professore Vaccarino da oltre venti anni. È stato sempre un grande esempio per noi e ci ha lasciato un patrimonio morale immenso. Nonostante le grandi ingiustizie subite ha sempre creduto nelle Istituzioni e nella Giustizia. Mi diceva sempre “bisogna credere nella Giustizia e lottare per la Verità anche a costo della vita”. Che Dio perdoni chi si è reso responsabile di una tale ingiustizia». A proposito di giustizia c’è la quarta beatitudine del Vangelo che recita così: «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia perché saranno saziati». Da tempo il giornalista Frank Cimini, che grazie al prolungato contatto con i magistrati, ha preso in prestito questa beatitudine del Vangelo per coniare una nuova massima che, anche in questa terribile vicenda, trova fondamento: «Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato».

Anticipazione da “Oggi” il 12 maggio 2021. Il superboss Matteo Messina Denaro, potrebbe nascondersi a Dubai. Lo scrive il settimanale OGGI, che pubblica un'inchiesta sui latitanti italiani nella città degli Emirati. Alcuni espatriati italiani, uno dei quali vicino ad ambienti governativi, hanno detto che Messina Denaro un tempo conosciuto col soprannome di U Siccu, il magro, oggi all'età di 59 anni sarebbe ingrassato, quasi completamente calvo, e impossibile da riconoscere. La presenza a Dubai del capo dei capi di Cosa Nostra, secondo una delle fonti del settimanale, sarebbe risaputa anche a Roma in ambienti investigativi e politici. Il boss disporrebbe di un autentico passaporto italiano a controllo biometrico, in cui sarebbero riportate ovviamente false generalità, viaggerebbe molto, e da quando è iniziata la pandemia, nessuno più lo avrebbe visto in circolazione a Dubai. Gli altri latitanti italiani invece preferiscono non muoversi. Un trattato per l'estradizione tra Italia ed Emirati esiste dal 2018, ma le condizioni per applicarlo sono talmente complesse che finora è rimasto lettera morta, lasciando praticamente invariate le condizioni per la permanenza di personaggi come il trafficante di droga Raffaele Imperiale, il cognato di Fini Giancarlo Tulliani inseguito da ordini di cattura per riciclaggio, o il nobile milanese Alberico Cetti Serbelloni, condannato per un'evasione fiscale da un miliardo di euro.

Storie. Chi è Messina Denaro il latitante inafferrabile. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Ottobre 2019. Di covi, fughe, "pizzini", catture mancate e dichiarazioni di pentiti è costellata la sua interminabile latitanza. Matteo Messina Denaro, nato a Castelvetrano in provincia di Trapani nel 1962 è ricercato dal 1993, condannato a scontare l’ergastolo per associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro. Detto Diabolik o ‘u siccu’ per la sua costituzione fisica esile, è forse il capo indiscusso della mafia trapanese, secondo Forbes è nell’elenco dei dieci latitanti più pericolosi del mondo e sicuramente tra i più ricchi di tutta la Sicilia. Da ‘fantasma’ ha continuato a gestire gli illeciti tramite suoi fiduciari e i "pizzini" passati di mano in mano. Secondo gli inquirenti potrebbe essere l’ultimo capo di Cosa Nostra dopo la cattura e la morte di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Messina Denaro eredita da suo padre Francesco lo scettro di capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento quando morì nel 1998 mentre era in latitanza. La prima denuncia per associazione mafiosa arrivò per lui nel 1989, e nel 1992 si rese responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina. L’uomo aveva assunto la fidanzata di Messina Denaro, un’austriaca, e si fece scappare qualche commento negativo sul suo lavoro e sulla presenza di personaggi del malaffare intorno a lei. Il mafioso non lo tollerò e lo uccise. Dal ’92, Messina Denaro iniziò a far parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti di Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli. Erano quelli gli anni in cui Totò Riina, ‘il capo dei capi’, ordinava ai suoi di uccidere tutti quelli che dicevano anche una sola parola contro il sistema mafioso: showman, giudici, forze dell’ordine o persone comuni, nessuno escluso. Qualche tempo dopo Riina fece tornare il gruppo in Sicilia perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito diversamente. Messina Denaro compare, come richiesto dalla procura di Caltanissetta, tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio nel quale persero la vita il giudice Falcone e la moglie, e il collega Paolo Borsellino insieme  agli uomini delle loro scorte. Dall’anno successivo è ricercato per aver commesso quattro omicidi. Quando Riina fu arrestato nel 1993, Messina Denaro continuò nell’organizzazione di attentati dinamitardi, come quelli di Firenze, Milano e Roma, che provocarono in tutto dieci morti e 106 feriti, compresi danni al patrimonio artistico. Nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino, tra i primi pentiti a iniziare a svelare la verità sulle stragi di Capaci, a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido. Aveva solo 12 anni. Dopo la cattura di un altro illustre padrino della mafia, Bernardo Provenzano, l’attenzione degli investigatori si è concentrata su di lui. Nel nascondiglio di Provenzano infatti gli inquirenti trovarono numerosi ‘pizzini’ mandati da “Alessio”, nome con il quale si firmava Messina Denaro, nei quali si parlava degli investimenti proposti da Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, ma anche di altri affari in attività lecite, come l’apertura di una catena di supermercati nella provincia di Agrigento e la ricerca di qualche prestanome per poter aprire un distributore di benzina nella zona di Santa Ninfa, in provincia di Trapani. Secondo alcune intercettazioni in carcere di colloqui di Totò Riina, sarebbe stato proprio lui, il "capo dei capi" a crescere Matteo Messina Denaro, accusandolo tuttavia di aver abbandonato gli interessi di Cosa Nostra per pensare solo a se stesso e alla sua fuga. Per dargli la caccia lo Stato ha già investito decine di milioni, indagini che finora hanno portato a oltre cento arresti di familiari, tra cui la sorella, complici, fiancheggiatori e mafiosi vari, senza però mai sfiorarlo. Gli inquirenti avrebbero puntato a fare terra bruciata intorno a lui lasciandolo solo nella sua fuga. Secondo quanto affermato da alcuni pentiti oggi Messina Denaro sarebbe irriconoscibile perché si sarebbe sottoposto a una plastica al volto e ai polpastrelli per non essere mai identificato. Solo un esame del DNA potrebbe confermare la sua identità.

Gianmarco Oberto per leggo.it il 23 marzo 2021. Conduceva una vita lontana dalle sue origini. Via dalla Sicilia, da quella Castelvetrano dove era nato 37 anni fa e dove sarebbe stato per sempre il nipote del boss superlatitante, l’ultima primula rossa di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro, condannato per le stragi del ‘92, uccel di bosco dal ‘93, con solo una vecchia foto sbiadita che gli investigatori della Dda si rigirano tra le mani da quasi 30 anni. Gaspare Allegra si era laureato in legge e si era trasferito al Nord, ad Albairate, alle porte di Milano. E faceva l’avvocato. È morto domenica, durante un’escursione in montagna nel Lecchese. La tragedia si è compiuta poco dopo le 14,30. Gaspare era con il fratello minore Francesco sulla Grigna Settentrionale, a 1600 metri di quota, nella zona della Bocchetta di Prada, tra i Comuni di Mandello ed Esino Lario. Un’escursione domenicale, in piena zona rossa e quindi in realtà vietata, senza scarpe adatte né attrezzatura. Mentre la coppia stava raggiungendo il rifugio Bietti Buzzi, Gaspare è scivolato - forse a causa della neve ancora presente sul pendio - in un canalone impervio. Il fratello lo ha visto precipitare e ha dato l’allarme. Le ricerche degli uomini del soccorso alpino della Valsassina e Valvarrone sono state lunghe e complicate. Solo dopo diverse ore l’elicottero di Areu alzatosi in volo da Como ha individuato il corpo in fondo al canalone, scivolato per oltre trecento metri. Per il 37enne non c’era più nulla da fare: i soccorritori hanno potuto solo recuperare la salma e trarre in salvo il fratello, illeso e sotto choc. Gaspare era figlio di Giovanna Messina Denaro, sorella di Matteo, e di Rosario Allegra, detto Saro, morto a 65 anni il 13 giugno 2019 nell’ospedale di Terni, trasportato dal penitenziario dove era detenuto al 41 bis. Saro era in carcere nella città umbra dall’aprile 2018, da quando era stato arrestato nell’ambito di una operazione antimafia con altre persone, tra cui il cognato Gaspare Como, marito di Bice Messina Denaro, altra sorella del boss latitante. Rosario Allegra è stato più volte condannato per vari reati, tra cui estorsione e danneggiamenti, «partecipe a pieno titolo - secondo i magistrati - alle attività dell’associazione mafiosa Cosa nostra operante nel territorio di Castelvetrano».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. «Ammia?». Al commissariato di Castelvetrano non potranno dimenticare mai la più stupefacente lagnanza ricevuta dalla notte dei tempi. A protestare con la polizia, quel giorno del dicembre 1991, si presentò infatti Matteo Messina Denaro, detto «U Siccu». Quello che sarebbe diventato il capo dei capi e tra i criminali più ricercati del mondo. Era allora un giovanotto smilzo sulla trentina, che sarà descritto anni dopo, in base all' ultima foto prima che sparisse, come elegantissimo nella giacca nera, camicia di seta sbottonata, sigaretta, sorrisetto, occhiali da sole a goccia fissi sul naso per una malattia a un occhio attribuita anche all' abuso di videogiochi. Aveva già le mani sporche di sangue, diranno le inchieste e le sentenze giudiziarie dopo aver ricostruito la sua scalata ai vertici delle cosche sotto Totò Riina. Ma poteva ancora essere scambiato, pur essendo figlio d'un uomo di mafia, Francesco «Ciccio» Messina Denaro, per un bullo. Un «pupiddu» alla moda, cui piacevano lo champagne, la dolce vita, le belle donne. Per questo era lì al commissariato: per lamentarsi della visita che l'allora capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, in trasferta a Vienna, aveva appena fatto alla sua «fidanzata» Andrea Haslehner, una bella e alta austriaca bionda che lui chiamava Asi e che d'estate si trasferiva come concierge, interprete, barista, al Paradise Beach Hotel di Selinunte, vicino a Castelvetrano. Scopo dell'interrogatorio viennese, a vuoto per i silenzi, i «non ricordo» e le ambiguità della donna: capire i rapporti tra lei e Nicola Consales, il vicedirettore dell' hotel ucciso mesi prima. Perché aveva osato corteggiarla, pare, sotto il naso del boss in ascesa. Fu un errore, per «U Siccu» non ancora latitante, lagnarsi per «i fastidi» dati all' amica viennese? Sì. Ma era anche un modo, forse, per intimidire quanti indagavano su di lui. Certo, a sentire Massimo Russo, il pm che ha dedicato alla caccia al boss tutta la sua vita «ininterrottamente» dal 1994 al 2007, un momento chiave. Uno dei tanti messi a fuoco dal podcast d' inchiesta Armisanti! Vite mafiose e morti ordinarie dell' inviato delle Iene Gaetano Pecoraro e Alessia Rafanelli, su audible.it (Amazon) dal 29 marzo. Cosa sia un podcast lo sapete: è una specie di audio-libro ma a differenza dei libri tradizionali letti da un doppiatore o dallo stesso scrittore, è arricchito come in questo caso da suoni, musiche (di Donato Di Trapani e Francesco Vitaliti), rumori, canzoni, registrazioni di tiggì, testimonianze processuali, voci stesse dei protagonisti, tra cui la stessa Lorenza Santangelo, la madre di «U Siccu»: «Un giornalista che viene a fare a casa mia? Qua non c' è nessuno. Che interesse vi pigghiate?» Cosa significhi «Armisanti» lo spiega l'autore: «In siciliano sono le "Anime Sante". Sia quelle che in vita hanno sparso sangue e dolore, come Bernardo Provenzano, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti jr, Matteo Messina Denaro e Antonino Madonia, sia quelle delle loro vittime che pretendono ancora di avere giustizia». Come quelle raccontate nelle nove puntate del podcast. Tra le quali il chirurgo Attilio Manca «suicida» probabilmente dopo aver operato e salvato Provenzano o appunto Nicola Consales. Ammazzato a Palermo a fucilate, mentre rientrava a casa da Selinunte, il 21 febbraio di trent' anni fa. Ricorda la sorella Antonella: «Stava per essere nominato direttore perché il suo capo stava per trasferirsi in un' altra struttura. Lo vedevo un po' turbato però. Gli dissi: Ninni, non sei contento? E lui: "No, tanto contento non sono"». A turbarlo, racconta Massimo Russo, era stata una frase sfuggita a Nicola, uomo puntuale, preciso, estraneo alla mafia, esperto di turismo, già responsabile di altri alberghi italiani, un giorno d' estate in cui Matteo Messina Denaro, come spesso faceva, era steso ai bordi della piscina contornato da altri «pupiddi» e belle ragazze cui offriva generosamente champagne senza mai pagare: «Se fosse diventato direttore, disse, avrebbe cacciato quei quattro mafiosetti». «U Siccu» lo sentì. O fu informato da altri nei dintorni. Certo è che la prese come un'offesa personale. Confermerà al processo il pentito Francesco Geraci: «Matteo mi disse che il vicedirettore aveva detto che ci avrebbe cacciati via, e lui si era incavolato». Non bastasse, quel vicedirettore in giacca e cravatta pareva avere un debole per quella ragazza austriaca che interessava al giovane boss: «Quando si andava al Paradise Beach», insiste Geraci nell'audio, «lei veniva al tavolo, stava lì». Vero? Falso? «Secondo me mio fratello era interessato a lei, credo però che avesse capito che si stava cacciando in una cosa strana», risponde Antonella. Fatto è che «il giorno dopo la morte di Nicola ci è arrivata a casa una telefonata davvero strana... Era la voce di una ragazza che piangeva disperata e diceva "Ma è vero? È vero? Ninni è morto?". Poi arrivò un telegramma: "Perdona come sai fare tu chi ha sbagliato"». Pensò ad Andrea, la fidanzata austriaca? «Assolutamente sì». Perquisendo la camera 120 di Nicola dopo l'omicidio, fu trovata in cassaforte la chiave della 122, di Andrea Haslehner. E una ricevuta che rivelava come l'uomo fosse andato a Vienna. A trovare la donna? Salta fuori che «Asi» è l'amica del boss trapanese. Al capo della Mobile venuto a interrogarla in Austria, ricorda Massimo Russo, «conferma d' avere un rapporto con Matteo, ma esclude di aver mai incontrato Consales. Attenzione a questo passaggio: "Sì, sto con Matteo". Ma lei conosce Consales? "Si è il mio direttore". Consales è mai venuto a Vienna? "Mai"». Falso. C'è praticamente tutto, nel podcast Armisanti!. L' ascesa del capomafia, la catena di delitti, gli attentati del 1993 nell' estate in cui Matteo e Andrea erano a Forte dei Marmi, la bomba a Maurizio Costanzo, il «suggerimento» ai parenti di Consales di non costituirsi parti civili contro il mandante dell'assassinio, le bugie della ragazza viennese al pm Massimo Russo («algida, distaccata, glaciale, una vera mafiosa») che l'interrogava... È riuscito anche a trovarla, Gaetano Pecoraro, quella donna dei misteri. Ha cambiato nome, si è sposata, si chiude a riccio... Squillo del telefono: «Hallo?». «Andrea Thol?». «Sì?». «Sto raccontando la storia di Nicola Consales...». «Chi è Nicola Consales?».

·        Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.

«Mio nonno Piersanti e quel delitto su cui non si è ancora fatta piena luce». Il nipote di Mattarella al Festival della Giustizia Penale. Il Dubbio il 23 maggio 2021. Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, interviene al Festival della Giustizia Penale di Modena. «Sono nato 6 anni dopo la morte di mio nonno». Comincia così il racconto di Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, al Festival della Giustizia Penale di Modena in corso di svolgimento online. «Come le vittime delle mafie possono contribuire all’antimafia?»,  si è chiesto Mattarella. «Lo Stato ha l’obbligo di assistere le vittime, ma non è scontato che le vittime contribuiscano all’antimafia, ad esempio con la propria testimonianza. Ho subito indirettamente le conseguenze della vicenda, ho vissuto l’assenza insieme all’onere e all’onore di portare il nome di mio nonno. Far conoscere i diversi percorsi di vita, le storie e i valori delle vittime di mafia è importante: le vittime di mafia sono pilastri della storia del nostro Paese e meritano che le loro storie vengano conosciute anche dalle nuove generazioni. In quest’ottica è necessario che il familiare della vittima non sia solo un testimone, ma che riesca a dare una voce concreta al proprio vissuto familiare dentro la storia del Paese». Mattarella ha tratteggiato allora la vita del nonno, fratello del Presidente della Repubblica, Sergio: «Fu sostenitore della dottrina sociale cattolica, entrò nella Democrazia Cristiana nei primi anni ’60 e a soli 32 anni entrò nell’assemblea regionale siciliana e si fece notare per trasparenza e cura del bene comune. Nel 1978, a 43 anni, venne eletto alla presidenza della Regione, con l’appoggio esterno del Pci di Pio La Torre. Fu molto fermo e deciso nel mettere un freno alla speculazione edilizia approvando la legge urbanistica e tentò di fare una programmazione a lungo termine delle risorse regionali. Andò contro i centri di interessi e di potere occulti, infiltrati dalla mafia, ed ebbe la forza di prendere le distanze con la parte più marcia della Dc di quei tempi. Fece un discorso molto duro contro la mafia ricordando Peppino Impastato, e fu un seguace politico di Aldo Moro. Il nonno venne ucciso il 6 gennaio 1980: i magistrati dell’epoca trovarono un filo conduttore con l’omicidio del segretario della Dc siciliana Reina, nel 1979, e quello di Pio La Torre nel 1982. Tuttavia depistaggi, false testimonianze, sparizioni di prove e documenti portarono fuori strada. I Nar, gruppo di estrema destra, furono indagati e poi anche la mafia: secondo Giovanni Falcone Piersanti Mattarella sarebbe stato ucciso perché la sua azione di rinnovamento confliggeva con Cosa Nostra e soprattutto con i corleonesi, che si servirono dell’intervento dei terroristi di destra». Anche il finale è didascalico, quanto amaro: «Il processo si è chiuso con la condanna dei mandanti corleonesi, ma ancora oggi a 41 anni dall’omicidio non si conoscono i nomi degli assassini di Piersanti Mattarella e non si è fatta ancora luce su quanto sia realmente accaduto il 6 gennaio del 1980».

Il condannato per terrorismo, strage e decine di omicidi che offende la memoria di Giovanni Falcone. Paolo Biondani su L'Espresso il 9 febbraio 2021. Il giudice eroe della lotta alla mafia. Screditato in una corte d'Assise da un pregiudicato neofascista, libero da tempo. Anche se proprio Falcone lo aveva fatto arrestare. Per un delitto di portata storica. Con mandanti ai vertici di Cosa nostra. E due soli esecutori, rimasti misteriosi. È successo anche questo, nell'ultimo processo per l'eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (85 vittime, oltre 200 feriti). Dopo le condanne definitive di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini , i giudici hanno dichiarato colpevole, in primo grado, un altro capo dei Nar, Gilberto Cavallini, tesoriere, armiere e sicario di quella micidiale banda armata. Le motivazioni della sentenza, oltre duemila pagine depositate dai giudici tre settimane fa, ricostruiscono l'intera catena di delitti perpetrati da quei terroristi di destra, protetti dai servizi segreti dominati dalla P2. Fioravanti e Cavallini, negli anni Ottanta, furono accusati proprio dal giudice Falcone di aver eseguito, su commissione dei boss, anche l'omicidio di Piersanti Mattarella: il presidente della Regione Sicilia, assassinato nel centro di Palermo il 6 gennaio 1980 sotto gli occhi della moglie, rimasta ferita. I due terroristi neri sono stati però assolti in tutti i gradi di giudizio. E l'assassinio di Piersanti Mattarella: il presidente della Regione Sicilia, assassinato nel centro di Palermo il 6 gennaio 1980 sotto gli occhi della moglie, rimasta ferita. I due terroristi neri sono stati però assolti in tutti i gradi di giudizio. E l’assassinio di , fratello dell'attuale Capo dello Stato, rimane così il più anomalo dei misteri italiani: dopo 40 anni di indagini contrastate, si conoscono i mandanti, che di solito è più difficile scoprire, mentre i due killer sono tuttora impuniti. A riparlare oggi di quell'indagine di Falcone è stato lo stesso Fioravanti, chiamato a testimoniare nel processo a Cavallini. In aula il fondatore dei Nar si proclama innocente per la strage di Bologna, come semper, e fa di tutto per scagionare il complice, con risultati controproducenti. E senza che nessuno glielo chieda, riapre il caso Mattarella, forte della sua unica assoluzione. Sa che Falcone non può smentirlo: è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Il racconto parte da un antefatto: «All'epoca, in una trasmissione di Santoro chiamata Samarcanda, Leoluca Orlando cominciò a urlare contro Falcone, davanti alla mia foto, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». E qui il fondatore dei Nar la spara grossa, sotto giuramento: «Due o tre giorni dopo, Falcone mi chiamò, fece uscire tutti e mi disse: “Fioravanti, come magistrato e come siciliano, io a questa cosa di Mattarella non ci credo. Però lei si rende conto che a questo punto, se non procedo, divento anch'io della P2 ”». Il giudice, dunque, lo avrebbe inquisito pur sapendolo innocente. Non solo: «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento». «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento». «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d'isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall'isolamento».Nar si proclama innocente per la strage di Bologna, come sempre, e fa di tutto per scagionare il complice, con risultati controproducenti. E senza che nessuno glielo chieda, riapre il caso Mattarella, forte della sua unica assoluzione. Sa che Falcone non può smentirlo: è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Il racconto parte da un antefatto: «All’epoca, in una trasmissione di Santoro chiamata Samarcanda, Leoluca Orlando cominciò a urlare contro Falcone, davanti alla mia foto, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». E qui il fondatore dei Nar la spara grossa, sotto giuramento: «Due o tre giorni dopo, Falcone mi chiamò, fece uscire tutti e mi disse: “Fioravanti, come magistrato e come siciliano, io a questa cosa di Mattarella non ci credo. Però lei si rende conto che a questo punto, se non procedo, divento anch’io della P2”». Il giudice simbolo, dunque, lo avrebbe inquisito pur sapendolo innocente. Non solo: «La sera stessa Falcone dispose il mio trasferimento in un regime speciale d’isolamento, una gabbia di vetro, con luci accese giorno e notte, per sei mesi, per cui non mangiavo più». Una tortura a lieto fine, conclude Fioravanti, perché «al 181esimo giorno Falcone stesso mi tolse dall’isolamento». I giudici di Bologna, nella sentenza contro Cavallini, demoliscono queste «menzogne». E denunciano Fioravanti alla procura per falsa testimonianza, accusandolo anche di «calunnia», non applicabile «solo perché Falcone è morto». Il presidente della corte ripercorre tutti gli atti di Palermo e documenta che Falcone ha aperto per primo le indagini sui terroristi neri per l'omicidio Mattarella, le ha continuate per cinque anni, le ha difese anche davanti alla commissione antimafia, collegandole alla bomba di Bologna e ad «altri attentati» che hanno unito neofascisti e mafiosi. E nel 1989 proprio lui ha ordinato l'arresto di Fioravanti e Cavallini. Mentre «la trasmissione Samarcanda è andata in onda nel 1990, quando Falcone non era più giudice istruttore da quasi un anno». Elencate queste e molte altre contro-prove, i giudici concludono: «Ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire». E si chiedono «perché abbia bisogno ancora oggi di costruire simili menzogne». La risposta è che l'omicidio di Piersanti Mattarella nasconde segreti «inconfessabili». Come la strage di Bologna. Mattarella, le ha continuate per cinque anni, le ha difese anche davanti alla commissione antimafia, collegandole alla bomba di Bologna e ad «altri attentati» che hanno unito neofascisti e mafiosi. E nel 1989 proprio lui ha ordinato l’arresto di Fioravanti e Cavallini. Mentre «la trasmissione Samarcanda è andata in onda nel 1990, quando Falcone non era più giudice istruttore da quasi un anno». Elencate queste e molte altre contro-prove, i giudici concludono: «Ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire». E si chiedono «perché abbia bisogno ancora oggi di costruire simili menzogne». La risposta è che l’omicidio di Piersanti Mattarella nasconde segreti «inconfessabili». Come la strage di Bologna. Per l'assassinio del leader politico siciliano, che si batteva per il «rinnovamento» di una Dc inquinata  dalla mafia, sono stati condannati tutti i boss della cupola di Cosa nostra. Alcuni pentiti di alto livello, come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, hanno potuto ricostruire le riunioni di vertice tra i «capi mandamento», in tregua precaria alla vigilia della guerra storica di mafia. L'omicidio fu «voluto dai corleonesi, Riina e Provenzano», e dai loro alleati a Palermo come Francesco Madonia. Il boss Stefano Bontate, ormai isolato, puntava invece a riconquistare la Dc, ma si allineò: quel presidente della Regione dava fastidio anche a lui. Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia hanno ricostruito tutti gli atti di Mattarella contro Cosa nostra. Appena insediato, ha imposto «legalità e trasparenza negli appalti e collaudi regionali». Si è opposto a Vito Ciancimino, il mafioso corleonese che era diventato sindaco di Palermo. Ha fermato contratti colossali per costruire sei scuole di Palermo, assegnate ad altrettante aziende mafiose (una ciascuno): il suo stop fu cancellato «due giorni dopo l'omicidio». Anche la sua linea politica irritava i boss: Piersanti era della corrente di Aldo Moro e propugnava anche in Sicilia l'alleanza con il Pci di Pio La Torre, padre della legge antimafia, ucciso nel 1982. Sui mandanti mafiosi, quindi, non ci sono dubbi. Come sulle complicità politiche: il pentito Mannoia è stato testimone oculare di due incontri, prima e dopo l'omicidio Mattarella, tra il boss Bontate e Giulio Andreotti, capo della corrente più marcia della Dc, che si sentì preannunciare e poi rivendicare il delitto. Ma non avvertì la vittima. E tantomeno la polizia. Buscetta e Francesco Marino Mannoia, hanno potuto ricostruire le riunioni di vertice tra i «capi mandamento», in tregua precaria alla vigilia della storica guerra di mafia. L’omicidio fu «voluto dai corleonesi, Riina e Provenzano», e dai loro alleati a Palermo come Francesco Madonia. Il boss Stefano Bontate, ormai isolato, puntava invece a riconquistare la Dc, ma si allineò: quel presidente della Regione dava fastidio anche a lui. Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia hanno ricostruito tutti gli atti di Mattarella contro Cosa nostra. Appena insediato, ha imposto «legalità e trasparenza negli appalti e collaudi regionali». Si è opposto a Vito Ciancimino, il mafioso corleonese che era diventato sindaco di Palermo. Ha fermato contratti colossali per costruire sei scuole di Palermo, assegnati ad altrettante aziende mafiose (una ciascuno): il suo stop fu cancellato «due giorni dopo l’omicidio». Anche la sua linea politica irritava i boss: Piersanti era della corrente di Aldo Moro e propugnava anche in Sicilia l’alleanza con il Pci di Pio La Torre, padre della legge antimafia, ucciso nel 1982. Sui mandanti mafiosi, quindi, non ci sono dubbi. Come sulle complicità politiche: il pentito Mannoia è stato testimone oculare di due incontri, prima e dopo l’omicidio Mattarella, tra il boss Bontate e Giulio Andreotti, capo della corrente più marcia della Dc, che si sentì preannunciare e poi rivendicare il delitto. Ma non avvertì la vittima. E tantomeno la polizia. Il problema è l'esecuzione dell'agguato: Falcone è il primo a considerarla anomala. Piersanti viene ucciso in pieno giorno da un ventenne a volto scoperto, che deve usare due pistole, perché la prima s'inceppa. L'auto guidata dall'unico complice risulta rubata la sera prima alle 19,30, come le due targhe fatte a pezzi nella notte per ricomporne in fretta una falsa, e viene ritrovata intatta due ore dopo il delitto. Cosa nostra all'epoca è una potenza militare, le sue «squadre della morte» sono macchine da guerra, come dimostrano altri «omicidi eccellenti» decisi da tutta la cupola. Per ammazzare il generale Dalla Chiesa i sicari corleonesi hanno usato i kalashnikov e tre commando armati, con una moto e due auto poi bruciate per far sparire le tracce. Uno di quei mitra era stato già impiegato, come un messaggio in codice, per uccidere Bontate e il suo braccio destro Salvatore Inzerillo. Per altre stragi clamorose la mafia usava già allora le prime autobombe. Anomalo invece è anche l'omicidio di Michele Reina, segretario della Dc di Palermo, ucciso nel 1979 con una pistola da un ventenne mai identificato. Piersanti viene ucciso in pieno giorno da un ventenne a volto scoperto, che deve usare due pistole, perché la prima s’inceppa. L’auto guidata dall’unico complice risulta rubata la sera prima alle 19,30, come le due targhe fatte a pezzi nella notte per ricomporne in fretta una falsa, e viene ritrovata intatta due ore dopo il delitto. Cosa nostra all’epoca è una potenza militare, le sue «squadre della morte» sono macchine da guerra, come dimostrano altri «omicidi eccellenti» decisi da tutta la cupola. Per ammazzare il generale Dalla Chiesa i sicari corleonesi hanno usato i kalashnikov e tre commando armati, con una moto e due auto poi bruciate per far sparire le tracce. Uno di quei mitra era stato già impiegato, come un messaggio in codice, per uccidere Bontate e il suo braccio destro Salvatore Inzerillo. Per altre stragi clamorose la mafia usava già allora le prime autobombe. Anomalo invece è anche l’omicidio di Michele Reina, segretario della Dc di Palermo, ucciso nel 1979 con una pistola da un ventenne mai identificato. La tesi di Falcone è che i corleonesi hanno assoldato sicari esterni, con alleanze criminali tenute nascoste agli altri boss poi sterminati. L'indagine sui Nar si basa su vari indizi. Nel 1984 la vedova di Mattarella, che non dimentica «il viso gentile, ma con lo sguardo glaciale» del killer, lo riconosce in una foto Fioravanti. Che nei giorni dell'omicidio era a Palermo con Cavallini. Nel 1986 il fratello, Cristiano Fioravanti, confessa a Falcone che Valerio stesso gli confidò di aver assassinato «un importante politico siciliano, davanti alla moglie». E i più attendibili pentiti di destra aggiungono che era Mattarella. Nar si basa su vari indizi. Nel 1984 la vedova di Mattarella, che non dimentica «il viso gentile, ma con lo sguardo glaciale» del killer, riconosce in una foto Fioravanti. Che nei giorni dell’omicidio era a Palermo con Cavallini. Nel 1986 il fratello, Cristiano Fioravanti, confessa a Falcone che Valerio stesso gli confidò di aver assassinato «un importante politico siciliano, davanti alla moglie». E i più attendibili pentiti di destra aggiungono che era Mattarella. Dal 1988, però, le indagini su tutti gli omicidi eccellenti si fermano. Il nuovo capo dei giudici istruttori, Antonino Meli, smantella il pool antimafia, divide le inchieste ed emargina Falcone. Che nel 1989 passa in Procura, ma anche qui viene isolato dal nuovo capo, Pietro Giammanco. Mentre Cristiano Fioravanti, su pressione del padre, ritratta le accuse al fratello. Nel marzo 1991 Falcone se ne va a Roma, al ministero. Intanto un suo amico magistrato, Loris D'Ambrosio, chiede nuove indagini sull'arma delitto e sulle targhe rubate, elencando decine di covi dei Nar, ma viene ignorato. Giammanco. Mentre Cristiano Fioravanti, su pressione del padre, ritratta le accuse al fratello. Nel marzo 1991 Falcone se ne va a Roma, al ministero. Intanto un suo amico magistrato, Loris D’Ambrosio, chiede nuove indagini sull’arma del delitto e sulle targhe rubate, elencando decine di covi dei Nar, ma viene ignorato. Dopo la morte di Falcone, Fioravanti e Cavallini vengono assolti dagli stessi giudici che condannano i mandanti mafiosi. Ma sanno poco del terrorismo nero. Nelle sentenze si legge che a Palermo non sono stati nemmeno acquisiti gli atti sui rapporti tra il boss di Cosa nostra a Roma, Pippo Calò, i riciclatori della P2 e la Banda della Magliana, alleata dei Nar. Legami che Falcone considerava cruciali. Anche la condanna di Calò per la strage sul treno Firenze-Bologna (23 dicembre 1984, sedici morti e oltre 250 feriti), organizzata dal boss con esplosivo fornito da un politico neofascista, viene trascurata. Per le corti di Palermo le responsabilità mafiose escludono la pista nera. Le assoluzioni si basano sulle dichiarazioni di quattro pentiti di Cosa nostra, gli unici a parlare di esecutori mafiosi. Vengono considerati «concordanti», anche se nominano sei killer diversi. Nessuno di loro mente. Però riportano notizie di terza mano. La fonte di Mannoia e Buscetta, per esempio, è Bontate, che sugli esecutori riferiva quanto gli dicevano i nemici corleonesi. In appello, la corte esamina una foto di Antonino Madonia, un sicario spietato, l'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. L'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. L'unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi concludere che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. Magliana, alleata dei Nar. Legami che Falcone considerava cruciali. Anche la condanna di Calò per la strage sul treno Firenze-Bologna (23 dicembre 1984, sedici morti e oltre 250 feriti), organizzata dal boss con esplosivo fornito da un politico neofascista, viene trascurata. Per le corti di Palermo le responsabilità mafiose escludono la pista nera. Le assoluzioni si basano sulle dichiarazioni di quattro pentiti di Cosa nostra, gli unici a parlare di esecutori mafiosi. Vengono considerati «concordanti», anche se nominano sei killer diversi. Nessuno di loro mente. Però riportano notizie di terza mano. La fonte di Mannoia e Buscetta, per esempio, è Bontate, che sugli esecutori riferiva quanto gli dicevano i nemici corleonesi. In appello, la corte esamina una foto di Antonino Madonia, un sicario spietato, l’unico accusato da due pentiti (su quattro), e trova «una solare somiglianza» con Fioravanti. Quindi conclude che la vedova della vittima si è sbagliata, facendosi «suggestionare» dalla foto del terrorista, anche se lei ha sempre giurato il contrario. Di fronte a un'indagine di Falcone, «nessuno ha ritenuto di riconvocare la vedova», per mostrare a lei la foto di Madonia: «Il riconoscimento è stato fatto dagli stessi giudici». Che elevano a «certezze» le testimonianze indirette dei pentiti, anche se «non risulta che sia stata aperta nessuna indagine su Nino Madonia per l'omicidio Mattarella». Madonia: «Il riconoscimento è stato fatto dagli stessi giudici». Che elevano a «certezze» le testimonianze indirette dei pentiti, anche se «non risulta che sia stata aperta nessuna indagine su Nino Madonia per l’omicidio Mattarella». Negli ultimi mesi, finalmente, la procura di Palermo ha riavviato l'inchiesta, che riguarda anche l'omicidio Reina. E ha ricevuto atti dalla procura generale di Bologna e dagli avvocati delle vittime della strage. La prima novità riguarda l'arma del delitto. I carabinieri hanno confrontato gli otto proiettili delitto Mattarella con la pistola usata da Cavallini, il 23 giugno 1980, per assassinare il pm romano Mario Amato. Mattarella con la pistola usata da Cavallini, il 23 giugno 1980, per assassinare il pm romano Mario Amato. Quella «Colt modello Cobra calibro 38» è «di sicuro interesse investigativo», spiega la perizia, perché «la canna è solcata da sei rigature sinistrorse di 1,5 millimetri»: le stesse trovate sulle pallottole delitto di Palermo. La pistola dei Nar, inoltre, «esibisce difetti di funzionamento», per cui è «compatibile» anche «con la dinamica dell'omicidio Mattarella», dove una pistola s'inceppò. Ma oggi è impossibile avere la «certezza» che sia la stessa arma, perché «i proiettili sono stati compromessi», in questi quarant'anni, dai «processi ossidativi del piombo». Colt modello Cobra calibro 38» è «di sicuro interesse investigativo», spiega la perizia, perché «la canna è solcata da sei rigature sinistrorse di 1,5 millimetri»: le stesse trovate sulle pallottole del delitto di Palermo. La pistola dei Nar, inoltre, «esibisce difetti di funzionamento», per cui è «compatibile» anche «con la dinamica dell’omicidio Mattarella», dove una pistola s’inceppò. Ma oggi è impossibile avere la «certezza» che sia la stessa arma, perché «i proiettili sono stati compromessi», in questi quarant’anni, dai «processi ossidativi del piombo». Il giudice D'Ambrosio, quando si era ancora in tempo, chiese inutilmente di esaminare anche la pistola di Cavallini, sequestrata nel 1982 a Roma. Le nuove richieste seguono anche un'altra sua pista. Lo stesso anno, in un covo dei Nar a Torino, furono confiscate «targhe e pezzi di targhe rubate», annotate nel verbale dei carabinieri. Una ha gli stessi numeri (PA 560391), riassemblati, dei pezzi mancanti delle due targhe sottratte per l'omicidio Mattarella (PA53 e 0916). Ora sono state ritrovate tutte, per cui una perizia potrebbe confrontare l'auto delitto con le targhe dei Nar. A meno che non risultino anche queste ossidate. Fioravanti e Cavallini, naturalmente, considerati innocenti per l'omicidio Mattarella, che le indagini in corso a Palermo potrebbero anche attribuire a killer mafiosi. Comunque la loro assoluzione è definitiva. Nar a Torino, furono confiscate «targhe e pezzi di targhe rubate», annotate nel verbale dei carabinieri. Una ha gli stessi numeri (PA 560391), riassemblati, dei pezzi mancanti delle due targhe sottratte per l’omicidio Mattarella (PA53 e 0916). Ora sono state ritrovate tutte, per cui una perizia potrebbe confrontare l’auto del delitto con le targhe dei Nar. A meno che non risultino anche queste ossidate. Fioravanti e Cavallini, naturalmente, vanno considerati innocenti per l’omicidio Mattarella, che le indagini in corso a Palermo potrebbero anche attribuire a killer mafiosi. Comunque la loro assoluzione è definitiva. Fioravanti rischia solo un processo per falsa testimonianza. Dove sarà in buona compagnia: tra i denunciati dai giudici di Bologna, per presunte reticenze sul terrorismo di destra, c'è anche il generale Mario Mori, ex capo dei servizi.

·        La Cupola.

Magistrati fuori controllo. Perché nessuno ferma i continui abusi di potere della magistratura? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Il presidente della Repubblica, appena qualche giorno fa, aveva chiesto ai magistrati di darsi una regolata. E aveva auspicato una riforma del Csm. Per quale motivo? Per la semplice ragione che dal “Palamaragate” in poi inizia ad apparire chiaro a molti cittadini che l’impianto della giustizia italiana è profondamente minato da pastette, camarille, abusi di potere, corporativismo, cordate. Addirittura c’era stato un alto magistrato (del quale parleremo tra poche righe) che ha definito “metodi mafiosi” quelli usati dalle cordate dei magistrati. Benissimo, siccome la sgridata del Presidente ha lasciato tutti indifferenti, eccoci qua a segnalarvi due casi clamorosi. L’ultimo recentissimo, del quale scrive Tiziana Maiolo, l’altro vecchio di qualche settimana e altrettanto clamoroso. Il primo ha per protagonista – ironia della sorte – addirittura lo stesso magistrato che aveva segnalato le cordate mafiose. Stavolta questo magistrato – che è Nino Di Matteo, e che è un autorevolissimo membro del Csm, cioè dell’organo di autogoverno della magistratura, e che è stato anche un importante Pm – importante e clamorosamente sconfitto in Corte d’Appello nel famoso processo Stato mafia – il quale durante un’intervista in Tv, sulla Rai, ha detto che Silvio Berlusconi non va candidato al Quirinale perché ha avuto rapporti con la mafia. Il secondo caso è quello dei Pm di Firenze che non hanno impedito che arrivassero ai giornali (vi piace il gioco di parole per evitare la querela?) fiumi di intercettazioni (di nessuna rilevanza penale e processuale) utili a sputtanare un cittadino italiano di nome Matteo Renzi. Sul primo caso tre domande: prima, è giusto che un membro del Csm rilasci interviste polemiche alla televisione? Non sarebbe meglio se esercitasse le sue funzioni nei luoghi e nelle forme previste dalla legge? Seconda: un membro del Csm deve intervenire nella lotta politica che sta dietro le candidature al Quirinale? Terzo, un membro del Csm ha il diritto di diffamare il leader di uno dei partiti politici più importanti del paese? Poi c’è un’altra domanda. E se però questo membro del Csm fa tutte queste cose, è giusto che resti al suo posto? Non sarebbe meglio se, per dedicarsi alla politica, lasciasse prima la magistratura? Oppure, in caso contrario, la sua posizione non dovrebbe essere esaminata e giudicata da qualcuno? Da chi? Dallo stesso Csm? Su ordine di chi? E il presidente del Csm ha qualcosa da dire, o può restare indifferente fingendo che non sia successo niente?

Sul secondo caso due domande sole. Prima, una magistratura in grado di autogovernarsi può ignorare il caso di alcuni suoi esponenti che approfittando dell’enorme potere che viene loro conferito dalla funzione che svolgono, esercitano poi questo potere non ai fini processuali ma per spargere fango? Seconda domanda: se però la magistratura che si autogoverna non è in grado di intervenire – allontanando i Pm che abusano del loro potere e quindi proteggendo il diritto e i cittadini sottoposti a vessazioni- non è il caso che intervenga il Parlamento per togliere alla magistratura incapace di autoregolarsi, i poteri eccessivi di cui gode e che gli permettono di esercitare un numero significativo di soprusi sui cittadini? Queste domande sono tutte rivolte al Csm, al presidente della Repubblica e ai partiti politici. Cioè ai soggetti in grado di sospendere l’attacco di pezzi della magistratura allo stato di diritto. Ho l’impressione però che né il Csm, né il Quirinale né i partiti politici risponderanno. Non perché trascurino l’autorevolezza del Riformista (del resto, senza bisogno del Riformista, queste domande potrebbero rivolgersele da soli), ma perché non hanno le risposte. Per pavidità, per quieto vivere, per interesse, per calcolo…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Dottore, la prego, tenga lontano mio figlio da quel maledetto quartiere"

Nuove Magistratopoli. Procure allo sbando, Csm eversivo e autoaccusa di Di Matteo: è ora di una commissione sulla magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Novembre 2021. La camera dei deputati ha negato al Csm l’utilizzo delle intercettazioni illegali realizzate ai danni del deputato Cosimo Ferri. “Il Fatto Quotidiano” è insorto contro questa decisione. Dice che è un atto di difesa della casta. Uno legge e rilegge la notizia e poi pensa che siano impazziti tutti. Cioè, cosa è successo? Che il Consiglio superiore della magistratura ha chiesto alla Camera di poter compiere un atto illegale, perché è illegale intercettare i parlamentari. Addirittura è la Costituzione che dichiara illegale questa pratica da Ovra o da Stasi. Per fortuna. La Camera, rispettando la legge, ha risposto al Csm che purtroppo c’è la legge da rispettare e dunque le intercettazioni, realizzate in modo abusivo su input della procura di Roma, non possono essere utilizzate. E il quotidiano semiufficiale del partito dei Pm si è indignato con chi ha fatto rispettare la legge. E ha indicato i tutori del diritto come Casta. In cosa consiste la Casta? Nel non permettere che un gruppo di incursori fuorilegge faccia strame della legalità? Mistero. Ma se poi uno va a vedere meglio il caso, si accorge che è ancora più clamoroso. Vediamo come stanno le cose. Un paio d’anni fa si pone il problema della successione al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Un gruppo di magistrati, ex magistrati e politici si riunisce in un albergo, insieme a Luca Palamara (ex deus ex machina del potere giudiziario) e si schiera a favore della candidatura di un magistrato che ha tutti i titoli per diventare Procuratore. Marcello Viola. La riunione è spiata coi trojan, le intercettazioni vengono poi consegnate ad alcuni giornali che le pubblicano e scoppia il casino. È abbastanza chiaro a tutti che la ragione di tutto questo è una sola: far saltare la candidatura del candidato in questione. Marcello Viola ed è il procuratore generale di Firenze. Ha un difetto: non è nel giro di potere che da molto tempo fa il bello e il cattivo tempo a Roma e rischia di fare saltare molti equilibri. Meglio che salti lui. I giornali aiutano, disciplinati come sempre, l’operazione va in porto. Il Csm decide di nominare procuratore una persona sicuramente altrettanto rispettabile, ma che non ha i titoli. Ha però il vantaggio di non essere nemico del giro di potere che domanda a Piazzale Clodio. Sto parlando di Michele Prestipino, magistrato molto esperto, sicuramente, e molto legato al procuratore uscente. Lo stesso Viola e anche un altro candidato. Francesco Lo Voi, che anche lui aveva i titoli per diventare procuratore, fanno ricorso e vincono quattro volte al Tar e al Consiglio di Stato. La nomina di Prestipino viene dichiarata irregolare. Questo giornale ha scritto varie volte che il procuratore di Roma è abusivo. Senza intenti offensivi, anche perché Prestipino non ha nessuna colpa se il Csm, violando le regole, lo ha preferito ai candidati più titolati. Lo ha fatto in modo colposo, cioè per semplice ignoranza delle regole (e in questo caso: dio dio, in che mani siamo!), oppure lo ha fatto in modo doloso (cioè infischiandosene delle regole, come il cittadino al di sopra di ogni sospetto, e in questo caso: dio dio, in che mani siamo!)? Ora il problema è questo. La commissione del Csm che deve prendere atto delle sentenze che delegittimano Prestipino e decidere il nome del nuovo procuratore, sta da mesi perdendo tempo in infinite discussioni e rinvii. Non si decide, perché non vuole decidersi, cioè non vuole rompere le uova nel paniere alla Procura romana. Voi capite bene che effetto strano fa la denuncia del “Fatto”. Chi è la Casta? Magari la Casta è esattamente quella che vorrebbe decidere per conto suo e al di fuori delle regole e delle leggi i gruppi di potere della Procura romana. O no? E perché – è giusto chiedersi – il Csm sta perdendo tempo su Roma? Perché nel frattempo si sono aperti nuovi posti molto prestigiosi in altre Procure. Lascia per raggiunti limiti di età il procuratore di Milano – in un clima infuocato di accuse e controaccuse su inchieste insabbiate – e lascia anche il procuratore nazionale antimafia. Dicono i beninformati che l’idea potrebbe essere quella di usare questi due posti vuoti per sistemare i due pretendenti legittimi alla Procura di Roma – Viola e Lo Voi – e così rendere legittima una nuova nomina di Prestipino. Il problema pare che sia però reso complicato dal fatto che Viola e Lo Voi non ci stanno. Tutti e due vogliono Roma. E poi ci sono altre complicazioni. Sia il procuratore di Napoli Melillo, sia quello di Catanzaro Gratteri aspirano forse alla Procura nazionale antimafia, e tutti e due con i titoli in ordine. Ora voi provate a rimettere in ordine tutte le cose, a prendere in esame questo vorticoso giro di nomine, a considerare la resistenza feroce dei pignatoniani a difesa di Prestipino, poi date una letta alla denuncia di Palamara nel suo famoso libro “Il Sistema”, e infine scorrete le dichiarazioni di un personaggio di peso come Nino Di Matteo, che abbiamo riportato ieri sulla prima pagina di questo giornale. Di Matteo ha detto cose feroci. È andato molto oltre le denunce di Palamara. Ha parlato di cordate che si radunano attorno a un Procuratore, composte da ufficiali di polizia giudiziaria, e da altri personaggi esterni alla magistratura, che dominano il sistema giustizia con logiche di tipo mafioso. Una bomba. Che ha prodotto grandi effetti? No. Se Di Matteo o Gratteri criticano la Cartabia viene giù il cielo. Se Di Matteo dice che la magistratura è governata da cordate illegali con metodi mafiosi non gliene frega niente a nessuno. Si ha quasi l’impressione che l’establishment consideri in fondo abbastanza normale questo stato di cose. Ora io mi chiedo: di fronte a questo spettacolo inverecondo, che coinvolge il Csm, i vertici di molte Procure, i giornali omertosi, le Logge segrete, è possibile che il Parlamento non si decida a formare una commissione di inchiesta? Con tutti i poteri. Che possa interrogare i protagonisti di questa vicenda, che possa ricostruire fatti, circostanze, relazioni, diktat, ricatti. Che possa stabilire quanti e quali di questi ricatti si avvalgono direttamente del potere inquirente di alcuni magistrati. E poi, dopo aver concluso questa inchiesta, suggerisca eventualmente allo stesso parlamento , e al governo, di fare tabula rasa degli attuali assetti e delle regole che ordinano il più potente e temibile dei poteri pubblici. Possibile che questo non avvenga? A me sembra di dire quasi una banalità. Eppure sono sicuro che non avverrà.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'aiutino al magistrato. Lo Voi a Roma, lo sponsor di Pignatone e l’hotel a 5 stelle: il racconto (incompleto) di Palamara. Paolo Comi  su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Dopo circa due anni e mezzo, il Consiglio superiore della magistratura è tornato sui propri passi: proponendo Francesco Lo Voi a procuratore di Roma. Il nome del procuratore di Palermo, infatti, era già uscito il 23 maggio del 2019 quando la Commissione per gli incarichi direttivi per la prima volta aveva affrontato il dossier sulla successione di Giuseppe Pignatone. Quel giorno Lo Voi aveva preso un solo voto, quello del togato di Area Mario Suriano. Le nomine dei magistrati, soprattutto quelle dei procuratori, talvolta sfuggono alle logiche correntizie. Lo Voi, infatti, esponente di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, era stato votato da un magistrato della sinistra giudiziaria, il gruppo che quando si trattò di discutere la sua nomina a procuratore di Palermo aveva invece fatto le barricate. «È uno che dorme in hotel cinque stelle mentre i suoi colleghi sono qui in trincea a spalare fango», disse il pm anticamorra Antonello Ardituro, un magistrato di Area, in occasione della sua nomina riferendosi al fatto che Lo Voi in quel momento prestava servizio a Eurojust a Bruxelles. Di Lo Voi come procuratore di Roma si discusse molto in quel periodo. Palamara, due giorni prima del voto, il 21 maggio del 2019, parlando con il collega Luigi Spina, disse di essere lui ad aver aiutato Pignatone a portare Lo Voi a Palermo, accennando anche al ricorso che Lo Forte (Guido, procuratore di Messina, bocciato dal Csm, ndr) aveva fatto contro questa nomina. «C’è pure Pignatone in mezzo… vabbè.. e meglio che non ti racconti…», disse Palamara a Spina non sapendo di essere ascoltato con il trojan. Per sapere a cosa si riferisse Palamara bisognerà aspettare la pubblicazione del libro Il Sistema scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. «Pignatone mi rivela di avvertire degli strani movimenti intorno a questa vicenda e di temere che anche il Consiglio di Stato possa dare ragione a Lo Forte», scrive Palamara. «La pratica – prosegue l’ex magistrato – finisce alla quarta sezione, nel frattempo presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone è a lui legato da rapporti di antica amicizia». Palamara racconta poi dell’incontro fra Lo Voi e Pignatone una mattina presso la sua abitazione: «Dopo aver lasciato sul tavolo i cornetti che mia moglie ha comprato per gli ospiti, mi allontano per preparare il caffè. Li vedo parlare in maniera molto fitta e riservata. Quando torno a tavola la discussione riprende su tematiche di carattere generale». «Di questo incontro parlo direttamente con Francesco Lo Voi nel mese di gennaio del 2016, in occasione di una sua venuta a Roma. Ci incontriamo nel Caffè Giuliani in via Solferino nei pressi del Csm. Poche settimane dopo arriva la sentenza di Virgilio, favorevole a Lo Voi. Che potrà così insediarsi alla procura di Palermo», aggiunge quindi Palamara. Un episodio poco noto è, invece, la testimonianza di Nicola Russo, il relatore di quella sentenza, davanti al gip del tribunale di Roma Gaspare Sturzo il 5 maggio del 2018. Russo e Virgilio sono stati appena arrestati per corruzione in atti giudiziari. Russo, verbalizza il giudice, afferma di aver ricevuto nel tempo «diverse segnalazioni da generali della guardia di finanza e magistrati».

«Chi sono i giudici che si sono raccomandati?», domanda il pm Giuseppe Cascini, ora consigliere del Csm di Area.

«Sono colleghi, anche pubblici ministeri che lei conosce bene», risponde Russo.

«Io sono interessato a sapere chi sono», replica secco Cascini sentendosi toccato da vicino. Russo nicchia e non risponde.

«Quindi non ci vuole dire chi sono questi magistrati?», insiste Cascini.

«Mi sono pervenute segnalazioni», la risposta generica di Russo.

Cascini, allora, torna alla carica: «Io vorrei che fosse messo a verbale che è stato chiesto di indicare i nomi e che non li vuole fare. Punto e basta».

L’avvocato di Russo si intromette: «Il pm deve sempre trovare una cosa negativa».

Tocca a Sturzo buttare acqua sul fuoco: «Una frase detta così può essere interpretata con la volontà di coprire qualcuno e allora è giusto che il pm faccia domande precise. Il suo cliente non intende fare nomi. Se ci sarà altro il pm andrà a vedere, il discorso finisce qua». Ed è finito veramente quel giorno. A meno che Palamara e Russo non vogliano prima o poi raccontare quello che sanno.

Paolo Comi

Il j'accuse del membro del Csm. L’accusa di Di Matteo sui capi della magistratura: “Comandano con logiche mafiose”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Novembre 2021. Voi sapete chi è Nino Di Matteo. Uno dei magistrati più importanti di Italia, piuttosto amato dai giornali e dalle Tv, temuto, membro autorevolissimo del Consiglio superiore della magistratura, ex davighiano. Questo giornale molto spesso lo ha attaccato frontalmente, specialmente per le vicende palermitane. Qualche volta invece lo ha sostenuto, perché ogni tanto è lui il solo che dice al re: “maestà, sei nudo”. Lo ha fatto per esempio quando in magistratura e in politica si faceva a gara a nascondere il famoso dossier Storari, quello che rivelava l’esistenza della Loggia Ungheria. Fu lui a denunciare l’insabbiamento. L’altra sera Di Matteo si è fatto intervistare da Andrea Purgatori su La7. Trascrivo qui alcune frasi che ha pronunciato e che mi hanno fatto saltare sulla sedia: «Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura». Vi rendete conto? A me ogni tanto mi accusano di essere uno che attacca la magistratura in modo generico e insolente. Ma io non ho mai osato dire o scrivere cose così drammaticamente pesanti. In confronto a Di Matteo sono un timido chierichetto. Di Matteo dice che la magistratura è governata da bande, organizzate in cordate secondo il metodo mafioso. Francamente è andato molto oltre le accuse sanguinose lanciate da Palamara nel libro famoso scritto con Alessandro Sallusti (Il Sistema). Di Matteo sostiene che esistono delle cordate, o forse Logge (anche se lui non usa questo termine) composte, se capisco bene, da magistrati, alti ufficiali di polizia, alti militari, politici, forse giornalisti, gente di potere, tutti radunati attorno a un magistrato molto potente, e che queste cordate fanno poi il bello e il cattivo tempo ai vertici della magistratura, ne decidono gli assetti, le linee guida, immagino anche la collocazione politica. Di Matteo non fa nomi, però il ritratto di quel Procuratore amico della polizia giudiziaria e di altri, diciamo la verità, è un ritratto abbastanza preciso, e chiunque abbia un po’ seguìto i fatti recenti della magistratura può facilmente identificarlo. Sì, capisco, vorreste che scriva qui il suo nome. Ma voi sapete a quante querele da parte di alti magistrati io sono arrivato da quando dirigo il Riformista? Credo 22, più le cause civili. Meglio non fare i nomi, se non lo fa Di Matteo. Però ragioniamo un po’ sulle cose che lui ha detto. E proviamo a trarre le conseguenze che Di Matteo, per ora, non ha voluto trarre. Anche ponendo delle domande a Di Matteo. La prima domanda è questa: ma le vittime di questo sistema completamente illegale, e che contraddice clamorosamente il principio dell’indipendenza della magistratura, sono solo i magistrati che -restando al di fuori di correnti e cordate e metodi mafiosi- non riescono a fare carriera, oppure sono anche gli imputati? Ogni volta che si parla di Giustizia e di magistratura si pensa ai magistrati e agli equilibri al loro vertice. Ma i magistrati non è che quando lavorano vendono il pesce. Fanno una cosa diversa: decidono chi indagare e poi chi rinviare a giudizio, e poi chi condannare e chi assolvere. I veri protagonisti, i “fruitori” della giustizia, sono gli imputati.  Dopo aver letto le parole di Di Matteo, che fiducia possono avere, gli imputati, sulla equanimità della magistratura? A me questo sembra il punto decisivo. Però, ogni volta che lo tocco, discutendo anche con magistrati dissidenti e fuori dai circoli del potere, sento di aver toccato dei fili elettrici che è proibito toccare. Io vi devo dire la verità: in fondo non mi importa molto se il procuratore di Potenza sarà il dottor X o il dottor Y, né voglio sapere chi e perché diventerà aggiunto a Bologna, e nemmeno chi andrà alla procura nazionale antimafia. Mi interessa sapere, invece, se il signor Rossi subirà un giusto processo. E mi chiedo che cosa possa succedere al signor Rossi se il Pm, il Gip e poi il Presidente della Corte che lo giudicherà appartengono alla stessa corrente, o addirittura alla stessa cordata, cucita con metodi mafiosi. Non vi pare una domanda legittima? Non sarebbe giusto se i magistrati che oggi iniziano a denunciare le storture del nostro sistema, e la forza di sopraffazione ai vertici, si ponessero anche questo problema, senza per questo dover essere accusati di eccesso di garantismo?

La seconda domanda che vorrei porre a Di Matteo riguarda le riforme. Ho letto che lui è molto arrabbiato con la ministra Cartabia per i piccoli aggiustamenti che sta realizzando, per esempio, sulla prescrizione o sulla presunzione d’innocenza (ma quella sulla presunzione di innocenza è una direttiva europea che non può essere aggirata). Ok, ognuno ha le sue idee. Ma dopo la sua denuncia, e dopo la denuncia di Palamara, e dopo la denuncia di Storari, è giusto o no porsi il problema dell’autogoverno della magistratura? Di Matteo ci fa capire che l’autogoverno della magistratura non esiste: la magistratura – dice – è governata da Forze oscure. Benissimo, ma allora è giusto o no stabilire dei sistemi di controllo democratico, che impediscano a logge e cordate di impadronirsi in modo illegittimo e sovversivo del terzo potere dello Stato (forse ormai il primo…) e restituiscano al sistema democratico, e dunque non alla corporazione, il potere di controllo e in questo modo assegnino davvero al singolo magistrato la sua indipendenza, che oggi spesso non ha, perché espropriata da correnti e cordate? In sostanza, a me pare che non abbia senso immaginare un nuovo Consiglio superiore della magistratura di nuovo a grande maggioranza di togati. Occorre modificare la Costituzione.

La terza domanda riguarda i processi politici. Ce ne sono stati centinaia e centinaia, in questi anni. Hanno coinvolto anche i leader dei partiti, distruggendone qualcuno. Se la magistratura è davvero dominata dalla cordate, è legittimo immaginare (come ha immaginato Palamara) che molti processi politici siano studiati a tavolino per ragioni che c’entrano poco o niente con la giustizia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ancora prigioniero delle inchieste calabresi

Da ansa.it il 14 novembre 2021. "Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l'attività del Consiglio superiore della magistratura e dell'intera magistratura". Lo ha detto il togato del Csm Nino Di Matteo, ex pm del processo 'Trattativa', intervistato da Andrea Purgatori ad Atlantide, trasmissione in onda stasera su La7. Con l'appartenenza alle cordate - prosegue Di Matteo - "vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera" e l'avversario "diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare". E in fondo - aggiunge il togato, "la logica dell'appartenenza è molto simile alle logiche mafiose", è "il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura". Secondo Di Matteo, il "sistema" delle correnti del quale Luca Palamara era solo una "pedina", al quale si affianca quello delle "cordate", è uno schiaffo al sacrificio dei 28 magistrati uccisi dalla criminalità organizzata e dal terrorismo come Falcone e Borsellino, che gli stessi appartenenti al 'sistema' "fingono di onorare" e "utilizzano la loro tragica morte per attaccare i magistrati vivi". Come la politica, che ha rinunciato alle sue responsabilità per "usare i magistrati come alibi" e - sottolinea Di Matteo - sta discutendo una "pessima riforma" della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che "rischia di mandare in fumo tanti processi". Da pochi giorni è uscito il libro 'Nemici della giustizia' scritto da Di Matteo con il giornalista Saverio Lodato.

Di Matteo: «Altro che correnti. A condizionare il Csm anche cordate di polizia giudiziaria». Intervistato da Andrea Purgatori, su la 7, l'ex pm della presunta "Trattativa" parla di «cordate» attorno ad alcuni magistrati e «composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura». Il Dubbio il 14 novembre 2021. «Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura». A parlare così, secondo anticipazioni riportate ilfattoquotidiano.it, è Nino Di Matteo, ex pm del processo Trattativa e ora consigliere del Csm. Intervistato da Andrea Purgatori ad Atlantide, in onda stasera su La7,  l’autore del libro I nemici della giustizia spazia dal caso Palamara alle inchieste di mafia e corruzione alla contiguità tra politica e criminalità organizzata. Fino alla riforma della Giustizia, voluta dalla ministra Marta Cartabia, liquidata come «pessima». «Con l’appartenenza alle cordate  vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera» e l’avversario «diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare», secondo Di Matteo. Non solo, «la logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose», è «il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura». Secondo il consigliere del Csm, il «sistema» delle correnti del quale Luca Palamara era solo una «pedina», al quale si affianca quello delle «cordate».

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 10 novembre 2021. Questo invito è personale, come la responsabilità penale. La Signoria Vostra, procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, è invitata alla mostra «Giorgio Strehler alla Scala» (dal 5 novembre 2021 al 5 gennaio 2022) presso l'omonimo museo nell'omonima Piazza, laddove l'omonimo procuratore potrà rammentare quando inquisì l'omonimo regista per truffa alla comunità europea, e chiese il massimo della pena. Era l'autunno del 1992 e fu uno scandalo internazionale: Strehler annunciò che si sarebbe «dimesso da italiano» prima di trasferirsi a Lugano, e disse che sarebbe rientrato solo da innocente. La Signoria Vostra, nella requisitoria, adottò toni durissimi e per filmare la sentenza mandarono le telecamere sin da Vienna, ove Giorgio Strehler aveva appena messo in scena Pirandello. Il Maestro del teatro italiano, in data 10 marzo 1995, fu assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste» e dunque rientrò in Italia: ma morì meno di due anni dopo durante le prove del «Così fan tutte», sua prima regia al rinnovato Piccolo Teatro ch' egli non avrebbe mai inaugurato. La Signoria Vostra, già allora, non partecipò ai funerali ai quali accorsero in migliaia tra cittadini e autorità: Ella presenzi almeno alla citata mostra, se non è troppo impegnato a farsi inquisire e a fronteggiare la nemesi storica. Da martedì a domenica, dalle 10 alle 18, interi 9 euro. I magistrati pagano. Per una volta.  

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 novembre 2021. Alcune informazioni contenute nel telefono, non inerenti al procedimento in corso, qualora divulgate a terzi potrebbero essere fonte di gravi danni alla mia professione e all'azienda per cui lavoro che in molti paesi è concorrente dell'Eni»: firmato Vincenzo Armanna. Sono le 10,41 del 29 settembre scorso quando al giudice milanese Anna Magelli arriva la lunga mail dell'avvocato siciliano divenuto, insieme al collega Piero Amara, uno dei principali testimoni d'accusa del processo Eni-Nigeria: un testimone, si è scoperto nel frattempo, specializzato in falsi e calunnie, definito dalla Procura generale un «avvelenatore di pozzi». Il telefono di Armanna, sequestratogli dal pm Paolo Storari, è stato finalmente aperto dalla Guardia di finanza. Dentro c'era la falsa chat con l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, costruita da Armanna per cercare di incastrare i vertici dell'azienda di Stato. Ma c'era anche molto altro, anni di affari pubblici e privati dell'avvocato-faccendiere. Con la sua mail al giudice Magelli, Armanna il 29 settembre cerca di scongiurare il pericolo « che l'intero contenuto del suo telefono venga consegnato in copia ai legali di Eni, che ne hanno fatto richiesta formale. Armanna spiega al giudice che dentro ci sono le sue vicende private, «chat e mail relative a tensioni squisitamente personali della mia famiglia», «analisi mediche», «informazioni sulle mie abitudini». E all'ultimo punto aggiunge il dettaglio cruciale, la necessità di tutelare la sua attività professionale per una azienda «che in molti paesi è concorrente di Eni». È questo il passaggio che ha fatto suonare un campanello d'allarme negli uffici legali del cane a sei zampe. Perché, senza entrare nei dettagli, Armanna rivela di lavorare per un concorrente del gruppo. Un'azienda straniera, visto che in Italia il colosso pubblico non ha sostanzialmente rivali. Scoprire che uno dei principali accusatori dei suoi vertici lavora per la concorrenza ha rinfocolato i dubbi di Eni intorno a una domanda per ora senza risposta: chi ha ispirato il falso «pentimento» di Armanna e Amara, due professionisti legati per anni al gruppo e divenuti improvvisamente i testimoni chiave della Procura della Repubblica? Ora che anche i pm milanesi paiono avere preso le distanze dai due, tanto da avere chiesto nei giorni scorsi il loro rinvio a giudizio per calunnia, gli interrogativi sui mandanti dell'operazione diventano cruciali. Anche perché Armanna non è l'unico tra gli ex di Eni a essere passato alla concorrenza: c'è anche Antonio Vella, ex numero due di Eni, uscito malvolentieri dal gruppo alla fine del 2019, processato e poi assolto per le presunte tangenti in Algeria. Nel suo interrogatorio del mese scorso davanti al Procuratore di Milano, Amara indica in Vella uno dei suoi interlocutori privilegiati dentro Eni. E dov' è oggi Vella? Guida i servizi logistici di Lukoil, il colosso energetico russo. Ce n'è abbastanza, come si vede, per ipotizzare che «manine» straniere abbiano ispirato o almeno usato ai propri fini le accuse e i processi contro Eni. Sarebbe interessante capire se nel telefono di Armanna ci siano risposte a questi interrogativi. Ma il giudice Magelli, dopo avere ricevuto la mail di Armanna e il parere negativo anche della Procura della Repubblica, ha rifiutato di consegnare a Eni il contenuto integrale dell'apparecchio. E ci sono altri telefoni di cui non si conosce il contenuto: i quattro apparecchi sequestrati al poliziotto nigeriano chiamato «Victor» dopo il suo interrogatorio nell'aula del processo: e di cui non si sa che fine abbiano fatto. 

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" l'8 novembre 2021. Sono un clamoroso falso fabbricato a tavolino da Vincenzo Armanna - accerta ora la perizia informatica sul suo telefonino disposta a luglio dal procuratore aggiunto Laura Pedio nell'indagine sui variegati depistaggi Eni dei processi milanesi sul colosso energetico - i messaggi Whatsapp che l'indagato ex manager Eni (immancabilmente «raddoppiato» dalle conferme dell'ex avvocato esterno Eni nei processi ambientali Piero Amara) mostrava sul proprio telefonino e sosteneva di aver scambiato nel 2013 con il direttore generale e oggi amministratore delegato Eni, Claudio Descalzi, e con il capo del personale Claudio Granata, a riscontro del ruolo che gli attribuiva. E cioè a riprova del fatto che fossero stati proprio Descalzi e Granata a indurre Armanna, in cambio della promessa di riassunzione in Eni e della prospettiva di cospicui guadagni veicolati tramite la società nigeriana Fenog, a ritrattare o attenuare le proprie iniziali accuse di corruzione internazionale Eni in Nigeria nel 2011, a lungo valorizzate dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ai fini della richiesta di condanna a 8 anni di Descalzi, poi invece assolto lo scorso 17 marzo dal Tribunale assieme a tutti gli altri coimputati (tra cui lo stesso Armanna) «perché il fatto non sussiste». Questa storia delle chat con dirigenti Eni, evocate da Armanna sia nei tanti interrogatori resi negli ultimi due anni sia a trasmissioni tv e giornali, ha una accelerazione il 2 novembre 2020 quando un giornalista del Fatto Quotidiano , a seguito dell'intervista che il 30 ottobre Armanna ora si intuisce avesse scelto come strumento per introdurre di sponda nel circuito giudiziario le chat con Descalzi e Granata, consegna alla Procura gli screenshot delle chat, dategli da Armanna in precedenti colloqui e filmate dal giornalista per documentare che stessero davvero sul telefonino di Armanna. Tre giorni dopo il pm Paolo Storari (coassegnatario di Pedio) si fa consegnare da Armanna il telefonino, che negli anni non era mai stato sequestrato dalla Procura e di cui nel luglio 2021 il 100% dei contenuti e dei metadati è stato acquisito con un software di una società israeliana a Monaco di Baviera, e affidato poi per lo studio al consulente Maurizio Bedarida. Non aveva dunque torto il pm Storari quando all'inizio del 2021 aveva ipotizzato ai colleghi anche la falsità di queste chat tra sei possibili indizi di calunniosità di Armanna (a suo avviso da arrestare con Amara), elementi che invitava i colleghi a depositare per correttezza ai giudici del processo Eni-Nigeria: inascoltato dai pm De Pasquale e Spadaro, i quali con Pedio sono indagati a Brescia per l'ipotesi di rifiuto o omissione d'atto d'ufficio. Quella falsità Storari curiosamente deduceva, a prescindere da complesse perizie come l'attuale, già dalla banale verifica che i numeri di telefono, ascritti a Descalzi e Granata negli apparenti messaggi con Armanna, nemmeno fossero attivi nel 2013, risultando utenze «in pancia» a Vodafone che non potevano produrre traffico. Argomento al quale però il procuratore Francesco Greco e Pedio avevano obiettato a Storari che in teoria potessero essere stati indefiniti servizi segreti (affini all'universo Eni) a far così sembrare negli archivi di Vodafone. Con l'esito-choc della consulenza informatica viene dunque meno quello che doveva essere il principale riscontro documentale alle dichiarazioni del tandem Armanna-Amara su Descalzi e Granata, indagati da tempo per le ipotesi di associazione a delinquere finalizzata al depistaggio giudiziario. Ora Pedio, e i due colleghi (Stefano Civardi e Monia Di Marco) affiancatile da Greco, dovranno valutare se altri elementi sinora segreti consentano lo stesso di chiedere il rinvio a giudizio di Descalzi e Granata, o inducano a chiederne l'archiviazione.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 9 novembre 2021. Quindici procuratori dai quattro angoli del mondo, dalla Francia al Brasile, dagli Stati Uniti alla Germania, scrivono all'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) della loro preoccupazione per l'attacco di cui ritengono vittima la procura di Milano, e chiedono se non se ne deduca un infiacchimento della lotta alla corruzione in Italia. In particolare li allarma che a Brescia siano indagati due rilevanti pm milanesi, poiché nell'ultimo processo all'Eni, secondo il giudice, trascurarono di depositare degli atti straordinariamente favorevoli agli imputati. La combinazione vuole che nelle stesse ore esca un'altra notizia, sempre a proposito dello stesso processo Eni: alcune chat portate come prova da un testimone dell'accusa erano dei falsi di stampo cinese, provenivano da numeri nemmeno attivi. Un collega dei due pm in questione segnalò l'anomalia, ma i due pm di nuovo trascurarono. Sarà una bizza da garantisti ma, se penso allo stato della giustizia, a me fa un pochino più impressione mettermi nei panni degli imputati Eni, fra tanta trascuratezza, diciamo così, che mettermi in quelli dei pm, a cui comunque auguro di uscire prosciolti. Sull'infiacchimento della lotta alla corruzione non saprei, posso riportare qualche numero tratto dagli ultimi disponibili al ministero: nel 2016 di 117 processi di primo grado per concussione, il 32 per cento si è chiuso con sole condanne, il 22 per cento con condanne e assoluzioni, il 31 per cento con sole assoluzioni e il 15 per cento con processo sfumato per motivi diversi. È un vero peccato che la lotta sia vigorosa, ma si infiacchisca da sé quando arriva la sentenza.

(ANSA il 23 novembre 2021) - Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, e il pm Donato Greco hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm milanese Paolo Storari, indagati per rivelazione del segreto d'ufficio in merito alla vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Fissati per settimana prossima in sede di chiusura indagini gli interrogatori del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm ora alla procura europea Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d'atti d'ufficio per la gestione di Vincenzo Armanna, 'accusatore' nel processo per il caso Nigeria. Sarà un gup di Brescia, dopo la richiesta di rinvio a giudizio depositata stamani, a dover decidere se mandare a processo Davigo e Storari. Il pm milanese consegnò i verbali dell'ex legale esterno di Eni, resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020, a Davigo nell'aprile 2020 per autotutelarsi, a suo dire, dall'inerzia dei vertici della Procura "nell'avvio" delle indagini su quelle dichiarazioni. Davigo, come si legge nell'imputazione, avrebbe ricevuto "una proposta di incontro" da parte di Storari, "rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia" dei verbali e dicendogli che "il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm". Sarebbe così entrato "in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo". E lo avrebbe fatto al di fuori di una "procedura formale", mentre Storari avrebbe dovuto "investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell'indagine". L'allora componente del Csm avrebbe svelato, poi, il contenuto di quelle carte ad alcune persone, tra cui colleghi del Csm. Le avrebbe date anche al vicepresidente David Ermini che "ritenendo irricevibili quegli atti" immediatamente "distruggeva" la "documentazione". Negli altri filoni dell'inchiesta bresciana, scaturita dal caso 'verbali Amara' e dalle denunce di Storari sulla gestione dei procedimenti Eni, la Procura ha chiesto l'archiviazione per l'ormai ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d'ufficio per i ritardi sulle indagini su Amara. La prossima settimana, dopo la chiusura indagini e su loro richiesta, i pm interrogheranno De Pasquale e Spadaro, accusati di non aver depositato prove favorevoli, trovate da Storari, agli imputati del processo Eni-Shell/Nigeria. Ancora aperto, infine, il filone nel quale il procuratore aggiunto Laura Pedio è accusata di omissione di atti d'ufficio per le tardive iscrizioni su 'Ungheria' e per la gestione dell'ex manager dell'Eni Armanna. 

La richiesta firmata dai magistrati di Brescia. Loggia Ungheria, chiesto il processo per Davigo e Storari: “Rivelazione del segreto d’ufficio sui verbali di Amara”. Redazione su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Il terremoto nella Procura di Milano continua. Francesco Prete e Donato Greco, rispettivamente procuratore e pm a Brescia, hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e per il pm di Milano Paolo Storari: i due sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito della vicenda dei verbali secretati dell’avvocato Piero Amara, che aveva svelato l’esistenza della presunta Loggia Ungheria. Il fascicolo arriverà quindi davanti a un giudice di Brescia che fisserà l’udienza preliminare, col Gup che deciderà sull’eventuale processo per Storari e Davigo. Sono invece fissati per la prossima settimana, entro il primo dicembre, gli interrogatori del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, entrambi indagati per rifiuto in atti d’ufficio per il caso Eni-Nigeria. Entrambi i magistrati hanno chiesto di essere ascoltati dai pm di Brescia prima della conclusione delle indagini. Negli altri filoni dell’inchiesta bresciana, scaturita dal caso ‘verbali Amara’ e dalle denunce di Storari sulla gestione dei procedimenti Eni, la Procura ha chiesto l’archiviazione per l’ormai ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d’ufficio per i ritardi sulle indagini su Amara.

LE ACCUSE A STORARI E DAVIGO – Secondo la tesi della procura di Brescia il pm Paolo Storari consegnò i verbali resi tra dicembre e gennaio 2020 di Amara, ex legale esterno di Eni, a Davigo. Un passaggio che sarebbe avvenuto nell’aprile 2020 per “autotutelarsi” da quella che Storari riteneva l’inerzia dei vertici della Procura di Milano nell’avviare indagini sulle dichiarazioni di Amara. Davigo, all’epoca consigliere del Csm, avrebbe ricevuto “una proposta di incontro” da parte di Storari, “rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia” dei verbali e dicendogli che “il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm”, si legge nell’imputazione riportata dall’Ansa. Secondo l’accusa quindi Davigo sarebbe entrato “in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo”, fuori da una “procedura formale”, mentre secondo i magistrati bresciani Storari avrebbe dovuto “investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell’indagine”. Sempre Davigo avrebbe svelato il contenuto delle carte passategli da Storari ad altri colleghi del Csm, tra cui anche il vicepresidente David Ermini che “ritenendo irricevibili quegli atti” immediatamente “distruggeva” la “documentazione”.

LA DIFESA DI STORARI – Richiesta di rinvio a giudizio che non preoccupata l’avvocato Paolo Della Sala, legale del pm di Milano Paolo Storari. “Siamo assolutamente sereni riguardo alla nostra posizione che porteremo davanti al giudice dell’udienza preliminare, confidando che la totale innocenza venga dimostrata nelle varie sedi giurisdizionali“, ha commentato all’Ansa.

«Processate Davigo!». La richiesta dei magistrati di Brescia. Per la procura di Brescia, i due avrebbero violato il segreto d’ufficio. Previsti la prossima settimana gli interrogatori dei pm De Pasquale e Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio. Simona Musco  su Il Dubbio il 24 novembre 2021. Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, e il pm Donato Greco hanno chiesto il rinvio a giudizio dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm milanese Paolo Storari, indagati per rivelazione del segreto d’ufficio per aver fatto circolare i verbali secretati di Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”.

I verbali di Amara visti da Storari e Davigo

La vicenda è l’ormai nota “consegna” dei verbali di Amara a Davigo: ad aprile 2020 Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegnò quei documenti al consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Per l’ex pm di Mani Pulite, tutto sarebbe avvenuto nel rispetto della legge: è stato lui, infatti, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura, richiamandosi ad alcune circolari del Csm stando alle quali «il segreto investigativo non è opponibile al Csm». Per la procura di Brescia, però, le due circolari non sono applicabili al caso specifico: esse non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Storari, dunque, avrebbe agito «in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari».

Il commento dell’avvocato Paolo Della Sala

«Ho saputo dai giornali della richiesta di rinvio a giudizio – ha dichiarato al Dubbio Paolo Della Sala, legale di Storari -. Noi riteniamo di avere degli argomenti molto solidi e li presenteremo davanti al giudice con grande fiducia, nel pieno rispetto delle scelte della procura. Quello che va chiarito è che ciò che viene contestato al dottor Storari è la violazione di un iter procedimentale che formalmente non è stato rispettato e che si ritiene andasse seguito, ma in nessun modo, da nessuna parte, è in gioco la correttezza del suo operato da magistrato».

Le presunte condotte illecite di Davigo

Davigo, dal canto suo, avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. E non si limitò a ricevere i verbali, ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara.

I consiglieri del Csm che avrebbero saputo dei verbali di Amara

L’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli. A vederli sarebbe stato anche il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Morra informato da Davigo

Ad essere informati furono anche Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.

C’è anche il caso Eni-Nigeria

La procura di Brescia indaga però anche su altri componenti dell’ufficio di procura: dopo aver chiesto l’archiviazione dell’ormai ex procuratore Greco, accusato di omissione di atti d’ufficio per aver ritardato le iscrizioni dei primi nomi a seguito del racconto di Amara, continuano le indagini su Pedio, indagata per lo stesso reato e per la gestione dell’ex manager Eni Vincenzo Armanna, presunto calunniatore, secondo quanto segnalato da Storari a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i due pm che hanno rappresentato l’accusa al processo Eni-Nigeria.

Segnalazione che trova un riscontro almeno nel caso delle chat che Armanna ha dichiarato di aver scambiato con l’ad di Eni, Claudio Descalzi, e il capo del personale, Claudio Granata, per dimostrare come gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione. Secondo la perizia informatica richiesta da Pedio, infatti, quelle chat sarebbero un falso clamoroso.

Dal canto loro, De Pasquale e Spadaro verranno interrogati la prossima settimana, a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini per «rifiuto d’atti d’ufficio»: secondo la procura di Brescia, i due pm avrebbero tenuto le difese degli imputati del processo Eni-Nigeria all’oscuro delle prove potenzialmente favorevoli segnalate da Storari, depositando comunque le chat false e omettendo la circostanza del presunto pagamento di un testimone da parte di Armanna.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2021. «Se io ho commesso il delitto di rivelazione di segreto d'ufficio - si difende l'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo nel suo interrogatorio -, allora loro (cioè i vertici del Csm e della Procura generale di Cassazione, ndr ) avrebbero dovuto denunciarmi», visto che «l'omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato», e dunque «dovrebbero essere incriminati per omissione d'atti d'ufficio», ma «a nessuno di loro venne in mente di doverlo fare perché nessuno di loro pensò che il mio fosse un reato». Ma la linea difensiva dell'ex pm di Mani Pulite non convince la Procura di Brescia, che chiede al gip di processarlo con il pm milanese Paolo Storari per «rivelazione di segreto». Cioè per aver, nella primavera 2020, fatto circolare tra quei «loro» (il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, il pg della Cassazione Giovanni Salvi, cinque consiglieri Csm e il presidente allora 5 Stelle della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra) i verbali segreti resi, tra fine dicembre 2019 e metà gennaio 2020, dall'ex avvocato esterno Eni Piero Amara su una associazione segreta denominata «loggia Ungheria» e condizionante alte burocrazie. La consegna di questi files word da Storari a Davigo, invece, per il procuratore bresciano Francesco Prete e il pm Donato Greco non può essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con il procuratore Francesco Greco e la coassegnataria vice Laura Pedio sui ritardi (a suo avviso) nell'avviare concrete indagini, per i quali Brescia ha chiesto l'archiviazione di Greco in attesa di valutazione del gip. Ermini ha deposto ai pm bresciani d'aver parlato con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella di quanto rivelatogli da Davigo, dal quale ha confermato di aver anche ricevuto copia dei verbali di Amara, aggiungendo però di averli distrutti ritenendoli irricevibili. «Bravo... complimenti... - contrattacca Davigo nel proprio interrogatorio - Ermini evidentemente non è precisamente un cuor di leone: se io avessi commesso un reato, era la prova del reato, dovevi trasmetterla all'autorità giudiziaria, se no è favoreggiamento personale», e aggiunge la domanda retorica che altri invece gli ritorcono contro proprio per la sua condotta, e cioè «sono impazzito io o sono ancora queste le regole del gioco?». In dicembre chiederanno di essere interrogati a Brescia il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, destinatari di un avviso di conclusione indagini per «rifiuto d'atti d'ufficio», nell'ipotesi abbiano tenuto il Tribunale del processo Eni-Nigeria all'oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura dell'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, coimputato ma anche accusatore di Eni valorizzato da De Pasquale nel processo Eni-Nigeria e da Pedio (pure indagata per l'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio) nell'inchiesta milanese tuttora in corso sui depistaggi giudiziari attribuiti a Eni.

Un magistrato non si processa mai...De Pasquale non va processato, lobby internazionale per difendere il Pm anti-Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Giù le mani da Fabio De Pasquale. Come si permette la Procura di Brescia di portarlo a giudizio come imputato, proprio lui che era riuscito a far condannare Craxi e Berlusconi e che ha messo in piedi la più grande inchiesta di corruzione internazionale contro Eni? Sorvolando sul fatto che quel processo il pm De Pasquale l’ha perso, scendono in campo a gamba tesa in suo favore 15 membri del gruppo “Corruption Hunters Network” -magistrati e investigatori- di cui lo stesso pm milanese fa parte. Suoi colleghi e amici, insomma. Agguerriti e informatissimi sull’Italia. Sembrano una corrente dell’Anm. C’è un americano, una francese, un tedesco, un brasiliano, una svizzera, in gran parte esponenti di Stati in cui la pubblica accusa dipende dal governo e che, in nome dell’esecutivo, lottano contro i fenomeni criminali. Cosa che non è consentita ai rappresentanti delle Procure italiane, la cui autonomia dal potere politico è difesa con le unghie e i denti dalle toghe di ogni ordine. E che oggi farebbero bene a insorgere contro questa intromissione nella loro indipendenza sacra e inviolabile. I quindici vestono i panni degli indignati. Ma fanno politica contro l’Italia. Contro l’autonomia e l’indipendenza della sua magistratura. Denunciano il nostro Paese, rivolgendosi all’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che nei prossimi mesi dovrebbe secondo loro dare una valutazione preoccupata sull’Italia. La tesi è la seguente: «La procura di Milano è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale», e si cita il solo caso Eni. Ma sotto attacco da parte di chi? I magistrati di Brescia che hanno aperto l’inchiesta su De Pasquale, si suppone. Ma si dovrebbe dire prima di tutto che sono altri investigatori, in totale autonomia, a indagare, non “la Procura di Milano”, ma singole persone, un aggiunto, Fabio De Pasquale appunto, e un sostituto, Sergio Spadaro. L’inchiesta aperta a Brescia sarebbe il frutto, sostengono i quindici, dell’iniziativa diretta della “corruzione”. Cioè il soggetto astratto indicherebbe gli uomini di potere, politico ed economico, che si starebbe vendicando del coraggioso magistrato che da anni è in prima linea nel combattere la corruzione. L’Ocse, secondo questi magistrati nominati in gran parte dai loro governi, dovrebbe accertare se il comportamento dell’Italia nei confronti della lotta alla corruzione è ancora limpido e deciso. «E stabilire cosa c’è dietro le accuse infondate che stanno per essere mosse a De Pasquale e Spadaro. Se, come temiamo, si tratta di un caso di contrattacco da parte della corruzione, dovrebbe chiarirlo nella sua valutazione». Dunque, ricapitolando: le ipotesi di omissione o rifiuto di atti di ufficio per cui i due pm sono indagati a Brescia, sono “infondate”, ma ci sarebbe un complotto ordito dagli ambienti della “corruzione” per mettere il bavaglio ai magistrati coraggiosi. E chi sarebbero coloro che vogliono far tacere De Pasquale e Spadaro? I dirigenti Eni usciti assolti dal processo su tangenti in Nigeria perché “il fatto non sussiste”? Il presidente Tremolada che insieme ai due colleghi ha emesso la sentenza? Il procuratore Prete di Brescia? È su di loro che dovrebbe indagare l’Ocse prima di dare una valutazione sull’Italia e la sua capacità di combattere la corruzione, nazionale e internazionale? La cosa strana è che, se i quindici colleghi di De Pasquale paiono ignorare le regole del sistema giudiziario italiano, sembrano invece informatissimi sul processo Eni. Le loro argomentazioni contro i fatti per cui i due pm milanesi sono indagati sembrano quasi dei motivi d’appello contro la sentenza con cui nel marzo scorso i dirigenti del colosso idrocarburi sono stati assolti nonostante le manchevolezze dei magistrati dell’accusa. Fabio De Pasquale nel proprio ricorso aveva sostenuto che la settima sezione del tribunale presieduta da Marco Tremolada aveva trattato il grave fatto di corruzione internazionale con cui Eni aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, come “bagatelle”, con argomenti “veramente esili” e “illogici”. I suoi colleghi internazionali affondano il coltello su quelle che il tribunale aveva considerato gravi mancanze da parte di chi aveva sostenuto in aula l’accusa. Non aver messo a disposizione della difesa per esempio il video in cui l’ex manager Armanna preannuncia all’avvocato Amara e altre due persone le calunnie che si apprestava a riversare sui vertici Eni. Il video avrebbe dimostrato l’inattendibilità di un teste caro alla procura. Lo stesso De Pasquale, nel suo ricorso per l’appello, dedica ben otto pagine a quel video, per definire tra l’altro le parole di Armanna delle “spacconate”. I suoi quindici colleghi internazionali gli copiano l’argomento fondamentale, e sostengono che gli uomini di Eni avessero già in mano da anni quel video, così come un’informativa della Guardia di finanza che il tribunale di Milano aveva ritenuto altrettanto importante. L’ufficio stampa del colosso petrolifero ha sempre smentito. Ma c’è da domandarsi come mai questo processo sia stato seguito (magari indiretta streaming e con l’interprete simultaneo) con tanta attenzione negli Stati Uniti e nei Paesi europei rappresentati dai quindici giuristi, visto che questi sembrano al corrente di ogni particolare. Non sembrano però essere informati (o forse la loro fonte non lo ha ritenuto interessante) di quella polpetta avvelenata che era stata preparata per portare il presidente Tremolada a doversi astenere dal processo, quando era stato accusato dall’avvocato Amara di essere “avvicinabile” dagli avvocati difensori dell’ ad di Eni Claudio De Scalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni. Strano che di questo episodio i quindici non siano stati informati, anche perché questo processo, oltre che per il clamore delle assoluzioni dopo settantaquattro udienze, verrà ricordato proprio per quella stilla di veleno. Che avrà anche un suo seguito perché il procuratore capo di Milano Francesco Greco e la sua fedele aggiunta Laura Pedio si erano affrettati a inviare gli atti a Brescia perché si verificasse se qualche giudice avesse commesso i reati di traffico di influenze e abuso d’ufficio. Se qualcuno ci aveva contato, gli è andata male. Archiviato. Ma i quindici non conoscono solo le carte, se pur, come abbiamo visto, in modo molto selettivo. Si preoccupano anche della prossima nomina di chi prenderà il posto di Francesco Greco a capo della procura più famosa, nel bene e (spesso) nel male, d’Italia. «Il suo capo da lungo tempo – scrivono – persona rispettata, l’unico sopravvissuto dei membri del famoso pool Mani Pulite, andrà in pensione tra pochi giorni. Ci sono notizie che il suo successore sarà un magistrato che nutre dubbi sul fatto che sia necessario attivamente perseguire le società italiane per corruzione internazionale». A questo punto, di fronte a accuse così gravi, c’è qualcuno, magistrato o politico, o organismi sempre pronti con le pratiche di autotutela, a strillare un po’ su questa indecente intromissione da parte di magistrati di nomina governativa di Stati stranieri? Qualcuno vuole difendere l’ignoto futuro procuratore di Milano dall’accusa di essere un colluso dei corrotti? Per la cronaca, negli stessi giorni in cui i quindici sputavano il loro veleno ergendosi a difensori d’ufficio (informatissimi, anche sulle indiscrezioni) di un pubblico ministero italiano contro altri pm italiani, arriva la notizia che tutti i messaggi whatsapp che l’ex manager Eni Pietro Armanna mostrava sul proprio telefonino contrabbandandoli per scambio di opinioni con l’ad (allora direttore generale) Claudio De Scalzi, erano un falso clamoroso, fabbricato a tavolino. Lo ha stabilito una perizia della procura disposta qualche mese fa dall’aggiunta Laura Pedio all’interno dell’indagine sui depistaggi, che in questo processo l’hanno spesso fatta da padrone. Ma Armanna, come Amara, è sempre stato considerato un teste attendibile dall’accusa. Ed evidentemente il pm De Pasquale crede ancora nei suoi testimoni, e non si arrende alla prima sentenza che lo ha visto sconfitto. Infatti, non solo ha firmato il ricorso in appello, ma ha anche chiesto di essere applicato a sostenere personalmente l’accusa nel secondo processo, forse perché non ha molta fiducia in quella procura generale che in un’altra causa aveva definito l’ex manager Armanna un “avvelenatore di pozzi”. Bene, anche di questo si preoccupano i suoi quindici colleghi internazionali. Temono che non gli sarà concesso di andare di nuovo in aula contro Eni, se andrà avanti l’inchiesta di Brescia. Ma come sono informati!

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il mostro togato. In Italia l’esercizio del potere è sottoposto alla sorveglianza della magistratura deviata. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. Tutti sanno che negli ultimi decenni il percorso di accreditamento di tanti leader politici è stato intralciato dalle trame di chi preparava dossier su di loro, sul loro staff e sui loro familiari. Ma, con l’eccezione delle lamentazioni personali di chi, come un certo senatore toscano, viene colpito, nessuno dice niente. Forse bisognerebbe smetterla di far finta che non sia così. Sappiamo tutti perfettamente che da qualche parte c’è un pubblico ministero – e forse più d’uno – con un dossier pronto al bisogno su Mario Draghi. Sappiamo tutti perfettamente che altrettanto è in cottura per ciascuno dei nomi che da qui alle prossime settimane e mesi potrebbero essere ritenuti in posizione per giungere a presiedere la Repubblica, o il prossimo governo. Sappiamo tutti perfettamente che l’accesso al potere e l’esercizio del potere in Italia sono sottoposti alla sorveglianza spionistica e ricattatoria della magistratura deviata, una associazione nemmeno tanto segreta che si è costituita in una centrale di contro-potere che intimidisce la vita istituzionale e ne orienta il corso giocando sporco, contaminando con la propria corruzione, con la propria malversazione, con la propria irresponsabilità, ogni angolo libero della vita pubblica. Tutti sappiamo perfettamente che il percorso di accreditamento di leader importanti degli ultimi decenni è stato intralciato dalle trame del mostro togato, e che, con sistema perfettamente mafioso, nessuno vi era risparmiato: i collaboratori, lo staff, i parenti, il coniuge. La magistratura equestre, burattinaia del manipolo milanese, che ingiungeva a chi avesse “scheletri negli armadi” di starsene buono, fu l’esempio nobilitato di un malcostume che di lì in poi sarebbe divenuto l’abito costituzionale del travestimento eversivo di stampo giudiziario, con il magistrato eponimo incaricato di “resistere, resistere, resistere” all’assalto di questo nemico temibilissimo, il sistema della democrazia rappresentativa. Ma che tutto questo sia perfettamente noto a tutti non basta ancora a far cambiare l’andazzo, e al più c’è spazio per le lamentazioni personali di un senatore toscano indispettito per certe manovre inquirenti giusto perché spulciano in casa sua, giusto come l’assedio delle toghe rosse costituiva un pericolo per il Paese nella misura in cui circondava un parco brianzolo. È esattamente come nelle società sottoposte allo strapotere della criminalità: dove tutti sanno tutto; dove nessuno dice niente. Ma in questo caso sono uomini dello Stato a imporre quel giogo.

C’è un giudice a Strasburgo per chi non si sente tutelato “a casa”. Oliverio Mazza, ordinario di diritto processuale penale all'Università Bicocca: "Eppure non mancano situazioni contraddittorie". Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'8 novembre 2021. Nel programma Help il riferimento alla Corte europea dei diritti dell’uomo è costante. Questo organo giurisdizionale, istituito nel 1957 con sede a Strasburgo, assicura il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) da parte di tutti gli Stati contraenti. L’articolo 32 della Cedu stabilisce che la Corte ha la competenza nel giudicare «tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli». Può essere adita nel momento in cui vengono esauriti tutti i rimedi interni, previsti dal diritto nazionale, secondo i principi di sovranità dello Stato, di dominio riservato e di sussidiarietà. Dunque, uno Stato prima di essere chiamato a rispondere di un proprio illecito sul piano internazionale, deve avere la possibilità di porre fine alla violazione all’interno del proprio ordinamento giuridico. A ciascuno Stato contraente è garantita la rappresentatività nella Corte, composta da un numero di 47 membri. I componenti vengono scelti tra giuristi in possesso, secondo quanto indicato dall’articolo 21 della Cedu, di «requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie o giureconsulti di riconosciuta competenza». I giudici della Corte vengono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ed il loro mandato dura sei anni con la possibilità di essere rinnovato. Riunita in seduta plenaria, la Corte elegge, a scrutinio segreto, il presidente, uno o due vicepresidenti e i presidenti delle sezioni, in carica per tre anni. L’elezione è prevista pure per il Cancelliere (Greffier) che rimane in carica cinque anni. Nella Corte operano i Comitati, composti da tre giudici. Sono loro che esaminano o respingono, se vi è unanimità, i ricorsi manifestamente irricevibili. Le Camere (Chambre), invece, sono composte da sette giudici e trattano i ricorsi in prima battuta. La Corte europea dei diritti dell’uomo viene adita con ricorso. Tale atto può essere “interstatale”, quando è proposto da ciascuno Stato contraente, oppure “individuale”. In questo caso si esalta al massimo il sistema di tutela dei diritti umani con la possibilità che il ricorso sia presentato da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa o da un gruppo di individui. Il ricorso va proposto sempre nei confronti di un Stato contraente. Non è prevista la possibilità di ricorrere con atti diretti contro privati (persone fisiche od istituzioni). Il ricorso può essere introdotto dalle persone fisiche, dalle organizzazioni non governative o dai gruppi privati personalmente o per mezzo di un rappresentante. Gli Stati contraenti sono rappresentati invece da agenti, che possono farsi assistere da avvocati o consulenti. Instradare un procedimento davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo non è semplice, come ci conferma Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano Bicocca. «L’attività processuale – dice il professor Mazza – è certamente complessa perché la Corte europea vive una situazione analoga a quella delle nostre magistrature superiori nazionali. La Corte si è riorganizzata nel corso del tempo. Si è divisa in Camere e ha attivato dei filtri di ingresso di ammissibilità dei ricorsi molto stringenti perché si basano su criteri formali. Ad esempio, l’esaurimento delle vie di ricorso interne e l’esatta compilazione del formulario. Sono tutte questioni di forma che incidono sulla ammissibilità del ricorso, che in Europa prende il nome di irricevibilità. In tutto ciò abbiamo un paradosso: la doglianza nel merito può essere molto rilevante se attiene a violazioni gravi dei diritti dell’uomo e nonostante ciò deve passare attraverso il formalismo esasperato del ricorso alla Corte europea. Qui il sistema va in contraddizione. È recentissima la sentenza sulla Cassazione civile “Succi e altri contro Italia” del 28 ottobre scorso. Il nostro Paese è stato condannato per i filtri di accesso alla Cassazione per l’eccessivo formalismo di alcuni passaggi procedurali, nel civile, con conseguente violazione del diritto di accesso ad un giudice, diritto fondamentale. Poi però è la stessa Corte europea che incorre sostanzialmente nella medesima violazione». Altro tema esaminato dal professor Mazza riguarda il filtro di irricevibilità che passa attraverso un giudice monocratico. In questo caso il legame con il modello dell’Ufficio per il processo è forte per non dire replicato a livello comunitario. «Il giudice monocratico – evidenzia Mazza – quasi sempre delega la valutazione al suo assistente di studio. Il ricorso alla Corte europea, che dovrebbe essere l’atto estremo per le violazioni più gravi, rischia di essere deciso da uno stagista. Anche questa situazione è a dir poco paradossale. La decisione di irricevibilità, fino a quando non entrerà in vigore un nuovo protocollo, già approvato ma non ancora in vigore, è sostanzialmente immotivata. Abbiamo una decisione di tre righe, che si esprime, per esempio, sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interno, ma non ci dice qual è la via di ricorso interno che avremmo dovuto adire prima di arrivare alla Corte europea ».

Da Torreggiani a Contrada: per la Cedu peggio dell’Italia solo Russia e Turchia. Dal 1959 al 2020 il nostro Paese ha subìto 2.427 condanne da parte dei giudici di Strasburgo. Oltre mille hanno riguardato i ritardi delle sentenze "domestiche" e il diritto a un giusto processo. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 novembre 2021. Sono diverse le sentenze della Cedu che hanno riguardato il nostro Paese. Secondo le statistiche pubblicate sul sito ufficiale, dal 1959 (anno di istituzione) al 2020 l’Italia ha subìto 2427 giudizi, di cui 1857 hanno riscontrato almeno una violazione. Di questi 1202 hanno riguardato la lunghezza dei processi e 290 il diritto a un giusto processo. Peggio di noi sono Russia e Turchia. Vediamone alcune. Nel 2013 ci fu l’importantissima sentenza Torreggiani. Alcuni detenuti degli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza avevano adito la Cedu lamentando che le loro rispettive condizioni detentive costituissero trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Essi avevano denunciato la mancanza di spazio vitale nelle rispettive celle (nelle quali avrebbero avuto a disposizione uno spazio personale di 3 metri quadrati), l’esistenza di gravi problemi di distribuzione di acqua calda e una insufficiente aerazione e illuminazione delle celle. La Corte accolse il ricorso, prendendo atto che l’eccessivo affollamento degli istituti di pena italiani rappresentava un problema strutturale dell’Italia e decise di applicare al caso di specie la procedura della sentenza pilota, ordinando all’Italia di rimediare al sovraffollamento nel giro di un anno. Nel 2015 arriva la famosa sentenza, in materia di legalità dei reati e delle pene, sul caso di Bruno Contrada, ex dirigente della Polizia di Stato, condannato nel 2007 in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cedu ha condannato lo Stato Italiano per la violazione dell’art 7 della Convenzione in quanto al momento della condanna il reato non era ancora previsto dal nostro ordinamento. Nello stesso anno la Corte interviene nel caso del signor Cestaro che, invocando in particolare l’articolo 3, relativo alla proibizione della tortura, lamentava di essere stato vittima di violenze e sevizie al momento dell’irruzione delle forze di polizia nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova. Non solo ebbe ragione ma la Cedu invitò il nostro Paese a dotarsi di una norma specifica sul reato di tortura. Nel dicembre 2016 la Grande Camera della Cedu sul caso Khlaifia v. Italia confermò la condanna del nostro Paese per il trattenimento illegittimo dei cittadini stranieri (violazione art. 5) nel centro di accoglienza di Lampedusa e sulle navi divenute centri di detenzione in quanto non vi era alla base un provvedimento di un giudice che legittimasse tale detenzione. Inoltre la mancanza di un provvedimento che legittimasse la detenzione e la privazione della libertà ha reso di fatto impossibile un ricorso effettivo (violazione art. 13) per contestare eventuali violazioni. Un’altra decisione di rilievo in materia carceraria è stata quella del caso Viola c. Italia con cui la Cedu nel 2019 negò la compatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione, laddove non consente mai misure di affievolimento della restrizione carceraria e, in prospettiva, di liberazione anticipata, in mancanza della decisione del detenuto di collaborare con la giustizia. Nello stesso anno arrivò dinanzi ai giudici europei anche il caso Amanda Knox, in materia di diritto a un processo equo. Il nostro Paese fu condannato per violazione degli articoli 3 e 6 avendo negato alla ragazza l’assistenza linguistica inadeguata e la presenza di un difensore durante l’interrogatorio della polizia e per la mancanza di effettive indagini su asserite percosse durante l’interrogatorio. In materia di libertà di espressione, la Cedu si è espressa sempre nel 2019 sul caso di Alessandro Sallusti, allora direttore del quotidiano Libero, condannato a un anno e due mesi di reclusione, per diffamazione e per omesso controllo su un articolo che recava falsità in danno di un magistrato. La Corte gli diede ragione perché la pena detentiva per l’attività giornalistica viene considerata un rimedio estremo i cui presupposti nel caso di Sallusti non furono ravvisati. Sempre in tema di libertà di stampa, nel marzo 2020, nel ricorso promosso da Renzo Magosso e Umberto Brindani, nel 2004 rispettivamente giornalista e direttore responsabile del periodico Gente, la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 10 (libertà di espressione). Come ha reso noto il ministero della Giustizia, «il tema della causa riguardava la pubblicazione di un articolo, intitolato “Tobagi poteva essere salvato”, sulla vicenda dell’omicidio di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso il 28 maggio 1980 da un commando terroristico di estrema sinistra. Il contenuto del pezzo giornalistico aveva provocato la reazione di due ufficiali dei Carabinieri che si erano sentiti diffamati». I due giornalisti furono condannati in via definitiva. Per la Cedu la sentenza adottata in sede nazionale si è tradotta «in una ingerenza sproporzionata del diritto alla libertà di espressione degli interessati, non necessaria in una società democratica». Il 27 maggio di quest’anno la Cedu ci ha condannati per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro per una sentenza che conteneva passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima. In particolare la Corte ha ravvisato la violazione del diritto alla vita privata nelle considerazioni irrispettose della dignità della ragazza, presenti nelle motivazioni della sentenza d’appello che ha assolto gli imputati. Ad agosto, inoltre, la Cedu ha depositato la sentenza relativa al ricorso, presentato da Radicali Italiani e Marco Pannella, contro l’Italia riguardante l’interruzione dal 2008 delle tribune politiche nel periodo non elettorale. È stata riconosciuta la violazione dell’art. 10 in quanto la Lista Pannella «era stata assente da tre programmi televisivi e si era trovata, se non esclusa, almeno altamente emarginata nella copertura mediatica del dibattito politico».

Recentissima è invece la decisione Succi c. Italia del 28 ottobre con cui la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 6 della Convenzione per l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione. Attualmente pende dinanzi alla Cedu il ricorso di Silvio Berlusconi c. Italia che, successivamente alla sentenza definitiva di condanna per frode fiscale, ha attivato un ricorso lamentando di aver subito la violazione dei diritti ad un equo processo, all’applicazione irretroattiva della legge penale e a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto.

Quando le toghe si arresero. Ieri come oggi il Csm è eversivo, nel 1985 Cossiga schierò i Carabinieri. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Luglio 2021. Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura, è su piazza Indipendenza a pochi metri dalla stazione Termini e quando Repubblica abitava su quella stessa piazza prima di emigrare a largo Fochetti, per noi giornalisti era impossibile evitare di andarci a sbattere, almeno con lo sguardo. È un curioso edificio fascista decorato all’esterno con festoni di testoline elmettate di Benito Mussolini. In quel Palazzo abita anche la sezione che si è permessa di bocciare un atto del governo della Repubblica, e cioè la riforma Cartabia. Non avendo alcun titolo per esprimere pareri sul governo che gode della fiducia del Parlamento. È un atto eversivo? Sì, è – nelle intenzioni – un gesto che tende a minare pur senza averne i poteri, la legittimità delle decisioni dell’esecutivo. L’Italia ha una sua anima nera che ancora sopravvive. Settantasette anni fa in questi stessi giorni di luglio, dopo il terribile bombardamento di Roma avvenuto il 19 di quel mese, il re e un gruppo di gerarchi fascisti, dal genero di Mussolini al quadrumviro Bono all’ex ambasciatore a Londra Grandi, decisero di far fuori il Duce approvando un documento che restituiva a Vittorio Emanuele il comando supremo delle forze armate di un paese in guerra, anzi in disfatta. E ci riuscirono. Il fascismo italiano è l’unica dittatura al mondo abbattuta con un voto di sfiducia espresso da un organismo costituzionale, e come si direbbe oggi “dopo lungo e approfondito dibattito” iniziato la sera del 24 luglio e durato fino all’alba del 25, con la messa in minoranza del Duce che, quando tornò stremato a villa Torlonia trovò la moglie Rachele che lo rimproverò: «Mo’ Ben! Ma perché non ti sei portato un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti?». Mussolini bofonchiò dicendo che il giorno dopo avrebbe rimesso a posto le cose andando a trovare il re a Villa Savoia, ma quando arrivò il piccolissimo sovrano gli comunicò di averlo già sostituito col maresciallo Badoglio. «Che ne sarà di me e della mia famiglia?» chiese il Duce cadendo affranto sul divano. Il re rispose che era stato già tutto predisposto per la sua sicurezza e senza dirgli che era agli arresti lo fece salire su un’ambulanza piena di carabinieri e fu la fine del regime fascista in Italia. Quel che accadde dopo fu la guerra contro un’invasione che determinò un nuovo stato di guerra. Ma è impossibile guardare Palazzo dei Marescialli con tutte quelle testine di Mussolini con l’elmetto e non ricordare anche quel nodulo di genetica fascio-complottista. Non è la prima volta e la storia è nota. Anzi, non la ricorda quasi più nessuno ma c’era una volta non un re, ma un Presidente di questa nostra Repubblica che, di fronte ad un comportamento che considerava eversivo da parte degli abitanti del Palazzo dei Marescialli con tutte le sue testine in elmetto – considerato che era lui stesso il Presidente di quella nobile istituzione grazie alla quale gli italiani dovrebbero veder tutelato il diritto alla giustizia rapida giusta attraverso l’indipendenza dei funzionari statali che la esercitano – pensò che fosse l’ora di mandare un segnale. E come segnale mandò un reparto di Carabinieri in ritenuta antisommossa, bastone, elmetto, gas lacrimogeni, armi da fuoco e scudi. Il Presidente era Francesco Cossiga e la sua reazione non fu molto diversa da quella del Senato romano quando uno dei generali della Repubblica in aperta ribellione contro lo Stato attraversò il confine che separava l’area militare da quella civile e fu ripagato con le Idi di marzo. Qui non ci saranno Idi di sorta come non ce ne furono trentasei anni fa, nel 1985, quando un tentativo eversivo fu soffocato con la semplice minaccia di un intervento della polizia. Allora come oggi il Csm era un ente che dovrebbe tutelare gli italiani dai rischi di una magistratura di parte e che è diventato lo strumento di potere delle correnti più partigiane. Il Capo dello Stato è formalmente il Presidente del Csm, che per tradizione è guidato da un vicepresidente. Al tempo di Cossiga il Csm aveva come vicepresidente un democristiano di sinistra, Giovanni Galloni, in guerra aperta col Capo dello Stato. Oggi siamo di fronte ad un altro comportamento eversivo di portata incalcolabile perché inedito: in maniera del tutto arbitraria, senza cioè averne i poteri, la sesta sezione del Consiglio superiore che ha l’incarico di esaminare le leggi approvate dal Parlamento o decretate dal governo per renderle efficaci ed effettive nell’esercizio della giustizia, ha estratto la pistola e ha espresso un parere negativo sulla riforma Cartabia, senza averne il potere legittimo. Questa, se non ci sbagliamo, si chiama insurrezione contro i poteri dello Stato. Cossiga mi raccontò con grande passione la storia dell’invio dei carabinieri a palazzo dei Marescialli, i cui abitanti subito si arresero uscendo simbolicamente dalle vie laterali. Il Capo dello Stato di quell’epoca, che certo i poteri forti di quell’epoca non vedevano l’ora di levarselo dai piedi, altro che far viscidamente balenare l’ipotesi di una rielezione, col suo martellante e consonantico accento sassarese. Mi disse: «Noi sardi del Regno di Sardegna e Piemonte abbiamo fatto questo Stato e non permetteremo a nessuno di distruggerlo trasformandosi in banda armata. Alle bande armate che si oppongono allo Stato noi opponiamo l’Arma dei Carabinieri e poi vediamo chi è più forte, se la banda armata o l’Arma dei Carabinieri», la parte dello Stato che – allora come oggi – tramava per sostenere quella parte della magistratura che pretenderebbe di fare le leggi anziché rispettarle perinde ac cadaver, tentò di far saltare la presidenza di Cossiga facendolo internare con certificato medico per sostituirlo con un direttorio di sedicenti che avrebbe dovuto ripristinare la dittatura giustizialista. La struttura eversiva di oggi è la stessa, per forma e per contenuti. Abbiamo udito toghe dichiarare che se la legge Cartabia fosse approvata allora tanto varrebbe andare a delinquere, e vediamo che tutto il fronte pentastelluto è in limacciosa maretta perché fra i due mali, una giustizia eternamente inefficiente e persecutoria e l’adozione di limiti che impediscano la persecuzione a vita, scelgono senza esitazione la persecuzione a vita. Non perché sia giusta, ma perché così vuole la loro “base” che nel frattempo si è squagliata in rivoli di formiche.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Palamara cacciato dalla magistratura, si avvera la profezia di Cossiga: “Finiranno ad arrestarsi tra di loro”. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Agosto 2021. È passata poco più che tra le brevi di cronaca la definitiva radiazione di Luca Palamara dalla Magistratura italiana. Conosco da decenni quel magistrato e sento innanzitutto il bisogno di esprimergli pubblicamente un pensiero di vicinanza ed amicizia in un momento di immaginabile, profonda amarezza e solitudine. E ciò tanto più ora che tutti gli ossequienti amici e colleghi, petulanti sollecitatori di attenzioni e prebende di ogni sorta, hanno voltato le spalle, fuggendolo come un appestato, a colui che essi hanno in assoluta maggioranza liberamente scelto perché esprimesse – per quasi un decennio! – il vertice della magistratura associata. Ma l’atto finale di questo ad un tempo feroce e grottesco rito esorcistico non poteva scegliere momento migliore che ne esaltasse, in un’abbacinante controluce, l’insostenibile paradosso. Si applaude infatti a quella radiazione mentre la magistratura italiana, fin nei sancta sanctorum che l’hanno eroicamente rappresentata per decenni, è dilaniata – ed anzi, si dilania – tra ricorsi e controricorsi al Tar che delegittimano vertici di Procure importantissime, volantinaggi di verbali di indagine (in word, a quanto pare fa la differenza), giudici che nelle sentenze accusano i pm di aver nascosto prove al fine di favorire l’accusa, altri che lumeggiano favori a presunte loggette massoniche, altri ancora che tolgono fascicoli al gip se questi respinge le richieste della Procura, mentre un provvedimento disciplinare proposto dalla Procura Generale della Cassazione viene respinto a furor di popolo magistratuale, che insorge pubblicamente, solidale con il proscrivendo Pm, due giorni prima della decisione del Csm. Insomma, mentre prende corpo con inquietante precisione la ben nota profezia (o piuttosto anatema) di Francesco Cossiga («finiranno ad arrestarsi tra di loro»), la magistratura italiana non trova di meglio da fare che espellere con disonore il suo già segretario nazionale, presidente nazionale ed infine consigliere superiore. Sarà bene ricordare i termini nei quali quell’accusa disciplinare è stata accortamente sagomata. Palamara non viene processato ed espulso per essere stato l’incontestato ed anzi incensato interprete di un sistema degenerato di correnti e di potere (con annesse, frenetiche attività di “autopromozione” delle carriere), cioè per quei comportamenti che indignano l’opinione pubblica e ne sollecitano la più ferma censura; ma per avere, nella specifica occasione della imminente nomina del Procuratore Capo di Roma, coinvolto in alcune riunioni serali, perfettamente identiche a centinaia di altre tenutesi per centinaia di altre nomine per decenni, anche un politico in quel momento indagato da quella stessa Procura, e dunque indebitamente interessato alla manovra. Così, il dedalo inestricabile di chat, incontri, pranzi, cene, raccomandazioni di ogni risma, che ha riguardato un impressionante numero di magistrati di tutta Italia e pressoché le nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari del Paese negli ultimi dieci anni almeno, è rimasto prudentemente fuori da ogni censura disciplinare. Lì, se male non ho compreso, ce la siamo cavata con il mea culpa, e l’impegno morale ed etico al riscatto. Lo scandalo Palamara, quello che merita la radiazione (e solo la sua), è l’interlocuzione con il politico inquisito e dunque presumibilmente interessato a quella specifica nomina. Non mi intendo di giustizia disciplinare, ma converrete con me che questo esito appare francamente paradossale. Non voglio cadere in semplificazioni eccessive, comparando fatti e comportamenti così, un po’ alla carlona. Ma insomma, mi verrebbe difficile provare un sentimento di censura inferiore a quello che devo certamente riferire alle cene promiscue all’hotel Champagne, se mi trovassi a giudicare – chessò, faccio il primo esempio che mi viene a tiro- pubblici ministeri che sottraggano al Giudice (al Giudice!) prove o principi di prova della indole calunniosa del principale teste di accusa. Forse saprete che tra le tante fesserie che ci vengono propinate per contrastare l’idea della separazione delle carriere, va molto di moda quella della cultura della giurisdizione (cioè della prova) che deve animare il Pm, tanto più che una norma lo obbliga (lo obbligherebbe, meglio) a raccogliere prove anche a favore dell’indagato (“ciao core”, chioseremmo romanescamente). Ora, se un Pm, sollecitato per di più da un collega del suo stesso ufficio ad approfondire la calunniosità del principale teste di accusa, dice più o meno: “beh no, prima portiamo a casa la sentenza di condanna e salviamo l’inchiesta, poi si vede”, commette un fatto così sideralmente, incomparabilmente meno grave delle cene di Palamara all’hotel Champagne? Evidentemente è così, non c’è che dire, non c’è altra spiegazione. O c’è?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Marco Antonellis per tpi.it il 12 agosto 2021. Era il lontano 2008: Palamara era uno dei tanti magistrati, appena assurto agli onori della cronache per essere da poco arrivato ai vertici dell’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati. Cossiga, uno che in fatto di magistratura (e non solo) la sapeva più lunga di tutti non perse occasione di asfaltarlo. “Teatro” fu il canale all news di Sky, all’epoca diretto da Emilio Carelli, poi divenuto grillino e poi altro ancora. Alla domanda della conduttrice Maria Latella sulle dimissioni dell’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, spinto a lasciare l’incarico per un’inchiesta a suo carico, aveva spiegato il ruolo della magistratura nella vicenda. A un certo punto la trasmissione viene interrotta dall’intervento dell’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, che immediatamente attacca Palamara con un sequenza di insulti e commenti al vetriolo. “Ha la faccia da tonno. I nomi esprimono realtà. Lui si chiama Palamara come il tonno. La faccia intelligente non ce l’ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere…”, afferma Cossiga. Palamara resta in silenzio e Cossiga rincara la dose: “Mi quereli, mi diverte se mi querela…”. Cossiga sul finale si rivolge direttamente alla conduttrice: “Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare i magistrati con quella faccia alle tue trasmissioni per carità. L’associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso”. Questo l’antefatto, ormai passato alla “storia” del costume politico e giudiziario di questa nostra travagliata repubblica. A distanza di più di un decennio torniamo a chiedere conto dell’episodio a Luca Palamara, nel frattempo radiato dalla magistratura, candidato alle elezioni politiche suppletive nonché scrittore di best seller assieme al neo direttore di Libero Alessandro Sallusti.

Nel 2008, lei e l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, avete avuto un duro scontro in tv. A distanza di anni, non crede che le vostre posizioni non fossero poi così distanti sulla magistratura?

È ovvio che nell’immediatezza, come ho sempre detto, furono parole che mi colpirono soprattutto sul piano personale. Col senno di poi, dal punto di vista politico, quelle parole hanno costituito una sferzata critica nei confronti del nostro mondo perché fotografavano, anche da chi aveva vissuto direttamente nel rapporto tra il presidente della Repubblica e il Csm, quella che era la realtà interna: il corporativismo e l’eccesso di chiusura che caratterizzava il mondo della magistratura. A distanza di tanti anni posso dire che anche quelle parole hanno costituito uno stimolo nella mia riflessione critica, soprattutto rileggendo quello che voleva fare Cossiga all’epoca con il Csm. 

Lei si è messo in testa di voler cambiare la magistratura. Crede sia un’impresa veramente possibile in Italia.

Si, ci credo veramente. Mi rendo conto che ciò è possibile sia quando incontro i cittadini e sia perché sono sicuro che anche all’interno vi sia una voglia di cambiamento. Come tutti i processi di cambiamento c’è necessità di tempo e di coraggio.

Non si parla mai dei concorsi per entrare in magistratura. È tutto così trasparente o, come spesso accade per la selezione di altri profili professionali, anche nei concorsi per magistrati c’è qualcosa che andrebbe rivisto?

Questo è uno dei grandi temi. Io posso dire che quando ci si laurea in Giurisprudenza il concorso in magistratura rimane uno dei concorsi più ambiti e difficili da superare. È ovvio che, soprattutto quando c’è un ampliamento forte degli ingressi, si rischia di abbassare il profilo quantitativo. Io mi auguro e spero che le nuove generazioni ancora di più riescano ad avviare il processo del cambiamento, però indubbiamente anche le modalità di svolgimento del concorso necessitano di trasparenza. Così come dovrà essere trasparente qualunque richiesta di incarico direttivo. Mi pare evidente che ormai non si può più auto raccomandarsi, una prassi che mi auguro sarà estesa a chiunque farà domande che implicheranno decisioni del Csm.

Luca Palamara: «Col senno di poi, Cossiga aveva ragione…» L'ex magistrato, Luca Palamara, oggi candidato per le elezioni suppletive per la Camera dei Deputati, torna sullo scontro che ebbe anni fa con Cossiga. Il Dubbio il 17 settembre 2021. Il ritorno di Luca Palamara. L’ex magistrato, radiato dal Csm, dopo l’inchiesta della procura di Perugia, in un’intervista rilasciata al quotidiano “Cultura identità”, tuona contro chi l’ha costretto a lasciare la toga. L’ex pm della procura di Roma, tuttavia, vuole intraprendere una nuova carriera: quella politica. E’ candidato infatti alle elezioni suppletive per la Camera dei Deputati per i cittadini residenti a Primavalle, Boccea, Trionfale, Aurelio, Bravetta, Pisana, Casalotti, Montespaccato, Casetta Mattei, Corviale.

Le parole di Luca Palamara. «Io fuori dalla magistratura? Non è una cosa definitiva. Porterò all’ attenzione dell’Europa la mia vicenda. Le sentenze si rispettano, ma questa sentenza non la condivido perché ritiene illecita la cena per il procuratore di Roma, mentre ritiene lecita la cena per il presidente del Csm Ermini, nonostante le persone a quei due tavoli fossero le stesse. È una ingiusta disparità di trattamento». Poi spiega i motivi che lo hanno portato a scrivere il libro “Il Sistema” con il giornalista, Alessandro Sallusti. «Per un dovere di verità e di chiarezza ho ritenuto di dover raccontare il funzionamento dei meccanismi interni alla magistratura, il ruolo delle correnti e gli accordi che precedono le nomine squarciando il velo di ipocrisia che aveva caratterizzato la vicenda che mi ha riguardato. In queste settimane di intensa campagna elettorale ho battuto in lungo e in largo il territorio per far conoscere la mia storia e ho trovato che molte persone già la conoscevano e mi facevano domande ed erano interessate a saperne di più». 

Lo scontro con l’ex presidente della Repubblica. L’intervista, infine, ricade sulle parole del compianto presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che tanti anni fa a Skytg24 criticò Palamara. «Con il senno di poi quelle osservazioni che faceva il Presidente Cossiga volevano in realtà essere uno stimolo di critica allo sconfinamento dell’attività giudiziaria sul terreno della politica. In quel momento però per rispetto decisi di non replicare al Presidente Cossiga sapendo che era solito eccedere nelle sue esternazioni». E aggiunge: «Nonostante formalmente difesi la magistratura che rappresento, di fatto le affermazioni di Cossiga furono per me una sferzata a riflettere sulle ragioni per cui la magistratura appariva agli occhi esterni eccessivamente politicizzata».

Bari, in 29 «omissis» le verità dell’ex gip De Benedictis. Le rivelazioni di De Benedictis: ha parlato di persone estranee all’indagine per mazzette. Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2021. La parola più ricorrente nei verbali dell’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis non è «corruzione», piuttosto che «tangenti» come ci si aspetterebbe per una brutta storia di soldi in cambio di scarcerazioni facili. Il vocabolo che rimbalza di più è infatti «omissis», formula latina utilizzata negli atti giudiziari per non fare emergere circostanze che al momento, per esigenze investigative, devono rimanere segrete. Se si aggiunge che dagli interrogatori emerge come il magistrato molfettese abbia anche depositato un suo memoriale, facile intuire che la vicenda nel suo complesso non è affatto conclusa. Ma procediamo con ordine. Ben 25 pagine sono interamente barrate con la parola «omisiss» che rimbalza spesso negli interrogatori, complessivamente per 29 volte. Una evidente conferma sul fatto che, oltre l’inchiesta formalmente chiusa per corruzione in atti giudiziari, che vede tra gli indagati una dozzina di persone tra cui De Benedictis e l’avvocato barese Giancarlo Chiariello, la Procura di Lecce è al lavoro su altro. Quanto al filone concluso, ricordiamo, nel mirino dei carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Bari che hanno condotto le indagini, sono finiti quattro episodi di corruzione in atti giudiziari, presunte tangenti che sarebbero state versate dall’avvocato Chiariello al giudice De Benedictis, per la scarcerazione di Ippedico, Dello Russo, Gianquitto e Della Malva. De Benedictis il 9 aprile fu sorpreso in flagranza dopo aver ricevuto dei soldi da Chiariello. Nella abitazione del giudice furono trovati circa 60mila euro in contanti, in casa di Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo e anche lui indagato, furono trovati invece 1,2 milioni in due zaini. Negli interrogatori fiume il magistrato molfettese ha fornito una serie di spunti investigativi adesso al vaglio dei pm che hanno preferito chiudere la vicenda sui clamorosi arresti dello scorso aprile per andare avanti su altro. In un passaggio, per fare un esempio, il pm salentino Alessandro Prontera, si rivolge all’indagato De Benedictis dicendo: «Le chiedo espressamente, reati che ha commesso eventualmente da confessare? Oltre a questi?» Segue un omissis. Una scena che si ripete anche oltre. «Ora su altri fatti le vuole aggiungere adesso? O vuole che poi ci rivediamo, faccia mente locale», chiede il magistrato inquirente. Anche qui spunta un altro omissis: evidentemente copre dichiarazioni in cui si parla di questioni (e persone) estranee al motivo dell’arresto. Prendiamo anche il passaggio in cui il magistrato molfettese indagato per corruzione in atti giudiziari chiarisce alcuni passaggi sulla vicenda Soriano, il carabiniere accusato di divulgazione di atti coperti da segreto. Il militare in servizio nella Procura di Bari si sarebbe attivato illecitamente per sapere il più possibile sull’indagine in corso su Chiariello e che nei mesi successivi si sarebbe abbattuta come un ciclone anche su De Benedicitis che aveva chiesto al Csm di dimettersi dalla magistratura. «Consegnò a Chiariello il verbale di Oreste (un pentito, ndr); non credo che Soriano gli consegnò anche il verbale di Milella (un altro pentito, ndr) anche se lo informò delle sue dichiarazioni», dice De Benedictis. Nel rigo successivo, c’è un nuovo omissis. L’ex gip di Bari, poi, nega di avere avuto mazzette da due avvocati, uno deceduto, l’altro che a suo dire «in realtà per quello mi risulta millantava in giro rapporti corruttivi con i giudici per ottenere più soldi dai clienti». Anche qui, via con l’omissis che precede un passaggio molto significativo. L’interrogatorio tenuto il 10 giugno scorso nel carcere di Lecce volge al termine, ma prima di chiudere il verbale si dà atto del deposito di un memoriale scritto da De Benedictis. Le sue verità vengono riposte all’interno di una busta chiusa, controfirmata a penna dallo stesso indagato. Il fascicolo bis riparte anche da qui: una valanga di omissis e il memoriale.

IL CSM ESPELLE DALLA MAGISTRATURA IL GIP DE BENEDICTIS CHE SI ERA DIMESSO. Il Corriere del Giorno il 13 Ottobre 2021. L’accettazione da parte del Csm delle dimissioni di De Benedictis determinerà un beneficio erariale per lo Stato, in quanto l’assegno non sarà più versato e la pensione arriverà soltanto quando l’ex giudice raggiungerà l’anzianità pensionistica prevista. Giuseppe De Benedictis, l’ex gip di Bari arrestato ad aprile per corruzione in atti giudiziari e detenzione di un arsenale da guerra, da oggi non è più un magistrato. Lo ha deciso il plenum del Csm, a maggioranza con 8 astensioni, dopo che la quarta commissione del Consiglio superiore della magistratura aveva accolto la sua richiesta di dimissioni, nonostante un procedimento disciplinare pendente a suo carico , considerando l’ “evidente e primario interesse dell’amministrazione a far cessare il rapporto di servizio con una persona la cui presenza nell’ordine giudiziario compromette in modo significativo il prestigio dell’ordine stesso“. I fatti dei quali è accusato De Benedictis dalla Procura di Lecce, secondo i consiglieri del Csm sono talmente gravi da esercitare un veloce allontanamento dalla magistratura nonostante la ritualità prevederebbe che la decisione venga adottata soltanto all’esito dei procedimenti penale e di quello disciplinare. Ma in questo caso è stato proprio l’ormai ex-magistrato De Benedictis a decidere di lasciare la magistratura, subito dopo che lo scorso 9 aprile i militari del Nucleo investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Bari lo avevano fermato fuori dallo studio dell’avvocato Giancarlo Chiariello, con in tasca 5mila 500 euro. A seguito della perquisizione effettuata nella sua abitazione di Molfetta erano stati scoperti ben 57mila 700 euro in contanti occultati dietro delle prese elettriche. De Benedictis in una conversazione telefonica intercettata lo stesso 9 aprile mentre parlava con un amico di Altamura diceva: “Chiariello stava puntato, mi sono dimesso per evitare il carcere, speriamo che mi diano i domiciliari”. Le sue dimissioni non bastarono a sfuggire alla custodia cautelare che venne trasformata a luglio in arresti domiciliari per la corruzione ma non per il possesso del più consistente deposito di armi mai rinvenuto dall’ Autorità Giudiziaria, come affermò il procuratore capo della Procura di Lecce dr. Leone de Castris, né l’avvio del procedimento disciplinare, che era stato avviato lo scorso 14 aprile congiuntamente dalla Procura Generale della Cassazione e dal Ministero della Giustizia e il 14 aprile, a seguito della notizia proveniente dalla procura di Lecce dell’arresto e della successiva perquisizione. Il Csm aveva disposto a seguito dell’ordinanza cautelare, come di prassi, la sospensione cautelare dalle funzioni del De Benedictis e dallo stipendio collocandolo fuori organico. La stessa azione disciplinare è stata poi replicata per la questione delle armi nascoste nella masseria di Andria di un suo amico e sodale. La presenza della richiesta di dimissioni del De Benedictis, continuava ad incombere assieme tutte le conseguenze collegate e di cui l’ ex-magistrato era perfettamente a conoscenza, come si evinceva dalle conversazioni telefoniche intercettate, in cui diceva ad un amico : “Il problema è che io adesso ho 38 anni di contributi , ma ce ne vogliono 43 per prendere la pensione e non li posso neanche pagare io perché è proibito ai dipendenti pubblici, quindi devo trovare un altro lavoro che mi fa cinque anni di contributi“. Nei calcoli effettuati fatti dai magistrati componenti della IVa Commissione del Csm hanno influito però anche altre valutazioni, e cioè la circostanza che l’accettazione delle dimissioni di De Benedictis non fa decadere l’interesse del Csm a portare avanti il procedimento disciplinare, in considerazione che quanto accaduto, scrivono “ha causato un rilevante danno all’immagine e al prestigio della magistratura (visto anche il significativo clamore mediatico)”. Ma anche l’evidenza che De Benedictis percepisce attualmente dal Ministero di Giustizia l’assegno alimentare previsto per non lasciare i magistrati sospesi privi di sostentamento, e che, in caso di assoluzione (circostanza possibile, ma quasi irreale sulla base delle evidenze probatorie degli inquirenti) avrebbe potuto chiedere gli arretrati e l’adeguamento della pensione. La Quarta commissione ha evidenziato questa situazione, come si legge nel documento che il CORRIERE DEL GIORNO pubblica in esclusiva : ” De Benedictis non potrà accedere al trattamento pensionistico, non avendo maturato i prescritti requisiti né per limiti di età ( 70 anni, e lui ne ha 59) né per anzianità di servizio, che per gli uomini corrisponde a 43 anni di contributi e lui ne ha 36“. L’accettazione da parte del Csm delle dimissioni di De Benedictis, secondo il Csm “determinerà un beneficio erariale per lo Stato“, in quanto l’assegno non sarà più versato e la pensione arriverà soltanto quando l’ex giudice raggiungerà l’anzianità pensionistica prevista.

Toghe arroganti, pure nella crisi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Agosto 2021. Quando la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica fu travolta dalle indagini giudiziarie non provò neppure a difendersi. Certo, Craxi buttò lì che Mario Chiesa era solo un “mariuolo”, e poi in parlamento fece quel suo discorso sul finanziamento illegale conosciuto e praticato da tutti, ma furono modesti e isolati espedienti di resistenza in un panorama di generale abdicazione: e perlopiù i dirigenti di quei partiti politici seguivano il consiglio dei loro avvocati, cioè fare le scale del Palazzo di Giustizia di Milano e presentarsi incurvi davanti ai pm per confessare. Viene in mente quell’andazzo, ora che scandali non meno gravi coinvolgono proprio quelli che guidarono la rivoluzione giudiziaria che ha distrutto quei partiti politici. Questi erano titolari di un potere vituperato, ma che comunque poteva vantare una specie di accreditamento e, dopotutto, una parvenza di addentellato costituzionale: i magistrati, no. I Magistrati esercitavano allora, e in buona misura esercitano ancora, un potere adulato, e completamente estraneo al limite costituzionale. E questo spiega perché, pur a fronte delle gravissime e sistematiche ragioni di malversazione che ne viziano la struttura, l’organizzazione giudiziaria reagisce facendo finta di nulla. Il pallido riflesso di responsabilità che ancora connotava il contegno dei partiti politici, e li obbligava ad allargare le braccia di fronte all’evidenza della propria inadeguatezza, è completamente assente nei comportamenti della magistratura corporata, la quale oppone all’accusa che la riguarda la noncuranza del potere arbitrario, l’arroganza del potere usurpato, la violenza del potere senza fondamento di diritto. Non c’è neppure il segno del potere corrotto, nell’indifferenza della magistratura: c’è quello del potere golpista. Iuri Maria Prado 

Dal "Corriere della Sera" il 29 ottobre 2021. Convocato dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, anche l'ex parlamentare di Forza Italia Denis Verdini ha negato l'esistenza della «loggia Ungheria» rivelata dall'avvocato Piero Amara. O quantomeno di farne parte. Sia Verdini che Amara sono detenuti (il primo ai domiciliari, il secondo in carcere) per scontare le rispettive condanne, uno per bancarotta e l'altro per corruzione. A Perugia sono entrambi indagati per appartenenza ad associazione segreta, ma mentre Amara si è autoaccusato chiamando in causa molti altri nomi, Verdini sostiene che gran parte di ciò che l'avvocato ha detto sul suo conto non è vero, fornendo ai pm una diversa ricostruzione dei fatti che lo riguardano. Amara aveva detto che molti presunti appartenenti alla loggia gli erano stati indicati proprio da lui. Compresi alcuni magistrati con cui si sarebbero incontrati alla galleria Sordi di Roma: «Io sapevo già che eravamo tutti legati a Ungheria, e il tenore della conversazione non lasciò equivoci sulla comune appartenenza». I magistrati avevano già escluso l'incontro, che ieri ha negato pure Verdini.

(ANSA il 20 ottobre 2021) - Denis Verdini è indagato dalla Procura di Perugia nell'ambito dell'indagine sulla presunta loggia segreta Ungheria. Violazione della legge Anselmi l'accusa che gli è stata contestata come riporta oggi Il fatto. Verdini sarà sentito nei prossimi giorni dai magistrati del capoluogo umbro. Secondo quanto risulta all'ANSA nell'indagine nata in seguito alle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara ci sarebbero anche altri iscritti nel registro degli indagati. Sempre per la violazione della legge Anselmi. Su quante siano le iscrizioni e chi riguardino la procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone mantiene un riserbo assoluto. L'indagine con la quale si sta riscontando la veridicità o meno delle dichiarazioni dell'avvocato Amara è infatti ancora in pieno svolgimento. Inizialmente a Perugia le iscrizioni nel registro degli indagati erano rimaste quelle originarie fatte dai pubblici ministeri di Milano per la violazione della 'legge Anselmi' sulle associazioni segrete che poi hanno inviato gli atti ai magistrati del capoluogo umbro. Questi hanno compiuto successivamente diversi atti e i pubblici ministeri avrebbero anche nuovamente sentito l'avvocato Amara, già in carcere per un'inchiesta dei pm di Potenza. Non è però chiaro se gli ultimi sviluppi siano legati alle ulteriori indagini svolte.

L'iscrizione della procura di Perugia. Denis Verdini indagato per la loggia Ungheria: “Violazione della legge sulle associazioni segrete”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Denis Verdini è indagato dalla Procura di Perugia nell’ambito dell’indagine sulla loggia segreta Ungheria: la presunta loggia di potere che stando al racconto dell’avvocato siciliano Piero Amara riunirebbe vertici della magistratura, delle forze dell’ordine, avvocati, imprenditori e via dicendo. L’accusa contestata all’ex senatore, secondo Il Fatto Quotidiano, è di violazione della Legge Anselmi sulle associazioni segrete. L’Ansa riporta che l’indagine sarebbe nata in seguito alle dichiarazioni di Amara e ci sarebbero anche altri iscritti nel registro degli indagati. Stretto riserbo da parte della Procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone. Verdini sarà ascoltato nei prossimi giorni dai magistrati del capoluogo umbro. È agli arresti domiciliari per scontare la pena di sei anni e sei mesi per la bancarotta dell’ex Credito cooperativo fiorentino. Il gup di Roma ha condannato Verdini a fine settembre a un anno di carcere per turbativa d’asta nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Assolto dall’accusa di concussione. Ancora in pieno svolgimento le indagini sulla veridicità o meno delle dichiarazioni dell’avvocato Amara. Inizialmente a Perugia le iscrizioni nel registro degli indagati erano rimaste quelle originarie fatte dai pubblici ministeri di Milano per la violazione della legge Anselmi. Successivamente i magistrati hanno compiuto diversi atti e sarebbe stato sentito nuovamente l’avvocato Amara, già in carcere per un’inchiesta dei pm di Potenza sulle Procure di Trani e Taranto in Puglia. “Verdini mi ha presentato diverse persone che appartengono all’associazione”, avrebbe raccontato Amara alla Procura di Milano. Non è chiaro se gli ultimi sviluppi siano legati alle ulteriori indagini svolte. I primi tre indagati erano stati Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro. Il Fatto Quotidiano aveva pubblicato già il mese scorso alcuni verbali e nomi di alcuni membri della presunta loggia. Amara tra il dicembre 2019 e il 2020 nell’ambito delle indagini sul cosiddetto “Falso Complotto Eni” aveva raccontato di questa Loggia ai Sostituti Procuratori di Milano Paolo Storari e Laura Pedio. Storari fu spinto da una supposta pigrizia della Procura di Milano nell’affrontare il caso a passare i verbali, in formato word, all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo. Davigo, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, avrebbe quindi parlato in via informale dei verbali e del caso con il vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura David Ermini, altri cinque membri del Csm, con il procuratore generale Giovanni Salvi, il presidente della Cassazione Pietro Curzio e con il senatore Nicola Morra. Il caso è esploso quando quei verbali furono inviati a due giornali (La Repubblica e Il Fatto Quotidiano) e dopo la denuncia in consiglio del membro del Csm Nino Di Matteo. Indagata per calunnia la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto. La Procura di Brescia ha da poco chiuso le indagini: chiesta l’archiviazione per il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco, indagato per omissioni di atti d’ufficio. Ieri Il Corriere della Sera ha pubblicato le testimonianze botta e risposta tra Greco e Salvi: sempre divergenti su tempi e contenuti delle loro conversazioni sul caso della loggia Ungheria. Un’altra mina dopo l’uragano del Palamaragate sulla magistratura.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 20 ottobre 2021. Luigi Bisignani è iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta sulla fantomatica loggia Ungheria svelata dall’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. L’imprenditore e giornalista, già iscritto alla P2, condannato per la maxitangente Enimont e travolto qualche anno fa dall’indagine sulla P4, è anche lui indagato per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Insieme – come ha raccontato ieri il Fatto Quotidiano – all’ex senatore (oggi ai domiciliari) Denis Verdini, che dovrebbe essere sentito a fine mese dal capo della procura di Perugia Raffaele Cantone e dai sostituti che stanno cercando da mesi di verificare se le accuse di Amara hanno fondamenti di verità oppure no. Bisignani è stato interrogato ieri. In passato, quando il suo nome è stato tirato in ballo da Amara, smentì seccamente la conoscenza della loggia: «L’unica cosa che mi viene in mente è il bar Hungaria dove negli anni ’70 facevano i più buoni panini di Roma. Quando uscivo dall’Ansa mi tenevano sempre un tavolo», disse. Davanti ai magistrati ha ripetuto non solo di non aver mai fatto parte della presunta loggia, ma di non averla mai nemmeno sentita nominare. Non ha potuto negare di aver avuto rapporti con Amara, spiegando ai magistrati che l’avvocato era stato introdotto da Verdini ma ridimensionando le dichiarazioni fatte dal “soldato” di Ungheria. Secondo Amara, infatti, fu lo stesso Verdini a dirgli che l’uomo che un tempo sussurrava ai potenti era un affiliato dell’associazione segreta. «Il rapporto con Bisignani è stato caratterizzato da grande confidenza e Verdini mi ha presentato diverse persone che appartengono all’associazione» dice ai pm di Milano a dicembre 2019 l’ex legale oggi detenuto nel carcere di Terni. «Da Verdini ho appreso che anche Bisignani è un appartenente di Ungheria e lo stesso mi disse Michele Vietti (secondo Amara uno dei capi della loggia, Vietti ha annunciato querela per calunnia, ndr). Con Bisignani ho avuto rapporti diretti». Amara è stato reinterrogato da Cantone e i suoi uomini in carcere la scorsa estate, e ha confermato le sue ricostruzioni. Non è certo che le nuove iscrizioni di Verdini e Bisignani siano legate a nuovi elementi su Ungheria (quasi tutti i “carotaggi” effettuati finora dagli inquirenti sull’esistenza dell’associazione segreta hanno dato esito negativo) oppure se si tratta di una mossa della procura per interrogare gli indagati e avviarsi così a una rapida chiusura delle indagini. Amara ha parlato di Bisignani soprattutto in riferimento all’Eni, e in merito al processo che vedeva coinvolto l’amministratore delegato Claudio Descalzi (assolto nel dibattimento «perché il fatto non sussiste») e il suo grande accusatore, Vincenzo Armanna. Il testimone principale di Fabio De Pasquale difeso dall’avvocato Fabrizio Siggia, uomo che secondo Amara sarebbe tra gli appartenenti di Ungheria, come peraltro il suo cliente. «Siggia ha avuto un ruolo importante nella gestione di Armanna perché – per quello che mi riferiva Bisignani – era molto vicino all’Eni e svolgeva attività costante per ricondurre Armanna all’ovile (cioè farlo ritrattare). So che Siggia e Bisignani hanno avute molte interlocuzioni e sono molto amici», dice ancora Amara a Laura Pedio e Paolo Storari a fine 2019. L’avvocato di Siracusa sostiene pure che con Bisignani abbia più volte discusso a tu per tu dell’andamento de processo sul giacimento in Nigeria chiamato OPL 245 che ha visto per anni Eni, Shell e tredici imputati (Bisignani compreso) accusati a vario titolo di corruzione internazionale per una presunta tangente da 1,1 miliardi di dollari versato a membri del governo africano per accaparrarsi la concessione. Un’ipotesi grave ma smontata nel processo di primo grado. Nell’ambito delle loro conversazioni il legale avrebbe spiegato a Bisignani di avere il «controllo totale» di Armanna. Aggiungendo che, di fatto, il testimone che era stato comprato e avrebbe ritrattato le accuse contro l’Eni. «Bisignani non si fidava e temeva che Armanna avrebbe poi potuto prendere posizioni autonome seguendo sue logiche e suoi interessi». Amara spiega nei dettagli altre interlocuzioni con l’ex sodale di Gianni Letta. «Bisignani rimproverava a Descalzi di non aver saputo gestire Armanna, lamentandosi del fatto» che il manager avrebbe seguito «solo i suoi interessi, abbandonando le persone che avevano collaborato con lui e, come nel caso di Bisignani, lo avevano aiutato a diventare amministratore delegato di Eni». Secondo Amara Bisignani usava un’espressione ricorrente: «Diceva: “se vai a rubare con il palo, poi non lo puoi abbandonare”. È in questo contesto che Bisignani mi ha riferito che Armanna era stato posato». Cioè, secondo i racconti dell’avvocato siciliano, affiliato a Ungheria. Le dichiarazioni di Amara affidate ai magistrati meneghini sono state rilasciate tra fine 2019 e inizio 2020, ma non sono state ieri oggetto di interrogatorio da parte dei colleghi di Perugia, titolari oggi del fascicolo sulla loggia. Le domande si sono concentrate solo su Ungheria: Cantone e i pm Mario Formisano e Gemma Miliani voglio infatti percorrere ogni strada possibile per verificare la sussistenza della presunta associazione, analizzando indizi e le varie vicende raccontate da Amara, sulla cui attendibilità i dubbi dei pm umbri non si sono mai sopiti. Un lavoro complesso: dopo la guerra interna alla procura di Milano sulla gestione del pentito e la fuoriuscita dei verbali dopo il passaggio di carte da Storari a Piercamillo Davigo, effettuare indagini su un reato ontologicamente arduo da provare (come quello associativo) è operazione improba. Sono previsti comunque nuovi interrogatori di Verdini e, a inizio dicembre, un nuovo incontro – forse decisivo – tra Cantone e Amara. Se non verranno fuori nuovi elementi, è possibile che i magistrati decidano di chiudere entro l’anno le indagini sulla misteriosa associazione segreta.

Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2021. Quando si parla di logge segrete o «coperte», vere o presunte che siano, è difficile non imbattersi nel nome di Luigi Bisignani, 68 anni appena compiuti, giornalista e autore di romanzi di spionaggio riconvertitosi in lobbista e «uomo di relazioni» nel sottobosco del potere romano. Dopo la P2 (compariva negli elenchi, tessera numero 1689, sebbene lui abbia sempre negato l’iscrizione a quella e altre consorterie massoniche) fu coinvolto nell’inchiesta napoletana sulla cosiddetta P4 (ha patteggiato una pena lieve), e adesso in quella sulla Loggia Ungheria svelata dall’avvocato Piero Amara. Sempre che esista. Bisignani è indagato, insieme ad Amara e altri, per violazione della legge che vieta le associazioni segrete, e ieri è stato interrogato a Perugia dal procuratore Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. Negando l’adesione alla presunta loggia: «Ne ho sentito parlare per la prima volta dai giornali che riportavano le affermazioni di Amara». L’avvocato siciliano — oggi in carcere dopo una condanna per corruzione — rivelò alla Procura di Milano, a dicembre 2019, di far parte di una «loggia coperta» che raccoglieva politici, imprenditori magistrati e altri esponenti delle forze di polizia. E in uno degli interrogatori (poi divenuti oggetto di scontro tra i pm milanesi, con successiva «fuga di verbali» approdati al Csm e nelle redazioni dei giornali) disse: «Da Denis Verdini ho appreso anche che Luigi Bisignani è un appartenente a Ungheria.... Con Bisignani ho avuto anche rapporti diretti». L’ex giornalista ha spiegato di conoscere da tempo Verdini, l’ex parlamentare di Forza Italia ora in detezione domiciliare per scontare una condanna per il crack del Credito fiorentino, e che questi effettivamente gli presentò Amara. Ma senza accenni ad alcuna loggia. Poi lui e Amara si sono incontrati in altre occasioni, soprattutto per parlare di Eni-Nigeria, il processo milanese nel quale pure Bisignani era imputato, assolto in primo grado come gli altri. Come lui, anche Verdini è indagato per l’ipotetica adesione a «Ungheria», e sarà ascoltato dai pm la prossima settimana. Di lui Amara ha parlato a lungo, intrecciando presunti interessamenti nelle nomine ai vertici di alcuni uffici giudiziari con altre vicende, comprese alcune che lo riguardavano molto da vicino. «Produco un appunto manoscritto in originale redatto da Denis Verdini, consegnatomi nel concorso di un incontro con lui — disse nel verbale del 14 dicembre 2019 —. Nell’appunto Denis mi scrive le dichiarazioni che avrei dovuto rendere nel processo a suo carico a Messina per finanziamento illecito». Si tratta del dibattimento dove l’ex parlamentare è imputato per circa 300.000 euro ricevuti proprio da Amara, in cambio dell’interessamento per la nomina di un giudice al Consiglio di Stato, che poi non avvenne. E sempre a proposito di logge segrete, Verdini è stato accusato di aver fatto parte della cosiddetta P3, scoperta e processata a Roma, ma per quel reato è stato assolto. Le iscrizioni sul registro degli indagati con l’ipotesi di appartenenza a «Ungheria» dovrebbero essere arrivate a sette: oltre ad Amara e ai suoi coimputati nei processi siciliani Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, ci sono Verdini, Bisignani e altri due. Si tratta dei nomi fatti da Amara sui quali i pm perugini hanno deciso di fare accertamenti sentendo la loro versione dei fatti; e ritenendo di non poterli sentire come testimoni li hanno convocati avvisandoli di andare con difensore. Per questo Bisignani era accompagnato dall’avvocato Fabio Lattanzi. La prossima settimana toccherà a Verdini. Mentre mandano avanti le indagini per verificare l’eventuale esistenza dell’associazione segreta, i pm di Perugia hanno anche inviato a Milano — d’accordo con quella Procura — le denunce per calunnia contro Amara presentate da coloro che hanno letto il loro nome nei verbali che l’avvocato siciliano ha sottoscritto in quella città. Corredate, nei casi in cui è stato possibile raccoglierli, dai riscontri negativi alle dichiarazioni di Amara. Tra gli atti trasmessi, quelli sul comandante generale della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana.

(ANSA il 30 novembre 2021) - L'ex senatore Denis Verdini è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire in solido con due società e con i vertici delle stesse, 8,6 milioni di euro alla Presidenze del Consiglio dei Ministro. Nel dettaglio, secondo quanto riportato oggi La Nazione, la Corte dei Conti ha condannato l'ex senatore Denis Verdini a risarcire 4,8 milioni di euro alla Presidenza del Consiglio, in solido con la Società Toscana di Edizioni (Ste) di cui secondo l'accusa era considerato amministratore di fatto, e con i vertici della società. La citazione in giudizio riguardava un presunto danno erariale collegato ai contributi pubblici percepiti, indebitamente secondo l'accusa, dalla Ste nelle annualità 2008 e 2009, dal fondo per l'editoria presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sempre in base a quanto riporta il quotidiano, insieme a Verdini sono stati condannati in solido al risarcimento la stessa Ste, Massimo Parisi, Girolamo Strozza Majorca Renzi, Pierluigi Picerno, Enrico Biagiotti e Gianluca Lucarelli. Inoltre, Verdini, Parisi, Picerno, Samuele Cecconi e Fabrizio Nucci, più la società Sette Mari Scarl, sono stati condannati a rifondere in solido tra loro 3.846.507 milioni "a titolo di responsabilità principale dolosa", per altri contributi illeciti, percepiti dalla stessa editrice Sette Mari, sempre per il 2008-2009. Durante le indagini, due anni fa la procura presso la Corte dei conti della Toscana aveva anche congelato beni fino a 9 mln a garanzia del credito erariale, con una misura cautelare disposta nei confronti di Verdini e anche dell'ex parlamentare di Forza Italia e Ala Massimo Parisi, soggetto di fiducia di Verdini per le questioni editoriali. Per la bancarotta della Ste Verdini fu condannato nel 2018 in primo grado in sede penale a cinque anni e sei mesi, insieme ad altri amministratori della società. Il processo di appello si sarebbe dovuto aprire il 20 novembre 2020 ma fu aggiornato per la richiesta della procura generale di Firenze di acquisire agli atti la sentenza con cui il 3 novembre 2020 la Cassazione aveva condannato Verdini a 6 anni e 6 mesi per la bancarotta dell'ex banca Credito cooperativo fiorentino, condanna definitiva che sta scontando. Il 10 giugno 2021 la corte di appello ha aperto il processo e lo ha rinviato al 18 febbraio 2022. 

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, il 4 maggio 2020 riferì al Quirinale, non tramite lo staff ma direttamente in un colloquio serale con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quanto l'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo gli aveva confidato circa i verbali segreti dell'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sulla presunta associazione segreta «Ungheria». Ermini lo testimonia alla Procura di Brescia, rimarcando d'aver non voluto leggere, e subito distrutto, i verbali di Amara poi lasciatigli da Davigo. E a ruota delle confidenze di Davigo pure a Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione e membro del Comitato di presidenza Csm, divergono i ricordi negli interrogatori del teste Salvi e dell'indagato procuratore milanese Francesco Greco (poi con richiesta di archiviazione) sia sulla data sia sul contenuto della telefonata di Salvi a Greco nel maggio 2020 a ridosso della prima iscrizione milanese (12 maggio) per i verbali resi da Amara a dicembre 2019. Alla fine del lockdown, racconta il vicepresidente Csm, «Davigo mi invitò giù in cortile, lasciando i telefoni in stanza. Data la complessità del quadro mi suggerì di informare il presidente della Repubblica, perché riteneva giusto che sapesse. In serata, avendo già in mente di andare dal presidente che non vedevo ormai da un paio di mesi, mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico» Stefano Erbani. «Parlai personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il presidente mi ascoltò senza fare commenti». E nessun commento anche ieri dal Quirinale, dove sono caratterizzati da riserbo i colloqui con il capo dello Stato, che peraltro su indagini in corso non può interferire. «Qualche giorno dopo o il giorno dopo», prosegue Ermini, Davigo «aveva una cartellina arancione con fogli di carta. Mi disse: "Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara". Ero molto in difficoltà, averle depositate sulla mia scrivania mi poneva il problema di cosa farne, posto che non intendevo veicolarle al Comitato di presidenza senza una qualunque base di ricevibilità e utilizzabilità, come un esposto o una richiesta. Appena uscito Davigo, cestinai la cartellina. Quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai senza aver preso conoscenza del loro contenuto». I tabulati del telefono di Greco, tra i molti contatti con il pg di Cassazione Salvi, mostrano un lungo sms il 7 maggio e 10 minuti al telefono il 9 maggio. Davigo, dice Salvi, «senza alcun materiale cartaceo mi disse che a suo avviso era necessario che io, quale pg della Cassazione, avessi un chiarimento con il procuratore di Milano, essendosi lì determinato uno stallo dovuto al fatto che, secondo lui, Greco non assumeva alcuna iniziativa che desse impulso alle indagini», e «la Procura, pur a distanza di mesi, neppure aveva iscritto la notizia di reato. Io gli dissi: "Speriamo non ci vadano di mezzo persone per bene. Comunque farò quello che devo fare"». Cioè «chiamai Greco per avere chiarimenti. Mi si chiede se la mia prima telefonata a Greco si collochi tra l'incontro con Davigo» (tra il 4 e 6 maggio) «e il 12 maggio» (prima iscrizione a Milano), e «la cosa è verosimile, ma non posso darne certezza non avendo più quel cellulare». Salvi ricorda «d'avere più che altro sollecitato che le indagini venissero condotte con un certo ritmo. Abbiamo parlato delle iscrizioni e Greco, sia al telefono sia in un incontro nel mio ufficio il 16 giugno 2020, mi spiegò che in realtà non vi era stata da parte loro alcuna inerzia. È possibile io abbia fatto riferimento a Davigo come fonte delle mie informazioni ma non sono sicuro e non ho un ricordo preciso». «Se Salvi ha detto che mi ha chiesto di accelerare l'indagine, di fare le iscrizioni, che Davigo compulsava o Storari si lamentava, se ne assumerà la responsabilità... ma non credo», sbotta Greco nell'interrogatorio trasmesso, come altri atti, agli ispettori del Ministero, a Csm e Cassazione. «Sia nella eventuale telefonata sia nell'incontro il 16 giugno, mai mi ha parlato di Davigo e Storari, e tantomeno di contrasti o indagini». Salvi, sostiene a sorpresa Greco, «era interessato ad avere ulteriori documenti su Mancinetti (consigliere Csm, ndr ), affermando genericamente che circolava voce di una indagine delicata a Milano su diversi magistrati; colpito, ne parlai con Pedio (sua vice, ndr ) esprimendo la preoccupazione della tenuta del segreto». Per Greco non è vero che la telefonata di Salvi sollecitasse indagini e coordinamento con altre Procure: «Io questo lo contesto proprio decisamente, anzi mi meraviglio che abbia detto una cosa del genere. La prima cosa che avrebbe dovuto fare era avvisare che c'era stata una fuga di notizie (...), «mi sono stufato di persone che affermano cose giocando sulla pelle della Procura di Milano e mia, va bene? Va bene? Perché se no qui ognuno che passa dice quello che gli pare, compreso il pg della Cassazione». Per Greco, se l'iscrizione è del 12 maggio, «la maturazione delle scelte avviene tra il 22 ed il 24 aprile, e il 29 aprile convoco una riunione che per motivi non dipendenti dalla mia volontà si tiene l'8 maggio».

Mattarella sapeva dello scandalo toghe. Ermini: "Lo avvisai io". Luca Fazzo il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. La rivelazione del vicepresidente Csm: "Gli rivelai io le confidenze di Davigo". Delle due l'una. O qualcuno molto in alto sta mentendo. O almeno dala fine della primavera, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era a conoscenza dei verbali che rivelavano l'esistenza della loggia paramassonica «Ungheria», di cui avrebbero fatto parte magistrati, alti ufficiali, avvocati, politici, nonché un membro del Consiglio superiore della magistratura, di cui lo stesso Mattarella è il presidente. Ma il capo dello Stato non fa niente, non prende iniziative, non denuncia. Possibile? Per quanto surreale, questo è il quadro che emerge dai verbali - pubblicati ieri dal Corriere della sera - raccolti dalla Procura di Brescia indagando sul grosso pasticcio in cui si trova la Procura di Milano, dove i verbali dell'avvocato Amara che parlavano della loggia sono rimasti impantanati a lungo. A smuovere le acque, in modo un po' scomposto, è a un certo punto il pm contitolare del fascicolo, Paolo Storari, che porta i verbali a Davigo. A Davigo non sembra vero, perché i verbali inguaiano il suo ex amico Sebastiano Ardita, membro del Csm. Davigo li porta ad David Ermini, vicepresidente del Csm. Ed è il verbale di Ermini a tirare in causa il Quirinale. Il racconto che Ermini fa dell'incontro con Davigo è quasi surreale: i due si incontrano, Davigo gli racconta a voce un po' di cose, poi gli mette in mano una cartelletta con la copia dei verbali (anche per questo, la Procura di Brescia vuole portare l'ex dottor Sottile a processo per violazione del segreto d'ufficio). Appena Davigo se ne va, Ermini distrugge i verbali senza neanche leggerli. Poi si precipita al Quirinale e riferisce a Mattarella quanto appreso da Davigo. E qui il racconto si fa quasi incredibile, perché secondo Ermini il presidente non apre bocca. Zero. Scena muta. Ermini scende lo scalone senza avere incamerato un consiglio, un'opinione, un commento. Niente. Ma il silenzio di Mattarella non è l'unico aspetto clamoroso della ricostruzione di Ermini. Del tutto irrituale appare anche la decisione di Ermini (designato alla carica da Matteo Renzi, che ora se ne è pentito e gli dà pubblicamente del fellone) di rivolgersi direttamente al capo dello Stato anziché al suo consigliere giuridico, l'uomo che per tradizione fa da ufficiale di collegamento tra il Colle e il Csm: il potentissimo Stefano Erbani. Nel suo verbale, Ermini non spiega bene il perché della scelta. Anche se sullo sfondo della scena c'è un passaggio non mai chiarito del «caso Palamara»: la cena in cui Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e parlamentare renziano, avvisa Luca Palamara che sul suo telefono potrebbe essere stato piazzato un trojan: indicando come fonte un consigliere del Csm che lo avrebbe saputo proprio da Erbani. Erbani ha reagito annunciando querele per calunnia. Però, messe insieme, le due storie dipingono uno scenario che fosse vero solleverebbe alcune domande. Il Quirinale, tramite Erbani, sapeva dell'indagine su Palamara. Il Quirinale, direttamente nella persona del presidente, sapeva dell'indagine (insabbiata?) su Ungheria. Come si concilia questo con le ripetute dichiarazioni con cui Mattarella ha spiegato di non sapere, non voler sapere e non poter sapere nulla delle indagini in corso? Ieri, dopo la pubblicazione dei verbali di Ermini, si aspetta a lungo una smentita che non viene: né da Mattarella, e nemmeno da Erbani. E tutto si aggroviglia ancora di più, mentre l'inchiesta sulla presunta loggia - in parte ancorata a Milano, in parte a Perugia - continua a non partorire nemmeno un accenno di chiarezza. Un guaio, se la loggia esiste. Un guaio, forse ancora maggiore, se non esiste.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Giulia Merlo per editorialedomani.it il 20 ottobre 2021. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sapeva dell’esistenza della presunta loggia Ungheria. A informarlo, il 4 maggio 2020, era stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini in un colloquio personale. Ma non è stato il solo. Anche Piercamillo Davigo avrebbe informato dei verbali il consigliere giuridico del Colle, Stefano Erbani. Come riporta il Corriere della Sera, che ha pubblicato ampi stralci della sua testimonianza resa davanti alla procura di Brescia nell’indagine per violazione di segreto istruttorio, Ermini ha parlato «personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il presidente mi ascoltò senza fare commenti». Il Quirinale, dunque, era stato messo al corrente del fatto che i magistrati di Milano, Paolo Storari e Laura Pedio, avevano raccolto dei verbali in cui l’ex legale di Eni, Piero Amara, raccontava dell’esistenza di una loggia segreta denominata “Ungheria”, i cui membri erano magistrati, politici, legali e pubblici ufficiali e la cui finalità era pilotare le nomine e incidere sui processi. E anche dei timori che Davigo aveva esposto a Ermini sull’inerzia della procura nell’iscrizione della notizia di reato. Oltre al vicepresidente del Csm però anche Davigo, secondo fonti vicine all’ex magistrato, aveva parlato con il consigliere giuridico del Quirinale, Stefano Erbani. Il colloquio sarebbe stato successivo a quello con Ermini, ma l’argomento sarebbe stato anche la notizia che, esattamente un anno dopo, ha terremotato il Csm e gettato un’ombra sull’operato della magistratura milanese. Come anche Ermini ha chiarito ai magistrati bresciani, Mattarella è rimasto in silenzio davanti alla notizia. Altro non avrebbe potuto fare. Come spiegato da fonti del Quirinale, la scelta è stata dettata dall’imperativo di astenersi da ogni tipo di azione davanti a inchieste in corso, rispettando il dovere di non interferire con l’operato della magistratura. Scelta che Mattarella ha confermato con il suo silenzio pubblico anche un anno dopo quando il caso è scoppiato sui giornali, lasciando però così il Consiglio in solitudine nel gestire uno scandalo di proporzioni simili se non maggiori dopo quello del caso Palamara. Ermini riassume ai magistrati di Brescia anche come era venuto a conoscenza dei verbali della loggia Ungheria: il fatto che la fonte fosse l’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, è cosa nota. Non altrettanto le modalità: «Davigo mi invitò in cortile, lasciando i telefoni in stanza. Data la complessità del quadro mi suggerì di informare il presidente della Repubblica, perché riteneva giusto che sapesse. In serata, avendo già in mente di andare dal presidente che non vedevo ormai da un paio di mesi, mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico». Ermini aggiunge anche un altro dettaglio significativo: pochi giorni dopo la visita al Quirinale, Davigo si è recato da lui con una teca arancione. «Mi disse: “Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara”. Ero molto in difficoltà, averle depositate sulla mia scrivania mi poneva il problema di cosa farne, posto che non intendevo veicolare al Comitato di presidenza senza una qualunque base di ricevibilità e utilizzabilità». La tesi sempre sostenuta dai vertici del Csm, infatti, è che la circolazione dei verbali di Milano in forma di stampato Word e le informazioni che personalmente Davigo aveva dato in forma orale a molti membri del Consiglio, non potevano essere sufficienti per aprire formalmente un fascicolo. Per poter procedere, infatti, sarebbe servito un esposto. Per questo, «appena uscito Davigo, cestinai la cartellina. Quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai senza aver preso conoscenza del loro contenuto». Ermini, dunque, si sarebbe trovato in grande imbarazzo davanti alle informazioni confidenziali che gli stava dando Davigo, con un riferimento anche al coinvolgimento nella presunta loggia del consigliere Sebastiano Ardita, ex amico e compagno di corrente di Davigo. Il vicepresidente del Csm allora – senza poter determinare l’attendibilità delle parole dell’ex pm – ha deciso di riferire la conversazione a Mattarella, nelle vesti non solo di capo dello stato ma anche di presidente del Csm. Una sorta di passaggio al livello superiore di una informazione difficile da gestire, oltre che non confermata da atti formali. A quel punto l’esistenza dei verbali era ormai nota non solo al Quirinale, ma anche all’intero comitato di presidenza del Csm, ad alcuni consiglieri laici e togati e anche al presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Il cortocircuito, però, è stato generato da un fatto: nessuno degli informati ha agito davanti alla notizia né, almeno formalmente, avrebbe potuto farlo. Il Colle per non interferire con un altro potere dello stato in un’inchiesta in corso, i vertici del Csm perché mancava un esposto scritto. Alla fine qualcuno però si è mosso. Seppur solo per una richiesta di chiarimenti, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi – anche lui informato da Davigo in quanto membro del comitato di presidenza e titolare dell’azione disciplinare per i magistrati – ha telefonato al procuratore capo di Milano Francesco Greco. «Davigo, senza alcun materiale cartaceo, mi disse che a suo avviso era necessario che io, quale pg della Cassazione, avessi un chiarimento con il procuratore di Milano, essendosi lì determinato uno stallo dovuto al fatto che, secondo lui, Greco non assumeva alcuna iniziativa che desse impulso alle indagini», è la versione di Salvi. Il pg di Cassazione aggiunge anche che «chiamai Greco per avere chiarimenti. Mi si chiede se la mia prima telefonata a Greco si collochi tra l’incontro con Davigo e il 12 maggio (data di iscrizione della notizia di reato, ndr)» e «la cosa è verosimile, ma non posso darne certezza non avendo più quel cellulare». Proprio da questa ricostruzione, tuttavia, emerge un dato incongruente rispetto alla posizione di Greco. Il procuratore di Milano, infatti, ha sempre negato di aver ricevuto sollecitazioni per accelerare le indagini da parte di Salvi. «Mai mi ha parlato di Davigo e Storari, e tanto meno di contrasti o indagini», ha detto Greco nell’interrogatorio davanti ai magistrati di Brescia. Secondo lui, infatti, l’iscrizione della notizia è avvenuta per «maturazione delle scelte» e dunque in modo del tutto autonomo da qualsiasi condizionamento esterno. La tesi che Davigo ripete sin dall’inizio della vicenda è una: le sue iniziative informali sarebbero state dettate dalla sola volontà di rimettere sui binari corretti un’indagine che altrimenti rischiava di saltare. I verbali, infatti, erano datati dicembre 2019 e in aprile l’iscrizione della notizia di reato (di calunnia a carico dello stesso Amara oppure della loggia segreta, a seconda dell’attendibilità attribuita all’ex legale di Eni) ancora non era avvenuta. Per questo Storari si sarebbe allarmato e si sarebbe rivolto a Davigo. La mancata iscrizione dolosa di una notizia di reato, infatti, fa sì che – una volta scoperta – il decorso dei termini scatti nel momento in cui l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire. Nel caso dei verbali, quando questi erano stati resi. Di qui l’iniziativa di Davigo di sollecitare l’intervento di Salvi e del Csm a inizio maggio 2020, a un mese dalla scadenza del termine per l’indagine. In quest’ottica, quindi, l’iniziativa di Davigo sarebbe andata a buon fine: l’intervento di Salvi e l’iscrizione della notizia di reato hanno fatto raggiungere l’obiettivo prefissato di salvare l’indagine sulla presunta loggia. Tesi non condivisa dalla procura di Milano, che invece ha sempre detto di essersi mossa nel rispetto delle procedure e senza interferenze esterne se non quelle negative, determinate dal passamano di verbali ad opera di Davigo e Storari. Restano tuttavia una serie di interrogativi: per quale ragione nessuno al Csm ha redatto almeno una relazione di servizio sulle confidenze di Davigo? Perché Davigo non è stato sentito nel procedimento disciplinare a carico di Storari aperto dal pg di Cassazione Salvi? Ma soprattutto non è ancora chiara la dinamica per la quale i verbali sono stati infine resi pubblici, facendo emergere che tutti ne erano a conoscenza ma anche inquinando definitivamente l’indagine.

Dopo la sentenza ribollono le mailing list...Non solo Hotel Champagne, ecco tutti gli accordi tra le toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Luca Palamara, dunque, era il male assoluto della magistratura italiana, una sorta Belzebù in toga. I cinque consiglieri del Csm che gli fecero compagnia all’hotel Champagne la sera del 9 maggio del 2019, invece, erano solo dei piccoli demoni. A cui, però, bisognava mandare necessariamente un segnale per evitare che un domani qualcuno di loro potesse prendere il posto del principe delle tenebre. «Provo delusione e turbamento per una sentenza manifestamente esemplare, priva di sufficiente capacità di discernimento, che parla esclusivamente la lingua dell’accusa, tacendo su quella della difesa», è stato il commento del professore Mario Serio, avvocato di Paolo Criscuoli, condannato a nove mesi di sospensione dalle funzioni. Serio ha anche fatto notare la perfetta proporzione fra le richieste della Procura generale e le pene comminate dalla disciplinare: 25 per cento in meno per tutti. «Il mio rammarico è che questa sentenza ha stravolto irrimediabilmente la vita di una persona e della sua famiglia», ha poi aggiunto Serio. Cacciato Palamara e bastonati i cinque commensali, per la magistratura italiana dovrebbe essere iniziato un nuovo corso. Ovviamente non è così. A non crederci sono gli stessi magistrati. «Ma hanno fatto tutto da soli? Oppure agirono in rappresentanza di altrettanti gruppi di interesse?», si domanda un giudice sulla mailing list. «La facile risposta – prosegue – si trova nei 140 capitoli testimoniali formulati dalla difesa di Palamara, dove, illustrando un vero pezzo di storia della magistratura italiana, si parlava di un centinaio di nomine frutto di altrettanti accordi ‘extra moenia’, preconfezionati e poi semplicemente ratificati dal Csm». «Accordi non dissimili da quello dell’Hotel Champagne. Insomma e in breve, il “Sistema” che non ha ammesso quelle istanze di prova e che, per assolvere gattopardescamente se stesso, punisce i soli cinque», continua il magistrato, auspicando che tutti consiglieri del Csm, togati e laici, mostrino il contenuto dei «telefonini utilizzati negli ultimi cinque anni». A conferma che gli accordi spartitori ci sono sempre stati, e che l’incontro dell’hotel Champagne, dove si discusse del futuro procuratore di Roma, non è stata una eccezione, ecco arrivare un nuovo annullamento da parte del Consiglio di Stato di una nomina. Questa volta si è trattato del presidente della sezione penale del Tribunale di Rimini, incarico andato a Sonia Pasini nel plenum del 6 giugno 2018. I giudici amministrativi hanno accolto nei giorni scorsi il ricorso presentato da Fiorella Casadei. La nomina di Pasini è una delle nomine di cui parlarono Palamara e l’ex togato Gianluigi Morlini, presidente della Commissione per gli incarichi direttivi. Morlini, uno dei partecipanti all’incontro all’hotel Champagne, aveva scritto a Palamara di Pasini dicendo che era uno dei nomi da tenere “sotto controllo”. I due si erano poi complimentati a vicenda per le nomine di Lucia Russo, Silvia Corinaldesi, Marco Mescolini e appunto Pasini, magistrati legati alla corrente di Unicost, a capo di uffici dell’Emilia-Romagna. Un successo senza precedenti per la corrente di centro che aveva occupato un numero di posti senza precedenti. Pasini, poi, chattando con Palamara gli aveva chiesto di integrare la relazione al Plenum, indicando anche un ulteriore requisito che fino a quel momento non era stato adeguatamente valorizzato. Dopo il ricorso, il giudizio comparativo tra le due candidate era stato svolto dalla dal Csm l’8 febbraio scorso, proponendo la nomina di Casadei. Il Tar aveva sottolineato come la valutazione comparativa avesse “appiattito” il profilo di Casadei, «per ricordarne solo quelle esperienze» sulle quali poteva essere fatto un «giudizio comparativo diretto» con Pasini, «in tal modo incorrendo in evidente travisamento e difetto di istruttoria, e comunque nel difetto di motivazione». Era poi “pacifico”, per il Tar, che Casadei «abbia circa 10 anni di attività in più» nel settore penale rispetto alla collega. Salvo i casi finiti sotto la lente del tar, tutti i magistrati nominati con il sistema “Palamara” sono ancora al proprio posto. E ci rimarranno. Mandarli via significherebbe terremotare la metà degli uffici giudiziari del Paese. È meglio, allora, che paghi solo Palamara e i suoi cinque compagni di sventura dell’hotel Champagne. Paolo Comi

Grasso, ex presidente Anm: «Ora noi toghe abbiamo 6 capri espiatori: troppo comodo…». Parla il magistrato, attualmente giudice del Tribunale di Genova, al vertice dell’Associazione all’epoca del dopocena all’Hotel Champagne per il quale il Csm ha sospeso i 5 ex togati che vi parteciparono. «Sulle nostre mailing list c’era da anni la consapevolezza che il sistema del Csm sulle nomine fosse quello emerso con la vicenda del 2019». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. C’è un nodo da sciogliere che neppure la sentenza disciplinare del Csm rende meno intricato: come deve regolarsi, ora, la magistratura? Dopo la radiazione di Luca Palamara, e le “sospensioni differenziate” dei 5 ex togati riuniti con lui nel dopocena all’Hotel Champagne, di cosa si deve tener conto? Della verità processuale o di quella storica, che non dovrebbe ridursi a quel fatale happening? E se vale la prima delle due risposte, e cioè che i colpevoli di tutto sono Palamara più altri 5, quale accertamento va considerato? Il processo a carico dell’ex presidente Anm, giunto a sentenza definitiva dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la radiazione? Oppure la pronuncia arrivata ieri sera a Palazzo dei Marescialli, che ha punito Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Luigi Spina a 18 mesi di stop e Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli a una sospensione di 9 mesi? Non sono decisioni del tutto compatibili fra loro, come ricordato dal Dubbio già ieri. Perché la Suprema Corte, a Sezioni unite, ritiene che «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Quindi per vendetta e essenzialmente al di fuori di un disegno strategico intercorrentizio. Piazza Indipendenza, con la decisione assunta due giorni fa, è convinta invece che i 5 ex componenti dell’organo di autogoverno cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata. C’è un contrasto evidente. Al momento, neppure è confermato che gli ex consiglieri Csm sospesi impugneranno la condanna: tutti e 5, a quanto risulta, aspetteranno di leggere la sentenza prima di sbilanciarsi. E in teoria, finché non ci sarà un giudicato disciplinare, potrebbe finire congelata pure la valutazione storica Ma è impensabile, per la magistratura italiana, che si resti sospesi a quell’interrogativo: si può davvero archiviare la stagione della “correntocrazia”, come la definisce Giovanni Maria Flick, come una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece come una gravissima e distinta patologia? O si dovrebbe invece riconoscere che le esuberanze del cosiddetto re delle nomine furono in effetti un po’ eccessive, ma rappresentavano solo la punta dell’iceberg? Si deve ammettere o no, insomma, che il sacrificio di Palamara è una scorciatoia fuorviante e pericolosa? E che forse radiare l’epitome di una prassi consolidata è un po’ troppo comodo? Il giorno dopo la magistratura non fa sentire voci ufficiali. Non si nota una folla di vertici delle correnti che tentano di offrire una chiave. E forse è anche comprensibile. D’altra parte uno dei gruppi associativi più importanti, Area, andrà a congresso fra una decina di giorni e avrà modo di discuterne. Ma interpellata dal Dubbio, c’è una voce autorevole che offre una prospettiva persino rovesciata, sull’effetto della sentenza di ieri: Pasquale Grasso, presidente dell’Anm all’epoca dell’incontro all’Hotel Champagne, uscito da Magistratura indipendente per la durezza con cui invitò alle dimissioni i consiglieri del suo gruppo coinvolti, in rotta anche con Area e Unicost al punto da lasciare poi il vertice dell’Associazione, fino alla ricucitura con la corrente moderata. «Con la sentenza della sezione disciplinare non credo affatto si favorisca un riconoscimento storico più approfondito», dice subito Grasso, attualmente giudice presso il Tribunale di Genova. Quindi spiega: «Si prosegue nella traiettoria segnata con le sentenze su Palamara, si puniscono con inedita durezza i protagonisti di quel pur esecrabile singolo evento. Ma si rimuove così ancora una volta un’inevitabile realtà non accettata, e che mai lo sarà: era quella emersa nelle vicende del 2019, la normalità dei rapporti che intercorrevano al Csm». Grasso è stato al vertice dell’Associazione magistrati ma ha solo sfiorato l’attuale consiliatura, e comunque non ha mai fatto parte dell’organo di autogoverno. «Ciononostante, secondo la vox dei, c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list di noi magistrati: sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Certo, all’Hotel Champagne», nota Grasso, «si è arrivati forse allo zenit, per la presenza di un soggetto indagato dall’ufficio sulla cui dirigenza si discuteva nell’incontro (Luca Lotti, deputato allora del Pd, che era al dopocena insieme con Cosimo Ferri, pure lui in quel momento parlamentare dem, ndr). Ma non è che quella specificità segni anche un’estraneità dell’episodio rispetto al contesto generale». Insomma, rischiamo semplicemente di avere non uno, cioè Palamara, ma 6 capri espiatori, con la condanna degli ex togati arrivata ieri sera? «È esattamente così. Eppure non vedo come si possa ridurre la questione delle nomine e dei rapporti fra le correnti a quell’episodio. Oltretutto», aggiunge Grasso, tuttora fra i leader della magistratura moderata, «a me sembra che non vi sia stata neppure un’efficace gradazione delle sanzioni rispetto alle condotte dei singoli: le condanne sono tutte fortissime, senza precedenti. Soddisfano le esigenze di sangue, non di conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni». E rispetto all’impressione che si ricava dalla lettura della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la radiazione di Palamara, quella di un uomo solo al comando dei misfatti, Grasso ha un’ultima chiosa: «Vorrei sia ripetuto tre volte: non ho letto, non ho voluto leggere la sentenza delle Sezioni unite, ma se davvero ne risultasse un artefice unico degli accordi sulle nomine, si tratterebbe di una prospettazione poco condivisibile. Palamara non può aver inventato e alimentato il sistema da solo. È una lettura molto consolatoria, quella della singola mela marcia. O delle 5 o 6 che, una volta condannate, dovrebbero soddisfare l’esigenza di verità e soprattutto di purezza del sistema».

Scandalo procure: sospesi 5 ex togati. Federico Garau il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Arriva la decisione della sezione disciplinare del Csm per le toghe coinvolte nel caso Palamara: un anno e sei mesi di sospensione per Lepre, Morlini e Spina, 9 mesi per Cartoni e Criscuoli. Dopo ben nove ore di camera di consiglio, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha deciso di sospendere dalle funzioni i cinque ex magistrati Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni, tutti rimasti coinvolti nel caso Palamara. È stata dunque accolta la sanzione richiesta dalla Procura generale, in particolare si parla di uno stop di un anno e sei mesi per Lepre, Morlini e Spina, mentre Cartoni e Criscuoli dovranno invece rispettare una sospensione di nove mesi. Si tratta di un provvedimento comunque inferiore rispetto a quanto effettivamente richiesto dalla Procura, che nella requisitoria di luglio aveva inizialmente proposto 2 anni per Lepre, Morlini e Spina, ed un anno per Cartoni e Criscuoli.

Le accuse. Le cinque toghe sono finite al centro di un'inchiesta dopo lo scoppio del caso che ha visto coinvolto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, accusato di corruzione in atti giudiziari. Il caso ha provocato grande imbarazzo in tutta la magistratura.

Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni avevano preso parte ad una riunione notturna tenutasi tra l'8 e il 9 maggio del 2019 presso l'hotel Champagne di Roma. Un incontro al quale avevano naturalmente partecipato lo stesso Luca Palamara ed i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. In quella circostanza furono stretti accordi, e si parlò anche della successione di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma. Nella sua requisitoria la Procura aveva mosso nei confronti dei cinque ex togati le accuse di"comportamento gravemente scorretto, in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio" nei confronti degli altri colleghi magistrati e consiglieri del Csm, oltre che di violazione del dovere di riservatezza sull'iter delle nomine. Nel giugno del 2019, scoppiato lo scandalo relativo alle intercettazioni che hanno visto come protagonista Luca Palamara, i cinque magistrati si erano dimessi.

Il verdetto. Oggi la decisione della sezione disciplinare del Csm. Dopo nove ore di camera di consiglio, è arrivato il verdetto nei confronti dei cinque ex magistrati, che potranno in ogni caso presentare ricorso alle sezioni unite civili della Cassazione.

All'udienza di questa mattina hanno partecipato Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni. Assente, invece, Luigi Spina, mentre Paolo Criscuoli era collegato in videoconferenza.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dov

La sentenza dopo 10 ore di Camera di Consiglio. Palamaragate, il Csm condanna 5 ex togati: sospesi per la cena all’Hotel Champagne. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Procure nel caos, magistratura nella bufera: e il Palamaragate non finisce mai. È arrivata nella serata di oggi la sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che, al termine di una lunga camera di consiglio, di circa 10 ore ha condannato alla sospensione dalle funzione cinque ex togati. Si tratta di Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni. Il procedimento riguardava la riunione del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne a Roma, alla quale avevano partecipato Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e membro del Csm, lo “zar delle nomine”, radiato nel 2020 dal Consiglio a seguito di un indagine sul sistema nelle correnti della magistratura. Alla riunione anche i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. La Procura Generale della Cassazione aveva chiesto il massimo della sospensione,  due anni e un anno a seconda. I legali il proscioglimento degli assistiti. Il “tribunale delle toghe” ha sanzionato Lepre, Morlini e Spina – all’epoca rispettivamente capogruppo di Unicost, presidente della Commissione sugli Incarichi direttivi e relatore della nomina sul procuratore di Roma – con la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per un anno e 6 mesi. Per Cartoni e Criscuoli ha invece disposto la sospensione per nove mesi. Verrà corrisposto un assegno alimentare. Contro il verdetto emesso dalla disciplinare i 5 ex togati potranno presentare ricorso davanti alle sezioni unite civili della Cassazione. La sospensione, per gravità, è la seconda sanzione dopo la rimozione dall’ordine giudiziario, inflitta quasi un anno fa a Palamara, che quindi paga più di tutti. “Non ha partecipato ad accordi – ha riferito l’avvocato Mario Serio, difensore di Criscuoli – non ha tradito la propria funzione e nulla prova che facesse parte di una conventicola che trattava affari riservati. Si è trovato nel vortice delle ambizioni incontrollate di due potenti esponenti della magistratura associata, quelle di Palamara e Ferri”. Secondo il legale l’ex togato fu “accalappiato” da Ferri con un “invito strumentale” a cena e che la partecipazione di Criscuoli – che ha emesso la sentenza del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996 da alcuni esponenti di Cosa Nostra come atto intimidatorio nei confronti del padre collaboratore di giustizia – all’incontro fu “silente e inattiva”. Spina ha invece negato di aver fatto il “doppio gioco” a sostegno del Procuratore Generale di Firenze Marcello Viola con i colleghi di Unicost, di cui era capogruppo, e con i quali aveva concordato l’appoggio al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. E ha negato qualsiasi “programma comune” con Palamara, definendosi piuttosto un “ostacolo” per la sua fermezza nel supportare Creazzo. I cinque ex togati secondo la sentenza avrebbero preso parte a quella riunione all’Hotel Champagne. All’epoca Palamara era già stato messo sotto controllo dal trojan. All’albergo in via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, usato spesso come appoggio dai magistrati non romani, l’incontro con Lotti e Ferri. Al centro di quel vertice da “risiko delle nomine” la Procura di Roma: la poltrona contesa era quella del Procuratore Capo Giuseppe Pignatone. Nonostante quel gruppo avrebbe sostenuto il Pg di Firenze Marcello Viola, quella poltrona sarebbe diventata di Michele Prestipino – il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare con la quale proprio Prestipino aveva chiesto la sospensione della sentenza che ha sancito l’illegittimità della sua nomina a procuratore di Roma; il Consiglio ha anche accolto il ricorso di due dei candidati esclusi, il Pg di Firenze Viola (sul quale puntavano a sua insaputa in quella riunione Lotti e Palamara in nome della “discontinuità” con Giuseppe Pignatone) e il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Del caos su Roma il Csm tornerà a occuparsi la prossima settimana. Tre settimane dopo quell’incontro la Procura di Perugia, competente per i magistrati in servizio a Roma, consegnava un avviso di garanzia per corruzione a Palamara. Era l’inizio del Palamaragate, Magistratopoli, il “Sistema” della magistratura, più grande di certo di Palamara (che lo scorso luglio è stato intanto rinviato a giudizio per corruzione).

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il “Sistema” esiste: per il Csm Palamara non ha agito da solo. Sospesi gli ex togati che presero parte insieme all’ex capo dell’Anm alla cena all’Hotel Champagne, dove si discusse della nomina del procuratore di Roma alla presenza dei parlamentari Lotti e Ferri. Simona Musco su Il Dubbio il 15 settembre 2021. Il Sistema esiste. A stabilirlo, ieri sera, è stata la sezione disciplinare del Csm, che dopo una camera di consiglio durata 10 ore ha dichiarato responsabili degli addebiti mossi dalla procura generale gli ex togati che hanno preso parte alla cena all’hotel Champagne a Roma, assieme all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, cena durante la quale si discusse di alcune nomine, tra le quali quella alla procura di Roma. Per Lepre, Morlini e Spina la sezione disciplinare ha disposto la sospensione dalle funzioni per un anno e mezzo, contro i due chiesti dall’accusa, mentre per Cartoni e Criscuoli l’arrivederci alla toga durerà soltanto nove mesi, a fronte dell’anno preteso dalla procura generale. Le incolpazioni mosse nei loro confronti riguardavano il «comportamento gravemente scorretto» tenuto, «in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio», nei confronti degli altri consiglieri del Csm e dei magistrati che si erano candidati alla nomina di capo della procura della Capitale, nonché la violazione del «dovere di riservatezza» sull’iter della pratica relativa a tale nomina. Questo procedimento disciplinare si era aperto poco più di un anno fa: i cinque si erano dimessi dall’incarico a Palazzo dei Marescialli nel giugno 2019, dopo le intercettazioni, captate dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara ed emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia, delle conversazioni avvenute all’hotel Champagne. Una decisione importante, quella presa ieri, che arriva dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Palamara che per la Corte di Cassazione, però, avrebbe agito da solo e per vendetta. Una versione diversa da quella sostenuta dal sostituto procuratore generale Simone Perelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, che hanno invece indicato presunti ruoli e responsabilità di ognuno in quello che è passato alla storia come il mercato delle nomine. Spina, aveva affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, sarebbe stato infatti «il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare – ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Sarebbe stato, dunque, «la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare», mentre Morlini e Lepre – all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo – «ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave – ha detto Gaeta – la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne». Come si concilia questa versione con quella data dal Palazzaccio? Per i giudici di piazza Cavour, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Una sorta di vendetta personale, dunque, che escluderebbe l’esistenza di un metodo e di altri partecipanti e che renderebbe l’ex consigliere del Csm una mela marcia. Ma è stato lo stesso Palamara a spiegare che invece non avrebbe agito affatto a titolo personale: «Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto», aveva dichiarato al Dubbio. Anche se le persone coinvolte, stando ai sottintesi e ai continui inviti dell’ex capo dell’Anm ai colleghi che hanno «beneficiato» di quelle cene a raccontare quanto sanno, sembrano essere molte di più di quelle finite sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la famosa cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri, all’epoca anche lui del Pd. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito. Quella conversazione, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. E in quella sede a discutere di questi temi, secondo l’accusa, c’erano anche i magistrati finiti davanti al banco degli imputati di Palazzo dei Marescialli. Per questo la loro posizione non è affatto secondaria. Nel corso del procedimento i cinque hanno voluto fornire una versione diversa della vicenda: tra i primi a parlare proprio il presunto braccio destro di Palamara, Spina, che rilasciando dichiarazioni spontanee ha rivendicato la sua fedeltà a Unicost (di cui all’epoca era capogruppo), decisa a sostenere la candidatura di Giuseppe Creazzo. «Quello che si decideva era sacro e lo rispettavamo – ha dichiarato -. Conoscevo Palamara, ma non facevo parte del suo mondo, non avevo mai partecipato a incontri, non avevo un programma comune con lui e semmai io per quel programma sono stato un ostacolo», ha sottolineato Spina. «Ho sempre detto chiaramente che non avrei lasciato l’appoggio a Creazzo, non ho mai avuto nessuna volontà di danneggiarlo né di provare a fargli ritirare la candidatura. Avevo espresso fastidio per l’invadenza di Palamara – ha aggiunto -, doveva avere rispetto per le decisioni del gruppo, tanto che da altre intercettazioni emerge la sua volontà di cercare strade alternative, perché con Spina “non c’è stato verso”, aveva detto». Per il suo difensore, Donatello Cimadomo, l’accusa nei confronti di Spina sarebbe indeterminata e contraddittoria. «L’unica cosa che si può imputare a Spina è di essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato – ha detto – se il problema è che non si è alzato e non è andato via al massimo si può applicare la sanzione della censura per comportamento inopportuno ma non certo una sanzione per avere tradito le sue funzioni istituzionali». Prima che i membri della sezione disciplinare si riunissero, a prendere la parola ieri è stato ​​Lepre, che ha parlato di una «vicenda dolorosa che rappresenta un travaglio e una sofferenza devastanti» e ha ricordato di non essere stato a conoscenza della riunione, «di non conoscerne oggetto e partecipanti» ma di essere stato «colto alla sprovvista» rientrando dopo cena con la moglie in albergo, lo stesso dove si è tenuto l’incontro, e vedendo i colleghi in una saletta attigua alla hall «di non essere stato invitato, di essere rimasto il tempo necessario per non apparire scortese e di essere andato via per primo». Quanto ai candidati per la procura di Roma, riferendosi al sostegno a Viola di cui si era discusso quella sera, «personalmente, in virtù degli oggettivi e robusti titoli di Viola, confidavo in quell’ampia maggioranza che effettivamente si concretizzò poi in commissione», ha sottolineato. A difendere Criscuoli è stato il professor Mario Serio, secondo cui l’ex consigliere sarebbe stato «attratto in un vortice nel quale era completamente estraneo», quello delle «ambizioni incontrollate di Palamara e Ferri», e «del quale non poteva preventivamente controllare le modalità di svolgimento» e quindi «non poteva respingere il pericolo». Inoltre «il silenzio continuamente serbato» nel corso della riunione attesta che «capacità offensiva della sua condotta è del tutto insignificante e non meritevole di sanzione». Per Cartoni l’avvocato Carlo Arnulfo ha chiesto il proscioglimento: non avrebbe commesso «nessuna grave scorrettezza», l’unica pecca è «la presenza impropria all’hotel Champagne. Poteva andare via quando si iniziava a parlare di nomine», ha detto. «La riunione non l’aveva programmata, poteva solo interromperla. Ma poi nella pratica è difficile pensare che una persona si alzi e se ne vada. Ha ascoltato le conversazioni ma non era partecipe del piano» relativo alla nomina del capo della procura di Roma. Morlini, invece, ha rivendicato la sua autonomia: «Tutte le decisioni sulla nomina del procuratore di Roma, come sulle altre nomine, le ho prese io. Non c’è stata nessuna eterodirezione, né suggerimenti. E non c’è stato nessun doppio gioco o bluff», ha affermato. Per il suo difensore, Vittorio Manes, Morlini «non ha partecipato né come burattinaio né come burattino al risiko delle nomine». L’«insussistenza delle incolpazioni» è stata evidenziata anche da Domenico Airoma, difensore di Lepre, che, ha ricordato, «non ha partecipato ad alcuna attività preparatoria della riunione e alla stessa ha partecipato per una ventina di minuti. Per il suo comportamento scorretto Lepre ha già pagato con le dimissioni, ma la responsabilità disciplinare deve rispondere ad altri parametri, guai a trasferire sul piano disciplinare valutazioni di carattere etico. Questo sarebbe travolgere ogni garanzia». Ora per conoscere le ragioni della decisione bisognerà attendere 90 giorni. 

Ilda Boccassini e Alberto Nobili indagati per abuso d’ufficio. Ilda Boccassini e l'ex compagno Alberto Nobili, attuale pm di Milano, sono indagati per abuso d'ufficio. Ma la procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione. Il Dubbio il 9 settembre 2021. L’ex pm della procura di Milano, Ilda Boccassini, è stata iscritta nel registro degli indagati per per abuso d’ufficio assieme all’ex compagno, il magistrato milanese Alberto Nobili e il comandante della Polizia locale di Milano Marco Ciacci. Gli accertamenti investigativi sono partiti alcuni mesi fa dopo l’esposto presentato dall’ex comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato, candidato oggi per la Lega di Matteo Salvini a Milano. Tuttavia, la procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione del pm. La palla quindi palla al gip.

La ricostruzione dei fatti. I fatti risalgono al 3 ottobre 2018, quando Alice Nobili, figlia di Ilda Boccassini e dell’attuale capo dell’antiterrorismo, investì con lo scooter sulle strisce il medico Luca Voltolin, 61 anni, deceduto dopo qualche giorno in ospedale. Il processo alla figlia di Ilda Boccassini La figlia di Ilda Boccassini fu condannata a nove mesi di carcere per omicidio stradale più un risarcimento in denaro. Secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, nelle chat agli atti dell’inchiesta, uno degli agenti della polizia municipale scriveva: «”L’alcol test non l’hanno fatto. Il comandante è andato sul posto, io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto”». E quindi le domande sono rimaste le stesse. Il pubblico ministero, però, non ha individuato alcun abuso di ufficio. Dopo l’incidente, «non sarebbe stato eseguito l’alcol test, cosa che di norma, anche se non obbligatorio, in incidenti del genere andrebbe fatto». Quindi, il 3 settembre il pm ha chiesto l’archiviazione.

La Bocassini è indagata. L'accusa chiede l'archiviazione. Luca Fazzo il 9/9/2021 su Il Giornale. Un dato è certo: la figlia di Ilda Boccassini, pm simbolo della lotta alla mafia, non venne sottoposta ad alcol test la sera in cui a Milano, a poca distanza da casa della madre, investì e uccise un pedone. Un dato è certo: la figlia di Ilda Boccassini, pm simbolo della lotta alla mafia, non venne sottoposta ad alcol test la sera in cui a Milano, a poca distanza da casa della madre, investì e uccise un pedone. Per questo la Procura della Repubblica di Brescia, competente per i reati commessi dai magistrati in servizio a Milano, ha iscritto tre persone nel registro degli indagati: si tratta della stessa Boccassini, del suo ex compagno e padre della ragazza Alberto Nobili, tuttora in servizio a Milano come pubblico ministero, e dell'attuale comandante della Polizia locale del Comune di Milano, Marco Ciacci. Ma pochi giorni fa, il 3 settembre, il pubblico ministero titolare dell'inchiesta ha chiesto l'archiviazione delle accuse di tutti gli indagati. Ora la richiesta dovrà passare al vaglio di un giudice preliminare, ma evidentemente la pubblica accusa ha ritenuto che non vi sia stata un abuso d'ufficio da parte di Ciacci, né una pressione illecita in questo da parte dei due illustri genitori della investitrice. A rendere nota l'esistenza dell'inchiesta a carico di Ciacci, di cui si parlava da tempo, è stato ieri il suo predecessore, l'ex comandante dei vigili Antonio Barbato, che ha reso noto di essere stato interrogato il 21 aprile a Brescia proprio nell'ambito del procedimento a carico dell'attuale capo dei «ghisa». A generare l'indagine era stata peraltro una denuncia dello stesso Barbato. Il tutto era reso delicato dal fatto che Barbato aveva perso poco tempo prima il posto proprio in seguito a una inchiesta del pool antimafia della Procura, in cui era stato intercettato; e che a indicare Ciacci come suo successore ideale al sindaco Sala erano stati proprio i vertici della Procura, che di Ciacci - fino a quel momento in servizio alla Polizia di Stato - avevano potuto saggiare nel corso degli anni la affidabilità. Barbato, che attualmente è sotto processo ma anche candidato al Consiglio comunale, non ha mai nascosto di sentirsi vittima di un complotto per spianare la strada a Ciacci, e di considerare il mancato esame etilico alla figlia delle due toghe una sorta di ringraziamento dovuto. Ma l'indagine bresciana ha accertato che Ciacci si limitò a intervenire per pochi minuti sulla scena, quando l'incidente sembrava ancora lieve. La figlia della Boccassini, peraltro, è astemia.

"Pressioni sui testimoni" Così i colleghi pm graziano la Boccassini. Stefano Zurlo il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. La Procura ha chiesto subito l'archiviazione dell'indagine. Piena di stranezze e omissioni. Un brutto incidente stradale. Uno scooter investe un uomo che morirà in ospedale. È la sera del 3 ottobre 2018, ma a creare scompiglio quel giorno a Milano è il fatto che a guidare la moto è la figlia di due notissimi magistrati: Ilda Boccassini, allora procuratore aggiunto e oggi in pensione, e Alberto Nobili, capo dell'antiterrorismo. Sul posto arriva anche il comandante dei vigili urbani Marco Ciacci; una presenza irrituale, ma non l'unica stranezza di questa storia: la ragazza non viene sottoposta all'alcol test e nemmeno all'esame per stabilire se abbia assunto droghe. L'ex comandante della polizia municipale Antonio Barbato presenta un esposto alla procura di Brescia per segnalare le presunte anomalie della vicenda: ora si scopre che Boccassini, Nobili e Ciacci sono indagati a Brescia per abuso d'ufficio, ma il Fatto Quotidiano svela anche che la procura ha chiesto l'archiviazione per il terzetto eccellente. E Barbato, oggi candidato per la Lega a Milano, rilancia: «Ho già presentato opposizione, non sono soddisfatto per come sono state condotte le indagini, forse ci vorrebbe un supplemento di inchiesta». Insomma, per l'ex capo dei vigili, Brescia avrebbe potuto e potrebbe ancora fare di più. «Due testimoni - spiega lui al Giornale - mi hanno raccontato di aver subito pressioni in quei giorni nel corso del loro lavoro investigativo, ma con mia grande sorpresa ora mi dicono che la procura di Brescia non li ha mai convocati e ascoltati». Si ritorna dunque al 3 ottobre 2018. Un medico, Luca Valtolin, sta attraversando sulle strisce con la spesa in mano: siamo in viale Montenero, nel cuore della metropoli. La moto lo travolge: l'ambulanza parte col ferito in codice giallo, ma già all'arrivo in ospedale la situazione è cambiata. Valtolin, che ha picchiato la testa sull'asfalto, è in codice rosso e non sopravviverà allo scontro. In viale Montenero accorre Nobili e poco dopo giunge anche il comandante Ciacci. Chi l'ha avvisato? Davanti alla Commissione sicurezza del Comune di Milano, Ciacci dirà che è stato Nobili a dargli la notizia, ma ne sminuirà la portata spiegando che il luogo era sulla traiettoria del ristorante cui era diretto con la moglie. Certo, la presenza di un pm così titolato sulla scena è ingombrante, anche se Nobili in quel momento è solo un padre angosciato. E ancora più controverso è il passaggio di Ciacci: ha dato o suggerito direttive e consigli ai colleghi impegnati nei rilevamenti? Fra l'altro, in viale Montenero ci sono anche gli specialisti del Radiomobile che svolgono i loro accertamenti, ma non vanno oltre. Niente etilometro e nemmeno l'analisi per rilevare la presenza di droghe. Nelle chat dei vigili spuntano messaggi sarcastici: «Io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto». Oltretutto, punto assai delicato, presentandosi in viale Montenero, Ciacci avrebbe violato il codice di comportamento dei dipendenti pubblici: in passato ha collaborato con Boccassini e circa 180 vigili lavorano a Palazzo di giustizia nelle squadre di polizia giudiziaria. Fin troppo facile scorgere sullo sfondo possibili conflitti di interesse e motivi di imbarazzo reciproco. Che cosa è accaduto esattamente in quelle ore concitate? La ragazza viene indagata per omicidio stradale, poi risarcisce i familiari della vittima e patteggia nove mesi. La procura di Brescia invece indaga e conclude per l'archiviazione. Deciderà il gip. Barbato, infine, proprio oggi va a processo per frode in pubbliche forniture e falso. A denunciarlo, guarda caso, è stato proprio Ciacci. Stefano Zurlo

DAVIDE MILOSA per il Fatto Quotidiano il 9 settembre 2021. Il comandante della Polizia locale di Milano Marco Ciacci, il capo dell'antiterrorismo Alberto Nobili e l'ex procuratore aggiunto Ilda Boccassini sono indagati per abuso d'ufficio in concorso dalla Procura di Brescia. L'inchiesta nasce diversi mesi fa anche sulla base di un esposto-denuncia dell'ex comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato, candidato oggi per la Lega di Matteo Salvini a Milano e imputato sempre a Milano per frode in pubbliche forniture e falso. L'indagine bresciana riguarda le modalità d'intervento rispetto a un incidente stradale avvenuto il 3 ottobre 2018 in viale Montenero nel quale la figlia di Nobili e Boccassini, a bordo di uno scooter ha investito il medico infettivologo Luca Valtolin che in quel momento stava attraversando sulle strisce pedonali con le borse della spesa in mano. Valtolin cadendo ha battuto la testa in modo violento. Ricoverato in codice giallo, si aggraverà nei giorni successivi e morirà. La figlia dei due importanti magistrati di Milano, titolari ieri e oggi di indagini decisive sia sul fronte della mafia sia su quello della corruzione e della lotta al terrorismo anche interno e attuale, nel gennaio 2020 ha patteggiato una condanna a nove mesi per omicidio colposo risarcendo i familiari della vittima. L'indagine di Brescia è ora arrivata alle battute finali con la richiesta di archiviazione scritta dalla Procura solo pochi giorni fa. La palla quindi passa al giudice perle indagini preliminari. Il fascicolo, seguito dalla Procura in modo più che accurato, prende il via dall'esposto di Barbato che, nella sostanza, fissa due punti principali: da un lato la presenza sul posto dell'incidente del capo dei vigili Ciacci, cosa, a suo dire, del tutto irrituale e in apparente violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, visto, in particolare, i rapporti professionali pregressitra Ciacci e uno dei due magistrati. Il secondo punto è invece legato al fatto che, pur con la presenza del comandante sul posto, non furono disposti né l'alcol test né le analisi per capire se l'investitore avesse assunto sostanze stupefacenti. La ragazza sarà indagata per omicidio stradale non avendo rispettato le norme del codice stradale e meno di due anni dopo patteggerà 9 mesi per omicidio colposo. Il fascicolo sarà preso in carico dalla Procura di Milano in un periodo dove non solo Nobili ma anche Boccassini erano nel pieno delle loro funzioni. Secondo quanto si legge nella denuncia, che riprende testimonianze di agenti della polizia locale giunti in viale Montenero, sul posto era presente Nobili e subito dopo Ciacci. La tesi accusatoria, messa nella denuncia e seguita dalla Procura di Brescia, che ora però ha chiesto l'archiviazione, è che vi fu una chiamata del magistrato al capo dei vigili. In alcune chat messe agli atti, un operante scrive: "L'alcol test non l'hanno fatto, comandante è andato sul posto, io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto". Ciacci, giorni dopo l'incidente, sarà sentito dalla Commissione sicurezza del Comune. Qui, si legge nella denuncia, ammetterà di aver ricevuto la telefonata da Nobili senza però spiegarne il contenuto. Confermerà anche di essere andato sul posto. Ma solo per caso, perché mentre andava al ristorante con la moglie, vedendo i lampeggianti si era fermato sul luogo dell'incidente per parlare con il dottor Nobili. Nella denuncia, che in parte ha alimentato un fascicolo durato diversi mesi, si fa presente che quel 3 ottobre sul posto intervenne una pattuglia del reparto Radiomobile con personale altamente specializzato "per i sinistri stradali gravi". E nonostante questo, spiega il documento agli atti, a questa unità fu chiesto solo di fare rilievi e planimetrie, senza passare ai vari test sulla persona. Insomma il caso, che per le prime settimane dopo il 3 ottobre 2018 rimase sotto traccia, ora sembra avviarsi a una conclusione. Toccherà al giudice valutare se le prove messe agli atti in questi mesi sono bastanti per ottenere l'archiviazione o se sarà necessario un supplemento di indagini.

Ilda Boccassini graziata dai colleghi? "Pressioni sui testimoni", chi vuota il sacco in procura: il caso si complica. Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Il 3 ottobre 2018 a Milano uno scooter con a bordo la figlia di due notissimi magistrati: Ilda Boccassini, allora procuratore aggiunto e oggi in pensione, e Alberto Nobili, capo dell'antiterrorismo, mette sotto un uomo che poi morirà in ospedale. Sul posto arriva anche il comandante dei vigili urbani Marco Ciacci. Per questo fatto Boccassini, Nobili e Ciacci sono stati indagati a Brescia per abuso d'ufficio, ma la procura ha chiesto l'archiviazione. "Ho già presentato opposizione, non sono soddisfatto per come sono state condotte le indagini, forse ci vorrebbe un supplemento di inchiesta", svela l’ex comandante della polizia municipale Antonio Barbato, oggi candidato con la Lega a Milano. "Due testimoni mi hanno raccontato di aver subito pressioni in quei giorni nel corso del loro lavoro investigativo, ma con mia grande sorpresa ora mi dicono che la procura di Brescia non li ha mai convocati e ascoltati", racconta al Giornale. Dopo l'incidente, quel giorno dell'ottobre 2018, accorre immediatamente Nobili e poco dopo anche il comandante Ciacci. "Davanti alla Commissione sicurezza del Comune di Milano, Ciacci dirà che è stato Nobili a dargli la notizia, ma ne sminuirà la portata spiegando che il luogo era sulla traiettoria del ristorante cui era diretto con la moglie. Certo, la presenza di un pm così titolato sulla scena è ingombrante, anche se Nobili in quel momento è solo un padre angosciato", scrive il Giornale. "Niente etilometro e nemmeno l'analisi per rilevare la presenza di droghe. Nelle chat dei vigili spuntano messaggi sarcastici: 'Io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto'. Ciacci in passato ha collaborato con Boccassini e circa 180 vigili lavorano a Palazzo di giustizia nelle squadre di polizia giudiziaria. Fin troppo facile scorgere sullo sfondo possibili conflitti di interesse e motivi di imbarazzo reciproco", si chiede ancora il Giornale. La ragazza viene indagata per omicidio stradale, poi risarcisce i familiari della vittima e patteggia nove mesi. La procura di Brescia invece indaga e conclude per l'archiviazione. Deciderà ora il gip se accettare la richiesta della procura. 

Ilda Boccassini, Filippo Facci attacca: "La doppia morale dei magistrati indagati", il sospetto sulla procura di Milano. Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Ora che è in pensione, possiamo dire ancor più liberamente che la stima per l'ex magistrato Ilda Boccassini (o la stima di chi scrive, perlomeno) è sempre stata altissima e incurante delle caricature a cui lei stessa talvolta ha prestato il fianco: sanguigna ma distaccata, napoletanissima ma indifferente, insomma: un ossimoro con la toga, ma, soprattutto, con una testa rigorosamente sua, come se avesse sempre condiviso il motto di questo secolo: detrattori e adulatori, pari sono. Dopo questo pistolotto tocca andare alla notizia, questa: la Boccassini è indagata a Brescia per la triste vicenda che vide protagonista sua figlia Alice Nobili - il padre è Alberto, magistrato in attività a Milano - che nell'ottobre 2018, con l'auto, investì e uccise il medico Luca Voltolin in viale Montenero a Milano. Gli indagati sono tre e comprendono anche l'ex compagno Alberto Nobili e l'attuale comandante della Polizia locale milanese Marco Ciacci, ma non si fa in tempo a dare una notizia che subito ne spunta un'altra: pochi giorni fa, il 3 settembre, il pm bresciano titolare dell'inchiesta ha chiesto l'archiviazione per tutti, richiesta dovrà essere vagliata da un giudice delle indagini preliminari, il gip.

ALCOL-TEST - L'accusa, evidentemente, ha già ritenuto che il comandante dei vigili non abbia commesso abusi, e che i genitori di Alice, la figlia investitrice, non ne abbiano chiesti né ottenuti. Stiamo parlando del fatto che la ragazza, dopo l'incidente, non venne sottoposta ad alcol-testo test antidroga, come sarebbe stato di prassi soprattutto quando ci scappa il morto. Del caso del comandante Ciacci, accorso sul luogo, si era occupato anche il cosiddetto «comitato per la legalità, trasparenza ed efficienza amministrativa» presieduto dall'ex magistrato Gherardo Colombo, che nell'operato del comandante non ravvisò alcuna irregolarità: pare che sul luogo dell'incidente si sia fermato pochissimo. A completare il quadro: Alice Nobili, nel 2020, ha patteggiato 9 mesi di reclusione per omicidio colposo su decisione del gip Alessandra Di Fazio, con un quantum di risarcimento economico che non è stato reso noto per clausola di riservatezza. Bene: a dirla tutta, cioè quasi tutta, piacerebbe chiuderla qui; è successa una disgrazia come ne capitano tante, la responsabile (astemia, pare) ha saldato il suo debito anche economico con la giustizia, tutto questo in tempi ragionevoli, dopodiché madre e padre della condannata sono stati formalmente indagati da due pm bresciani (inquirenti sugli eventuali reati dei magistrati milanesi) e, in tempi ancor più ragionevoli, diciamo ragionevolissimi, è giunta una richiesta di archiviazione e arrivederci. 

NORMALITÀ - Se non l'abbiamo detta proprio tutta, e se l'articolo prosegue, è perché sappiamo che la normalità purtroppo è un'altra. È raro che tutti questi «pare» siano ritenuti sufficienti. I fatti, perciò, restano che la figlia di un simbolo della lotta alla mafia non venne sottoposta ad alcol e droga test dopo che investì e uccise un pedone. I fatti restano che i tempi della giustizia, per gli altri, non sono così ragionevoli: come invece è stato in entrambi i casi menzionati. I fatti restano che 9 mesi di patteggiamento sono da considerarsi pochi, una pena mite: non oggettivamente - figuriamoci - ma rispetto alla media. I fatti sono che la clausola di riservatezza sul risarcimento economico ha denotato davvero riservatezza: e anche questo non è semplice che accada in quei colabrodo che sono di norma le procure. I fatti, ancora, restano che le conclusioni innocentiste del «Comitato per la legalità, la trasparenza e l'efficienza amministrativa» presieduto da Gherardo Colombo, quelle che hanno discolpato il comandante dei Vigili, beh, noi non le abbiamo mai lette da nessuna parte: ma potrebbe essere un problema nostro. Con il che nessuna polemica sterile: solo un blando richiamo, precisino come lo è sempre stata Ilda, alla famosa «moglie di Cesare», quella che non dovrebbe essere toccata nemmeno dal più remoto dei sospetti, nel senso che un ex magistrato come la Boccassini - un simbolo del suo calibro, che finì su L'Express e sul Times tra cento donne più importanti del globo - non solo dovrebbe restare linda su un piano formale e da casellario giudiziario, ma forse dovrebbe ossequiarsi a un surplus di chiarezza e di spiegazioni esaustive forse superiore a quello che riguarda la gente comune, quella che di trattamenti ragionevoli - dai tempi alla riservatezza - ne riceve forse un po' meno. Attenzione che non si tratta di abbassarsi a speculazioni giornalistiche, come quando l'altro figlio di Ilda Boccassini, Antonio, restò coinvolto in una banale rissa a Ischia (luglio 1997) che coinvolse anche dei carabinieri e per cui dapprima scattarono accuse per oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale: finì parte in caserma, parte al Pronto soccorso e parte finì e basta, con Antonio che se la cavò con una denuncia a piede libero e insomma: non ci fu processo né altro. O così, ancora una volta, «pare». Ma il caso di Milano è un po' diverso. C'è di mezzo un morto, i fatti sembrano chiari, e dove non lo sono pare quasi (pare) che non lo siano volutamente. Forse si potrebbe chiarirli quanto basta. Forse qualche giornalista ancora affidabile e pur esso ragionevole, da qualche parte, esiste ancora: anche se lei, Ilda, i giornalisti non li ha mai inseguiti. Potrebbe cominciare ora, così da farci capire ancora meglio perché continuare a stimarla.

Archiviato l’esposto contro Giuseppe Pignatone: tempo scaduto. Dopo due anni d’attesa finisce in un cassetto il fascicolo spedito al Csm dall’ex pm romano Fava contro Giuseppe Pignatone: termini scaduti. Simona Musco su Il Dubbio il 7 settembre 2021. L’esposto del magistrato Stefano Rocco Fava contro l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone finisce definitivamente in soffitta per decorrenza dei termini. Dopo oltre due anni di rinvii e silenzi, dunque, finisce così l’intricata vicenda che è costata all’ex pm romano il trasferimento a Latina e il cambio funzioni, mentre si attende l’esito dell’udienza preliminare del processo che lo vede imputato assieme all’ex capo dell’Anm, Luca Palamara, per rivelazione del segreto d’ufficio. Il capo di imputazione si riferisce, appunto, all’esposto presentato da Fava contro Pignatone presso il comitato di presidenza del Cms.

Il caso di Giuseppe Pignatone. L’esposto era arrivato al Csm il 2 aprile 2019 ed aveva ad oggetto la riunione indetta da Pignatone il 5 marzo precedente, giorno in cui lo stesso procuratore aveva negato la sussistenza di motivi validi per astenersi nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti. Astensione necessaria, invece, secondo Fava, dati i rapporti professionali tra il fratello del procuratore, Roberto Pignatone, 61 anni, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo, e Amara, che gli aveva conferito un incarico nel 2014. Fava, all’epoca pm del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, non aveva inoltre creduto al pentimento di Amara, che aveva iniziato a collaborare con i magistrati, chiedendo nuovamente il suo arresto per una ipotesi di bancarotta.

I vertici della Procura di Roma, però, si opposero a tale richiesta, sottraendogli il fascicolo. Da qui l’esposto, che per il magistrato si è rivelato, però, un boomerang: secondo i pm di Perugia, infatti, sarebbe stato una mossa escogitata da Palamara per screditare sia Pignatone sia l’aggiunto Paolo Ielo. Da qui anche l’accusa di essersi «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento» per poter preparare l’esposto e, quindi, «per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita». Ma se l’esilio di Fava è avvenuto in fretta – a luglio 2019 era già finito a Latina, su sua stessa richiesta, autorizzata da Terza e Prima Commissione -, lo stesso non può dirsi per l’iter dell’esposto, sparito completamente dai radar e congelato anche dalle indagini in corso a Perugia. Il fascicolo, infatti, è rimasto in mano al comitato di presidenza fino al 7 maggio, ovvero un giorno prima del pensionamento di Pignatone, come dichiarato a novembre del 2020 dal togato del Csm Sebastiano Ardita ai pm di Perugia. L’iter in Prima Commissione, competente per i procedimenti disciplinari, si è avviato nelle sedute del 20 maggio e del 15 giugno 2020, con la richiesta di acquisire documentazione presso la Procura di Roma. Stando alla circolare sul procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale, la fase istruttoria avrebbe dovuto concludersi nel giro di sei mesi. Un termine prorogabile per tre mesi nel caso «di motivata grave necessità», escluso il periodo di sospensione feriale dal 31 luglio al primo settembre 2019. Il termine per far approdare il fascicolo in plenum, data la proroga tre mesi concessa, sarebbe stato, dunque, il 20 marzo 2020. Ma nel frattempo è intervenuta la pandemia, con la sospensione, stabilita tre giorni prima di quella data con il decreto “Cura Italia”, di tutti i termini, inclusi quelli perentori, relativi a procedimenti amministrativi, per il periodo compreso tra il 23 febbraio e il 15 aprile 2020, termine poi prorogato al 15 maggio. Il termine ha cominciato nuovamente a decorrere, dunque, dal 16 maggio 2020 fino all’ 11 giugno 2020, cui vanno sommati ulteriori 15 giorni per la formulazione, da parte della Commissione referente, della proposta da sottoporre al plenum. Ma nulla da fare: arrivati al 26 giugno 2020 della relazione non c’era traccia e il procedimento si è estinto «per superamento dei termini stabiliti dalla normativa». Da qui l’archiviazione della pratica, all’ordine del giorno del plenum convocato per il 15 settembre, senza che sulla stessa sia mai stata spesa una parola.

Processo agli ex consiglieri del Csm. Nel frattempo, è ripreso davanti alla sezione disciplinare il processo ai cinque ex togati del Csm, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli, che a maggio del 2019 parteciparono, con Luca Palamara e i politici Cosimo Ferri e Luca Lotti, all’incontro all’hotel Champagne di Roma, dove si discusse di nomine ai vertici di alcune importanti procure italiane, innanzitutto quella di Roma.

Ieri, oggi e prossimo lunedì sono previste le arringhe delle difese, mentre la decisione potrebbe arrivare martedì 14 settembre, giorno in cui è prevista la replica della Procura generale della Cassazione. L’accusa ha chiesto la sospensione dalle funzioni per tutti e cinque gli ex togati: per Spina, Morlini e Lepre «nella massima entità», ovvero 2 anni, per gli altri di un anno. Ieri il difensore di Cartoni, l’avvocato Carlo Arnulfo, ha chiesto il proscioglimento del suo assistito.

Scaduti i termini dell'esposto di Fava al Csm. L’accusa di Fava: “Denuncia su Pignatone archiviata senza sentirmi”. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Settembre 2021. «Premesso che non stato istigato da Luca Palamara, ho solo voluto segnalare agli organi competenti e nel rispetto della legge cosa stava accadendo alla Procura di Roma». A dirlo è l’ex pm della Capitale Stefano Rocco Fava. Alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle inchieste riguardanti le toghe, non sono state però sufficienti venti riunioni per stabilire se Fava avesse ragione o meno quando segnalò a Palazzo dei Marescialli il 2 aprile del 2019 alcune mancate astensioni da parte del procuratore Giuseppe Pignatone. Secondo Fava, Pignatone, in diversi procedimenti penali di cui era assegnatario, pur in presenza di conflitti d’interesse come gli incarichi dati da alcuni indagati al fratello avvocato, avrebbe continuato a condurre le indagini. Vale la pena ripercorrere tutte le tappe che hanno portato all’archiviazione dell’esposto “per superamento dei termini”, che verrà votata in Plenum la prossima settimana. Una archiviazione avvenuta «senza che il Csm mi abbia sentito», ricorda Fava. Dopo essere stato esaminato dal Comitato di presidenza, composto dal vice presidente del Csm David Ermini e dai capi della Corte di Cassazione, il procuratore generale ed il primo presidente, il 6 maggio 2019 la Prima commissione decide di aprire la pratica, dando subito mandato alla segreteria di svolgere gli adempimenti di rito. Il 13 maggio viene deliberato di chiedere a Paola Piraccini, segretario generale del Csm ed ora nella Commissione per la riforma del Csm voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, di fornire il cd, conservato in cassaforte, con la documentazione prodotta da Fava. Il relatore della pratica è il togato di Magistratura indipendente Paolo Criscuoli. Il 20 maggio, non essendo ancora arrivato il cd, viene fatto un “sollecito” per una completa valutazione dell’esposto. Il relatore propone di chiedere al procuratore generale della Corte d’appello di Roma Giovanni Salvi e al procuratore di Roma facente funzioni Michele Prestipino gli atti e provvedimenti di rispettiva competenza su questa vicenda. Il 23 maggio la Commissione si riserva di ascoltare Fava e blocca la data del 2 luglio. Sul punto ci sono contrarietà. La togata progressista Alessandra Dal Moro, prima di sentire Fava, vuole leggere in maniera approfondita gli atti. Il 29 maggio scoppia il Palamaragate e la pratica prende subito tutta un’altra strada. Il 3 giugno, con i giornali pieni di notizie sulla cena dell’hotel Champagne fra Luca Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque togati del Csm, viene revocata l’audizione di Fava e viene disposto che il cd resti nella disponibilità della dottoressa Pieraccini. Sono giorni di grande tensione. Inizia un pressing fortissimo per chiedere le dimissioni dei cinque togati che hanno partecipato all’incontro con Palamara. Alla riunione del 6 giugno si decide il destino di Criscuoli, uno dei cinque, nel frattempo “autosospesosi”. Il primo luglio Criscuoli molla e relatore diventa il laico in quota Forza Italia Alessio Lanzi, presidente della Commissione. Viene deciso, finalmente, di distribuire il cd con gli atti. Il posto di Criscuoli viene preso dal davighiano Giuseppe Marra. Il 2 luglio, dopo due mesi, avviene la distribuzione del cd. Il 4 luglio, vista la presenza di un altro fascicolo che interessa Fava, si decide per la loro riunione. Viene bocciata la proposta di ascoltare Fava avanzata da Marra. Il 9 luglio viene autorizzata l’acquisizione di copia, desecretata, delle intercettazione effettuate dalla Procura di Perugia nei confronti di Palamara. L’11 luglio Fava decide di chiedere di essere trasferito dalla Procura di Roma. La Commissione si riserva di sentirlo il 19 settembre. Il 15 luglio viene dato parere favorevole al trasferimento di Fava che diventa giudice civile al tribunale di Latina. Il 22 luglio si discute delle richieste di atti presentate dal difensore di Fava. Il 25 luglio viene nuovamente messa in discussione l’audizione di Fava prevista per il 19 settembre. La togata Dal Moro chiede di archiviare l’esposto. Lanzi, invece, propone di esaminare in maniera approfondita gli atti. Nel fascicolo finiscono, nel frattempo, anche le intercettazioni trasmesse da Perugia. Il Csm chiude per ferie e si riprende il 12 settembre con il togato Sebastiano Ardita che propone di sentire Fava una volta che saranno chiuse le indagini di Perugia e comunque di “attendere un mese”. La Commissione propone di chiedere a Perugia che tempi ci saranno (le indagini saranno chiuse il 19 aprile 2020, ndr). L’audizione di Fava viene rimandata a data da destinarsi. Il 9 ottobre la Commissione si riunisce ancora e decide di rinviare la pratica ad una prossima stante la “complessità della vicenda”. Il 10 dicembre stanno scadendo i termini per chiudere la pratica e viene disposta una proroga di tre mesi. Ardita è il nuovo presidente della Commissione al posto di Lanzi. Esce la togata Dal Moro ed entra il giudice Giovanni Zaccaro. Relatore è adesso Emanuele Basile, laico in quota Lega. Il 20 aprile del 2020 Zaccaro fa presente che i termini processuali sono sospesi a causa della pandemia. Il 23 aprile, nuova riunione, dove Basile chiede di attendere il 15 maggio quando scadrà la sospensione per decidere di archiviare l’esposto. Il 15 giugno la pratica è ormai prossima alla scadenza. È trascorso oltre un anno e Fava non è mai stato sentito. La Commissione prende atto che da Roma non sono stati trasmessi tutti gli atti richiesti circa le mancate astensioni segnalate da Fava nei fascicoli. Si decide di chiederne, in particolare a Prestipino che da poco è diventato procuratore della Capitale, il motivo. Per giustificare il mancato invio degli atti al Csm, infatti, era stato fatto cenno a non ben definite “ragioni di segreto investigativo”. Ma sarà tutto inutile: il 26 giugno 2020 la “prescrizione” cadrà inesorabile sull’esposto di Fava. La pratica avrà uno strascico lo scorso febbraio con la richiesta, accolta da parte della Commissione, di dare gli atti ai difensori di Fava. Archiviato in questo modo l’esposto, «vorrei però sapere per quale motivo Pignatone decise di togliermi il fascicolo nei confronti dell’avvocato Piero Amara», aggiunge Fava. A chi il compito di rispondere? Sempre al Csm. Paolo Comi

Francesco Di Donato: "Perché i giudici sono peggio dei dittatori". L'esperto di storia svela l'anomalia italiana: cosa succede nell'ombra nei Tribunali. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 14 settembre 2021. «Il partito dei giudici governa senza la responsabilità che è tipica invece del governo politico. Governa in modo occulto, per sentenze interpretative, additive, manipolative e ora perfino intermittenti, da quando un verdetto della Corte Costituzionale ha sancito l'innovativo principio "per questa volta vi perdoniamo ma la prossima vi stronchiamo". La creatività artistica c'era arrivata già da tempo: recitava uno splendido verso di Giorgio Gaber che "la legge c'è, la legge non c'è", a seconda delle convenienze politiche momentanee dei giudici che la interpretano e, interpretandola, di fatto la creano ola fanno tacere». La pronuncia della Consulta è quella che nel 2019, presidente l'attuale Guardasigilli, Marta Cartabia, stabilì che non è giusto che il governo conceda al Parlamento solo tre ore per esaminare tutta la legge Finanziaria, ma che per l'esecutivo giallorosso di Conte, si poteva fare un'eccezione. Il virgolettato invece è uno stralcio di drammatico realismo di 9871. Statualità Civiltà Libertà. Scritti di storia costituzionale (Napoli, Editoriale Scientifica), poderoso e ponderato lavoro di Francesco Di Donato, 57 anni, professore ordinario di Storia delle Istituzioni al Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università Federico II di Napoli. Ordinario dal 2005, ha ottenuto la cattedra nel celebre ateneo napoletano in modo piuttosto atipico nell'università attuale: ha vinto un concorso vero, dinanzi a una commissione internazionale presieduta da Jacques Krynen, professore a Tolosa, considerato tra i più illustri storici viventi del diritto e delle istituzioni al mondo. «È da 35 anni che studio il tema dei rapporti tra magistratura e potere politico nella storia europea e sono giunto alla conclusione che in Italia, il problema fondamentale è lo strapotere dei giudici». Non c'entrano niente Tangentopoli, Berlusconi, Palamara e il processo a Salvini perché è innocente ma è un nemico, come spiegato dall'allora capo delle toghe. «Parte tutto da più di mille anni fa, è scritto nel dna dell'Italia, perché la debolezza del potere politico ha portato a un naturale sconfinamento di potere della magistratura». Il lungo viaggio di Di Donato nella storia svela la perversione del meccanismo: «Se lo Stato, inteso non come istituzione formale, ma come civiltà pubblica, è forte, il ricorso alla magistratura è debole e la categoria influisce meno nella vita di un Paese; se, invece, lo Stato è debole, si ha un diritto senza legge, perché i giudici comandano su tutto, arrivando a fare perfino "ingegneria sociale", decidendo l'assetto delle banche, delle imprese, finanche gli usi e costumi delle persone, cosa si può dire e cosa no».

Qual è il danno maggiore determinato da questa situazione, professore?

«L'assenza di giustizia. Più potere hanno i giudici, meno giustizia resta per i cittadini».

Sembra un paradosso...

«Lo è. Ed è questo un punto cruciale nella società della comunicazione. Le persone tendono intuitivamente a pensare che i diritti siano tutelati dal potere dei magistrati. Non è affatto così. L'osservazione storica ci mostra l'esatto contrario».

Ma se in Italia non c'è giustizia, perché tutti intentano cause?

«Proprio per questo motivo. Si cade come in una distorsione "ottica". Si è introiettata l'idea che la legge abbia una sorta di forza di applicazione propria e che i giudici siano il tramite per applicarla. Così la mente opera un clamoroso autoinganno, rimuovendo lo spettro dell'arbitrio. E così si fanno cause su cause fingendo di non sapere che esse saranno infinite e che perciò non dispenseranno mai giustizia (una giustizia, qualora arrivi tardivamente, non lo è più). Ma le cose non stanno come la distorsione generalizzata fa credere. Nei tribunali non c'è un solo avvocato che pensi che il diritto giudiziario sia l'applicazione della legge. C'è ormai una specie di scoraggiata rassegnazione divenuta cronica. E su questo la magistratura autocelebra i suoi trionfi e accumula sempre più potere. Ma il fenomeno non è recente».

Si è però aggravato ultimamente?

«Oggi siamo in una situazione peggiore a quella che precedette la Rivoluzione Francese, perché allora, nel cosiddetto Antico Regime, c'era in Francia una dialettica molto intensa tra potere politico e magistratura. In Italia non c'è mai stata per assenza di una delle due parti, la parte politica. Questa situazione facilita oggi l'annullamento del potere sovrano e sposta la sovranità effettiva nella funzione giurisdizionale, determinandone una mutazione genetica. Cosa c'entra la rivoluzione francese? «È da lì che è nata l'età dei diritti, per riprendere la formula fortunata di Norberto Bobbio». 

Libertà, fraternità, uguaglianza...

«Sì ma questi sono principi che subentrarono in corso d'opera. Nell'Ancien Régime i magistrati francesi avevano raggiunto un potere smisurato, malgrado la dottrina politica continuasse a propagandare la favola del potere assoluto. Un segno che mostra bene a qual punto fosse pervenuto il potere dei giudici è nelle statue autocelebrative che venivano erette nelle piazze delle città dove avevano sede le più importanti corti di giustizia (chiamate 'Parlamenti')».

Ma non c'era un re? E l'"Etat c'est moi"?

«Luigi XIV non pronunciò mai quella frase. Non vi è alcuna prova testuale. Il potere giudiziario arrivò a ostacolare tutte le riforme del governo e costruì step by step un potere pervasivo su ogni aspetto della società, arrivando perfino a regolamentare aspetti privatissimi come l'abbigliamento delle donne. Un po' come i talebani di oggi! A un certo punto il potere monarchico non ne poté più e cercò di reagire».

Fu quindi una rivoluzione contro i giudici?

«Esattamente. Il popolo era più stufo dei magi«Nei tribunali non c'è un solo avvocato che pensi che il diritto giudiziario sia l'applicazione della legge» strati che di Maria Antonietta. Non a caso dopo averli osannati per più di tre secoli, improvvisamente le folle abbatterono le statue dei giudici».

A distanza di 232 anni, si può dire allora che abbiamo perso lo spirito della rivoluzione francese...

«Già nel 1837 la Cassazione, un organo creato per arginare il potere creativo della magistratura e per rimediare ai suoi errori divenne un organo legislativo legittimato a creare il diritto attraverso le sentenze; un regresso barbarico che interruppe il processo di lotta per il diritto e di civilizzazione statuale. Infine la dottrina giuridica stabilì il principio assoluto che la legge non può essere mai solo e semplicemente applicata ma deve essere interpretata. Si è introdotta così la divaricazione tra norma e diritto, una formula che svuota il potere legislativo e che sancisce l'egemonia (politica) della tecnica giuridica. Oggi non si parte neanche più dalla legge per porsi il problema di applicarla, ma dal significato sotteso alla norma, in modo da interpretarla, reinterpretarla e così riscriverla, modificandola ad libitum secondo le opportunità del momento".

È l'eredità di Tangentopoli?

«Non direi perché il problema è molto più antico. Ma quella stagione ha segnato una svolta perché ha potenziato l'impatto mediatico e quindi ha diffuso l'idea che i magistrati salvino la società dalla corruzione. In un sistema sano la magistratura non deve salvare da niente. Non è, come dicevano i suoi protagonisti nell'Antico Regime, "una milizia". Nello Stato di diritto il giudice è sempre terzo senza eccezioni né stati di eccezione. Ad esempio come cittadino trovo gravissimo che tutti i protagonisti in toga di quella stagione abbiano poi ricoperto incarichi politici. E senza che questo abbia comportato una indignazione pubblica».

Quando parla di milizia in riferimento ai giudici allude al famoso slogan "Resistere, resistere, resistere", coniato dalla Procura di Milano?

«No non pensavo a quello, ma uso la sua domanda per affermare che i magistrati non si dovrebbero comportare come sacerdoti, lanciando crociate contro la corruzione o combattendo un fenomeno sociale o una persona. Il giudice deve limitarsi ad applicare la legge e a rispondere alla domanda di giustizia. Sic et simpliciter».

Risultato, in sintesi?

«In Italia non esiste un potere sovrano con princìpi-cardine ma una continua ricerca di accordi complessivi, di regola occulti, che alla fine impediscono il formarsi di un senso dell'interesse generale. Così il Paese non si muove di un millimetro dai tempi di Dante. Lo tocchiamo con mano in ogni circostanza, da ultimo con il Covid. In quale altro Paese si vedono ministri che vanno in tv a proporre provvedimenti? In un paese normale un ministro non propone, dispone. E si assume la responsabilità politica delle sue scelte, uscendo di scena quando esse portano a risultati negativi». 

Va bene professore, ma cosa c'entrano i giudici?

«Riflettiamo insieme: negli altri Paesi del mondo avanzato le facoltà universitarie dove si studia la legge si chiamano "facoltà di diritto" (e spesso di "diritto e scienze politiche"); qui da noi dire "sono iscritto a legge" è sminuente; si studia giurisprudenza, cioè l'interpretazione che i magistrati fanno degli enunciati legislativi, che non sono nemmeno considerati norme. Il che significa che all'università si inculca nelle teste dei futuri operatori del diritto che i giudici sono di gran lunga più importanti delle norme. Sono loro le norme».

Le leggi però le fa il Parlamento...

«Così si crede comunemente in base all'autoinganno di cui le dicevo prima: in realtà il 98% delle leggi le fa il governo e i testi sono scritti dagli uffici legislativi ministeriali, per lo più diretti da magistrati e consiglieri di Stato distaccati, che scrivono appositamente le norme in modo nebuloso. Lo fanno apposta con una tecnica precisa. Così, quando arriva il momento di applicarle, i giudici-interpreti hanno facilità a riscriverle di volta in volta, a danno dell'uniformità e della certezza del diritto. Nessuno oggi può dire, con ragionevole previsione, come finirà una causa. L'eccesso di burocrazia e di formalismo è una tecnica ben nota allo storico del diritto per accrescere a dismisura il potere dei giudici e indebolire il diritto».

Descrive i giudici come una sorta di dittatori-tiranni...

«In realtà sono anche peggio, perché i dittatori si assumono palesemente la responsabilità del potere che esercitano e si espongono al rischio di essere destituiti. I giudici sono invece irresponsabili, agiscono nell'ombra. Il giudice Gherardo Colombo dichiarò palesemente che "il giudice migliore è quello invisibile". Così riescono a far credere ai cittadini che lavorano per difendere i diritti delle persone e la pubblica opinione, già narcotizzata da secoli di inedia, cade nella trappola. Ma quali diritti difendi, con itempi di questa giustizia che tiene in ostaggio chi vi ricorre? Mi creda: se guardiamo agli esempi storici, l'affermazione del diritto e della giustizia è sempre passata attraverso la riduzione del potere dei giuristi».

Finirà come la Rivoluzione Francese?

«Nessuno può dirlo. All'inizio neppure la Rivoluzione Francese si pensava sarebbe finita così. Posso però dire che la Rivoluzione si compì per abbattere il potere politico occulto dei magistrati e impedire l'uso politico della giustizia. Occorse affermare il principio che la giustizia è uguale per tutti. E questa non è la situazione attuale in Italia».

Gli italiani però sono esasperati dalla giustizia...

«È quello che mi auguro, ma sono uno storico e lo storico si occupa con serietà del passato non del futuro. Certo, come cittadino sono esasperato e mi auguro che arriverà il momento in cui ci si renderà conto che non si può vivere in una Repubblica libera se i magistrati comandano in maniera assoluta e senza né divisione né bilanciamento dei poteri. Quando il Paese ne prenderà coscienza, si realizzerà l'auspicio di Massimo D'Azeglio: fatta l'Italia, avremo fatto gli italiani».

Se potesse fare lei una riforma?

«Guardi il potere giudiziario di per sé ha un volto demoniaco. È una potestas terribilis. Credo che i giudici debbano essere terzi anche rispetto al proprio potere. La giurisdizione ha già in sé una potenza smisurata, se la si aumenta oltre i limiti fissati dalla legge si realizza una situazione ben poco compatibile con la democrazia. Ma purtroppo si studia tanto il diritto giurisprudenziale e poco la logica e l'antropologia e la sociologia giuridica. Materie invece fondamentali nella formazione di un giurista non formalista e burocrate. E la stessa storia del diritto è fatta in Italia per lo più per rafforzare l'autocelebrazione dei giuristi. Mentre, come ben diceva Giovanni Sartori, la storia costituzionale (che non a caso è bandita dai corsi di giurisprudenza, insegna una visione critica, funzionale alla società non alla consorteria giuridica». 

Carlo Nordio, come funziona la giustizia in Italia: "Il pm? Poteri da giudice e da superpoliziotto. E non risponde a nessuno". Libero Quotidiano il 13 settembre 2021. La separazione delle carriere chiesta dal referendum di Radicali e Lega e sostenuto da Forza Italia, secondo Carlo Nordio può garantire meglio la terzietà del giudice. "Ma non solo - sottolinea in una intervista a Il Giornale - La separazione delle carriere è consustanziale al sistema processuale accusatorio, cosiddetto alla Perry Mason, che noi abbiamo adottato in modo imperfetto con l'attuale codice Vassalli. Nei Paesi dove questo sistema è vigente, dagli Usa al Regno Unito, dal Canada all'India ecc. non esiste la possibilità di transitare dall'una funzione all'altra come da noi. Dirò di più. Nel sistema americano il giudice può diventare pm perché questa carica è elettiva. E se questo District Attorney infila una serie di indagini costose e sbagliate viene mandato a casa, mentre da noi viene promosso, com'è accaduto nel caso Tortora e in tanti altri". E ancora, sottolinea Nordio: "L'Italia è l'unico paese al mondo dove il pm ha le garanzie del giudice e i poteri del superpoliziotto, senza rispondere a nessuno. Credo che più che da motivazioni politiche o ideologiche alcune inchieste costose e infondate contro politici siano state ispirate da protagonismo personali". In questo senso si dice d'accordo con Silvio Berlusconi secondo il quale dopo un'assoluzione non ci dovrebbe essere possibilità di appello: "Anche qui per coerenza con il sistema processuale anglosassone, dove dopo l'assoluzione non c'è l'appello del pm, salvo casi rari dove però devi rifare tutto il dibattimento daccapo. Da noi invece puoi condannare con le stesse carte sulla base delle quali il giudice precedente aveva dubitato al punto da assolvere. E questo contrasta, come ha ricordato Berlusconi, con il principio costituzionale della condanna 'al di là di ogni ragionevole dubbio'". Quanto alla prescrizione, Nordio sostiene che "la riforma Bonafede era una mostruosità giuridica che tra l'altro avrebbe prolungato i processi all'infinito, mentre l'Europa condizionava gli aiuti a una giustizia più rapida. La Cartabia ha fatto quindi una sorta di miracolo, o di gioco di prestigio. Non poteva umiliare i grillini al punto da intervenire sulla loro bandiera, cioè sulla prescrizione, che estingue il reato; e allora ha raggiunto lo stesso risultato intervenendo con l'improcedibilità che estingue il processo. Questo creerà enormi problemi applicativi, ed è logico che molti giuristi abbiano sollevato perplessità. Ma intanto l'Europa è rimasta soddisfatta, i soldi stanno già arrivando, e questo era ciò che contava e che conta", conclude Nordio. 

Silvio Berlusconi, rilancia la battaglia sul garantismo nella giustizia italiana: "Un crimine condannare un innocente". Libero Quotidiano il 12 settembre 2021. Silvio Berlusconi, sulle colonne del Giornale, analizza l'attuale momento della giustizia italiana travolta da continui scandali e rilancia il suo cavallo di battaglia sulle riforme da applicare. "Perseguire una persona non colpevole significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane e denaro dalla caccia ai veri criminali. Non si può essere sottoposti a questa tortura per decenni. E spesso chi valuta è condizionato da pregiudizi politici: serve un giudice terzo che non sia legato all’accusa. Il garantismo è uno dei principi fondanti di Forza Italia insieme a liberalismo, cristianesimo ed europeismo", scrive il leader politico. Berlusconi torna indietro negli anni e punta il dito contro i suoi storici "nemici" politici: i comunisti. "Negli anni ’60-70 il Partito comunista compì un’opera sistematica di occupazione della magistratura con nomi di fiducia da inserire nei gangli vitali del sistema giudiziario. L’operazione Mani Pulite, e tante altre vicende successive, sono figlie di questa storia. Come ben comprese già 30 anni fa Giovanni Falcone, "confondendo la politica con la giustizia penale l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba"", scrive ancora Berlusconi. Il leader di Forza Italia entra poi più nel dettaglio parlando anche della riforma della giustizia voluta dalla ministra Cartabia: "Un imputato assolto da un tribunale non dovrebbe essere ulteriormente perseguito. Giusta l’inappellabilità dell’assoluzione. Se un magistrato lo ha ritenuto innocente evidentemente esiste almeno un dubbio sulla sua colpevolezza. Per questo abbiamo proposto l’inappellabilità dei giudizi di assoluzione. A tutto questo si aggiunge il fatto che nella pratica il processo è esso stesso una condanna, perché dura anni, perché getta sulla persona l’ombra del sospetto e dello stigma sociale, perché ne limita – anche se innocente – molti diritti e molte libertà ed è anche per questa ragione che i processi non possono durare all’infinito, una persona non può essere sottoposta a questa tortura per decenni. La prescrizione è una misura di civiltà", rivela Berlusconi.

Era l’inverno del ’92, e tutto ebbe inizio con una mazzetta a un “Mariuolo”…La lunga marcia del giustizialismo ha una precisa data di battesimo: 17 febbraio 1992, giorno in cui Mario Chiesa fu pizzicato da Tonino Di Pietro. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 ottobre 2021. La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d’apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l’intero sistema. Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L’Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l’emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l’epopea del bene contro il male. La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l’intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l’Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine. I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s’identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, il 20 e il 23 luglio. Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D’Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo. Anche in questo caso due date bastano a restituire l’intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l’uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l’invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo. Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un’enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l’emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all’allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia. Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. E’ possibile che quell’apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l’avvio del tramonto. Il fallimento del M5S e la sua progressiva “normalizzazione”, gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l’avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d’anni. Non è escluso che la secca dichiarazione del vero leader dei 5S, Di Maio, sull’esito del processo che ha smantellato l’intera visione della storia italiana del Movimento, quello sulla trattativa, “Le sentenze si rispettano”, sia la campana a morto per la lunga festa del giustizialismo italiano.

Tiziana Parenti: «I miei ex colleghi di Mani pulite puntavano alla presa del potere». «Nel 1993 all’interno della magistratura, inclusa la Procura di Milano, ci si era convinti che l’ordine giudiziario dovesse assumersi una responsabilità anche politica. Poi l’avvento di Berlusconi sparigliò tutto, le toghe ripiegarono verso una sclerotizzazione burocratica. Ma nelle loro previsioni c’era ben altra prospettiva». Errico Novi su Il Dubbio il 14 settembre 2021.

«Erano convinti di doversi assumere la responsabilità del potere».

Di dover cambiare l’Italia attraverso le indagini?

«No, anche di assumersi direttamente la responsabilità del potere politico».

Tiziana Parenti, da tempo ormai avvocato del Foro di Genova e dunque lontana non solo dalla toga di pm ma anche dallo scranno parlamentare, è una figura atipica nella storia a di Mani pulite. Corpo estraneo rispetto al resto del Pool, presto convintasi a lasciare la Procura milanese e la magistratura e a schierarsi in politica con Forza Italia, ha già raccontato altre volte delle iperboli che, a suo giudizio, hanno pesato sul percorso degli ex colleghi. Stavolta lo fa a poche ore dal nuovo scontro fra Piercamillo Davigo e Francesco Greco.

Non finisce nel migliore dei modi, avvocato Parenti, l’epopea di Mani pulite e della mitica Procura di Milano anni Novanta.

Distinguiamo però le due cose. Francesco Greco non ha fatto parte del Pool all’epoca di Tangentopoli, Davigo sì. Ma è vero che le nuove tensioni mostrano quanto sia pericoloso per la magistratura eccedere nel protagonismo. Finisce male perché a un certo punto alcuni magistrati, inclusi i miei ex colleghi di Milano, hanno smesso di intendere la loro funzione in termini di esclusiva ricerca della giustizia rispetto al caso concreto.

In che senso?

Hanno ritenuto di doversi assumere una responsabilità più grande, di doversi fare carico di un progetto di cambiamento del Paese in cui appunto sarebbero stati protagonisti.

Be’, in effetti con Mani pulite sono diventati fatalmente protagonisti: hanno disarcionato la politica.

Sì ma, non saprei dire se per un inappropriato senso di responsabilità, in quella parte della magistratura, Procura di Milano inclusa, si era radicata la convinzione che alcuni esponenti del mondo togato potessero anche impegnarsi direttamente in politica, pur senza cercare collocazione in uno dei pochi partiti sopravvissuti. E certo il clima di Mani pulite, nel 93, ha esasperato questa convinzione.

Nel Pool di Milano non si escludeva un impegno politico diretto di qualche componente?

Io non partecipavo ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza, quelli sui partiti di governo. Io ero la sola a lavorare sul Pds. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi.

Non eravate mica tutti di sinistra?

Assolutamente no, ma non era una questione ideologica. Certamente le idee politiche personali di ciascuno, nella Procura di Milano, erano assai diverse. Però, in un’ottica in cui la magistratura avrebbe avuto un proprio peso politico, il Pds, la sinistra, rappresentavano certamente l’interlocutore ritenuto, dalle toghe, più adeguato al realizzarsi dell’obiettivo.

Le sue sono affermazioni impegnative.

Ma come sa non è la prima volta che ne parlo. Il progetto di una magistratura più influente sul quadro democratico generale inizia, se è per questo, una trentina d’anni prima di Mani pulite. Con la lotta al terrorismo, le leggi speciali, alcune garanzie ottenute dall’ordine giudiziario, non esclusi i 45 giorni di ferie e l’incremento della retribuzione. Mani pulite è semplicemente il momento in cui la magistratura comprende che il principale ostacolo al compiersi di quel progetto generale, vale a dire i partiti della prima Repubblica, era stato eliminato, e che dunque il campo era più libero.

Siamo partiti da quel clima, ci troviamo con uno scontro molto duro fra Greco e Davigo: come si spiega?

Non si può fare a meno di recuperare la storia. Primo, Silvio Berlusconi era un altro interlocutore che la Procura di Milano riteneva prezioso, durante la fase originaria dell’inchiesta. Con le sue tv, ricorderete i report di Andrea Pamparana, diede grande risonanza al lavoro del Pool, e al pari del Pds era considerato, seppur per motivi diversi, una controparte appunto utile.

Cosa si diceva di Berlusconi a Palazzo di giustizia?

A me parve di capire che non vi fosse alcuna intenzione di coinvolgerlo nelle indagini.

E poi che è successo?

Che Berlusconi ha sparigliato il tavolo: inventa Forza Italia, vince le elezioni e occupa il centro della scena, il vertice della politica.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

Io mi candidai con Forza Italia. Gli dissi: “Presidente, temo che una sua nomina a presidente del Consiglio possa provocare ricadute sfavorevoli sul piano giudiziario”. Mi rispose: “Ho vinto le elezioni, perché non dovrei diventare capo del governo?”. Come dargli torto. Ma la mia fu una facile previsione.

Berlusconi quindi potrebbe essere, lei dice, la variabile che ha alterato la prospettiva immaginata dalla magistratura.

Lo fu. Berlusconi è l’antitesi di un processo storico. La sintesi successiva ha visto la magistratura trasformarsi da forza di potere, con prospettive anche propriamente politiche, a potere solo burocratico, che è stato comunque forte ma ha finito per sclerotizzare la giustizia. I riti del potere giudiziario, la difesa delle prerogative, sono la prima vera causa delle lentezze.

Lei operò ha lasciato anche la politica, nel 2001: perché?

Fu insopportabile la delusione per la Bicamerale. Ci avevo lavorato. Credevo nella possibilità di poter inserire, fra le riforme condivise, anche quella della giustizia. Berlusconi, bombardato dalle indagini, decise di lasciare il tavolo. Compresi le sue motivazioni, ma per me fu un colpo troppo pesante.

Ha letto però l’intervento di Berlusconi a proposito di giustizia uscito domenica sul “Giornale”? Le è piaciuto?

Molto, parla di princìpi per i quali avrei voluto battermi, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, ai limiti nell’adozione delle misure cautelari.

Ma se il Cav le chiedesse di tornare in politica per dedicarsi di nuovo alla giustizia?

Mi farebbe piacere impegnarmi di nuovo, credo nei princìpi costituzionali, nella loro affermazione. Mi impegnerei volentieri, se si tratta di battersi per la giustizia sono sempre pronta ad accettare la chiamata.

Senta, ma in fondo può essere anche comprensibile che il caos generato da Mani pulite inducesse in alcuni magistrati la convinzione di dover assumere su di sé il peso di un potere devastato?

Può darsi che la devastazione politica prodotta da quell’inchiesta abbia in effetti suscitato in una parte della magistratura la convinzione che, spianato il deserto, occuparsi del potere diventava doveroso, necessario. Non lo so, ripeto: a certe riunioni io non partecipavo, ero esclusa. Ma l’aria che si respirava nella magistratura italiana, nel 1993, era quella. D’altronde, un conto è cercare la verità su un fatto specifico, altro è assumere iniziative che rovesciano il Paese come un calzino.

Era esagerato?

Direi di sì, e probabilmente la durezza di quell’indagine fu incoraggiata anche da potenze straniere, che non avevano più bisogno della classe dirigente grazie alla quale, per l’intero dopoguerra, l’Italia era rimasta un’avanguardia contro l’avanzare del comunismo.

Lei è stata nel Pool di Mani pulite, seppur per un tempo limitato. È una testimone diretta.

Appunto. Pochi meglio di me possono parlare di quel periodo. Di cosa circolasse nella magistratura. C’era un’idea di potere da assumere, in modo anche diretto. Poi Berlusconi si è frapposto e quell’idea è svanita. Ma a quale prezzo, almeno per Berlusconi, lo abbiamo visto.

A cosa si riferisce?

Berlusconi è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha assunto anche tratti persecutori. Ripeto: prima del 1994 non c’era un magistrato che avesse detto “Silvio Berlusconi finirà sotto indagine”. Poi Forza Italia vinse le elezioni e nulla fu più come prima.

Filippo Facci: «Dopo Mani pulite, partiti e giusto processo non si sono più ripresi». Il giornalista Facci al Dubbio: «A parte la vicenda di Di Pietro, i magistrati di Milano dimostrarono di avere un potere superiore a quello del Parlamento». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. «È cambiato tutto. Nulla è più come prima. A cominciare dal Codice Vassalli- Pisapia dell’ 89: non è mai più stato com’era prima di Mani pulite. E la politica non si è mai ripresa, da allora. Anzi non c’è. Non esiste. Ci sono i curatori fallimentari, i tecnici, figure estranee ai partiti che fanno le riforme altrimenti impossibili». Con Filippo Facci si potrebbe trascorrere un pomeriggio intero, anzi più di uno, a parlare del ’ 93, e a spiegare l’eredità mortifera lasciata da Mani pulite. E ci vorrebbero molte pagine d’intervista, perché da giovane cronista giudiziario dell’Avanti!, Facci, oggi commentatore di Libero fu tra i pochissimi giornalisti italiani a non accettare il “verbo” del Pool, e a cercare di raccontarlo diversamente. A breve pubblicherà un libro, per celebrare in anticipo i trent’anni dall’inchiesta spartiacque della democrazia italiana.

Tiziana Parenti ci ha raccontato che nel ’ 93 i pm di Milano non escludevano un impegno diretto della magistratura in politica.

Distinguiamo: Di Pietro si è impegnato eccome, lo sappiamo. Agli altri è bastato condizionare persino le scelte legislative, con una forza superiore al Parlamento, ma senza lasciare la toga. Fanno fede due casi clamorosi: la pronuncia sul decreto Conso e l’altolà televisivo al decreto Biondi.

Era il consenso popolare a incoraggiare certe forzature?

Secondo Di Pietro c’era il rischio che “l’acqua non arrivasse più al mulino”, cioè che le confessioni si interrompessero e che non si potesse andare avanti. E tutto era possibile in virtù dell’insofferenza verso le forze del pentapartito che si radica nell’opinione pubblica dopo l’ 89, si manifesta con le elezioni del ’ 92, favorisce la particolare durezza di Mani pulite con il Psi prima e con la Dc poi. Lo stesso Borrelli confessò che il Pool sceglieva determinati obiettivi secondo le possibilità del momento. Altro che obbligatorietà dell’azione penale. E poi certo, il consenso esaltante spinse anche a osare di più, agli editti televisivi, e a fare giurisprudenza.

A cosa ti riferisci?

Mani pulite ha innescato un effetto a catena capace di rovesciare il Codice Vassalli- Pisapia nel suo contrario. C’è un prima e un dopo. Al Pool di Milano, per Mario Chiesa, servirono flagranza di reato, banconote segnate, un registratore, le confessioni di Luca Magni, si provò a usare senza successo persino una telecamera. Ma fino ad allora era quasi sempre così non solo per quei pm. Pochi mesi dopo, per procedere a un arresto, divenne sufficiente che qualcuno vomitasse mezzo nome e che quel nome finisse opportunamente sui giornali. A quel punto andavi di manette, nessuno protestava e per i gip era tutto a posto.

Mani pulite è stata lo spartiacque, per gli eccessi sulla custodia cautelare?

Lo è stata rispetto a una serie di stravolgimenti ad ampio raggio del Codice dell’ 89, avvalorati in seguito da varie Corti d’appello fino alla Consulta. Se il perno del processo accusatorio consiste nel dibattimento davanti al giudice terzo che si svolge nella parità tra le parti, secondo il principio dell’oralità nella formazione della prova, con Mani pulite arriviamo al punto che i verbali estorti in galera diventano prove, e se poi in Aula il teste non conferma tutto, finisce indagato per calunnia. A trent’anni da quell’inchiesta non siamo ancora fermi a quel punto ma i segni lasciati dal 1993 si vedono ancora.

Politica e magistratura sono tuttora due incompiute per via di quel trauma?

È un discorso che richiederebbe molte ore. Possiamo partire da alcune certezze. Dopo l’ 89 tutto il mondo è cambiato, ovunque la tecnocrazia si è intrecciata al populismo, ma in nessun altro posto il cambiamento è venuto da una rivoluzione giudiziaria. Avvenne perché con la fine della guerra fredda cambiò anche la considerazione che gli Stati Uniti e in generale le forze occidentali avevano del nostro Paese. Cossiga lo previde con largo anticipo in un paio di interviste rilasciate in Inghilterra e Francia, in Italia gli diedero del matto. Ma nonostante i presupposti che ho ricordato, Mani pulite non fu conseguenza di un complotto. All’arresto di Mario Chiesa, i pm di Milano mai avrebbero immaginato cosa sarebbe avvenuto. Pensavano di chiudere tutto per direttissima. Poi Borrelli ammise che per la loro indagine la svolta venne dal risultato elettorale dell’aprile ’ 92. Cambiarono gli equilibri, la magistratura fiutò l’insofferenza e processò un intero sistema. Il gip Italo Ghitti ammise: il nostro obiettivo non era giudicare singole persone ma abbattere un sistema.

Al punto che tra i pm maturò l’idea di dover fare politica in prima persona?

Non ne ebbero bisogno, al di là di quanto avvenne in seguito con Di Pietro. Fare politica vuol dire occupare uno spazio lasciato da altri, dalla politica appunto. Assumere un potere che travalica quello del Parlamento, come avvenne con i decreti Conso e Biondi. Borrelli stesso ammise che in quei casi si verificò uno sconfinamento.

Obbligatorietà dell’azione penale: nel ’ 92 è caduto anche quel principio?

Indagarono sul Pds, certo. Dopo Tiziana Parenti, lo fece Paolo Ielo. Ma farlo nel 1993, dopo aver prima puntato Craxi e il Psi, fu una scelta dirimente, e discrezionale. Non basta, per spiegarla, la maggiore difficoltà nel ricostruire i finanziamenti illeciti del Pci. Certamente quel metodo discrezionale ha cambiato l’orientamento della magistratura requirente. L’imprinting è rimasto, l’obbligatorietà è una barzelletta.

Berlusconi ha ereditato un po’ dell’antipolitica di Mani pulite?

Anche con una certa arroganza, se vuoi, io credo di essere tra i massimi esperti della storia di quegli anni, non foss’altro per l’immenso archivio che tuttora ne conservo, e posso dire che Berlusconi è un punto chiave dell’antipolitica italiana. Aveva compreso subito quanto fosse cambiato il vento: nel ’ 92 sconsigliò a Craxi di tentare la scalata alla presidenza del Consiglio, e gli disse di puntare casomai al Colle. Poi nelle convention di Publitalia cominciò a fare discorsi diversi dal solito, a dire che se ci fossero stati al governo pochi imprenditori come lui, avrebbero cambiato il Paese.

Oggi basta un guardasigilli di grande levatura come Marta Cartabia a dire che la politica ha riguadagnato il primato della democrazia in Italia?

Vuoi riformare la giustizia? Devi sapere che con la magistratura non c’è possibilità di mediazione. Nessuno collabora alla sottrazione del potere che detiene. Perché dovrebbero farlo i magistrati? La politica, da allora, dal 1992, non solo non è mai più tornata davvero autorevole: semplicemente non c’è. Gli unici che funzionano sono appunto i tecnici, i curatori fallimentari, che per definizione non mediano: semplicemente tagliano i rami secchi. Se pensiamo di cambiare la magistratura e il suo rapporto con la politica, non c’è altra strada che a farlo sia chi con la politica non c’entra nulla.

Giustizia, Andrea Pamparana: "Il sistema è marcio", l'ombra del ricatto della magistratura alla politica. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 20 settembre 2021. «Alla fine di tutto questo non cambierà nulla». I verbali sulla loggia Ungheria, e prim'ancora i contenuti del libro "Il Sistema", in cui il direttore di Libero Alessandro Sallusti dialoga con Luca Palamara sulle degenerazioni della magistratura, stimolano una lunga chiacchierata con Andrea Pamparana. Giornalista di rango, che annovera nel curriculum la vicedirezione del Tg5, rubriche e libri in quantità. Ma, soprattutto visse e raccontò l'inchiesta di Mani Pulite.

Cosa insegna la cronaca dei verbali sulla presunta Loggia Ungheria?

«È tutto un deja-vu. Un "già visto". Quando leggo di questa cosa, o dei meccanismi ben illustrati nel libro Sallusti-Palamara, mi viene da dire: ci meravigliamo? Ci stupiamo che vengano passati dei verbali a dei giornalisti? La risposta è no. Ma sono cose che in realtà dovrebbero farci paura, il sistema è marcio».

Perché è marcio?

«Per due elementi. Il primo è quello che venne individuato da Giovanni Falcone con il termine "pentitismo". In Italia, purtroppo, non si ha il modello del "collaboratore di giustizia" all'americana, che se non racconta le cose vere non ha alcuna protezione e subisce delle conseguenze. Da noi il primo "pentito" che dice qualcosa contro l'avversario politico di turno diventa "la verità". E tutto finisce sui giornali».

Quindi il caso Amara è pentitismo?

«Nello specifico non lo so, ma vedo che l'uscita dei verbali ripercorre quel meccanismo. Quanto sento dire che un magistrato molto importante andato in pensione, che faceva parte del Csm e io personalmente ho sempre stimato, parlo di Davigo ovviamente, si meraviglia che il verbale sia uscito tramite la sua segretaria, vorrei ricordare come uscì la notizia del famoso invito a comparire a Silvio Berlusconi a Napoli, durante un vertice internazionale».

1994. Come uscì?

«Per un giro interno tra giornalisti...».

E Procura?

«Certo! Ma secondo voi davvero possiamo credere che un Procuratore è così ingenuo da consegnare lui al giornalista, magari amico, il verbale? Gli strumenti per fare arrivare i documenti a chi di dovere sono infiniti. E' il perverso gioco dell'informazione che si è "appecoronata" al potere della magistratura».

Il secondo elemento, invece?

«La mancanza di quel che l'avvocato Giuseppe Frigo, illustre, poi diventato componente della Consulta, definì "un atto di civiltà", ossia la separazione delle carriere».

In che modo questa potrebbe interrompere il coagulo mediatico-giudiziario?

«Perché avresti due comparti precisi, tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, e perfetta simmetria tra accusa e difesa, con il giudice a vigilare al di sopra delle parti. Attualmente, questo non avviene, e anche nell'eventualità in cui il pm dovesse chiedere l'assoluzione per l'imputato, quest' ultimo nel frattempo è già stato sputtanato a livello mediatico».

La separazione delle carriere è uno degli elementi dei referendum di Lega e Radicali. Questo, assieme a quanto uscito sulla Loggia Ungheria e le rivelazioni di Palamara, portano ad un'accresciuta sensibilità collettiva sul tema. Ci sarà la spinta per una complessiva riforma?

«No».

Perché?

«Quanti referendum abbiamo fatto che poi non sono stati applicati? Accadrà anche questa volta. Alla fine ci sarà qualche piccola modifica della normativa che renderà vano quel referendum».

Eppure dovrebbe essere anche interesse della politica recuperare il suo primato.

«Certo, sempre però che la politica non sia al servizio o sotto ricatto della magistratura. Ricordo che c'è più volte stata occasione per farla, la riforma. I governi Berlusconi avevano un forte mandato popolare».

Neanche allo strapotere delle correnti si metterà mano?

«Può darsi che su quel lato uno scossone ci sia, ma dipenderà dal nuovo presidente della Repubblica. Cossiga, che tutti davano per folle, mandò i carabinieri al Csm, ma sono passati più di trentacinque anni!».

Nel '92 la Procura di Milano era il santuario del moralismo. Oggi abbiamo due protagonisti di allora, Greco e Davigo, l'uno contro l'altro. Che lezione se ne trae?

«Mi ricorda certi duelli del lunedì mattina sul calcio tra due immensi avvocati, Peppino Prisco, interista, e Vittorio Chiusano, che è stato presidente della Juve. Delle boutade».

Tutta scena?

«A parte il fatto che il pool era meno unito di quanto si possa pensare, direi di sì. Per carità, è una cosa anche rilevante, ma finirà in nulla. Tanto, dopo Greco e Davigo, arriverà qualcun altro che sarà incensato dagli aedi del Fatto Quotidiano e continuerà a fare quel che molti magistrati hanno sempre fatto: politica».

Trent’anni fa un’inchiesta sull’Eni distrusse i partiti, oggi colpisce la procura più importante d’Italia. Enzo Carra su tpi.it il 20 Settembre 2021. “I politici non riusciranno a cambiare la giustizia.” Non ha dubbi il vecchio cronista che negli anni di Mani Pulite batteva i corridoi della Procura di Milano a caccia di poveri cristi tramortiti dagli interrogatori del Pool e spulezzava quando quelli non gli rispondevano. Ha ragione Andrea Pamparana (Libero del 20 settembre), fin qui la politica ha fatto poco, in compenso il caso e la necessità hanno provveduto al resto. Il caso si chiama Eni. Sono state infatti due inchieste intitolate alla stessa multinazionale a innalzare prima la procura milanese a Sancta sanctorum del diritto e a quartier generale nella lotta alla corruzione in politica, per trasformarla adesso nel luogo dove si sta consumando un’incredibile vicenda che divide e annebbia gli eponimi di Mani Pulite. Prima viene la tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti”: una “provvista” di 140 miliardi di lire, oltre 70 milioni in euro, per partiti di governo e d’opposizione e per faccendieri sciolti e in pacchetti. La scoperta rappresenta il punto di svolta, definitivo, di Mani Pulite, il suo trionfo. Antonio Di Pietro e Francesco Greco sono i due sostituti che hanno lavorato su Enimont, ma il merito è di tutto il pool e il risultato è che le mura già pericolanti di un sistema politico figlio della Resistenza crollano tra le lacrime di pochi e la gioia di tanti. La Magistratura italiana ha sconfitto il malaffare politico. Corsi e ricorsi. Poco meno di trent’anni dopo, alla Procura di Milano torna a bussare l’Eni. È il processo Eni-Nigeria, ovviamente per corruzione. Se ne occupa Francesco Greco, il quale si avvale delle dichiarazioni di un dipendente dell’Eni e di un ex legale “esterno” – qualunque cosa voglia dire “esterno” – della nostra multinazionale, Pietro Amara. Questi, secondo il pm Paolo Storari è troppo importante per quel processo, la procura “lo tiene in palmo di mano” e quindi non si procede per appurare se ha detto o no la verità anche su altre questioni: affari, logge segrete, promozioni, insomma il paroliere italiano. Storari quindi decide di tirare le orecchie a Greco e, in modo quantomeno “irrituale”, muove le carte che giacciono in procura a Milano e le consegna a Davigo, che a quel tempo è ancora componente del Csm. Lui ne parla con alti rappresentanti delle Istituzioni, contando forse sulla loro collaborazione nella sua campagna contro Greco e comunque sul loro silenzio: ma come fai a tenere a lungo un segreto così a Roma? A far casino ci pensa la sua ex segretaria la quale, per impedire il pensionamento del suo capo, diffonde le carte ad alcuni giornali “amici”. Lo scandalo, si illude, potrebbe prolungare la permanenza di Davigo al Palazzo dei marescialli. E che scandalo, a tanti anni dalla P2 ecco a voi un’altra loggia, più piccola, esclusiva, ma potente, parola di Amara. La nuova loggia si chiama Ungheria, ma ha sede in Roma ed è responsabilità di Greco aver tenuto nascoste quelle preziose informazioni per tanto tempo. Eppure, lì per lì, niente: i giornali non pubblicano le carte della ex segretaria, chissà perché. Mesi dopo, però, uno di loro, Il Fatto quotidiano, ci ripensa ed esce. Nel consueto “c’era questo e c’era quello” di ogni rubrica mondana: tanti bei nomi. Prevedibilissimi, sembra la short list di un ricevimento per “pochi ma buoni” in un palazzo del potere. I fratelli di Amara. Certo però se trent’anni prima un’inchiesta targata Eni aveva distrutto i partiti, oggi un processo che assolve l’Eni colpisce duramente la procura più importante d’Italia e l’immagine della magistratura italiana. Perché Amara può aver raccontato qualche verità in mezzo a un sacco di balle, ma le querele tra Greco e Davigo, l’affanno televisivo di quest’ultimo e lo smarrimento dell’opinione pubblica restano, e pesano. Corsi e ricorsi.

ENZO CARRA. Enzo Carra è un giornalista e politico italiano. Redattore capo del mensile "Il Dramma" ha successivamente lavorato per molti anni al quotidiano romano "Il Tempo" e ha scritto per il cinema e la TV. Ha realizzato alcuni reportage per la TV, tra questi un ritratto di Gheddaffi e uno di Madre Teresa di Calcutta. Dal 2021 collabora con TPI

(ANSA il 30 novembre 2021) - L'avvocato Piero Amara ha patteggiato sei mesi di reclusione in continuazione davanti al gup di Roma per l'accusa di bancarotta. La condanna si va ad aggiungere ad altre precedenti per Amara che è attualmente detenuto nel carcere di Terni per cumulo pene. Il procedimento è legato al crac della società "P&G Corporate Srl". Il gup ha dato il via libera anche al patteggiamento per Diego Calafiore, fratello dell'avvocato Giuseppe la cui posizione è stata stralciata, ad 1 anno e 4 mesi. Infine il giudice ha rinviato a giudizio l'imprenditore Fabrizio Centonfanti ed altri due fissando il processo al prossimo 7 giugno. 

IL CALUNNIATORE PIERO AMARA “ISPIRATORE” DELLA PROCURA DI POTENZA, VIENE SMENTITO DALLA PROCURA DI ROMA! Il Corriere del Giorno il 29 Novembre 2021. E’ Matteo Renzi il vero “obiettivo” del procuratore capo di Potenza Francesco Curcio . Ancora una volta certa magistratura va alla ricerca dei titoloni ad effetto, e di visibilità personale attaccando chiunque non si alleni alle loro posizioni manifeste sopratutto nella corrente più estremista sinistrorsa della magistratura italiana, cioè quella di Area. Mentre la Procura di Potenza continua nel suo comportamento poco chiaro nei confronti sopratutto delle difese dell’ex procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo e dell’ ex-commissario straordinario dell’ ILVA in AS prof. Enrico Laghi, cercando di conferire un valore aggiunto alle fantasie del calunniatore seriale Piero Amara, i magistrati lucani sono arrivati al punto addirittura di “pilotarlo” interpretando a proprio piacimento ed utilizzo le sue dichiarazioni a verbale. Ma è Matteo Renzi il vero “obiettivo” del procuratore capo Francesco Curcio . Ancora una volta certa magistratura và alla ricerca dei titoloni ad effetto, e di visibilità personale attaccando chiunque non si alleni alle loro posizioni manifeste sopratutto nella corrente più estremista sinistrorsa della magistratura italiana, cioè quella di Area. La Procura di Roma che per prima aveva scommesso sull’ avvocato-faccendiere siciliano Amara e sulle sue confessioni fiume, adesso ha vivisezionato e fatto a pezzi le sue false dichiarazioni, con una richiesta di archiviazione dello scorso 10 giugno 2021 a firma del procuratore aggiunto Ilaria Calò e di ben tre pm Rosaria Affinito, Fabrizio Tucci e Gennaro Varone, avvenuta per coincidenza proprio due giorni dopo l’arresto di Amara disposta dalla procura di Potenza. La richiesta di archiviazione della Procura capitolina è stata accolta a settembre dal Gip del Tribunale di Roma. Indagato nel procedimento romano insieme ad Amara, una toga eccellente, il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi che era stato accusato “di induzione indebita a dare o promettere utilità“. Il fascicolo era stato aperto a seguito di un esposto presentato da un altro magistrato Dauno Trebastoni, giudice del Tar Lazio (che era stato colpito disciplinarmente da Patroni Griffi) il quale aveva sostenuto nella sua segnalazione che vi sarebbero stati dei comportamenti a suo parere che “avrebbero potuto concretizzare reati”. Le accuse strumentali sostenevano che il presidente del Consiglio di Stato avrebbe preteso che l’ avvocato Piero Amara, socio di studio di Giuseppe Calafiore che sarebbe stato la presunta fonte del giudice Trebastoni “continuasse il rapporto di lavoro in essere tra la Dagi srl (amministrata da Amara) ed una tale Giada Giraldi con la quale il presidente (Patroni Griffi n.d.r.)asseritamente intratteneva una relazione sentimentale”. Come racconta il quotidiano La Verità, Amara nell’ultimo interrogatorio del 2018 aveva sfiorato la questione in termini molto vaghi, ritrova la memoria descrivendo la Giraldi come “una donna di un’arroganza spaventosa che pretendeva 10.000 euro al mese“. Il faccendiere siciliano aggiungeva che l’imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti, dopo aver ricevuto una perquisizione domiciliare, gli aveva chiesta la cortesia di assumerla “perchè era l’amante di Patroni Griffi”. I magistrati della Procura di Roma, hanno convocato Giada Giraldi, ma le sue dichiarazioni secondo gli inquirenti “costellate da gravi falsità”, verificando però che la donna avrebbe incassato 2.500 euro netti al mese a partire dal novembre 2016 per soli 9 mesi. Grazie a questa scoperta i magistrati hanno ritenuto carta straccia le dichiarazioni di Amara e Calafiore che parlavano di una busta paga mensile da 4-5.000 euro. Pochi mesi dopo l’assunzione Amara avrebbe deciso di licenziare la Giraldi, a condizione che la sua decisione non risultasse sgradita a Centofanti e sua moglie, ed in particolar modo al presidente Patroni Griffi. I magistrati romani hanno ricostruito che è stato proprio a questo punto che “secondo Amara e Calafiore, Patroni Griffi si premurò di avvicinare il primo mentre si trovava con il suo socio nel ristorante “Gusto” per chiedergli di non licenziare la Giraldi“. Il presidente del Consiglio di Stato avrebbe fatto sapere all’ avvocato-faccendiere “non può dubitare di considerare l’eventuale licenziamento della donna un grande sgarbo“. Ma la Procura di Roma pur non credendo che il dialogo sia avvenuto nei termini raccontati da Amara ed il suo socio Calafiore, ammette che “non può dubitarsi che si sia trattata di una vera e propria calda raccomandazione come emerge da una registrazione” . Ma i magistrati romani sulla base delle chat presenti nel cellulare del Presidente del Consiglio di Stato, hanno anche evinto che il rapporto tra Patroni Griffi e la Giraldi non è mai diventata una vera relazione amorosa: “Sulla scorta di tali evidenze, si può escludere che i predetti siano stati amanti contrariamente a quanto aveva sostenuto Amara ed insinuato da Calafiore. E’ evidente che la Giraldi abbia ricambiato le manifestazioni di stima ed affetto con un marcato distacco amichevole, seppure fortemente interessata, per finalità lavorative, alla vasta rete di relazioni intrattenute da Patroni Griffi“. All’esterno quell’amicizia così stretta “certamente poteva suscitare l’idea di un rapporto intimo” ed “è il loro apparire che Amara ha usato per dirsi certo che i due fossero amanti, ma tale dichiarazione è stata smentita dalla prova documentale rappresentata dai messaggi intercorsi fra i due“. Per i pubblici ministeri della Procura di Roma “le dichiarazioni di Amara e Calafiore sul punto, appaiono meritevoli di forti perplessità, se non proprio di risultare artefatte“. Ed a indurli in errore non possono essere state le menzogne della Giraldi che “non aveva alcun interesse a inimicarsi una persona che le aveva mostrato affetto e dalla quale si attendeva certamente un ritorno“. Per i magistrati romani “le dichiarazioni di Amara non reggono il vaglio di attendibilità” in particolar modo perchè “contraddicono quelle rese nell’interrogatorio reso ai pubblici ministeri” nel 2018. Prima di richiedere l’archiviazione del procedimento avviato nei confronti di Patroni Griffi, i magistrati della Procura di Roma hanno concentrato la propria massima attenzione investigativa sul rapporto intercorrente fra la Giraldi ed il presidente del Consiglio di Stato. “prescindendo dall’inverosimile di quest’ultima (la quale ha ridotto la conoscenza a pochi incontri casuali)” scrivono i pm nella loro richiesta di archiviazione “e dalle dichiarazioni di Patroni Griffi volte a minimizzare l’intensità del suo interesse, si ha vivida consistenza del rapporto dall’esame della memoria del telefono della donna“. Il presidente del Consiglio di Stato dal novembre 2015, come ricostruito dai pm romani, e per tutto il 2016 “ha manifestato un persistente interesse sentimentale per la Giraldi con la quale ha intrattenuto un’intensa corrispondenza, quasi giornaliera, di pensiero/messaggi e un’abituale e varia commensalità e frequentazione pubblica“. Patroni Griffi in sede di interrogatorio ha confermato di aver presentato la Giraldi a Centofanti. Secondo la Procura di Roma non vi è prova che Amara ed il presidente Patroni Griffi si conoscessero o avessero avuto un rapporto che rendesse plausibile la ruvida interlocuzione al ristorante. L’avvocato-faccendiere Amara ed il suo “sodale” Calafiore, sempre secondo la Procura di Roma, sarebbero addirittura arrivati a precostituirsi delle prove false “per superare tale evidente incoerenza“. Infatti i due faccendieri avevano addirittura consegnato un video in cui si vede Calafiore dentro un locale pubblico avvicinarsi a Patroni Griffi per salutarlo, filmato che non ha convinto però i magistrati della Procura di Roma per i quali “Gli atteggiamenti documentati dal filmato non indicano alcuna particolare confidenza che Patroni Griffi conceda al suo improvvisato interlocutore, la cui invadenza egli appare subire, tanto da restare seduto, non presentare la propria compagna e limitarsi a non rifiutare una stretta di mano“. Per i pm romani “l’iniziativa di Calafiore è suggestiva di aver preparato una prova da usare contro Patroni Griffi“. In poche parole altro non si trattava che di un maldestro e mal riuscito tranello contro il presidente del Consiglio di Stato. Circostanze che hanno indotto la Procura ed il Gip del Tribunale di Roma ad archiviare il procedimento. Un comportamento ed una decisione sicuramente più professionali, approfondite e serie rispetto all’operato dei magistrati di Potenza, dove da mesi si da invece credibilità alle dichiarazioni, che definire fantasiose è un’offesa alla fantasia, di Amara e Calafiore, che sembrano ormai dei circensi in giro per l’Italia a diffondere falsità e calunnie si misura, strumentali ai loro interessi ed alle loro situazioni processuali. Dalla lettura degli atti nelle mani dei difensori degli indagati della Procura di Potenza, si evince la volontà dei magistrati inquirenti persino di “suggerire” le affermazioni a verbale agli indagati, nel tentativo di utilizzarle poi strumentalmente per i propri teoremi processuali. Comportamenti questi che si evincono anche dal continuo ostacolare il corso della giustizia, ed i diritti delle difese, con una valanga di “omissis” ingiustificati, il mancato deposito delle intercettazioni (che hanno causato proprio ieri l’ennesimo rinvio processuale) che già a sua volta era stato rinviato al 29 novembre su eccezioni della difesa del prof. Laghi in quanto ancora una volta mancava il deposito da parte della Procura di Potenza degli atti necessari ai difensori per difendere al meglio i propri assistiti. Un foro giudiziario quello di Potenza che sembra essere diventato il “porto delle menzogne” e non “delle nebbie” come tanti anni fa veniva appellato il Tribunale di Roma.

Senza dimenticare l’incombenza di qualche “ventriloquo” sotto mentite spoglie di giornalista, “pilotato” o meglio, “gestito” a distanza, che senza aver mai messo piede negli uffici giudiziari di Potenza, pubblica sui soliti giornali al servizio permanente effettivo delle procure amplificando delle autentiche “follie” giudiziarie e distilla teoremi per i quali nei loro confronti sono partite non poche denunce per diffamazione. APotenza i magistrati della locale procura hanno inoltre dimenticato qualcosa e cioè che finora l’ avv. Giuseppe Calafiore ha patteggiato una condanna a 11 mesi a Messina in continuazione con i 2 anni e 9 mesi già concordati con la Procura di Roma . Il patteggiamento a Messina dell’avvocato Calafiore è stato annullato e tornerà dinnanzi al Tribunale di Messina per un nuovo processo (o un nuovo accordo con la Procura) nell’ambito del “Sistema Siracusa”. La Corte di Cassazione ha infatti accolto il ricorso della Procura generale di Messina annullando la definizione della posizione di Calafiore che, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, aveva ottenuto a novembre la pena concordata di undici mesi di reclusione, in continuazione con la condanna a due anni e nove mesi inflitta a febbraio del 2019 dal Gup del Tribunale di Roma. Piero Amara a sua volte ha patteggiato 3 anni a Roma 1 anno e due mesi di reclusione e 89 mila euro di multa a Messina ed attualmente è detenuto nel carcere di Orvieto per scontare una pena residua di 3 anni e 10 mesi di reclusione. Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, al centro di una complicata rete composta da depistaggi, ricatti e tangenti, è stato già condannato per corruzione in atti giudiziari e protagonista del caso dei verbali in cui parla di una presunta loggia chiamata Ungheria, è peraltro nuovamente indagato. La Procura di Milano, infatti, ha aperto un fascicolo per comprendere se questi abbia calunniato, insieme all’avvocato Giuseppe Calafiore, il magistrato Marco Mancinetti, ex componente del Csm, additato dallo stesso Amara nel novero degli affiliati a Ungheria. Il fascicolo nasce dalle indagini di Perugia che, dopo aver archiviato Mancinetti dall’accusa di istigazione alla corruzione (e inviato l’archiviazione al Csm per i profili disciplinari), ha invitato i colleghi milanesi a comprendere come e perché sia stata “costruita” e “offerta” l’accusa di corruzione nei riguardi del magistrato. Lo scorso 4 maggio il Procuratore capo Raffaele Cantone ed i Sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano della Procura di Perugia ha chiuso le indagini e contestato all’avvocato Piero Amara i reati di “concorso in millantato credito” e “traffico di influenze illecite”. La Procura contesta all’avvocato la consegna, insieme all’altro legale Giuseppe Calafiore, di 30mila euro all’ex funzionario dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) Loreto Francesco Sarcina come presunto prezzo della mediazione illecita dell’ex agente dei Servizi vero pubblici ufficiali. Se questi sarebbero i testi “eccellenti” della Procura di Potenza nei processi contro Capristo e Laghi allora è proprio il caso di dire: “Povera giustizia….!”

Per l'avvocato continua il trattamento privilegiato. Così Amara inguaiò il Pm Toscano e salvò i Pignatone bros. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Dicembre 2021. Nuovo patteggiamento “scontato” per l’avvocato Piero Amara, il pentito preferito dalle toghe e noto alle cronache per aver rivelato l’esistenza della loggia segreta Ungheria di cui si sono le perse le tracce. Il tribunale di Roma ha infatti dato ieri il via libera al patteggiamento nei suoi confronti a sei mesi di reclusione per il fallimento, con circa 1,4 milioni di euro di imposte e tasse non pagate, della società P&G corporate. L’indagine era stata iniziata dall’allora pm Stefano Rocco Fava che aveva anche chiesto l’arresto per Amara. Arresto negato da parte dei suoi capi che poi gli avevano tolto il fascicolo. Prosegue, dunque, il trattamento privilegiato riservato ad Amara “teste di accusa” delle Procure di Roma, Messina, Perugia e Milano, che non solo non lo hanno sottoposto a misure cautelari nonostante abbia continuato, dopo la sua finta collaborazione, a delinquere e a calunniare, ma non gli hanno sequestrato neppure un centesimo del suo ingente patrimonio costituito dagli oltre cento milioni di euro elargitigli dall’Eni e da una petroliera, la White Moon, carica di greggio iraniano sotto embargo, di cui abbiamo raccontato la storia sul Riformista nei mesi scorsi. Ed a proposito della sua collaborazione con i magistrati, tra le persone tirate in ballo per la loggia Ungheria vi fu anche l’ex procuratore aggiunto di Catania Giuseppe Toscano, padre dell’avvocato Attilio Toscano già collaboratore e collega di studio di Amara. Di Giuseppe Toscano Amara parlò ai pubblici ministeri di Messina Antonio Carchietti e Antonella Fradà nell’interrogatorio del 24 aprile 2018, presenti anche l’aggiunto di Roma Paolo Ielo e di Milano Laura Pedio. «In occasione della vicenda GIDA, grazie all’intercessione del dott. Toscano, si riuscì a convincere Rossi (Ugo, ex procuratore di Siracusa, ndr) a coassegnare al Longo (Giancarlo, ex pm a Siracusa, ora in congedo, ndr) il procedimento sino a quel momento trattato dal solo Bisogni (Marco, ex pm a Siracusa, ora a Catania, ndr)», disse Amara, riferendosi al procedimento presso la Procura di Siracusa che vedeva indagato e poi imputato Amara stesso e la moglie Sebastiana Bona, soci della società GIDA oggetto dell’esposto al Csm di Fava. In quel procedimento sia Amara che la moglie avevano conferito incarichi al fratello avvocato dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Amara, però, non parlò di Pignatone e del fratello a cui aveva conferito molti incarichi bensì di Giuseppe Toscano, all’epoca già in pensione, e del figlio. La Procura di Messina iscrisse immediatamente Toscano ottenendone il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, poiché per la coassegnazione del procedimento GIDA a Longo, amico di Amara, Rossi era stato condannato fino in Cassazione. La Procura dello Stretto non procedette però negli stessi termini quando Longo dichiarò, per averlo appreso proprio da Amara, che il fratello di Pignatone aveva dato notizie dell’indagine a suo carico pendente a Messina, tanto che Longo poté predisporre una consulenza tecnica e una memoria difensiva per dimostrare la regolarità dei suoi conti bancari. In quel caso, infatti, la Procura di Messina aveva iscritto Longo per calunnia, salvo poi archiviarlo, senza tuttavia procedere contro il fratello di Pignatone o lo stesso Pignatone. Nel caso di Toscano, dunque, il procedimento andò avanti senza Amara, concorrente nel reato, che venne stralciato e nei cui confronti Carchietti e il procuratore di Messina Maurizio De Lucia firmarono, il 4 ottobre 2018, una richiesta di archiviazione per prescrizione. Ma non per abuso d’ufficio, il reato contestato a Toscano, bensì per furto. Il gip di Messina Maria Militello archivierà allora Amara indagato per furto in concorso con Toscano indagato per abuso di ufficio, e la collega Tiziana Leanza rinvierà a giudizio Toscano senza porsi il problema di che fine avesse fatto il concorrente del reato Amara. La posizione di Toscano sarà successivamente dichiarata prescritta dalla Corte di Appello di Messina dopo la condanna in primo grado. Ora pende ricorso per Cassazione proposto dall’ex aggiunto di Catania. La vicenda messinese ricorda molto quella accaduta a Perugia dove Amara ha beneficiato di uno “stralcio” pur essendo stato, per i pm umbri, il corruttore di Luca Palamara, tanto che quest’ultimo è stato rinviato a giudizio esattamente come Toscano. A Perugia però, considerata la “pericolosità” di Palamara nelle nomine dei magistrati al Consiglio superiore della magistratura, era stato fatto qualcosa in più. Il virus trojan era stato infatti inoculato solo a Palamara, tralasciando del tutto i suoi supposti corruttori: Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore ed il faccendiere Fabrizio Centofanti. Anzi quest’ultimo, in rapporti di frequentazione con l’allora procuratore di Perugia Luigi De Ficchy, non era stato neppure iscritto nel registro degli indagati se non a indagine praticamente finita. Ma anche questa storia l’abbiamo raccontata nei mesi scorsi. Paolo Comi

Piero Amara l’iraniano: gli affari segreti a Teheran del grande corruttore di giudici. L’avvocato siciliano, arrestato per tangenti a magistrati di Roma, Siracusa e Taranto, aiutava imprese italiane e straniere a mettersi in società con la repubblica islamica. «Sono coperto dai servizi segreti». E un’indagine interna dell’Eni svela un maxi-contrabbando di petrolio, in violazione dell’embargo Usa per colpire l’azienda energetica nazionale. Paolo Biondani su L'Espresso il 29 ottobre 2021. Ci mancava solo il petrolio proibito degli ayatollah. Piero Amara, l’avvocato siciliano al centro delle peggiori trame giudiziarie degli ultimi anni, si riconferma un personaggio di livello pirandelliano. Nella sua prima vita era stato uno dei più efficaci legali esterni dell’Eni, capace di vincere ogni sorta di processi intentati in Sicilia contro il colosso petrolifero statale, che lo ripagava con ricche parcelle: oltre un milione all’anno per più di un decennio. Nel 2018 è stato arrestato come grande corruttore di pubblici ministeri e giudici amministrativi, da Roma a Siracusa, e ha patteggiato due condanne definitive. Alla fine del 2019, indagato a Milano, si è proposto come super pentito disposto a smascherare la cosiddetta Loggia Ungheria, una presunta lobby in grado di condizionare la giustizia in tutta Italia: un caso che ha frantumato la Procura di Milano creando un’ondata di veleni arrivata fino ai vertici della magistratura. Poi, nel giugno scorso, è tornato agli arresti con l’accusa di aver corrotto anche il procuratore di Taranto nello scandalo Ilva. Ora una serie di documenti riservati ottenuti da L’Espresso raccontano un’altra vita, rimasta segreta, del legale siciliano. E ne svelano il potere economico. Un uomo d’affari con entrature internazionali, in particolare in una nazione ad altissimo rischio geo-politico: Amara l’Iraniano. Ai tempi d’oro, lo studio Piero Amara & Partners pubblicizzava sul suo sito (oscurato dopo il primo arresto) di poter offrire «assistenza e relazioni istituzionali ad aziende interessate a sviluppare business all’estero», elencando sei nazioni, non in ordine alfabetico: al primo posto c’era l’Iran. I nuovi documenti ottenuti dall’Espresso mostrano che non erano solo parole. La prima traccia scritta dei suoi agganci con Teheran è una mail del 18 marzo 2015, inviata a un dirigente dell’Eni. Amara dichiara di rappresentare una società estera, Qatar Global Energy & Resources, e offre due carichi di prodotti petrolchimici. Tra i maggiori azionisti di quella società c’è un imprenditore iraniano, Arshiya Jahanpour, con il 49 per cento del capitale. Amara assicura all’Eni di avere la copertura di ufficiali dei servizi segreti italiani, di cui non fa i nomi: «Se necessario, l’Aise ci fornirà un documento che attesti la tracciabilità». L’affare non va in porto perché l’avvocato-mediatore ha troppa «urgenza» di chiudere, ma quella trattativa apre la strada a molti altri contratti, per centinaia di milioni. Il 13 luglio 2015 Amara in persona si presenta nella sede dell’Eni a Teheran insieme a un imprenditore italiano, Francesco Mazzagatti, e a tre uomini d’affari iraniani, guidati da Jahanpour. La delegazione discute con due dirigenti dell’Eni possibili affari comuni nella repubblica islamica. Mazzagatti è il titolare della Napag, una piccola ditta calabrese di ortofrutta che negli stessi mesi ha cambiato attività e sta iniziando a trasformarsi in un gruppo petrolifero. Sempre nel 2015, su presentazione dell’avvocato, Mazzagatti ha almeno cinque incontri con un dirigente della Versalis, che è controllata dall’Eni. Nell’ottobre dello stesso anno, Amara viene ricevuto insieme a Mazzagatti nella sede italiana di Ecofuel, un‘altra società del colosso statale. Dopo l’incontro il rappresentante dell’Eni, allarmato, segnala ai superiori che «Amara si presenta come procacciatore d’affari e forse anche socio di Mazzagatti» e aggiunge che «millanta rapporti» con l’allora capo dei legali interni dell’Eni (poi licenziato). Nel dicembre 2015 Amara e Mazzagatti arrivano alla sede centrale dell’Eni a Roma, dove chiedono a un altro manager «un supporto» a un progetto della Napag per rilanciare l’impianto petrolchimico di Tabriz, in Iran. La sponsorizzazione di Amara ha successo. Tra il 2016 e il 2018 la società di Mazzagati riesce a comprare prodotti chimici per 14,7 milioni dalla Versalis e li rivende in Iran, soprattutto alla Tabriz Petrolchemical Company.

A partire dal 2017 prima Amara e poi Mazzagatti stringono rapporti sempre più intensi con la centrale acquisti del colosso petrolifero statale, Eni Trading e Shipping (Ets), che opera a Londra, in particolare con l’allora dirigente Alessandro Des Dorides. E gli affari si moltiplicano: nei successivi due anni il gruppo Napag incassa oltre 94 milioni dalla Ets. E la società dell’Eni a Londra, a sua volta, vende prodotti petrolchimici per 116 milioni alla stessa Napag, che li piazza all’estero. Il colpo più grosso va a segno nello stesso biennio. Il 16 marzo 2017 la Qatar Global Energy & Resources, cioè la società dell’iraniano Jahanpour che si faceva rappresentare dall’avvocato Amara, firma un accordo preliminare per l’acquisto (da aziende giapponesi e thailandesi) del 60 per centro di una compagnia di Teheran, chiamata Mehr, che controlla l’omonimo polo petrolchimico. Il contratto viene poi ceduto alla Napag Petrolchemical Industries, appena costituita da Mazzagatti a Hong Hong, che nel luglio 2018 perfeziona l’affare pagando 111 milioni. I documenti integrali fanno emergere un dato strategico: il restante 40 per cento della compagnia petrolchimica appartiene alla Npc, una società interamente controllata dallo Stato iraniano. Con quell’operazione, quindi, entrambe le ditte sponsorizzate da Amara, prima l’azienda del Qatar e poi l’italiana Napag, sono riuscite a mettersi in società con la repubblica islamica degli ayatollah. Quindi iniziano le operazioni incriminate dalle procure, che tra il 2018 e il 2019 avevano avviato indagini serratissime sui rapporti tra Amara, Eni e Napag. Queste inchieste sono poi finite al centro degli scontri tra magistrati, prima a Roma e poi a Milano, e da due anni si sono arenate. La prima indagine smarrita tra le liti togate riguarda i soldi utilizzati dal gruppo Napag proprio per comprare il petrolchimico iraniano. All’inizio i pm milanesi ipotizzavano la corruzione dell’avvocato arrestato: l’Eni, attraverso la Ets, avrebbe versato 25 milioni alla Napag per comprare il silenzio di Amara, che ne sarebbe stato un socio occulto. Nel 2019, dopo aver ricevuto dettagliate denunce dell’Eni, alcuni pm hanno cambiato idea, ipotizzando invece che Amara avesse spillato soldi al colosso statale, con la complicità di alcuni dirigenti, poi licenziati dai vertici aziendali. In attesa che i magistrati escano dal tunnel delle polemiche, l’Espresso ha continuato a indagare scoprendo che la Napag, nello stesso periodo, ha concluso altri grossi affari con Ets. Nel 2018, in particolare, la società dell’Eni a Londra ha comprato, per almeno 55 milioni di euro, tre carichi di petrolio di alta qualità (un prodotto chiamato Virgin Nafta, che non ha bisogno di essere raffinato). Quei contratti però sono stati etichettati come «sospetti» dagli organi di controllo interno, che hanno sollevato «dubbi sull’effettiva provenienza»: non l’Oman, come dichiarato, ma l’Iran. Contro Amara ha deposto anche il suo ex socio, l’avvocato Giuseppe Calafiore, che era stato arrestato con lui. Interrogato a Milano nel gennaio 2019, Calafiore dichiara che «Amara nel 2016 ha costituito due società a Dubai con la collaborazione di Mazzagatti». E aggiunge che almeno una delle due offshore doveva essere utilizzata «per pagare dirigenti dell’Eni», in particolare uno dei manager poi licenziati. Mentre era a Dubai con loro, Calafiore dice di aver visto personalmente che «Amara ha ricevuto 40 mila euro in contanti da Mazzagatti, in una banca, dentro una busta di plastica». Il gruppo Napag, con una lunga lettera all’Espresso, ha radicalmente smentito già nei mesi scorsi tutte queste ipotesi di corruzione. E ha chiarito che «Amara non ha mai avuto alcuna partecipazione, diretta o indiretta, nella società». La Napag ha avuto con lui «solo rapporti professionali di consulenza, da tempo interrotti». E «non è vero che il gruppo Napag abbia utilizzato soldi dell’Eni per l’acquisto dell’impianto iraniano». Il contratto incriminato dai pm è stato infatti «revocato» e i 25 milioni sono stati «restituiti per intero all’Eni, che ne ha ricavato un margine di profitto». E comunque nel 2018 «era riferibile all’Eni meno del 25 per cento del fatturato della Napag», che nel frattempo è confluita in un grande gruppo internazionale con base a Londra. Il problema più grave, però, deve ancora essere chiarito. Nel maggio 2019 la società dell’Eni a Londra ha acquistato 700 mila barili di greggio iracheno, per 41 milioni di euro, dalla compagnia nigeriana Oando. Quando la nave è arrivata davanti alla raffineria di Milazzo, però, il petrolio è risultato di tipo diverso, simile a quello iraniano, e il carico è stato rifiutato. A quel punto si è scoperto che la compagnia nigeriana aveva comprato quel greggio dalla Napag, che dall’inverno precedente era stata esclusa dall’elenco dei fornitori autorizzati dell’Eni, proprio in seguito alle indagini su Amara e sugli ex dirigenti dell’Eni a lui legati. Quel caso ha rischiato di scatenare una bufera internazionale contro il gruppo statale italiano, che è quotato anche a New York: dal maggio 2018 l’amministrazione statunitense aveva vietato qualsiasi affare con l’Iran. Ora un’indagine forense, commissionata dall’Eni a una società esterna (corredata dalle foto satellitari che pubblichiamo con il secondo articolo in queste pagine) comprova l’accusa: è stato davvero un clamoroso caso di contrabbando di petrolio iraniano. Anziché dall’Iraq, il greggio è arrivato di nascosto da Teheran. Una trappola che avrebbe potuto screditare i vertici del gruppo  statale italiano a livello internazionale. A questo punto l’Eni ha denunciato la Napag alla Procura di Milano e ha intentato una causa civile a Roma. Dove la società di Mazzagatti ha depositato un’articolata memoria difensiva, spiegando che «la Napag, come la stessa Ets dell’Eni, è una società di trading, che acquista prodotti petroliferi per poi rivenderli». Anche in questo caso, dunque, «si è limitata a comprare il carico da un’altra società, Empire Energy Oil, e a rivenderlo alla Oando, girando a quest’ultima tutti i documenti che aveva ricevuto, compresi i certificati di origine». Insomma, la Napag «ha fatto solo da intermediaria», in totale buona fede, come dimostra il contratto perfezionato via mail dallo stesso Mazzagatti. Vista la situazione, L’Espresso ha cercato di chiedere spiegazioni alla Empire Energy Oil. Nelle banche dati internazionali, dove sono registrate oltre duecento milioni di società di tutto il mondo, non compare però nessuna ditta con quel nome. Ci sono aziende e gruppi petroliferi con denominazioni molto simili negli Stati Uniti, Nicaragua, Nigeria, Tasmania, ma nessuna dichiara di controllare società chiamate Empire Energy Oil. Inutili anche le ricerche su Internet: non esiste alcun sito con quel nome. La mail allegata dalla difesa della Napag nel processo contro l’Eni risulta inviata a un manager arabo, che il 3 maggio 2019 ha confermato l’affare alla società italiana. L’Espresso ha provato a contattarlo inviando un messaggio allo stesso indirizzo di posta elettronica. Risposta: impossibile recapitare, «destinatario sconosciuto».

Il contrabbando di petrolio iraniano fotografato in diretta. Paolo Biondani su L'Espresso il 29 ottobre 2021. Ecco le immagini satellitari che risolvono il giallo internazionale della nave arrivata in Sicilia nel 2019: il greggio non fu caricato in Iraq, come dichiarato, ma in Iran, in violazione dell’embargo. Un affare gestito da un imprenditore calabrese di cui Amara è considerato socio occulto. Il contrabbando di petrolio iraniano fotografato in diretta. Gli organi di controllo interno dell’Eni hanno commissionato un’indagine forense a una società esterna, per fare luce sulla provenienza di un carico di greggio arrivato in Sicilia, alla raffineria di Milazzo, nel maggio 2019. Eni Trading & Shipping, la centrale acquisti del gruppo, aveva comprato 700 mila barili di petrolio iracheno, da imbarcare a Bassora. In Italia però è arrivato un greggio diverso, di sospetta provenienza iraniana. E il colosso petrolifero italiano ha rischiato uno scandalo internazionale: l’Eni è quotata anche a New York e l’amministrazione Usa dal maggio 2018 aveva vietato di fare affari con la repubblica islamica.

Già nell’estate 2019 la Somo, la società petrolifera statale dell’Iraq, aveva certificato di non avere mai venduto quel tipo di greggio. Ora una società specializzata ha ricostruito, su incarico dell’Eni, tutte le tappe del trasporto, con una serie di immagini satellitari che pubblichiamo in queste pagine.

La nave dei misteri si chiama Abyss. Batte bandiera vietnamita, ma viene noleggiata a società petrolifere internazionali. La Abyss ha una vistosa chiglia rossa (vedi foto a inizio articolo), che resta semi-sommersa quando è pieno carico (foto sotto). 

Il 24 aprile 2019 la Abyss è in rotta verso il porto di Bassora, la sua destinazione dichiarata, ma si ferma al largo, all’intersezione tra le acque territoriali del Kuwait, Iraq e Iran, dove viene spento il transponder, lo strumento che ne segnala la posizione (foto sotto). Poi la nave riprende il viaggio, in incognito, e si dirige verso l’isola di Kharg, in Iran, dove arriva il 25 aprile. 

Qui la Abyss viene affiancata da una superpetroliera di Teheran, di proprietà della National Iranian Tanker Company (Nitc). Le due navi si fermano una accanto all’altra: nell’immagine satellitare sono visibili due rimorchiatori che favoriscono l’aggancio (foto sotto), nella posizione tipica dei trasbordi di carico. 

Quindi la Abyss si separa e riprende la rotta, sempre con il transponder spento, verso il terminal iraniano dell’isola di Kharg, dove attracca il 26 aprile (foto sotto). 

Studiando le immagini, gli esperti reclutati dall’Eni concludono che, prima di tornare in Iraq, la Abyss ha caricato circa 700 mila barili di greggio: la stessa quantità poi arrivata in Italia. Una parte potrebbe essere stata imbarcata, sempre in Iran, già il 19 aprile 2019, in un precedente viaggio senza transponder. Il resto del petrolio, sempre secondo l’indagine forense, è stato sicuramente imbarcato nelle due soste clandestine in Iran del 25 e 26 aprile.

Il 2 maggio 2019 la Abyss torna nelle acque dell’Iraq e si ferma al largo di Umm Qasr, dove viene affiancata dalla petroliera New Prosperity, che riceve l’intero carico (foto sotto). Poi la Abyss riparte verso Bassora, si posiziona nello stesso punto dove aveva spento il transponder e il 3 maggio lo riaccende. 

Il 4 maggio la New Prosperity viene affiancata a sua volta da un’altra petroliera, White Moon, che riceve il carico (foto sotto). 

Il 6 maggio la White Moon parte dall’Iraq (foto sotto) e inizia un lungo viaggio attraverso il Golfo Persico, la Penisola Arabica, il canale di Suez e il Mediterraneo. 

Il 24 maggio 2019 viene fotografata davanti alla raffineria dell’Eni a Milazzo (foto sotto). Il 17 giugno la petroliera è ancora ferma in Sicilia, a pieno carico, perché il gruppo italiano lo ha rifiutato. 

L’Eni ha poi rispedito quei 700 mila barili alla compagnia nigeriana Oando, che aveva noleggiato la White Moon e ha dovuto rimborsare l’intero prezzo al gruppo statale italiano: 41 milioni di euro. La Oando aveva comprato quel greggio dalla Napag, un’azienda italiana coinvolta nelle indagini sull’avvocato Amara.

Denunciata dall’Eni, la Napag ha replicato di averlo a sua volta acquistato in buona fede, credendolo iracheno, da un’altra compagnia fornitrice, Empire Energy Oil. Nei registri internazionali però non si trova traccia di questa società.

LE “BUFALE” DI AMARA: LA “LOGGIA UNGHERIE” , INCHIESTE PRIVE DI REATI, INDAGATI ECCELLENTI E MILLANTATORI. Il Corriere del Giorno il 24 Ottobre 2021. Che la “Loggia Ungheria” sia realmente esistita, o sia frutto della sterminata fantasia di Amara è ancora tutto da capire. Ed i magistrati sono a lavoro per questo che potrebbe rivelarsi anche un grande “bluff” come lo ha definito Paolo Mieli ex direttore dei quotidiani LA STAMPA e CORRIERE DELLA SERA. Le indagini sulla presunta loggia Ungheria, l’associazione segreta di cui, secondo l’avvocato Piero Amara, farebbero parte decine di uomini delle istituzioni, continuano sull’asse giudiziario delle procure di Brescia e Perugia. A Brescia, proseguono le indagini ed approfondimenti sui magistrati milanesi che, sulle base del pm Paolo Storari, non vollero credere alle dichiarazioni dell’avv. Amara e quindi non aprirono immediatamente un fascicolo per capire se quello che raccontava fosse frutto di fantasia strumentale o drammatica realtà. A Perugia invece vengono resi noti i nomi di nuovi indagati, che secondo le dichiarazioni dell’ex legale esterno dell’Eni avrebbero avuto un ruolo in questa presunta loggia nascosta. Ai tre indagati già noti Piero Amara, Alessandro Ferraro (un suo ex collaboratore) , ed il suo ex socio Giuseppe Calafiore – si sono aggiunti altri due nomi molto ben noti nello scenario politico nazionale. L’ex deputato Denis Verdini e l’ex- giornalista Luigi Bisignani. In totale cinque indagati per associazione segreta e un’ipotesi investigativa ancora tutta da riscontrare. Che la “Loggia Ungheria” sia realmente esistita, o sia frutto della sterminata fantasia di Amara è ancora tutto da capire. Ed i magistrati sono a lavoro per questo che potrebbe rivelarsi anche un grande “bluff” come lo ha definito Paolo Mieli ex direttore dei quotidiani LA STAMPA e CORRIERE DELLA SERA. Costituire un’associazione occulta è vietato dalla legge Anselmi, istituita a suo tempo nella 1a repubblica, per sciogliere la P2, che contiene una serie di norme per sanzionare le associazioni segrete. Ed è per questo motivo che queste persone cinque si trovano a essere indagati. E’ Amara a puntare il dito contro Bisignani e Verdini.  Luigi Bisignani che è già stato sentito dai pm ha smentito: “Di questa loggia ho sentito parlare solo dai giornali e non so assolutamente niente. Quando ci sono questi polveroni alla fine qualcuno che ti chiama c’è sempre, non mi meraviglia, non è la prima volta né sarà l’ultima, ogni volta che c’è una Loggia mi mettono in mezzo e ogni volta ne esco fuori. E l’ho proprio messo a verbale, non sono mai stato massone, non ho mai fatto parte di nessuna Loggia, e della Loggia ‘Ungheria’ non ho mai saputo niente. Ma non mi sconvolge più di tanto, assolutamente nessuna preoccupazione”. Denis Verdini, invece, verrà ascoltato dai magistrati nei prossimi giorni. E’ bene ricordare che l’avvocato Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni indagato anche nell’ultima indagine della procura di Milano su presunte attività di depistaggio per condizionare l’inchiesta sul caso Eni-Nigeria, è in carcere dove deve scontare un cumulo pena di tre anni e 8 mesi per le condanne inflittegli nei procedimenti relativi alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato e al `Sistema Siracusa´, indagine che ha scoperchiato una sorta di accordo tra pm e avvocati per pilotare indagini e fascicoli. Un “particolare” questo che è sfuggito ai magistrati della Procura di Potenza che hanno cercato di insinuarsi nella scia dell’attenzione mediatica causata dalle dichiarazioni di Amara, ma che il Tribunale di Potenza non ha ritenuto credibili, come si evinto nel “folle” arresto del prof. Enrico Laghi liberato dal Riesame nei giorni scorsi. Quanto ci sia di fantasia depistatoria e quanto di verità in questa strana vicenda dovranno verificarlo ed appurarlo i magistrati inquirenti. Mentre la notizia delle indagini nei confronti di Bisignani e Verdini è balzata agli onori della cronaca, è rimasta più soffusa l’altra conseguenza di questa vicenda. E cioè il corto circuito che si è creato tra gli uffici giudiziari di Milano dove, è bene ricordarlo, è nato questo scontro fra magistrati . Da quando il pm Storari aveva consegnato i verbali con le dichiarazioni a Piercamillo Davigo, all’epoca ancora consigliere del Csm sostenendo che i suoi vertici si rifiutavano avviare indagini sulle dichiarazioni di Amara che coinvolgevano le più alte istituzioni dello Stato, magistratura compresa. Un atto se non addirittura illecito, certamente non rituale, al quale sono seguite altre azioni singolari. L’ex magistrato (ora in pensione) ed ormai ex consigliere anche del Consiglio Superiore della Magistratura Invece di consegnare il materiale formalmente all’ufficio di presidenza, ne aveva parlato con il vicepresidente David Ermini e con vari consiglieri. Non contento di tutto ciò Davigo sempre calpestando ed ignorando l’ufficialità prevista da Leggi e regolamenti, lo aveva consegnato a Ermini il quale molto correttamente lo aveva distrutto. Quei verbali successivamente sono usciti dalla stanza di Davigo ed arrivati nelle redazioni del Fatto Quotidiano e di La Repubblica, secondo i pm che stanno indagando per rivelazione del segreto d’ufficio ad opera di Marcella Contrafatto che guarda caso era l’ex segretaria di Piercamillo Davigo al Csm . Fra i fascicoli attenzionati dalla Procura di Brescia c’è anche qualcos’altro che potrebbe aiutare a capire il perché in procura a Milano, nessuno aveva dato seguito alle dichiarazioni di Amara. Ed è su questo punto che vengono a galla gli elementi più interessanti. Mentre Storari chiedeva di procedere, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, avrebbe mandato a dire: “Questa indagine deve rimanere ferma due anni” parole che sono state riportate e verbalizzate nell’interrogatorio dello scorso 15 settembre a Brescia, avuto dalla sua collega, Laura Pedio, altro procuratore aggiunto della procura di Milano. Nel verbale, che è tra gli atti depositati dagli inquirenti bresciani con l’avviso di conclusione indagini per “omissione di atti d’ufficio” nei confronti di De Pasquale e del pm Sergio Spadaro ora in servizio presso la procura europea, e di “rivelazione del segreto d’ufficio” per l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e per il pm Paolo Storari, emergono stralci delle denunce fatte da quest’ultimo nei due interrogatori dello scorso maggio. Laura Pedio rivendica la scelta di aver ignorato il pressing di Storari che sollecitava l’apertura di un fascicolo, sostenendo che era l’unico modo per capire se quello che aveva rivelato dall’ avv. Amara nel corso di un interrogatorio inerente all’inchiesta Eni avesse un qualche fondamento probatorio o no. “Rispetto a una notizia di reato così fluida, quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane, noi prendevamo i tabulati di tutte le istituzioni italiane, andavamo dal Papa in giù (…) tutti i tabulati? (…) Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no”.

CASO CAPRISTO: LE CAPRIOLE DELLA PROCURA DI POTENZA DOPO LE OMISSIONI SULL’ARRESTO DI LAGHI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2021. Come mai la procura di Potenza non ha approfondito le indagini sulle qualifiche, competenze ed operato del Capristo nella sua carriera? Se ci siamo riusciti noi del CORRIERE DEL GIORNO, probabilmente potevano riuscirci anche il procuratore Curcio ed i suoi sostituti. Appena ventiquattro ore dopo la decisione del Tribunale del Riesame di Potenza che ha falcidiato il provvedimento cautelare applicato nei confronti del prof. Enrico Laghi dalla procura guidata da Francesco Curcio , disponendo la sua immediata liberazione dagli arresti domiciliari e la “riqualificazione della sua imputazione relativa agli incarichi professionali conferiti all’ avv. Giacomo Ragno del reato di cui agli artt. 110, 319 quater ed esclusa ogni ulteriore contestazione annullata l’impugnata ordinanza” , e nonostante sia in corso un incidente probatorio che è stato rinviato in quanto sempre la Procura di Potenza aveva depositato un atto pieno di “omissis” che di fatto impedivano una legittima completa informazione propedeutica alla difesa di Laghi, è stato notificato ieri l’avviso di conclusione d’indagine per il successivo troncone d’indagine che ha origine dalla vicenda giudiziaria che ha colpito l’ex-procuratore capo di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo. Un provvedimento questo che contiene una serie di anomalie giuridiche e processuali, persino per stessa ammissione della procura di Potenza che vi ha inserito anche delle ipotesi di reato tutte prescritte. Parliamo di anomalie in quanto leggendo gli atti che il CORRIERE DEL GIORNO vi offre la lettura in esclusiva vengono contestati all’ex procuratore Capristo dei fatti accaduti “in Trani sino al 6.5.2016” le cui eventuali indagini in realtà sarebbero state di competenza della Procura di Lecce e non di quella lucana, che a parere nostro ha esondato nel proprio operato. Per non parlare dei fatti contestati “in Molfetta, Corato, Trani, e zone limitrofe fra il 2011 ed il 2013″, “in Trani fino a tutto il 2016“, “in Trani e Molfetta nel febbraio 2012″. Ma non solo. Infatti in capo di imputazione nei confronti del Capristo si unisce la posizione dell’ex magistrato Michele Nardi, per fatti eventualmente accaduti sempre “in Trani, in permanenza dal 2008 fino al 2016” dimenticando che Nardi è già stato peraltro indagato, imputato e condannato dal Tribunale di Lecce, e quindi anche in questo caso non si capisce quale la sia competenza della Procura di Potenza su fatti accaduti su un foro giudiziario per il cui operato è competente sempre la Procura di Lecce.E la stessa cosa vale per Antonio Savasta! A questo punto resta da chiedersi quali siano i poteri della Procura di Potenza, che in queste indagini ha operato sentendosi quasi una “Super Procura Nazionale” (senza di fatto esserlo per fortuna !) e dopodichè come mai i magistrati di Potenza non abbiano mai indagato per identificare eventuali connessioni dell’ipotetica “cricca” guidata da Amara e Paradiso con i 15 componenti del Consiglio Superiore della Magistratura che avevano votato in favore della nomina di Carlo Maria Capristo a procuratore di Taranto. I magistrati di Perugia infatti nell’indagare sull’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara hanno identificato e proceduto nei confronti degli altri magistrati del Csm che condividevano strategie e nomine ! Ma evidentemente come si legge negli atti del Tribunale di Potenza, i magistrati di Potenza evidentemente hanno avuto il timore di disturbare i propri consiglieri del Csm ! Sarà forse perchè anche la nomina a procuratore capo di Potenza di Francesco Curcio era “viziata” dalla sua corrente di Area e manipolata al Csm, come accertato dal Tar Lazio e dal Consiglio di Stato? Come mai la procura di Potenza non ha approfondito le indagini sulle qualifiche, competenze ed operato del Capristo nella sua carriera ? Se ci siamo riusciti noi del CORRIERE DEL GIORNO, probabilmente potevano riuscirci anche il procuratore Curcio ed i suoi sostituti. Non è un caso se il dr. Rosario Baglioni presidente Sezione penale del Tribunale di Potenza, e del collegio giudicante a Potenza nel processo contro Capristo, abbia tuonato e chiarito alla Procura, dopo aver ascoltato le deposizioni dei pm Silvia Curione e Lanfranco Marazia (i due sono marito e moglie n.d.a) che non è intenzione di questo Tribunale occuparsi dell’organizzazione degli uffici di Trani e Taranto ! E guarda caso l’indagine di Potenza nasce proprio da un esposto della Curione, conseguente all’archiviazione di una sua imbarazzante denuncia. Una cosa è certa: da questa magistratura è bene stare lontani, e sopratutto non avere paura, come ha fatto il sottoscritto che non ha esitato un solo attimo a denunciarli dopo le querele intimidatorie e subite per essersi occupato del caso Capristo. Qualcuno deve far capire a certi magistrati che esistono dei limiti di competenza territoriale in ambito giudiziario, e sopratutto che l’art. 21 della Costituzione va rispettato, senza se e senza ma.

Giacomo Amadori Alessandro Da Rold per "la Verità" il 29 ottobre 2021. Siamo arrivati allo scontro finale, dove quel che resta della Procura di Milano tenta gli ultimi colpi di coda per rianimare il processo Opl 245 contro i vertici dell'Eni, conclusosi in primo grado con l'assoluzione di tutti gli imputati. Il procuratore Francesco Greco, a un mese dalla pensione, ha deciso di prendere personalmente il controllo della situazione, dopo aver scaricato le colpe sulla mancata messa a disposizione degli atti alle difese sull'aggiunto Fabio De Pasquale (che ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini). Greco ha convinto la Procura di Brescia anche della sua buona fede nella ritardata iscrizione degli indagati sulla vicenda della loggia Ungheria e ringalluzzito, il 13 ottobre, si è recato nel carcere di Terni a torchiare (si fa per dire) il pentito fasullo Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, che ogni sei mesi ha nuovi ricordi legati alle stagioni, ai pm e alla situazione contingente (testimone, imputato, o carcerato). Quindi l'appuntamento del 13 ottobre è diventato l'occasione per una sorta di rivincita per i partecipanti all'incontro: procuratori azzoppati e testi considerati ormai inattendibili (Amara è indagato per calunnia). Ma esaminiamo al rallentatore questa sfida tra vecchie glorie. All'inizio il procuratore, affiancato dal pm Stefano Civardi, spiega ad Amara che «compare quale persona sottoposta a indagini» per calunnia ai danni del difensore di Vincenzo Armanna, accusatore di lungo corso dell'ad di Eni Claudio Descalzi. Ma il fascicolo è nuovo e, viste le domande, sembra nato per riaprire vecchi cassetti. Infatti Greco chiede conferma ad Amara delle dichiarazioni rese sino a oggi. E l'avvocato risponde di sì, ma anche no, perché spiega di dover «precisare diverse circostanze e fornire un'esatta ricostruzione storica degli avvenimenti, dal momento che gli interrogatori che ho reso hanno avuto un'evoluzione e che le cose che ho dichiarato nel 2018 sono state ampliate e rese diverse nell'interrogatorio nel 2019». Una circonlocuzione per ammettere di aver raccontato balle. Fa notare che nel 2018 si è assunto tutta la responsabilità e che nel 2019 ha indicato «altre persone con le quali avevo operato per realizzare delle condotte». Le domande di Greco e Civardi vertono intorno al falso complotto ai danni di Descalzi che sarebbe stato messo in piedi da Amara; il primo quesito riguarda il presunto incarico ben remunerato che l'indagato avrebbe ricevuto per il «controllo» di Armanna e per «la costruzione di finti processi penali» a Trani e Siracusa. Lì picchia l'accusa. L'interrogatorio inizia alle 10.57, ma viene sospeso nemmeno un'ora dopo, alle 11.52. Alle 12.02 ricomincia e Amara parte a razzo sul suo presunto ruolo nella nomina di Descalzi nel marzo 2014. Racconta di incontri con Antonio Vella e Claudio Granata, in quel momento manager di punta della società petrolifera e, a dire dell'avvocato, interessati a cercare in lui uno sponsor per l'attuale ad. «Dal momento che si sapeva» sostiene Amara «che avevo buone entrature negli ambienti renziani attraverso Lotti, Bacci e il padre di Renzi, Tiziano, nonché con Verdini». Amara descrive anche un incontro a casa di Granata, coinvolto nelle nuove dichiarazioni, con una «donna che ci preparò un tè». Nessuno gli chiede di descrivere casa, né donna. Amara indica nell'interrogatorio di Vincenzo Larocca, ex dipendente Eni, «un riscontro» alle sue affermazioni. Ma anche in questo caso nessuno gli domanda come faccia a sapere «dell'interrogatorio di Larocca», inserito, ci risulta, in un fascicolo coperto da segreto. Ma la vera questione è che quando Amara si sarebbe adoperato per la nomina di Descalzi, il manager era in realtà già stato scelto dalla società cacciatrice di teste Korn Ferry (come previsto dalla direttiva sulle nomine pubbliche) che il 25 marzo 2014 lo posizionò al primo posto dei possibili contendenti per il ruolo di successore di Paolo Scaroni e solo l'1 aprile Descalzi incontrò Renzi a Londra. Amara di fronte a Greco ricorda il faccia a faccia, ma si vede che non è a conoscenza della selezione da parte della Korn Ferry. Un'altra parte dell'interrogatorio è dedicato al video del 28 luglio 2014 negli uffici dell'imprenditore Ezio Bigotti, messo a disposizione delle difese nel processo Eni-Nigeria fuori tempo massimo, tanto che De Pasquale e il pm Sergio Spadaro hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini preliminari dalla Procura di Brescia. L'argomento non ha nulla a che vedere con l'oggetto dell'interrogatorio, ma nessuno interrompe l'indagato. Amara dice: «D'accordo con Granata, decisi di controllare le mosse di Armanna e di videoregistrarlo, potendolo fare con l'aiuto di Bigotti. Infatti quest' ultimo aveva una stanza dotata di un'apparecchiatura che utilizzava per registrare rapporti riservati». Siamo nel 2014. Secondo Amara, il numero 2 dell'Eni, Granata, gli avrebbe chiesto di monitorare Armanna e, quindi, il piano dovrebbe essere di avere il filmato per mostrare come l'ex manager licenziato stesse tramando contro i suoi ex capi. Visto che nessuno lo interrompe, Amara racconta l'ennesima «favola di Pinocchio», come dice lui, e di «avere ricevuto in anteprima (sic!) il file relativo al video di Bigotti [] sul finire del 2017», cioè tre anni dopo la registrazione, «in quanto allegato a una relazione della Guardia di Finanza» ottenuta «in anteprima tramite una consegna di Francesco Sarcina che è un dipendente dell'Aisi», i servizi segreti interni. Sarcina è un nome che Amara ha già sfoderato in passato indicandolo come presunta fonte. Nessuno gli domanda come facesse Sarcina, un carabiniere, ad avere una «relazione della Guardia di Finanza»; nessuno gli contesta le dichiarazioni di Sarcina, che nel merito lo ha smentito. Amara aggiunge di aver fatto una riunione con il sodale Giuseppe Calafiore e con Armanna e di aver deciso di consegnare il video al capo della security di Eni Alfio Rapisarda, perché lui, l'indagato, si è sempre «sentito sino in fondo un "uomo Eni"». Nessuno gli chiede perché di tutto ciò nulla abbiano mai riferito lo stesso Amara, Calafiore e Armanna in tre anni di «collaborazione» e neppure nel dibattimento milanese Eni/Nigeria dove Armanna e Amara sono stati sentiti. L'interrogato espone poi un argomento «assolutorio» per l'imputazione che pende nei confronti di De Pasquale e Spadaro, i quali si sono sempre difesi dicendo che di quel video si era parlato in qualche Riesame del procedimento Opl 245, senza che però il file fosse mai stato depositato. Amara gli lancia una ciambella di salvataggio, affermando che, oltre che essere stato visionato in anteprima dall'Eni, «il video è stato allegato e diffuso nell'ordinanza di custodia cautelare del marzo 2018 e al Riesame era circolato ed era stato visto da parecchia gente». Nessuno gli chiede a quale ordinanza si riferisca, chi fosse quella «gente» e in che «riesame» fosse circolato.Nell'interrogatorio Amara regala chicche anche sulla cosiddetta «Operazione Odessa», nata per fermare Armanna e le sue dichiarazioni anti Descalzi, e cita anche un fedelissimo di Massimo D'Alema, Roberto De Santis, che avrebbe gestito la «ritrattazione» di un altro «problema dell'Eni» (Pietro Varone, ex manager di una partecipata) con l'aiuto del petroliere Gabriele Volpi. Infine Amara parla di un progetto anti pm che avrebbe ideato lui stesso: «Ebbi un incontro con Lotti per verificare la possibilità di far presentare dall'Eni un esposto al Csm contro De Pasquale». Un'idea che sarebbe stata, però, bocciata dagli avvocati dell'Eni. È chiaro che ci troviamo di fronte ad accuse indimostrabili, ma nelle partite tra vecchie glorie tutto può far spettacolo.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 28 ottobre 2021. Galeotto fu il servizio clienti della Apple nel 2018. Perché solo per «colpa» di questo piccolo imprevisto commerciale emerge ora che l’ex manager Eni Vincenzo Armanna - quando nel 2016, nel procedimento per le contestate tangenti Eni in Nigeria, aveva dato come riscontro al pm milanese Fabio De Pasquale il numero di telefono dell’asserito agente segreto nigeriano Victor Nwafor in grado di confermare la narrata scena-madre della consegna in Nigeria nel 2011 al manager Eni Roberto Casula di due trolley onusti di banconote in contanti per 50 milioni di dollari poi imbarcato su un jet privato -, al magistrato aveva in realtà rifilato il numero di telefono di un dipendente di una società di un suo amico imprenditore nigeriano, Matthew Tonlagha. Lo stesso imprenditore, peraltro, al quale poi nel 2019 Armanna avrebbe raccomandato cosa rispondere alle domande su altri temi del procuratore aggiunto Laura Pedio in rogatoria internazionale. 

Uno, nessuno, centomila Victor

La gustosa scoperta è l’ultima (per adesso) puntata dell’avvincente telenovela del teste Victor Nawfor, sulla quale il processo Eni-Nigeria presieduto dal giudice Marco Tremolada aveva dovuto consumare molte udienze: prima per aspettare che questo supposto capo della sicurezza dell’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan si facesse interrogare a Milano o in videoconferenza, nell’interesse sia della difesa di Armanna sia della prospettazione della Procura; poi per assistere con sconcerto alla scena di un primo Victor che (benché garantito come tale dai pm sulla base delle assicurazioni dei colleghi nigeriani) aveva spiegato di non essere mai stato il capo della sicurezza presidenziale e di neanche aver mai visto in vita sua Armanna, il quale allora lo aveva additato al Tribunale come il Victor sbagliato;

poi, nel frattempo, per dibattere lungamente tra periti sulla possibilità tecnica o meno di quel tipo di jet di imbarcare nella stiva quel carico di banconote; e in ultimo per interrogare finalmente un secondo Victor, quello in teoria giusto, che in una lettera al Tribunale era sembrato pronto a rafforzare la versione di Armanna, ma che dal vivo invece davanti ai giudici aveva risposto di aver solo firmato quello che un amico di Armanna gli aveva fatto scrivere sotto dettatura. Con il risultato che, finita l’udienza, questo secondo teste Victor (al secolo Isaac Eke) era stato indagato e perquisito dai pm De Pasquale e Sergio Spadaro per falsa testimonianza nell’ipotesi che qualcuno ne avesse comprato in extremis il silenzio, fascicolo di cui a distanza di 1 anno e 9 mesi non si ha notizia di una definizione, né di rinvio a giudizio né di archiviazione. 

L’intercettazione casuale sullo scontrino

In compenso adesso - dagli atti che la Procura di Brescia ha raccolto nell’inchiesta sulle accuse incrociate tra pm milanesi nella gestione delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, tanto sulla associazione segreta «Ungheria» quanto sul depistaggio giudiziario che i vertici Eni Claudio Descalzi e Claudio Granata sono accusati di aver orchestrato per far ritrattare le iniziali dichiarazioni accusatorie di Armanna – viene a galla che il pm milanese Paolo Storari quantomeno dal 20 febbraio 2021 aveva segnalato a De Pasquale, a Pedio e al procuratore Francesco Greco l’urgenza di depositare al Tribunale del processo Eni-Nigeria, fra una serie di possibili prove della calunniosità di Armanna, proprio anche questa scoperta. E cioè che Armanna, mentre era intercettato il 18 maggio 2019, aveva commissionato un ordine d’acquisto del valore di 60.000 euro alla Apple, il cui servizio clienti, vista l’entità della somma, gli aveva chiesto se a pagare fosse lui: Armanna aveva allora risposto che a pagare sarebbe stata un’altra persona destinataria, di cui dunque il servizio clienti Apple aveva chiesto un riferimento telefonico. Ed era stato qui che Armanna aveva fornito un certo numero di telefono, corrispondente a un impiegato nigeriano (tale Victor Okoli) della società Fenog di un imprenditore nigeriano amico di Armanna, Matthew Tonlagha: incredibilmente lo stesso numero che il 4 maggio 2016 Armanna aveva invece spacciato al pm De Pasquale come telefono a riscontro dell’esistenza e della reperibilità del famoso Victor testimone oculare della consegna dei due trolley con i 50 milioni in contanti al top manager Eni Casula. Uno spaccato che a un romanziere cinico farebbe quasi rimpiangere che situazione si sarebbe potuta creare se per caso il Tribunale, invece di assolvere nel merito il 17 marzo 2021 tutti gli imputati di corruzione internazionale Eni in Nigeria, avesse condannato Eni, Descalzi e Casula valorizzando magari proprio la consegna dei 50 milioni in contanti che per Armanna poteva essere confermata dallo 007 Victor. 

Il plico anonimo lasciato sullo zerbino dell’Eni

Di certo va riconosciuto ai magistrati della Procura di Milano, comunque la si pensi sulle loro scelte di lavoro, la difficoltà e a tratti quasi l’angoscia di doversi districare tra «mine» (spesso oltretutto di matrice anonima) una più insidiosa dell’altra sotto le inchieste sull’Eni. Basti pensare a un’altra inedita storia che pure affiora adesso dagli atti raccolti dalla Procura di Brescia. Non si era infatti mai saputa la ragione di una visita in Procura nel 2020 del nuovo capo dell’ufficio legale del colosso energetico (Stefano Speroni) subentrato a Massimo Mantovani, cioè all’alto dirigente Eni indagato da anni con Amara e Armanna per il primo tentato «depistaggio» che nel 2015-2016, fingendo di voler accreditare un complotto anti-Descalzi, aveva sfruttato la sponda di pm compiacenti (e poi arrestati) a Potenza e a Siracusa per provare a interferire sul processo milanese Eni-Nigeria. Quel giorno Speroni consegna ai pm milanesi un plico anonimo che spiega di aver trovato sullo zerbino di casa, contenente alcune contabili bancarie. Sono carte che accreditano la riferibilità a Mantovani di una società di Dubai, Taha Limited, la quale su un conto bancario in un paradiso fiscale avrebbe 30 milioni. Sembra il perfetto materializzarsi di ciò che può fare ingolosire l’Eni post-Mantovani, teorizzatrice proprio dell’essere stata oggetto dell’infedeltà di una cordata interna Mantovani-Amara-Armanna; e anche di ciò che può molto interessare anche alla Procura, pure al lavoro sull’ipotesi che una serie di manager e avvocati interni al gruppo abbiano potuto allinearsi in una costellazione che dai maneggi giudiziari pro-Eni avrebbe ricavato corposi profitti personali. 

Una polpetta avvelenata (e una coincidenza)

Peccato – ecco il colpo di scena – che, quando il procuratore Greco e i suoi pm iniziano a verificare i documenti sfruttando anche i canali dell’Uif-Ufficio informazioni finanziarie, scoprono che quelle contabili bancarie sono false, «fabbricate» ad arte per fare sembrare che Mantovani abbia in quella società di Dubai quel bottino. Qui si apre un altro mondo di specchi e controspecchi, giacché tra i magistrati – che all’epoca avevano aperto un fascicolo a carico di ignoti per l’ipotesi di riciclaggio - si riflette se lo scopo della costruzione di quel falso puntasse a colpire Mantovani, cercando di incastrarlo o quantomeno di suggerire ai pm una pista investigativa per inchiodarlo, oppure volesse più sottilmente (e paradossalmente) aiutarlo, facendolo figurare vittima appunto di un killeraggio. Qualunque dovesse risultare la risposta allorché saranno finite le indagini, una curiosa coincidenza già adesso resta, e riguarda il nome della società, Taha. Perché il pm Storari segnala ai suoi capi che nelle intercettazioni di Armanna era capitato di ascoltarlo mentre, parlando con un amico di una somma da ricevere, gli diceva «dobbiamo incassare questi soldi... li incassiamo sul conto Taha». Chiosa Storari nell’interrogatorio ai pm bresciani: «Allora, io non arrivo a dire che è stato lui a mandare questi estratti conto tarocchi… Però questo elemento proprio nulla non è…».

Fabio Amendolara per "la Verità" il 25 ottobre 2021. Con rettifica del 22 ottobre 2021 l'Eni ha preannunciato azioni legali nei confronti del Fatto Quotidiano poiché si sarebbe «reso portavoce di calunnie e falsità» con la pubblicazione dell'articolo «Agende ritoccate. La frase non arrivò al pm del caso Eni», secondo cui il dirigente Eni Claudio Granata avrebbe incontrato il faccendiere Piero Amara e il sodale Vincenzo Armanna per «aggiustare» la testimonianza di quest' ultimo nel processo Opl 245, salvo poi modificare la propria agenda per non fare risultare l'incontro, ribattezzato da Amara come «il patto della Rinascente». È chiaro che per il quotidiano le sentenze di assoluzione della Corte di appello e del Tribunale di Milano non debbono essere risultate convincenti poiché continuano a perorare le tesi dell'accusa anche laddove si basano sulle dichiarazioni del controverso faccendiere Amara. L'Eni ha inteso precisare che le indagini hanno accertato come «falso storico» quel presunto patto e ciò risulta non solo dall'agenda di Granata, ma anche da altre prove raccolte dai pm. In ogni caso l'articolo del 22 ottobre addossa al pm Paolo Storari la responsabilità di avere sottaciuto elementi favorevoli all'accusa rappresentata da Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, e segue e precede altri articoli dello stesso tenore che tendono a individuare proprio in Storari colui che, anche prima dell'aprile 2020, avrebbe fatto circolare i verbali di Amara con l'intenzione di danneggiare l'indagine che invece il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio volevano svolgere nella più assoluta segretezza tanto da non iscrivere alcun indagato. Così il 20 ottobre 2021 viene pubblicato l'articolo: «Date incontri e colloqui. Storari parla e accusa, ma non tutto torna» nel quale si ipotizza che Storari non abbia detto la verità ai pm di Brescia sulla data della consegna dei verbali a Piercamillo Davigo. Sullo stesso argomento il giorno successivo Il Fatto pubblica: «Amara: i verbali usciti due mesi prima che li ricevesse Davigo» dove si legge: «I documenti sono nove, circolavano già all'inizio del 2020 prima che Storari li consegnasse (in questo caso solo sei, ndr) a Davigo. E continuano a girare». Anche perché, ci viene da dire, le Procure di Milano, Roma e Perugia nulla hanno fatto per impedirlo tanto che non li hanno sequestrati neppure ai giornalisti che li avevano ricevuti da un anonimo corvo.Nello stesso articolo l'inviato Antonio Massari fa sapere di avere visionato i nove verbali «non in formato word, firmati dai pm dall'indagato, dal suo avvocato», mentre quelli consegnati da Storari a Davigo ad aprile 2020 sono in formato word e non firmati. L'autore dell'articolo aggiunge anche che non è stato né un pm, né un investigatore a farglieli vedere, ma che questi nove verbali sottoscritti «erano altrove» senz' altro aggiungere se non un «indizio» per il lettore: Armanna, durante un interrogatorio del febbraio 2020 davanti a Storari e alla Pedio, sventola un «foglietto» che Storari nell'interrogatorio a Brescia descrive come «una pagina dell'interrogatorio dell'11 gennaio 2020 di Piero Amara dove si parla di Ungheria» che, ancora una volta, non viene sequestrato e quindi si «lascia in circolazione». Armanna fa, però, il nome di Filippo Paradiso che viene perquisito senza esito. Il Fatto quotidiano mostra anche un paio di foto: ritraggono due pagine dei suddetti verbali. Sono «lavorati», cioè chiosati e sottolineati. In una delle immagini si vedono i simboli dello schermo di un pc. Probabilmente quello di uno dei pm. Chi ha fatto quelle istantanee e le ha fatte girare? È stato uno degli indagati durante uno degli interrogatori? Lo ha potuto fare perché uno dei magistrati ha chiuso un occhio, favorendo così la fuga di notizie? Da tale incastro Massari arguisce che già nel febbraio del 2020, momento in cui Armanna sventola il verbale, tutti i nove verbali, timbrati e sottoscritti, fossero già «in circolazione» e quindi Davigo non può che essere ritenuto innocente avendo divulgato ciò che di fatto era già pubblico da oltre due mesi e che le tre Procure interessate non hanno mai fatto sequestrare. A noi viene da dire: cui prodest? Amara e Armanna non avrebbero potuto rivelare quanto raccontato ai pm senza bisogno di fotografare lo schermo del pc? E quante pagine immortalate di nascosto sono state divulgate? Noi possiamo testimoniare che a fine aprile su alcune chat di giornalisti ha iniziato a girare una versione del verbale reso da Amara il 6 dicembre 2019 senza firme e al Fatto e alla Repubblica nei mesi precedenti erano arrivate copie simili. Insomma la vera fuga di notizie è avvenuta con verbali uguali a quelli consegnati ad aprile del 2020 da Storari a Davigo. Il resto sono elucubrazioni.

Da ilsussidiario.net il 16 settembre 2021. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano, Piercamillo Davigo avrebbe denunciato il procuratore di Milano Francesco Greco, in seguito all’intervista rilasciata da quest’ultimo al Corriere della sera nella quale ha sganciato una serie di “bombe” e pesanti accuse nei confronti dell’ex collega del pool di Mani pulite. “In realtà la notizia della denuncia l’ha data solo Il Fatto Quotidiano” ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, giornalista già al Manifesto, Mattino, Agcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it, “ma Il Fatto Quotidiano e Davigo sono una cosa unica, per cui sarà senz’altro vero”. Siamo all’ultimo scontro, quello finale, alla resa dei conti all’interno di una Procura, quella di Milano, sconvolta ormai da mesi da lotte intestine e indagini penali e disciplinari. Una frana che si porta dietro anche Mani pulite, considerata per anni il volto buono della giustizia italiana: “Mani pulite avrebbe dovuto scomparire già nel 1993 – sottolinea Cimini – ma allora i magistrati avevano il consenso di milioni di italiani che si erano fatti abbindolare. Anche Berlusconi ci credeva, poi l’ha pagata in prima persona. Greco nella sua intervista ha detto un sacco di sciocchezze, è la fine di una bruttissima pagina della giustizia, ma in realtà con una politica incapace di prendere decisioni non ne veniamo fuori”.

A che livello siamo arrivati in questo scontro tra magistrati?

Siamo arrivati alla fine che queste persone dovevano già fare nel 1993. 

Perché non successe allora?

Non successe perché avevano il consenso di 50 milioni di persone, che non capivano nulla e che si sono fatte abbindolare. Avevano un consenso popolare assolutamente immotivato e ingiustificato, che però fu lo strumento con cui sono andati avanti, udienza dopo udienza, per trent’anni.

I magistrati di Mani pulite non erano sinceramente convinti di essere super partes, di fare un’opera di pulizia?

No, loro volevano il potere. E la politica, con le decisioni assunte negli anni del terrorismo, li aveva aiutati. Per cui i magistrati volevano riscuotere quel credito e volevano il potere. Ci fu la famosa intervista di Borrelli in cui disse al Corriere: “se dovessimo essere chiamati per una missione di complemento noi saremmo pronti”. 

Una roba stile dittatura sudamericana?

In nessun paese del mondo civile può succedere una cosa del genere. I magistrati sono dei vincitori di un concorso che devono indagare le prove e portare le persone davanti a un tribunale. 

Invece?

Questi pensavano a tutt’altro. 

Davanti a tutto quello che stiamo vedendo, si può dire oggi che Berlusconi è stato perseguitato?

Sono vere le due cose. Berlusconi ha avuto delle colpe precise, sto parlando di evasione fiscale. Però è vero che ce l’avevano con lui ed è anche vero che se l’80% dei processi erano fondati, l’altro 20%, ad esempio quello su Ruby, ha dimostrato che c’era accanimento nei suoi confronti. Berlusconi non aveva capito niente, all’inizio Mani pulite andava bene anche a lui, quando le sue televisioni con Brosio dietro al tram facevano da megafono al pool. In realtà tutto divenne chiaro dall’estate del ’93 quando arrestarono il manager Fininvest Aldo Brancher, un ex sacerdote braccio destro di Fedele Confalonieri. Berlusconi invece aveva detto che c’era bisogno di Mani pulite perché c’era bisogno di pulizia, ma la pulizia non si fa così, indagando dove si vuole e chi si vuole, con sponde politiche, lasciando fuori dalle indagini Pci e Pds, e i poteri forti come Mediobanca e Fiat.

Adesso si scannano tra loro, è così?

Quello che sta succedendo adesso è la giusta fine di questa storia. Litigano fra loro, l’uso delle carte giudiziarie contro gli avversari lo praticano anche loro e lo praticano tra loro. 

Greco con l’intervista al Corriere ha sparato diverse “bombe”, però fra due mesi va in pensione e sparisce dalla scena…

Greco considera quell’intervista il suo testamento morale e dice un sacco di cose che non stanno in piedi.

Ad esempio, sostiene di aver recuperato un sacco di soldi per l’erario, ma in realtà ha abdicato alla sua funzione sostituendosi all’Agenzie delle entrate nelle vicende dei colossi del web e questi hanno pagato un decimo di quello che avrebbero pagato se fossero andati a processo. 

E comunque il compito di un procuratore non è quello di recuperare soldi per il fisco, ma di portare le persone in tribunale per appurare se sono colpevoli o innocenti. 

Se ne va auto-incensandosi?

Straparla di questo pool dei reati transnazionali, che in realtà ha incassato in tribunale un sacco di sconfitte. La cosa brutta non è tanto questa, quanto il fatto che per cercare di rivoltare la frittata hanno mandato a Brescia delle fandonie di Amara che mettevano in cattiva luce il presidente del tribunale nella speranza che si astenesse dal processo, in modo che fosse svolto da un altro. E sperando così di vincerlo. Hanno fatto manovre da magliari.

Ci sarebbe da ridere se in mezzo non ci fossero i cittadini italiani e la giustizia.

Mi ricordo le parole di D’Ambrosio quando una volta gli dissi: ma Greco che cavolo combina? 

Cosa rispose?

Disse: sulle cose che fa Greco nessuno di noi ha il coraggio di dire qualcosa. Un’altra volta Greco, per la storia di toghe sporche, fu avvicinato a Roma dal magistrato Francesco Misiani che voleva sapere di chi era la microspia trovata nel bar Tombini di Roma (intercettazioni telefoniche tra l’allora capo della Procura di Roma, Michele Coiro, e il capo dei gip, Renato Squillante, ndr).

Greco non rispose, giustamente mantenendo il segreto, però tornato a Milano denunciò Misiani a Borrelli. Gli dissi: ma non ti vergogni a denunciare il magistrato di cui sei stato uditore giudiziario? Lui rispose: se non l’avessi fatto, la Boccassini mi avrebbe arrestato.

Però, proprio un bell’ambientino…

Sto parlando del 1996, erano già pronti ad arrestarsi fra loro.

Di tutto questo, a noi cittadini cosa resta?

Bella domanda. Intanto l’Italia ci ha messo trent’anni a capire che razza di gente erano davvero, e poi non è proprio così. L’intervista a Greco è stata liquidata in poche righe dall’Ansa, nessun politico ha fatto un commento. Purtroppo siamo in una fase storica in cui la politica non esiste, esiste solo Draghi. 

(Paolo Vites)

 (ANSA l'8 ottobre 2021) - La procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione per il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d'ufficio per il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Chiuse invece le indagini, come riportano alcuni quotidiani, per l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e per il pm milanese Paolo Storari e per l'aggiunto Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro.

Monica Serra per "la Stampa" l'8 ottobre 2021. Si chiudono le prime due partite dell'inchiesta di Brescia sullo scontro fratricida nella procura di Milano. E sulla graticola di una possibile richiesta di rinvio a giudizio finiscono da una parte il pm Paolo Storari e l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per la "fuga" dei verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta "loggia Ungheria", e dall'altra il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, per la gestione delle prove al processo Eni-Nigeria, che si è concluso poi con una clamorosa assoluzione di tutti gli imputati. Non pervenuta invece la decisione sugli altri magistrati indagati per omissione di atti d'ufficio, ovvero il procuratore milanese Francesco Greco e l'aggiunta Laura Pedio. Ma è chiaro che la procura bresciana dovrà sciogliere la riserva anche su di loro, sebbene ieri sera il procuratore Greco, oramai a un passo dalla pensione, ostentasse tranquillità: «Io sto aspettando solo una cosa: l'archiviazione». Nell'avviso di conclusione indagini notificato ieri, Brescia ipotizza per Davigo e Storari il reato all'articolo 326 del codice penale, ovvero rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. La storia ormai è nota. A Storari viene contestato di «aver consegnato i verbali dell'avvocato Piero Amara» resi di fronte a lui e alla collega Laura Pedio tra il 6 dicembre del 2019 e l'11 gennaio del 2020, sotto forma di file contenuti in una chiavetta Usb, al collega Piercamillo Davigo «nei primi giorni del mese di aprile del 2020 nei pressi dell'abitazione di quest' ultimo». La contestazione a Davigo è più articolata perché non solo li avrebbe ricevuti illecitamente, autorizzando il collega a darglieli, ma li avrebbe anche «diffusi» a Roma. Non soltanto infatti li avrebbe consegnati a membri del Csm, come il vicepresidente David Ermini, e ne avrebbe parlato con il Pg di Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell'azione disciplinare), ma li avrebbe mostrati o ne avrebbe riferito pure a Giuseppe Cascini, Giuseppe Gigliotti, Stefano Cavanna, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, tutti del Csm. Nonché al presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra (5Stelle).

L'accusa di rifiuto di atti d'ufficio ipotizzata, in un altro provvedimento di chiusura inchiesta per gli altri due magistrati, ovvero Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, racconta invece l'altra faccia della medaglia di questa storia. Quando nel maggio scorso Storari viene interrogato a Brescia, con mail e documenti alla mano, spiega infatti di aver consegnato quei verbali di Amara a Davigo per «autotutelarsi» dalla presunta «inerzia della procura». «Inerzia» che, secondo il procuratore di Brescia Francesco Prete, si tradusse, per quanto riguarda De Pasquale e Spadaro, nel non aver portato a conoscenza delle difese Eni-Nigeria alcune prove che erano state raccolte da Storari nell'indagine con la collega Pedio sul presunto «complotto Eni». A partire dalle chat telefoniche che dimostrerebbero come il coimputato e teste dell'accusa Vincenzo Armanna, ex manager Eni, avesse promesso 50 mila dollari a un poliziotto nigeriano per indurlo a una falsa testimonianza. Evidentemente a nulla sono servite le spiegazioni fornite a Brescia da De Pasquale e Spadaro, che sostenevano come quegli accertamenti fossero «incompleti». Ora tutti e quattro i magistrati rischiano di finire a processo.  

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 9 ottobre 2021. Il procuratore milanese Francesco Greco nel «paradiso» degli ormai archiviati, il suo vice Fabio De Pasquale nell'«inferno» di coloro che si avviano a essere processati, la sua vice Laura Pedio ancora nel «purgatorio» giudiziario di coloro che son sospesi (nel limbo cioè di accertamenti ancora in corso), e altri due pm (Paolo Storari e Sergio Spadaro) pure verso il giudizio assieme all'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo: al momento è questo l'esito - stilato nel giro di appena 5 mesi - dell'inchiesta della Procura di Brescia sulla Procura di Milano. O, più precisamente, sulle scelte investigative adottate o meno dalla Procura di Milano nel 2020 per un verso sui verbali resi dall'avvocato esterno Eni Piero Amara sull'asserita associazione segreta denominata «Ungheria», e per altro verso sulle prove che potevano minare l'attendibilità dell'imputato-dichiarante Vincenzo Armanna sia nel processo Eni Nigeria sia nell'indagine (tuttora in mano a Pedio) sui possibili depistaggi giudiziari attribuiti all'a.d. Eni Claudio Descalzi e al capo del personale Claudio Granata. Per Brescia, che ha chiesto l'archiviazione dell'omissione d'ufficio contestata in estate a Greco, non spettava al procuratore (che andrà in pensione il 14 novembre) iscrivere eventuali notizie di reato contenute nei verbali di Amara, tanto più in quanto quel fascicolo era coassegnato (oltre che al pm Storari) a un procuratore aggiunto, Laura Pedio, vice di Greco dotata di autonomia. Inoltre solo a metà aprile 2020 Storari (dopo il consiglio ricevuto da Davigo) iniziò a mettere per iscritto quei solleciti che afferma di aver per mesi fatto invano a voce, mentre le prime iscrizioni furono fatte il 13 maggio a ruota della telefonata del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, dopo la visita di Davigo: per Brescia sarebbe processualmente sterile credere sulla parola alle contrapposte versioni orali. Per ora Pedio resta indagata per l'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio in parte per «Ungheria» e in parte per non aver indagato Armanna all'emergere di indizi che (trovati da Storari in indagini pure qui coassegnate) parevano imporlo. È tema affine all'incriminazione ora di De Pasquale (vice di Greco e capo del pool affari internazionali) e del pm Spadaro per aver in ipotesi tenuto imputati e giudici del processo Eni-Nigeria all'oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese: la falsità di alcune chat prodotte da Armanna; le chat attestanti un rapporto patrimoniale (50.000 dollari dati o promessi) tra Armanna e l'asserito proprio superteste nigeriano a riscontro delle accuse a Eni; e il video (questo non proveniente da Storari ma dai pm di Roma) dell'imprenditore Ezio Bigotti sulla possibile matrice delle iniziali accuse di Armanna a Eni. Storari e Davigo sono invece avviati a giudizio perché l'uno consegnò all'altro nell'aprile 2020, «al di fuori di ogni procedura formale», le copie word dei verbali segreti di Amara su Ungheria: condotta che per Brescia non può essere scriminata né dal fatto che fosse Davigo a rassicurare Storari sulla non opponibilità del segreto ai consiglieri Csm, né dal movente di Storari di «lamentare i presunti contrasti insorti» con i vertici. A ruota Davigo è tacciato di aver «abusato del proprio ruolo» nel consegnare/raccontare il contenuto dei verbali di Amara, «informalmente e al solo scopo di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Csm Ardita», ai consiglieri Csm Marra, Cascini, Pepe, Gigliotti e Cavanna; al vicepresidente Csm David Ermini, che si affrettò a distruggere gli «irricevibili» verbali lasciatigli da Davigo; a due proprie segretarie al Csm; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nei Cinque Stelle) Nicola Morra.

Cambi di stagione. Augusto Minzolini il 9 Ottobre 2021 su Il Giornale. Simboli di un cambio di stagione: si dissolve nell'opinione pubblica il grillismo, malattia infantile del giustizialismo, e quei magistrati, o ex-magistrati, che ne sono stati gli eroi finiscono sul banco degli imputati. Simboli di un cambio di stagione: si dissolve nell'opinione pubblica il grillismo, malattia infantile del giustizialismo, e quei magistrati, o ex-magistrati, che ne sono stati gli eroi finiscono sul banco degli imputati. Piercamillo Davigo, l'inventore del teorema per cui i politici sono «solo colpevoli non ancora scoperti», e Fabio De Pasquale, che ha nel suo curriculum indagini dallo spiccato spirito giacobino, da inquisitori hanno cambiato ruolo nel processo e si sono trasformati in accusati: il primo per aver diffuso degli atti giudiziari secretati; il secondo per aver negato alla difesa nel processo Eni-Nigeria delle prove a discolpa degli imputati. Qualche anno fa sarebbe stato impensabile, ma le fasi politiche cambiano in fretta. Solo che chi spera in un sistema giudiziario «giusto», chi è mosso da un sincero spirito garantista non dovrebbe festeggiare perché gli ultimi eredi di Robespierre hanno preso la strada del patibolo come il loro predecessore. Si commetterebbe un grave errore ad affidarsi, infatti, agli umori dell'opinione pubblica che sono di per sé cangianti. Semmai si dovrebbe approfittare del momento per creare degli anticorpi nel nostro sistema istituzionale che evitino il riaffermarsi di una filosofia giustizialista. O, almeno, per riesumare delle garanzie che, nel furore dell'assalto al Palazzo, sono state cancellate in passato. Più o meno quello che avvenne in Francia quando si passò dal Terrore al Termidoro. Ad esempio, sull'onda di Tangentopoli, quando i giorni erano cadenzati dagli avvisi di garanzia, su impulso dei vari Davigo, il Parlamento di allora abolì, per paura, un istituto, l'immunità parlamentare (ne è rimasto solo un surrogato), che serviva, nella mente dei nostri padri Costituenti, proprio per evitare le incursioni del Potere giudiziario sul Potere politico (il fenomeno che ha caratterizzato trent'anni di Storia patria). Era una sorta di camera di compensazione inventata nella logica dei pesi e contrappesi da personaggi del calibro di un giurista democristiano come Costantino Mortati, di un esponente del Pci come Umberto Terracini e di un fondatore del Partito d'Azione come Piero Calamandrei, per bilanciare il principio dell'autonomia della magistratura. Ora, nessuno vuole approfittare della crisi profonda che attraversa il potere giudiziario, con illustri magistrati che si indagano l'un l'altro o inchieste che nascono alla vigilia di un'elezione e muoiono il giorno dopo solo per condizionarne l'esito (vedi l'affaire Morisi), per minarne l'autonomia. Giammai. Solo che sarebbe il caso di ripristinare nella sua interezza la nostra tanto decantata Costituzione, che prevedeva, appunto, pure l'immunità, per porre nella nostra Storia un punto e a capo e dare la possibilità al Parlamento di decidere anche in temi di giustizia senza essere condizionato dalle «solite» incursioni. Sarebbe il primo passo per aprire la strada ad una profonda riforma della giustizia, non i palliativi della Cartabia, senza aspettare che sia il popolo attraverso i referendum a farsi carico dei doveri del legislatore. Augusto Minzolini

Le versioni discordanti. Loggia Ungheria, le scintille tra Greco e Salvi: “Non mi sollecitò ad accelerare le indagini”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Divergono ricordi e versioni di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione e membro del Comitato di Presidenza del Csm, e Francesco Greco, Procuratore di Milano sul caso della presunta (e fantomatica) Loggia Ungheria: loggia di potere che stando al racconto dell’avvocato siciliano Piero Amara riunirebbe vertici della magistratura, delle forze dell’ordine, avvocati, imprenditori e via dicendo. E le divergenze stanno sia sulla data che sul contenuto della telefonata tra i due nel maggio 2020, nei pressi della prima iscrizione milanese sul caso che ha messo sottosopra la magistratura. Amara tra il dicembre 2019 e il 2020 nell’ambito delle indagini sul cosiddetto “Falso Complotto Eni” aveva raccontato di questa Loggia ai Sostituti Procuratori di Milano Paolo Storari e Laura Pedio. Storari fu spinto da una sorta di presunta pigrizia della Procura di Milano nell’affrontare il caso a passare i verbali, in formato word, all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo. Davigo, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, avrebbe quindi parlato in via informale dei verbali e del caso con il vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura David Ermini, altri cinque membri del Csm, con il procuratore generale Giovanni Salvi, il presidente della Cassazione Pietro Curzio e con il senatore Nicola Morra. Il caso è esploso quando quei verbali furono inviati a due giornali (La Repubblica e Il Fatto Quotidiano) e dopo la denuncia in consiglio del membro del Csm Nino Di Matteo. La segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto è stata accusata di calunnia. La Procura di Brescia ha da poco chiuso le indagini: chiesta l’archiviazione per il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco, indagato per omissioni di atti d’ufficio. Il caso è però tutt’altro che chiuso, e ricco di spunti sulla natura e il funzionamento della magistratura italiana. Un’altra bomba dopo l’uragano del Palamaragate. I tabulati del telefono di Greco riportano un lungo sms il 7 maggio del 2020 e dieci minuti di telefonata il 9 maggio. Il Corriere della Sera riporta dunque la versione di Salvi: che dice di esser stato informato da Davigo, “senza alcun materiale cartaceo”, e di aver chiesto chiarimenti a Greco sullo “stallo” e sul fatto che “la Procura, pur a distanza di mesi, neppure aveva iscritto la notizia di reato”. A quel punto avrebbe chiamato Greco per chiedere lumi e sollecitare che le indagini venissero coinvolte “con un certo ritmo”. Salvi non ha però saputo precisare quando, senza incertezze. La replica di Greco in interrogatorio: “Se Salvi ha detto che mi ha chiesto di accelerare l’indagine, di fare le iscrizioni, che Davigo compulsava o Storari si lamentava, se ne assumerà la responsabilità … ma non credo. Sia nella eventuale telefonata sia nell’incontro il 16 giugno, mai mi ha parlato di Davigo e Storari, e tantomeno di contrasti o indagini”. Salvi, secondo il procuratore di Milano, avrebbe dimostrato interesse ad avere ulteriori documenti sul consigliere del Csm Mancinetti e su un’indagine a Milano su alcuni magistrati. Greco ha rigettato completamente la versione della sollecitazione delle indagini e il coordinamento con altre Procure da parte di Salvi: “Io questo lo contesto proprio decisamente, anzi mi meraviglio che abbia detto una cosa del genere. La prima cosa che avrebbe dovuto fare era avvisare che c’era stata una fuga di notizie (…), mi sono stufato di persone che affermano cose giocando sulla pelle della Procura di Milano e mia, va bene? Va bene? Perché se no qui ognuno che passa dice quello che gli pare, compreso il pg della Cassazione”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Le mail del pm Storari a Greco: «Quelle chat scagionano l’Eni». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Il pm al procuratore: informiamo i giudici. La replica: erano 100 pagine illeggibili. Tra i reati contestati nell’inchiesta sulla Fondazione, corruzione e finanziamento illecito. Scrive il pm Paolo Storari il 4 febbraio ai suoi vertici Francesco Greco e Laura Pedio: «Vi allego una breve ulteriore memoria da dove emerge che Vincenzo Armanna» (coimputato-accusatore di Eni) «ha pagato 50 mila dollari a due testi del processo Eni-Nigeria. Vi avevo già scritto il 18 gennaio e il 23 gennaio sollecitando di comunicare a De Pasquale (altro vice di Greco e pm di Eni-Nigeria, ndr), alle difese e al Tribunale questi fatti molto gravi, non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque sia, si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi. E tralascio eventuali profili non solo disciplinari. La stessa tempestività e solerzia avuta nel trasmettere i verbali di Amara e Armanna a De Pasquale, nonché nel trasmettere alla Procura di Brescia le dichiarazioni su Tremolada (giudice di Eni-Nigeria, ndr), dovremmo averla anche quando le indagini portano elementi che smentiscono. Rimango in attesa».

La risposta

La mai arrivatagli risposta arriva, indiretta, ora che Greco ribatte al pm bresciano Francesco Prete: «Sono sicuro che, se andiamo a rastrellare il fondo del barile, troviamo tante cose da depositare in Tribunale, altrettante se rastrello per i corridoi della Procura... Il problema è che Storari aveva mandato 100 pagine illeggibili, non faceva capire cosa si doveva depositare...»: e peraltro per De Pasquale e Pedio non era processualmente spendibile il non ancora concluso esame del telefonino di Armanna, «da 3.000 le mail sono diventate 16.000». Prete riassume allora a Greco il punto: Storari chiedeva di avvisare il Tribunale che Armanna, nel produrre al Tribunale alcune sue chat con il mitologico 007 nigeriano Victor che avrebbe dovuto confermarne le accuse a Eni, le aveva però amputate della parte in cui discuteva col teste di 50.000 euro. Una notizia da dire, a prescindere che Armanna coi soldi volesse procurarsi un certo file (come interpretava De Pasquale nel motivare a Greco il no al deposito) o comprare il teste (come sospettava Storari). «Non voglio entrare su questa storia qua perché francamente non sono neanche in grado di farlo... — ripiega qui Greco su De Pasquale —. Dico solo che le mail di Storari non permettevano il deposito di alcunché. Punto. Poi... francamente ognuno si assume le proprie responsabilità, Spadaro e De Pasquale hanno detto la loro posizione, uno la potrà giudicare o meno. Trovo singolare che un pm (Storari, ndr) si dedichi a fare una controindagine su un processo in corso e sulla discrezionalità di un altro pm in udienza. Il pm in udienza è autonomo, neanche il procuratore può imporre nulla. Perciò la risposta di De Pasquale non l’ho girata a Storari ma l’ho tenuta io e messa a protocollo riservato». Altro tema posto da Storari era che le chat mostrate nel 2019 da Armanna al Fatto Quotidiano per accreditare messaggi da Descalzi e Granata volti nel 2013 a comprarne la ritrattazione processuale, erano false già solo perché i loro apparenti numeri telefonici erano in quel 2013 utenze inattive in pancia a Vodafone. Ma ora Greco controdomanda ai pm di Brescia: «No, chi l’ha detto che le chat sono false?». Vodafone — rileva Prete — comunica che nel 2013 i numeri non esistevano. Greco: «Ma perché, tu ti fidi?». Perché no? «Che ne so io...». Obiezione che anche Storari ricorda fattagli da Greco e Pedio nel 2020: «Dicevano: “Ma sai, ci sono i servizi segreti... potrebbero aver utilizzato queste utenze nonostante fossero in pancia di Vodafone”. Di fronte a risposte così, ma che gli vuoi dire? Perché a quel punto vale tutto...». Pedio, invece, insiste tutt’oggi. Premette «che certo non competeva a me, Laura Pedio, stabilire se quel materiale provvisorio doveva... se era utile per il processo Eni-Nigeria o no», e si dice scandalizzata dal ritrovarsi indagata per omissione: «Mi state dicendo allora che, se non fai una misura cautelare che il tuo collega vuole, commetti un reato? Io quella bozza di richiesta di Storari (arrestare Armanna e Amara per calunnia dei vertici Eni) non l’ho condivisa allora, e dico che ancora oggi non ci sono le condizioni. Io l’ho bocciata, e Storari si deve fare persuaso che quel che pensa lui non è sempre la verità scesa in terra... Forse nelle sue esperienze precedenti (l’Antimafia con Ilda Boccassini, ndr) era stato abituato a dettare le regole».

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22 ottobre 2021. In Procura a Milano non hanno ancora finito di interrogare sia l'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sia il suo sodale ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, tacciati d'essere calunniatori dal pm Paolo Storari e al centro anche del terremoto creato dal modo (contestato da Storari ma rivendicato dai suoi capi) con il quale la Procura di Milano scelse nel 2019-2020 di temporeggiare sulle dichiarazioni di Amara circa la presunta associazione segreta «Ungheria». Ma la notizia non è questa, perché è stato un diritto di Amara e Armanna chiedere di farsi di nuovo interrogare su un altro segmento d'imputazione, notificata in luglio dal procuratore aggiunto Laura Pedio su pungolo dell'avocazione chiesta dall'ex avvocato di Armanna, Luca Santa Maria: l'aver cioè calunniato Santa Maria nel 2017 per far ritrattare le accuse di Armanna ai vertici Eni e sperare di far innescare un processo disciplinare contro il pm Fabio De Pasquale. L'aspetto interessante degli interrogatori è invece chi è andato a farli: il procuratore Francesco Greco quello di Amara in carcere a Terni, la sua vice Pedio quello di Armanna. È infatti proprio per omissione d'atti d'ufficio sui verbali 2019-2020 di Amara che Greco è stato indagato in estate dalla Procura di Brescia, la quale di recente ha chiesto una archiviazione che attende di essere accolta o respinta dal gip. Il che non ha quindi fatto sentire a disagio il procuratore, il quale, come di rado accade, ha scelto di compiere direttamente un atto di indagine in una inchiesta di cui non è titolare, evidentemente per non sovraesporre la titolare Pedio: alla quale ha affiancato nel fascicolo due pm (Stefano Civardi, presente all'interrogatorio con Greco, e Monia Di Marco), e verso la quale Amara nel programma tv «Piazza Pulita» si era sperticato in elogi («La donna più intelligente mai incontrata») inversamente proporzionali al risentimento ostentato verso Storari. Armanna è stato invece interrogato proprio da Pedio, anch' ella dunque non sentitasi condizionata dal fatto di essere in questo momento indagata dalla Procura di Brescia per l'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio appunto su Armanna: cioè per non averlo indagato per calunnia dei vertici Eni sulla base delle prove segnalate dal coassegnatario pm Storari a lei, a Greco e (tramite Greco) a De Pasquale.

L’accusa di Storari: «Non dovevo danneggiare il processo Eni». Le dichiarazioni del pm Storari ai colleghi di Brescia: «Operazione chirurgica di selezione delle cose che facevano comodo» a De Pasquale nel dibattimento. Simona Musco su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Una guerra senza esclusione di colpi. E accuse incrociate, che confermano quello che ormai per tutti è chiaro: la procura di Milano è un colabrodo. Al centro di tutto sempre la vicenda Eni e il ruolo di Piero Amara, ex avvocato esterno della società, che con le sue dichiarazioni ha tirato in ballo mezzo mondo delle istituzioni. Lo ha fatto parlando della presunta “Loggia Ungheria”, sulla quale il pm milanese Paolo Storari avrebbe voluto fare chiarezza, non riuscendoci, a suo dire, per il presunto ostracismo dei vertici della procura. E il motivo, secondo quanto racconta il magistrato davanti ai colleghi di Brescia, è uno solo: non far morire il processo Eni- Nigeria screditando il grande accusatore Vincenzo Armanna. Il processo si è concluso comunque con l’assoluzione di tutti gli imputati. Ma stando ai verbali di Brescia, l’indagine sulla presunta associazione segreta sarebbe dovuta rimanere ferma «almeno due anni». O almeno questa sarebbe stata la richiesta, secondo Storari, avanzata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che nel processo a Eni rappresentava l’accusa assieme al collega Sergio Spadaro. Le posizioni di tutte le parti in causa sono ora cristallizzate nei verbali raccolti dalla procura di Brescia, che nei giorni scorsi ha chiuso le indagini su Storari e Piercamillo Davigo (che ha ricevuto dal primo i verbali di Amara come forma di «autotutela»), accusati di rivelazioni di atti d’ufficio, nonché su De Pasquale e Spadaro ( nel frattempo passato alla procura europea) per rifiuto d’atti d’ufficio. In ballo rimane anche l’aggiunta Laura Pedio, sulla quale sono ancora in corso le indagini per omissione d’atti d’ufficio per non aver proceduto con le iscrizioni dei primi indagati in relazione alla vicenda Ungheria. Accusa che era stata mossa anche nei confronti del procuratore Francesco Greco, l’unico la cui posizione è stata archiviata, ma le cui dichiarazioni sono non per questo secondarie. «Io per De Pasquale sono sempre stato un soggetto da tenere alla larga su questa vicenda perché più volte (…) diceva che io gli rovinavo il processo. Perché per lui Armanna (Vincenzo, grande accusatore di Eni, ndr) era un soggetto un po’ particolare ma che a lui credeva. Dicevo: “Guarda Fabio… secondo me è un calunniatore”», raccontava a maggio scorso Storari davanti al procuratore bresciano Francesco Prete. Secondo il pm, i suoi superiori non volevano dunque «disturbare» il processo Eni- Nigeria. E Pedio, che con lui condivideva il fascicolo sul “Falso complotto Eni”, nel quale erano confluite le dichiarazioni di Amara su Ungheria, prima della sentenza di assoluzione avrebbe riferito «l’insofferenza di De Pasquale», cristallizzata nella frase «la devi smettere di intralciare il mio processo» e nella richiesta «di non dire in giro» che Armanna era da considerare poco credibile, in quanto «crea un clima ostile» in aula. «Questa indagine deve rimanere ferma due anni», avrebbe fatto sapere De Pasquale a Storari tramite la collega, come emerso dall’interrogatorio dello scorso 15 settembre di Pedio davanti al procuratore Prete e al pm Donato Greco. Storari aveva puntato il dito contro lei e il procuratore Greco, rei, a suo dire, di «selezionare e trasmettere a De Pasquale quello che gli serve nel processo Eni- Nigeria e a non trasmettere quel che lo danneggia». Come, ad esempio, le accuse di Amara al presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, ma non le presunte falsificazioni di chat e il presunto pagamento di un testimone. E per confermare la sua posizione, Storari avrebbe tirato fuori una mail di De Pasquale riguardo a dei verbali finiti nel fascicolo sul complotto: «Mi raccomando – avrebbe detto l’aggiunto – io le parti evidenziate in giallo le voglio… non fate troppe storie… me le dovete trasmettere». Insomma, «una operazione chirurgica di selezione delle cose che fanno comodo» a De Pasquale nel dibattimento e un’esclusione a priori di tutto ciò che, invece, lo avrebbe danneggiato. Pedio, però, ha evidenziato che «Storari cominciò a mandare degli elaborati… anche abbastanza complessi» di «100, 150 pagine l’uno (…) Molto di difficile lettura – ha riferito -. A me francamente non era chiaro cosa dovevano depositare i colleghi in dibattimento». Punto sul quale anche il procuratore Greco si è detto d’accordo. Pedio ha spiegato anche il suo atteggiamento in relazione all’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria. «Rispetto a una notizia di reato così fluida, quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane (…) andavamo dal Papa in giù? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico», ha affermato. Secondo Storari, invece, proprio quella genericità avrebbe richiesto un approfondimento, ma i vertici della procura «non intendevano fare nulla». I primi tre nomi quelli di Amara, Giuseppe Calafiore e Fabrizio Centofanti – vennero iscritti il 12 maggio 2020, cinque mesi dopo l’ultimo verbale dell’ex legale di Eni. Ma dai verbali di Brescia emerge anche un altro dettaglio: secondo quanto testimoniato da un investigatore, quando da alcune chat era emerso che Armanna avrebbe pagato dei testimoni, Pedio avrebbe chiesto di «espungere» il riferimento a quegli accertamenti dalla relazione. «In pratica – ha affermato l’investigatore – ci chiese di verificare il riscontro della dazione per vedere se fosse vero che Armanna aveva fatto pervenire 50mila dollari a Ayah ( un teste nigeriano, ndr). Aderimmo alla richiesta della dottoressa Pedio e depositammo la relazione definitiva espungendo la frase (…) togliemmo dalla definitiva anche i paragrafi relativi al pagamento, informando Storari che decise di emettere un ordine di indagine europeo per verificare questo pagamento». Insomma, quando dagli accertamenti sul telefono di Armanna «vengono fuori una serie di falsità, si cerca di creare uno schermo per evitare che queste falsità» vengano «messe a conoscenza delle difese e anche del Tribunale che stava celebrando il processo Eni- Nigeria». 

Alfredo Faita per editorialedomani.it il 22 ottobre 2021. «Amara ha bevuto questa notte. Ha ancora tempo di fare le sue considerazioni». Queste poche parole celano uno dei tanti misteri e delle tante inquietudini che avvolgono l’inchiesta bresciana sul procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, indagato per rifiuto d’atti ufficio insieme al collega Sergio Spadaro. I due pubblici ministeri che hanno retto l’accusa nel processo per corruzione internazionale Eni–Shell Nigeria (tutti assolti) e che ora si trovano indagati loro stessi dai colleghi bresciani proprio per la conduzione di quel processo. Piero Amara è l’ex legale esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della presunta loggia Ungheria per la quale risulta adesso indagato dalla procura di Perugia insieme al politico di Forza Italia Denis Verdini e a Luigi Bisignani, tra gli altri. Quelle poche parole, contenute in una mail, risultavano inviate da “Fabio De Pasquale” a Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni poi allontanato che è stato imputato nel processo nigeriano dell’Eni nel quale ha anche accusato i vertici della sua ex società di aver pagato una maxi tangente per ottenere i diritti di sfruttamento del giacimento Opl 245. Chi inviava la mail voleva avvertire Armanna dell’arresto di Amara. E quindi il procuratore aggiunto di Milano si sarebbe messo al servizio di un suo imputato per avvertirlo dei guai dell’avvocato siciliano? Questo è quello che ha sospettato il pm milanese Paolo Storari, che dal 2019 indagava sul famoso «complotto» ai danni della procura (Armanna è anche in questa indagine) e dalle cui accuse a Brescia è nato il procedimento a carico di De Pasquale, oltre che quello sul procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio accusati di inerzia nelle indagini sulla loggia Ungheria. Per verificare quella mail Storari ha messo in piedi un’intelligence corposa – ben tre relazioni sul caso – ma non autorizzata, chiedendo alla Guardia di Finanza di verificare questa clamorosa ipotesi, finendo poi per scoprire che l’indirizzo email associato a quella mail era di un omonimo del magistrato iscritto all’Aire e con dimora a Dubai. Caso chiuso e un bel respiro di sollievo per tutti? Non proprio, perché questa circostanza è comunque finita in una famosa bozza compilata dalla Gdf contenente tutta una serie di rilievi su Vincenzo Armanna, in particolar modo sulla sua volontà di procurarsi prove e testimonianze utili alla sua linea processuale di attacco ai vertici Eni pagando 50 mila dollari a personaggi nigeriani. Bozza nella quale non si è dato conto del fatto che l’email non era riferibile a De Pasquale e che è stata inviata lo scorso 15 febbraio a De Pasquale e Spadaro, a pochi giorni dalla sentenza Eni Nigeria, chiedendo loro di avvertire il Tribunale delle manovre oscure che aveva messo in piedi Armanna in modo da riconsiderare la sua posizione. I due pm non fecero nulla di ciò, considerando quella bozza un’accozzaglia di elementi messa sul loro tavolo in modo «pretestuoso» e «inusitato», «una polpetta avvelenata» come ha detto lo stesso De Pasquale al procuratore di Brescia Francesco Prete durante un interrogatorio lo scorso 27 settembre. Per De Pasquale quella bozza era «assurda interferenza nel nostro processo» che si sarebbe concluso i lì a breve, che cozzava contro l’articolo 53 del codice di procedura penale che sancisce l’autonomia del pubblico ministero in udienza. Una norma importante quando i processi sono di grande rilevanza, come quello nigeriano che discende da accordi Ocse, e di grande buonsenso in verità: si pensi a cosa potrebbe succedere se ogni pm potesse intervenire nei procedimenti dei colleghi interferendo sulla loro linea processuale e sulle prove riversate nel fascicolo del tribunale. Sarebbe il caos ovviamente. Ma perché Storari si è spinto fino al punto di voler intervenire con quella mail il 15 febbraio «senza un’anticipazione verbale, senza una richiesta di confronto» in un procedimento di cui, peraltro, non conosceva nulla come ha sottolineato il magistrato milanese al collega bresciano che lo interrogava? La risposta di De Pasquale è molto dura sul punto: «Ha fatto la difesa dell’Eni, ha fatto una cosa utile alla difesa, punto e basta». Anche sui 50mila euro di Armanna, che avrebbero dovuto pagare i testimoni e le prove a supporto della sua tesi, De Pasquale ha risposto in modo preciso. «Abbiamo detto 100 volte durante la requisitoria che Armanna non era credibile», chiedendo per lui una pena di 6 anni e 8 mesi durante le conclusioni, e lo stesso Prete ha riportato le parole di Storari, dicendo che il pm accusatore «non ha per onestà mai detto che i 50mila dollari fossero per corrompere un testimone», ma che la promessa di pagamento era un «fatto» di cui il tribunale andava messo al corrente. Una marcia indietro rispetto alle prime accuse, come ha fatto notare a Prete anche lo stesso De Pasquale. Il quale ha anche ribadito la sua posizione su un altro elemento considerato forte nel processo nigeriano: il famoso video girato da Amara ad Armanna nel quale quest’ultimo minacciava di far scendere «una montagna di merda» sui vertici dell’Eni se non lo avessero accontentato. Le difese degli imputati avevano contestato ai due pm che quel video non era stato depositato dall’accusa a inizio procedimento, sottraendolo al giudizio del giudice. Ma sia Eni sia il collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada erano al corrente della sua esistenza. L’elenco delle pesanti inquietudini intorno all’inchiesta nata dalle accuse di Storari tocca anche la pm Laura Pedio, attualmente indagata mentre la sua inchiesta sul complotto e depistaggio ai danni dei colleghi che investigavano su Eni e Saipem è ancora aperta. «Rispetto a una notizia di reato così fluida (le rivelazioni di Amara su Ungheria, ndr), quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane, noi prendevamo i tabulati di tutte le istituzioni italiane, andavamo dal Papa in giù? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico» ha detto ai magistrati bresciani. 

Frank Cimini per giustiziami.it il 22 ottobre 2021. A poco meno di un mese dalla pensione il procuratore Francesco Greco si occupa personalmente dell’interrogatorio dell’avvocato Piero Amara, ex legale dell’Eni nonostante la gestione relativa sui verbali delle precedenti deposizioni sia costata al magistrato l’indagine per omissione in atti d’ufficio. La procura di Brescia ha chiesto l’archiviaziobe e si è in attesa della decisione del gip. Ma il problema riguardo alle scelte di Greco non è prettamente penale. Anzi. Ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurre il procuratore a fare a meno di procedere lui al nuovo interrogatorio chiesto da Amara. C’è un evidente conflitto di interessi dal momento che Greco è il suo aggiunto Laura Pedio sono finiti nei guai proprio perché non aver proceduto alle iscrizioni sul registro degli indagati delle persone accusate da Amara di far parte dell’ormai famosa loggia Ungheria. E come se non bastasse l’aggiunto Pedio ha interrogato Vincenzo Armanna il sodale di Amara. Sia Armanda sia Amara erano stati tirati in ballo dal pm Paolo Storari come “calunniatori” ma i vertici della procura facevano finta di niente perché entrambi erano testimoni di accusa al processo Eni/Nigeria poi finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il quadro che emerge è quello di una procura allo sbando dove i pm si accusano tra loro a verbale davanti ai colleghi di Brescia e dove il capo dell’ufficio si comporta come se non fosse accaduto nulla. Il tutto in attesa che il Csm decida il nome del successore di Francesco Greco. Ma il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati si occuperà prima della procura di Roma dove dovrà scegliere il successore di Michele Prestipino attualmente in carica la nomina del quale è stata bocciata dal TAR e dal Consiglio di Stato. I tempi insomma per il caso Milano non si annunciano brevissimi. Nel frattempo la procura del capoluogo lombardo vedrà coincidere il trentesimo anniversario di Mani pulite con il periodo più buio della sua storia. Forse è l’ennesima occasione per avviare una riflessione seria per capire che quella del 1992 1993 non fu vera gloria. 

La faida tra magistrati per la procura di Milano. Già in moto i "cecchini". Luca Fazzo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Greco in pensione a novembre: silurato Amato, tra i papabili alla sua successione. I l copione si ripete immutabile, da anni. Ogni volta che all'interno della magistratura iniziano le manovre per la assegnazione di una poltrona importante, una carica in grado di controllare processi e inchieste, arriva quello che Luca Palamara nel suo libro chiama «il Cecchino». Contro uno dei candidati, mani misteriose fanno inevitabilmente partire scoop e voci. Il risultato viene quasi sempre raggiunto: il candidato viene azzoppato, la strada viene aperta ad altri nomi. È quanto sta accadendo anche nella partita per una delle nomine più importanti della magistratura italiana: la nomina del Procuratore di Milano, il successore di Francesco Greco, l'attuale capo che andrà in pensione il prossimo 13 novembre. E a venire preso di mira è uno dei più autorevoli candidati alla carica: Giuseppe «Jimmy» Amato, attuale capo della Procura di Bologna. Un magistrato esperto ed equilibrato, uscito immacolato anche dalle chat di Palamara (nonostante appartenesse alla sua stessa corrente, Unicost). E ora alle prese con noie disciplinari quanto mai tempestive. I problemi nascono dalle carte inviate al Consiglio superiore della magistratura dalla Procura di Trento, guidata da Sandro Raimondi. Raimondi dirige una indagine delicata sul lato oscuro della Cantina di Mezzocorona, uno dei colossi del vino trentino, protagonista dell'acquisto di alcuni terreni in Sicilia riconducibili ad ambienti mafiosi: tra cui il famoso «Feudo Arancio», che avrebbe portato al superlatitante Matteo Messina Denaro. La Procura di Trento sequestra i terreni, il presidente della Mezzocorona Luca Rigotti fa ricorso al Riesame e vince. Rigotti è amico del presidente del tribunale, Guglielo Avolio, che si astiene dall'udienza. Ma l'autista di Rigotti viene intercettato mentre parla con un avvocato: salta fuori che Avolio «ci ha confezionato un collegio sicuro». La Procura di Trento trasmette le intercettazioni al Csm. E il presidente Avolio viene rimosso dall'incarico. Ma nelle intercettazioni partite per Roma c'è anche dell'altro. Sono conversazioni dove appare anche Jimmy Amato, che conosce bene l'ambiente trentino perché sotto la Paganella ha lavorato per anni. Amato pare che venga intercettato mentre parla con Rigotti: è una conversazione che la Procura di Trento considera neutra, irrilevante, e che trasmette a Roma solo per completezza. Ma qui qualcuno la nota, e decide di usarla contro Amato. E parte il tam tam. La corsa per la Procura milanese ufficialmente è ferma ai blocchi di partenza. Prima di metterla all'ordine del giorno, il Csm deve risolvere un'altra faccenda spinosa, la nomina del procuratore di Roma, dopo che la scelta dell'attuale capo Michele Prestipino è stata annullata dal Tar. Il fascicolo su Roma a quanto pare non verrà chiuso prima della fine di novembre, e solo a quel punto inizierà la discussione sul nuovo capo di Milano: scelta delicata, perché si tratta di portare la Procura ambrosiana fuori dalla palude di veleni in cui è affondata negli ultimi mesi. Infatti dietro le quinte le grandi manovre sono già iniziate intorno alle nove candidature arrivate al Csm. Tre appaiono in pole position: quelle di Amato, del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Ma Viola è destinato verosimilmente a Roma, e Romanelli rischia di essere penalizzato dall'avere compiuto a Milano quasi tutta la sua carriera: una volta sarebbe stato un vantaggio, con l'aria che tira è divenuto un handicap. Così la candidatura di Amato sembrava presentarsi come la scelta più naturale. Fino a quando è arrivato il Cecchino.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Sandro De Riccardis e Luca De Vito per “la Repubblica” il 21 ottobre 2021. Una procura devastata dalla gestione dei procedimenti Eni Nigeria, "falso complotto Eni" e loggia Ungheria. Con il pm Paolo Storari che accusa i colleghi - il capo della procura Francesco Greco e gli aggiunti Fabio De Pasquale e Laura Pedio - di non aver voluto prendere atto dell'inattendibilità del principale testimone (e imputato) del processo contro Eni, l'ex manager Vincenzo Armanna. E di non aver voluto indagare sui presunti iscritti alla loggia svelati dall'avvocato Piero Amara. «Mi sono fatto un'idea che almeno con riferimento al processo del falso complotto, i nostri Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori», scrive in una mail ai colleghi Storari. «Calunniatori delinquenti». E di De Pasquale, in un interrogatorio a Brescia, dice: «È la visione del tunnel che lo ha preso, cioè lui poteva avere la prova che Armanna non.. lui andava dritto.. io l'ho studiata questa visione del tunnel.. uno entra in una spirale che tu puoi fargli vedere quello che vuoi.. ma lui sara sempre negativo. De Pasquale ha la visione del tunnel». Il procuratore aggiunto De Pasquale (indagato per rifiuto di atti d'ufficio con Spadaro), a sua volta, davanti ai pm bresciani non risparmia critiche al collega. «Lui (Storari, ndr ) ha fatto la difesa dell'Eni... ha fatto una cosa che tornava utile alla difesa, punto e basta... in una maniera molto impropria (). Storari non è la misura del diritto, cioè lui non è il codice di procedura penale, non è che uno deve fare quello che dice Storari..». E sull'attendibilità di Armanna, il pm Spadaro nel suo interrogatorio rivendica come avessero già fatto la tara ad Armanna: «il suo ruolo per il processo è stato fortemente esaltato dai media, dalla vulgata che ne è venuta fuori.. ma nella realtà è stato limitato.. ridimensionato da quello che è successo nel dibattimento». «Indagine due anni nel cassetto» Davanti al procuratore di Brescia Francesco Prete e al pm Donato Greco, Storari (indagato per rivelazione di atti d'ufficio) ricorda l'interrogatorio del socio di Amara, Giuseppe Calafiore, che aveva confermato l'esistenza della loggia. «Amara e Calafiore.. e a tre mesi dalle dichiarazioni, noi non si iscrive nessuno e non si fa nessuna attività investigativa, nonostante almeno due si autoaccusano. Io dico: vogliamo iscriverli per la legge Anselmi? Oppure per calunnia. Ma qualcosa dobbiamo iniziare a fare ». In un altro passaggio Storari ricorda: «De Pasquale mi disse: "questo fascicolo dobbiamo tenerlo nel cassetto per due anni"». Ieri la procura di Perugia ha indagato i primi cinque soggetti nell'inchiesta sulla "Ungheria", tra cui Luigi Bisignani e Denis Verdini. Le chat con il procuratore Storari racconta dell'appunto che manda all'aggiunto Laura Pedio (indagata per omissione di atti d'ufficio). «Direi che a stretto giro protremmo iniziare a iscrivere e fare tabulati ». le scrive. Storari prepara una scheda di iscrizione funzionale ai tabulati di Amara. «Ho letto il tuo provvedimento e se non ho capito male hai disposto iscrizioni senza concordarla con il pm codelegato - gli scrive in chat Greco - . Francamente lo trovo sconcertante, non lo avevo mai visto prima». La guerra dei depositi Sullo sfondo della vicenda Amara, c'è il processo Eni Nigeria. Elementi sulla scarsa credibilità di Armanna, arrivano ai titolari dell'inchiesta, Spadaro e De Pasquale, da Storari che sul complotto con Pedio. Dice De Pasquale, rispondendo alle domande dei pm bresciani: «Eravamo al 19 (febbraio, ndr ), mi metti in mano una polpetta avvelenata, una trappola.. abbiamo detto: cosa significa questa cosa scritta così?».  Il riferimento è alla mail arrivata a ridosso della prevista sentenza (che vedrà assolti i vertici di Eni): «questa iniziativa era fortemente sospetta.. una trappola». I pm bresciani chiedono perché quegli elementi non siano stati messi a disposizione del tribunale e delle difese. «C'è una norma del codice che dice che il pubblico ministero si assume la responsabilità di quello che fa nel processo.. - dice De Pasquale - . Mi sarebbe sembrato un modo di ridicolizzare la pubblica accusa, e fare degli accertamenti su qualcosa che il tribunale aveva giudicato irrilevante. E perché questi accertamenti li stava già facendo Storari».

Storari e il caso Amara: "De Pasquale mi fermò". Luca Fazzo il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il Pm rivela le pressioni subite per il fascicolo sulla loggia Ungheria: "Resti 2 anni nel cassetto". Che nella Procura di Milano stessero volando gli stracci, conclusione ingloriosa di una stagione durata trent'anni, era chiaro. Ma nessuno poteva immaginare che lo scontro fratricida avesse raggiunto asprezze come quelle che emergono dai verbali di interrogatorio dei protagonisti dello scontro: il procuratore Francesco Greco, i suoi «vice» Fabio De Pasquale e Laura Pedio, il pm Paolo Storari. Tutti incriminati per un motivo o per l'altro dalla Procura di Brescia (ma per Greco è imminente l'archiviazione) e tutti interrogati nelle settimane scorse. Alla fine tutto verte sullo stesso tema, la gestione da parte di De Pasquale del processo all'Eni e i suoi tentativi di salvare la faccia dell'avvocato Pietro Amara, da lui utilizzato come superteste. E che invece con le sue rivelazioni a Storari sulla presunta loggia Ungheria appariva sempre più come un avvelenatore di pozzi, un calunniatore di mestiere al servizio di manovre e interessi oscuri. Non c'era solo, si scopre ora, da salvare il processo Eni. Storari rivela (e Greco in parte lo conferma) come il guaio fosse che Amara chiamava in causa come membro della loggia il generale Giuseppe Zafarana, comandante della Guardia di finanza. Storari racconta così un colloquio con Greco: «Gli dico: Francesco, ma tu a ste robe che dice Amara ci credi? Sì, Paolo, io ci credo, però lì dentro si parla di Zafarana, e io adesso Zafarana non lo voglio toccare... non voglio rompere le balle perché mi serve per sistemare il colonnello Giordano che deve andare al Nucleo di Polizia Valutaria di Roma». Si tratta di Vito Giordano, oggi generale, l'investigatore di fiducia della Procura di Milano. Greco invece la racconta così: «Il mio problema era: a chi facciamo fare le indagini? Avevo un problema di esposizione degli uomini. Perché non volevo esporre gli uomini del Nucleo GdF di Milano a un problema non marginale, se dire o no qualcosa a Zafarana, che se poi non lo dicono vengono sparpagliati tra Pantelleria e Lampedusa». Qualunque sia il vero motivo, il risultato è che l'indagine invocata da Storari non parte: né su Amara né su Zafarana e gli altri presunti «ungheresi». L'indagine non parte perchè non doveva partire. Storari dice di averlo appreso esplicitamente dal procuratore aggiunto De Pasquale: che non si fidava di lui, «ero da tenere alla larga, diceva che gli rovinavo il processo Eni». «A dicembre 2019 ho un interlocuzione con il dottor De Pasquale, Amara sta parlando di Ungheria da un paio di settimane e De Pasquale mi dice: questo fascicolo deve rimanere per due anni nel cassetto». «Mi ero sentito dire di infrattare il fascicolo», sintetizza Storari. Un ordine di una gravità inaudita, al quale Storari racconta di avere reagito chiedendo aiuto a Piercamillo Davigo. Ma, interrogato, anche lui a Brescia, De Pasquale nega tutto. E ribalta su Storari l'accusa di essersi schierato di fatto dalla parte dei vertici Eni sotto accusa (ma poi assolti) per corruzione internazionale: «Storari ha fatto la difesa dell'Eni. Una cosa che tornava utile alla difesa, in una maniera molto impropria». Come e quando si possa uscire da questa palude di accuse reciproche è impossibile prevederlo. Nel frattempo, per capire il clima che i verbali di Amara avevano creato in una Procura già allora disorientata e divisa, la deposizione più chiara è quella del procuratore aggiunto Laura Pedio. É l'unica, dei magistrati milanesi inquisiti, di cui la Procura di Brescia non abbia ancora deciso la sorte. Interrogata sulla sua gestione dei verbali sulla loggia, la Pedio dice: «Rispetto a una notizia di reato cosi' fluida, quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane, noi prendevamo i tabulati di tutte le istituzioni italiane, andavamo dal Papa in giù? Tutti i tabulati? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico». Ci sta. Ma c'era un'altra strada: incriminare Amara e i suoi compari per calunnia. Ma così si sarebbe rovinato il processo Eni...

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'obiettivo? Tutelare Amara da possibili accuse di calunnia. Loggia Ungheria, la rivelazione di Storari: “De Pasquale decise di insabbiare l’indagine”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. «Questo fascicolo dobbiamo tenerlo chiuso nel cassetto per due anni». A dirlo sarebbe stato il procuratore di Milano Fabio De Pasquale rivolgendosi al pm Paolo Storari che voleva fare indagini sulla loggia Ungheria. La circostanza, incredibile in Paese dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale, è stata raccontata nelle scorse settimane dallo stesso Storari ai pm di Brescia che hanno indagato De Pasquale ed il suo vice Sergio Spadaro per omissione d’atti d’ufficio. Le parole di Storari, in attesa di riscontri, aprono scenari inquietanti sulla gestione dei fascicoli da parte della Procura di Milano. Piero Amara, interrogato alla fine di dicembre del 2019 da Storari e dalla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, aveva rivelato, come più volte ricordato, l’esistenza di questo sodalizio paramassonico finalizzato alle nomine dei magistrati e a condizionare i processi. Amara aveva elencato oltre quaranta nomi fra alti magistrati, generali, professionisti, avvocati, che avrebbero fatto parte di questa loggia super segreta. Storari, tra i più stretti collaboratori di Ilda Boccassini all’antimafia, come riferito ai colleghi bresciani, conclusi gli interrogatori di Amara, aveva chiesto ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. La risposta sarebbe stata un rifiuto. Il motivo? Lo spiega sempre Storari secondo il quale ci sarebbe stata all’epoca una precisa linea da parte dei vertici della Procura di Milano che prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, perché quest’ultimo sarebbe tornato utile come teste. Allo stesso modo, sempre secondo Storari, tutte le prove raccolte sull’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, nel fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni” non vennero prese in considerazione da Greco, De Pasquale, Pedio e Spadaro, senza essere depositate nel processo. Anche in questo caso perchè Armanna, “grande accusatore”, non poteva essere “screditato”. Una parte della lunga testimonianza di Amara, però, era stata utilizzata da De Pasquale contro il presidente del collegio che stava giudicando in quel momento i vertici dell’Eni, innescando così un procedimento penale a Brescia proprio alla vigilia della sentenza del processo per corruzione internazionale da parte del colosso petrolifero. Amara, in particolare, aveva affermato che l’avvocato Paola Severino avrebbe avuto “accesso”, unitamente all’avvocato Nerio Diodà, al giudice Marco Tremolada, presidente del collegio. Accesso “tale da assicurare l’assoluzione” degli imputati Paolo Scaroni e Claudio De Scalzi, ad di Eni. La circostanza era stata riferita da Amara non per conoscenza diretta, ma per averla appresa dall’avvocato dell’Eni Michele Bianco e dall’ex collega di studio Alessandra Geraci. I due, però, interrogati al riguardo avevano smentito totalmente l’avvocato siciliano. Storari era poi finito sotto il tiro del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi secondo il quale il suo comportamento avrebbe gettato “discredito” su Greco e sulla vice Pedio, «non messi anticipatamente al corrente di un effettivo e formalizzato dissenso sulla conduzione dell’indagini», poi oggetto di una «una sotterranea campagna di discredito oggettivamente posta in essere da Storari, per giunta all’interno del Csm». Il pm milanese, dopo aver interrogato Amara e vista l’inerzia dei propri capi ad approfondire, aveva consegnato i verbali all’allora componente del Csm Piercamillo Davigo. Storari aveva sempre respinto l’accusa di non aver «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine», affermando di avere più volte fatto solleciti “a voce” a Pedio, Greco e De Pasquale. Il Csm gli aveva creduto. In attesa che si chiarisca questa intricata vicenda, può De Pasquale rimanere comunque a capo del “dipartimento reati economici transazionali” della Procura di Milano? E Spadaro può continuare a svolgere il ruolo di procuratore europeo delegato per i crimini contro la Ue? Un provvedimento del Consiglio superiore della magistratura, dopo aver creduto alla ricostruzione di Storari, sarebbe quanto mai opportuno. E a proposito di Csm, è saltato ieri l’incontro sulla riforma dell’organo di autogoverno delle toghe fra la Guardasigilli Marta Cartabia e i capigruppo della maggioranza in Commissione giustizia alla Camera. Paolo Comi

Procura Milano, i veleni tra pm. De Pasquale accusa: “Una trappola da Storari”. Sandro De Riccardis,  Luca De Vito La Repubblica il 21 ottobre 2021. Negli atti dell’inchiesta la replica ai rilievi del collega secondo cui il procuratore aggiunto dava ascolto a un teste screditato ed era “finito in un tunnel”. Una procura devastata dalla gestione dei procedimenti Eni Nigeria, "falso complotto Eni" e loggia Ungheria. Con il pm Paolo Storari che accusa i colleghi - il capo della procura Francesco Greco e gli aggiunti Fabio De Pasquale e Laura Pedio - di non aver voluto prendere atto dell'inattendibilità del principale testimone (e imputato) del processo contro Eni, l'ex manager Vincenzo Armanna.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Scrive il pm Paolo Storari il 4 febbraio ai suoi vertici Francesco Greco e Laura Pedio: «Vi allego una breve ulteriore memoria da dove emerge che Vincenzo Armanna» (coimputato-accusatore di Eni) «ha pagato 50 mila dollari a due testi del processo Eni-Nigeria. Vi avevo già scritto il 18 gennaio e il 23 gennaio sollecitando di comunicare a De Pasquale (altro vice di Greco e pm di Eni-Nigeria, ndr ), alle difese e al Tribunale questi fatti molto gravi, non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque sia, si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi. E tralascio eventuali profili non solo disciplinari. La stessa tempestività e solerzia avuta nel trasmettere i verbali di Amara e Armanna a De Pasquale, nonché nel trasmettere alla Procura di Brescia le dichiarazioni su Tremolada (giudice di Eni-Nigeria, ndr ), dovremmo averla anche quando le indagini portano elementi che smentiscono. Rimango in attesa». La mai arrivatagli risposta arriva, indiretta, ora che Greco ribatte al pm bresciano Francesco Prete: «Sono sicuro che, se andiamo a rastrellare il fondo del barile, troviamo tante cose da depositare in Tribunale, altrettante se rastrello per i corridoi della Procura... Il problema è che Storari aveva mandato 100 pagine illeggibili, non faceva capire cosa si doveva depositare...»: e peraltro per De Pasquale e Pedio non era processualmente spendibile il non ancora concluso esame del telefonino di Armanna, «da 3.000 le mail sono diventate 16.000». Prete riassume allora a Greco il punto: Storari chiedeva di avvisare il Tribunale che Armanna, nel produrre al Tribunale alcune sue chat con il mitologico 007 nigeriano Victor che avrebbe dovuto confermarne le accuse a Eni, le aveva però amputate della parte in cui discuteva col teste di 50.000 euro. Una notizia da dire, a prescindere che Armanna coi soldi volesse procurarsi un certo file (come interpretava De Pasquale nel motivare a Greco il no al deposito) o comprare il teste (come sospettava Storari). «Non voglio entrare su questa storia qua perché francamente non sono neanche in grado di farlo... - ripiega qui Greco su De Pasquale -. Dico solo che le mail di Storari non permettevano il deposito di alcunché. Punto. Poi... francamente ognuno si assume le proprie responsabilità, Spadaro e De Pasquale hanno detto la loro posizione, uno la potrà giudicare o meno. Trovo singolare che un pm (Storari, ndr ) si dedichi a fare una controindagine su un processo in corso e sulla discrezionalità di un altro pm in udienza. Il pm in udienza è autonomo, neanche il procuratore può imporre nulla. Perciò la risposta di De Pasquale non l'ho girata a Storari ma l'ho tenuta io e messa a protocollo riservato». Altro tema posto da Storari era che le chat mostrate nel 2019 da Armanna al Fatto Quotidiano per accreditare messaggi da Descalzi e Granata volti nel 2013 a comprarne la ritrattazione processuale, erano false già solo perché i loro apparenti numeri telefonici erano in quel 2013 utenze inattive in pancia a Vodafone. Ma ora Greco controdomanda ai pm di Brescia: «No, chi l'ha detto che le chat sono false?». Vodafone - rileva Prete - comunica che nel 2013 i numeri non esistevano. Greco: «Ma perché, tu ti fidi?». Perché no? «Che ne so io...». Obiezione che anche Storari ricorda fattagli da Greco e Pedio nel 2020: «Dicevano: "Ma sai, ci sono i servizi segreti... potrebbero aver utilizzato queste utenze nonostante fossero in pancia di Vodafone". Di fronte a risposte così, ma che gli vuoi dire? Perché a quel punto vale tutto...». Pedio, invece, insiste tutt' oggi. Premette «che certo non competeva a me, Laura Pedio, stabilire se quel materiale provvisorio doveva... se era utile per il processo Eni-Nigeria o no», e si dice scandalizzata dal ritrovarsi indagata per omissione: «Mi state dicendo allora che, se non fai una misura cautelare che il tuo collega vuole, commetti un reato? Io quella bozza di richiesta di Storari (arrestare Armanna e Amara per calunnia dei vertici Eni) non l'ho condivisa allora, e dico che ancora oggi non ci sono le condizioni. Io l'ho bocciata, e Storari si deve fare persuaso che quel che pensa lui non è sempre la verità scesa in terra... Forse nelle sue esperienze precedenti (l'Antimafia con Ilda Boccassini, ndr ) era stato abituato a dettare le regole».

Milano, trent’anni dopo Mani Pulite mezzo pool rischia di finire a processo: si salva solo Greco. Chiuse le indagini sulla consegna dei verbali a Davigo e sulle prove nascoste al processo Eni. L’ex consigliere del Csm e Storari indagati per rivelazione di atti d’ufficio. Per De Pasquale e Spadaro l’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio. Continuano le indagini su Pedio. Simona Musco su Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Mezzo pool di Mani pulite rischia il processo. A trent’anni dall’inchiesta che segnò la politica del Paese, questa volta a finire al centro della scena – da accusati e non da accusatori – sono proprio loro: i pm milanesi. Il tutto mentre si avvicina il giorno dell’addio alla procura meneghina di Francesco Greco, che invece è l’unico, al momento, a poter tirare un respiro di sollievo, grazie alla richiesta di archiviazione avanzata dal collega Francesco Prete, a capo della procura di Brescia, per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio. La stessa procura ha notificato giovedì l’avviso di conclusione delle indagini a carico di Piercamillo Davigo e Paolo Storari, accusati di rivelazioni di atti d’ufficio, nonché a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro (nel frattempo passato alla procura europea) per rifiuto d’atti d’ufficio. Vicende distinte, ma legate tra di loro da un filo sottile che porta il nome di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha fatto esplodere la procura di Milano e sulla cui credibilità ci sono ancora non pochi dubbi. La vicenda è l’ormai nota “consegna” dei verbali di Amara a Davigo: ad aprile 2020 Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegnò documenti senza firma e senza timbro al consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte dei vertici della procura nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Storari, dunque, non si affidò alle vie formali, le uniche, secondo il Csm, lecite. Ma per l’ex pm di Mani Pulite, tutto sarebbe avvenuto nel rispetto della legge: è stato lui, infatti, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura. «Storari preliminarmente mi chiese se poteva parlare con me – ha raccontato Davigo ai pm di Brescia -. Io gli dissi che c’erano specifiche circolari del Csm che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm e gli dissi che avrei potuto fare da tramite con il comitato di presidenza. In relazione a ciò, ho ricevuto da Storari copia di documenti in formato word, non firmati». Le due circolari, però, in nessun caso fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. E dello stesso avviso è il procuratore di Brescia, secondo cui la procedura descritta da quelle circolari del ’94 e ’95 non è applicabile al caso specifico. Storari, dunque, avrebbe dovuto «investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell’indagine» e agì, perciò, «al di fuori di ogni procedura formale, per lamentare presunti contrasti insorti con il procuratore della Repubblica ed il procuratore aggiunto co-assegnatario del procedimento – tenuti peraltro all’oscuro dell’iniziativa». Un atto compiuto con il fine di reagire a «un asserito ritardo nelle iscrizioni e nell’avvio delle indagini», ma fatto, secondo l’accusa, «in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari». Il pm avrebbe dunque violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» e abusato della «sua qualità» consegnando a Davigo «copia in formato word dei verbali degli interrogatori» resi il 6, 14, 15, 16 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020 e copia delle «trascrizioni di tre file audio di conversazioni tra presenti prodotti nel corso delle indagini «dall’indagato Giuseppe Calafiore», collaboratore di Amara, e anche questi relativi alla presunta «associazione segreta» loggia Ungheria. Davigo, dal canto suo, avrebbe «rafforzato il proposito criminoso di Storari» entrando «in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo» violando «i doveri inerenti alle proprie funzioni» e abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Piero Amara. L’ex pm di Mani Pulite, infatti, non si limitò a ricevere i verbali ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra. E Prete sembra avere un’idea precisa del perché: quella consegna avrebbe avuto come solo scopo quello «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara. A Marra Davigo avrebbe chiesto «di custodirli e di consegnarli al comitato di Presidenza, qualora glieli avesse richiesti». Ma di quanto riferito da Amara ai pm milanesi Davigo avrebbe raccontato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli. A vederli sarebbe stato anche il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione». Ad essere informato fu anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita. E proprio Ardita, dunque, sembra giocare un ruolo centrale nella vicenda, pur essendo già stata smentita la sua appartenenza alla presunta “loggia Ungheria”. Dopo il pensionamento di Davigo, infatti, i verbali sono stati spediti alla stampa, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che nel corso di un plenum ha reso pubblica la vicenda, denunciando il tentativo di screditare Ardita. Secondo la procura di Roma, a spedire quei verbali sarebbe stata Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo licenziata dal Csm pur senza attendere l’esito della vicenda giudiziaria. E secondo la procura di Brescia, Davigo avrebbe riferito il contenuto di quegli atti segreti anche ad un’altra delle sue collaboratrici, Giulia Befera. Se Greco è uscito pulito da questa storia – secondo i pm bresciani non spettava a lui procedere con le iscrizioni, richieste nel 2019 ed effettuate infine a maggio dell’anno scorso -, la posizione di Pedio rimane ancora in ballo. L’aggiunta è infatti indagata non solo per omissione d’atti d’ufficio, ma anche per la gestione dell’ex manager della compagnia petrolifera Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado) e presunto calunniatore, secondo quanto segnalato dallo stesso Storari a De Pasquale e Spadaro, che nonostante ciò lo avrebbero usato come teste chiave dell’accusa. E a chiudere il cerchio nella polveriera milanese ci sono proprio i due accusatori di Eni, indagati per rifiuto di atti d’ufficio. L’indagine si basa sulla gestione delle prove nel processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245, tangente mai provata in quanto mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», si legge nella sentenza di assoluzione. E tra le questioni scandagliate dalla procura di Brescia c’è quella del video favorevole agli imputati tenuto nascosto dalla procura. Il filmato era stato girato in maniera clandestina da Amara e testimonierebbe la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante». Ma per il tribunale si trattava di elementi fondamentali, al punto che per i giudici risulta «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati». Ma non solo: Storari aveva trasmesso ai pm del caso Opl 245 delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. «Ne prendiamo atto. È la chiusura di un primo capitolo che poi troverà eventualmente, ammesso che ci sia la richiesta di rinvio a giudizio, in una sede processuale la sua verifica», ha affermato Paolo Della Sala, difensore del pm Storari.  «Con tutto il fango buttato addosso al dottor Storari, in realtà poi il suo fatto resta circoscritto a questo episodio, che era noto, e che non ha buchi di ricostruzione. È un problema giuridico, delicato, che noi confidiamo di risolvere positivamente», ha concluso. «Commenteremo dopo aver letto attentamente gli atti», ha invece spiegato il legale Francesco Borasi, avvocato di  Davigo.

Loggia Ungheria, Davigo e De Pasquale verso il processo. Brescia ha chiuso le indagini. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. L’ex pm è indagato con il pm Storari per la diffusione dei verbali di Amara sulla «loggia Ungheria». Il procuratore aggiunto è sotto accusa con il pm Spadaro per rifiuto d’atti d’ufficio nell’ambito del caso Eni-Nigeria. L’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo e il pm milanese Paolo Storari vanno verso il processo per aver fatto circolare i verbali segreti di Piero Amara sulla «loggia Ungheria»; mentre il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro vanno verso il processo per aver tenuto gli imputati e il Tribunale del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese. È quanto si ricava dai quattro «avvisi di conclusione delle indagini e deposito degli atti» notificati ieri dalla Procura di Brescia a Davigo e Storari per l’ipotesi di «rivelazione di segreto», e a De Pasquale (uno dei vice del procuratore Francesco Greco) e Spadaro per l’ipotesi di «rifiuto d’atti d’ufficio». Notifiche che di solito preludono dopo 20 giorni alla richiesta di processo, salvo spiazzanti controdeduzioni difensive che qui però gli indagati hanno già proposto. Nessuna decisione invece allo stato sugli altri due indagati per omissione d’atti d’ufficio, Greco e il procuratore aggiunto Laura Pedio.

Loggia «Ungheria». La consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi a fine 2019 dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara sull’asserita associazione segreta «Ungheria» non può essere, per il procuratore Francesco Prete e il pm Donato Greco, scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con il procuratore Greco e la coassegnataria Pedio sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini. Tra le successive rivelazioni di segreto imputate a Davigo è interessante che Brescia indichi quelle non al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, ma quella al vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari di Salvi e Curzio compone il Comitato di Presidenza del Csm: Ermini ricevette da Davigo anche copia dei verbali, che — si scopre ora — si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili. Come rivelazioni di segreto sono poi contestate a Davigo quelle ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel M5S) Nicola Morra, in un colloquio privato, fuori (per i pm) da qualunque regola, e solo per motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita.

L’impatto sulla procura. Impatta invece sul lavoro della Procura di Milano l’accusa al braccio destro di Greco, il capo del pool affari internazionali De Pasquale: non aver depositato, nel processo sulle tangenti Eni in Nigeria sfociato poi in tutte assoluzioni, indizi trovati da Storari (e inoltratigli da Greco) sulla possibile calunniosità (ai danni di Eni, dell’a.d. Descalzi e del n.3 Granata) di Vincenzo Armanna, coimputato-accusatore di Eni, assai valorizzato da De Pasquale nel processo e da Pedio nell’indagine sui depistaggi Eni. Taciuti a difese e giudici, oltre al video dell’imprenditore Ezio Bigotti sulla matrice psicologica delle accuse di Armanna, per Brescia furono la falsità di alcune chat prodotte da Armanna; e il rapporto di soldi (50.000 dollari dati o promessi) tra Armanna e l’asserito superteste nigeriano da lui evocato a riscontro delle proprie accuse a Eni.

Verbali Amara al Csm, chiuse le indagini su Davigo e Storari. La procura di Brescia contesta a Davigo e Storari la rivelazione del segreto d'ufficio in merito ai verbali di Amara. Chiuse le indagini anche su De Pasquale. Il Dubbio l’8 ottobre 2021. La procura della Repubblica di Brescia ha chiuso le indagini sull’ex consigliere togato del Csm, Piercamillo Davigo, sui pm Paolo Storari e Sergio Spadaro e sul procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. gli ultimi tre in servizio presso la procura di Milano. Si tratta della doppia inchiesta sulla circolazione dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, e del processo sulla presunta tangente “Eni-Nigeria”, in cui sono stati assolti tutti gli imputati. I pm bresciani contestano a Davigo e Storari la rivelazione del segreto d’ufficio, mentre a Spadaro e De Pasquale il rifiuto d’atti d’ufficio. Ora, come prevede la procedura, gli indagati avranno la possibilità di farsi interrogare o presentare una memoria difensiva. Il rischio, tuttavia, è che tutti e quattro vadano a processo, qualora il gup, una volta ricevuta la richiesta dell’accusa, decidesse per il rinvio a giudizio.  Nello specifico, la procura di Bresccia ritiene che le condotte di Davigo e Storari non possano giustificarsi in alcun modo rispetto alla vicenda della presunta loggia “Ungheria“, la cui indagine stentava a decollare, secondo Storari, per alcuni contrasti interni all’ufficio inquirente meneghino. Inoltre, la pubblica accusa, in riferimento alla rivelazione del segreto d’ufficio, indica quali destinatari di tale comportamento illecito non il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, e il presidente della Cassazione, Pietro Curzio, ma il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, che insieme agli altri due, compone il comitato di Presidenza di Palazzo dei Marescialli. Per la procura di Brescia, Davigo avrebbe rivelato i contenuti delle dichiarazioni di Amara ai consiglieri del Csm, Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, ma anche al senatore, ex M5S, Nicola Morra, nonché alle due collaboratrici Marcella Contraffatto e Giulia Befera. Per quanto riguarda la storia del processo “Eni-Nigeria“, la procura di Brescia contesta a De Pasquale di non aver depositato gli indizi rinvenuti dal pm Storari le presunte dichiarazioni calunniose da parte dell’accusatore di Eni, Vincenzo Armanna.

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per "la Stampa" il 30 settembre 2021. Un «lunghissimo e necessario» vertice tra Raffaele Cantone e Francesco Greco, procuratori della Repubblica di Perugia e Milano, non è routine. Tanto più se il menu, pausa pranzo inclusa, prevede una sola portata: l'avvocato Piero Amara. Da una parte ci sono almeno sei fascicoli aperti a Milano per indagare sulle sue presunte calunnie e diffamazioni. Dall'altra l'inchiesta-madre sulla fantomatica loggia Ungheria, nata a Milano (dove ha fatto strage di magistrati a loro volta indagati) e finita per competenza a Perugia dieci mesi fa. In mezzo anche il fascicolo sul presunto complotto Eni aperto oramai più di quattro anni fa, in cui sono stati raccolti i verbali dello stesso Amara. Anni di indagini di almeno cinque Procure (e non tra le più sprovvedute), non sono riuscite a risolvere l'enigma della credibilità di Amara. L'incontro di ieri individua un metodo comune fondato su scambio di informazioni, coordinamento investigativo a 360 gradi, tentativo di tirare un filo per volta dalla matassa di dichiarazioni di Amara. Una certezza sull'esistenza della loggia Ungheria, sulle sue caratteristiche e sull'eventuale illiceità ancora non c'è. Posto che in ipotesi sarebbe possibile dimostrarne l'esistenza ma non l'inesistenza, per ora riscontri organici in senso positivo non ci sono. Al contrario delle «polpette avvelenate». Tanto che Cantone non ha iscritto come indagato nessuno dei circa 70 personaggi citati da Amara. E non ha creduto all'ex pm Maurizio Musco, amico di Amara a Siracusa, che in un lungo esposto aveva raccontato di essere stato egli stesso invitato nel 2011 a entrare nell'associazione segreta Ungheria dall'alto magistrato Tinebra, nel frattempo morto. Ciò non toglie che Amara, al di là di quello che nella Procura perugina viene considerata «una prevalutazione negativa» suffragata dalla sua «eccezionale capacità di manipolazione», possa raccontare anche cose vere. Da utilizzare solo se adeguatamente riscontrate. Come accaduto a Roma (corruzione al Consiglio di Stato, rivelando anche episodi inediti), a Perugia (processo Palamara) e in ultimo a Potenza. Dove le sue dichiarazioni hanno portato all'arresto di Enrico Laghi, «imperatore» delle grandi aziende pubbliche, perché definite da Procura e giudice «lineari, spontanee e prive di intenti calunniatori». Dunque, che fare delle fluviali dichiarazioni di Amara su singoli episodi di corruzione (anche giudiziaria), abusi di ufficio, traffici di influenze illecite a carico di politici, magistrati, grand commis? Da quanto trapela in serata a conclusione del vertice investigativo, la scelta è di procedere subito per calunnia quando un episodio viene smentito dagli accertamenti. Come già accaduto con le accuse all'ex componente del Csm Marco Mancinetti (sodale di Palamara, prima di una clamorosa rottura), gli atti saranno trasmessi per valutare eventuali calunnie a Milano, competente in quanto sede in cui il reato sarebbe stato commesso, nei primi interrogatori. Analogo coordinamento è in corso anche tra Perugia e Firenze. Un modo per decrittare, tra l'altro, il tour dichiarativo di Amara nelle Procure di mezza Italia. Da quando i verbali degli interrogatori di Amara, resi a Milano tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, sono stati pubblicati sui giornali, le querele nei suoi confronti si sono moltiplicate. Tutte daranno vita a nuovi e scivolosi fascicoli d'inchiesta. I primi sei sono già sulla scrivania del procuratore aggiunto del pool anticorruzione milanese Maurizio Romanelli, ieri con Greco a Perugia. Con i nuovi trasmessi da Perugia, si arriva una decina. Alcuni vedono già Amara iscritto nel registro degli indagati. «Amara non ha mai smesso di collaborare con le Procure, che l'hanno sempre ritenuto credibile e valorizzato», obietta il suo avvocato Salvini Mondello, che ha depositato in Cassazione un ricorso per chiederne la scarcerazione.

Emiliano Fittipaldi per "Domani" il 29 settembre 2021. L'inchiesta sulla fantomatica loggia Ungheria si aggiorna con un altro capitolo inedito. Il capo della procura di Perugia Raffaele Cantone, insieme ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano che stanno passando al setaccio le dichiarazioni dell'ex avvocato dell'Eni Piero Amara, hanno indagato in gran segreto per mesi sul ruolo che avrebbero avuto l'ex ministro della Giustizia Paola Severino e Michele Vietti, per anni vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, in merito alla "caduta" di un pm della procura di Siracusa, Maurizio Musco. Quest'ultimo è un magistrato finito dalle stelle alle stalle una decina di anni fa, quando da inquirente di punta dell'ufficio della città siciliana specializzato in delitti ambientali, si è ritrovato accusato di avere rapporti opachi con l'avvocato Amara: trasferito d'ufficio a Palermo da Severino, poi condannato per abuso d'ufficio in via definitiva e infine rimosso, nel giugno del 2019, dalla magistratura con sentenza della sezione disciplinare del Csm. Musco è stato tirato in ballo da Amara in alcune dichiarazioni rese alla procura di Milano: nel racconto dell'avvocato, come "soldato" semplice della loggia Ungheria avrebbe tentato di salvare il compagno facendo pressione su altri appartenenti. Tra cui Michele Vietti, considerato da Amara uno dei capi del gruppo massonico, che avrebbe dovuto intercedere per bloccare le istanze di Severino, anche lei inserita da Amara tra i "confratelli". Un tentativo non riuscito, perché, dice Amara, Musco aveva aperto un'inchiesta su una società denominata Oikhoten, che avrebbe dovuto costruire una discarica, «riconducibile alla famiglia Marcegaglia». Il duo Severino-Marcegaglia si sarebbe così mosso prima per farlo trasferire, e poi «per fare in modo che il Csm si pronunciasse contro Musco. Questo mise in estrema difficoltà Vietti nei miei confronti. Io in quel contesto – dice a verbale Amara – siccome Marcegaglia era diventata presidente dell'Eni e Severino aveva un ruolo importante in quanto molto legata a Marcegaglia, pensando al mio interesse decisi di abbandonare la mia amicizia con il dottor Musco». Quello che nessuno sapeva è che Musco, quando ha letto sui giornali le dichiarazioni di Amara, ha preso carta e penna e scritto un lungo esposto-denuncia alla procura di Perugia e di Roma, denunciando un presunto complotto ai suoi danni che lo ha trasformato in una vittima «di una strategia finalizzata ad allontanarlo dalla procura». Il pm elenca una serie di «anomalie» da parte del magistrato Emilia Fargnoli, estensore della richiesta di trasferimento, e di Severino: dal fatto che «era stata contestata per la prima volta la violazione dell'obbligo di astensione al magistrato per il solo fatto di avere rapporti con il difensore delle parti (Amara, ndr)», alla circostanza che lo stesso «capo degli ispettori non proponeva la richiesta di trasferimento cautelare», poi proposto dalla Fargnoli d'urgenza. Fatto più grave, dice Musco, è che «il ministro Severino formulava richiesta di trasferimento dichiarando contrariamente al vero che in quel momento esistessero cointeressenze economiche tra me e l'avvocato Amara». L'ex pm, di fatto, ipotizza che la loggia deviata possa averlo preso dunque di mira, e stritolato per il suo lavoro che metteva il bastone tra le ruote degli affari di Emma Marcegaglia. I pm di Perugia hanno così iscritto d'ufficio nel registro degli indagati Severino, Vietti e la Fargnoli con l'ipotesi di concorso in abuso d'ufficio, ma dopo aver investigato per quasi due mesi sulle accuse di Musco hanno deciso di chiedere l'archiviazione per tutti gli indagati, mandando gli atti al tribunale secondo loro competente, cioè quello per i reati ministeriali di Perugia visto che la Severino, al tempo delle contestazioni dell'ex magistrato, era ministro del governo Monti. Il documento firmato da Cantone e i suoi uomini entra però anche nel merito, e smonta pezzo per pezzo le ipotesi accusatorie di Amara e di Musco. I pm chiariscono in primis che la procedura disciplinare contro Musco è durata ben otto anni, con tre diversi consigli del Csm intervenuti sul caso, «con relatori che non risultano avere alcun rapporto con la professoressa Severino», aggiungendo che «l'onorevole Vietti non ha più alcuna carica dal 2014. Tre volte poi è intervenuta la Cassazione dal 2016 al 2020, in composizioni diverse e partecipate da giudici diversi: come avrebbe potuto il ministro Severino o i suoi asseriti sodali riuscire a influenzare le decisioni di tanti giudici?», si chiede Cantone. Musco, nell'esposto, critica con durezza anche un magistrato di Messina, Fabrizio Monaco, che – collegato a suo parere ad alcuni presunti faccendieri siracusani fautori di una campagna stampa su siti online locali – «avrebbe avviato un'azione penale strumentale» in suo danno. Musco spiega che Monaco non avrebbe fatto accertamenti decisivi in merito a una nota dei carabinieri di Siracusa che nel 2012 elencava una serie di contatti (avvenute prima dell'avvio dell'ispezione) tra uno degli artefici della campagna stampa contro di lui e un numero intestato proprio al Csm, ma mai identificato. I magistrati perugini ipotizzano che debba essere il tribunale dei ministri, lo ritenesse necessario, ad effettuare l'accertamento sui numeri telefonici, ma comunque segnalano come nei confronti di Severino e di Vietti «gli stessi atti forniti dal Musco militano nel senso dell'insussistenza del fatto». Cioè nessun abuso d'ufficio e nessun complotto di nessuna loggia. L'ispezione decisa dall'allora titolare della Giustizia, si legge, «appare non solo pienamente legittima ma persino doverosa», mentre i rapporti economici tra Musco e Amara vengono definiti «quantomeno discutibili». Inoltre «appare smentita per tabulas la prospettazione secondo cui è Severino che vuole allontanare Musco dal processo Oikhoten per fare un favore alla sua amica Marcegaglia». Anche perché la campagna per allontanare il pm da parte dei possibili congiurati sarebbe «irragionevolmente» iniziata quando ormai «il pm non poteva più occuparsi del processo e "la palla" era passata in Corte d'appello». L'indagine partita dall'esposto serve però alla procura di Perugia anche per rendere manifesti i primi dubbi espliciti sull'esistenza stessa della loggia Ungheria: nonostante le tante indagini svolte, l'appartenenza presunta di Vietti e Severino al gruppo prospettata da Amara ha portato infatti solo a riscontri negativi, tanto che «l'ufficio non ha ritenuto di procedere all'iscrizione» dei due «come adepti dall'Amara per violazione della legge Anselmi». Non solo: le dichiarazioni di Amara, che tentava di salvare l'amico dall'attacco di confratelli «riuscendo a suo dire a ottenere l'assoluzione del Musco da parte della sezione disciplinare... possono quantomeno far seriamente dubitare che quanto paventato dal dottor Musco sul ruolo di Ungheria sulla sua vicenda abbia fondamento. Anzi: possono persino far ritenere che quantomeno una parte dei suoi adepti sia scesa in campo non contro di lui ma piuttosto per salvare il sostituto di Siracusa dai rigori disciplinari e penali».

Loggia Ungheria, Alessandro Sallusti: "Non solo il Sistema smascherato da Palamara, esistono due livelli". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 18 settembre 2021. Il pozzo ormai è avvelenato e chiunque pensi di abbeverarsi non la farà franca. La storia della presunta "Loggia Ungheria", riedizione della famigerata P2, è sfuggita di mano e sta rotolando come la palla di neve che diventa valanga. C'è da chiedersi perché per almeno due anni la Procura di Milano ha tenuto nel cassetto la deposizione fiume del faccendiere Piero Amara che faceva, probabilmente a vanvera, nomi eccellenti di magistrati, alti ufficiali e imprenditori di primo piano (compreso Carlo De Benedetti). E c'è anche da chiedersi perché detti verbali, trafugati da quel cassetto, siano rimasti così a lungo in un altro posto sicuro, cioè la redazione del Fatto Quotidiano che solo ieri ha ritenuto di renderli noti. Le spiegazioni fornite dalla Procura di Milano e dal quotidiano in questione fanno acqua da tutte le parti, almeno agli occhi di chi ha un minimo di dimestichezza con questo tipo di faccende. L'ipotesi migliore è che ognuno tiene famiglia, e che è partita la faida tra famiglie rivali che si dividevano sia pure in precario equilibrio lo stesso territorio, quello della giustizia come arma di potere economico e politico. Se le stanno dando di santa ragione e ognuno mette in campo i suoi uomini del giornalismo e della politica. Probabilmente a rompere l'equilibrio - i tempi coincidono - è stato il caso Palamara, regista diventato improvvisamente incontrollabile e quindi scomodo al punto da dover essere eliminato. Ma la verità poi raccontata da Palamara nel suo libro-confessione è evidentemente soltanto una parte della storia. Il "sistema" occulto che ha controllato il paese negli ultimi vent'anni aveva più livelli, non so dire quanto comunicanti tra loro. Smascherarne uno, quello con a capo Palamara, ha messo in crisi l'altro, che magari non si chiama "Ungheria", magari non vede come attori principali quelli indicati da Amara (noto mestatore che mischia vero, verosimile e falso per depistare e consumare vendette) ma certamente da qualche parte esiste. Vogliamo lasciare ai magistrati, molti dei quali coinvolti in entrambi i livelli, il compito di cercarlo e accertare verità scomode? Per quel poco che ho capito non c'è da fidarsi.

Dopo la pubblicazione del dossier sulla Loggia Ungheria. Guerra tra bande in magistratura, Travaglio dopo la pubblicazione del dossier sulla Loggia Ungheria può lottare con noi contro il potere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Per quale ragione Il Fatto quotidiano abbia deciso di pubblicare il famoso dossier Loggia Ungheria (che possedeva da 11 mesi e aveva deciso di tenere segreto) io non lo so. Data l’evidente contraddizione fra la decisione di non pubblicarlo per ragioni etiche e la decisione di pubblicarlo per etiche ragioni (e dopo aver letto l’improbabile articolo di spiegazioni del povero Barbacetto, vittima designata nei momenti difficili), avevo pensato che la scelta fosse stata imposta da Piercamillo Davigo, che del Fatto quotidiano è uno stabile collaboratore (e credo consigliere) e che di tanto in tanto viene ampiamente intervistato, anche dal direttore Travaglio, con domande abbastanza amichevoli che raramente vanno oltre il “cioè”. Può darsi però che mi sbagli, e che Davigo, che quel dossier lo possiede da molto tempo e lo ha anche usato, forse, ma non reso pubblico, non c’entra niente con la decisione del Fatto di rovesciare la sua etica e di pubblicare il dossier. In ogni caso non mi pare che sia questa la questione centrale. La questione centrale è la seguente. Immagino che lo stesso Travaglio – che è un fondamentalista, senza dubbio, ma per molti versi è anche una persona onesta – si sia reso conto, leggendo il dossier, che dentro la magistratura è aperta una guerra civile senza esclusione di colpi e a geometria variabile. Non sempre si capisce bene quali siano le squadre, ma qualcosa ora si intravede. Leggendo gli articoli del Fatto si intuisce che esiste la squadra più forte, che si raggruppa attorno al pezzo più potente di Magistratura democratica. Poi c’è la squadra più debole, radunata in questa famigerata Loggia Ungheria (su posizioni moderate). Infine c’è un certo numero di battitori liberi (anche molto potenti) capaci di giocare su un lato o sull’altro a seconda delle occasioni. Fuori da questo schema esiste un gruppetto esiguo esiguo di magistrati indipendenti. Marco sicuramente si ricorda quella battuta – mica tanto scherzosa – su come negli anni 80 funzionava la lottizzazione in Rai: 3 democristiani, due socialisti, due laici, un comunista e poi uno che se ne intende. Beh, mi pare che in magistratura (specialmente tra i Pm) le cose stiano proprio così. Con una differenza: in Rai poi facevano lavorare quello che se ne intendeva, in magistratura capita raramente. Il problema è che questo gioco, e questa lotta tra le due squadre, producono due conseguenze. La prima è che il potere di controllo che riescono a esercitare sullo Stato è vastissimo. Perché a questo potere è sottomessa quasi tutta la politica e grandissima parte del potere economico. È in quella sede – in quelle Logge più o meno segrete, sicuramente illegali – che si decidono gran parte dei destini del paese nei campi decisivi dell’economia e della politica. Non è così, Marco? Non è questo che emerge dai verbali che stai pubblicando? E non ti pare che tutto questo sia molto ma molto più grave dello scandalo P2? La seconda conseguenza, terrificante, è che il peso che hanno queste Logge si ripercuote sulle inchieste e talvolta persino sulle sentenze. La macchina della giustizia risponde alle Logge, non alla verità, al diritto, all’indagine. Se uno va colpito lo si colpisce, poi il reato si trova. Non sta diventando questo il problema principale del paese? Il Fatto, credo di aver capito, è nato per combattere i poteri forti. Giusto? E allora, Marco, senza bisogno di nessuna abiura, ora che lo sai, vieni con noi nella battaglia più difficile e pericolosa: quella di riportare la legalità in magistratura. Magari ci si fa male, ma è una battaglia molto utile.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Sara Bennewitz per repubblica.it il 22 ottobre 2021. L'ex commissario dell'Ilva Enrico Laghi, che dallo scorso settembre era agli arresti domiciliari, è stato liberato dal Tribunale del riesame di Potenza presieduto da Aldo Gubitosi. Laghi era stato arrestato e posto ai domiciliari su ordine del gip del Tribunale di Potenza per vicende legate alla gestione dell'impianto siderurgico di Taranto. L’inchiesta aveva ad oggetto un nuovo filone dell’indagine sull’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo che coinvolge anche l’ex consulente esterno di Eni Piero Amara. Per Laghi il procuratore Francesco Curcio aveva chiesto la custodia in carcere, ma il gip aveva comminato solo i domiciliari. La misura cautelare era stata notificata dalla Squadra mobile e dal nucleo di polizia economico finanziari della Guardia di Finanza di Potenza. A Laghi, scelto dal governo di Matteo Renzi come commissario dell'Ilva, erano  stati  inoltre sequestrati anche 363mila euro, come disposto dal giudice per le indagini preliminari Antonello Modeo. L'inchiesta, che si sarebbe basata su “plurime e convergenti dichiarazioni accusatorie”, ipotizzava la corruzione in atti giudiziari in concorso con Amara, il magistrato Capristo, il suo amico e avvocato Giacomo Ragno, il poliziotto Filippo Paradiso e Nicola Nicoletti, consulente dell’Iva. Oggi però il tribunale del riesame di Potenza presideduto da Aldo Gubitosi, "previa riqualificazione dell'imputazione relativa agli incarichi professionali conferiti dall'avvocato Giacomo Ragno nel reato ex articolo 110,  319 quater" del Codice penale, ed esclusa ogni ulteriore contestazione, ha annullato l’ordinanza e disposto  "l'immediata liberazione di Enrico Laghi". Laghi è noto per essere un professionista stimato, dalle istituzioni e nel mondo delle grandi aziende italiane; ricopre il ruolo di presidente esecutivo di Edizione, la holding dei Benetton che controlla Atlantia (e dunque le Autostrade per l'Italia), gli Aeroporti di Roma, Autogrill e l'omonimo gruppo tessile. 

INDAGINE SU CAPRISTO. IL TRIBUNALE DEL RIESAME SMENTISCE LA PROCURA DI POTENZA E LAGHI TORNA LIBERO. Il Corriere del Giorno il 21 ottobre 2021. L’operato della procura lucana aveva già subito ieri un altro “colpo” dalla difesa del prof. Laghi in occasione dell’udienza per l’incidente probatorio che si è svolto dinnanzi al Gip Antonello Amodeo, allorquando l’ avv. Mario Zanchetti ha giustamente eccepito che uno dei verbali di Nicoletti era pieno di omissis e quindi non poteva svolgersi la prova su documenti incompleti. Il Tribunale del Riesame di Potenza presieduto dal giudice Aldo Gubitosi, a latere giudici Maria Stante e Carmen Bonamico ha accolto le istanze difensive dell’ avv. Mario Zanchetti del foro di Roma, previa riqualificazione dell’imputazione relativa agli incarichi professionali conferiti all’ avv. Giacomo Ragno del foro di Trani ed “esclusa ogni ulteriore contestazioni” ha annullato l’ordinanza cautelare nei confronti del prof. Enrico Laghi già commissario straordinario dell’ex Ilva di Taranto, disponendo la sua immediata liberazione. L’operato della procura lucana aveva già subito ieri un altro “colpo” dalla difesa del prof. Laghi in occasione dell’udienza per l’incidente probatorio che si è svolto dinnanzi al Gip Antonello Amodeo, allorquando l’ avv. Mario Zanchetti ha giustamente eccepito che uno dei verbali di Nicoletti era pieno di omissis e quindi non poteva svolgersi la prova su documenti incompleti. Una vera e propria “figuraccia” dei pubblici ministeri che hanno cercato di addurre inutili e pretestuose giustificazioni, e che nei prossimi giorni saranno tenuti a depositare gli atti integrali in vista della prossima udienza che si terrà il 15 novembre. Laghi era stato posto ai domiciliari dallo scorso 27 settembre a seguito di un’ ordinanza del Gip. dr. Antonello Amodeo del Tribunale di Potenza nell’ambito di un’ inchiesta della Procura del capoluogo lucano guidata da Francesco Curcio in cui sono indagati anche l’ex Procuratore della Repubblica di Trani e di Taranto, Carlo Maria Capristo, gli avvocati Piero Amara e Giacomo Ragno, il funzionario di Polizia Filippo Paradiso e Nicola Nicoletti, che è stato consulente dei commissari dell’Ilva.

L'ennesimo flop dei pm sull'Ilva. Nicola Porro il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda giudiziaria dell'ex commissario dell'Ilva, Enrico Laghi, ha dell'incredibile. Questo signore è un professore universitario, salito in cattedra da giovanissimo, e grande esperto di bilanci. Anzi uno dei più esperti in Italia. Poco più che trentenne se lo prese Marco Tronchetti nel consiglio sindacale della Pirelli. Ha fatto parte dei consigli di aziende quotate e non, di dimensioni rilevanti. Ha fatto il commissario per Alitalia e poi, mal gliene incolse, anche per Ilva. È stato consulente delle Procure di mezza Italia, si mise a rifare i calcoli sui derivati del comune di Milano. Il 27 settembre di quest'anno viene arrestato e messo ai domiciliari su richiesta della Procura di Potenza e ordinanza del Gip, che però nega la custodia in carcere. Se no Laghi avrebbe soggiornato nelle patrie galere. In una complicata storia che vede coinvolto l'ex procuratore di Taranto, poi indagato Carlo Maria Capristo, e la banda di Amara, quello dei veleni sull'Eni per intendersi, il nostro professore pluridecorato avrebbe utilizzato il suo ruolo di commissario straordinario dell'Ilva per fare favori ad amici della banda e per questa via ottenere soluzioni per la pratica Ilva, sotto controllo appunto da parte della magistratura tarantina. Un castello nell'aria, ha stabilito due giorni fa il tribunale del Riesame di Potenza. Che non solo ha disposto la cancellazione delle misure cautelari, altro che carcere, ma ha anche chiesto di derubricare il possibile reato: quella che per i pm era corruzione in atti giudiziari per i giudici del Riesame potrebbe essere al massimo un'induzione indebita a dare o promettere utilità. Tutta da dimostrare, ovviamente. Ma le cose incredibili di questa vicenda sono due.

La prima riguarda come spesso avviene il buon senso. E per questo abbiamo solo sommariamente elencato i titoli di Laghi. Questo signore secondo la bizzarra teoria dell'accusa avrebbe avuto necessità di «farsi bello» con i politici sulla questione Ilva e per questo avrebbe avuto comportamenti che configurano la corruzione in atti giudiziari. Siamo arrivati al paradosso. Se i commissari non fanno, sono degli inetti. Se fanno, cercando di salvare il salvabile, rischiano di venire arrestati. E questo teorema vale anche nei confronti di chi, sia pur giovane, ha dimostrato in tutti gli ambiti, da quelli pubblici a quelli privati, di essere un fenomeno.

La seconda questione, legata alla prima, riguarda la credibilità dell'accusa. Non della magistratura, ma delle Procure. A quanto ci risulta nessuno ha tolto incarichi a Laghi. Impossibilitato dall'arresto, avrà avuto, c'è da immaginare, un legittimo impedimento nel partecipare a consigli o organi di vigilanza. Ma nessuno dei suoi committenti gli ha revocato l'incarico. Certo per la sua storia professionale. C'è però un elemento aggiuntivo: ci si fida sempre meno delle roboanti richieste e indagini delle procure e sempre più si sconta che esse poi possano finire nel nulla. Una magistratura che perda, nella sua accusa, credibilità è un danno per il sistema, ma anche, evidentemente, una protezione dai suoi errori e abusi.

Ps. Incredibile la storia della Loggia Ungheria a proposito degli altri veleni chez Amara. Ora in mano ad un serio magistrato, come Cantone, non si riesce bene a capire come mai l'unico indagato (sarà sicuramente, come si dice a sua tutela) che sia stato esposto al pubblico ludibrio della stampa, sia Luigi Bisignani. Dentro alla fantomatica loggia ci sono ex ministri, sacerdoti, poliziotti, carabinieri, finanzieri, prefetti, ma sui giornali c'è solo Bisignani. Che sia davvero l'unico indagato, o per gli altri non c'è titolo che tenga?

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

Arresto dell'ex Ad di Ilva e la rete Capristo-Amara, le accuse della Procura di Potenza. Le carte dell'inchiesta. La Voce di Manduria martedì 28 settembre 2021. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza – dopo aver coordinato e diretto complesse investigazioni svolte dalla Polizia Giudiziaria di seguito indicata – ha delegato la Squadra Mobile della Questura di Potenza e il Nucleo di Polizia Economico-Finanziario di Potenza, la Sezione di P.G. – Aliquota Guardia di Finanza di questa Procura a dare esecuzione ad una ordinanza di applicazione della misura cautelare degli AADD e di sequestro preventivo per un ammontare di 270.000 euro circa, nei confronti del Prof. Enrico LAGHI, per fatti risalenti al periodo in cui era Commissario Straordinario di ILVA in AS. Il Professore LAGHI è stato ritenuto, dal Giudice delle Indagini Preliminari di Potenza, gravemente indiziati del seguente delitto:

LAGHI Enrico, AMARA Piero, CAPRISTO Carlo Maria, NICOLETTI Nicola, PARADISO Filippo, RAGNO Giacomo

Delitto p. e p. dagli artt. 110,81 cpv, 319 ter, in rel. agli artt. 318 e 319, 321 c.p. perché CAPRISTO, AMARA, PARADISO, LAGHI e NICOLETTI in permanenza, RAGNO con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso fra loro come specificato appena di seguito:

CAPRISTO Carlo Maria in qualità di Procuratore della Repubblica di Trani dal 2008 fino al 6 Maggio del 2016 e di Procuratore della Repubblica di Taranto dal 7 Maggio 2016 al 16/07/2020, soggetto passivo della corruzione in atti giudiziari contestata in permanenza nel presente capo;

RAGNO Giacomo, amico personale del CAPRISTO e avvocato penalista del Foro di Trani, concorrente del CAPRISTO in alcuni specifici episodi corruttivi di seguito specificati, nonché beneficiario di alcune delle utilità ricevute contra ius dal CAPRISTO stesso;

AMARA Piero, avvocato penalista operante su tutto il territorio nazionale, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza sia a Trani che a Taranto come di seguito specificato;

PARADISO Filippo, funzionario della Polizia di Stato dedito a curare, previa retribuzione, le relazioni pubbliche dell’AMARA, concorrente di AMARA, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza e di seguito specificata;

LAGHI Enrico, Commissario Straordinario (unitamente a CARRUBBA Corrado e GNUDI Piero) di ILVA in AS, dal 2015 al Giugno 2018, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari compiuta in permanenza, come di seguito specificato, nonché mandante delle attività illecite materialmente compiute da NICOLETTI Nicola di cui appresso;

NICOLETTI Nicola – consulente dei Commissari di ILVA in AS, delegato dai Commissari Straordinari a seguire e coordinare (sulla base di direttive dei Commissari ma di fatto con ampia e notevole autonomia) le vicende gestionali, produttive, legali che riguardavano gli Stabilimenti ex Ilva di Taranto fra il 2015 ed il 2018, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari compiuta in permanenza, come di seguito specificato;

Commettevano le seguenti attività di corruzione in atti giudiziari connesse e collegate fra loro.

Segnatamente, il CAPRISTO stabilmente vendeva ad Amara, Laghi e Nicoletti, la propria funzione giudiziaria, sia presso la Procura di Trani (a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara, Laghi e Nicoletti) svolgendo, in tale contesto, il PARADISO, funzione d’intermediario presso il CAPRISTO per conto e nell’interesse di AMARA PIERO, facendo ciò, il CAPRISTO, in cambio dell’utilità costituita dal costante interessamento di AMARA e PARADISO (il secondo stabilmente remunerato dal primo) per gli sviluppi della sua carriera (il CAPRISTO, sul punto, risultava particolarmente sensibile, in quanto, cessando definitivamente il suo incarico di Procuratore della Repubblica di Trani nel 2016, sarebbe rimasto privo di incarichi direttivi, al cui immediato conferimento, invece anelava) nonché per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale Avv. Giacomo Ragno, come di seguito meglio specificato. Con riferimento al primo dei favori offerti al Capristo – l’interessamento per la sua carriera – sia AMARA che PARADISO (che agivano in sinergia e coordinandosi fra loro) si facevano carico di una obbligazione di mezzi e non di risultati verso il CAPRISTO e la stessa in particolare, si manifestava in un incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore del CAPRISTO, dai suddetti corruttori su membri del CSM (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/o su soggetti ritenuti in grado di influire su quest’ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti di interesse del CAPRISTO (fra cui la Procura Generale di Firenze, la Procura della Repubblica di Taranto ed altri ancora).

Il CAPRISTO, a sua volta, nelle sue qualità di Procuratore della Repubblica, prima di Trani e poi di Taranto, in cambio di tali interessamenti – ed in cambio per quanto riguarda il LAGHI ed il NICOLETTI anche di favori immateriali (quali le nomine e gli incarichi ad amici da parte di ILVA in AS, come poi meglio specificato – garantiva stabilmente come di seguito meglio specificato sia ad AMARA che a LAGHI/NICOLETTI e quindi ad Ilva in AS, sia presso la Procura di Trani (per il solo Amara, in indagini che a vario titolo coinvolgevano ENI, di cui AMARA era legale) che presso quella di Taranto, utilità e vantaggi processuali, nonché garantiva da Amara mostrando apertamente la sua amicizia con il predetto innanzi al LAGHI ed al NICOLETTI, l’agevolazione professionale consistita nel suo accreditamento presso Ilva in AS – quale avvocato in rapporti preferenziali con il Procuratore della Repubblica – cosicché:

L’AMARA, anche in vista dei ritorni economici assai significativi costituiti dal pagamento di cospicue parcelle professionali da parte delle indicate imprese, consolidava il suo ruolo di consulente legale di ENI ed ex Ilva in AS, in grado di risolvere (proprio in virtù dei suoi rapporti preferenziali con il CAPRISTO) situazioni processuali particolarmente complesse. Il PARADISO consapevolmente, in tale contesto, riceveva dall’AMARA utilità economiche per le sue attività relazionali che, dall’AMARA in cambio delle descritte utilità venivano indirizzate in favore del CAPRISTO, nella consapevolezza del PARADISO che siffatti interessamenti avrebbero garantito un ritorno professionale per Amara da parte di CAPRISTO. Il LAGHI ed il NICOLETTI, che avevano appoggiato l’attività di sponsorizzazione del Capristo svolta da AMARA e Paradiso (che non a caso si interfacciava con LAGHI, NICOLETTI, AMARA e soggetti in grado di influire su componenti del CSM) a loro volta, come di seguito sarà dettagliato, elargivano remunerati incarichi di consulenza ed assistenza legale a persone indicate dal CAPRISTO che a sua volta orientava l’attività della Procura di Taranto in favore di ILVA in AS;

il LAGHI ed il NICOLETTI, anche accreditandosi presso il Capristo attraverso la nomina dell’Amara quale consulente e legale di Ilva in AS (nomina che consentiva ad Amara di incassare, nel contesto dell’ attività corruttiva, parcelle per oltre 90.000 euro) vedevano riconosciute, dalla gestione della Procura della Repubblica di Taranto da parte di Capristo, una particolare e favorevole attenzione alle esigenze di Ilva in AS che, a sua volta, si tramutava anche in ulteriore beneficio, questo di carattere personale, sia per il LAGHI che per il NICOLETTI, in quanto, il primo, acquisiva maggiore credito presso il Governo Nazionale ed i Ministri competenti quale abile e capace manager risolutore delle questioni giudiziarie/economiche e patrimoniali di pertinenza delle aziende commissariate, mentre il secondo un quanto consulente degli Amministratori Straordinari ed in quanto trait-de-union

(unitamente ad Amara, che dallo stesso Nicoletti era stato proposto all’ Amministrazione Straordinaria quale legale da assoldare in quanto in ottimi rapporti con Capristo) fra l’Amministrazione Straordinaria e la Procura di Taranto, si accreditava, presso il Laghi come soggetto indispensabile per gestire i complessi rapporti con la AG di Taranto e dunque acquisiva ulteriori titoli per rinsaldare la sua ascesa professionale nelle acciaierie tarantine.

Nel dettaglio, il CAPRISTO:

- nella sua qualità di Procuratore della Repubblica di Trani, essendo stato posto in relazione con l’AMARA dal PARADISO, al fine di accreditare presso l’ENI l’AMARA stesso quale legale intraneo agli ambienti giudiziari tranesi in grado d’interloquire direttamente con i vertici della Procura, ed al fine, quindi, di agevolarlo nel suo percorso professionale:

1. si autoassegnava, in co-delega con i Sostituti SAVASTA Antonio e Pesce Alessandro, i procedimenti penali nr. 25/15/46, nr. 136/15/46 scaturenti da esposti anonimi redatti dallo stesso AMARA e consegnati a mani proprie ovvero per il tramite di fiduciario, al Capristo stesso;

2. nonostante: a) la palese strumentalità degli esposti anonimi che li avevano generati (redatti dall’Avv. AMARA per accreditarsi presso i vertici ENI quale soggetto in grado di interloquire su tali procedimenti), nei quali veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso (ed in realtà inesistente) progetto criminoso – che risultava, in modo ovviamente artificioso, concepito in Barletta, (proprio affinché il fatto fosse di competenza della Procura di Trani) – che mirava a destabilizzare i vertici dell’ENI ed in particolare a determinare la sostituzione dell’Amministratore Delegato De Scalzi, che in quel momento era invece indagato dall’AG di Milano per gravi fatti di corruzione, sicchè con le delazioni in esame si intendeva far apparire il De Scalzi come vittima di un complotto ordito da soggetti che avevano rilasciato presso la Procura di Milano dichiarazioni indizianti a suo carico; b) la circostanza che il primo di tali esposti fosse giunto presso la Procura di Trani in modo decisamente sospetto ed apparentemente inspiegabile (recapitato a mano – pur essendo anonimo – direttamente presso l’Ufficio ricezione atti senza che risultasse chi lo avesse consegnato e chi lo avesse ricevuto e poi regolarmente protocollato, assegnato ed iscritto);

3. disponeva lo svolgimento d’indagini anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime (fra cui escussioni ed acquisizione tabulati) in considerazione della natura anonima dell’esposto, anche sollecitando in tale senso i colleghi co-delegati che invitava in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi che risultavano funzionali agli interessi di AMARA Piero (che aveva inviato gli esposti e che aveva necessità di rafforzare e “vestire” la tesi del complotto contro l’AD di ENI De Scalzi);

4. accettava una interlocuzione assolutamente impropria ed anomala con Piero AMARA sulle vicende investigative in fieri oggetto degli esposti anonimi, in quanto: a) in primo luogo, alcun indagato o parte offesa aveva nominato AMARA quale proprio legale; b) in secondo luogo, i procedimenti, al momento di tali interlocuzioni, erano segretati e anche le stesse notizie stampa pubblicate in quei giorno sulla esistenza delle indagini a Trani sul cd “complotto Eni” erano del tutto inconferenti (se non sospette) e comunque, non idonee a legittimare su queste vicende, una interlocuzione fra un avvocato (AMARA) neppure nominato formalmente da un soggetto processuale legittimato ed il Procuratore della Repubblica di Trani; c) con la predetta condotta compiacente, consentiva ad AMARA di proporsi e mettersi in luce presso Eni, per un verso, come punto di riferimento e tramite verso la AG in quella specifica vicenda e, per altro verso, come legale meritevole di nuovi ed ulteriori (e ben remunerati) incarichi;

5. disponeva, per compiacere le richieste di AMARA (che aveva preso accordi con il PM di Siracusa, Longo Giancarlo, da lui stesso corrotto affinchè si prestasse a seguire le indicazioni dell’AMARA nella conduzione di una analoga strumentale indagine preliminare avente a oggetto il descritto complotto ai danni del De Scalzi) previe irrituali intese con il predetto Sostituto Procuratore della Repubblica di Siracusa Longo (e non con il Capo di quell’Ufficio) la trasmissione, per motivi di competenza territoriale, dei procedimenti suddetti nonostante la PG delegata avesse rappresentato non solo l’infondatezza degli esposti anonimi ma la loro connessione con le indagini preliminari condotte nei confronti del De Scalzi dalla Procura della Repubblica di Milano;

- nella qualità di Procuratore della Repubblica di Taranto, al fine di accreditare l’AMARA e NICOLETTI presso l’Ilva in AS ed al fine di agevolare la loro ascesa professionale, nonché al fine di agevolare ILVA in AS ed il suo Commissario straordinario Enrico LAGHI:

1. ricevuta la descritta sponsorizzazione nella nomina a Procuratore di Taranto mostrava apertamente di essere sia amico che estimatore dell’Avv. AMARA e del NICOLETTI e si rendeva promotore di un approccio dell’ufficio certamente più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’ILVA AS e, quindi, della politica aziendale giudiziaria ed economica praticata e voluta da Enrico LAGHI, così:

per un verso rafforzava il prestigio professionale e la capacità di Enrico LAGHI di essere considerato negli ambienti governativi ed economici, manager capace di risolvere le situazioni più complesse;

per altro verso, rafforzava nell’Amministrazione Straordinaria di Ilva – e, in particolare nel Laghi Enrico – il convincimento che AMARA e NICOLETTI nelle loro vesti di legale il primo e consulente “factotum” della Amministrazione Straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto, consentendo al NICOLETTI di consolidare il suo rapporto fiduciario con i Commissari di Ilva in AS ed ampliare in futuro il loro ruolo all’interno di tale azienda;

così il CAPRISTO, a fronte della garanzia di una gestione dei numerosi procedimenti ed indagini in cui era coinvolta ILVA in AS (sia come persona giuridica che in persona dei suoi dirigenti) complessivamente favorevole a tale azienda ed ai suoi dirigenti, otteneva in cambio, da LAGHI e NICOLETTI favori materiali quali lucrosi incarichi ad amici del Capristo – segnatamente all’Avv.to Giacomo RAGNO – che poi saranno elencati.

2. Garantiva, così, con la descritta condotta compiacente e di “riguardo” verso Amara (anche grazie alla fattiva collaborazione di NICOLETTI) il conferimento in favore dell’Avv. AMARA di 2 incarichi, entrambi dalla persona giuridica ILVA AS (uno di consulenza del 29.06.16 nel processo Ambiente svenduto e l’altro del 19.9.16 nel procedimento per la morte dell’operaio Giacomo CAMPO) voluta ed imposta da LAGHI agli Uffici competenti di ILVA in AS proprio per garantirsi ulteriormente i favori del Capristo, così fornendo anche a NICOLETTI e LAGHI un contributo diretto alla realizzazione dell’accordo corruttivo AMARA/CAPRISTO;

3. nel p.p. nr. 938/2010 R.G.N.R. Mod. 21 – RG ASS 1/2016 c.d. Ambiente Svenduto, per disastro ambientale ed altro, assecondava e portava a conclusione, coordinando un composito gruppo di PPMM delegati le “trattative” svolte in diversi incontri per una applicazione della pena ex art. 444 C.P.P. seguite alla proposta di ILVA in AS persona giuridica (che attribuiva a tale “patteggiamento” valore strategico, non solo a livello processuale, ma anche ai fini dello sviluppo economico e produttivo dell’azienda) della quale Piero AMARA era divenuto consulente esterno, e di cui LAGHI e, quindi, NICOLETTI erano direttamente interessati nelle loro descritte qualità e la cui positiva conclusione sarebbe stata un rilevante vantaggio per ILVA in AS (di cui LAGHI e NICOLETTI erano esponenti) richiesta, peraltro, che veniva poi rigettata dall’Organo Giudicante competente;

4. nel procedimento nr.7492/2016 R.G.N.R. Mod 21 per l’incidente mortale occorso nel 2016 all’operaio Giacomo Campo il 17.9.16 presso gli Stabilimenti tarantini di ILVA in AS (nel quale AMARA veniva nominato in data 19 settembre 2016 difensore di fiducia dell’Ilva Spa in AS) indicava, al P.M. incaricato delle indagini, di nominare Sorli Massimo quale Consulente tecnico del P.M. che avrebbe dovuto svolgere un sopralluogo e connessi accertamenti presso il predetto impianto ad horas (come poi avvenuto, tanto che il consulente Ing. Sorli Massimo partiva da Torino domenica 18.9.16, giungeva a Taranto la domenica stessa con volo aereo pagato da AMARA tramite suo prestanome Miano Sebastiano, in serata riceveva l’incarico ex 360 C.P.P. irripetibile, e il lunedì mattina 19.9.16 svolgeva e concludeva il sopralluogo) sulla base di indicazioni ricevute da AMARA, LAGHI e NICOLETTI che ritenevano il SORLI consulente “gradito” ad ILVA in AS; sollecitava i suoi Sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’AFO4 (che poi avveniva in 48 ore, peraltro sulla base dell’impostazione difensiva dell’ILVA, rivelatasi infondata, relativa alla insuperabile necessità di alimentare, per mezzo dei macchinari coinvolti nel sinistro, l’altoforno e, quindi, impedire sbalzi di temperatura che lo avrebbero danneggiato, mentre in epoca successiva emergenza come tale temperatura costante all’interni dell’altoforno potesse essere mantenuta anche attraverso altri, ma più costosi sistemi). Gestiva, subito dopo l’incidente, i rapporti con la stampa (rientranti nei suoi compiti istituzionali secondo l’ordinamento giudiziario) in modo da far intendere, sia pure implicitamente ma univocamente, che Ilva in AS, ovvero i suoi dirigenti potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno e comunque proponendosi quale garante delle politiche di risanamento ambientale poste in essere da ILVA in AS e quindi dai Commissari straordinari (manifestando pubblicamente, in più occasioni, che la sua Procura avrebbe a questo fine lavorato in sinergia con l’Amministrazione Straordinaria).

5. Manifestava apertamente, all’esterno e all’interno dell’Ufficio, la sua posizione “dialogante” con il NICOLETTI (che così accreditava, al pari di AMARA presso la struttura commissariale come elemento indispensabile per la gestione dei rapporti e la AG tarantina) ed il LAGHI e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di ILVA in AS determinando un complessivo riposizionamento del suo Ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose strategie processuali ed investigative, manifestate dalla Procura della Repubblica diretta dal suo predecessore (che ad esempio aveva rigettato una precedente richiesta di applicazione pena presentata da ILVA in AS persona giuridica);

6. Nel p.p. nr. 4606/15 R.G.N.R. Mod 21 (cd. Morricella), dapprima sollecitava il P.M. titolare delle indagini a concedere la facoltà d’uso dell’AFO 2, nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’Ilva alle prescrizioni; poi concordava con NICOLETTI, che conseguentemente esercitava pressioni sull’Avv. BRESCIA Francesco (dell’ufficio legale Ilva), affinchè l’operatore sul “campo di colata” fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al P.M. titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’Ing. Ruggero Cola, difeso dall’amico Avv. RAGNO, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta di archiviazione (senza raggiungere l’intento grazie all’opposizione del P.M. che non aderiva all’impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del P.M. titolare – induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facolta d’uso.

A fronte di tali favori resi dal CAPRISTO, NICOLETTI e LAGHI, abusando delle loro rispettive qualità di Commissario Straordinario e gestore di fatto degli stabilimenti ILVA in AS di Taranto, condizionavano i dirigenti iIva sottoposti a procedimenti penali presso la A.G. di Taranto (procedimenti nei quali rispondevano per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni) affinchè conferissero una serie di incarichi difensivi – poi remunerati dall’ILVA in AS, salva eventuale (e mai avvenuta) rivalsa della stessa società, come previsto dal contratto nazionale di lavoro dei dirigenti d’azienda – all’Avv.to RAGNO Giacomo, alter ego del CAPRISTO, in ragione dello stretto legame tra i due risalente fin dai tempi in cui CAPRISTO era Procuratore della Repubblica di Trani, e da questi sponsorizzato quale professionista da favorire anche con riferimento ad incarichi professionali da ricevere dall’Ilva, come avvenuto per ben 4 mandati difensivi (conferiti al RAGNO da De Felice Salvatore e Cola Ruggero, dirigenti ILVA in AS, che fruttavano parcelle per complessivi euro 273.000 circa):

1. Mandato difensivo conferito al RAGNO, da De Felice Salvatore, dirigente ILVA in AS già direttore di stabilimento, nel P.P. nr. 938/2010 R.G.N.R. Mod 21 – RG ASS 1/2016 (ambiente svenduto), in data 2.2.2017;

2. Mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero, dirigente ILVA in AS e direttore dello stabilimento di Taranto dall’agosto 2014 fino ad ottobre 2016 e di nuovo da maggio 2018 a ottobre 2018, nel P.P. cd “incidente Campo” recante nr. 7492/2016 R.G.N.R. Mod.21 (nomina depositata in data 10.10.2017);

3. Mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero nel P.P: cd “incidente Morricella” recante nr. 4606/2015 R.G.N.R Mod.21 (nomina depositata in data 01.03.2017);

4. Mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero nel P.P. cd “Loppa” recante nr. 8836/2015 R.G.N.R. Mod.21 (nomina effettuata il 30.09.2017). Fatti commessi in permanenza fra Trani e Taranto dal gennaio 2015 al 23.07.2019.

La misura cautelare oggi eseguita rappresenta un’ulteriore sviluppo delle indagini svolte da questo Ufficio nell’ambito del medesimo Procedimento Penale che, nel giugno u.s., avevano portato alla adozione di misure cautelari contro AMARA Piero, CAPRISTO Carlo Maria, NICOLETTI Nicola, PARADISO Filippo e RAGNO Giacomo.

Tali nuovi approfondimenti investigativi – coordinati da questo Ufficio e delegati alla Squadra Mobile di Potenza e alla Sezione di P.G. G. di F. della Procura di Potenza – che si fondano su plurime e convergenti dichiarazioni accusatorie supportate da elementi investigativi di riscontro, hanno fatto emergere un quadro indiziario grave da cui è emerso il sopra descritto ruolo svolto dall’indagato Enrico LAGHI nella contestata fattispecie di corruzione in atti Giudiziari.

Nota stampa della Procura di Potenza 

CONTINUA LO “SHOW” GIUDIZIARIO A POTENZA: ARRESTI DOMICILIARI PER ENRICO LAGHI, EX COMMISSARIO ILVA. Il Corriere del Giorno il 27 Settembre 2021. La misura cautelare adottata dal Gip Amodio del Tribunale di Potenza è stata notificata a Laghi dalla Squadra mobile della Questura di Potenza e dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria insieme all’ aliquota di P.G. della Guardia di Finanza presso la Procura di Potenza. Mentre questa mattina mentre si celebrava a Potenza la seconda udienza del processo nei confronti dell’ ex-procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, che il nostro giornale sta seguendo filmandolo e trasmettendolo integralmente, alle h. 11:59 dalla segreteria del procuratore capo Francesco Curcio notoriamente molto sensibile alla sua presenza sui giornali, partiva via mail un comunicato stampa “record”: ben 8 pagine per commentare ed illustrare alla stampa la misura cautelare adottata nei confronti del prof. Enrico Laghi nei confronti del quale la Procura di Potenza aveva chiesto l’arresto in carcere con l’ accusa di corruzione in atti giudiziari, in concorso con altri cinque indagati (l’ avvocato Amara, l’ex-procuratore Capristo e l’ispettore di P.S. Paradiso, il consulente Ilva Nicoletti e l’avvocato Ragno). Richiesta di carcerazione respinta dal Gip dr. Antonello Amodeo che ha ritenuto di non mandare in carcere il prof. Laghi optando gli arresti domiciliari ed il sequestro di circa 300mila euro. La misura cautelare è stata notificata a Laghi dalla Squadra mobile della Questura di Potenza e dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria insieme all’ aliquota di P.G. della Guardia di Finanza presso la Procura di Potenza. Laghi era stato nominato dal governo Renzi come commissario dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria. Capristo secondo l’impianto accusatorio della Procura, ancora da provare in giudizio, avrebbe ottenuto tramite l’ avv. Pietro Amara e l’ ispettore di P.S. Filippo Paradiso l’aiuto per convincere i membri del Consiglio superiore della magistratura a sostenere la nomina quale procuratore di Taranto, quando era in scadenza la sua esperienza a Trani. Peccato che la Procura di Potenza ad oggi non abbia accertato e tantomeno scoperto chi sarebbero stati i consiglieri “convinti” , e cioè gli ipotetici corrotti senza il quale voto Capristo non sarebbe stato nominato. A votare la nomina del procuratore di Trani (all’epoca dei fatti) alla guida della procura di Taranto, furono infatti ben quindici membri del plenum del Csm. Ma evidentemente al procuratore Curcio ed al Gip Amodeo deve risultare “pericoloso” accertare tutto ciò. Stando attenti a non sfiorare i veri “poteri forti”, come la Presidente del Senato Elisabetta Casellati. Più semplice confidare sui soliti giornalisti-ventriloqui pronti a copiare e pubblicare i comunicati stampa “fiume” della procura potentina. Se questa è la “giustizia” italiana, allora hanno ragione Berlusconi, Salvini e la Meloni a sostenere i referendum sulla separazione delle carriere

Il collezionista di incarichi tra ricchi compensi e conflitti d’interesse. Sergio Rizzo su La Repubblica il 27 settembre 2021. Arrestato Enrico Laghi, ex commissario Ilva. Chi è e come è cominciata la sua carriera. Che il commercialista romano Enrico Laghi, classe 1969, sia uno dei più bravi in circolazione, se non addirittura il più bravo, sono in tanti a sostenerlo. D’altra parte in un Paese nel quale la gerontocrazia è regola aurea dell’Università non si diventa a 34 anni, come accaduto a lui, professore ordinario alla Sapienza senza avere qualche numero. 

Ilva, ai domiciliari l’ex commissario Laghi: è accusato di corruzione. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 27 set 2021. L’ex commissario straordinario dell’Ilva di Taranto, Enrico Laghi — attualmente presidente di Edizione Holding dei Benetton — è stato posto agli arresti domiciliari dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza, nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza. L’accusa di quella di corruzione in atti giudiziari in concorso con altre persone. È stato eseguito a carico di Laghi anche un sequestro preventivo per un valore di circa 270 mila euro. Nell’inchiesta che ha portato Laghi ai domiciliari sono coinvolti anche l’ex Procuratore della Repubblica di Trani e di Taranto, Carlo Maria Capristo, gli avvocati Piero Amara e Giacomo Ragno, il funzionario di Polizia Filippo Paradiso e Nicola Nicoletti, che è stato consulente dei commissari dell’Ilva. L’inchiesta della Procura potentina ha portato, nel giugno scorso, all’arresto di Amara. Le indagini hanno ipotizzato un «patto corruttivo» fra gli indagati, con scambi di favori e utilità. L’arresto di Laghi è avvenuto all’esito di «nuovi approfondimenti investigativi» fondate — secondo quanto si è appreso — «su plurime e convergenti dichiarazioni accusatorie supportate da elementi investigativi di riscontro». L’ultimo incarico ricevuto in ordine di tempo da Laghi — di una lista lunghissima — è stato quello di commissario liquidatore della compagnia Air Italy. Laghi ha sempre avuto ottime entrature nei palazzi romani. Inserito nella rosa dei supercommissari del ministero dello Sviluppo economico e di revisore contabile del Tesoro, è stato scelto spesso per gli incarichi più delicati anche per la sua conoscenza della normativa sugli aiuti di Stato. A novembre scorso la procura di Civitavecchia aveva chiesto l’archiviazione per la sua posizione nell’ambito dell’inchiesta sul crac di Alitalia di cui è stato anche consulente e consigliere indipendente di una sua controllata. Ruolo cui si vagheggiò l’ipotesi di conflitto di interessi. Nello stesso mese fu scelto dalla famiglia Benetton per un incarico cucito su misura. Per la partita più importante: quella del riassetto societario di Autostrade, completatosi con la vendita dell’88% del gestore in carico ad Atlantia alla cordata guidata da Cassa Depositi con i fondi esteri Blackstone e Macquarie. Una scelta di «pacificazione» col governo che portò alla società concessionaria a tornare sotto l’orbita del controllo pubblico. 

Enrico Laghi, da commissario Ilva a presidente della società dei Benetton: chi è. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 27 set 2021. Romano, 52 anni, medico mancato in una famiglia di radiologi e dottore commercialista per scelta, Enrico Laghi finito agli arresti domiciliari ha una lista degli incarichi talmente lunga che occupa quasi 80 pagine di visura camerale e giustifica la quantità di conoscenze che ha stretto in Italia e all’estero. Del resto, sono vent’anni che l’allievo alla Sapienza di Pellegrino Capaldo e Gianfranco Zanda, laurea in Economia con 110 e lode nel 1992, colleziona incarichi prestigiosi. Il primo importante a 30 anni, quando si occupa come perito dello spacchettamento dell’Enel, in attuazione del decreto Bersani sulla liberalizzazione del mercato elettrico (poi verranno anche Sorgenia e Tirreno Power). Laghi c’è, e c’è anche quando nel 1999 si tratta di dare vita a un’Agenzia pubblica per gli investimenti dal nome Sviluppo Italia, da cui l’attuale Invitalia.

La carriera accademica

Intanto decolla anche la carriera accademica, proprio alla Sapienza, dove assume la cattedra di Economia aziendale. E questa è forse l’unica sospensione che Laghi si è concesso nel tempo. La sua è una cavalcata senza soste (spesso a bordo di uno scooterone, secondo la narrazione più agiografica) da un’azienda all’altra, pubblica e privata, le maggiori del Paese, acquisendo anche un’esperienza nel campo del diritto internazionale che gli servirà nei ruoli commissariali che verranno. Unica distrazione riconosciuta: la passione per la Roma, di cui è tifoso «praticante». Niente salotti, niente convegni, rare interviste. Tra i primi ad avvalersi delle sue competenze sono i Benetton e Marco Tronchetti Provera. I primi lo consulteranno nell’operazione di acquisto di una quota di Telecom da Bell, tramite la holding Olimpia, nel 2001. Qui, ma anche in occasione della partecipazione dei Benetton alle cordate che rileveranno Alitalia, nasce il rapporto con Carlo Bertazzo che oggi da ceo di Atlantia gli ha confermato fiducia. Tronchetti Provera lo sceglie per la presidenza del consiglio di amministrazione dell’immobiliare Beni Stabili e del collegio sindacale della Prelios, con cui Unicredit tratta la cessione dei crediti a rischio. Laghi è sindaco di Unicredit e resta tale fino al 2017.

In Alitalia

L’avvicinamento al dossier del suo terzo salvataggio di Alitalia è proprio opera dell’allora ceo di Unicredit, Federico Ghizzoni, che lo vuole presidente del consiglio di amministrazione di Midco spa, la scatola voluta da Poste per partecipare in maniera indiretta al salvataggio Alitalia fatto da Etihad nel 2014. Ma prima di allora Laghi era già stato consigliere dell’Alitalia pubblica che crollò nel 2008 e poi sindaco di Alitalia Cai, quella dei «capitani coraggiosi», per conto delle banche creditrici e azioniste con cui ormai ha sviluppato un rapporto solido (che sale fino alle relative fondazioni). Il suo approdo all’incarico di commissario straordinario di Alitalia arriva nel 2017, accanto a Luigi Gubitosi e Stefano Paleari. Fra i tre, come sempre, è quello che si fa notare di meno, ma è quello che va a Fiumicino a parlare con i sindacati e quello che porta a casa i dossier europei, vincendo le resistenze sugli aiuti di Stato all’ex compagnia di bandiera. La sua tortuosa presenza in Alitalia finisce sotto la lente della magistratura per conflitto d’interessi.

Presidente di Edizione

L’archiviazione precede di pochi giorni la sua nomina alla presidenza in Edizione.Proprio per occuparsi di Alitalia Laghi dovrà lasciare l’incarico di commissario straordinario dell’Ilva, conferitogli nel 2015 dall’allora ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, governo Renzi. Intanto Laghi ha moltiplicato gli incarichi anche nella sua Roma, dove a dargli fiducia nel 2010 è Francesco Gaetano Caltagirone che, da socio di minoranza di Acea, lo indica come presidente del collegio sindacale dell’azienda municipale. Qui, secondo calcoli pubblicati dal blog di Gianni Dragoni, incassa, fino a tutto il 2016, un milione 61 mila 208 euro lordi, pari a una busta paga media di 20 mila 128 euro al mese. Dallo stesso ceppo di Acea gemma anche il ruolo di consigliere della Banca Finnat della famiglia Nattino, storicamente legata a Caltagirone. Inevitabile il sodalizio tutto romano con Giovanni Malagò, che lo chiama tra i revisori dei conti del Coni. Il filone fallimenti e concordati lo vede protagonista in Italease, Seat Pagine Gialle, Air Italy e Parmalat, come consulente di Bank of America.

Editoria e costruzioni

Non mancano gli incarichi nell’editoria: è consigliere di amministrazione del Messaggero di Caltagirone, ma anche nei collegi sindacali di Gedi (gruppo Espresso), Huffington Post, News Holding (gruppo Abete), Rai Cinema, RaiCom e Rai Pubblicità. Nelle costruzioni è advisor su Salini-Astaldi e partecipa al progetto Milano-Sesto. Tra gli arbitrati, quello tra i due rami della famiglia Caprotti sul valore di Esselunga. Gli affari vanno benissimo. L’Agenzia delle Entrate pubblica i dati di consulenze nel 2008-2011 e nel 2012-2014 che superano il milione di euro. Come la pensi politicamente Laghi, è difficile saperlo; che rapporti abbia con la politica è immaginabile. A parte gli attacchi di Barbara Lezzi, tra i «duri e puri» del M5S che lo critica per i molteplici incarichi (tra gli ultimi, quello che Cassa depositi e prestiti gli aveva conferito per valutare la congruità dell’offerta per Autostrade), Laghi ha ricevuto la fiducia di tutti i governi in carica da vent’anni a questa parte.

Ilva, le accuse al supercommissario Enrico Laghi: «Lui il dominus del patto corruttivo sull’acciaieria». Nelle carte dell’inchiesta di Potenza, i due testimoni Amara e Nicoletti, entrambi agli arresti, attaccano il commercialista romano. E lo chiamano in causa anche per i suoi rapporti con il governo Renzi e con i Riva, precedenti azionisti del polo siderurgico. Antonio Fraschilla e Vittorio Malagutti su L’Espresso il 28 settembre 2021. Nelle carte che hanno portato all’arresto di Enrico Laghi, l’ex commissario straordinario dell’Ilva accusato di concorso in corruzione, spiccano le dichiarazioni rese negli interrogatori dal consulente della Price Waterhouse Nicola Nicoletti e dall’avvocato Piero Amara, arrestato proprio in questo procedimento e sul banco degli impuntati in diverse procure per aver corrotto giudici, pilotato nomine di magistrati e, adesso, aver lanciato anche l’ipotesi di una grande Loggia con dentro i vertici dello Stato, delle forze armate e della magistratura. Laghi è coinvolto nel procedimento giudiziario di Potenza che ha già portato all’arresto dell’ex procuratore capo di Trani e Taranto Carlo Capristo. «Segnatamente – scrivono i magistrati – il Capristo stabilmente vendeva ad Amara, Laghi e Nicoletti la propria funzione giudiziaria, sia presso la procura di Trani (a favore del solo Amara) che presso la procura di Taranto (a favore di Amara, Laghi e Nicoletti)» per garantirsi vantaggi per gli sviluppi futuri della sua carriera nonché per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile avvocato Giacomo Ragno». Secondo la ricostruzione della procura di Potenza, Amara e Paradiso, tramite i loro rapporti con componenti del Csm, avrebbero influenzato le nomine nei posti ambiti da Capristo, come quello per la procura di Taranto. Laghi e Nicoletti invece avrebbero dato consulenze e incarichi a Ragno per fare un favore a Capristo e in cambio quest’ultimo avrebbe garantito vie privilegiate all’Ilva in amministrazione straordinaria alle prese con diverse indagini e con il possibile patteggiamento della famiglia Riva, i precedenti proprietari dell’Ilva che avrebbero potuto chiudere l’indagine aperta su di loro a Milano facendo rientrare dalla Svizzera 1,5 miliardi da destinare al risanamento dell’acciaieria di Taranto. Nicoletti, interrogato dopo l’arresto ai domiciliari, chiama in causa Laghi e racconta che l’allora ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi con il sottosegretario Claudio De Vincenti lo avevano presentato al commercialista romano, nominato commissario dell’Ilva in amministrazione straordinaria. Poi il consulente della Price, da anni al lavoro sull’Ilva, spiega le nomine fatte su richiesta di Laghi e di Capristo.  «Confermo che il nome dell’avvocato Ragno (per un incarico di consulenza all’Ilva, ndr) mi è arrivato da Laghi. Dopo una cena a Bisceglie con Capristo, Laghi e Amara in macchina Laghi mi dà un bigliettino con il nome dell’avvocato Ragno e mi dice di prenderlo in considerazione se ci sono delle opportunità…». In quella cena, Capristo e Laghi si appartano per 20 minuti e poco dopo Capristo incontrando Nicoletti gli dà del tu e gli chiede se ha ricevuto l’indicazione da Laghi sulla nomina dell’avvocato Ragno. Dice Nicoletti ai magistrati: «Io non ho mai preso decisioni in autonomia, informavo sempre Laghi ad ogni passo che facevo e lui mi dava indicazioni». Nicoletti sostiene che anche gli incarichi assegnati dall’Ilva ad Amara erano voluti da Laghi per compiacere Capristo. Amara conferma la versione di Nicoletti e sostiene che una volta nominato Capristo a Taranto venne contattato dall’avvocato Larocca, l’amico di Nicoletti al vertice dell’ufficio legale dell’Eni, per una cena a cui dovevano partecipare sia il magistrato sia Laghi. Secondo Amara, Nicoletti voleva tessere relazioni per accreditarsi in procura e anche all’Ilva, dove ambiva a diventare direttore generale: «Nicoletti dimostrando a Laghi che poteva farlo incontrare con Capristo acquisiva centomila punti…Laghi in una seconda cena vedendomi con Capristo mi propone di seguirlo nell’avventura a Taranto…poi vedete voi se è corruzione o meno…». Amara conferma anche che il consulente Sorli, nominato dalla procura dopo la morte nell’altoforno dell’operaio Campo, venne indicato a Capristo dalla stessa Ilva.  Amara tira in ballo l’allora governo e lo stesso presidente del Consiglio: «Non c’è dubbio che Capristo viene mandato lì (a Taranto, ndr) dal governo per risolvere il problema dell’Ilva e della struttura commissariale...Renzi in particolare…e c’era De Vincenti che costituiva la cerniera di trasmissione tra governo, procura e Laghi». Secondo Amara, Laghi spingeva per il patteggiamento e la procura di Taranto si sarebbe “inventata” un nuovo capo di imputazione per dare più tempo per patteggiare ai Riva: a riprova, a dire di Amara, del legame tra governo Renzi-Capristo-Laghi-Riva. E, ancora, secondo Amara, fu Laghi a scrivere il decreto Ilva varato dal governo Renzi e poi bloccato dalla Corte costituzionale. Nel racconto dell’avvocato siracusano da mesi agli arresti, Laghi era in contatto costante sia con il governo, per la gestione commissariale dell’Ilva, sia con la famiglia Riva e la sua gestione non era autonoma: «Teneva anche i rapporti con la procura di Milano, per via del patteggiamento dei Riva e il rientro del miliardo e mezzo dalla Svizzera», dice Amara facendo riferimento ad un accordo tra i Riva e la procura milanese per far rientrare in maniera lecita 1,5 miliardi in Svizzera e utilizzare queste somme per la riconversione e le bonifiche: «Laghi era il dominus di tutti i rapporti all’Ilva e la mia nomina arriva dopo una cena a casa mia nella quale mi vede in ottimi rapporti con Capristo...Inoltre Laghi, Capristo, Renzi erano tutta una cosa nella gestione del patteggiamento…mentre io ho avuto sempre rapporti con Bacci e Lotti, in relazione alla vicenda Ilva i rapporti (di Laghi, ndr) erano direttamente con il premier e con la famiglia Riva».

Fabio Amendolara e Alessandro Da Rold per “La Verità” il 28 settembre 2021. Ai tempi in cui Carlo Maria Capristo era il capo della Procura, a Taranto sembra che l'Ilva, oltre all'inquinamento ambientale del territorio, che ha prodotto un processo con svariate condanne in primo grado, sia riuscita a inquinare pure gli uffici di chi avrebbe dovuto controllare. «Condizionamento ambientale», lo definiscono i magistrati di Potenza che ieri, nella seconda tranche dell'inchiesta sull'avvocato Piero Amara, hanno privato della libertà Enrico Laghi (sequestrandogli anche 270.000 euro), il professore romano che conta nel curriculum almeno 24 incarichi come liquidatore, consigliere o sindaco, tra Alitalia, Unicredit e persino Acea. Ma è per Ilva che è finito agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Il capo della Procura di Potenza, Francesco Curcio, è riuscito a ricostruire i meccanismi di protezione sui quale l'Ilva poteva contare. Partendo dal «condizionamento» di membri del Csm per portare Capristo a Taranto tramite le strategie dell'avvocato Amara, fino ad arrivare a quella che nell'ordinanza di custodia cautelare viene definita «una particolare e favorevole attenzione alle esigenze dell'Ilva da parte della Procura di Taranto». Nel mezzo ci sono le nomine di due consulenti che, stando all'accusa, hanno avuto un certo peso specifico: quella di Amara, per 90.000 euro di parcella, e quella dell'ingegnere Nicola Nicoletti, che era diventato il braccio destro di Laghi e si muoveva con «ampia e notevole autonomia». Il nome di Laghi era già saltato fuori nella prima tornata di arresti, quando oltre a Capristo e Amara finirono al centro dell'inchiesta anche Nicoletti e il poliziotto dalle mille relazioni Filippo Paradiso. A Potenza Amara non le aveva risparmiate all'ex commissario dell'Ilva, che l'ex pm romano Stefano Fava avrebbe voluto già arrestare insieme con l'avvocato «pentito» siciliano, trovando però l'opposizione (fino alla revoca dell'assegnazione del fascicolo) dell'allora capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, dell'aggiunto Paolo Ielo e di altri: «(Laghi, ndr) era il dominus di certi rapporti...», ha raccontato Amara, «in relazione alla vicenda Ilva il rapporto era direttamente con il premier (all'epoca Matteo Renzi, ndr) e con la famiglia Riva. Questo "giocava con tre mazzi di carte"». E a un certo punto descrive la filosofia che stava dietro alle nomine degli avvocati da parte di certi clienti. Lo stesso criterio che avrebbe utilizzato il commissario dell'Ilva con lui. «Figuriamoci se lui mi ha nominato perché aveva chiesto referenze in giro», svelò Amara. «Mi nomina perché mi vede a casa [] in buona confidenza con Capristo, e all'epoca così funzionava». E Nicoletti, durante il suo interrogatorio, ha riscontrato quella versione. Dopo la morte sul lavoro di un operaio, per esempio, Amara incontrò Capristo. Poi chiamò Nicoletti per ottenere il nome di un consulente che avrebbe dovuto lavorare per l'accusa. Nicoletti si sarebbe rivolto a Laghi, che avrebbe trovato la persona giusta. Si punta su un certo «professor Sorli» che poi effettivamente riceverà l'incarico. «Nicoletti», valutano gli inquirenti, «delinea la figura di Laghi per un verso quale assoluto dominus della struttura commissariale, dall'altro quale mandante della condotta illecita posta in essere da Nicoletti». Le decisioni spesso venivano prese a cena. Lo svelò Amara e lo ha confermato Nicoletti. A ogni convivio sarebbero fioccate le nomine. E se in Procura sarebbero finiti i consulenti indicati da Laghi tramite Amara, l'Ilva forniva «lucrosi incarichi ad amici di Capristo». Gli investigatori sono riusciti a provare anche l'esistenza di un filo diretto tra Laghi e l'ex capo della Procura di Taranto, fatto di decine di messaggi confidenziali nei quali i due si salutavano con «caro prof» e «caro procuratore». Nel frattempo, secondo i magistrati potentini, Laghi «acquisiva maggior credito con il governo e i ministri competenti quale abile manager risolutore delle questioni giudiziarie». Per capire il potere di Laghi basta leggere le dichiarazioni rese da Massimo Mantovani (ex capo dei legali di Eni) ai magistrati di Potenza. Quando i pm gli chiedono se conoscesse Laghi, la risposta dell'avvocato (allontanato dal Cane a sei zampe nel 2019 per i suoi rapporti con Amara) è questa: «È una conoscenza che nasce in ambito professionale in quanto sono stato componente del Comitato di sorveglianza di Ilva []». Poi aggiunge: «[] in tre occasioni hanno avuto sviluppi anche in un contesto privato. []la prima volta il prof Laghi a casa della professoressa Severino, ex ministro della Giustizia, nella sua casa romana, eravamo circa una decina di coppie (ricordo bene la giornata perché vidi per la prima volta da vicino il presidente Giorgio Napolitano e l'onorevole Enrico Letta) e si fece una pizzata. Un'altra volta al circolo degli scacchi dove Laghi invitò me e Zoppini (Andrea, ndr) e trovammo anche Amara [] infine una terza a Capalbio []». Insomma, Laghi si può permettere di mangiare una pizza con l'ex presidente della Repubblica e frequentare anche gli amici del figlio dell'ex numero uno del Quirinale: Zoppini ha scritto diversi libri insieme con Giulio Napolitano. Ma allo stesso tempo, Laghi può permettersi di gestire una quantità immensa di società pubbliche. La sua visura camerale sfiora le 80 pagine. Di sicuro il suo ruolo più delicato negli ultimi anni è stato quello in Alitalia, quando fu nominato commissario dall'ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Caso vuole che Laghi sia appena uscito dall'inchiesta sul crac della compagnia di bandiera appena due settimane fa. Era indagato per bancarotta fraudolenta e falso per la gestione Etihad. Laghi arrivò per ripulire le macerie dell'accordo del governo Renzi con gli Emirati Arabi Uniti. In teoria non avrebbe dovuto neppure essere lì. A spiegarlo furono i consulenti della Procura laziale. Nella relazione agli atti dell'indagine, infatti, si sottolineava come Laghi fosse già presidente e amministratore delegato di MIdco, socio di maggioranza di Alitalia Sai.

Spunta lo zampino di Amara anche sull'Ilva. "Indagini pilotate in cambio di favori e incarichi". Luca Fazzo il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Arrestato l'ex commissario Laghi. Nuovi guai per il procuratore Capristo. Un triangolo micidiale: un procuratore corrotto, un manager in cerca di glorie e di incarichi, e poi lui, Piero Amara, il torbido avvocato dai mille legami che ora si spaccia per «testimone di giustizia». Era questo terzetto a fare il bello e il cattivo tempo a Taranto, intorno alle inchieste sull'acciaieria dell'Ilva. Il procuratore di facili costumi era Carlo Maria Capristo, vecchio sodale di Amara. E il manager in cerca di incarichi era, secondo l'inchiesta della Guardia di finanza che ieri lo porta agli arresti domiciliari, nientemeno che il numero 1 dell'Ilva: Enrico Laghi, il manager che nel 2015 il governo Renzi (la firma fu del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi) indicò come amministratore straordinario dell'Ilva. Laghi, professore di Economia alla Sapienza, arrivò lì con l'incarico di cercare una terza via tra le esigenze del lavoro e quelle della salute. Secondo il mandato di cattura eseguito ieri, il cattedratico scelse invece di proteggere l'Ilva dalle inchieste venendo a patti con la Procura, garantendo a Capristo una serie di vantaggi in cambio del trattamento di favore in una sfilza di inchieste: da quelle sull'inquinamento ambientale all'indagine sulla morte di Giacomo Campo, un operaio di venticinque anni stritolato nel 2016 da un nastro trasportatore. In cambio di un approccio soft alle indagini, Laghi avrebbe garantito a Capristo una lunga sfilza di ricompense: consistenti soprattutto negli incarichi professionali da parte di Ilva all'avvocato Giacomo Ragno, considerato l'alter ego del procuratore fin da quando entrambi stavano a Trani. E il grande regista di questi accordi era lui, Amara, che per aiutare Capristo nelle sue ambizioni di carriera trafficava dentro al Csm; e che a Taranto, nelle vicende giudiziarie dell'acciaieria, di cui era il ben pagato legale, si muoveva da dominus. Al punto che quando, dopo la morte del povero Campo, la Procura deve nominare un consulente, è Capristo a suggerire al pm il nome giusto, un torinese gradito all'Ilva, ed è Amara a pagargli il biglietto aereo per Taranto. Nemmeno due giorni dopo, il forno incriminato viene dissequestrato: come voleva Laghi. A spedire il professor Laghi agli arresti domiciliari è la Procura di Potenza, che per questo stesso filone in giugno aveva arrestato sia Capristo che Amara. Amara per cavarsi d'impiccio, come in altre occasioni, si è messo a riempire verbali davanti ai pm di Potenza, tornando a raccontare la storia che lo ha reso famoso, quella sulla presunta «loggia Ungheria»: tirando in ballo soprattutto dei morti. Ora agli arresti finisce anche Laghi, e non è escluso che a portare alla sua incriminazione abbiano contribuito anche le dichiarazioni di Amara. Secondo l'ordinanza di custodia, il commissario straordinario avrebbe corrotto il procuratore Capristo non solo nell'interesse di Ilva ma anche per un vantaggio personale, perché risparmiando grane all'azienda «acquisiva maggiore credito presso il governo nazionale ed i ministri competenti quale abile e capace manager risolutore delle questioni giudiziarie/economiche e patrimoniali» delle aziende che era mandato a guidare.

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Amara “canta” e la procura di Potenza arresta l’ex commissario Ilva. L'ex consulente legale dell'Ilva, Piero Amara aveva collaborato con la procura di Potenza. Ora i magistrati hanno arrestato l'ex commissario, Enrico Laghi. Il Dubbio il 28 settembre 2021. Gli arresti domiciliari eseguiti ieri a carico di Enrico Laghi, ex commissario straordinario dell’Ilva di Taranto, sono un altro tassello del “mosaico” che la Procura della Repubblica di Potenza va componendo da mesi, da quando cioè ha messo nel “mirino” l’ex Procuratore della Repubblica di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, in un’inchiesta per corruzione in atti giudiziari che apre scenari che vanno ben al di là della città dei due mari. L’ordinanza del gip di Potenza a carico di Laghi, eseguita da Polizia e Guardia di Finanza, stabilisce anche un sequestro preventivo per circa 270 mila euro ed è “un ulteriore sviluppo” delle indagini che, nel giugno scorso, portarono a misure cautelari nei confronti di Capristo stesso, degli avvocati Piero Amara – che ha una “parte” in trame e inchieste in corso in altre Procure italiane – e Giacomo Ragno, di Nicola Nicoletti, consulente dei commissari dell’ex Ilva, e del funzionario di Polizia Filippo Paradiso, che faceva da raccordo con gli altri indagati. Lo sviluppo investigativo è basato su indagini e su “plurime e convergenti dichiarazioni accusatorie” che la Procura di Potenza ha raccolto, “supportate da elementi investigativi di riscontro”. Alla base dell’inchiesta – e dell’azione della Procura di Potenza, in base alla legge – vi sono gli atti di Capristo, che ha lasciato la magistratura in anticipo, scegliendo il pensionamento. Era lui, secondo l’accusa, che “vendeva stabilmente ad Amara, Laghi e Nicoletti la propria funzione giudiziaria”, sia quando guidava gli uffici della Procura di Trani (“a favore del solo Amara”) sia quando raggiunse Taranto (“a favore di Amara, Laghi e Nicoletti”). In sostanza, si era creata una “rete”, un “giro” che Capristo dominava completamente: suo primo obiettivo era quello di mettere in moto, a suo favore, “una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione” su componenti del Consiglio Superiore della Magistratura “o su soggetti ritenuti in grado di influire su questi ultimi”, quando erano da assegnare posti direttivi vacanti. In cambio, Capristo “garantiva stabilmente” favori materiali e “utilità e vantaggi processuali” ai suoi presunti complici. Tutti dovevano rimanere contenti e soddisfatti: gli avvocati ottenevano incarichi – molto ben retribuiti – da aziende importanti dopo aver dimostrato ad esse la loro capacità di avere rapporti facili con il Procuratore della Repubblica: è il caso proprio di Amara, che diventò punto di riferimento dell’Eni, e di Giacomo Ragno, definito “alter ego di Capristo” con il quale aveva uno “stretto legame” fin da quando il magistrato guidava la Procura di Trani, destinatario di quattro mandati difensivi ottenuti dai dirigenti dell’acciaieria tarantina. Laghi – sulla cui azione oggi il Codacons ha detto di aver avuto “dubbi” fin dal 2017, in un esposto inviato all’Autorità Anticorruzione – dimostrava al Governo di essere un buon commissario per l’Ilva (obiettivamente, una matassa difficile da sbrogliare) e Nicoletti poteva fregiarsi del titolo di ottimo consulente. Su tutto ciò Capristo vigilava, indirizzava, interveniva: gli atti del suo ufficio – sempre secondo l’accusa – prendevano la direzione da lui voluta, in un disegno di “governo” della situazione Ilva in cui il Procuratore era la figura di maggior spicco anche agli occhi dell’opinione pubblica, quasi l’uomo solo in grado di affrontare quel problema e tenerlo sotto controllo. (ANSA).

Roma, indagine sulle consulenze dell’avvocato Luca Di Donna vicino all'ex premier Conte. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021. Un fascicolo al momento senza indagati e ipotesi di reato è stato aperto dalla Procura di Roma in relazione alle attività di consulenza svolte negli ultimi anni con la pubblica amministrazione dall’avvocato Luca Di Donna, collega di studio dell’ex premier Giuseppe Conte e da quest’ultimo voluto al proprio fianco anche nella sua attività politica, tanto da affidargli la stesura del nuovo statuto del Movimento 5 Stelle. La notizia è trapelata ieri sui quotidiani La Verità e Il Domani.

La genesi dell’indagine e i flussi di denaro. Discordanti le versioni sulla genesi dell’indagine affidata ai carabinieri del Comando provinciale della Capitale. Secondo il primo quotidiano, gli accertamenti sarebbero partiti da alcune dichiarazioni fatte dall’avvocato Piero Amara, già al centro di numerose altre vicende penali. Secondo l’altro giornale, ci sarebbe invece a monte una segnalazione di operazione sospetta (ossia meritevole di approfondimento) da parte di Bankitalia. Nel biennio 2016-18 Di Donna è stato consigliere giuridico del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi e titolare di due società, la Persefone immobiliare srl e la Samsara srl, rimaste però inattive. La segnalazione — riporta Il Domani — evidenzia che il conto di Di Donna «è alimentato da due società bulgare e una lussemburghese». Su questi movimenti di denaro si concentrerebbero gli accertamenti.

Allievo di Guido Alpa e consulente di Mps e Leonardo. Allievo come Conte del professore Guido Alpa, il 43enne cassazionista ha ottenuto negli anni, prima che il futuro premier venisse chiamato in politica, incarichi di consulenza da Monte dei Paschi, controllata dal Tesoro, e dalla partecipata statale Leonardo tramite sue società. In seguito, secondo le anticipazioni di stampa, potrebbe aver speso il nome dell’ex socio divenuto presidente del Consiglio per accrescere la propria capacità relazionale. Il reato di traffico di influenze, così come quello di millantato credito sono però al momento solo ipotesi sullo sfondo.

La scuola di formazione del Movimento. In ogni caso, l’emergere della vicenda, pur con i suoi contorni ancora incerti, avrebbe avuto una eco anche in Parlamento, come riporta l’agenzia di stampa Adnkronos, che cita fonti anonime interne al Movimento 5 Stelle. Le perplessità nascerebbero, secondo questa ricostruzione, attorno all’ipotesi circolata di recente in base alla quale Di Donna potrebbe essere coinvolto nella futura scuola di formazione del Movimento, sulla quale proprio Conte starebbe lavorando. «Il progetto per il nuovo M5S richiede un approccio basato sui criteri di trasparenza, chiarezza e correttezza», è la sintesi del pensiero raccolto dall’ Adnkronos alla Camera, dove alcuni deputati sarebbero pronti a invitare Conte «a chiarire al più presto questa vicenda».

Accusato di corruzione in atti giudiziari. Amara colpisce ancora: Enrico Laghi finisce in manette. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Settembre 2021. L’avvocato Piero Amara, il terrore delle toghe, ha colpito ancora. La Procura di Potenza, anche sulla base della sua testimonianza, ha arrestato ieri con l’accusa di corruzione in atti giudiziari Enrico Laghi, ordinario di Economia aziendale presso l’Università di Roma La Sapienza. Laghi, ex commissario straordinario dell’Ilva di Taranto, nominato dal governo Renzi, è attuale presidente del Cda di Edizione, la holding finanziaria controllata dalla famiglia Benetton, nonché liquidatore di Air Italy e di tante altre società. Secondo la Procura di Potenza, il professore romano avrebbe sponsorizzato, tramite Amara, la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Carlo Maria Capristo a procuratore di Taranto. La presenza di Capristo a Taranto sarebbe servita per gestire proprio le numerose vicende relative all’Ilva, dove Amara aveva degli interessi importanti. L’avvocato siciliano, pur non avendo alcuna nomina formale, partecipava infatti agli incontri fra la Procura di Taranto e i legali di Ilva in amministrazione straordinaria. E a seguito di questi incontri, nel 2017, venne avanzata la proposta di patteggiamento che avrebbe dovuto consentire alla società, gestita appunto da Laghi, di uscire dal maxi processo “ambiente svenduto”. Il patteggiamento, avallato da Capristo, sarà però poi bocciato dai giudici. Capristo, attualmente indagato in un filone parallelo, in cambio di questo trattamento di favore avrebbe ottenuto che persone di sua fiducia ricevessero incarichi di consulenza ed assistenza legale da parte dell’Ilva. Secondo i pm, inoltre, la «favorevole attenzione alle esigenze di Ilva» da parte della Procura di Taranto si tramutava per Laghi anche in ulteriore beneficio «di carattere personale» in quanto avrebbe acquisito maggiore credito presso il governo quale abile e capace manager risolutore delle questioni giudiziarie, economiche e patrimoniali di pertinenza delle aziende commissariate. La Procura di Potenza ha anche sequestrato a Laghi circa 300mila euro. Ma torniamo ad Amara, l’ideatore del ‘Sistema Siracusa’, secondo un magistrato esperto come il procuratore generale di Messina Felice Lima, «una delle più estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate nella magistratura italiana». Prima dell’inciampo lucano, era sempre riuscito a farla franca. Pur essendo emerse le attività corruttive poste in essere durante gli anni, Amara era riuscito, quando coinvolto in qualche indagine, a patteggiare pene irrisorie ottenendo che non gli venisse sequestrato un euro. Anzi, chi aveva provato a fermarlo era rimasto a sua volta travolto. come l’ex pm romano Stefano Rocco Fava, poi trasferito a Latina come giudice. Fava, nel 2017, aveva messo nel mirino la coppia Amara/Laghi in un fascicolo sulla gestione di Acea, la multiutility del comune di Roma. Laghi, in particolare, aveva cercato di influenzare l’avvocato Vincenzo Ussani D’Escobar affinché desistesse dal proseguire nell’azione intrapresa nell’ambito della procedura fallimentare pendente nei confronti della società Rizzo Bottiglieri De Carlini Armatori Spa, una società della quale il professore della Sapienza era il rappresentante legale. Fava aveva chiesto l’arresto dei due, insieme a quello dell’avvocato Luca Lanzalone, presidente del consiglio di amministrazione di Acea, nominato dal sindaco Virginia Raggi. L’allora procuratore Giuseppe Pignatone, con gli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, a marzo 2019, aveva però deciso di togliere il fascicolo a Fava, non concordando con le sue richieste di arresto. Diverso scenario, come detto, a Potenza. A questo punto sono almeno tre le Procure – Perugia, Roma e Potenza – che, a vario titolo, stanno indagando sulla nomina di Capristo, avvenuta nella primavera del 2016, a capo dei pm tarantini. E sono cinque – Milano Perugia, Roma, Potenza e Reggio Calabria – che stanno indagando sulle rivelazioni di Amara. Il procuratore del capoluogo umbro Raffaele Cantone, lo ha riascoltato nei giorni scorsi a proposito della loggia Ungheria. Paolo Comi

Le indagini della Procura di Potenza. Ilva, arrestato l’ex commissario Enrico Laghi: l’inchiesta sul caso Capristo-Amara a Taranto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Settembre 2021. È stato arrestato Enrico Laghi, ex commissario straordinario dell’Ilva tra il 2015 e il 2019, nell’ambito dell’inchiesta sulla Procura di Taranto e la sua rete. Laghi è stato messo agli arresti domiciliari e nei suoi confronti è stato emesso un decreto di sequestro preventivo per 270mila euro. Le indagini della Squadra mobile e del Nucleo di polizia economico finanziaria di Potenza. La misura rappresenta un’ulteriore sviluppo dell’inchiesta che ha accusato a vario titolo di abuso d’ufficio, favoreggiamento, corruzione in atti giudiziari, corruzione nell’esercizio delle funzioni, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, concussione e concorso anche l’ex Procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, l’avvocato Piero Amara, il poliziotto Filippo Paradiso, l’avvocato Giacomo Ragno e il consulente Ilva Nicola Nicoletti. L’arresto arriva a tre mesi e mezzo da quelli di Amara, Paradiso, Ragno e Nicoletti. L’ex procuratore Carlo Maria Capristo era stato destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora. La Procura lucana ha ricostruito come il professore avrebbe goduto dell’atteggiamento favorevole di Capristo verso l’Ilva per accreditarsi al governo come l’uomo capace di attutire l’impatto di bufere giudiziarie sull’acciaieria di Taranto. Secondo l’inchiesta a mediare nel rapporto Nicoletti e Amara, rispettivamente consulente e avvocato durante l’amministrazione straordinaria della società. E sempre secondo le indagini Capristo avrebbe ottenuto in cambio sostegno per ottenere la nomina a capo della Procura di Taranto dopo la scadenza della carica a quella di Trani. “Laghi e Nicoletti – sostengono gli inquirenti – avevano appoggiato l’attività di sponsorizzazione di Capristo, svolta da Amara e Paradiso e a loro volta avevano elargito remunerati incarichi di consulenza legale a persone indicate da Capristo”. Attualmente Laghi è presidente di Edizione Holding dei Benetton. L’ultimo incarico da lui ricoperto è stato quello di commissario liquidatore della compagnia Air Italy. Romano, 52 anni, una carriera brillante con incarichi di altissimo livello. Primo incarico importante a 30 anni da perito dello spacchettamento dell’Enel in attuazione del decreto Bersani sulla liberalizzazione del mercato elettrico. Laghi si è occupato anche della formazione dell’attuale Invitalia, ha assunto la cattedra di Economia Aziendale, Tronchetti Provera lo ha scelto per la presidenza del consiglio di amministrazione dell’immobiliare Beni Stabili e del collegio sindacale della Prelios, con cui Unicredit tratta la cessione dei crediti a rischio. Commissario straordinario anche di Alitalia con Luigi Gubitosi e Stefano Paleari. E quindi incarichi per Acea, Banca Finnat, Coni, Seat Pagine Gialle, Air Italy, Parmalat, Bank of America. E anche nell’editoria come consigliere di amministrazione del Messaggero e nei collegi sindacali di Gedi (gruppo Espresso), Huffington Post, News Holding (gruppo Abete), Rai Cinema, RaiCom e Rai Pubblicità. Le indagini di polizia e guardia di finanza hanno quindi convinto il procuratore potentino Francesco Curcio del fatto che Laghi avrebbe svolto un ruolo attivo nei rapporti con Capristo e per Ilva sarebbe quindi sorto un “rilevante vantaggio in amministrazione straordinaria, non soltanto dal punto di vista processuale ma anche ai fini dello sviluppo economico e produttivo dell’azienda”. Emergerebbe quindi “una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione” su alcuni componenti del Consiglio Superiore della Magistratura – o su chi poteva influenzarli – in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti da parte di Capristo. L’incarico di quest’ultimo a Trani era terminato nel 2016. Paradiso, secondo l’accusa così come formulata dal gip, avrebbe svolto la “funzione di intermediario presso Capristo, per conto e nell’interesse di Amara”. Amara in uno dei suoi tanti interrogatori ha comunque raccontato che non aveva bisogno di Paradiso “per arrivare a certi livelli della magistratura italiana”. La procura di Potenza ritiene che “dalla gestione della procura di Taranto da parte di Capristo, Laghi e Nicoletti, anche accreditandosi attraverso la nomina di Amara quale consulente e legale di Ilva in Amministrazione straordinaria, vedevano riconosciute una particolare e favorevole attenzione alle esigenze di Ilva in As che, a sua volta, si tramutava in un ulteriore beneficio, questo di carattere personale sia per Laghi che per Nicoletti”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L’Amara storia di Guardia di Finanza e Carabinieri in «Ungheria». Vasi di coccio dell’«arrestiamoci tutti»? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 27 Settembre 2021. Il tempismo della pubblicazione degli interrogatori dell’Avvocato Piero Amara sulla fantomatica «Loggia Ungheria», assieme al loro contenuto, avrebbe fatto sghignazzare Francesco Cossiga. Che oltre un decennio fa definì pubblicamente l’Associazione Nazionale Magistrati come «associazione sovversiva e di stampo mafioso». Ed era un Presidente della Repubblica emerito a sostenerlo. Non lo scemo del villaggio in osteria. Ma le sue parole rimasero senza grandi eco sulla stampa. Liquidate col sorriso compassionevole da molti pennivendoli, ma anche dalle istituzioni. Verso le picconate di un signore che si ricordava essere un po’ avanti negli anni. Facendo pensare al trattamento che alcuni vorrebbero riservare oggi a Silvio Berlusconi, dopo averlo sottoposto a perizia psichiatrica. Come nei sistemi totalitari. Dove i dissidenti vengono destinati al manicomio, in alternativa al gulag.

Tutti colpevoli, tutti collusi: arrestiamoci tutti. Dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, ormai, tranne qualche seguace di grilli travaglianti, che l’Italia vive da oltre tre decenni sotto una dittatura mediatico-giudiziaria. Ed il momento finale dell’«arrestiamoci tutti» sembra ormai arrivato. Come anticipato oltre due lustri fa proprio da Francesco Cossiga. Nella sua grande esperienza e lungimiranza. Trasformando quella che dovrebbe essere una tragedia in una farsa di Pulcinellopoli. Perché il mantra «tutti sono corrotti» e «tutti sono mafiosi», ripetuto dai seguaci della teoria del tutti «colpevoli su cui non sono state raccolte le prove», aggiunge al danno la beffa. Quella cioè che, in fin dei conti, significa che nessuno è corrotto e nessuno è colpevole. E la festa può concludersi con i consueti tarallucci e vino. Accompagnati dagli ululati alla luna dei cantori di professione dell’Italia dei mille misteri insoluti. Frutti di una malagiustizia che sembra ormai fare acqua da tutte le parti.

Anche Zafarana, Toschi e Del Sette nella «Loggia Ungheria»?

Dopo mesi di silenzio, rotto da qualche sussurro stampa, sulla fantomatica «loggia Ungheria», ecco tutt’a un tratto, tra gli stracci che volano attorno al conflitto tra il Procuratore della Repubblica di Milano (a pochi giorni dalla pensione) ed un ex membro del Consiglio Superiore della Repubblica (che in pensione non voleva andarsene), le rivelazioni di tanti nomi eccellenti di questa loggia segreta. Ed il ruolo dei vasi di coccio di questo scontro tra titani viene ricoperto persino dai vertici, presente e passati, di due tra le migliori forze di polizia d’Europa. E forse del mondo. Carabinieri e Guardia di Finanza. Tra i diversi membri di questa presunta associazione segreta, che comprenderebbe persino pezzi importanti del Vaticano, vi sarebbero infatti persino l’attuale Comandante Generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, assieme al precedente, Giorgio Toschi. Ed anche ad un vecchio Comandante Generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette. Ora, di fronte a questa ennesima rivelazione della Pulcinellopoli dei misteri che restano sempre insoluti, mi sento di fare un paio di considerazioni. La prima è sicuramente viziata dalla conoscenza e stima personale che nutro verso i Generali Zafarana e Toschi. Che benissimo hanno fatto a reagire immediatamente, annunciando una querela per calunnia nei confronti, non dei giornali che hanno riportato la notizia, ma di chi li avrebbe indicati come membri di un’associazione segreta. Che se esistesse davvero come descritta dalla stampa, sarebbe una vera e propria associazione a delinquere. I generali Zafarana e Toschi sono cresciuti in anni post scandalo dei petroli e P2. Anni nei quali le generazioni di ufficiali della Guardia di Finanza alla quale appartengono come me, sono cresciute nella più viscerale diffidenza per ogni forma di associazionismo segreto. Chi scrive, in forza di quella forma mentis, ha aspettato di congedarsi prima di aderire persino ad un semplice Rotary Club. Vedo quindi come ridicola e davvero fantasiosa l’idea che i due comandanti generali delle Fiamme Gialle potessero stringere mani, con contestuale tripla pressione dell’indice, e chiedere all’interlocutore se fosse mai stato in Ungheria. Secondo le modalità di riconoscimento dei sodali raccontate dall’avvocato Amara. E anche se non fossi condizionato dalla dichiarata stima personale, che potrebbe rendermi poco oggettivo, non potrei credere che ufficiali che hanno superato durissime selezioni per raggiungere i vertici delle Fiamme Gialle possano essere così ingenui dall’aver creduto di poterla fare franca, e restare indenni a tale supposta enormità.

La sudditanza delle forze di polizia alle procure. La seconda considerazione è che, come raccontato da Palamara a Sallusti, nell’Italia della magistrocrazia mediatica degli ultimi trent’anni, «un Procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentando magari l’abitazione…, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un “Sistema” che li ha messi lì e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli ». E questa situazione, che non fa certamente parte della fantasia di Palamara, ha fatto sì che per oltre tre decenni ci sia stata una evidente accondiscendenza, se non vera e propria sudditanza, della polizia giudiziaria alla magistratura requirente. Che non si é limitata alla sola dipendenza funzionale, di polizia giudiziaria, appunto. Ma che ha pervaso gli stessi vertici, locali e centrali, di tutte le forze di polizia : Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza. Forze di polizia per le quali quella della polizia giudiziaria non é la sola funzione e competenza. Che peraltro non appartiene ai generali ed ai dirigenti superiori. I quali non rivestono la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria. E quindi non hanno più la dipendenza funzionale (per la funzione di polizia giudiziaria) dall’Autorità giudiziaria. Cioè dalla magistratura requirente. Ma nella realtà, da oltre tre decenni, le fila delle carriere e quindi della guida delle tre forze di polizia sono state indirettamente tirate dalla magistratura. E soprattutto dalle più importanti procure della Repubblica, oltre alla procura nazionale antimafia e antiterrorismo. I dirigenti delle tre forze di polizia, a tutti i livelli, sono sempre stati molto più sensibili alle sollecitazioni delle procure di quanto possano esserlo dalle richieste di qualunque altra autorità statuale. Sia essa il prefetto o lo stesso ministro dell’Interno, della Difesa o dell’Economia. E questo non solo perché nell’Italia giustizialista dei corvi e dei veleni, l’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria può rovinare in un attimo splendide carriere con una semplice lettera anonima, se non con qualche cosiddetto «pentito». Ed il cannibalismo mediatico- giudiziario, dei quali sembrano essere oggi vittime, dopo Palamara, gli stessi Procuratori della Repubblica di Milano, Roma, ed ex membri del CSM e dell’ANM, è un cannibalismo che, sempre a mezzo giudiziario requirente, è noto da decenni alle tre forze di polizia. Portando ad una naturale, e solo in parte comprensibile, accondiscendenza dei dirigenti verso una semplice alzata di sopracciglio del PM dell’angolo. Dal quale potrebbero sempre nascere censure o avvisi di garanzia che, anche se poi caduti nel nulla dopo anni di patimenti, lasciano comunque il segno nelle carriere e nelle assegnazioni degli ufficiali e funzionari delle tre forze di polizia. Ed anche questa è una situazione che non trova riscontro, a tale livello di eccesso, in nessun altro Paese Europeo. Nei quali nessun ufficio del pubblico ministero dispone, senza alcuna limitazione di fatto, in termini di mezzi e disponibilità, di una smisurata armata di forze di polizia a sua pressoché completa disposizione. Alla quale, per non farsi mancare nulla, si aggiungono da qualche tempo le polizie locali, la Guardia Costiera e l’Agenzia Dogane Monopoli.

Bastone e carota delle procure, tra avvisi di garanzie ed encomi. Oltre al timore di qualche avviso di garanzia che, anche quando pretestuoso o fumoso, lascia comunque il segno, soprattutto se concomitante con le procedure di promozione, in un paese in cui la notifica ad orologeria dell’avviso di garanzia a mezzo stampa non si è neppure risparmiata al premier nel momento stesso in cui presiedeva un grande consesso internazionale, c’è dell’altro. Oltre al bastone, il «sistema» dispone anche di una buona dose di carote che esso stesso produce. E cioè la politica dei cosiddetti encomi. Cioè delle ricompense di carattere morale (semplici o solenni) che non sempre hanno un carattere unicamente morale. Perché impattano materialmente, questa volta in positivo, sulle carriere degli appartenenti alle forze di polizia. E gli encomi, per l’attività operativa, sono rapportati principalmente alle denunce, agli arresti ed ai sequestri effettuati. Tutti cioè relativi all’attività di polizia giudiziaria ed ai cosiddetti risultati dell’attività della magistratura requirente. Mai, o quasi, alle sentenze della magistratura giudicante. Cioè alle condanne, alle confische di beni ed alle somme realmente recuperate o incamerate dalle casse dello stato, a seguito di contestazioni troppo spesso fumose, se non letteralmente gonfiate. Appare quindi evidente che i dirigenti delle forze di polizia facciano carriera, al pari dei PM, non in base al numero ed alla qualità delle sentenze passate in giudicato, ma delle semplici attività preliminari. Ed è un po’ come se la reputazione di un medico si basasse non sul numero dei pazienti guariti, ma su quello delle radiografie o amputazioni di arti effettuati a pazienti che poi risultano essere sani. Indipendentemente cioè dall’utilità, dal costo, dall’invasività della diagnostica e, soprattutto, dall’esito della stessa per la vita dei pazienti. Ed anche questo perverso meccanismo fa parte del sistema scoperchiato da Palamara. Corollario del quale sono i roboanti annunci mediatici di tanti giornalisti che fanno parte del Sistema. E che al Sistema devono la loro notorietà e la loro sfolgorante carriera di cantastorie.

Riforma della giustizia e della politica degli encomi. Ormai, come detto in esordio, non mi stupisco più di nulla che faccia parte del «Sistema» reso pubblico da Palamara. Nonostante la bella recente notizia che, oltre che a Berlino anche a Palermo esiste un Giudice (la gi maiuscola non è un caso). Che ha finalmente reso Giustizia a servitori dello stato e presunti collusi col potere mafioso. Giudicati assolutamente innocenti, dopo essere stati triturati per decenni dal circo mediatico-giudiziario della cosiddetta «trattativa stato-mafia». Mi stupirò invece il giorno che vedrà la luce una vera e radicale riforma della giustizia e del funzionamento della magistratura italiana. Che non sia l’ennesima riforma gattopardesca scritta dalla stessa magistratura. E che comprenda il divieto del distacco di magistrati presso organi dell’esecutivo. A cominciare dal Ministero della Giustizia. Attualmente occupato militarmente dalla Magistratura, come da tempo denunciato dall’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali. Ma anche l’eliminazione dell’attuale prostrazione delle forze di polizia alle Procure della Repubblica. Includendo il sistema delle carriere dei loro dirigenti legate agli encomi. Che dovrebbero essere concessi per premiare i risultati di indagini che convincono non solo le Procure, bensì i tribunali e i giudici. Che i risultati di quelle indagini devono giudicare. In completa autonomia ed indipendenza dall’attuale strapotere delle procure. Un sogno, sicuramente. Perché, visti i tempi attuali della giustizia, l’encomio rischierebbe di giungere quando il beneficiario è ormai in pensione. Ma i sogni, spesso, aiutano a non disperare.

Ora si cercano riscontri. Loggia Ungheria, Amara torna a parlare: l’avvocato tira ancora in ballo Tinebra e la ‘mediazione’ per salvare l’ex pm Musco. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Pietro Amara torna a parlare con i magistrati dal carcere di Orvieto, in Umbria. L’ex legale esterno dell’Eni che nell’ambito dell’inchiesta sulla società italiana e le presunte tangenti pagati in Nigeria, processo poi finito in flop per la Procura meneghina con assoluzioni per gli imputati, aveva rivelato l’esistenza di una loggia segreta, Ungheria, è tornato a discutere coi pubblici ministeri di Perugia proprio dell’associazione segreta. Ai primi di settembre, scrive oggi il Corriere della Sera, Amara è stato interrogato dal procuratore capo di Perugia Raffele Cantone e i sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani. Magistrati che intendono verificare se i nomi tirati in ballo da Amara siano verificabili. Quando infatti le sue dichiarazioni sui giudici, avvocati, politici, imprenditori e alti esponenti delle forze dell’ordine facenti parte della Loggia sono diventati pubblici, Amara è stato sommerso da denunce per calunnia dai diretti interessati. Dal carcere di Orvieto dunque l’ex legale esterno di Eni, che sta scontando tre anni e nove mesi di detenzione dopo le condanne per corruzione e altri reati accumulate con i patteggiamenti siglati nei tribunali di Roma e di Messina, è chiamato di fatto a ‘rilanciare’ le sue accuse. Secondo il Corriere Amara si sarebbe concentrato in particolare su Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e poi procuratore generale di Catania, scomparso nel 2017 e che quindi non può difendersi dalle accuse. Amara di fronte ai magistrati ha raccontato del ruolo di mediazione svolto da Tinebra nell’alleggerire la posizione dell’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. Quest’ultimo era amico dell’avvocato e all’epoca dei fatti inquisito in un procedimento dov’era contestata l’aggravante di aver favorito la mafia, portandolo poi alla destituzione dall’ordine giudiziario. Secondo quanto raccontato a Cantone, Formisano e Miliani, Tinebra si mosse per ridimensionare le accuse e aprendo la strada al patteggiamento per un reato minore che poi si sarebbe impegnato a far prescrivere. Ora spetta agli inquirenti verificare se la versione dei fatti di Amara sia corretta. Una collaborazione, quella di Amara con i magistrati, che punta all’uscita dal carcere di Orvieto. Una possibilità per ora negata dal tribunale di sorveglianza di Roma: l’affidamento in prova chiesto dai difensori di Amara, Salvino Mondello e Francesco Montali, è stato rifiutato nonostante l’atteggiamento collaborativo perché “può essere frutto di scelte dettate da opportunità processuale”, mentre “va ancora vagliata l’attendibilità delle propalazioni rese nei numerosi procedimenti giudiziari”. E in effetti dopo le accuse di Amara stanno arrivando anche le prime richieste di archiviazione. L’ha chiesta ad esempio la procura di Catania per il procuratore aggiunto di Roma Lucia Lotti, di cui aveva parlato l’ex avvocato esterno di Eni, e ora il gip ha fissato l’udienza per discuterne. Stessa cosa vale per l’ex membro del Csm Marco Mancinetti, di cui Amara aveva parlato in relazione a presunti favori chiesti per il figlio. Atti trasmessi a Milano per valutare eventuali calunnie.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Loggia Ungheria, Pietro Amara torna a parlare e a fare nomi. I magistrati cercano riscontri. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 22 settembre 2021. L’avvocato siracusano Pietro Amara in carcere in Umbria è tornato a rispondere alle domande dei magistrati di Perugia e di Potenza. I giudici: attendibilità da valutare. Nel carcere umbro dov’è rinchiuso, Pietro Amara ha ricominciato a parlare con i magistrati. L’ex avvocato esterno dell’Eni, protagonista delle rivelazioni sulla presunta «loggia Ungheria» che avrebbe riunito giudici, avvocati, politici, imprenditori e alti esponenti delle forze di polizia, deve scontare tre anni e nove mesi di detenzione dopo le condanne per corruzione e altri reati accumulate con i patteggiamenti siglati nei tribunali di Roma e di Messina. Voleva farlo fuori da una prigione, attraverso l’affidamento in prova previsto per le pene sotto i quattro anni, ma il tribunale di sorveglianza ha detto di no. Rientrato in cella a metà luglio, il legale aveva temporaneamente sospeso la sua collaborazione con gli inquirenti che devono sciogliere il mistero Ungheria e altre vicende in cui lo stesso Amara è coinvolto. Ma trascorsa l’estate, è tornato a rispondere alle domande dei pubblici ministeri di Perugia, e di Potenza. E aspetta quelli di altri uffici.

Nuove accuse. Nel nuovo interrogatorio con il procuratore del capoluogo umbro Raffaele Cantone e i sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani, svoltosi ai primi di settembre, l’avvocato ha approfondito alcuni aspetti della ipotetica loggia, concentrandosi su episodi specifici che i magistrati hanno ora la possibilità di verificare. Amara ha riempito i precedenti verbali — prima a Milano e poi a Perugia — con decine di nomi altisonanti, venendo poi sommerso, non appena le sue dichiarazioni sono divenute di pubblico dominio, da altrettante denunce (o annunci di denunce) per calunnia da parte dei diretti interessati. I quali negano la loro adesione alla presunta associazione segreta. In carcere l’avvocato è chiamato a replicare, e per adesso ha rilanciato raccontando fatti che ritiene possano essere riscontrati. Tra i tanti nomi tirati in ballo si sarebbe concentrato sull’ex procuratore di Caltanissetta (poi procuratore generale di Catania) Giovanni Tinebra, morto nel 2017; a suo dire uno dei principali esponenti della loggia. Al di là del fatto che l’accusato non può replicare, Amara ha ricostruito una storia in cui l’allora magistrato avrebbe svolto un ruolo di mediazione per alleggerire la posizione dell’ex pm di Siracusa Maurizio Musco, amico di Amara successivamente rimosso dall’ordine giudiziario e all’epoca inquisito in un procedimento dov’era contestata addirittura l’aggravante di aver favorito la mafia.

Favori e archiviazioni. Tinebra, secondo Amara, si adoperò per ridimensionare le accuse e aprendo la strada al patteggiamento per un reato minore che poi si sarebbe impegnato a far prescrivere. Gli inquirenti dovranno ora verificare questa versione per confermarla o smentirla, come hanno già fatto prima di chiedere l’archiviazione per l’ex componente del Consiglio superiore della magistratura Marco Mancinetti, di cui Amara aveva rivelato presunti favori richiesti per il figlio. Gli atti su Mancinetti sono poi stati trasmessi a Milano (dove l’avvocato aveva fatto le sue dichiarazioni) per valutare eventuali calunnie. Anche la Procura di Potenza, che a giugno aveva fatto arrestare e poi liberare Amara nell’indagine su una presunta corruzione, ha raccolto nuove dichiarazioni dell’indagato che ritiene riscontrate in buona parte. La Procura di Catania, invece, ha chiesto l’archiviazione per l’ex procuratore di Gela Lucia Lotti, di cui pure ha parlato l’avvocato, e ora il giudice delle indagini preliminari ha fissato l’udienza per discuterne. Al Csm Cantone ha comunicato che al momento non ci sono altri magistrati romani iscritti sul registro degli indagati, dove invece compaiono (per il reato di associazione segreta) i nomi di Amara e un paio di suoi amici che avrebbero collaborato con lui a raccogliere e conservare le prove sull’esistenza della loggia. Come l’avvocato siracusano Giuseppe Calafiore, che ai pm di Milano ha consegnato registrazioni di colloqui da cui si dovrebbe evincere che «Ungheria» non è un’invenzione.

Il «no» dei giudici. La partita che l’avvocato, assistito dai difensori Salvino Mondello e Francesco Montali, ha ricominciato a giocare è quella della credibilità, anche per puntare a uscire dal carcere. Il tribunale di sorveglianza di Roma gli ha negato, per ora, l’affidamento in prova sostenendo che «la condotta collaborativa, fino ad oggi riconosciuta, ben può essere frutto di scelte dettate da opportunità processuale, tant’è vero che essa è stata la condizione necessaria per ridurre la pena e “patteggiare”». Tuttavia «l’attività collaborativa è tuttora in corso, e va ancora vagliata l’attendibilità delle propalazioni rese nei numerosi procedimenti giudiziari». Secondo i giudici di Roma quella di Amara è la «personalità complessa di un soggetto invischiato in faccende che si inseriscono in un contesto criminale di spessore che destabilizza totalmente le istituzioni statuali. La vastità delle condotte tenute — affermano — inserite nelle pagine più “nere” che hanno investito i gangli vitali dell’amministrazione della giustizia, è stata tale da aver dominato e inquinato la storia giudiziaria del nostro Paese degli ultimi anni». 

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 22 settembre 2021. Nel carcere umbro dov' è rinchiuso, Pietro Amara ha ricominciato a parlare con i magistrati. L'ex avvocato esterno dell'Eni, protagonista delle rivelazioni sulla presunta «loggia Ungheria» che avrebbe riunito giudici, avvocati, politici, imprenditori e alti esponenti delle forze di polizia, deve scontare tre anni e nove mesi di detenzione dopo le condanne per corruzione e altri reati accumulate con i patteggiamenti siglati nei tribunali di Roma e di Messina. Voleva farlo fuori da una prigione, attraverso l'affidamento in prova previsto per le pene sotto i quattro anni, ma il tribunale di sorveglianza ha detto di no. Rientrato in cella a metà luglio, il legale aveva temporaneamente sospeso la sua collaborazione con gli inquirenti che devono sciogliere il mistero Ungheria e altre vicende in cui lo stesso Amara è coinvolto. Ma trascorsa l'estate, è tornato a rispondere alle domande dei pubblici ministeri di Perugia, e di Potenza. E aspetta quelli di altri uffici. Nel nuovo interrogatorio con il procuratore del capoluogo umbro Raffele Cantone e i sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani, svoltosi ai primi di settembre, l'avvocato ha approfondito alcuni aspetti della ipotetica loggia, concentrandosi su episodi specifici che i magistrati hanno ora la possibilità di verificare. Amara ha riempito i precedenti verbali - prima a Milano e poi a Perugia - con decine di nomi altisonanti, venendo poi sommerso, non appena le sue dichiarazioni sono divenute di pubblico dominio, da altrettante denunce (o annunci di denunce) per calunnia da parte dei diretti interessati. I quali negano la loro adesione alla presunta associazione segreta. In carcere l'avvocato è chiamato a replicare, e per adesso ha rilanciato raccontando fatti che ritiene possano essere riscontrati. Tra i tanti nomi tirati in ballo si sarebbe concentrato sull'ex procuratore di Caltanissetta (poi procuratore generale di Catania) Giovanni Tinebra, morto nel 2017; a suo dire uno dei principali esponenti della loggia. Al di là del fatto che l'accusato non può replicare, Amara ha ricostruito una storia in cui l'allora magistrato avrebbe svolto un ruolo di mediazione per alleggerire la posizione dell'ex pm di Siracusa Maurizio Musco, amico di Amara successivamente rimosso dall'ordine giudiziario e all'epoca inquisito in un procedimento dov' era contestata addirittura l'aggravante di aver favorito la mafia. Tinebra, secondo Amara, si adoperò per ridimensionare le accuse e aprendo la strada al patteggiamento per un reato minore che poi si sarebbe impegnato a far prescrivere. Gli inquirenti dovranno ora verificare questa versione per confermarla o smentirla, come hanno già fatto prima di chiedere l'archiviazione per l'ex componente del Consiglio superiore della magistratura Marco Mancinetti, di cui Amara aveva rivelato presunti favori richiesti per il figlio. Gli atti su Mancinetti sono poi stati trasmessi a Milano (dove l'avvocato aveva fatto le sue dichiarazioni) per valutare eventuali calunnie. Anche la Procura di Potenza, che a giugno aveva fatto arrestare e poi liberare Amara nell'indagine su una presunta corruzione, ha raccolto nuove dichiarazioni dell'indagato che ritiene riscontrate in buona parte. La Procura di Catania, invece, ha chiesto l'archiviazione per l'ex procuratore di Gela Lucia Lotti, di cui pure ha parlato l'avvocato, e ora il giudice delle indagini preliminari ha fissato l'udienza per discuterne. Al Csm Cantone ha comunicato che al momento non ci sono altri magistrati romani iscritti sul registro degli indagati, dove invece compaiono (per il reato di associazione segreta) i nomi di Amara e un paio di suoi amici che avrebbero collaborato con lui a raccogliere e conservare le prove sull'esistenza della loggia. Come l'avvocato siracusano Giuseppe Calafiore, che ai pm di Milano ha consegnato registrazioni di colloqui da cui si dovrebbe evincere che «Ungheria» non è un'invenzione. La partita che l'avvocato, assistito dai difensori Salvino Mondello e Francesco Montali, ha ricominciato a giocare è quella della credibilità, anche per puntare a uscire dal carcere. Il tribunale di sorveglianza di Roma gli ha negato, per ora, l'affidamento in prova sostenendo che «la condotta collaborativa, fino ad oggi riconosciuta, ben può essere frutto di scelte dettate da opportunità processuale, tant' è vero che essa è stata la condizione necessaria per ridurre la pena e "patteggiare"». Tuttavia «l'attività collaborativa è tuttora in corso, e va ancora vagliata l'attendibilità delle propalazioni rese nei numerosi procedimenti giudiziari». Secondo i giudici di Roma quella di Amara è la «personalità complessa di un soggetto invischiato in faccende che si inseriscono in un contesto criminale di spessore che destabilizza totalmente le istituzioni statuali. La vastità delle condotte tenute - affermano - inserite nelle pagine più "nere" che hanno investito i gangli vitali dell'amministrazione della giustizia, è stata tale da aver dominato e inquinato la storia giudiziaria del nostro Paese degli ultimi anni». 

La replica di Musco: “Mai favorito la mafia o patteggiato procedimenti”. Redazione de Il Riformista il 23 Settembre 2021. In merito all’articolo pubblicato mercoledì 22 settembre dal titolo “Loggia Ungheria, Amara torna a parlare: l’avvocato tira ancora in ballo Tinebra e la “mediazione” per salvare l’ex pm Musco”, riceviamo e pubblichiamo una lettera di smentita da parte dello stesso Maurizio Musco. Musco smentisce infatti quanto riportato dal Corriere della Sera e citato da Il Riformista. In una lettera al direttore Piero Sansonetti l’ex pm spiega che “al sottoscritto non è mai stato, anche solo, contestato, da alcuna Procura della Repubblica Italiana, un reato con ‘l’aggravante di aver favorito la mafia’; il sottoscritto mai ha definito un procedimento penale con patteggiamento, né i propri difensori hanno mai formulato, o anche solo ipotizzato, una proposta di patteggiamento nell’ambito dei procedimenti che lo hanno riguardato; per quanto riguarda al sottoscritto, non corrisponde al vero che ” Tinebra, secondo Amara, si adoperò per ridimensionare le accuse e aprendo la strada al patteggiamento per un reato minore che poi si sarebbe impegnato a far prescrivere”, così come non corrisponde al vero – almeno alla stregua di quanto da me appreso nei recenti verbali dell’avv. Amara pubblicati da vari quotidiani – che costui abbia rilasciato siffatta dichiarazione; non corrisponde al vero che il sottoscritto sia stato rimosso dall’Ordine giudiziario a causa di un procedimento “dov’era contestata l’aggravante di aver favorito la mafia”. Il vero è che il sottoscritto è stato destituito in relazione all’illecito disciplinare di “violazione dell’obbligo di astensione” di cui all’art. 2, lett c) del D.Lg.s 109/2006. Con la precisione che nel capo di incolpazione dell’omessa astensione non mi veniva contestato né di aver favorito l’avv. Amara o i suoi assistiti né di aver danneggiato terze persone. Nella sentenza di destituzione, invero, si legge, a pag. 28, che “nell’udienza preliminare nella quale il dott. Musco doveva astenersi non si era verificato il compimento di atti di favore” nei confronti dell’imputato assistito dall’avv. Piero Amara”.

Rivelazione Boccassini: ''Tinebra ore in stanza con Scarantino prima degli interrogatori''. Aaron Pettinari su amduemila il 20 Febbraio 2020. L'ex magistrato sentita oggi al processo sul depistaggio di via d'Amelio. "Tutti potevano capire che diceva sciocchezze". Vincenzo Scarantino? "Non era credibile"; "i dubbi c'erano fin dall'inizio"; "era un mentitore", "si doveva capire subito che era inattendibile", "era un poveraccio". Con queste parole, più volte, l'ex procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, andata in pensione lo scorso dicembre, ha ribadito quella che era la propria posizione sul "picciotto della Guadagna". Un vero e proprio let motive dell'ex magistrato, sentito oggi al processo sul depistaggio della strage di via d'Amelio che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo ed Enrico Mattei, accusati di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Intervenuta in videoconferenza da Milano, in quanto impossibilitata a raggiungere il Tribunale di Caltanissetta per motivi di salute, la Boccassini ha ripercorso quello che è stato il suo coinvolgimento nelle indagini sulle stragi del 1992. Un impegno che l'ha vista, come applicata alla Procura di Caltanissetta, dal dicembre di quell'anno fino all'ottobre del 1994. Una vera e propria deposizione fiume dove non sono mancati i momenti di nervosismo, in particolare durante i controesami delle parti civili che hanno chiesto conto, comunque, di una serie di fatti che hanno visto il magistrato protagonista. Come aveva già fatto al Borsellino quater ha ribadito che "la prova regina della non credibilità di Vincenzo Scarantino proviene dalla sua collaborazione" perché "man mano che si andava avanti negli interrogatori si vedeva che stava dicendo delle sciocchezze". Considerazioni e perplessità che aveva messo nero su bianco nella lettera firmata assieme al collega Roberto Saieva ed inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo. A suo dire si era "ancora in tempo per correre ai ripari ed evitare cose che negli anni avrebbero pregiudicato tutto". Eppure, pur confermando le critiche nei confronti dei colleghi come Annamaria Palma e Carmelo Petralia, entrambi indagati per calunnia aggravata dalla Procura di Messina, che "davano credito al collaboratore", ha aggiunto di non aver mai pensato "a un depistaggio". Ad un certo punto, però, rispetto quella che era sempre stata la sua "vulgata", ha anche offerto un elemento inedito: "Quando Scarantino arrivava in procura a Caltanissetta, si chiudeva in una stanza da solo con il Procuratore Tinebra. Non so il tempo preciso ma per un bel po'. Poi Tinebra apriva le porte e si entrava a fare l’interrogatorio. Alla luce di questo, di tutti i miei tentativi di cambiare metodi e atteggiamenti, dei colleghi che non vedevano l'ora che me ne andassi, scrissi una seconda relazione. Tutti sapevano, tutti conoscevano questa relazione, dove mettevo per iscritto che secondo me si dovevano rispettare i codici". Inoltre ha fatto riferimento a relazioni "sparite" in cui parlava della inattendibilità di Scarantino e che sarebbe stata "mandata via" dalla Procura proprio perché aveva iniziato "a capire che Scarantino diceva sciocchezze".

"Cocca mia, arrangiati". Rispondendo alle domande dei pm la Boccassini ha parlato del suo arrivo alla Procura di Caltanissetta: "Mi sono occupata in maniera quasi esclusiva della strage di Capaci, quando sono arrivata a Caltanissetta erano già applicati altri colleghi. Il primo periodo, parliamo del dicembre 92, fu per me soltanto quello di esaminare una massa informe di carte senza nessun ordine e collocazione. Ricordo con affetto, quando arrivai alla Procura di Caltanissetta, una frase dell’allora Procuratore capo Giovanni Tinebra, che io non conoscevo, e mi disse: ‘Cocca mia, qua ci sono le carte. Arrangiati, vedi cosa devi fare’. Questo fu il primo impatto. Con il collega Fausto Cardella anche lui applicato, che si occupava con altri colleghi della strage di via d’Amelio ci fu un confronto, anche perché nacque quasi subito un rapporto di amicizia. Gli altri colleghi che si occupavano delle stragi che erano volontari, si occuparono in quel momento della indagine ‘Leopardo’ a seguito delle dichiarazioni di Leonardo Messina. Non conoscevo Tinebra e mi stupii molto quando mi arrivò la richiesta per essere applicata a Caltanissetta”. Tra i suoi primi impegni proprio le indagini sulla strage di Capaci: "Quando arrivai come pm applicato alla Procura di Caltanissetta, la prima decisione fu quella di rifare il sopralluogo a Capaci, perché leggendo le carte, e non solo la ricostruzione, mi resi conto che era stato fatto male. Mancava una regia". Così ha ricordato che fu rifatto il sopralluogo a Capaci "coinvolgemmo tutte le forze dell'ordine, dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, alla Polizia fino all'Fbi e tutte le forze possibili". "Il primo periodo fu dedicato esclusivamente a questo - ha aggiunto - ci fu una divisione di compiti delle forze di polizia che dovevano partecipare all'indagine sulle stragi ma con competenza specifica". 

Dubbi immediati. Pian piano ha poi iniziato ad occuparsi anche delle indagini sulla strage di via d'Amelio. "Quando io sono arrivata alla Procura di Caltanissetta, anche parlando con i colleghi che già c'erano e con il capo dell'ufficio e lo stesso dottor Arnaldo La Barbera, i dubbi su Scarantino già c'erano - ha ribadito - I dubbi su una persona che non era di spessore, anzi che non era per niente di spessore. Il suo quid, se così possiamo chiamarlo, era una parentela importante in Cosa nostra, però sin dall’inizio, io avevo delle perplessità. Forse all'inizio avevo meno perplessità perché non ero ancora entrata nelle carte, nella mentalità. Io ero lì in attesa, ma anche degli altri nessuno gridava “ma che bella questa cosa”. Tutti erano con i piedi di piombo su questa cosa. Era l'inizio ancora e bisognava andare avanti per vedere se l'indagine portava a qualcosa di più sostanzioso". Per quel motivo, a suo dire, nell'agosto del 1994, aveva chiesto al Procuratore Giovanni Tinebra di potere partecipare agli interrogatori di Scarantino e rinviare le ferie, ma il Procuratore la mandò in vacanza. "Mi porto dietro un po' di amarezza, non solo l'indifferenza e il fastidio di quello che si diceva acuito col ritorno dalle ferie - ha detto oggi anche sfogandosi -, a essere venuta fuori dai giochi era la prassi, vuoi per leggerezza o per sciatteria, le ragioni potevano essere tante, sta di fatto che non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti lavorando sulla dinamica delle stragi". E ancora una volta ha parlato delle differenti opinioni con i colleghi: "La dottoressa Palma e il dottor Petralia erano più propensi a credergli, o meglio, meno propensi a una critica, Giordano invece faceva l'aggiunto e quindi sapeva e non sapeva. La sorpresa, per me e Saieva, furono gli interrogatori in nostra assenza. Anche per i sopralluoghi e il riconoscimento da parte di Scarantino dell'autocarrozzeria Orofino, io ho saputo queste cose dai giornali, che poi bisogna vedere anche se è vero". "Io - ha raccontato - ero disponibile persino a un trasferimento d'ufficio da Milano alla Procura di Caltanissetta, ero disposta a restare anche per la tutela delle indagini. Ma l'allora Procuratore Tinebra disse 'assolutamente no', cioè non mi volevano. Ero servita solo a far fare carriera a tutti, a quel punto dovevo andare via. Ma io sono stata così imbecille da chiedere il trasferimento d'ufficio per continuare le stragi, ero disponibile a fare questo ulteriore sacrificio". Allontanando da sé ogni responsabilità ha nuovamente puntato il dito verso i colleghi ("Se avessero seguito le mie indicazioni, sia i pm che gli avvocati avrebbero avuto il tempo, la professionalità per capire che Scarantino non era credibile") e prima di concludere l'esame ha affermato: "Io, purtroppo, non ho svolto un ruolo, nelle indagini sulla strage di via D'Amelio". Esattamente l'opposto di quanto sostenuto nelle scorse udienze dal pm Carmelo Petralia. Quest'ultimo aveva affermato che il ruolo della Boccassini era stato "preminente nelle indagini su via d'Amelio" e con "un ruolo attivo sia per gli aspetti di valorizzazione degli elementi gravemente indiziari su Scarantino che per la genesi della sua collaborazione". E nella conferenza stampa del 19 luglio 1994, tenuta assieme a Giovanni Tinebra sugli sviluppi delle indagini sulla strage di via d’Amelio, proprio la Boccassini affermava: "I collaboratori di giustizia sono una realtà essenziale per il paese. Lo ha dimostrato ancora una volta l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino. Ma è arrivata, lo ripeto, questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva". Durante l'esame la Boccassini ha spiegato che "con i colleghi già a luglio c'erano state discussioni precise, c'erano due parti contrapposte: una di queste riteneva di andarci coi piedi di piombo perché lui appariva debole e poco credibile, anche se a luglio gli abbiamo dato comunque una possibilità considerando che magari avesse paura, che avesse il pensiero alla famiglia a Palermo, cose normali di cui si tiene conto coi collaboratori".

Colloqui investigativi. Ciò non spiega comunque il motivo per cui vennero effettuati "anomali" e numerosi colloqui investigativi che si sono tenuti sia prima della collaborazione con la giustizia di Scarantino, che dopo. Oggi in aula l'ex pm milanese ha affermato: "Non ho mai sollecitato colloqui investigativi con Vincenzo Scarantino per sondare il terreno. Alcuni colloqui investigativi sono sorti su sollecitazione dello stesso Scarantino in altri casi è possibile, ma non lo ricordo con precisione, che in alcune occasioni sia avvenuto su impulso della stessa Procura, oppure della Polizia di Stato, di fare dei tentativi nei confronti di Scarantino. Ma, ripeto, non sono stata io a sollecitare i colloqui con Scarantino perché non mi occupavo di lui con attività esclusiva". Eppure agli atti vi è la "maratona", avvenuta tra il 4 ed il 13 luglio, in cui venivano effettuati i colloqui, spesso nei giorni antecedenti le verbalizzazioni con i magistrati. Verbalizzazioni che in quattro occasioni si sono tenute con la partecipazione della stessa dottoressa Boccassini di cui una, il 15 luglio, alla sola presenza della stessa e di Arnaldo La Barbera. E sempre agli atti vi sono i colloqui investigativi post collaborazione con la giustizia si erano verificati anche con il falso pentito Francesco Andriotta. Ma l'ex procuratore aggiunto di Milano nulla sapeva. "Lo apprendo dai giornali - ha ribadito oggi - ho scoperto che ce ne sono anche alcuni a mia firma. Di questi colloqui investigativi non mi ricordavo, vuol dire che quindi non davo troppa importanza a questa vicenda. Scarantino comincia questa collaborazione a giugno '94, erano gli ultimi miei mesi di permanenza, avevo ancora molto lavoro da fare, quando Tinebra mi chiamò per dirmi che lui voleva collaborare io gli dissi di non contare su di me perché stavo per andare via e dissi di affidarsi agli altri colleghi che sarebbero rimasti a Caltanissetta". Dunque perché nella lettera di ottobre, quando davvero i termini erano prossimi allo scadere, si lamentava per essere stata esclusa? Rispondendo alle domande dell'avvocato Fabio Repici è tornata a parlare del primo interrogatorio a Pianosa del 24 giugno '94: "Tinebra voleva che fossi presente. Io, siccome sono un soldato, sono partita. Ci fu un viaggio in notturna in elicottero, penso che ci fosse anche Petralia con me".

Facile che l'ex pm ha confuso il viaggio con un altro perché, documentatamente, è noto che quell'interrogatorio ebbe inizio alle 20.30. Ugualmente non ricorda se Arnaldo La Barbera viaggiò con lei o se si trovasse già a Pianosa con Scarantino. Ed è a quel punto che la Boccassini ha mostrato un certo nervosismo: "Inutile che cercate di farmi cadere in contraddizione, sono passati 30 anni, io risponderò sempre che 'non lo ricordo'". Anche rispetto ad un altro interrogatorio di febbraio non ha memoria: "Ero talmente impegnata in quel periodo che già mi meraviglio del fatto che fossi andata io a interrogare Scarantino. Mi spiace, capisco che do l'impressione che nella mia mente ci sia più Capaci che D'Amelio, ma non potevo occuparmi di tutto non stando giù, non era possibile fare più di tanto. Forse, in generale, il fatto di fare colloqui investigativi coi collaboratori era una prassi, tanto che poi è subentrata una normativa per sopperire agli errori fatti dai colleghi. Se quei colloqui servivano per addestrare il collaboratore, i colleghi andrebbero cacciati da ogni funzione pubblica, sul punto si poteva capire che Scarantino era inattendibile, è ridicolo". 

Niente Servizi. Durante l'esame dei pm ha anche detto di "non avere mai saputo di eventuali rapporti tra la Procura nissena e i servizi segreti", dopo le stragi. Quindi ha detto di aver saputo “della notizia di una collaborazione tra i servizi segreti e la Procura di Caltanissetta solo da giornali". Ed ha aggiunto: "Io vidi Contrada per la prima volta durante un interrogatorio a Forte Braschi. Da quando sono stata a Caltanissetta non ho saputo di un rapporto con i servizi che poi, non in mia presenza, colleghi si incontrassero con esponenti dei servizi segreti non lo so. Ma devo aggiungere una cosa: davanti alle due stragi che hanno sconvolto il mondo e hanno destabilizzato le istituzioni che il procuratore abbia avuto contatti con i servizi non mi sembra una cosa terribile ma fa parte delle cose di un normale nucleo di rapporti che sono nati e cresciuti e mantenuti nel limite della legge. Ma questo non lo so”.

La lettera con Saieva. Quindi è tornata a parlare di quel documento firmato con Saieva: "Su Vincenzo Scarantino vi erano visioni completamente diverse - spiega il magistrato - Gli altri colleghi erano propensi a dire da subito 'bene, Scarantino sta collaborando'. Ma per me c'erano delle perplessità. Molte perplessità. Tant'è che volevo persino annullare le mie ferie per partecipare agli interrogatori. Ma la risposta di Tinebra fu: 'ti sei sacrificata tanto, ora te ne vai in ferie', e così tornai a settembre. Ma il patatrac per me e Roberto Sajeva fu quello che leggemmo al nostro ritorno. Essere tenuta fuori dai giochi era la prassi. Vuoi per leggerezza, vuoi per sciatteria, non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti nella dinamica investigativa delle due stragi". Quindi ha denunciato: "La relazione che io e il collega Roberto Saieva facemmo sulla non credibilità di Vincenzo Scarantino era sparita da Caltanissetta ma io ne avevo diverse copie. Fino alla fine dissi ai colleghi che bisognava cambiare metodo, che Scarantino andava preso con le molle. Vedendo che c’era questa voglia che io andassi via da Caltanissetta scrissi la seconda relazione. Soltanto con il pentimento di Spatuzza nel 2008, ricevetti una telefonata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta che mi chiese se era vero che io avevo scritto delle relazioni con Roberto Saieva. Erano sparite. Io e Saieva, dopo averne parlato con Giancarlo Caselli, mandammo le relazioni direttamente a Palermo”. “Sono qui per la quarta volta - ha affermato con forza durante il controesame - a ripetere sempre le stesse cose sentendomi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni che avrebbero potuto dare una scossa diversa a quei processi". Durante il controesame su questi argomenti la Bocassini più volte ha detto di "non comprendere il senso di certe domande volte soltanto a farmi cadere in contraddizione". Il presidente del Collegio l'ha invitata "a rispondere alle domande senza aggiungere commenti" e ribadendo che "l'ammissibilità delle domande, lo sono fino a quando non si dichiara diversamente". "Non credo che tutti i colleghi rimasti abbiano preso a cuore l'andazzo un po' leggero di Tinebra - ha proseguito-. C'era un clima troppo accondiscendente nei riguardi di Scarantino, per questo la famosa lettera la mandammo anche a Palermo, se nel 2008 non arrivava Spatuzza forse delle due relazioni ne restava solo un mio ricordo. Quello che è successo dal '94 in poi l'ho leggiucchiato dai giornali, ero impegnata a Milano in ben altre vicende".

Quindi, nonostante i richiami, non ha voluto far mancare un momento di stucchevole ironia: "Se non avessi fatto le relazioni in cui manifestavo le mie perplessità sulla genuinità del pentimento di Scarantino e non ne avessi per altro conservato copia, oggi mi avrebbero addossato tutte le responsabilità e le colpe, chissà... magari per me avrebbero riaperto Pianosa, anche se io preferisco l'Asinara. Menomale che ne avevo una copia". 

Boccassini vs Genchi. Altro argomento ha riguardato le divergenze con l'ex poliziotto ed ex consulente informatico, Gioacchino Genchi. Per il magistrato milanese questi non era altro che "una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati che aveva raccolto. E poi vedeva complotti e depistaggi ovunque". In particolare la Boccassini non vedeva di buon grado alcuni approfondimenti che Genchi avrebbe voluto fare sui viaggi di Falcone negli Usa. "Non mi piacque questo suo atteggiamento - ha dichiarato intervenendo dal tribunale di Milano - chiese persino di indagare anche su Giovanni Falcone, dopo la strage di Capaci, chiese di esaminare persino le sue carte di credito. Non mi piacque e lo dissi a Tinebra, gli spiegai: 'Le analisi dei tabulati le può fare chiunque'. Ne parlai anche a La Barbera - ha aggiunto - che era d’accordo sul fatto che non si poteva pendere dalle labbra di uno come Genchi. Il suo apporto alle indagini fu nullo. Era un tecnico, non un investigatore, quindi non poteva apportare nulla a un’indagine così seria. Insomma, non mi piaceva il suo modo di lavorare, così fu allontanato. Tinebra non voleva perdere la mia capacità lavorativa, quindi da quel momento Genchi non si è più occupato di stragi". Eppure, nel corso dell'esame, ha anche ricordato che "una delle prime ipotesi di lavoro era che il telecomando fosse stato azionato da castello Utveggio dove si diceva ci fosse una postazione Sisde. Su questi punti le indagini erano partite quasi subito". Un'ipotesi investigativa che proprio Genchi aveva indicato. Tra le inchieste aperte ricordate dalla Boccassini anche quella sulla "presenza di Bruno Contrada in via D'Amelio, ma dai riscontri risultava che, al momento dell'esplosione che uccise Borsellino e gli agenti di scorta, fosse altrove, in barca con un gioielliere palermitano. Sulla pista dei mandanti esterni e della sua presenza in via D'Amelio il giorno della strage abbiamo fatto tutto quello che era umanamente possibile fare".

Alta tensione. Altro momento di tensione, oltre a quelli con gli avvocati, ha visto protagonisti anche i magistrati nel momento in cui l'ex pm del pool sulle stragi mafiose ha dichiarato: "Non fa onore a chi indossa la toga avere raccolto certe dichiarazioni, come quando Scarantino disse di essere stato minacciato da me e da La Barbera. Questa era una calunnia bella e buona ma non sono stata tutelata". Parole che hanno portato il pm Stefano Luciani a chiedere al Presidente del Tribunale D'Arrigo di "far presente alla teste che si deve limitare a rispondere alle domande. Non siamo qui per prendere lezioni da nessuno: visto che si parla di decoro delle toghe, cosa si doveva fare in quel caso, non verbalizzare quello che diceva Scarantino?". Successivamente gli animi si sono nuovamente riscaldati quando la Boccassini, sempre rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici, che le chiedeva perché “in questi anni non aveva mai detto degli incontri tra il Procuratore Tinebra e Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori”, ha controreplicato: “Sono 30 anni che mi chiedo perché su questi fatti Tinebra non è mai stato sentito da Caltanissetta”. A questo punto il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha detto: “Evitiamo di trasformare questo processo in una sorta di mercato. Tinebra fu sentito nel Borsellino quater (per onore di cronaca va ricordato che ciò avvenne su citazione delle parti civili, ndr) e quindi evitiamo di fare commenti”. A quel punto è intervenuto il presidente del Tribunale Francesco D’Arrigo che ha chiesto a “tutti di abbassare i toni”. L’ex aggiunto di Milano ha anche raccontato che tra il 1992 e il 1994 “diversi collaboratori di giustizia parlarono di moltissimi magistrati siciliani, tantissimi, oppure ne volevano parlare, ma non era mai il momento buono”. E ha fatto il nome di Pietro Giammanco, ex procuratore capo di Palermo. “E’ stato poi iscritto nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori - ha ricordato - era uno dei tanti magistrati indagati a Caltanissetta”. Rispondendo alle domande dell'avvocato Giuseppe Panepinto, legale di Mario Bo, sulla presenza del suo assistito durante i colloqui investigativi con Vincenzo Scarantino l'ex pm ha risposto: "Non ricordo che ai colloqui investigativi fatti con Vincenzo Scarantino in mia presenza ci fosse anche Mario Bo. Ma non escludo che ci fosse, la sua presenza sarebbe stata legittima come per altri funzionari. Per quelli fatti in cui c'ero anche io comunque tenderei ad escluderlo". L'avvocato Panepinto ha anche chiesto se fosse possibile che la presenza di un investigatore non fosse stata messa a verbale, cosa che la Boccassini ha escluso. "Non avrei mai consentito ha detto il magistrato - che non fosse verbalizzata la presenza di chiunque partecipasse agli interrogatori". Alle sette di sera, dopo aver iniziato l'esame alle 10 del mattino, si è conclusa la deposizione e il processo è stato rinviato al prossimo venerdì, il 28 febbraio, per sentire due agenti della Dia.

Giravolta del Fatto: “Amara è un bluff”, ma Cantone lo riteneva credibile…Paolo Comi su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Al Fatto Quotidiano pensano di avere anche ragione. Prima occultano per 11 mesi, con la scusa di “non compromettere le indagini”, i verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria che hanno ricevuto in busta chiusa dalla ex segretaria di Piercamillo Davigo. E poi, dopo averli pubblicati fuori tempo massimo, si lasciano andare alla facile ironia nei confronti dei quotidiani che hanno osato evidenziare questo singolare modo di agire da parte di un giornale noto per pubblicare qualsiasi velina di Procura. Forse è il caso di ricordare che la pubblicazione di questi verbali dopo un anno ha permesso alla Procura di Milano di coltivare le accuse nei confronti dei vertici dell’Eni e del giudice Marco Tremolada che era chiamato a giudicarli, e alla Procura di Perugia di ottenere il rinvio a giudizio di Luca Palamara. Adesso, per tutti, Amara è un millantatore seriale che si è inventato l’esistenza della loggia Ungheria. Ma è sufficiente tornare indietro di qualche settimana per vedere uno scenario completamente diverso. Il procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone, davanti al gup Piercarlo Frabotta, all’udienza del 16 luglio 2021 nel processo a carico di Palamara per corruzione, per giustificare le modifiche delle imputazioni fatte sulla base delle dichiarazioni del “pentito” Amara, infatti, aveva affermato che «la vera modifica al capo d’imputazione avviene quando viene sentito Amara e Amara viene sentito nell’ambito di un interrogatorio programmato che viene fatto nell’ambito del processo ‘Ungheria’, adesso si può dire per fortuna, e nell’ambito di quell’interrogatorio che io non dimentico perché io ero a casa col Covid ma ovviamente continuavo a seguire tutto quello che accadeva». E poi: «Fu lui spontaneamente a voler parlare del dottor Palamara e fece quelle dichiarazioni che furono oggetto di riscontro». Cantone era talmente convinto della bontà della testimonianza dell’avvocato siciliano da aggiungere che «le dichiarazioni di Amara hanno avuto un vaglio che era quello richiesto dalla giurisprudenza delle dichiarazioni di un imputato di procedimento connesso e hanno ricevuto numerosi riscontri, numerosi riscontri all’interno delle chat e numerosi riscontri all’esterno con dichiarazioni di soggetti informati sui fatti e quindi è chiaro che quella vicenda imponeva la modifica del capo di imputazione». Se per Cantone Amara era attendibile quando parlava di Ungheria e Palamara, di diverso avviso era il predecessore Luigi De Ficchy, procuratore di Perugia fino al 2 giugno 2019. De Ficchy, che aveva fatto dal 3 maggio 2018 la stessa indagine della quale parla Cantone, questa settimana ha fatto sapere «di aver già provveduto a denunciare per calunnia l’avvocato Amara per l’affermazione secondo la quale avrei fatto parte della Loggia Ungheria». Ed inoltre: «Smentisco di aver mai richiesto all’avvocato Amara da me mai incontrato né personalmente conosciuto di segnalare, per la conseguente assunzione, il nominativo di mio figlio Francesco allo studio legale DLA Piper di Roma struttura della quale mio figlio non ha mai fatto parte e con la quale non ha intrattenuto rapporti lavorativi di sorta». Non si comprende, quindi, come De Ficchy possa affermare che Amara è un calunniatore e Cantone possa ritenere che il “calunniatore Amara” è attendibile contro Palamara. De Ficchy, peraltro, non aveva negato di conoscere l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il corruttore dell’ex presidente dell’Anm che agiva per conto di Amara. Palamara questa settimana ha presentato un esposto chiedendo di sapere come mai Centofanti, a differenza sua, non venne mai perquisito o intercettato con il trojan. L’ex procuratore del capoluogo umbro sul punto ha chiamato in causa i pm titolari del fascicolo. Per Centofanti, come è noto, non vennero chiesti neppure i tabulati telefonici. Un accertamento tecnico effettuato, ad esempio, per i giornalisti Marco Lillo del Fatto Quotidiano e Giacomo Amadori della Verità, mai indagati, in un’altra indagine a carico di Palamara e dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, quella per la fuga di notizie a proposito del dossieraggio nei confronti del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo. Paolo Comi

La spericolata giravolta. Travaglio cambia di nuovo idea, per il Fatto Quotidiano Amara diventa di nuovo credibile…Paolo Comi su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Contrordine: Piero Amara non è più un pericoloso millantatore ma è tornato nuovamente a essere un pentito serio e attendibile. Dopo la pubblicazione la scorsa settimana dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato siciliano sulla Loggia Ungheria, come si ricorderà, erano fioccate le smentite e le querele da parte dei soggetti chiamati in causa. Amara aveva fatto ai pm di Milano Laura Pedio e Paolo Storari, alla fine del 2019, decine e decine di nomi di magistrati, di alti ufficiali delle forze dell’ordine, di professionisti, e di imprenditori. Il Fatto Quotidiano, che aveva avuto i verbali di Amara e aveva aspettato quasi un anno per pubblicarli, aveva titolato “Amara costruiva le accuse e poi le offriva ai magistrati”, ricordando anche l’indagine per calunnia nei suoi confronti. Ieri, invece, il cambio di passo. Un deciso cambio di passo: “Loggia Ungheria, primi ‘riscontri’ dei pm sulle rivelazione di Amara”. Cosa è successo? Pare che il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che indaga su Ungheria, abbia risentito Amara in questi giorni, trovando dei riscontri alle sue testimonianze. Amara si trova attualmente in carcere in quanto, per una precedente condanna, il Tribunale di sorveglianza ha respinto la sua richiesta di affidamento. A Perugia, comunque, Amara è già stato indagato per millantato credito e traffico di influenze illecite. Il procedimento penale ha riguardato anche l’avvocato Giuseppe Calafiore che avrebbe dato 30mila euro all’ex componente dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi), il maresciallo dei carabinieri, Loreto Francesco Sarcina come presunto prezzo di una mediazione illecita. L’ex 007, sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali si era fatto consegnare questa somma per reperire informazioni sulle indagini in corso nei confronti di Amara e Calafiore presso le Procure di Roma e di Messina. Inoltre, parte di questa somma sarebbe servita per remunerare i magistrati in servizio presso la Procura della Capitale co-assegnatari di un procedimento nell’ambito del quale i due erano sottoposti a indagini e rispetto ai quali Sarcina millantava credito. Si trattò, come venne accertato, di una calunnia di Amara nei riguardi dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, l’unico magistrato italiano che voleva arrestarlo e sequestrarne l’ingente patrimonio. Interrogato dalla Procura di Roma il 17 luglio 2018 sulle fonti investigative che gli consentivano di avere notizie delle indagini a suo carico, Amara aveva fatto il nome di Sarcina. Ad Amara venne quindi chiesto chi fosse materialmente a fornire a Sarcina le notizie visto che costui non era tra coloro che facevano le indagini essendo in forza ai servizi di intelligence. A quel punto Amara tirò fuori dal cilindro proprio il nome di Fava, dicendo di averlo appreso dallo stesso Sarcina, posto che Amara e Fava non si erano mai conosciuti e non avevano avuto alcun rapporto né diretto né indiretto. Inoltre Amara era anche in possesso dei files delle informative prima ancora che venissero depositate in Procura e quindi la sua fonte poteva essere soltanto qualcuno della guardia di finanza, il reparto che stava svolgendo le indagini, che però Amara non ha mai rivelato nei suoi innumerevoli interrogatori. Sarcina, ed ecco il colpo di scena, venne interrogato dal colonnello del Gico della finanza Gerardo Mastrodomenico, lo stesso che aveva fatto le indagini su Luca Palamara, e dall’aggiunto Paolo Ielo il 7 marzo 2019 a Regina Coeli, dopo essere stato arrestato. Sarcina dichiarò di aver avuto le notizie, poi vendute ad Amara per 30mila euro, da un dipendente della Procura generale di Roma di nome Gennaro De Pasquale, cugino di un procuratore che si chiama De Pasquale che gli aveva detto di averle avute da alcune sue fonti della guardia di finanza e dallo stesso Ielo. Praticamente da coloro che stavano svolgendo l’interrogatorio in quel momento. Un colpo di teatro. Paolo Comi 

Prendi i soldi e poi fallisci, nei guai l’imprenditore amico di Amara e dei politici Cuffaro e Romano. Augusto Reitano, arrestato per bancarotta, è un immobiliarista messinese con uffici a Milano e Roma. Negli anni dei governi Berlusconi e Cuffaro ha ricevuto oltre 100 milioni di euro per costruire alberghi. Una sua società ha poi fatto crac e la procura di Messina lo accusa di aver distratto somme ingenti ed evaso imposte per 23 milioni. Antonio Fraschilla su L’Espresso il 24 settembre 2021.Era il re della 488, così chiamavano Augusto Reitano negli anni d’oro, tra il 2001 e il 2006 durante i governi di Salvatore Cuffaro in Sicilia e Silvio Berlusconi a Roma. Per lui con contratti Cipe e fondi Ue sono stati stanziati in quegli anni oltre 103 milioni per realizzare alberghi e rilanciare il turismo nell’Isola. Proprio negli stessi anni faceva l’immobiliarista a Milano, con società che vedevano tra i soci anche l’ex ministro Saverio Romano: il tutto per ristrutturare le fabbriche Watt, dove avranno poi appartamenti anche l’ex governatore Salvatore Cuffaro e il politico scomparso Giuseppe Drago (allora tutti compagni di partito nell’Udc e poi nel Pid). Consulente di Reitano è Piero Amara, l’avvocato che ha corrotto giudici per pilotare sentenze e che con le sue dichiarazioni sta mettendo in crisi la magistratura. Dalla fama alla polvere, adesso, dopo che la procura di Messina guidata da Maurizio De Lucia ha chiesto e ottenuto l’arresto per bancarotta fraudolenta di alcune società. Ma andiamo per ordine.

I legami con Amara. Nei giorni scorsi Reitano è stato arrestato perché secondo le indagini del nucleo di polizia economico finanziaria di Messina il fallimento della sua azienda “Network cable srl” è stato causato da una costante distrazione di somme ad altre società sempre riconducibili alla galassia guidata, in maniera occulta, da Retiano attraverso prestanome (altri due sono stati indagati). La società attiva nel settore della fabbricazione di apparecchi per le telecomunicazioni avrebbe poi evaso imposte e Iva per 23 milioni di euro: soldi che sarebbero stati utilizzati per altri investimenti, come la costruzione di alberghi e villaggi turistici. Interrogato dai Finanziari, un commercialista di Reitano innanzitutto fa il nome di Amara. Giuseppe Cirasa consulente della Network Cable fallita dice agli inquirenti: «Gli unici rapporti li ho avuti con   Augusto Reitano il  quale  mi  è stato presentato  la  prima  volta  dall'avvocato  Piero Amara». Amara ha chiesto poi a Cirasa di fare il commercialista anche di altre società di Reitano. Scrivono i magistrati: «Del resto lo stretto collegamento esistente tra la società fallita ed altre società facenti parte del gruppo  (M&G srl e Marcona srl) si ricava anche dalle dichiarazioni rese da Giuseppe Cirasa, il quale ha riferito di essere stato contattato dall’avvocato Amara di Siracusa per svolgere l'incarico di consulente tributario per le tre società. Peraltro il Cirasa risulta convolto nell'operazione denomninata Sistema come risulta dalla sentenza in atti emessa in data 4 dicembre 2018 da cui risulta che al predetto è stata applicata la pena di mesi otto e giorni sei di reclusione in relazione ai reati di falso commessi in concorso  con Longo Giancarlo». Il Sistema Siracusa è il cuore dell’ascesa di Amara attraverso le prime corruzioni di giudici e pm per avere sentenze favorevoli o per ostacolate indagini contro l’Eni.

Gli investimenti con i politici. Il nome di Amara torna poi in un'altra partita che vede protagonista Reitano, questa volta con politici importanti di Sicilia. Nel 2013 la Da.gi srl, società che per gli inquirenti è riconducibile ad Amara, rileva il 100 per cento delle quote della Roma Uno Immobiliare che ha in pancia otto appartamenti appena ristrutturati in via Giacomo Watt a Milano. Il prezzo pagato è di 600 mila euro versati ai soci, più la presa in carico di un mutuo da quasi un milione di euro. Di chi sono le quote della Roma Uno Immobiliare? Dell’ex ministro Saverio Romano e della moglie Stefania Martorana. Romano infatti nei primi anni Duemila, insieme a Reitano, ha ristrutturato le ex fabbriche Watt e comprato poi 20 appartamenti per un valore di 4 milioni di euro. Nello stesso complesso di via Watt avevano appartamenti anche l’ex governatore siciliano Salvatore Cuffaro e l’ex presidente della Regione Giuseppe Drago. Reitano da sempre è amico di questa area politica, tanto che la moglie nel 2011 è stata candidata anche al consiglio comunale di Napoli nel partito di Romano e Cuffaro. In quegli anni Reitano è un imprenditore in vista, considerato appunto il re della 488 e dei fondi europei per il turismo in Sicilia. Anche qui un bel reticolo di legami e rapporti dell’imprenditore che girava a Milano in Ferrari, che aveva preso casa e uffici davanti al Pantheon a Roma e che aveva fino a qualche anno fa anche un appartamento a New York.   Una cosa è certa. Le indagini sulla galassia delle aziende di Retiano, la loro ascesa e i loro investimenti pompati anche da soldi pubblici, sono ancora sotto la lente di ingrandimento della procura di Messina.

Continua la guerra tra toghe. Loggia Ungheria, Amara tira dentro Carabinieri e Guardia di Finanza: spuntano Del Sette e Toschi. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Settembre 2021. I vertici dell’Arma dei carabinieri e della guardia di finanza avrebbero fatto parte della loggia “Ungheria”. Lo ha rivelato l’avvocato siciliano Piero Amara, la “gola profonda” delle toghe, durante uno dei tanti interrogatori a cui si era sottoposto in Procura a Milano alla fine del 2019. Le dichiarazioni di Amara, sentito nel procedimento sul “falso complotto Eni”, furono raccolte in diversi verbali, sei per l’esattezza, dai pm Laura Pedio e Paolo Storari. Questi verbali, divenuti famosi per essere poi stati consegnati “informalmente” da Storari a Piercamillo Davigo, rimasero sempre segreti in quanto le indagini su Ungheria non sono mai terminate, e sia Repubblica che il Fatto, che li avevano ricevuti in una busta anonima ad ottobre dell’anno successivo, si rifiutarono di pubblicarli per non “compromettere” le attività investigative dei magistrati milanesi. Un paio di questi verbali, però, sono stati depositati l’altro giorno dalla Procura di Roma nel procedimento nei confronti della ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto, accusata di essere l’artefice del loro inoltro ai due giornali. Il verbale più esplosivo è del 14 dicembre e riguarda, come detto, i vertici delle due forze di polizia ad ordinamento militare. Amara, come si legge, seppe dell’appartenenza alla loggia segreta Ungheria dei generali Giorgio Toschi e Tullio Del Sette, il primo comandante generale della finanza, il secondo dei carabinieri, da Denis Verdini, ex ras di Forza Italia poi fondatore di Ala. L’avvocato siciliano avrebbe anche personalmente conosciuto Del Sette, che ricoprì l’incarico di numero uno dell’Arma dal 2014 al 2018, dopo essere stato nominato dal governo Renzi. La formula per il riconoscimento sullo stile para massonico fra gli appartenenti ad Ungheria è descritta dallo stesso Amara: «Stringersi la mano premendo con il dito indice tre volte sul polso dell’altro e pronunciando la frase “sei mai stato in Ungheria?”». Alla frase, in caso di riconoscimento, non doveva seguire alcuna risposta. La domanda «sei mai stato in Ungheria?», aggiunge Amara, «non doveva essere ripetuta dopo la prima presentazione», mentre rimaneva sempre «il gesto con la mano». Ma torniamo a Del Sette. «Ci siamo visti diverse volte al ristorante accanto al museo Esplora (Explora, sito a Roma nei pressi del quartiere Flaminio, poco distante dal Comando generale dell’Arma, ndr)», ricorda Amara. Insieme a loro due c’era anche il «direttore generale del Consiglio di Stato Serrao (Antonio, ndr)». I magistrati hanno chiesto ad Amara se ricordasse il nome del ristorante ricevendo risposta negativa tranne l’indicazione che era «di proprietà del direttore generale del Consiglio di Stato». Oltre a Del Sette avrebbe fatto parte di Ungheria anche il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia. Sia Del Sette che Saltalamacchia furono poi indagati nel procedimento per la fuga di notizie sull’indagine Consip, condotta dal Noe (Nucleo operativo ecologico) dei carabinieri. In primo grado Del Sette è stato condannato a dieci mesi per favoreggiamento e rivelazione del segreto. Sul fronte guardia di finanza, invece, oltre a Toschi farebbe parte di Ungheria il generale Giuseppe Zafarana, attuale numero uno delle fiamme gialle. L’affiliazione di Zafarana è molto risalente. L’alto ufficiale, ricorda sempre Amara, doveva partecipare ad una cena di affiliazione presso la sede di Opco (Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata) in Sicilia alla fine del 2006. L’Opco sarebbe servito come copertura per le attività delle loggia che aveva l’obiettivo di proporsi come «contropotere in grado di collocare persone di fiducia nei posti chiave, soprattutto nelle forze dell’ordine e della magistratura». Le regole per far parte di Ungheria ricordano molto da vicino quelle della massoneria. Esiste, precisa sempre Amara, «il vincolo di solidarietà e disponibilità», quello di obbedienza era «implicito nella disponibilità». Amara, come disse in una intervista, aveva registrato a futura memoria e per non essere smentito tutti gli incontri che aveva fatto con i vari appartenenti alla loggia. E sembra, particolare inquietante, che alcune di queste bobine siano state trovate nei mesi scorsi nella disponibilità della segretaria di Davigo. Come le avrà avute resta un mistero. Paolo Comi

I verbali di Amara e la bufera in magistratura. Loggia Ungheria, tutti i nomi coinvolti nello scandalo che fa tremare le toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Settembre 2021. Come era facilmente prevedibile, la pubblicazione ieri, anche se a scoppio ritardato da parte del Fatto Quotidiano, dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria, ha scatenato il putiferio. Il Fatto Quotidiano aveva ricevuto questi verbali in una busta anonima esattamente un anno fa. La “postina” sarebbe stata Marcella Contraffatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura, ora indagata dalla Procura di Roma per calunnia. Per non compromettere le indagini, il quotidiano di Marco Travaglio aveva deciso di non pubblicare i verbali ricevuti e aveva denunciato l’accaduto alla Procura di Milano, ufficio dove alla fine del 2019 era stato interrogato Amara dai pm Laura Pedio e Paolo Storari. Era stato Antonio Massari, il giornalista del Fatto che si era occupato di recarsi dai pm milanesi, trattenendosi, evidentemente, una copia di questi verbali. Dalla loro lettura, che il Fatto ha pubblicato parzialmente e che sono ancora secretati tranne un paio, emerge che la loggia Ungheria sarebbe stata composta per la maggior parte, salvo qualche eccezione, da magistrati appartenenti alla corrente di Magistratura indipendente. Mi è la corrente più antica della magistratura associata. Di impronta “conservatrice”, o come dicono in molti “di destra”, in passato ha annoverato fra i suoi iscritti magistrati che hanno fatto la storia della magistratura italiana. Erano di Mi, tanto per fare due nomi, Pierluigi Vigna e Paolo Borsellino. Il fondatore di Ungheria sarebbe stato Gianni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e poi capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria.), morto qualche anno fa. Tutto l’attuale gotha di Mi farebbe parte di Ungheria. Il primo è Cosimo Ferri, leader storico della corrente, magistrato più votato all’Anm con quasi 2000 voti, già componente del Csm, sottosegretario alla Giustizia in tre governi, e adesso parlamentare di Italia viva. Con lui Sebastiano Ardita, (che ha smentito in tv), pm antimafia e componente del Csm, esponente di Mi prima di aderire ad Autonomia&indipendenza, il gruppo fondato da Davigo, anch’egli con un passato in Mi. E sono di Mi Antonello Racanelli e Lorenzo Pontecorvo, entrambi in servizio a Roma, il primo come procuratore aggiunto, il secondo come presidente di Sezione di Tribunale. Sia Racanelli che Pontecorvo sono stati consiglieri del Csm. Il primo ha anche ricoperto l’incarico di segretario nazionale di Mi. Un ruolo importante in Ungheria lo avrebbe il giudice Claudio Maria Galoppi, adesso assistente della presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, altro esponente di punta di Mi e anch’egli con un passato da consigliere del Csm. Ungheria, usando le parole di Amara, doveva battersi per uno “Stato liberale, ispirato da principi garantisti, contro la deriva giustizialista”. Una deriva, Amara non lo dice ma si intuisce, portata avanti da Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe che ha sempre visto come fumo negli occhi Magistratura indipendente e, in particolare, Ferri. Per contrastare i manettari, Tinebra aveva fatto, sempre secondo Amara, opera di proselitismo dietro il paravento di Opco (Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata), una associazione che riceveva finanziamenti dalla Regione siciliana. «Magistratura indipendente aveva un potere assoluto al Csm», prosegue Amara. Una narrazione, però, che si scontra con i numeri: i componenti di Mi al Palazzo dei Marescialli, infatti, erano meno della metà dei componenti progressisti di Md. Una sponda Tinebra l’avrebbe trovata, poi, con i vertici delle forze di polizia. Soprattutto di carabinieri e guardia di finanza. Ma anche politici, avvocati importanti come Paola Severino, farebbero parte di Ungheria. Sono decine i nomi fatti dall’avvocato siciliano. Molti ieri hanno smentito e minacciato querele mettendo in discussione la credibilità di Amara il quale, però, è stato ritenuto fino a questo momento credibile da almeno quattro Procure: Milano, Perugia, Potenza e Roma. A Milano, infatti, è stato fra i testi di accusa nel processo Eni Nigeria. A Perugia è la gola profonda che ha inguaiato Luca Palamara. A Potenza, dove era stato arrestato prima dell’estate con l’accusa di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione nell’indagine che aveva coinvolto anche l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, si è subito guadagnato la fiducia dei magistrati. Il procuratore Francesco Curcio, dopo averlo interrogato, lo aveva rimesso in libertà, “premiando” la sua collaborazione. A Roma, infine, Amara aveva patteggiato nel 2019, per le medesime accuse di Potenza, una pena sotto i tre anni che lo aveva messo al riparo dalla prigione. Altro patteggiamento “regalato” lo aveva avuto dalla Procura di Messina. Proprio per la fiducia conquistatasi presso tutti i pm d’Italia, ad Amara nessuno ha mai sequestrato un euro del suo immenso patrimonio di dubbia provenienza, circa 80 milioni di euro. La credibilità di Amara rischia, allora, di “interrompersi” su Ungheria. La migliore smentita è arrivata ieri in serata da parte di Racanelli: «Di fronte alle dichiarazioni di Amara non so se piangere o ridere. Piangere per il livello che ha assunto nel nostro Paese la lotta politica anche all’interno della magistratura o ridere per la palese infondatezza delle affermazioni dell’avvocato Amara. Aggiungo anche che personalmente – spiega – non conosco molte delle persone tirate in ballo dall’avvocato Amara come appartenenti a questa presunta Loggia». «Quanto prima – annuncia il magistrato – procederò a presentare denuncia per calunnia nei confronti dell’avvocato Amara sempre che le dichiarazioni allo stesso attribuite così come pubblicate oggi sul Fatto Quotidiano corrispondano al contenuto degli interrogatori resi. Spero si faccia piena luce sulle vicende relative alla diffusione dei verbali di interrogatorio dell’avvocato Amara e alla loro circolazione anche all’interno di luoghi istituzionali: vi sono molti aspetti oscuri che meritano di essere chiariti». Ed infine: «Mi pongo solo una domanda: chi c’e’ dietro l’avvocato Amara?». E già, non è che dietro Amara c’è il solito scontro fra gruppi di potere della magistratura, iniziato proprio con la nomina del procuratore di Roma? Paolo Comi

Nuovo blitz nella faida tra magistrati. La vendetta di Davigo: il Fatto Quotidiano pubblica tutti i nomi della Loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Settembre 2021. Ormai dentro la magistratura italiana, in particolare fra i Pm, è scoppiata la guerra civile. Si combatte con tutti i mezzi, anche con armi non convenzionali. Contro tutti. Ieri Piercamillo Davigo, che nei giorni scorsi aveva ricevuto attacchi feroci, sia dal procuratore di Milano Francesco Greco sia da Repubblica e dal Corriere (che in teoria non sarebbero magistrati, ma giornali, però lo status giuridico ormai è equiparato…) che avevano pubblicato un paio di veline al veleno, ricevute illegalmente da imprecisati Pm. Davigo ha reagito col bazooka. Ha fatto pubblicare sul suo giornale stralci degli interrogatori segreti del superteste Piero Amara, l’avvocato che sostiene che esiste la Loggia Ungheria. Il giornale di Davigo ha messo in prima pagina, e poi nelle pagine interne, un bel gruppetto di nomi (li trovate nell’articolo di Paolo Comi) e ha sostenuto che quei nomi sono, più o meno, il vertice della Loggia Ungheria. Una bomba atomica. Alla quale, probabilmente, i nemici di Davigo non eviteranno di reagire. E la guerra civile continuerà, come avevano previsto anni fa il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il nostro Frank Cimini: “finiranno per arrestarsi fra di loro”. Siamo sempre più vicini a quel momento. Del resto molti magistrati di vertice della procura di Milano sono sotto inchiesta, Roma ha un Procuratore dichiarato abusivo cinque volte dal Tar e dal Consiglio di Stato, il Csm ha sospeso dall’attività di magistrato una mezza dozzina di suoi ex membri: e poi c’è tutto il racconto di Palamara che aspetta ancora improbabili smentite. Un verminaio senza fine. La pubblicazione degli elenchi (o, più probabilmente, di una parte degli elenchi) degli iscritti alla Loggia segreta è stato un colpo basso. Per chi legge il Riformista, niente di particolarmente nuovo. Sono mesi che – sebbene noi non si disponga delle carte segrete che i magistrati passano al Fatto – parliamo della Loggia Ungheria, e – più o meno – avevamo ben descritto di cosa si trattasse e a cosa servisse. Ora c’è la conferma ufficiale, e addirittura arriva dal giornale dei Pm. Che confessa che le cose stanno proprio così: che la magistratura italiana non ha più nulla di indipendente, pure la macchinetta del caffè di Piazzale Clodio dipende da poteri esterni e da camarille varie. Proviamo a spiegare tutto questo intrico. L’esistenza di una Loggia Ungheria era stata svelata da questo avvocato Amara – avvocato dell’Eni, ritenuto da molti magistrati teste attendibilissimo in svariati processi – al sostituto procuratore di Milano Paolo Storari, che ne aveva parlato col suo Procuratore, cioè Greco, il quale – secondo Storari – aveva ostacolato la sua inchiesta. Storari perciò portò tutte le carte, illegalmente, a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, il quale stava battendosi come un leone per bypassare la norma che gli imponeva di andare in pensione (voleva restare al Csm). Davigo, però, inguattò tutto. Almeno per un po’ di tempo. Poi le carte di Storari, dopo che Davigo aveva perso la sua battaglia per evitare il pensionamento – e non è servito a nulla neppure schierarsi per la nomina di Prestipino a procuratore di Roma (voluta da Pignatone) dopo averla eroicamente avversata per mesi – finirono misteriosamente sulle scrivanie di alcuni giornalisti del Fatto (giornale del quale Davigo è assiduo collaboratore) e di Repubblica. Ma il Fatto e Repubblica, che in genere pubblicano qualunque cosa provenga dai tavoli delle procure o della polizia giudiziaria, si scoprirono improvvisamente garantisti. Nuova categoria: il garantismo-travaglismo, silenzi e manette. Così il dossier Storari e la notizia dell’esistenza della Loggia restarono segreti, anche se, a quanto pare, Davigo raccontò tutto a tutti i vertici della magistratura. E Il Fatto, e la Repubblica, continuarono a tenere nel cassetto il dossier anche quando Nino Di Matteo, membro del Csm ex davighiano, scoprì l’esistenza del dossier e, finalmente, lo denunciò. A questo punto la notizia della probabile esistenza della Loggia Ungheria è pubblica. E anche clamorosa. I grandi giornali però tacciono (vedrete che resteranno abbastanza silenziosi anche ora che il giornale di Davigo sta iniziando a pubblicare a puntate i verbali Storari). Lo scandalo Palamara avanza, la magistratura è nel fango, le Procure delegittimate, ma l’informazione continua a proteggere le toghe e a dimostrare fedeltà e spirito di servizio. Poi, come succede in questi casi, scocca imprevista la scintilla. È Greco, il Procuratore di Milano, che la fa scoccare. Perché è furioso. Brescia lo ha messo sotto accusa, i giornali non lo difendono, è inguaiato anche per il processo Eni, e per di più i suoi sostituti e aggiunti, all’unanimità, si schierano contro di lui e pro-Storari, che lui, ormai, odia. E così il silenzioso Greco decide di parlare, rilascia un’intervista al Corriere e spara a palle incatenate contro Davigo. A voi Davigo vi sembra uno che incassa in silenzio? Macché. Tre giorni per organizzarsi e preparare tutto, e poi pubblica i verbali sul suo giornale (non abbiamo ancora scritto il nome del suo giornale, ma pensiamo che lo conosciate: Il Fatto). Prima pagina. All’interno un articolo per spiegare perché quasi un anno di silenzio e poi si pubblica a comando quando l’orologeria dice che è venuto il momento. L’articolo però non lo scrive Travaglio. Che preferisce tenersi fuori, probabilmente, dalla guerra di Davigo. E infatti dedica l’editoriale, in modo rocambolesco, a una noiosissima polemica sul green pass, della quale nessun lettore -suppongo- è riuscito a leggere più di una quindicina di righe. L’articolo – piuttosto comico- nel quale si spiega perché i verbali non andavano pubblicati, anzi sì, vanno pubblicati, perché era eticamente giusto, anzi obbligatorio non pubblicarli, o forse perché è giusto, anzi obbligatorio, eticamente, pubblicarli – è affidato al povero Gianni Barbacetto, che siccome magari non brilla tanto, gli tocca sempre il compito di prendersi lui le gatte da pelare e la figuraccia. Detto tutto ciò, si pone la domanda: ma questa Loggia Ungheria esiste davvero o è fantasia? Se non esiste, allora è una manovra diffamatoria e torbida di Davigo e del Fatto, probabilmente su mandato di un settore della magistratura che andrebbe individuato (e non è difficilissimo individuarlo) il quale vuole restare solo al comando e eliminare i nemici. Se invece la Loggia esiste, è semplicemente una associazione a delinquere finalizzata a governare gli esiti dei processi e a condizionare gli equilibri democratici e i poteri dello Stato. Se le varie Procure che ora indagano (con molta calma) sospettano che la Loggia esista davvero, per questi reati devono procedere: non per il reato ridicolo di associazione segreta, che è praticamente imperseguibile. Associazione a delinquere. Un fatto, comunque sembra relativamente chiaro. Nella magistratura esistono ora due schieramenti contrapposti, che si sfidano all’ultimo sangue. Quello che si raggruppa attorno alla sinistra giudiziaria, anche se non tutta, e quello che si schiera su posizioni conservatrici e moderate. I due gruppi sono in lotta feroce per il controllo dei vertici della magistratura e dunque del potere, e anche per il condizionamento delle indagini e dei processi. In ogni caso, l’Italia è in queste condizioni. La magistratura ha perduto completamente la sua indipendenza, il suo prestigio, e la sua affidabilità. È solo terra di scontro per bande. L’esito dei processi dipende da fattori del tutto estranei alla ricerca e all’accertamento della verità. il paese è fuori controllo. Non è una riforma che serve: serve radere al suolo e ricostruire daccapo. Chiunque non sia o tremendamente impaurito o fuori di senno se ne rende conto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le verità di Amara. Scoop su giudici morti e processi già chiusi. Luca Fazzo il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Tinebra avrebbe favorito Berlusconi, ma quelle accuse di mafia erano farneticanti. Non c'è nulla di più comodo che prendersela con un morto. Così Piero Amara, l'avvocato siciliano al centro con i suoi verbali dello scandalo che ha investito la Procura di Milano, attacca uno che non può più difendersi: Giovanni Tinebra, già procuratore a Caltanissetta, poi a capo del Dap, direzione delle carceri. Che Tinebra fosse indicato da Amara come uno dei membri di «Ungheria», la loggia para-massonica che avrebbe costituito un «gruppo di contropotere» era cosa nota. Ma ora viene alla luce - depositato a Roma nel processo a Marcella Contrafatto, l'ex impiegata di Piercamillo Davigo al Csm accusata di avere divulgato i verbali - anche l'interrogatorio di Amara del 14 dicembre 2019 davanti alla Procura di Milano. E si scopre che l'avvocato se da un lato indica l'ex boiardo di Stato Giancarlo Elia Valori come il «grande vecchio» di Ungheria, insiste per una intera pagina sul ruolo di Tinebra, che lo avrebbe reclutato. E che sarebbe stato protagonista di una lunga serie di manovre. La più eclatante: dice di avere saputo dal pm Alessandro Centonze, anche lui legato alla loggia da vincoli di ubbidienza, che «Tinebra, procuratore a Caltanissetta, voleva che fosse richiesta l'archiviazione di un procedimento a carico di Silvio Berlusconi. Il sostituto che aveva incarico quel fascicolo era Centonze il quale non voleva chiedere l'archiviazione ma fu costretto a farlo». Si parla dei primi anni Duemila, e non era un fascicolo qualunque: era l'inchiesta che vedeva Berlusconi e Marcello Dell'Utri («Alfa» e «Beta») accusati di essere i mandanti degli omicidi Falcone e Borsellino. Una indagine nata dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, a metà tra il vago e il demenziale. A chiedere nel febbraio 2001 l'archiviazione fu personalmente Tinebra, insieme al procuratore aggiunto Francesco Paolo Giordano; assegnatario del fascicolo era, insieme a Centonze, anche il pm Salvatore Leopardi; a maggio del 2002 il giudice Giovanbattista Tona, che diverrà poi presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Tutti complici o succubi di una manovra di «Ungheria»? Ma i veleni su quella vicenda di vent'anni fa non sono gli unici che emergono dal verbale di Amara. Nelle rivelazioni del sedicente «pentito» finisce anche Luigi De Ficchy, fino a poco prima procuratore a Perugia. Amara dice di avere saputo da Denis Verdini che anche De Ficchy era legato a «Ungheria», e di averlo per questo aiutato (dopo averne ricevuto personalmente la richiesta) a piazzare il figlio nello studio legale Dla Piper, a Roma. A fare da tramite fu Fabrizio Centofanti, il lobbista grande amico di Amara. «Anche De Ficchy conosce Centofanti», aggiunge Amara. Sono rivelazioni che, se fossero vere, getterebbero una luce nuova anche sul caso Palamara: cui, più si va avanti, più la storia dei verbali di Amara appare intrecciata. Perché è De Ficchy, a Perugia, a aprire le indagini su Palamara e sui suoi rapporti con Centofanti. Peccato che a venire iscritto nel registro degli indagati immediatamente sia stato il solo Palamara, mentre Centofanti non viene né iscritto né intercettato fino al maggio 2019. E non viene nemmeno perquisito. Un trattamento di favore o una scelta investigativa? Di certo, man mano che i verbali trapelano, diventa sempre più chiaro che la Procura di Milano nel dicembre 2019, quando inizia a accumulare i verbali di Amara, non può non rendersi conto di avere davanti un materiale esplosivo: da trattare certamente con cautela, ma in cui è indispensabile scavare in fretta per capire cosa vi sia di vero, quanto di veleni e di sporche manovre. Invece tutto rimane lì, per mesi. E Storari, si scopre ora, confidò ai pm amici che gli era stato impedito di chiedere l'arresto di Amara. Forse se l'avvocato siciliano dai mille rapporti fosse finito in galera allora - invece di venire lasciato in circolazione, libero di continuare a offrire qua e là le sue rivelazioni - non si sarebbe arrivati a questo punto. Ma ormai è tardi per rimediare.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Caso Amara, ecco i nomi della loggia Ungheria. Il Quotidiano del Sud il 17 settembre 2021. Il Fatto Quotidiano stamattina ha pubblicato i verbali del caso Amara ricevuti anonimamente nell’ottobre 2019. “Da mesi – scrive il Fatto – si parla di una presunta associazione rivelata dall’ex legale esterno Eni: tra calunnie e mezze verità, qui tutti i nomi. Pubblichiamo a partire da oggi alcuni stralci – selezionati per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi davanti ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete”. Tra i presunti adepti della presunta loggia Ungheria ci sono Silvio Berlusconi, Denis Verdini, Luca Lotti, Luca Palamara, Carlo De Benedetti, l’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e il segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Parolin. Ma sarà vero? Nelle carte, tra le altre cose, Amara – si legge sul Fatto Quotidiano – parla di una lista di nomi che avrebbe letto di appartenenti alla loggia: “De Benedetti è un nome che ho letto nella lista di Capurso. B.B. è una sigla che era riportata nell’elenco e che secondo Capurso era riferibile a Silvio Berlusconi”.

Verbali Amara, il Generale Zafarana: «Falso che io appartenga alla loggia Ungheria». Il Comandante Generale Zafarana querela per calunnia l'avvocato Piero Amara. «Non l'ho mai conosciuto e non sono iscritto ad alcuna associazione segreta». Il Dubbio il 17 settembre 2021. «Le dichiarazioni dell’Avv. Piero Amara riportate da alcuni organi di informazione circa una presunta appartenenza del sottoscritto e del mio predecessore, Generale Giorgio Toschi, alla cosiddetta “loggia Ungheria” sono prive di qualsiasi fondamento». A dirlo è il comandante generale della Guardia di Finanza, il Generale del Corpo d’Armata, Giuseppe Zafarana. «Di fronte alle calunniose affermazioni rese dall’Avv. Piero Amara ai magistrati, divenute oggetto di ampia divulgazione, con profonda amarezza sono costretto a dover rendere una pubblica dichiarazione che mai avrei immaginato di dover fare nella mia vita. Non ho mai aderito ad associazioni di alcun genere, tantomeno di natura segreta. Non soltanto non ho mai aderito, ma neppure ho mai lontanamente pensato di poterlo fare, in quanto una tale iniziativa sarebbe del tutto estranea al mio stile di vita, ai valori in cui credo e alla mia etica di comportamento. Ho giurato fedeltà solamente una volta, e l’ho fatto verso la Repubblica e la sua Costituzione» scrive l’Alto Ufficiale delle Fiamme Gialle. «Non ho mai conosciuto l’avvocato Piero Amara, né il dott. Giuseppe Toscano; tantomeno ho mai avuto conoscenza dell’associazione OPCO. Ho appreso dell’esistenza dell’avvocato Amara solo nei primi mesi del 2017, allorquando, da Capo di Stato Maggiore del Comando Generale, fui interessato da parte della Procura della Repubblica di Roma e della competente linea gerarchica del reparto operante in ordine alle esigenze organizzative connesse alle investigazioni che lo riguardavano. Come sempre si è fatto per far fronte ai contesti investigativi più delicati nei quali la Guardia di Finanza è chiamata a dare il proprio contributo alle Procure della Repubblica sull’intero territorio nazionale, specie quelle maggiormente impegnate, anche in queste indagini il Corpo ha messo in campo le migliori risorse, ottenendo risultati di indubbia efficacia». «Durante tutto il periodo in cui si sono protratti gli accertamenti che hanno riguardato i procedimenti penali nei quali è stato coinvolto l’avvocato Amara, ho adottato (o fatto adottare) – sia nelle vesti di Capo di Stato Maggiore, unitamente all’allora Comandante Generale, Generale Giorgio Toschi, sia allorquando ho assunto l’attuale incarico – talune decisioni volte a fornire il massimo supporto possibile all’Autorità giudiziaria procedente sulla base delle esigenze da questa prospettate. Ripongo la mia più assoluta fiducia nell’Autorità giudiziaria, che saprà sicuramente accertare la verità dei fatti onde tutelare l’onore e l’immagine dell’Istituzione Guardia di Finanza tutta. Ho già dato mandato ai miei legali di procedere in via giudiziaria per calunnia a protezione del buon nome del Corpo, oltre che della mia persona» conclude il Generale Zafarana.

Loggia Ungheria, la lista dei nomi che fa tremare anche Messina. Ci sono anche i nomi dell’ex procuratore generale di Messina Franco Cassata e di quello dell’ex presidente della Corte di Appello di Messina Nicolò Fazio, nell’elenco degli aderenti alla Loggia Ungheria di cui ha parlato l’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara. Redazione messinatoday.it il 17 settembre 2021.  Ci sono anche i nomi dell’ex procuratore generale di Messina Franco Cassata e di quello dell’ex presidente della Corte di Appello di Messina Nicolò Fazio, nell’elenco degli aderenti alla Loggia Ungheria di cui ha parlato l’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara. Lo rivela Il Fatto Quotidiano dopo undici mesi di embargo, da quando è esploso lo scontro tra l’ex capo della Corrente “Autonomia e Indipendenza” Piercamillo Davigo e il suo braccio destro, l’ex procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita indicato da Amara come uno dei componenti della loggia segreta. Il quotidiano di Marco Travaglio, ritenendo maturi i tempi della pubblicazione, a seguito del deposito delle accuse contro l’ex segretaria al Csm di Piercamillo Davigo Marcella Contraffatto, accusata di avere fatto veicolare i verbali all’esterno, ha deciso di anticipare nuovi nomi indicati da Amara come appartamenti al gruppo segreto di potere. La sorpresa sulle nuove rivelazioni dell’avvocato Piero Amara è che, oltre Andrea Genna, avvocato di Palermo indicato dall’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano per il consiglio di amministrazione dell’Eni, a far ruotare gli interessi del colosso petrolifero in Sicilia, era un altro componente di peso della loggia segreta Ungheria, l’ex paladino Antimafia in Sicilia, Antonello Montante, condannato ora a 14 anni. L’avvocato Amara nelle sue dichiarazioni rese al Pm Paolo Storari ha spiegato i meccanismi della nascita e della sua cooptazione nella associazione segreta, che “trova nella città di Messina”, ha spiegato Pietro Amara, “i personaggi di peso”. Uno dei personaggi cardine dell’associazione, influente per le sue entrature massoniche, sarebbe l’avvocato messinese Enrico Caratozzolo, chiamato ad alcuni importanti incarichi di consulenza, come l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, nell’ambito del progetto di concordato della Acqua Pia Marcia, l’azienda nella quale prestava la sua attività per le relazioni pubbliche, il “lobbista” di Colleferro Fabrizio Centofanti, uomo-chiave dei rapporti con Luca Palamara verso la magistratura. Molti dei componenti tirati in ballo da Piero Amara, che è stato indagato a Messina e la cui sentenza di patteggiamento è stata poi impugnata dal sostituto procuratore generale Felice Lima, hanno smentito la loro partecipazione alla loggia segreta. Ma il racconto, secondo Piercamillo Davigo, a partire dai rapporti con l’ex capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ha una sua coerenza che va indagata.  Ora le rivelazioni di Piero Amara hanno messo in crisi i rapporti interni alla Procura di Milano, un tempo considerata faro nazionale di legalità,  il procuratore capo di Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio sono indagati a Brescia, proprio perchè non avrebbero iscritto con tempestività le rivelazioni di Amara nel registro degli indagati.   

TUTTI I NOMI DELLA LOGGIA UNGHERIA. Alessandro Banfi il 17/09/2021 su tgnews24.com. Il Fatto pubblica oggi ampi stralci dei verbali dell’avvocato Amara che elenca nomi e circostanze della loggia massonica denominata Ungheria. Ci sono molti nomi di note personalità che hanno responsabilità nel nostro Paese. Non è chiaro (e comunque non si troverebbero in queste carte) se siano state fatte serie indagini e dunque resta difficile esprimere giudizi. Qui il commento introduttivo con cui Barbacetto e Massari spiegano la decisione del giornale:

«Ora che almeno una parte dei verbali segreti di Amara è stata depositata dalla Procura di Roma negli atti d’inchiesta su Marcella Contrafatto (dunque non sono più segreti, pur essendo ancora oggetto d’indagine di altre Procure) e che sono ormai pressoché impossibili gli inquinamenti probatori, abbiamo deciso di raccontare ai lettori che cosa Piero Amara ha riferito ai pm su quella che definisce “loggia Ungheria”. Alcuni verbali sono ancora secretati, ma molti dei nomi che contengono, di presunti affiliati o di personaggi coinvolti in relazioni e affari, sono ormai da mesi oggetto di chiacchiere e illazioni. Il numero delle persone a conoscenza di quei verbali è alto, in molte “stanze del potere”, e ciò rende possibili pressioni e ricatti. Meglio dunque scoprire le carte, sapendo che ciò che Amara racconta può essere vero, ma può essere anche falso e calunnioso. Il Fatto ritiene che sia giunto il momento di pubblicare tutto. I lettori potranno conoscere tutti i nomi fatti da Amara, sapendo (anche grazie agli articoli già pubblicati, sulle accuse a Mancinetti, Giuseppe Conte, Sebastiano Ardita) che ciascuno di quei nomi potrebbe essere vittima di una calunnia (ci risulta per esempio che il comandante della Gdf Giuseppe Zafarana abbia chiarito la sua posizione, come la pm Lucia Lotti). Qualcuno, in questi mesi, ha preteso più o meno velatamente di impartirci lezioni di giornalismo, insinuando che dietro la scelta di non pubblicare vi fossero chissà quali interessi e che, se si fosse trattato di Silvio Berlusconi (giusto per fare un nome) avremmo pubblicato tutto senza remore. Bene, chiunque potrà ora scoprire che c’è anche Berlusconi tra i nomi degli affiliati indicati da Amara. È l’ora di stroncare i chiacchiericci e le possibilità di ricatto nati da queste carte fuggite dal controllo della Procura di Milano. Così, da oggi, il Fatto Quotidiano vi racconta la vera storia della loggia Ungheria».

La scelta in questa Versione di stamane è non pubblicare tutto il papiro. Chi è interessato trova nei pdf l’articolo completo pubblicato oggi con gli stralci di verbale e i nomi.

Qui solo l’inizio delle quattro pagine del quotidiano diretto da Travaglio, che promette di proseguire nella pubblicazione per qualche giorno:

«Pubblichiamo a partire da oggi alcuni stralci – selezionati per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi davanti ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. 6 dicembre 2019 Amara: Devo fare una premessa: io facevo parte di una loggia massonica coperta, formata da persone che io ho incontrato attraverso persone di origine messinese dove questa loggia è particolarmente forte. Mi ha introdotto Gianni Tinebra , magistrato con cui avevo ottimi rapporti. Attraverso questa loggia denominata “Ungheria” ho conosciuto Michele Vietti e tale Enrico Caratozzolo, avvocato di Messina; il capo della cellula messinese per quanto mi dissero Tinebra, Vietti e Caratozzolo era Giancarlo Elia Valori. Della cellula “Ungheria” fa parte anche la dottoressa Lucia Lotti (magistrato a Roma, ndr). Fu Vietti a mandarmi Saluzzo (Francesco, ndr) a Roma. Io già sapevo che faceva parte dell’associazione Ungheria e comunque tale circostanza mi fu confermata dal modo in cui mi salutò premendomi il dito indice tre volte sul polso mentre mi stringeva la mano. L’incontro fu organizzato a casa di un imprenditore, di cui non ricordo il nome, amico di Antonio Serrao, detto Tonino, all’epoca direttore generale del Consiglio di Stato e anch’ egli partecipe di “Ungheria”». 

"Lista Ungheria": una "loggia massonica" anche per i magistrati? tanto si evincerebbe dal "caso Amara". Teleradio News Cronache Agenzia Giornalistica venerdì, 17 Settembre 2021. Loggia “Ungheria”: pubblicati i verbali del “caso Amara”. I documenti. Da mesi si parla di una presunta associazione rivelata dall’ex legale esterno Eni: tra calunnie e mezze verità, qui tutti i nomi.

Pubblichiamo a partire da oggi alcuni stralci -selezionati per rilevanza dei ruoli pubblici- degli interrogatori resi davanti ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete.6 dicembre 2019.

Amara: (…) Devo fare una premessa: io facevo parte di una loggia massonica coperta, formata da persone che io ho incontrato attraverso persone di origine messinese dove questa loggia è particolarmente forte. Mi ha introdotto Gianni Tinebra, magistrato con cui avevo ottimi rapporti. Attraverso questa loggia denominata “Ungheria” ho conosciuto Michele Vietti e tale Enrico Caratozzolo, avvocato di Messina; il capo della cellula messinese per quanto mi dissero Tinebra, Vietti e Caratozzolo era Giancarlo Elia Valori. Della cellula “Ungheria” fa parte anche la dottoressa Lucia Lotti (magistrato a Roma, ndr) (…).

Fu Vietti a mandarmi Saluzzo (Francesco, ndr) a Roma. Io già sapevo che faceva parte dell’associazione Ungheria e comunque tale circostanza mi fu confermata dal modo in cui mi salutò premendomi il dito indice tre volte sul polso mentre mi stringeva la mano. L’incontro fu organizzato a casa di un imprenditore, di cui non ricordo il nome, amico di Antonio Serrao, detto Tonino, all’epoca direttore generale del Consiglio di Stato e anch’egli partecipe di “Ungheria”. L’incontro avvenne un paio di mesi prima rispetto alla nomina di Saluzzo a Procuratore Generale di Torino, il colloquio fu estremamente chiaro: Saluzzo mi disse che aveva già parlato con Cosimo Ferri ottenendo la disponibilità di MI, mentre aveva dei problemi con la componente laica del Pd e gli serviva un intervento forte di Luca Lotti. Da parte mia io non chiesi nulla di particolare a Saluzzo, ma una sua messa a disposizione qualora ve ne fosse stato bisogno. Preciso che non ho mai chiesto nulla a Saluzzo tranne che in un’occasione: andai da lui per preannunciargli la visita della compagna di Bigotti, tale Barbara Bonino, la quale aveva un’udienza di separazione col suo ex marito. Questa signora poi effettivamente andò da Saluzzo e lui fu cordiale con lei. Naturalmente io rappresentai a Lotti il mio interesse per la nomina di Saluzzo nel corso di un colloquio intervenuto tra di noi vicino piazza di Spagna di fronte al Gregory Jazz Pub (…).

Premetto che in altri casi Vietti, in funzione di sue esigenze a me non note, mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati o professionisti a lui vicini e avvenne in quel periodo anche con l’avvocato Conte, oggi presidente del Consiglio, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acquamarcia S.p.A. di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa, grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti, che all’epoca era responsabile delle relazioni istituzionali di Acquamarcia. L’importo che fu corrisposto da Acquamarcia ad Alpa e Conte, era di 400 mila euro a Conte e di 1 milione di euro ad Alpa. Questo l’ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile, trattandosi della rivisitazione del contenzioso della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore, e l’importo corrisposto fu particolarmente elevato (…).

Aggiungo che l’avvocato Paola Severino è nella lista delle persone appartenenti a “Ungheria” (…).

Domanda dei pm: Le vicende che sono descritte nell’appunto cosiddetto “Keepwild” sono riconducibili ai suoi rapporti con l’associazione “Ungheria”?

Amara: Non tutte. Certamente sono legati a “Ungheria” Andrea Gemma (professore, avvocato, già nel cda Eni, ndr), Antonino Serrao e il Generale Toschi (Giorgio, ex comandante generale Gdf, ndr).

Domanda dei pm: Quali altre persone legate alla vicenda Eni fanno parte di “Ungheria”?

Amara: Ne fanno parte Fabrizio Siggiae ne faceva parte Vincenzo Armanna (ex dirigente Eni, ndr) fino a quando non è stato “posato”. Fu Bisignani, che fa parte anche lui di “Ungheria”, che chiese di ‘posare’ Armanna. Mi chiedete quando sia accaduto e lo colloco nel 2015. La vicenda Eni ha avuto una rilevanza, ma c’erano anche altre relazioni tra di loro che hanno avuto peso maggiore (…).

De Ficchy che era persona alla quale io potevo arrivare perché faceva parte dell’associazione “Ungheria” (…).

Domanda dei pm: Che rapporti vi sono tra la circostanza di cui ha riferito ieri attinenti alla nomina del Procuratore di Milano e l’eventuale operatività di “Ungheria”?

Amara: Sì, nel senso che la rete relazionale di “Ungheria” fu utilizzata per condizionare la nomina del Procuratore di Milano. Come vi ho detto, si sollecitarono candidature di persone amiche o alle quali si poteva in qualche modo accedere, tra cui come ho detto tale Amato (Giuseppe, ndr), che però non fa parte dell’associazione. Amato fu invitato a presentare la candidatura da Ferri e Palamara. Ferri ricopre un incarico molto importante in Ungheria.

Domanda dei pm: Chi aderisce all’associazione “Ungheria”?

Amara: Magistrati, Forze dell’Ordine, alti dirigenti dello Stato e alcuni imprenditori. Conservo una lista di circa 40 persone.

14 dicembre 2019

Domanda dei pm: Nel precedente interrogatorio del 06.12.2019 ha fatto riferimento a quella che Lei ha definito una loggia massonica coperta denominata “Ungheria” della quale Lei stesso fa parte insieme ad altri esponenti della magistratura, del mondo politico, dell’imprenditoria, delle forze dell’ordine, dell’avvocatura. Ci può spiegare in quale momento è entrato a far parte in questo gruppo, in che modo, tramite chi?

Amara: Per rispondere a questa domanda devo prima riferire il contesto nel quale è nata la mia partecipazione all’associazione. A partire dal 2005 ho frequentato con una certa assiduità l’O.P.C.O. (Osservatorio Permanente sulla Criminalità Organizzata) nel quale mi coinvolse Gianni Tinebra, all’epoca procuratore a Caltanissetta. Avevo conosciuto Tinebra attraverso Carola Parano (Direttrice dell’Opco) e Giuseppe Toscano (procuratore aggiunto di Siracusa) (…).

Ho svolto la mia attività nell’ambito dell’Opco, dedicandomi all’organizzazione di convegni e di studi in materia di criminalità organizzata e sono stato particolarmente apprezzato da Gianni Tinebra il quale – a un certo punto – ritenne che avessi le caratteristiche per essere introdotto in un gruppo più ristretto di persone che condividevano gli ideali dello Stato liberale e che erano legati da un vincolo di solidarietà, amicizia e disponibilità, rappresentandomi che nel corso della mia vita questo mi sarebbe stato molto utile. Sottolineo la frase di “Stato liberale” perché questa mi fu più volte rimarcata in quanto il gruppo si proponeva di affermare i principi di uno Stato garantista contro quella che appariva già all’epoca una deriva giustizialista, quello che poi nel tempo mi fu rappresentato essere lo spirito della corrente della magistratura denominata “Magistratura Indipendente”, molti esponenti della quale fanno parte di Ungheria. Mi rendo conto che questa tuttavia era una foglia di fico, in quanto il gruppo si è risolto in un sostanziale scambio di favori. Per quello che io ho potuto vedere, questo gruppo ha rappresentato e rappresenta quello che definirei una sorta di contropotere, a volte anche più forte della politica. Con questa espressione intendo fare riferimento al fatto che il gruppo è in grado collocare persone di sua fiducia in posti chiave, soprattutto ai vertici delle forze dell’ordine e della magistratura, e che le nomine di queste persone vicine al gruppo vengono decise in luoghi diversi da quelli istituzionali. Ricordo, per esempio, che in occasione della nomina del procuratore di Firenze, a me fu fatto il nome di tale Leonida Primicerio da un generale della Guardia di finanza, tale Genzano. Presentai questo magistrato a Luca Lotti, indicandolo come magistrato a sua totale disposizione: vi riferisco come prove di questo che egli durante il mio colloquio con Lotti rimase appostato dietro una macchina in attesa di essere chiamato. Lotti aderì alla mia richiesta, ma tuttavia non riuscì a far nominare Primicerio in quanto Michele Vietti (aderente al gruppo Ungheria) impose la nomina di Creazzo. Tale circostanza, cioè dell’interesse e della volontà di nominare Creazzo, fu da me direttamente verificata con Vietti (…).

Tornando al mio ingresso in Ungheria, ricordo che Gianni Tinebra organizzò una cena di presentazione presso la sede di Opco, servita da un catering a Siracusa. Alla cena parteciparono oltre a me e Tinebra, Alessandro Centonze (sostituto procuratore della Dda di Catania), Sebastiano Ardita (sostituto procuratore a Catania), Giuseppe Toscano (procuratore aggiunto a Siracusa), il figlio Attilio Toscano (professore associato di Diritto amministrativo a Catania).

Doveva partecipare alla cena anche Giuseppe Zafarana, all’epoca, mi pare, con il grado di colonnello della Guardia di finanza, che poi invece non venne. Ho poi saputo a proposito di Zafarana che era entrato in Ungheria presentato da Giuseppe Toscano. La cena si è svolta tra il 2006 e il 2007 (…).

Tinebra poi mi disse che aderivano alla associazione anche i magistrati Franco Cassata (Procuratore Generale a Messina), Fazio (presidente della Corte d’Appello di Messina) e Francesco Paolo Giordano (sostituto procuratore a Caltanissetta).

Ricordo tra gli episodi nei quali un associato è stato obbligato a fare qualcosa che in condizione di libertà forse non avrebbe fatto, quanto mi riferì Alessandro Centonze. All’epoca Tinebra (procuratore a Caltanissetta) voleva che fosse richiesta l’archiviazione di un procedimento a carico di Silvio Berlusconi.

Il Sostituto che aveva in carico quel fascicolo era Alessandro Centonze il quale non voleva chiedere l’archiviazione, ma fu costretto a farlo in virtù del vincolo associativo come lui stesso mi disse (…).

La gestione complessiva delle vicende processuali di Silvio Berlusconi a Caltanissetta portò Tinebra a essere nominato responsabile del Dap, come lui stesso mi disse (…).

Nel 2009 Tinebra mi presentò Michele Vietti. L’incontro avvenne in occasione di un convegno organizzato a Siracusa da una organizzazione culturale – che mi riservo di indicare sia quanto a nome che a date –. Vietti mi fu presentato nel corso di un incontro privato tra me, lui e Tinebra in corso Gelone a Siracusa (presso un bar), Tinebra volle presentare me a Vietti come persona di sua fiducia. In quella occasione mi dissero che i promotori dell’associazione erano – oltre a loro due – Enrico Caratozzolo e Giancarlo Elia Valori.

Mi dissero che loro quattro, oltre che essere promotori di Ungheria, erano anche massoni e mi spiegarono che non c’era coincidenza necessaria tra l’appartenenza alla massoneria e all’associazione Ungheria, tuttavia circa l’80% degli aderenti alla massoneria.

Quanto a Caratozzolo, mi dissero che egli nonostante la giovane età, era particolarmente importante, anche in ragione di un consolidato rapporto tra suo padre e Michele Vietti, entrambi massoni. Sempre in quella occasione, mi riferirono che Giancarlo Elia Valori era il capo di Ungheria (…).

Domanda dei pm: Lei ha avuto rapporti diretti con la Severino che attestassero la partecipazione di quest’ultima a Ungheria?

Amara: No, non ho avuto rapporti diretti con lei su questo tema. Faccio però presente che Paola Severino è presente nella lista degli appartenenti a Ungheria e -come ho già detto- la sua partecipazione mi è stata riferita chiaramente da Michele Vietti.

Ho avuto una sola interlocuzione con la Severino nell’ambito della mia attività di legale nominato dalla struttura commissariale dell’Ilva. In particolare abbiamo avuto una conference call di coordinamento in quanto la Severino seguiva le vicende Ilva milanesi. Questo è avvenuto nel 2016 (…).

Domanda dei pm: Ci descriva cosa è accaduto dopo che Lei si è manifestato con Verdini.

Amara: Il rapporto con Verdini, a differenza di quello con Vietti, è stato caratterizzato da grande confidenza e Verdini mi ha presentato diverse persone che appartengono all’associazione. Innanzitutto, Cosimo Ferri, che io già sapevo essere legato a Ungheria, perché me lo avevano detto sia Tinebra che Ardita. Oltre a Cosimo Ferri mi furono indicati come esponenti di Ungheria i magistrati Pontecorvo e Racanelli, entrambi hanno fatto parte del Csm. Ricordo in particolare un incontro avvenuto tra me, Ferri, Pontecorvo, Racanelli e Verdini all’interno della Galleria Alberto Sordi a Roma. In quell’incontro, io sapevo già che eravamo tutti legati a Ungheria e comunque il tenore della conversazione non lasciò equivoci sulla comune appartenenza. Da Verdini ho saputo dell’appartenenza alla associazione del generale Toschi della Guardia di Finanza, del generale Del Sette dei Carabinieri e del generale Saltalamacchia dei Carabinieri. (…) Da Verdini ho appreso anche che Luigi Bisignani è un appartenente di Ungheria e lo stesso mi disse Michele Vietti. Con Bisignani ho avuto anche rapporti diretti (…).

Sempre Verdini mi disse che Filippo Patroni Griffi, già presidente del Consiglio di Stato, era un appartenente. Patroni griffi mi fu presentato da Luigi Caruso (vicepresidente della Corte di Conti) anch’egli appartenente a Ungheria. Così come Pasquale Squitieri (già presidente della Corte dei Conti).

15 dicembre 2019

(…) A settembre 2014 si è insediato il nuovo Csm sul quale, come ho detto, l’associazione Ungheria-Magistratura Indipendente aveva un potere assoluto. Il potere di Ungheria sul Csm si sviluppava secondo il seguente schema: all’apice c’erano Cosimo Ferri e Michele Vietti. Il primo, leader assoluto di Magistratura Indipendente, e il secondo all’apice dell’associazione Ungheria. Cosimo Ferri controllava Luca Palamara, membro del Csm e leader di Unicost.

All’interno del Csm il vicepresidente Giovanni Legnini era stato affiliato (nel nostro gergo l’espressione “fatto” o “sverginato”’) a Ungheria da Pasquale Dell’Aversana.

Facevano parte ancora di Ungheria i seguenti membri del Consiglio Superiore della Magistratura: Lorenzo Pontecorvo, Antonio Leone, Giorgio Santacroce, Paola Balducci (…), Claudio Galoppi, Pasquale Paolo Maria Ciccolo, Vincenzo Carbone e Giovanni Canzio. Altri componenti del Csm, pur non essendo aderenti all’associazione Ungheria erano purtuttavia controllabili e in particolare Giuseppe Fanfani (direttamente da Lotti e Maria Elena Boschi), Maria Rosaria San Giorgio e Riccardo Fuzio (controllati da Luca Palamara), Luca Forteleoni (direttamente controllato da Ferri).

Un ruolo molto importante nelle decisioni che assumeva il Csm lo aveva Angelantonio Racanelli, allora segretario di Magistratura Indipendente (…).

16 dicembre 2019

Domanda dei pm: Lei ha riferito di un suo coinvolgimento come associato di Ungheria nella nomina del Procuratore di Milano nel 2016: ci può riferire che attività ha svolto in questa vicenda?

Amara: La nomina del Procuratore di Milano è stata una delle vicende per le quali mi sono impegnato come associato di Ungheria nell’interesse di Eni. Il mio impegno in questa operazione è stato inteso in quanto l’Eni era fortemente interessata ad avere un procuratore di Milano controllabile e soprattutto che potesse “contenere” l’attività investigativa che De Pasquale da anni svolgeva nei confronti di Eni.

La decisione di attivarmi per condizionare la nomina nacque nell’ambito di una interlocuzione continua che avevo con Claudio Granata. Come ho riferito in un precedente interrogatorio, quando il mio rapporto con Granata si è consolidato nel 2014, abbiamo cominciato a ragionare sulla possibilità di creare un certo consenso intorno all’Eni e in particolare di “sensibilizzare” uffici giudiziari, forze dell’ordine e in generale l’opinione pubblica sull’importanza delle attività svolte dall’Eni all’estero. L’obiettivo, poi, in verità, soprattutto nella vicenda milanese, è stato quello di prendere possesso della Procura (…)

La candidatura di Greco apparve da subito molto forte e difficile da superare. La scelta di Amato era funzionale allo scopo e cioè di avere un Procuratore gestibile. Amato accettò di presentare la domanda consapevole che – nel caso di nomina – avrebbe dovuto essere disponibile. I tempi furono piuttosto lunghi, per quello che ricordo, e il progetto non andò in portò. La ragione per cui non andò in porto è che la candidatura di Greco era oggettivamente difficile da superare e poi lo stesso Palamara non era interessato in via diretta alla Procura di Milano. Ciò, unitamente alle difficoltà che incontrava all’interno della sua corrente, determinò il fallimento del progetto.

11 gennaio 2020

Domanda dei pm: Vi sono prelati appartenenti all’associazione Ungheria?

Amara: Ho letto nella lista di Caruso tre nomi: Vescovo (o monsignor) Adreatta, Monsignor Rocco Palmieri, Cardinale Parolin (Segretario di Stato di Sua Santità). Non conosco personalmente queste tre persone.

Domanda dei pm: Ci sono degli imprenditori appartenenti a Ungheria?

Amara: Bazoli, la mia fonte è la lista; Antonello Montante che io ho conosciuto circa nel 2007/2008 attraverso il Generale della Gdf Carmine Canonico. L’appartenenza di Montante a Ungheria mi è stata riferita direttamente da Gianni Tinebra e dallo stesso Montante. L’occasione fu quella in cui sia Tinebra che Montante cercarono di far desistere il pubblico ministero Musco dal coltivare iniziative processuali nei confronti di aziende facenti capo a Emma Mercegaglia. Fusillo è un imprenditore pugliese che ho conosciuto e che ho incontrato a Roma. Mi sono presentato a Fusillo con le modalità “Ungheria”, non ricordo chi me lo ha mandato; probabilmente un comune amico.

Iacobini padre e figlio (entrambi coinvolti nell’attuale vicenda della Banca Popolare di Bari). Ho incontrato il figlio di Iacobini nel 2015 a Roma in un bar di via Barberini. Iacobini mi fu mandato da Filippo Paradiso, era Iacobini che sapeva che io partecipavo a Ungheria. Iacobini venne da me in quanto aveva necessità di un contatto con Luca Lotti per ottenere l’approvazione di un decreto legge che riguardava le banche popolari. Non conosco e né ricordo il contenuto di tale decreto. Ne parlai con Bacci e Lotti e organizzai poi un incontro con Bacci e Iacobini nello stesso bar di via Barberini. In quella occasione Bacci disse che il decreto poteva essere approvato, ma che doveva essere firmato un contratto di consulenza tra Iacobini e Bacci o società da lui indicate prima dell’approvazione del decreto e con pagamento dopo l’approvazione. So che il contratto è stato formalizzato, ma poi non ho più seguito la vicenda, Iacobini mi rappresentò che c’era un forte ritardo nell’approvazione del decreto.

De Benedetti è un nome che ho letto nella lista di Caruso. “B.B.” è una sigla che era riportata nella lista e che secondo Caruso era riferibile a Silvio Berlusconi. 

(di Gianni Barbacetto e Antonio Massari – Fonti: Il Fatto Quotidiano – Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in TeleradioNews)

Loggia Ungheria, Amara: “Ero il padrone di Lotti”. I verbali: nuova puntata – L’avvocato: “Era interessato alla gestione dei ricorsi Consip”. Il gruppo si mosse “per azioni contro Woodcock”, di Gianni Barbacetto e Antonio Massari sabato, 18 Settembre 2021 su Il Fatto Quotidiano come riportato da Teleradio News. Continuiamo la pubblicazione di alcuni stralci – selezionati in ordine cronologico e per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi dinanzi ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Amara è l’unico indagato tra i nomi che leggerete e la sua versione (che ha già provocato da ieri l’annuncio di numerose denunce per calunnia) è tuttora al vaglio dei magistrati inquirenti.

14 dicembre 2019

Amara: “Fanno ulteriormente parte di Ungheria e sono magistrati amministrativi De Nictolis (attuale presidente del C.G.A.), Di Francisco (credo che al momento sia alla segreteria del presidente Conte); un certo Simonetti (giudice al C.G.A.), Stanisci (la compagna attuale di Nitto Palma – anche quest’ultimo facente parte di Ungheria). (…) Verdini mi indicò Nitto Palma e la sua attuale compagna e anche De Ficchy (procuratore di Perugia). Con riguardo a quest’ultimo ricordo che segnalai nello studio romano di DLA Piper il figlio, che in effetti fu inserito nello studio legale. Questa richiesta mi fu personalmente indicata da De Ficchy, che ho incontrato in un bar di fronte al Csm di Roma. Credo che ciò sia avvenuto nel 2016. L’assunzione del figlio di De Ficchy presso DLA Piper è stata mediata da Centofanti, a cui ho formulato io la relativa richiesta”.

15 dicembre 2019

“Successivamente si creò un problema con Fanfani il quale voleva quantomeno applicare la censura a Musco, ritenendo che fosse più coerente con la misura cautelare che il Csm aveva imposto nei suoi confronti. La notizia ci fu data da Palamara il quale la comunicò a Ferri che la veicolò a me attraverso Verdini. Mandai Bacci da Luca Lotti; all’epoca ero il ‘padrone’ di Luca Lotti perché gli avevo dato, tramite Bacci attraverso Racing Horse, circa 200 mila euro. Si andò quindi a votare e Musco fu assolto all’unanimità per insussistenza dei fatti nel marzo 2015. Naturalmente fu necessario garantirsi il benestare della Severino per raggiungere il risultato per le ragioni che ho già esposto. Fu Michele Vietti ad avere con lei una interlocuzione su mia richiesta. Avevo avuto notizia da Vella e Granata che la Severino aveva ottimi rapporti con il presidente Napolitano in quanto veicolava importanti incarichi professionali a suo figlio, tanto è vero che Scaroni quando cercava di essere riconfermato in Eni, aveva messo sul piatto della bilancia un importante incarico per il figlio di Napolitano attraverso la Severino. (…) La vicenda Musco è la dimostrazione plastica del potere di Ungheria sul Csm. Le decisioni furono assunte fuori dai luoghi istituzionali e nell’ambito di riunioni tra fratelli. In quel periodo nel Csm non contava il merito ma solo i numeri”. (…)

“Ricordo ancora che il gruppo Ungheria s’è mosso per promuovere una azione disciplinare nei confronti di Henry Woodcock, ‘colpevole’ di aver indagato sulla vicenda Consip e in particolare sul padre di Matteo Renzi. Mi dissero sempre Ferri, Verdini e Lotti che di questo fatto fu informato anche Renzi e che era necessario che il provvedimento disciplinare andasse velocemente per essere gestito dalla sezione del Csm che in quel momento era in carica. Dal lato Procura generale il procedimento fu seguito da Ciccolo e da un sostituto a lui vicino. Ciccolo è partecipe di Ungheria, lo so perché me lo hanno detto, l’ho visto nell’elenco”.

11 gennaio 2019

“Ritornando sul Consiglio di Stato vorrei precisare quanto prima detto con riguardo al giudice Santoro: da parte di Luca Lotti, soprattutto, vi era un forte interesse alla gestione di ricorsi Consip e tali ricorsi tabellarmente dal 2016 furono affidati alla VI sezione del Consiglio di Stato. Questa è la ragione per cui si voleva che Santoro divenisse presidente della sezione che si occupava dei ricorsi Consip e così avvenne”.

Domanda del pm: “Può meglio precisare con chi intervennero i discorsi per la nomina di Santoro, quando avvennero e dove avvennero?”.

Amara: “L’esigenza di avere il controllo del giudice che si occupava dei ricorsi Consip mi fu manifestata direttamente da Luca Lotti nel corso di una cena in trattoria che colloco all’inizio del 2016. Lotti mi disse espressamente che voleva che i ricorsi Consip fossero affidati a Santoro. Nello stesso periodo di tempo – nel corso di colloqui con Verdini – ho avuto anche da quest’ultimo il medesimo input, ossia che Santoro dovesse occuparsi di tali ricorsi. (…) La conoscenza di queste dinamiche mi è venuta comunque utile in quanto feci cambiare a Ezio Bigotti il suo avvocato amministrativista facendo nominare il professor Tedeschini, che sapevo avere ottimi rapporti professionali con il giudice Santoro”.

Verbali segreti, terza puntata. L’avvocato ai pm: “Mi adoperai per la nomina di Descalzi e Marcegaglia ai vertici dell’ente”. Gianni Barbacetto e Antonio Massari il 19 settembre 2021 su Il Fatto Quotidiano. Continuiamo la pubblicazione di alcuni stralci – selezionati in ordine cronologico e per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi dinanzi ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Amara è l’unico indagato tra i nomi che leggerete e la sua versione (che ha già provocato da due giorni l’annuncio di decine di denunce per calunnia) è tuttora al vaglio dei magistrati inquirenti.

14 dicembre 2019

Amara: “Tornando ad una narrazione cronologica del mio rapporto con l’associazione Ungheria indico il 2014 come un anno cruciale. Intanto io mi ero da poco trasferito a Roma dove ho avuto modo di scoprire che le relazioni dell’associazione Ungheria avevano dimensioni ben più ampie di quelle che fino a quel momento avevo conosciuto. In quell’anno ci furono tre fatti per me rilevanti. Era in corso (tra gennaio e giugno) la vicenda relativa al procedimento disciplinare nei confronti di Maurizio Musco. Ho già riferito che ci tenevo moltissimo che il provvedimento cautelare adottato in sede disciplinare nei confronti di Musco fosse revocato. A tal fine mi spesi moltissimo con Vietti (Michele, ex vicepresidente del Csm, ndr) il quale mi garantì il buon esito del procedimento, dicendomi che in Commissione disciplinare se ne sarebbe occupato Annibale Marini, associato in Ungheria e da me personalmente conosciuto in questa occasione. In quello stesso periodo mi adoperavo per la nomina ad amministratore delegato di Eni di Descalzi (Claudio, ndr) che venne effettivamente nominato insieme a Emma Marcegaglia come presidente. Come ho già riferito, la Marcegaglia era molto vicina a Paola Severino e la Severino voleva che Musco (che aveva indagato su una società della Marcegaglia) fosse trasferito. Mi trovai nella condizione di dover abbandonare Musco su richiesta di Vietti il quale mi disse che la Severino aderiva anche lei all’associazione Ungheria. Fu questo uno dei casi in cui l’interesse dell’associazione prevalse sul mio rapporto personale con Musco. A seguito delle tensioni con la Severino e della nomina della Marcegaglia come presidente dell’Eni ebbi il timore di poter essere estromesso dagli incarichi che avevo ricevuto da Eni. Fu in quel periodo che chiesi a Granata (Claudio, dirigente Eni, ndr) garanzie e lui mi disse di non preoccuparmi, che avremmo trovato una soluzione. La soluzione fu quella che vi ho descritto e cioè la spartizione degli incarichi più importanti in Eni tra me e la Severino. Nello stesso anno a ottobre ho saputo da Vietti che Denis Verdini era un associato di Ungheria e mi sono manifestato a lui. Fino a quel momento i nostri rapporti erano stati mediati da Saverio Romano, politico siciliano”.

15 dicembre 2019

Come ho riferito ho saputo dell’appartenenza di Armanna (Vincenzo, ex dirigente Eni, ndr) ad Ungheria da Luigi Bisignani. Bisignani me ne parlò nel 2016 quando Armanna era già ‘gestito’ dall’Eni. All’epoca Bisignani stava valutando la possibilità di chiedere il rito abbreviato nel procedimento cosiddetto Nigeria. Parlammo di Armanna, io gli dissi che ormai era gestito dall’Eni e che sarebbe saltata l’ipotesi della corruzione internazionale perché Armanna avrebbe negato l’esistenza di pubblici ufficiali stranieri. Bisignani mi disse allora che Armanna aveva fatto parte dell’associazione Ungheria ma che era stato posato già nel 2015, in quanto ritenuto non controllabile e in questo senso inaffidabile. Mi disse che la ragione per la quale Armanna era stato posato era riconducibile al comportamento che aveva tenuto sia nella vicenda Eni che in altre vicende che riguardavano i suoi rapporti con Bisignani. Mi invitò pertanto a fare attenzione. Non ho condiviso con Armanna alcuna operazione di Ungheria. Non ho rivelato ad Armanna la mia appartenenza ad Ungheria, almeno così ricordo. Ho raccontato certamente ad Armanna le attività che stavo compiendo al Csm per ostacolare l’attività della Procura di Milano (candidatura di Amato a Procuratore di Milano ed esposto nei confronti di De Pasquale). Armanna mi ha riferito di far parte di una associazione che ritengo fosse Ungheria o per lo meno era in parte sovrapponibile a questa. Mi riferisco in particolare a rapporti con servizi segreti italiani di cui lui mi ha parlato e che – per quanto a mia conoscenza – sono riconducibili al contesto di Ungheria. In ogni caso non mi ha mai detto esplicitamente di far parte di questa associazione”.

(…)

Domanda del pm: Alberta Casellati, membro laico del Csm, non faceva parte di Ungheria?

Amara: “No, né era sotto il controllo di persone a me note. È sempre stata disponibile al dialogo ma indipendente nelle decisioni. È bene che precisi che fino all’estate del 2016 mi sono mosso con una certa libertà e ho frequentato senza particolari cautele i membri dell’associazione Ungheria. Ad agosto 2016 l’avv. Calafiore (Giuseppe, avvocato, ndr) è stato informato dal senatore Riccardo Conti di Ala che la Gdf ci teneva sotto controllo con intercettazioni, cimici e ocp. Da quel momento ho adottato una serie di cautele ed ho evitato di incontrare direttamente gli associati. Per esempio pur essendo stato invitato all’evento che annualmente Michele Vietti organizza tra molte persone e al quale partecipavano molti degli associati, dopo l’agosto 2016 non vi ho più partecipato. Mi riservo di produrvi copie delle mail di invito agli eventi”.

Le repliche alle dichiarazioni di Piero Amara

Luca Lotti

“Ho già querelato l’avvocato Piero Amara con richiesta di risarcimento danni in sede civile per le dichiarazioni rilasciate in tv lo scorso 27 maggio 2021: fatto questo a suo tempo ampiamente riportato da agenzie di stampa e da altri organi di informazione. Oggi sul Fatto Quotidiano si leggono altre affermazioni dell’avvocato Amara su di me totalmente inventate e prive di ogni fondamento che infangano il mio nome e il mio onore: motivo per cui stamattina ho depositato nei suoi confronti una seconda querela. Sempre questa mattina, poi, con una mail, ho ricordato alla smemorato quotidiano diretto da Marco Travaglio l’esistenza della mia querela di maggio scorso. Una querela che, per correttezza e completezza di informazione nei confronti dei lettori, speravo potesse essere citata insieme ai fantasiosi contenuti dei verbali pubblicati oggi”. Lo afferma in una nota l’onorevole Luca Lotti.

Giovanni Canzio e Pasquale Ciccolo

Gli alti magistrati Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Corte di Cassazione e Pasquale Ciccolo, procuratore generale emerito sempre presso la Cassazione, rendono noto di aver dato mandato al loro legale di fiducia di querelare l’avvocato Piero Amara. La querela è in ordine alle dichiarazioni “gravemente diffamatorie e grossolanamente calunniose” rese nei loro confronti e pubblicate ieri da Il Fatto Quotidiano.

Giuseppe Amato

“Con riferimento alle notizie apparse su Il fatto quotidiano del 17 settembre 2021, in particolare alle dichiarazioni dell’avvocato Amara gravemente diffamatorie e grossolanamente calunniose, rendo noto di avere già dato mandato al mio difensore di fiducia di querelare l’avvocato Amara e di valutare ogni azione a tutela della mia reputazione, così gravemente ed ingiustificatamente lesa, in ogni sede di competenza, anche a carico di chi abbia contribuito a divulgare le suddette dichiarazioni”. Così in una nota il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato.

Chiara Balducci

“In relazione alle dichiarazioni farneticanti rese dall’avvocato Amara e pubblicate da ieri sui quotidiani nazionali circa una mia presunta partecipazione ad una presunta loggia denominata Ungheria, ho già dato mandato ai miei legali al fine di presentare denuncia per calunnia”. Così l’avvocato Paola Balducci.

Nitto Palma

“Con riferimento alla propalazione da parte de ‘Il Fatto Quotidianò dei verbali “segreti” di interrogatorio di Amara e delle succinte dichiarazioni che mi riguardano, comunico che nella mattinata odierna ho sporto denuncia per calunnia e per tutti gli altri reati che dovessero ipotizzarsi. Ho appreso dell’esistenza della cosiddetta ‘loggia Ungherià mesi fa dai giornali e, inutile dirlo, non ne ho mai fatto parte, così come di qualsivoglia altro tipo di consorteria, né mai alcuno mi ha chiesto di aderirvi. Inutile, altresì, dire che non ho mai conosciuto Amara, della cui esistenza in vita ho appreso solo dai giornali”. E’ quanto afferma in una nota l’ex Guardasigilli ed esponente di FI, Francesco Nitto Palma.

Elena Stanisci

“Con riferimento alla pubblicazione da parte de ‘Il Fatto Quotidianò dei verbali “segreti” di interrogatorio di Amara e delle dichiarazioni che mi riguardano, rappresento che nella mattinata odierna ho sporto denuncia per calunnia e per tutti gli altri reati che dovessero ipotizzarsi. Non ho mai conosciuto Amara, né faccio parte o ho mai fatto parte, della cosiddetta ‘loggia Ungherià, della cui esistenza ho appreso solo dai giornali. Confido nel ripristino della verità da parte della giustizia”. A scriverlo, in una nota, è Elena Stanisci (rpt: Stanisci), presidente di sezione del Tar del Lazio.

Paola Severino

Con riferimento all’articolo pubblicato oggi dal vostro giornale, che riporta alcuni stralci dei verbali di Piero Amara, intendo precisare e vi invito a pubblicare, anche nell’edizione online, quanto segue:

– ho già dichiarato e ribadisco di non aver mai fatto parte di alcuna loggia, segreta o palese, e di non aver mai saputo dell’esistenza di una loggia denominata Ungheria

– non ho mai avuto alcun rapporto con l’avv.Amara, il quale peraltro, su puntuale domanda del PM, ha già dichiarato in precedenti verbali già pubblicati, di “non avere rapporti diretti con lei”. Poichè non ne ho, nè ne ho mai avuti neanche di indiretti o mediati, è falso quanto viene riportato nel titolo, secondo cui “ci siamo spartiti gli incarichi Eni”.

– quanto al PM Musco, è bene ricordare che gli esiti delle verifiche condotte dagli ispettori del Ministero della Giustizia sono stati confermati in vari gradi di giudizio ed hanno portato alla sua radiazione dalla magistratura.

Confido che le Procure titolari delle indagini facciano al più presto chiarezza, e tutelerò in ogni sede la mia reputazione, guadagnata in anni di faticoso esercizio della professione, nel pieno rispetto delle regole e della deontologia.

Paola Severino

Rosanna De Nictolis, Ermanno de Francisco e Hadrian Simonetti

“Non abbiamo mai fatto parte di alcuna loggia e nemmeno sappiamo cosa sia questa cosiddetta Loggia Ungheria. Pertanto richiederemo all’autorità competente di procedere per calunnia nei confronti dell’avvocato Amara, per l’eclatante falsità delle dichiarazioni che, secondo odierne notizie di stampa, egli avrebbe reso nei nostri confronti”. Così, dopo la smentita analoga del Presidente del Consiglio di Stato, la Presidente del Cgars Rosanna De Nictolis, il Presidente di Sezione Ermanno de Francisco e il Consigliere di Stato Hadrian Simonetti.

Claudio Galoppi

“Non ho mai fatto parte di alcuna loggia né segreta né palese, né ho mai sentito parlare della cosiddetta loggia Ungheria. Non ho mai visto né conosciuto tale avvocato Amara le cui dichiarazioni sono nei miei riguardi destituite di ogni fondamento. Ho dato mandato al mio legale di presentare una denuncia per calunnia nei confronti dell’autore di queste dichiarazioni”. Così l’ex Consigliere togato del Csm Claudio Galoppi.

Sergio Santoro

L’avvocato Sergio Santoro, ex presidente aggiunto del Consiglio di Stato, “smentisce categoricamente quanto affermato da Piero Amara nell’interrogatorio dell’11 gennaio 2019, riportato sul Fatto Quotidiano”.

“Dal primo febbraio 2016 fino al 23 aprile 2021, data del mio collocamento a riposo per limiti di età – precisa Santoro in una nota – sono stato presidente della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, e in tale periodo ho emesso come presidente del collegio esattamente dieci sentenze nelle quali era parte Consip, ma l’esito è sempre stato di conferma dei provvedimenti sanzionatori dell’antitrust ivi impugnati e accertati come condizionamenti anticoncorrenziali e spartizioni di lotti. Le insinuazioni del sig. Amara, che oltretutto non ho mai visto né conosciuto, sono pertanto calunniose. Aggiungo – sottolinea ancora Santoro – che non ho mai visto, ne ho mai conosciuto nemmeno il sig. Bigotti, nè ho mai deciso cause in cui fossero parti sue società. Preciso, infine, che il prof. Tedeschini è da molto prima del 2016 mio difensore in alcuni giudizi amministrativi e civili, e pertanto mi sono sempre doverosamente astenuto dal giudicare nei processi nei quali l’avv. Tedeschini era difensore, come facilmente verificabile”.

“Fango”. E poi pubblicano i nomi. Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 19 settembre 2021. Fioccano le interpretazioni sulla decisione del Fatto di pubblicare i verbali dell’avvocato Piero Amara sulle decine di presunti affiliati alla presunta Loggia Ungheria. Una manina anonima ce li recapitò, senza firme in calce, il 29 ottobre 2020 e noi denunciammo subito quel reato alla Procura di Milano. Che ora accusa l’ex segretaria di Davigo di […] 

Fioccano le interpretazioni sulla decisione del Fatto di pubblicare i verbali dell’avvocato Piero Amara sulle decine di presunti affiliati alla presunta Loggia Ungheria. Una manina anonima ce li recapitò, senza firme in calce, il 29 ottobre 2020 e noi denunciammo subito quel reato alla Procura di Milano. Che ora accusa l’ex segretaria di Davigo di essere la titolare della manina. E ha depositato gran parte dei verbali a fine indagine. Noi 11 mesi fa non li avevamo pubblicati per tre motivi: Amara è un noto fabbricante di indagini fasulle e quei verbali senza firme potevano essere apocrifi o taroccati; anche se fossero stati autentici, non sapendo chi ce li inviava né perché, non volevamo farci usare in torbide manovre al buio; e comunque, senz’alcun riscontro sulla presunta loggia, ci saremmo esposti a una raffica di querele da parte dei personaggi citati. Ora invece li pubblichiamo perché s’è accertato che erano autentici; perché, col deposito, il segreto è caduto; perché 5 Procure hanno iniziato a separare il grano dal loglio; perché l’opinione pubblica, dopo averne sentito parlare per mesi, ha capito che si tratta delle parole di un soggetto ambiguissimo e nessuno le prende per oro colato; perché quel cadavere nel ripostiglio comincia a puzzare e a emettere miasmi, perfetti per ricatti e veleni, che si stroncano in un solo modo: pubblicando tutto. L’interesse della notizia ormai riguarda sia il vero sia il falso, visto che tutti gli accusati sono personaggi pubblici: se le accuse sono vere, bisogna conoscerle; se sono false, occorre domandarsi perché e per conto di chi sono state lanciate.

Così si ragiona in un giornale vero, che dà le notizie e per giunta si chiama Fatto. Di qui lo sgomento dei non-giornali. Sallusti titola su Libero: “Fango nel ventilatore”. E spiega che “ognuno tiene famiglia” (lui addirittura due: Berlusconi e Angelucci, mentre ci sfugge la nostra) e ora c’è una “faida tra famiglie rivali”. In basso, ma molto in basso, Filippo Chatouche Facci ci dà dei “passacarte” che “han messo nel ventilatore la peggior merda”. Poi volti pagina e scopri che Libero copia parola per parola la nostra “merda” e la mette nel suo ventilatore, con sopraffina coerenza (e coprofilia). Sul Riformatorio, il povero Sansonetti ha un attacco di labirintite: dopo averci accusati per mesi di non pubblicare, ora ci accusa di pubblicare per consumare “la vendetta di Davigo” contro Greco (mai citati, nessuno dei due, nei verbali). Poi, già che c’è, la consuma pure lui copiando paro paro il nostro scoop. L’unica cosa che non viene proprio in mente ai non-colleghi dei non-giornali è che il Fatto dia le notizie per dare le notizie: in tanti anni di onorate non-carriere, non ne hanno mai vista una.

Giuseppe Conte, la maxi-consulenza da 400mila euro (su cui Il Fatto Quotidiano sorvola). P.F. su Libero Quotidiano il 19 settembre 2021. Per oltre un anno, con la scusa che i verbali «non erano attendibili» in quanto non firmati e per «non compromettere le indagini», il Fatto Quotidiano ha tenuto in un cassetto le dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria. Una scelta "deontologica" che ha tutelato Giuseppe Conte, quando era presidente del Consiglio, dal fango nel ventilatore. «Vietti mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati e professionisti a lui vicini e avvenne in quel periodo con l'avvocato Conte, oggi premier, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acqua Marcia spa di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti che all'epoca era responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali di Acqua Marcia», raccontò Amara a dicembre del 2019 ai pm di Milano. «L'importo che fu corrisposto da Acqua Marcia ad Alpa e Conte era di 400mila euro a Conte e di un milione di euro ad Alpa». «Questo l'ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile trattandosi della rivisitazione del contenzione della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore e l'importo corrisposto fu particolarmente elevato», aveva aggiunto. «Non ho nulla a che fare con i loschi traffici di Amara, non l'ho mai conosciuto. Trecento pareri legali mi hanno occupato per quasi un anno, quindi quel compenso era il minimo: tutte quelle parcelle hanno passato il vaglio del tribunale e dei commissari giudiziali nominati dai giudici fallimentari», la risposta di Conte. Acqua marcia era controllata da Francesco Bellavista Caltagirone. Dopo la consulenza per Acqua Marcia, finita in concordato, Conte aveva lavorato per l'imprenditore Leonardo Marseglia nella compravendita di un albergo a Venezia, nel portafoglio della società di Caltagirone. Un potenziale conflitto d'interessi: Conte, già consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato), aveva assistito Marseglia che del concordato era il beneficiario. Gli incarichi «non sono entrati in conflitto, trattasi di epoche diverse: il primo risale al 2012-13, mentre quello per Marseglia risale a due anni dopo. E comunque il contenuto dell'incarico non era tale da creare potenziali conflitti», la replica di Conte. Amara raccontò i problemi di Acqua Marcia per omologare il concordato. Per l'omologa serviva nominare gli avvocati «Enrico Caratozzolo, Guido Alpa e Giuseppe Conte». Alla domanda su chi fosse il giudice che ha gestito il concordato, Amara ebbe delle amnesie. E su queste dichiarazioni è pendente da mesi a Roma un procedimento, senza indagati, per bancarotta per dissipazione.

Loggia Ungheria, guerra su Amara. "Ma i giornaloni censurano il caso".  Da affaritaliani.it Domenica, 19 settembre 2021. Pioggia di querele dei nomi citati da Amara nei verbali. Sallusti attacca: "I giornaloni sbianchettano la vicenda perché coinvolge loro amici". Esplode la guerra giudiziaria sul caso Amara e della loggia Ungheria. Quasi la totalità dei nomi citati da Amara negli interrogatori come presunti membri della loggia smentiscono e annunciano querele. Intanto, però, non tutti si stanno occupando di un caso giudiziario che sembra alquanto rilevante. Lo sostiene in un editoriale pubblicato in prima pagina su Libero Quotidiano Alessandro Sallusti. "Chissà perché quando atti giudiziari sensibili riguardano gli amici e gli amici degli amici scatta una gigantesca operazione di autocensura", scrive Sallusti. "Ieri né il Corriere della Sera, né La Repubblica, né La Stampa hanno pubblicato una sola riga sui verbali in cui il faccendiere Amara delinea l'esistenza di una loggia segreta, la Loggia Ungheria, e fa i nomi di magistrati, politici e importanti uomini dello Stato che ne farebbero parte". Insiste Sallusti: "Strano davvero questo silenzio, per di più da parte di testate che non hanno mai lesinato a fare paginate di documenti giudiziari ben prima che la veridicità del loro contenuto venisse vagliata".

Paola Severino: "Mai fatto parte di alcuna loggia". Intanto, prosegue la pioggia di smentite. "Ribadisco quanto avevo gia' a suo tempo dichiarato: non ho mai fatto parte della loggia Ungheria ne' di alcuna loggia. Preciso inoltre che e' privo di ogni fondamento quanto riportato nei verbali pubblicati da alcuni quotidiani. Auspico che la magistratura faccia chiarezza nel piu' breve tempo possibile a tutela non solo mia ma di tutte le persone menzionate". Lo dichiara Paola Severino in merito alle dichiarazioni di Piero Amara contenute in alcuni suoi verbali.

CASO AMARA: EX CONSIGLIERE CSM GALOPPI, 'MAI IN NESSUNA LOGGIA". ''Non ho mai fatto parte di alcuna loggia né segreta né palese, né ho mai sentito parlare della cosiddetta loggia Ungheria. Non ho mai visto né conosciuto tale avvocato Amara le cui dichiarazioni sono nei miei riguardi destituite di ogni fondamento. Ho dato mandato al mio legale di presentare una denuncia per calunnia nei confronti dell'autore di queste dichiarazioni''. Così l'ex Consigliere togato del Csm Claudio Galoppi.

CASO AMARA: DE NICTOLIS, DE FRANCISCO E SIMONETTI, 'MAI IN LOGGE, TANTOMENO UNGHERIA'. ''Non abbiamo mai fatto parte di alcuna loggia e nemmeno sappiamo cosa sia questa cosiddetta Loggia Ungheria. Pertanto richiederemo all'autorità competente di procedere per calunnia nei confronti dell'avvocato Amara, per l'eclatante falsità delle dichiarazioni che, secondo odierne notizie di stampa, egli avrebbe reso nei nostri confronti''. Così, dopo la smentita analoga del Presidente del Consiglio di Stato, la Presidente del Cgars Rosanna De Nictolis, il Presidente di Sezione Ermanno de Francisco e il Consigliere di Stato Hadrian Simonetti, stamattina dopo la lettura di alcuni stralci dei verbali delle dichiarazioni dell'avvocato Amara del 14 dicembre 2019, riportati da Il Fatto Quotidiano. 

Loggia Ungheria, Alessandro Sallusti: lo scandalo sbianchettato dai grandi giornali. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 19 settembre 2021. Chissà perché quando atti giudiziari sensibili riguardano gli amici e gli amici degli amici scatta una gigantesca operazione di autocensura. Ieri né il Corriere della Sera, né La Repubblica né La Stampa hanno pubblicato una sola riga sui verbali in cui il faccendiere Amara delinea l'esistenza di una loggia segreta, la Loggia Ungheria, e fa i nomi di magistrati, politici e importanti uomini dello Stato che ne farebbero parte. Premesso che nulla è accertato, per cui potrebbe trattarsi di una millanteria in tutto o in parte, la notizia c'è eccome visto che proprio su quelle carte imboscate per due anni sono stati indagati a vario titolo il capo della procura di Milano Francesco Greco e magistrati di calibro tra i quali Piercamillo Davigo. Strano davvero questo silenzio, per di più da parte di testate che non hanno mai lesinato a fare paginate di documenti giudiziari ben prima che la veridicità del loro contenuto venisse vagliata e confermata dalle autorità giudiziarie. Ricordo, per fare un esempio, la pubblicazione delle centinaia di intercettazioni del caso Ruby che riguardavano il presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi (poi assolto, ma il fango ormai era girato), ricordo decine di articolesse su una presunta Loggia, la P3, subito spacciata per grande scandalo solo perché coinvolgeva Denis Verdini allora pezzo grosso di Forza Italia (ovviamente poi assolto). Insomma, con i nemici politici dell'informazione si può fare carne di porco, con gli amici potenti, soprattutto se magistrati, le notizie sono tali solo se confermate in terzo grado di giudizio. A me questa storia della Loggia Ungheria puzza assai, ma meglio andare a vederci chiaro che girarsi dall'altra parte. A maggior ragione se chi svicola sono quei giornali che negli ultimi anni sono stati megafoni acritici, e quindi complici, delle peggio schifezze commesse da quel sistema deviato magistrati-giornalisti che in nome della giustizia ha dirottato più e più volte il corso della democrazia. Se certi giornali tacciono è solo perché qualche cosa di vero in questa brutta storia c'è e si sta tentando di non farlo emergere. Ci vorrebbe un Gabibbo, solo che qui non siamo a "Striscia la notizia" ma a "Straccia la notizia", programma non sottotitolato per bensì realizzato da non udenti.

L’intervista all’ex consigliere Csm a Dimatedì su La7. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. «So che l’iscrizione è avvenuta solo sei mesi dopo l’acquisizione della notizia di reato, dopo che il Pg della Cassazione, informato da me, lo ha chiamato». Sul perché non l’abbia fatto prima “non lo so”. Così Piercamillo Davigo a DiMartedì, su La7, ha risposto a una domanda sul procuratore di Milano Francesco Greco e sulle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria. «Ma così avrebbe commesso un reato?» gli ha chiesto Giovanni Floris: «Sì, infatti è indagato per abuso d’ufficio».

Caso Amara, la segretaria di Davigo e quei verbali diffusi per farlo restare al Csm. Giuliano Foschini su La Repubblica il 15 settembre 2021. L'inchiesta su Marcella Contrafatto, collaboratrice dell’ex magistrato. Una testimone ai pm: “Mi disse che voleva far scoppiare una bomba". I verbali che avrebbero potuto fare crollare un pezzo di Paese, perché contenevano i nomi e i cognomi degli affiliati alla fantomatica loggia Ungheria di cui l'avvocato Piero Amara aveva parlato alla procura di Milano, erano custoditi in un cassetto nella stanza dell'allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo. "In uno scaffale in basso, non sotto chiave".

Caos verbali, regole violate e vendette: ecco cosa non torna. Nella storia dei verbali di Amara consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo c’è di tutto. Simona Musco su Il Dubbio il 17 settembre 2021. Contraddizioni, regole violate, vendette trasversali. Nella storia dei verbali di Amara consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo c’è di tutto. Tant’è che ogni pezzo nuovo della storia richiede un passo indietro per ricapitolare tutto e rileggere gli elementi precedenti alla luce di quelli nuovi. L’ultimo tassello del puzzle viene fuori dai verbali d’interrogatorio depositati in procura a Roma nell’ambito dell’inchiesta su Marcella Contrafatto, l’ex segretaria di Davigo che avrebbe spedito quei verbali ai giornali e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Le voci sono due: da un lato quella di Giulia Befera, assistente di Davigo, secondo cui quei verbali, nell’ottica di Contrafatto, sarebbero serviti come arma per far rimanere Davigo al Csm dopo il pensionamento e, in caso contrario, come arma per svergognare Palazzo dei Marescialli. Dall’altro lo stesso Davigo, che sempre ai pm di Roma ha dichiarato di non aver avvisato Contrafatto che quei documenti chiusi in un cassetto del suo ufficio fossero dei verbali su una loggia segreta denominata “Ungheria”. Ma sempre secondo Befera, «Davigo mi disse che ne aveva parlato con il vicepresidente del Csm, e so che anche la Contrafatto era a conoscenza dei verbali. Mi disse che sapeva dove erano collocati, cioè nella stanza di Davigo, in uno scaffale posto in basso». Insomma, qualcuno mente o, ad esser generosi, ricorda male. La cronologia dei fatti è nota: ad aprile 2020 Storari, che stava sentendo l’ex legale esterno del “cane a sei zampe” Piero Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegna dei verbali senza firma e senza timbro a Davigo, convinto di un voluto lassismo da parte dei vertici della procura nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Un atto inopportuno, secondo la procura di Brescia, che ha avviato un’indagine su Storari e Davigo per rivelazione d’atti d’ufficio, e parallelamente una sul procuratore Francesco Greco e sull’aggiunto Laura Pedio per omissione d’atti d’ufficio. Ma perché Storari consegnò i documenti a Davigo anziché affidarsi alle vie formali, le uniche, secondo il Csm, lecite? La risposta la dà l’ex pm di Mani Pulite: ciò che ha fatto poteva essere fatto. In primis, è stato lui, come ammesso dallo stesso davanti ai pm e come confermato da Storari a Brescia, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura: «Premetto che Storari preliminarmente mi chiese se poteva parlare con me. Io gli dissi che c’erano specifiche circolari del Csm che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm e gli dissi che avrei potuto fare da tramite con il comitato di presidenza. In relazione a ciò, ho ricevuto da Storari copia di documenti in formato word, non firmati». La circolare cui fa riferimento è la numero 510 del 15 gennaio 1994, che però in nessun caso fa riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm. La circolare, infatti, riguarda i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Consiglio superiore della magistratura e affronta il tema dell’acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Secondo la circolare, «può ritenersi consentito il superamento del segreto investigativo ogni qualvolta questo possa rallentare od impedire l’esercizio della funzione di tutela e controllo da parte del Csm, che comunque resta soggetto alla disciplina del segreto d’ufficio». Ma tale circolare non elimina l’obbligo di procedere formalmente, limitandosi all’aspetto della segretezza. E sbagliato sarebbe anche il parallelismo con il precedente di Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che nel 1981 consegnarono gli elenchi della loggia P2 al presidente della Repubblica, Sandro Pertini. I due, infatti, lo fecero tramite un’ordinanza, allegando gli atti. E, dunque, sempre formalmente. Ma se anche la circolazione di quei verbali all’interno del Csm fosse stata lecita, ci sono altri punti oscuri. Davigo, infatti, selezionò i soggetti autorizzati a vederli, perché tra i nomi indicati da Amara come componenti la presunta loggia Ungheria ci sarebbe stato anche quello di Sebastiano Ardita, suo ex amico. Davigo, infatti, invitò la sua segretaria a non far avvicinare alla sua stanza il togato del Csm, proprio per evitare che scoprisse di quella indagine. Secondo Befera, sarebbe questo il motivo della rottura tra i due. Ma il gelo tra i fondatori della corrente Autonomia& Indipendenza sarebbe sceso ben prima, ovvero almeno a marzo, quando venne nominato il nuovo procuratore di Roma, Michele Prestipino. Inoltre, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe parlato di quei verbali quanto meno ad un esterno, che con la circolare del 1994, al di là della sua interpretazione, comunque non c’entrava nulla, ovvero Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia. «Sapevo anche io della questione perché informato da Piercamillo Davigo», ha dichiarato Morra davanti ai pm romani, dunque mettendo nei guai il suo amico. Informazioni che Davigo gli avrebbe dato nel sottoscala del Csm, indicando il nome di Ardita con un dito. Ma questa versione, consegnata ai magistrati romani, Davigo l’ha smentita categoricamente. Ancora una volta.

L’assistente di Davigo: «La sua segretaria sapeva dov’erano i verbali segreti. Disse: cambio il destino». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 15 settembre 2021. Giulia Befera, assistente di Piercamillo Davigo al Csm, è stata sentita dai pm che indagano sulla fuga di notizie: «Marcella Contrafatto mi scrisse: ora cambio il destino. Davigo ci parlò di quelle carte e dell’immobilismo di Greco, a Milano». «Il consigliere Davigo nel maggio 2020 mi disse che aveva deciso di rompere i rapporti con il consigliere Ardita perché gli era stato consegnato un verbale di dichiarazioni rese alla Procura di Milano in cui il nome di Ardita era associato a una loggia; non ricordo se mi disse chi gli avesse consegnato i verbali. Parlò anche di un certo immobilismo della Procura di Milano. Non ricordo se mi fece il nome di Amara come soggetto che aveva fatto quelle dichiarazioni». Nell’intricato affaire dei verbali segreti dell’avvocato Pietro Amara sulla presunta «loggia Ungheria» emerge un’altra testimone che ricevette l’avviso dell’ex pm di Mani pulite: si chiama Giulia Befera, ha 32 anni ed è stata assistente di Davigo al Consiglio superiore della magistratura, fino alla pensione di quest’ultimo nell’ottobre 2020. Befera è stata ascoltata dai pubblici ministeri romani nell’indagine su Marcella Contrafatto, la segretaria di Davigo indagata per calunnia perché accusata di aver inviato anonimamente i verbali di Amara (gli stesi consegnati all’ex consigliere del Csm dal pm milanese Paolo Storari) al magistrato Nino Di Matteo, oltre che ad alcuni giornalisti; l’inchiesta è chiusa, e la Procura si appresta a chiedere il rinvio a giudizio della donna. Davigo con le spedizioni anonime non c’entra, ma le sue collaboratrici avrebbero appreso da lui ciò che poi è finito nelle lettere anonime che accompagnavano i verbali. «Davigo — racconta Befera nell’interrogatorio trasmesso al Csm con tutti gli atti dell’indagine su Contrafatto, sotto procedimento disciplinare dell’organo di autogoverno dei giudici — mi disse che ne aveva parlato con il vicepresidente del Csm, e so che anche la Contrafatto era a conoscenza dei verbali. Mi disse che sapeva dove erano collocati, cioè nella stanza di Davigo, in uno scaffale posto in basso». Secondo l’assistente più giovane, la svolta di questa storia avviene con la decisione del Csm di estromettere l’ex pm di Mani Pulite nel momento in cui ha lasciato la toga; prima lui stesso pensava di essere confermato, ma poi capì che ciò non sarebbe avvenuto. Già prima Contrafatto aveva scritto a Befera: «Un grande titolo ad effetto dal Fatto quotidiano potrebbe veramente cambiare le sorti del destino»; dopo invece, racconta Befera, «la Contrafatto mi rappresentò che sarebbe stato bello ed eclatante se avesse avuto clamore mediatico la vicenda relativa ai verbali, alla loggia e al fatto che Davigo sapesse e avesse informato la presidenza del Csm e il presidente della Repubblica, venendo ripagato con la mancata riconferma». La donna ribadisce l’estraneità di Davigo — «lui non voleva certo che tali notizie uscissero, dava sempre l’impressione di confidare nell’andamento della giustizia» — mentre svela le intenzioni della collega: «Manifestò la sua idea di scatenare un titolone sui giornali prima del plenum; in pratica mi disse che sarebbe stato “stupendo” se la notizia fosse uscita sui giornali. La mia percezione all’epoca era che Marcella stesse esagerando, perché è un soggetto sopra le righe. Io le dissi “andiamo carcerate”». Le spedizioni ai giornali risalgono all’ottobre-novembre 2020 (entrambe a Il Fatto) e al 24 febbraio 2021 (la Repubblica). Non uscì nulla, e a dicembre 2020, il giorno di Natale, Befera scrisse un messaggio a Contrafatto per chiederle: «La vuole far scoppiare o no sta bomba?». Ai pm la donna spiega che non si riferiva ai giornalisti (uno dei destinatari degli anonimi era il direttore de Il Fatto Marco Travaglio, di cui Contrafatto le aveva chiesto l’indirizzo e-mail) bensì «all’atteggiamento di Davigo, mi domandavo perché continuasse a non far emergere pubblicamente ciò che sapeva su Ardita». Il 18 febbraio 2021 il «corvo» del Csm avvertì il consigliere Di Matteo, recapitandogli un verbale con il nome di Ardita accompagnato da poche righe scritte al computer, e un’aggiunta a mano: «Ho mandato solo la parte... diciamo più interessante. Sicuramente ci sono dei nomi che lei conosce. È bene sapere chi abbiamo intorno e soprattutto scoprire la verità sulla moralità delle persone. Sarà una sorpresa sicuramente. Ben tenuto nascosto dal procuratore Greco (altri verb. c’è anche lui). Chissà perché». È l’invio che ha fatto scattare l’accusa di calunnia (ai danni di Greco) per Contrafatto, la quale però ha negato anche con Befera di essere la «postina». Con i pm l’indagata finora ha preferito tacere, e nella perquisizione a casa sua gli investigatori della Guardia di finanza non hanno trovato solo copia degli stessi verbali di Amara (ora in carcere per scontare la pena patteggiata per corruzione e altri reati) diffusi dal «corvo»; c’erano altri atti giudiziari, tra cui trascrizioni di colloqui registrati «privatamente» di coimputati di Amara, come l’imprenditore romano Fabrizio Centofanti e l’avvocato siciliano Giuseppe Calafiore, che fanno parte di un procedimento della Procura di Milano.

«Davigo mi parlò dei verbali di Amara che riguardavano Ardita». L'ex assistente di Piercamillo Davigo parla dei verbali di Piero Amara. «Davigo mi disse che aveva deciso di rompere i rapporti con il consigliere Ardita». su Il Dubbio il 15 settembre 2021. Corriere della Sera e Repubblica pubblicano i verbali dell’ex assistente di Piercamillo Davigo, Giulia Befera, le cui dichiarazioni sono contenute nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari notificato nei giorni scorsi dalla procura di Roma, mentre era in corso l’ultima seduta plenaria del Csm, all’ex segretaria del pm di “Mani Pulite”, Marcella Contrafatto, oggi a rischio licenziamento da parte del “Parlamento delle toghe”.

Parla l’ex assistente di Davigo

«Il consigliere Davigo nel maggio 2020 mi disse che aveva deciso di rompere i rapporti con il consigliere Ardita perché gli era stato consegnato un verbale di dichiarazioni rese alla procura di Milano in cui il nome di Ardita era associato a una loggia; non ricordo se mi disse chi gli avesse consegnato i verbali. Parlò anche di un certo immobilismo della procura di Milano. Non ricorso se mi fece il nome di Amara come soggetto che aveva fatto quelle dichiarazioni». Secondo la ricostruzione fatta dai pm romani, Davigo con le spedizioni nomine dei verbali di Piero Amara, ex legale dell’Eni, non c’entra nulla. Quelle dichiarazioni, lo ricordiamo, arrivarono nelle redazioni dei giornali. «Davigo – aggiunge l’ex assistente – mi disse che ne aveva parlato con il vicepresidente del Csm», ovvero David Ermini, «e so che anche la Contrafatto era a conoscenza dei verbali. Mi disse che sapeva dove erano collocati, cioè nella stanza di Davigo, in uno scaffale posto in basso». E ancora: «La Contrafatto mi rappresentò che sarebbe stato bello ed eclatante se avesse avuto clamore mediatico la vicenda relativa ai verbali, alla loggia e al fatto che Davigo sapesse e avesse informato la presidenza del Csm e il presidente della Repubblica, venendo ripagato con la mancata riconferma». Secondo Befera, «Davigo non voleva certo che tali notizie uscissero, dava sempre l’impressione di confidare nell’andamento della giustizia».

«La vuole far scoppiare o no sta bomba?»

Sulla Contrafatto, invece, aggiunge che «manifestò la sua idea di scatenare un titolone sui giornali prima del Plenum; in pratica mi disse che sarebbe stato “stupendo” se la notizia fosse uscita sui giornali. La mia percezione all’epoca era che Marcella Contrafatto stesse esagerando, perché è un soggetto sopra le righe. Io le dissi “andiamo carcerate”». Inoltre, il giorno prima di Natale 2020, Giulia Befera scrisse un messaggio all’ex segretaria di Davigo per chiederle «la vuole far scoppiare o no sta bomba?» riferendosi «all’atteggiamento di Davigo» e «mi domandavo perché continuasse a non far emergere pubblicamente ciò che sapeva su Ardita».

Da Di Matteo a Greco

Qualche mese dopo, il 18 febbraio 2021, un plico anonimo arriva sulla scrivania del consigliere togato, Nino Di Matteo. Il mittente è il «corvo» del Csm. «Ho mandato solo le carte… diciamo più interessante. Sicuramente ci sono dei nomi che lei conosce. E’ bene sapere chi abbiamo intorno e soprattutto scoprire la verità sulla moralità delle persone. Sarà una sorpresa sicuramente. Ben tenuto nascosto dal procuratore Greco. Chissà perché». Questo testo ha provocato l’apertura di un procedimento penale per calunnia a carico della Contrafatto. Sull’ex segretaria di Davigo, la Befera conclude così: «Mi disse che non era stata lei a inviare i vernali e che avevano voluta incastrarla all’interno del Csm».

Le dichiarazioni dell'ex collaboratrice del "dottor Sottile". Loggia Ungheria, la “bomba” sul pensionamento di Davigo: “Un bel titolo del "Fatto" potrebbe cambiare il destino”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Settembre 2021. Quello che avrebbe potuto cambiare tutto poteva essere un bel titolone sui giornali, magari Il Fatto Quotidiano, o La Repubblica. E infatti i verbali in formato word degli interrogatori nei quali l’avvocato Piero Amara rivelava l’esistenza di una presunta e fantomatica loggia di potere, la Loggia Ungheria, vennero mandati proprio ai due quotidiani. O almeno questa la versione di Giulia Befera, 32 anni, ex collaboratrice di Piercamillo Davigo, e a stretto contatto con la segretaria del “dotto Sottile” Marcella Contrafatto, indagata per calunnia con l’accusa di aver inviato anonimamente i verbali di Amara al magistrato Nino Di Matteo e ad alcuni giornali. È stata ascoltata dai pm romani in merito all’indagine su Contrafatto. Quei verbali erano stati consegnati dal Procuratore aggiunto di Milano Paolo Storari a Davigo, per il presunto “immobilismo” con il quale la magistratura ambrosiana e il suo capo Francesco Greco avrebbero affrontato la questione. Davigo dopo aver ricevuto quei verbali non li segnalò formalmente, ma ne parlò informalmente con il vicepresidente del Csm David Ermini e con gli altri due membri del Comitato, il procuratore generale e il presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio oltre che con il senatore Nicola Morra, presidente dell’Antimafia. È indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio, Greco è indagato per ritardo dell’apertura delle indagini. I due, il “dottor Sottile” e la “mente finanziaria” del pool di Mani Pulite, si sono lanciati bordate a vicenda negli ultimi giorni da giornali e tv. La Procura si appresta intanto a chiedere il rinvio a giudizio dell’ex segretaria Contrafatto. A riportare la versione – che rappresenta solo la sua di verità – di Befera Il Corriere della Sera: secondo la 32enne la svolta sarebbe stata la decisione del Csm “di estromettere l’ex pm di Mani Pulite nel momento in cui ha lasciato la toga; prima lui stesso pensava di essere confermato, ma poi capì che ciò non sarebbe avvenuto”. Davigo è andato in pensione nell’autunno scorso, dopo aver compiuto 70 anni. La sua decadenza da consigliere era stata deliberata dal Csm e il suo ricorso al Tar del Lazio giudicato inammissibile lo scorso gennaio. Ed era a quel punto che, secondo Befera, Contraffato sosteneva: “Un grande titolo ad effetto dal Fatto Quotidiano potrebbe veramente cambiare le sorti del destino – avrebbe scritto già prima. E poi, Befera: “La Contrafatto mi rappresentò che sarebbe stato bello ed eclatante se avesse avuto clamore mediatico la vicenda relativa ai vertici, alla loggia e al fatto che Davigo sapesse e avesse informato la presidenza del Csm e il Presidente della Repubblica, venendo ripagato con la mancata riconferma”. L’ex collaboratrice ribadisce tuttavia chiaramente che Davigo era estraneo alla fuga di notizie, alle spedizioni anonime. Non c’entrava. L’ex collaboratrice dice che era intenzione di Contrafatto “scatenare un titolone sui giornali prima del plenum; in pratica mi disse che sarebbe stato ‘stupendo’ se la notizia fosse uscita sui giornali”. Le spedizioni tra ottobre e 2020 e febbraio 2021. A dicembre il messaggio di Befera alla segretaria: “La vuole far scoppiare o no sta bomba?”. E questo perché si chiedeva perché Davigo “continuasse a non far emergere pubblicamente ciò che sapeva su Ardita”, membro del Csm, ex compagno di corrente di Davigo in Autonomia & Indipendenza, tirato in mezzo dai verbali della Loggia, e con il quale Davigo avrebbe deciso di rompere qualsiasi rapporto – Ardita ha confermato la sua estraneità alla presunta Loggia. A scoprire il vaso di Pandora la denuncia, dopo aver ricevuto i verbali, del consigliere Csm Nino Di Matteo. Documenti accompagnati da alcune righe, aggiunte a mano e a computer: “Ho mandato solo la parte … diciamo più interessante. Sicuramente ci sono dei nomi che lei conosce. È bene sapere chi abbiamo intorno e soprattutto scoprire la verità sulla moralità delle persone. Sarà una sorpresa sicuramente. Ben tenuto nascosto dal procuratore Greco. Chissà perché”. Da qui l’accusa di calunnia al Procuratore Capo di Milano che si appresta al pensionamento, a novembre. Sia Contrafatto che Befera hanno negato di essere la “postina” del caso.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

V.Pic. per il "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. «Non sono io la postina». Presenterà ricorso Marcella Maria Contrafatto contro il licenziamento in tronco, subìto mercoledì dal Consiglio superiore della magistratura. Lavorava lì da quasi trent' anni. Gli ultimi dei quali trascorsi come segretaria dell'ex consigliere Piercamillo Davigo, e poi nella bufera del caso Amara. Con quei verbali consegnati dal pm Paolo Storari a Davigo per una forma di autotutela e poi spediti ai media. Ma la manina, rivendica la Contrafatto, non era la sua. «Sono amareggiata e delusa», dice all'indomani del verdetto basato su quel sospetto che l'ha fatta finire sotto indagine per calunnia alla Procura di Roma. «Mi hanno licenziato ritenendo che sia io la famosa postina dei verbali di Amara sebbene dagli atti emerga una verità diversa», aggiunge. Respingendo ogni addebito e convinta che saprà dimostrare l'infondatezza delle accuse. Il ricorso potrà essere presentato di fronte al giudice del lavoro. «La ritengo una gravissima ingiustizia e mi difenderò in tutte le sedi giudizia-rie», assicura Contrafatto. E Alessia Angelini, la sua legale nel procedimento penale, è convinta che di prove ce ne siano già. A cominciare dal fatto che la voce della «postina» era stata descritta con accento del Nord, «mentre lei è romana». E che il receptionist del quotidiano che aveva ricevuto i verbali di Amara non l'ha individuata tra le quattro mostrategli dagli investigatori nel riconoscimento.

Caso Amara, Csm: licenziamento per l'ex segretaria di Davigo. "Sono amareggiata, mi difenderò". La Repubblica il 23 settembre 2021. Marcella Contrafatto è inita sotto inchiesta a Roma in relazione alla diffusione dei verbali degli interrogatori resi dall'avvocato ai magistrati di Milano. Licenziamento per Marcella Contrafatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo, finita sotto inchiesta a Roma in relazione alla diffusione dei verbali degli interrogatori resi dall'avvocato Piero Amara ai magistrati di Milano. Lo ha deciso il plenum del Csm nel corso di una seduta secretata svolta nella serata di mercoledì. A confermarlo è il legale dell'ex funzionaria del Csm, l'avvocato Riccardo Bolognesi, il quale ha ricevuto in tarda serata la notifica del provvedimento adottato da Palazzo dei Marescialli. Contro questa decisione, Contrafatto potrà presentare ricorso davanti al giudice del lavoro. E intanto commenta: "Sono amareggiata e delusa: mi hanno licenziato ritenendo che sia io la famosa postina dei verbali di Amara sebbene dagli atti emerga una verità diversa. La ritengo una gravissima ingiustizia e mi difenderò in tutte le sedi giudiziarie", ha detto tramite il suo difensore Alessia Angelini. Nella parte di seduta pubblica svolta a Palazzo dei Marescialli, Contrafatto non aveva voluto rilasciare alcuna dichiarazione davanti al plenum, mentre il suo difensore, oltre a rilevare "vizi" procedurali nel procedimento disciplinare, aveva chiesto, in ogni caso, un differimento della decisione per poter esaminare "un'alluvione di documenti" - oltre mille pagine - collegati all'avviso di conclusione indagini che la procura di Roma ha notificato a Contrafatto nelle scorse settimane, e messi a disposizione della difesa solo qualche ora prima. L'inchiesta dei pm nei confronti di Contrafatto, ha specificato il legale, riguarda l'ipotesi di reato di calunnia solo in relazione ai verbali che furono recapitati al togato Nino Di Matteo, mentre il procedimento disciplinare aperto dal Csm (che aveva sospeso già dallo scorso aprile la ex segretaria di Davigo) è inerente anche al plico che venne inviato a una giornalista di “Repubblica”. Nessun procedimento nei confronti di Contrafatto, afferma la difesa, riguarda invece la trasmissione dei verbali a un quotidiano.

Il Csm licenzia Marcella Contrafatto, l’ex segretaria di Davigo. Prima del licenziamento, la difesa di Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, aveva illustrato al plenum il traffico di "postini" sui verbali. Simona Musco su Il Dubbio il 23 settembre 2021. Il Csm licenzia l’ex segretaria di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, indagata dalla procura di Roma per calunnia ai danni del procuratore di Milano Francesco Greco. Una scelta comunicata al suo legale a tarda sera, dopo una camera di consiglio durata diverse ore. Prima che il plenum del Csm si riunisse per decidere sul destino della dipendente, il suo legale, Riccardo Bolognesi, aveva ribadito la richiesta di revoca del provvedimento del segretario generale del primo luglio, anche alla luce dei nuovi documenti acquisiti e messi a disposizione dei difensori «in modo irrituale» ed in subordine ha chiesto un nuovo rinvio. Ma niente da fare: Palazzo dei Marescialli ha deciso di non approfondire ulteriormente la questione, né di attendere l’esito della vicenda giudiziaria. Contrafatto potrà ora fare ricorso al Tribunale del lavoro. Ma dall’udienza di ieri sono emersi diversi elementi interessanti. A partire dal fatto che i verbali di Amara recapitati al Fatto Quotidiano il 29 ottobre 2020 non sarebbero stati spediti dal Contrafatto, come ribadito da Bolognesi. Secondo la procura capitolina, infatti, quei documenti coperti da segreto e consegnati dal pm Paolo Storari a Davigo per “superare” il lassismo della procura di Milano sarebbero stati inviati alla stampa e al consigliere del Csm Nino Di Matteo proprio da Contrafatto, accompagnati da alcuni biglietti nei quali veniva indicato in Greco il responsabile dei ritardi nelle indagini lamentati da Storari. Nei giorni scorsi a Contrafatto era stato recapitato l’avviso di conclusione delle indagini, ma i termini sono stati riaperti in quanto per un errore materiale la difesa aveva ricevuto metà della documentazione agli atti. Ieri mattina, inoltre, sono stati notificati anche al Csm ulteriori documenti – 1137 pagine -, relativi ai sequestri effettuati dall’autorità giudiziaria. Una vera e propria «alluvione documentale», ha sottolineato Bolognesi, che ha evidenziato l’esigenza di tempo per visionare il nuovo faldone. Dal 20 settembre scorso, dunque, decorrono nuovamente i termini. Nel frattempo Alessia Angelini, legale di Contrafatto in sede penale, ha chiesto copia dei brogliacci delle intercettazioni e copia dell’esposto depositato dal consigliere Di Matteo. Secondo quanto emerso ieri, la busta con la scritta “segreto” contenente i verbali non sarebbe stata esaminata dal consulente tecnico che ha eseguito la perizia grafologica. Ma non solo: nell’avviso di conclusione delle indagini non c’è alcun riferimento ai verbali consegnati dal giornalista del Fatto quotidiano alla procura di Milano. Nonostante ciò, ha evidenziato Bolognesi, il giornale di Travaglio «insiste nell’errore anche in questi giorni, raccontando del plico anonimo recapitato al Fatto e dei verbali in esso contenuti, sostenendo che siano stati consegnati da Contrafatto. L’insistenza nell’errore e nel confondere vicende del tutto autonome – ha evidenziato il legale – ritengo sia uno dei frutti dell’attuale pendenza del disciplinare, che continua ad esporre alla gogna la signora, nonostante sia evidente l’esistenza di diverse consegne, distribuzioni, diverse forme di verbali e fattorini anonimi attivi sin da ottobre 2020, fattorini che si esclude possano essere le segretarie di Davigo». Bolognesi si è anche chiesto come mai la procura di Perugia ignori il fatto che la giornalista di Repubblica Liana Milella, destinataria di uno dei plichi con i verbali, abbia conversato più volte con Contrafatto, anche se, ascoltata in procura, ha dichiarato di non averla mai conosciuta e abbia riferito della telefonata anonima ricevuta in prossimità della consegna via posta dei verbali parlando di un accento del nord.Per Bolognesi, in ogni caso, si tratta di un procedimento nullo, per via della «violazione di norme imperative, quelle contenute nell’articolo 55 bis comma 4 del testo unico pubblico impiego». Secondo il Tupi, infatti, il Csm avrebbe dovuto contestare l’addebito per iscritto a Contraffatto con immediatezza e comunque non oltre 30 giorni, «convocando il lavoratore per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno 20 giorni». Preavviso che, invece, non ci sarebbe stato, dal momento che Contrafatto è stata convocata solo 24 ore prima della seduta. Un «vizio non sanabile», secondo Bolognesi, «salve voler continuare ad affermare che il regolamento del Csm sia l’unica normativa applicabile ad un procedimento disciplinare». Secondo il legale, il procedimento deve concludersi entro 120 giorni, sempre applicando la disciplina Testo unico del pubblico impiego. La norma prevede dunque che sia possibile riattivare il procedimento, ma facendo nuovamente la contestazione disciplinare e suscitando così una riapertura «corretta». Per fare ciò, dunque, è necessario revocare il provvedimento del primo luglio, a firma del segretario generale del Csm. Contrafatto era stata infatti sospesa dall’incarico il 19 aprile scorso. Il segretario generale, in quello stesso provvedimento, aveva evidenziato l’impossibilità di «adottare alcuna utile determinazione poiché le decisioni da assumere in sede disciplinare risultano connesse all’accertamento della sussistenza o meno dei fatti oggetto delle investigazioni in sede penale», sospendendo il procedimento disciplinare fino alla sentenza irrevocabile. Ma il primo luglio, lo stesso segretario ha dichiarato «cessati gli effetti del provvedimento di sospensione emesso in data 19 aprile 2021», pur non essendo ancora conclusa, all’epoca, nemmeno la fase delle indagini. «Ad oggi – ha evidenziato Bolognesi – persistere nel pretendere l’applicazione di un procedimento disciplinare nullo geneticamente significa andare a provvedere quando si è decaduti anche dal potere di irrogare la sanzione, perché sono già decorsi quei 120 giorni». Ma niente da fare: il Csm, alle 22.30, ha “congedato” la dipendente.

La segretaria e l’assistente giuridico: la rete intricata che lega la squadra di Davigo al caso “Amara”. Marcella Contrafatto è accusata di aver diffuso illegalmente i verbali sulla loggia Ungheria, Giulia Befera è allieva di Roberto Rampioni, l’avvocato di Luca Palamara. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 23 Settembre 2021. Il Consiglio superiore della magistratura ha licenziato, dopo una lunga seduta del plenum secretata, la funzionaria Marcella Contrafatto, accusata di aver diffuso illegalmente i verbali sulla loggia Ungheria resi a Milano dall’avvocato Piero Amara e consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo per «autotutelarsi» dall’inerzia investigativa dei vertici della Procura di Milano. Contrafatto, che in una precedente seduta del Csm aveva reso una pirotecnica dichiarazione difensiva, si limita a un commento riferito dal suo difensore nel processo penale, Alessia Angelini: «Sono amareggiata e delusa.

Contrafatto non ci sta: «Non sono la postina dei verbali di Amara». L’ex segretaria di Davigo è stata licenziata dal Csm. L’accusa è aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni. Ma secondo la difesa ci sarebbero altri “fattorini” anonimi. Simona Musco Il Dubbio il 24 settembre 2021. «Sono amareggiata e delusa: mi hanno licenziato ritenendo che sia io la famosa postina dei verbali di Amara, sebbene dagli atti emerga una verità diversa. La ritengo una gravissima ingiustizia e mi difenderò in tutte le sedi giudiziarie». A nemmeno 24 ore dal suo licenziamento, deciso dal plenum del Csm mercoledì sera, Marcella Contrafatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo a Palazzo dei Marescialli, rompe il silenzio. Lo fa con poche parole, tramite il suo avvocato Alessia Angelini, non nascondendo lo shock per una decisione che definisce ingiusta, ribadendo l’unica dichiarazione finora rilasciata davanti all’autorità giudiziaria: «Non sono io la postina». E lo fa tirando in ballo gli atti, tantissimi – metà dei quali consegnati soltanto mercoledì non solo al Csm, ma anche ai difensori -, dentro ai quali, afferma la dipendente ora licenziata, si nasconde una verità diversa. E quella verità il suo difensore in sede disciplinare, l’avvocato Riccardo Bolognesi, ha provato a raccontarla anche al Csm, chiedendo una revoca del provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare, che stando a quanto sostenuto dal segretario generale il 19 aprile scorso, doveva essere messo in stand by, ritenendo impossibile «adottare alcuna utile determinazione poiché le decisioni da assumere in sede disciplinare risultano connesse all’accertamento della sussistenza o meno dei fatti oggetto delle investigazioni in sede penale». Il procedimento era stato dunque congelato fino alla sentenza irrevocabile. Ma il primo luglio, improvvisamente, il passo indietro: lo stesso segretario ha dichiarato «cessati gli effetti del provvedimento di sospensione emesso in data 19 aprile 2021», pur non essendo ancora conclusa, all’epoca, nemmeno la fase delle indagini. I termini dell’avviso di conclusione delle indagini, nel frattempo, sono stati riaperti, proprio perché la difesa non era entrata in possesso di tutti gli atti depositati. Ma quel che emerge dal plenum di mercoledì suscita più di un dubbio. Ovvero che a far girare quei verbali segretissimi e finora mai verificati fino in fondo sia stata più di una mano. La domanda, dunque, rimane sempre la stessa: chi aveva interesse a farlo? Il plico consegnato al Fatto quotidiano Contrafatto è accusata di calunnia dalla procura di Roma per aver spedito copie dei verbali di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, a Repubblica e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Verbali corredati da alcune note nelle quale si faceva riferimento a Francesco Greco, procuratore di Milano, reo, secondo il “corvo”, di aver rallentato le indagini sulla presunta “Loggia Ungheria” di cui Amara ha parlato davanti ai magistrati milanesi Laura Pedio e Paolo Storari. Quest’ultimo, ad aprile dello scorso anno, di fronte alla presunta inerzia dei suoi superiori nell’iscrizione dei primi indagati relativamente a tale vicenda, ha consegnato i verbali a Davigo, come forma di autotutela. Da lì una serie di indagini per omissioni di atti d’ufficio (a carico di Pedio e Greco) e per violazione del segreto istruttorio (a carico di Storari e Davigo) condotte dalla procura di Brescia, competente per le indagini sui magistrati milanesi. La vicenda è esplosa nel momento in cui Di Matteo, nel corso di un plenum, ha denunciato pubblicamente di aver ricevuto i verbali secretati, nei quali veniva fatto, tra gli altri, il nome del consigliere Sebastiano Ardita, indicato tra i membri della loggia. Un nome, il suo, che si ricollega strettamente a quello di Davigo: dapprima grandi amici e co-fondatori della corrente Autonomia&Indipendenza, i due hanno interrotto i rapporti a marzo 2020, ovvero prima della consegna dei verbali. Secondo la versione di Davigo, però, la rottura sarebbe da addebitare proprio a quella citazione nei verbali, benché mai verificata (e smentita dai fatti). Ma in mezzo a tutto ciò si inserisce anche la spedizione di un plico al Fatto quotidiano: si tratta sempre dei verbali di Amara, che il giornalista Antonio Massari ha poi consegnato in procura a Milano, dando il là ad un’indagine sulla fuga di notizie. Ma quei verbali, ha spiegato Bolognesi davanti al plenum, non sono stati spediti da Contrafatto. Non un’ipotesi, la sua, bensì una certezza: in primo luogo perché quella missiva non compare tra le accuse contestate a Contrafatto, e poi sulla base di una perizia commissionata dalla procura di Milano, che accerterebbe l’esistenza per lo meno di un’altra copia di quei verbali.

La perizia

La perizia, commissionata da Storari a marzo scorso, doveva accertare se «i verbali di interrogatorio – presentati dal giornalista Massari il 30 ottobre 2020 – provengono dagli originali firmati degli stessi o dai file word dei medesimi prima della stampa per la firma». Dall’analisi è emerso che «i documenti prodotti dal giornalista non provengono da scansioni dei documenti originali “ripuliti” dalle firme». Insomma, si tratterebbe di copie diverse da quelle che, secondo la procura, avrebbe “distribuito” Contrafatto, tant’è che perfino la procura di Milano certifica l’assoluta estraneità dei fatti in questione alla vicenda riguardante l’ex segretaria di Davigo. La procura meneghina aveva infatti inviato a Roma i verbali delle dichiarazioni di Massari, inviando, poco dopo, una nota a rettifica, nella quale si evidenzia che quell’invio era da ritenere «un mero errore materiale», in quanto si tratterebbe di fatti «che nulla hanno a che vedere con le vicende del procedimento a carico di Contrafatto Marcella e sono tuttora coperti da segreto istruttorio». Insomma, la dipendente del Csm non c’entrerebbe con la vicenda che coinvolge Massari. Tant’è che la stessa procura di Milano, con nota del 15 giugno 2021, ne ha chiesto la restituzione, insistendo poi, con lettera del 30 luglio 2021, «di volere trasmettere copia delle note allegate ai verbali», che nel frattempo sono finite però sui giornali. Da qui la dichiarazione di Bolognesi, secondo cui è «sempre più evidente l’esistenza di diverse “forme” dei verbali e di “fattorini” anonimi attivi dal mese di ottobre 2020, che si esclude possano essere “le segretarie” di Davigo».

Nonostante ciò, il Fatto, nel raccontare la storia, ha continuato a sostenere che a inviare in redazione quei verbali sia stata Contrafatto. «In risposta a tali articoli è stata chiesta la pubblicazione di “rettifica” (che non c’è mai stata, ndr) – ha dichiarato Bolognesi -, ma è ben poca cosa rispetto al pregiudizio arrecato sinora da giudizi già definitivi, pronunciati a mezzo stampa». Non solo. Bolognesi si è chiesto come mai la Procura di Perugia e quella di Roma «continuino a trascurare il fatto che la giornalista di Repubblica Milella (tra i destinatari dei plichi anonimi, ndr) risulta aver conversato più volte con il numero del Csm assegnato alla signora Contrafatto, prima del 31 marzo 2021 se, quando è stata sentita in Procura, ricordava solo che fautrice della telefonata anonima che annunciava il recapito dei verbali era del Nord e affermava di non aver mai conosciuto Marcella Contrafatto».

Il movente

Strano appare anche il movente che avrebbe animato la mano di Contrafatto. Secondo quanto dichiarato dall’ex assistente di Davigo, Giulia Befera, sentita dai pm romani nell’ambito dell’indagine a carico di Contrafatto, i verbali sarebbero stati usati dalla stessa come “strumento” per evitare che Davigo decadesse dal Consiglio superiore della magistratura a seguito del suo pensionamento. Piano evidentemente fallito, motivo per cui i verbali sarebbero stati utilizzati con un altro scopo: quello di “punire” il Csm, che avrebbe sacrificato Davigo nonostante il suo tentativo di salvare l’indagine milanese. Il tutto sarebbe stato possibile grazie ad un bel titolone ad effetto, magari dalle colonne del Fatto Quotidiano.

«La Contrafatto – ha evidenziato Befera – mi rappresentò che sarebbe stato bello ed eclatante se avesse avuto clamore mediatico la vicenda relativa ai verbali, alla loggia e al fatto che Davigo sapesse e avesse informato la presidenza del Csm e il presidente della Repubblica, venendo ripagato con la mancata riconferma». La donna avrebbe ribadito l’estraneità di Davigo: «Lui non voleva certo che tali notizie uscissero, dava sempre l’impressione di confidare nell’andamento della giustizia», ha dichiarato, mentre Contrafatto avrebbe manifestato l’idea «di scatenare un titolone sui giornali prima del plenum; in pratica mi disse che sarebbe stato “stupendo” se la notizia fosse uscita sui giornali. La mia percezione all’epoca era che Marcella stesse esagerando, perché è un soggetto sopra le righe. Io le dissi “andiamo carcerate”». Ma perché Contrafatto avrebbe dovuto correre un rischio così grave per aiutare (a sua insaputa) Davigo?

Loggia Ungheria, Davigo: «Non dissi alla mia segretaria dei verbali segreti». Le due versioni contrastanti. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 16 settembre 2021. L’interrogatorio di Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, davanti ai pm di Roma. La sua segretaria Marcella Contrafatto (indagata), secondo Davigo, «non era a conoscenza dei verbali e delle trascrizioni». Ma l’altra assistente, Giulia Befera, racconta una versione diversa. La versione giudiziaria di Piercamillo Davigo sui verbali segreti dell’avvocato Piero Amara ricevuti dal pm milanese Paolo Storari comincia con un’assunzione di responsabilità: «Premetto che Storari preliminarmente mi chiese se poteva parlare con me. Io gli dissi che c’erano specifiche circolari del Csm che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm e gli dissi che avrei potuto fare da tramite con il comitato di presidenza. In relazione a ciò, ho ricevuto da Storari copia di documenti in formato word, non firmati».

La consegna delle carte nell’aprile 2020. Nell’interrogatorio del 5 maggio scorso davanti al procuratore di Roma Michele Prestipino e ai sostituti Rosalia Affinito e Fabrizio Tucci, l’ex pm di Mani pulite, componente del Consiglio superiore della magistratura fino alla pensione arrivata a ottobre 2020, sostiene ciò che successivamente ha ripetuto in numerose interviste: non ci fu nulla di illecito in quella consegna di carte, avvenuta nei primi giorni di aprile 2020, riguardanti «una loggia massonica coperta cui apparterrebbero magistrati, alti ufficiali delle forze dell’ordine e imprenditori». Nell’incontro avvenuto a Milano, Storari gli riferì che «nonostante le sue sollecitazioni non si era proceduto ad iscrizioni (sul registro degli indagati, ndr); consigliai a Storari di inviare delle mail al procuratore in cui formulava le sue proposte di iscrizione».

L’inchiesta sull’ex segretaria e quella sul segreto d’ufficio. Nell’inchiesta sulla ex segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, accusata di aver diffuso anonimamente le carte consegnate da Storari all’ex consigliere, sono stati depositati solo alcuni stralci del verbale dell’ex magistrato; il resto è finito alla Procura di Brescia dove Davigo è indagato (con Storari) per rivelazione di segreto d’ufficio. Ma nella parte non più segreta l’ex pm di Mani pulite dichiara: «La Contrafatto non era a conoscenza dei verbali e delle trascrizioni; le avevo soltanto detto che Ardita (collega del Csm indicato da Amara come appartenente alla loggia Ungheria, ndr ) non avrebbe dovuto avere accesso alla mia stanza per ragioni che non potevo dettagliare, ma che attenevano al fatto che non lo ritenevo più affidabile. Comunque la Contrafatto aveva libero accesso alla mia stanza e alla mia casella di posta elettronica istituzionale. Poco prima di andare via dal Consiglio ho detto al collega Marra che gli avrei lasciato copia di quei verbali nel caso in cui fossero serviti al comitato di presidenza; di questo avvisai la Contrafatto, che a questo punto certamente seppe da me del luogo dove questi erano custoditi».

Le dichiarazioni di Giulia Befera. A queste affermazioni fanno da contrappunto quelle dell’altra ex assistente di Davigo al Csm, Giulia Befera, alla quale l’ex consigliere disse dei verbali, dell’appartenenza di Ardita alla loggia e di «un certo immobilismo della Procura di Milano». Poi la donna ha aggiunto: « So che anche la Contrafatto era a conoscenza dei verbali . In mia presenza non ho mai visto Davigo parlare dei verbali con lei; so per certo che Marcella ne fosse a conoscenza perché ne abbiamo parlato. Mi disse che sapeva dove erano collocati i verbali». Sulla segretaria finita sotto inchiesta Davigo spiega ai pm: «Non sapevo che conoscesse Centofanti (imprenditore coimputato di Amara e dell’ex magistrato Palamara, ndr). Nell’ultimo periodo di mia permanenza al Csm mi è sembrata, per così dire, un po’ sopra le righe; ad esempio mi diceva che dopo il mio allontanamento dal Consiglio “quelli l’avrebbero fatta franca” riferendosi, a tutta evidenza, ai disciplinari relativi alla vicenda dell’hotel Champagne». E a proposito delle sue relazioni aggiunge: «Non so che tipo di frequentazioni avesse. In alcune occasioni l’ho incontrata a casa del collega Stefano Amore; in dette occasioni vi erano di solito diverse persone tra le quali anche appartenenti alle istituzioni».

Caso Amara-Storari, procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio indagata a Brescia. Omissione di atti di ufficio è l'ipotesi di accusa per la magistrata milanese nell'inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria. La Repubblica il 15 settembre 2021. Il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio è indagata a Brescia per omissione di atti di ufficio per la vicenda dei verbali da Piero Amara sulla presunta 'Loggia Ungheria', caso che, accanto a quello dell'ex pm Luca Palamara, ha provocato un terremoto tre le toghe di tutta Italia e che nasce dai procedimenti su Eni. La sua iscrizione fa seguito alle denunce del pm Paolo Storari, pure lui indagato dalla magistratura bresciana per rivelazione di segreto d'ufficio, e che hanno portato anche alla iscrizione del procuratore di Milano Francesco Greco. Storari è indagato come l'ex consigliere del Csm, ora in pensione, Piercamillo Davigo. Proprio a lui Storari, nell'aprile 2020, consegnò copia di quei verbali segretati, per autotutelarsi, in quanto, a suo dire, Greco e Pedio (entrambi sono stati interrogati), avrebbero imposto uno 'stop' alle indagini tempestive da lui chieste ripetutamente sulle dichiarazioni rese nel dicembre precedente per la necessità, come è scritto in una mail di Pedio, di "definire il procedimento Eni con priorità assoluta". Le indagini, ora a Perugia, decollarono 12 maggio successivo con le iscrizioni di Amara, del suo collaboratore Alessandro Ferraro e dell'ex socio Giuseppe Calafiore. Il caso dei verbali di Amara è solo un capitolo di una vicenda intricata e delicata su cui il procuratore di Brescia Francesco Prete con il pm Donato Greco stanno indagando a 360 gradi senza tralasciare alcun particolare. Nemmeno, stando a indiscrezioni, su quanto è stato riferito dal capo della procura di Milano, tra due mesi in pensione, in merito alla mancata astensione del pm Storari dall'inchiesta sulla fuga di notizie aperta dopo il recapito di quelle carte scottanti in forma anonima e accompagnate da una lettera a un paio di giornalisti. Inchiesta di cui Storari si è spogliato lo scorso aprile, quando è venuto a galla che 'il postino' è stata Marcella Contrafatto, allora segretaria di Davigo (nei suoi confronti è appena stata chiusa l'indagine poi trasmessa a Roma). Sempre a Brescia sono indagati per rifiuto di atti di ufficio un altro aggiunto di Milano, Fabio De Pasquale e il pm ora passato alla Procura Europea Sergio Spadaro per il filone che riguarda la gestione dell'ex manager della compagnia petrolifera Vincenzo Armanna, imputato e grande accusatore nel processo sul giacimento petrolifero nigeriano. Processo in cui tutti sono stati assolti in primo grado e che ha generato a uno scontro tra i primi deu con il Tribunale. Sul fronte romano ci sono, oltre all'indagine amministrativa del ministero, i procedimenti avviati dal Csm nei confronti di De Pasquale e Storari, il quale, si è visto 'assolvere' dalla sezione disciplinare che ha respinto la richiesta del pg Giovanni Salvi di un suo trasferimento cautelare e il cambio di funzioni dall'ufficio milanese dove 56 pm su 64 pubblici ministeri, lo scorso luglio, hanno aderito a una lettera a suo sostegno.

Si allarga l'inchiesta sui verbali della loggia Ungheria. Caso Amara, anche il procuratore Pedio indagato a Brescia dopo le denunce di Storari. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Settembre 2021. Si allunga l’elenco degli indagati nella procura di Milano in relazione all’ormai nota vicenda dell’avvocato Piero Amara, l’ex consulente esterno dell’Eni che aveva fatto mettere a verbale l’esistenza di una presunta loggia Ungheria di cui farebbero parte almeno 70 tra magistrati, avvocati, politici e imprenditori. Anche il procuratore aggiunto Laura Pedio è indagata a Brescia per omissioni in atti d’ufficio. L’iscrizione nel registro degli indagati arriva dopo la denuncia da parte del pm Paolo Storari, che aveva interrogato Amara proprio assieme all’aggiunto Pedio, di una presunta inerzia nelle indagini riguardanti la loggia Ungheria. Assieme alla Pedio sono indagati a Brescia lo stesso Storari, il procuratore capo di Milano Francesco Greco, responsabile secondo Storari della lentezza nelle indagini (per omissione di atti di ufficio) e l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Proprio a Davigo Storari consegnò le dichiarazioni rilasciate dal consulente Eni, ritenendo che ci fosse una presunta inerzia nelle indagini. Il pm consegnò quei verbali a Davigo per, a suo dire, autotutelarsi in quanto sia Greco che Pedio avrebbe imposto uno ‘stop’ alle indagini sulle dichiarazioni rese da Amara. Sempre a Brescia c’è la seconda inchiesta che indirettamente vede protagonista Piero Amara. È quella che vede indagati per rifiuto di atti di ufficio il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, ora passato alla Procura Europea. De Pasquale è accusato di non aver depositato prove favorevoli agli imputati: un video registrato di nascosto dall’ex manager Eni Vincenzo Armanna, imputato nel processo e testimone sulle cui dichiarazioni si era basata buona parte dell’accusa della Procura di Milano, mentre parla con l’avvocato Piero Amara, ex legale di Eni. Nel video Armanna rivelava l’intenzione di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti della società. Secondo l’accusa della procura di Brescia Spadaro e De Pasquale, pur avendo la consapevolezza della falsità delle prove portate dall’ex manager di Eni Armanna, avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale gli atti.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Monica Serra per "la Stampa" il 16 settembre 2021. Uno dopo l'altro, i vertici della procura di Milano coinvolti nelle indagini su Eni e la presunta «loggia Ungheria» sono finiti sotto inchiesta a Brescia. Dopo il procuratore Francesco Greco, ora anche l'aggiunta Laura Pedio è indagata per omissione di atti d'ufficio. Interrogata dal procuratore Francesco Prete, Pedio si è difesa dall'accusa di aver «ritardato» per quattro mesi l'inchiesta sull'esistenza della presunta associazione segreta, rivelata dall'ex avvocato Eni, Piero Amara. Ha messo in fila gli accertamenti che a suo dire sarebbero invece stati condotti e le difficoltà incontrate per conciliarli con quelli legati ad altre «corpose» indagini, come il fascicolo su Eni. Tanto da arrivare a chiedere a Greco e al pm Paolo Storari di affiancare un altro magistrato al pool. Scelta che non sarebbe stata fatta proprio per via della «contrarietà» di Storari. Con lui Pedio, infatti, ha condotto le indagini sul cosiddetto complotto Eni e, tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, ha raccolto le dichiarazioni di Amara sul fantomatico gruppo di potere in grado di influenzare nomine e politica. Proprio quei verbali che Storari, a suo dire per «autotutelarsi dall'inerzia della procura», ad aprile 2020 consegnò all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, finendo accusato di rivelazione del segreto d'ufficio. Interrogato a maggio a Brescia, Storari ha puntato il dito contro i suoi capi e, producendo mail e documenti, ha spiegato che cosa intendeva per «inerzia» della procura: le indagini rimandate, le sue richieste rimaste inattuate, compresa quella di arrestare Amara e l'ex manager di Eni Vincenzo Armanna per calunnia, con una misura mai vidimata dai capi e passata al vaglio del gip perché - secondo Storari - avrebbe «pregiudicato» un testimone importante nel processo Eni Nigeria, poi finito con l'assoluzione piena. Come già anticipato nella relazione agli atti dell'inchiesta, e depositata al Csm, in presenza dell'avvocato Luca Lauri, a Brescia Pedio ha ripercorso tutte le preoccupazioni legate alla fuga di notizie, alla scoperta che i verbali di Amara erano arrivati alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica, come si scoprirà, per l'accusa attraverso la ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto. «Storari minimizzava la cosa. Mi disse che secondo lui non c'era stato alcun accesso abusivo al sistema informatico della procura e che per fermare la diffusione dei verbali dovevamo arrestare Amara e Armanna». In quella fase, a detta di Pedio, il collega «mai avrebbe manifestato un insanabile dissenso: il suo comportamento rappresenta un'infedeltà grave, un oltraggio e un danno» all'indagine e alla «nostra stessa sicurezza». Nel frattempo è stata trasmessa alla procura di Brescia anche la decisione con cui la sezione disciplinare del Csm ha respinto la richiesta del pg di Cassazione Giovanni Salvi di trasferire Storari e impedirgli di continuare a fare il pm.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 13 settembre 2021. Alla vigilia della pensione e a un passo dalla storica sconfitta della sua corrente, Magistratura democratica, nella corsa per la Procura di Milano, il capo dei pm meneghini, Francesco Greco, toga rossa fiammante, ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera che suona come il grido di Sansone nel libro dei Giudici: «Ch' io muoia insieme coi Filistei!». Nel suo testamento Greco si è lanciato, coltello tra i denti, contro il pm Paolo Storari e contro Piercamillo Davigo, quasi coetaneo compagno nel pool di Mani pulite, «colpevoli» di aver fatto conoscere i verbali segretati del faccendiere Piero Amara, che per mesi erano rimasti sigillati nei cassetti della Procura, tranne alcuni scampoli omissati indirizzati a questa o quella Procura. Come le accuse fumose e rivelatesi infondate («Io stesso le avevo registrate come "atti non costituenti notizie di reato"» rivendica un po' a sorpresa Greco) nei confronti del giudice Marco Tremolada, presidente del collegio che doveva decidere il processo Eni Nigeria. Un procedimento che ha rappresentato la Waterloo dell'era Greco. Ma torniamo ai siluri sparati contro Davigo, che a inizio 2020 ha ottenuto «sottobanco» da Storari le trascrizioni delle dichiarazioni di Amara; «L'uscita era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante» azzarda Greco, facendo riferimento al «regolamento di conti» che Davigo aveva in corso con l'altro consigliere della sua stessa corrente, Sebastiano Ardita. In altri termini, a giudizio di Greco, Davigo perseguiva nella vicenda un proprio tornaconto che nulla aveva a che fare con la legge e la giustizia. Anzi Davigo e Storari, operando fuori dalle regole, si sarebbero garantiti armi non convenzionali: «Quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm (Davigo, ndr) può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell'interessato». Ma la slavina di accuse non si arresta. Greco rivela che avrebbe imposto lui stesso «le iscrizioni di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse». Sempre il pm, oltre ad aver inferto una «coltellata nella schiena» del suo capo, avrebbe «tradito la fiducia della collega» Laura Pedio e «messo in difficoltà» le Procure di mezza Italia che stanno indagando sul falso pentito Amara in «coordinamento investigativo» con Milano. E a quelle già note Greco aggiunge anche quella di Reggio Calabria, notizia mai trapelata prima e della cui rivelazione gli inquirenti calabresi saranno certamente grati. Il procuratore fa anche sapere di non credere alla buonafede di Storari, che si è astenuto con molto ritardo nell'indagine sulla spedizione anonima dei verbali a Repubblica e al Fatto Quotidiano, e la prova della sua slealtà sarebbe «la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e di Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto». Infatti l'epistola, «detenuta in originale unicamente da Storari» e di cui il procuratore sarebbe «venuto a conoscenza solo recentemente», fa sapere Greco, «non lasciava dubbi sulla loro provenienza (dei verbali, ndr), riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l'indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano». In sostanza Storari, «assolto» dal Csm e blindato al suo posto da una mail (della cui esistenza Greco sembra dubitare) di solidarietà firmata da 56 pm su 64, non la racconterebbe giusta sulla sua mancata astensione e avrebbe addirittura intercettato l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, «per un reato che sapeva non essere mai stato commesso, l'accesso abusivo a sistema informatico (quella della Procura, ndr)». In pratica Greco accusa il collega di calunnia e falso ideologico. È chiaro che la guerra tra magistrati abbia superato il livello di guardia, ma per il procuratore le critiche alla sua gestione sono la spia di un'insofferenza verso «l'anomalia» della Procura meneghina, un baluardo «sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale»: «Il desiderio di avere le mani libere ha accompagnato da sempre parte delle classi dirigenti politiche ed economiche del paese» proclama, mentre intorno a lui sta crollando tutto.

Vittorio Feltri e le toghe: "Se Greco si assolve ma lascia il caos". Perché "meritiamo una giustizia migliore". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 13 settembre 2021. Ieri Milena Gabanelli, giornalista televisiva talmente brava da essere scomparsa dal video e ricomparsa sul Corriere della Sera, che le affidala compilazione di paginate tipo lenzuola, ha intervistato il procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Un fiume di parole, tra domande e risposte, nel quale sono annegato, pur avendo io superato brillantemente le scuole dell'obbligo: non ho capito un tubo. A me Greco fa simpatia forse perché è di Napoli, città che amo, è un magazzino di cultura, essendo stata la capitale della sapienza europea fino al 1800, poi si è incasinata per vari motivi e ora brilla soprattutto per la camorra, criminalità organizzata tra le più sgangherate del mondo. Il magistrato di cui discettiamo è di sicuro una persona perbene, ma il fatto di indossare la toga probabilmente a lungo andare gli ha annebbiato un po' la vista. Certe cose forse gli sono sfuggite, per esempio l'inchiesta su presunti reati commessi da Eni, che si è conclusa dopo anni e anni di chiacchiere in nulla di fatto. Assoluzione di tutti gli imputati. Una vicenda giudiziaria trasformata in una commedia dell'assurdo degna di Ionesco. Sono convinto che don Francesco non abbia alcuna responsabilità su questo episodio, in apparenza esilarante e in pratica sconvolgente. Però mi pare che nel suo insieme la grande procura Milanese, descritta come la più preparata d'Italia, abbia rimediato una gigantesca figura di m***a. Sorvolo per carità di patria sulla loggia Ungheria e sull'illustrissimo Piercamillo Davigo, coinvolto nella danza macabra per motivi che ignoro. Tutto questo rebelot ha distrutto la fiducia degli ambrosiani nell'ordine giudiziario benché costoro, quanto me, non abbiano ancora compreso che cosa in realtà sia successo nei piani alti del Palazzo di Giustizia. Iniziando a leggere il pistolotto della Gabanelli speravo di esserne illuminato, invece, giunto all'ultima riga della articolessa, confesso di essere rimasto all'oscuro di tutto. Ne so meno di quanto conoscessi prima di questa storia ingarbugliata. Non importa. Alla fine dell'anno Greco andrà in pensione e si toglierà un peso dallo stomaco. E noi poveri tapini tireremo un sospiro di sollievo senza un vero perché, ma lo tireremo lo stesso. Milano è la città più efficiente del Paese e si merita una procura decente almeno dal punto di vista estetico. 

Piercamillo Davigo "querela Francesco Greco". Battaglia campale su Amara e loggia Ungheria: tam tam impazzito dalla Procura. Libero Quotidiano il 13 settembre 2021. L'ex magistrato Piercamillo Davigo ha intenzione di querelare il procuratore capo di Milano Francesco Greco, l'ex collega con il quale quasi trent' anni fa ha condiviso le indagini di Tangentopoli. Davigo non ha gradito le parole di Greco nell'intervista di al Corriere della Sera. Il procuratore ha parlato per la prima volta dei verbali di Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, consegnati dal suo sostituto Paolo Storari a Davigo, allora consigliere del Csm. Greco e Davigo, su questa questione, danno una propria versione di ciò che è accaduto intorno a quei verbali. Greco. Al Corrieredice chiaramente: "Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile. L'uscita era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante". Al Corriere il 24 luglio Davigo aveva spiegato: "Nell'aprile 2020 Storari mi descrisse una situazione grave, e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un'associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto a iscrizioni, che il codice invece richiede "immediatamente". Per evitare possibili conseguenze disciplinari, gli consigliai di mettere per iscritto" la sua richiesta di procedere subito all'iscrizione. Per Greco però "nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c'è mai stata. Anzi è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria". Una volta ricevuti i file word dei verbali Davigo preoccupato, informa - vincolandoli al segreto - alcuni membri del Csm. Ma in modo informale. "Se la procedura da seguire non consente di mantenere il segreto, allora non si può seguire", ha infatti spiegato l'ex consigliere. Che, come ha ricostruito, ne parlò con alcuni membri del Csm, con il vicepresidente David Ermini e con il pg di Cassazione Giovanni Salvi: "Nessuno si è sognato di dirmi di formalizzare". E alla fine ecco che spunta la querela di Davigo a Greco può rappresentare la rottura definitiva di ciò che fu Mani Pulite. 

La procura di Milano frana: ora Davigo querela Greco. La lotta intestina all'ufficio giudiziario, tra indagini penali e disciplinari, deflagra dopo l'intervista del procuratore al Corriere della Sera. Simona Musco su Il Dubbio il 13 settembre 2021. Piercamillo Davigo porta in tribunale il procuratore di Milano Francesco Greco. Ad annunciarlo, ieri, il Fatto quotidiano, che ha spiegato come a scatenare la reazione dell’ex pm del pool Mani Pulite, di cui lo stesso Greco faceva parte, sia stata l’intervista del capo della procura meneghina al Corriere della Sera, che ha accusato l’ex consigliere del Csm di aver “usato” i verbali di Amara per motivi personali. In primo luogo, dunque, per colpire il suo ex amico Sebastiano Ardita, anche lui togato del Csm, vittima, secondo il collega Nino Di Matteo, di un’opera di dossieraggio, grazie al contenuto ambiguo dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, che ha svelato l’esistenza di una loggia denominata “Ungheria” della quale Ardita avrebbe fatto, a suo dire, parte. Ma la questione sarebbe ancora più complicata. Tutto parte proprio dai verbali: secondo Paolo Storari, il pm che stava raccogliendo quelle dichiarazioni, le indagini della procura di Milano sarebbero procedute con lentezza e non per colpe proprie. E proprio per tale motivo si sarebbe rivolto a Davigo, senza seguire le vie formali, per tutelarsi. Da lì tutto è precipitato: l’indagine è diventata di dominio pubblico, le carte sono arrivate ai giornali – secondo la procura di Roma spedite dall’allora segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per calunnia – e la procura di Milano è finita nel caos, con inchieste aperte a Brescia a carico di tutti i protagonisti di questa storia: Storari e Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio, Greco per la ritardata iscrizione dei primi indagati, e Fabio de Pasquale e Sergio Spadaro, i due pm che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni-Nigeria, per omissione d’atti d’indagine. Il tutto alla vigilia della nomina del successore di Greco, che assieme alla sua corrente, Magistratura democratica, vorrebbe evitare la venuta di un Papa straniero. Il caos generato dai verbali, dunque, potrebbe rappresentare uno sgambetto eclatante ai danni del procuratore uscente, per il quale il Csm ha avviato un procedimento disciplinare destinato ad estinguersi prima del tempo, dato l’imminente pensionamento. E ciò perché il gioco di accuse incrociate potrebbe cambiare le carte in tavola per la gestione di una procura che potenzialmente tiene in mano il potere economico del Paese.

Le parole di Greco. Nella sua intervista il procuratore, a novembre in pensione, è chiaro: qualcuno vuole attaccare la procura di Milano, proprio perché esemplare e impermeabile alle logiche che hanno suscitato scandalo negli ultimi anni all’interno del mondo della magistratura. Quel “qualcuno” sarebbe una sorta di “potere occulto” che però tanto occulto non è. Greco, d’altronde, prende la mira e colpisce dritto in faccia: da un lato c’è la politica, restia a farsi controllare e capace di sfiancare i magistrati che non hanno la giusta «tenuta psicologica», dall’altro Davigo, a cui non risparmia nulla, tanto da ritenerlo colpevole di molte cose, a suo dire, assolutamente impensabili per uno che di mestiere, nella vita, ha fatto il pm. Davigo, infatti, ha «fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati», un atto «irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini». Ma se l’intento era proprio tutelare le indagini, com’è stata possibile tanta leggerezza? Greco dà una sua risposta: quell’uscita «era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante». Non solo: quel modus operandi non ufficiale avrebbe consentito al consigliere del Csm di «diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia. Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso». Insomma: Greco è più arrabbiato con Davigo che con il sostituto Storari, colui che l’avrebbe «pugnalato alle spalle», anche a causa della campagna mediatica scatenata dalla vicenda. Eppure, stando alla versione di Davigo, se Greco ha avviato le indagini è proprio grazie a lui: dopo aver ricevuto i verbali, infatti, avrebbe informato il vicepresidente del Csm, David Ermini e il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ne avrebbe poi parlato con Greco.

Le indagini. Il procuratore, nel corso dell’intervista, dà una versione diversa: nessun lassismo da parte della procura risulterebbe agli atti dell’indagine aperta a Brescia, né tantomeno Storari avrebbe sollecitato alcun tipo di indagine, avviata soltanto grazie a Greco stesso: «È stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite». Secondo quanto dichiarato dallo stesso pm a Brescia e davanti al Csm, invece, Storari aveva preparato una bozza di richiesta di misure cautelari a carico di Amara, Vincenzo Armanna (grande accusatore di Eni, ritenuto non credibile dal collegio giudicante) e Giuseppe Calafiore, con l’accusa di calunnia. Richiesta o che non sarebbe mai stata controfirmata dai vertici della procura in quanto, secondo la tesi sostenuta da Storari a Brescia, la credibilità di Amara e Armanna andava preservata per non far crollare il processo Eni-Nigeria. E proprio a Brescia il pm ha consegnato delle mail di sollecito inviate a Greco, a dimostrazione del fatto che le sue preoccupazioni erano state palesate.

Una procura spaccata. La matassa verrà sbrogliata probabilmente a breve, grazie alle indagini in corso. Nel frattempo, però, che l’aria di Milano sia irrespirabile è un dato di fatto. Anche perché il Csm, nel decidere sulla richiesta di trasferimento avanzata da Salvi a carico di Storari, è stato chiaro: l’incompatibilità ambientale non sussiste. Insomma, Storari non si sarebbe comportato poi così male nei confronti di Greco. Che, dal canto suo, afferma di non aver mai visto la lettera firmata da 56 magistrati su 64 a difesa del collega. Una palese presa di posizione alla quale Greco pure rispose, non nascondendo la sua amarezza e puntando il dito contro Storari, pure senza nominarlo. Ma non solo: quel documento era stato preceduto dalla lettera sottoscritta da 27 magistrati il 3 marzo 2020, nella quale si lamentava la mancanza, nel progetto organizzativo della procura (bocciato dal Csm), di una indicazione e di un’analisi particolareggiata dei dati statistici relativi allo stato delle pendenze e ai flussi di lavoro, nonché la sproporzione tra le attribuzioni e il numero delle assegnazioni dei magistrati addetti al dipartimento reati economici transnazionali (cioè quello che ha indagato su Eni) rispetto al numero di magistrati assegnati ad altri dipartimenti che trattano reati gravi. Accuse che Greco rispedisce al mittente, mettendo sul piatto i risultati conseguiti: tanti, dice, forse troppi. Al punto da dare fastidio.

DiMartedì, Piercamillo Davigo contro Greco: "Ha commesso un reato? Infatti...". Toghe, punto di non ritorno. Libero Quotidiano il 15 settembre 2021. "Sì, Francesco Greco ha violato la legge". La faida delle toghe a Milano tocca vertici senza precedenti. Pieracamillo Davigo, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì, scarica una mitragliata di sospetti e accuse sul procuratore di Milano, che a sua volta pochi giorni fa in una intervista al Corriere della Sera aveva attaccato frontalmente l'ex collega ai tempi di Mani Pulite. "Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile - spiegava Greco sul caso Amaro e Loggia Ungheria -. L'uscita era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante". Davigo, che secondo il Fatto quotidiano avrebbe intenzione ora di querelare Greco, controbatte in diretta televisiva: "So che l'iscrizione nel registro degli indagati di Amara è avvenuta solo sei mesi dopo l'acquisizione della notizia di reato, dopo che il Pg della Cassazione, informato da me, ha chiamato Greco". Il pm Storari si era rivolto a Davigo, all'epoca dei fatti ancora membro del Consiglio superiore della magistratura, perché Greco non dava il via libera all'iscrizione del teste Amara, che aveva rilasciato dichiarazioni potenzialmente devastanti su una loggia segreta, definita appunto Ungheria, che a suo dire raggruppava magistrati e uomini delle istituzioni. Sul perché Greco non l'abbia fatto subito, incalza Davigo, "non lo so". "Ma così avrebbe commesso un reato?", domanda Floris. "Sì, infatti Greco è indagato per abuso d'ufficio". Scene di guerriglia in una magistratura italiana sempre più balcanizzata.

Gli ex amici. Botte da orbi sulla Loggia Ungheria, Davigo risponde a Greco: “Ha violato la legge”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Piercamillo Davigo incassa e risponde, colpo su colpo, a Francesco Greco. “Il prestigio della magistratura si difende rispettando la legge e non violandola. Greco ha violato la legge, perché la legge dice che l’iscrizione doveva avvenire immediatamente e non lo ha fatto“. La vicenda è sempre la stessa: quella della Loggia Ungheria, presunto e fantomatico gruppo di potere tra imprenditoria, magistratura e politica raccontato dall’avvocato Piero Amara, rivelato a Davigo dal Procuratore Aggiunto Paolo Storari – che all’ex membro del Csm ha consegnato i verbali in formato word – per la presunta remissività a procedere della Procura di Milano e quindi di Greco. Proprio si questa già ventilata “inerzia” entra Davigo a gamba tesa. È ormai lotta senza esclusione di colpi tra i due ex amici, il “Dottor Sottile” e la “mente finanziaria” del pool di Mani Pulite. Il Procuratore Capo di Milano si appresta al pensionamento, che avverrà a novembre. In un’intervista a Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera ha parlato a ruota libera a ruota libera: ha denunciato una sorta di accerchiamento della procura ambrosiana, descritto il gesto di Paolo Storari come un “accoltellamento alle spalle”, messo in luce i risultati della Procura e lanciato una bordata al suo ex amico. Il Procuratore Capo si è detto certo che “l’uscita (dei documenti, ndr) era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante”. Tutto un tradimento questa faccenda sull’asse Brescia-Milano-Roma. Davigo – che dopo aver ricevuto quei verbali non li segnalò formalmente, ma ne parlò informalmente con il vicepresidente del Csm David Ermini e con gli altri due membri del Comitato, il procuratore generale e il presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio. oltre che con il senatore Nicola Morra, presidente dell’Antimafia – è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo Il Fatto Quotidiano le parole di Greco starebbero spingendo Davigo a querelare il Procuratore Capo di Milano. “Chi è indagato deve difendersi, cosa che ho fatto. Quando questo processo sarà finito trarrò le mie conclusioni: se sono state fatte affermazioni calunniose, chi le ha fatte ne risponderà“, ha detto Davigo a Di Martedì. Ma soprattutto, sempre su La7: “So che l’iscrizione è avvenuta solo sei mesi dopo l’acquisizione della notizia di reato, dopo che il Pg della Cassazione, informato da me, lo ha chiamato”. Perché Greco non l’abbia fatto prima “non lo so”. Un reato, per Davigo, “infatti è indagato per abuso d’ufficio”. Nessun rimorso, nessun rimpianto per l’ex membro del Csm, in pensione dall’autunno scorso: “Ho fatto il mio dovere perché c’era una grave omissione che ha conseguenze devastanti per il processo. Un magistrato deve fare il suo dovere a prescindere dall’immagine. E io dovevo riportare sui binari della legalità quello che stava accadendo”. Greco a Il Corriere della Sera, per chiarire il suo operato, aveva detto di sperare che che il Procuratore di Brescia (competente su Milano) archivi subito in quanto “nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite”. Nonostante passi spesso sotto traccia, la Loggia Ungheria è un caso tutto ancora aperto.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Regolamento dei conti avviato, ma dietro ci sono i fantasmi. Loggia Ungheria, perché è proibito parlarne nelle Procure e sui giornali. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Settembre 2021. La loggia segreta “Ungheria”, la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara, c’è ed è attiva più che mai. Lo ha, indirettamente, confermato il procuratore di Milano Francesco Greco nella intervista “cult” a Milena Gabanelli sul Corriere lo scorso fine settimana, affermando di aver imposto al pm Paolo Storari di iscrivere nel registro degli indagati lo stesso Amara ed i suoi “sodali”. Amara, interrogato a Milano nell’ambito del procedimento sul “falso complotto” Eni alla fine del 2019, aveva fatto settanta nomi di componenti della Loggia: alti magistrati, professionisti, ufficiali delle forze di polizia, imprenditori. Tutte persone in grado, con il loro potere, di condizionare le nomine ai vertici dello Stato e di aggiustare i processi. Una loggia, dunque, potentissima. A conferma di questo incredibile potere, sicuramente più di quello della P2 di Licio Gelli, il fatto che nessuno in questi mesi abbia mai pubblicato i nomi dei suoi appartenenti. Il Fatto Quotidiano e Repubblica, pur avendo ricevuto da un anonimo i verbali di Amara con la lista dei settanta nomi, avevano deciso, come si ricorderà, di non pubblicare la notizia. Alla base della scelta la volontà di non compromettere le indagini. Giustificazione alquanto sorprendente dal momento che in passato i due giornali avevano sempre pubblicato di tutto. Secondo Greco l’indagine sulla P2 del terzo di millennio si sarebbe incagliata per colpa di Storari, il quale “volontariamente” aveva omesso di procedere alle iscrizioni. Storari non aveva proceduto con le iscrizioni ed aveva però consegnato a Davigo, in circostanze mai del tutto chiarite, i verbali di Amara. L’ex pm di Mani pulite avrebbe avuto un non meglio specificato “interesse” a far uscire questi verbali. Che interesse potesse avere Davigo nel divulgare il contenuto dei verbali di Amara è una domanda a cui potrà rispondere solo il diretto interessato che nel frattempo ha fatto sapere che querelerà Greco per queste affermazioni. Qualcuno ha ipotizzato che i verbali dovessero essere utilizzati per un “regolamento di conti” all’interno di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Davigo nel 2015 dopo una scissione dalla destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Nel mirino sarebbe finito uno degli esponenti di punta di A&i, il pm antimafia Sebastiano Ardita. Davigo aveva sempre avuto un ottimo rapporto con Ardita. I due avevano anche scritto insieme, per Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, il best seller “Giustizialisti: così la politica lega le mani alla magistratura”. La prefazione del libro era stata affidata a Marco Travaglio che da anni sulle pagine del suo giornale ospita gli interventi dei due magistrati. Dopo il voto di Davigo al Consiglio superiore della magistratura per Marcello Viola come nuovo procuratore di Roma al posto di Giuseppe Pignatone, a maggio del 2019, prima dunque dello scoppio del Palamaragate, i rapporti fra i due si erano interrotti bruscamente. Davigo aveva anche “tolto il saluto” ad Ardita. Cosa era successo? Al momento le poche notizie sono che sulla Loggia Ungheria sta indagando, oltre a Milano, la Procura di Perugia. Una indagine anomala quella dei Pm del capoluogo umbro in quanto secondo le accuse di Amara, a quanto pare, fra i componenti di Ungheria ci sarebbe anche l’ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy. Ad indagare dovrebbe allora essere, per competenza, Firenze. L’indagine è top secret. Tornando a Greco, nell’intervista emergono comunque nuovi particolari su Ungheria . Ad esempio quello di aver proposto a Storari di potenziare con altri pm il pool che stava indagando sulla loggia. Storari si era opposto. “Una coltellata alla schiena”, per Greco, il comportamento tenuto da Storari che sarebbe stato agevolato in tutti i modi. Il pg della Cassazione, rispondendo alle istanze di Greco, aveva chiesto l’allontanamento di Storari da Milano. Ma il Csm aveva respinto la richiesta. Per uscire da questa palude servirebbe, come unica soluzione, una Commissione parlamentare d’inchiesta che faccia luce sui depistaggi e su chi, nell’ombra, continua imperterrito a manovrare. Paolo Comi

Distribuisce accuse pesanti ma viene accolto dal silenzio...Greco sbatte la porta e riapre il regolamento di conti tra Pm: accuse pesanti contro Davigo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Lui aggrappato al mito di quella Procura che fu. Intorno, il silenzio tombale nel mondo delle toghe. Ma anche dei signori grandi firme del giornalismo, se si eccettua un affettuoso sberleffo di Vittorio Feltri. Francesco Greco ha lasciato le sue memorie su due pagine del Corriere della sera e l’unico a farsi vivo con lui, secondo il Fatto, sarebbe il suo ex amico Piercamillo Davigo con una minaccia di querela. Non proprio un’uscita da star, per l’ultimo protagonista di Mani Pulite che sta salutando amici e nemici prima della pensione. E non è neanche giusto che paghi lui per l’arroganza di Borrelli, la gestualità di Di Pietro con i polsi alzati in aria a evocare le manette, la doppiezza di Colombo, la finta sottigliezza giuridica di Davigo, e tutto il resto. Quel sistema ambrosiano che fu maccartismo politico e violazione delle regole accettata e osannata. Ma per Francesco Greco, che nella vita precedente al 1992 seppe anche essere scanzonato e simpatico, Mani Pulite è diventato, pare, ormai la sua sola identità. E lungo tutta l’intervista, condotta con esagerata compiacenza da Milena Gabanelli, anche quando parla di Amara piuttosto che di Storari, aleggia quella storia lì. L’orgoglio e il pregiudizio, potremmo chiamarlo. Vivere di un ricordo senza avere la forza di analizzarlo, di vederne luci e ombre, avere solo l’orgoglio di esser stati il Bene in lotta contro il Male e convivere con questo pre-giudizio che non accetta interferenze. Vale la pena di citare qualche frase, in cui la scelta di ogni parola pare un intero programma (e sarebbe stato interessante aver potuto guardare anche il linguaggio del corpo). Tutto quello che è il “nemico” di oggi, Davigo, che è anche parte di ieri, molto più che Storari, è liquidato con sprezzo: i verbali sono scambiati “sottobanco”, con “consegna clandestina”, e una ricostruzione dei fatti poi “crollata come un castello di sabbia”. Il tutto “nell’interesse di Davigo”, frase un po’ oscura che forse allude agli equilibri e squilibri di quei giorni all’interno del Csm, di cui il finto Dottor Sottile era ancora membro. Ma anche al fatto che in quelle carte sulla Loggia Ungheria – di cui vorremmo tanto sapere se esiste o se è stata opera di fantasia e in questo caso a chi era destinata la polpetta avvelenata- si diceva che tra le promozioni pilotate di alti magistrati c’era anche la sua. Si deduce quindi che il procuratore Greco abbia ragione di pensare che il suo ex collega Davigo stesse tramando contro di lui? Visto che su quella Loggia e su quelle carte stanno indagando – ce lo dice lo stesso procuratore di Milano – i colleghi di Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza, Firenze, possibile che ci sia tra tutti la congiura del silenzio? E che lo stesso Greco non abbia ancora voluto sapere, tanto da suscitare la ribellione di Storari e poi il coinvolgimento di Davigo? Non sono sassolini che escono dalle scarpe, c’è molto di più. C’è la denuncia, nelle parole del procuratore, di un vero complotto. Non solo contro di lui, ma nei confronti di quel che lui rappresenta, o pretende di rappresentare, cioè la medicina, la soluzione contro quelli che la sua intervistatrice indica come “i grandi mali del Paese: l’evasione fiscale e la corruzione”. È proprio questo il punto, la pretesa, da parte di questo gruppo di magistrati, di essere intoccabili e predestinati a purificare la società. E di considerare uno sfregio, un’offesa da lavare con il sangue, qualunque osservazione critica su un metodo che da venticinque anni non è mai cambiato. Un metodo fuori dalle regole, che Greco vede in modo opposto. “Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. E’ questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni”. E no, caro procuratore, caro Francesco se mi permetti, non ci siamo proprio. Prima di tutto stai parlando dalle colonne del primo quotidiano italiano, senza che neanche una virgola del tuo passato e del presente ti venga contestata. E di campagna mediatica “compatta e violenta” credo che i pubblici ministeri del pool cosiddetto Mani Pulite avessero qualche conoscenza. Non si può archiviare come piccolo episodio del passato quell’apparizione truculenta di quattro toghe che in modo totalmente incongruo rispetto al loro ruolo, andarono in tv a spiegare che senza le manette non avrebbero più potuto condurre inchieste, svolgere il loro lavoro. Era il 1994 e non solo protestavate contro un provvedimento del governo, il decreto Biondi sulla custodia cautelare, ma lo facevate in modo violento, appunto, e imbroglionesco. Come mai non avete mai spiegato ai cittadini, magari andando di nuovo in tv, che dopo il ritiro del decreto è rientrato in carcere meno del dieci per cento di coloro che ne erano usciti? E che dei 2.750 liberati solo 43 erano imputati di Tangentopoli? Questo per mettere i puntini sulle “i” a proposito di violenza mediatica. Sempre ricordando che solitamente sono gli imputati, specie quelli che verranno dopo anni riconosciuti innocenti, a subirla, spesso anche da parte di chi -certi magistrati- per ruolo istituzionale se ne dovrebbe astenere. Quanto alla sentenza del processo Eni, a parte quel gerundio (“utilizzando”) infilato in modo un po’ stravagante nella costruzione della frase, non è proprio materia così estranea al famoso rito ambrosiano, quello che non conosceva regole perché tutto era concesso. Le accuse che vengono mosse ai due pubblici ministeri, di una certa disinvoltura nel presentare o sottrarre prove e testimonianze non ricalcano proprio lo stesso modus operandi dei tempi di Mani Pulite? Sono rimasta stupita nel leggere un’altra frase dell’intervista, perché è un po’ come se Greco si fosse tirato la zappa sui piedi. Dopo essersi ampiamente lodato, fingendo in modo ironico di fare autocritica per aver modernizzato con l’informatizzazione la procura della repubblica di Milano, aggiunge “ho sottovalutato la diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche più burocratiche rispetto a quelle in cui ho maturato la mia esperienza professionale”. Ecco, non è possibile, in ipotesi, che questi pubblici ministeri che vengono bollati come burocrati, e in seguito anche come corporativi, semplicemente non apprezzino una certa disinvoltura rispetto alle regole? Per esempio quelle più violate, come l’obbligatorietà dell’azione penale, tirata come un elastico a seconda di quel che serviva, piuttosto che la competenza territoriale scippata da Milano ad altre procure perché l’importante era solo CHI si poteva permettere di svolgere certe indagini? E l’uso distorto della custodia cautelare infine, perché come diceva il procuratore Borrelli, non è che arrestiamo per far parlare l’indagato, ma lo scarceriamo solo dopo che ha parlato? Qualcuna di queste cosucce, del passato e del presente, avresti potuto chiedere al procuratore Greco, cara Gabanelli. Magari la prossima volta.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 14 settembre 2021. Siccome fra cinque mesi saranno trent' anni dall'avvio di Mani pulite (la grande inchiesta giudiziaria con cui vennero dichiarati criminali e demoliti i partiti al governo della Prima repubblica, e con cui si introdusse la Seconda sulla gara a chi fosse più nuovo e più onesto, fino alla parodia a cinque stelle), tocca ricordare ai più giovani che, di quel pool di inquirenti, erano glorificati protagonisti Francesco Greco e Piercamillo Davigo. Erano, come gli altri, i Tonino Di Pietro eccetera, gli eroi del riscatto per inflessibile rettitudine. Trent' anni dopo forse la rettitudine s' è flessa. Qui tocca proporre una sintesi brutale. Un pm di Milano, persuaso che la procura guidata da Greco temporeggi un po' troppo e oscuramente nelle indagini su una certa loggia Ungheria (mai capito che fosse, ma raggruppava magistrati, politici e imprenditori), porta i verbali a Davigo, nel frattempo insediato al Csm. Davigo ne parla un po' di qui e un po' di là, finché non finiscono sulle scrivanie di qualche giornale, al punto che la segretaria di Davigo è indagata per violazione del segreto istruttorio. La segretaria eh, Davigo porello non ne sapeva nulla. L'altro giorno, intervistato dal Corriere, Greco ha definito irresponsabile il comportamento di Davigo, di aver fatto uscire notizie dal «perimetro investigativo». Secondo il Fatto, Davigo intende querelare il vecchio compagno e sarà un'emozione seguire il processo: quale delle due rettitudini ha subito una flessione? Non esistono innocenti ma solo colpevoli che l'hanno fatta franca, disse una volta Davigo. Se dovessimo prenderlo alla lettera, saremmo alla finalissima.

C'era una volta Mani Pulite. Davigo querela Greco, sui verbali di Amara e caso Storari la fine dell’ex pool di Mani Pulite. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Settembre 2021. C’era una volta il pool di Mani Pulite. Lo scontro tra ex magistrati milanesi ha ormai raggiunto il punto apicale dopo l’intervista concessa domenica al Corriere della Sera da Francesco Greco, il procuratore capo di Milano che ha tracciato in un colloquio con Milena Gabanelli il bilancio del suo lavoro nella procura più importante d’Italia, arrivato agli sgoccioli visto la prossima pensione il 14 novembre. Le "bombe" sganciate contro Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm, starebbero spingendo infatti l’ex membro del pool a querelare Greco, almeno secondo quanto scrive Il Fatto Quotidiano, giornale che vede Davigo tra le proprie firme. Al centro dello scontro le parole riguardanti i verbali di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, consegnati dal sostituto procuratore Paolo Storari allo stesso Davigo, all’epoca ancora consigliere del Csm, in cui l’avvocato rivelava l’esistenza di una presunta ‘Loggia Ungheria’ di cui facevano parte almeno 70 tra magistrati, avvocati, politici e imprenditori. Greco, va ricordato, è indagato nell’ambito del caso della ‘Loggia’ per omissione di atti d’ufficio. Avrebbe ritardato l’apertura di un fascicolo (avvenuta a maggio 2020) sulle dichiarazioni messe a verbale dall’avvocato Amara nel dicembre 2019 a Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio, titolari delle indagini su quello che è stato ribattezzato “falso complotto Eni”. Contro Davigo le parole sono dei veri fendenti: secondo Greco l’uscita di Storari “era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante”. Parole che hanno spinto Davigo a prendere provvedimenti contro Greco, ex collega che per 30 anni ha condiviso con lui alcune delle indagini più note d’Italia. È lo stesso Fatto Quotidiano infatti a definire la querela di Davigo contro Greco “la rottura definitiva di ciò che fu Mani Pulite”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Valeria Pacelli per il "Fatto quotidiano" il 13 settembre 2021. È la prima conseguenza concreta di quella spaccatura del pool di Mani Pulite di cui tanto si è parlato in questi mesi: l'ex magistrato Piercamillo Davigo ha intenzione di querelare il procuratore capo di Milano Francesco Greco, l'ex collega con il quale quasi trent' anni fa ha condiviso le indagini più importanti di questo Paese. L'ex consigliere del Csm ha infatti mal digerito le parole di Greco nell'intervista di ieri al Corriere della Sera. Il procuratore traccia un bilancio della sua esperienza ormai agli sgoccioli (a novembre andrà in pensione) nella Procura di Milano, parlando per la prima volta di quei verbali di Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, consegnati dal suo sostituto Paolo Storari a Davigo, allora consigliere del Csm. Si tratta degli interrogatori in cui Amara rivela l'esistenza di una presunta loggia denominata "Ungheria", della quale, a sua detta, facevano parte magistrati, avvocati, politici e imprenditori. Quello che sta andando in scena a Milano è dunque uno scontro, i cui protagonisti (Storari, Greco e Davigo) sono tutti magistrati perbene e di grande esperienza: ognuno però dà una propria versione di ciò che è accaduto intorno a quei verbali, arrivati anche nelle redazioni di due quotidiani, Il Fatto e Repubblica (per la Procura di Roma la "postina" sarebbe stata l'ex segretaria di Davigo, ritenuto estraneo alla vicenda). Partiamo dunque da Greco. Al Corriere lo dice chiaramente: "Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile". Poi la stoccata a Davigo: "L'uscita era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante". Ma perché Storari consegna all'allora consigliere Csm i verbali di Amara? Al Corriere il 24 luglio Davigo aveva spiegato: "Nell'aprile 2020 Storari mi descrisse una situazione grave, e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un'associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto a iscrizioni, che il codice invece richiede 'immediatamente'. Per evitare possibili conseguenze disciplinari, gli consigliai di mettere per iscritto" la sua richiesta di procedere subito all'iscrizione. L'inerzia investigativa, nella versione di Storari al Csm, è diventata una preoccupazione e una divergenza di vedute con i suoi capi. Per Greco però "nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c'è mai stata. Anzi è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse". Storari però avrebbe consegnato ai pm di Brescia le e-mail in cui chiedeva ai capi di iscrivere. Una volta ricevuti i file word dei verbali da Storari, Davigo preoccupato, informa - vincolandoli al segreto - alcuni membri del Csm. Ma in modo informale. "Se la procedura da seguire non consente di mantenere il segreto, allora non si può seguire", ha infatti spiegato l'ex consigliere. Che, come ha ricostruito, ne parlò con alcuni membri del Csm, con il vicepresidente David Ermini e con il pg di Cassazione Giovanni Salvi: "Nessuno si è sognato di dirmi di formalizzare". Ieri Greco ha attaccato Storari anche sulle modalità in cui informò Davigo. "Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell'interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri". E ancora: "Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso". Insomma per Greco quella di Storari è stata "una coltellata alla schiena": "Ha tradito anche la fiducia della collega (l'aggiunto Laura Pedio, ndr), ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo mentre i verbali 'circolavano' per Roma". Versioni diverse che insieme alla lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 consegnano l'immagine di una Procura spaccata, mentre Storari continua a lavorare nel proprio ufficio, dopo che il Csm ha rigettato la richiesta di Salvi di trasferirlo altrove. E in questa Milano lacerata, la querela di Davigo a Greco può rappresentare la rottura definitiva di ciò che fu Mani Pulite.

Il procuratore sotto la lente della Cassazione. I politici inquisiti si devono dimettere, e i magistrati? L’arrocco di Greco che non si fa travolgere dagli scandali. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Settembre 2021. Se il procedimento riguarda un politico, se ne chiedono le dimissioni. Se invece si tratta di un magistrato, si sottolinea che è un “atto dovuto”. Un fatto tecnico, insomma. Il che probabilmente è vero nell’uno e nell’altro caso. Ma l’altra differenza è che il politico guadagnerà sicuramente le prime pagine i titoli cubitali. Al magistrato si riservano i trafiletti. Così è capitato ieri al procuratore di Milano Francesco Greco, nei cui confronti il pg della Cassazione ha aperto “accertamenti preliminari” in seguito all’apertura dell’indagine da parte della procura di Brescia. Un atto dovuto, quindi, ma clamoroso. Il procuratore capo di Milano, con quel ruolo che vale più di un ministero, sta concludendo la sua carriera (mancano ormai solo due mesi al compimento dei 70 anni) con due pesanti ombre sul suo curriculum solo per un “atto dovuto”? Indagato perché avrebbe rallentato l’attività di indagine del suo sostituto Paolo Storari sulla famosa presunta Loggia Ungheria, un centro di potere composto di imprenditori, politici e alti magistrati che avrebbe esercitato pressioni nelle nomine dei vertici delle procure, tra cui anche la sua. Conflitto di interessi? Negligenza? Scarsa fiducia nel suo sottoposto? Fatto sta che il procedimento a Brescia è aperto, e oltre a tutto è anche nelle mani del procuratore Francesco Prete, un magistrato di provenienza milanese. Uscito dalla stessa cucciolata di Greco, insomma. Ma la seconda ombra è ancora più pesante. Per un magistrato, subire l’avviamento di un’azione disciplinare è una vera onta. Oltre a tutto, e in particolare dopo che Luca Palamara ha spiegato che il re è nudo e che le correnti sindacali delle toghe sono use a tessere intrighi più di quanto non accada in politica, Francesco Greco sa bene in quale pentola si finisce, anche se a bagnomaria. Anche se, una volta dismessa la toga, anche l’ “atto dovuto” e anche gli “accertamenti preliminari” verranno accantonati. Ma l’ombra sulla carriera rimane, ogni magistrato lo sa benissimo. Resta il fatto che nessuno ne chiede le dimissioni. Che nessuno spara i titoloni. Che, per avere la notizia, si deve andare a spulciare tra le pieghe dei giornali. E che le televisioni si siano spente tutte quante all’improvviso come se ci fosse un guasto a una qualche centralina elettrica. Eppure a Milano è successo di tutto, in questi mesi. È crollato quel sistema delle Mani Pulite che negli anni Novanta è stato un vero maccartismo alla rovescia. E c’è stata una sentenza sull’Eni che quel sistema ha messo in discussione con un giudizio molto severo. E da cui il procuratore Greco non può chiamarsi fuori. Lo ha dimostrato la vera rivolta dell’ufficio nei confronti suoi, ma anche contro lo stesso procuratore generale Salvi, che aveva proposto il trasferimento e il cambiamento di funzioni del sostituto Storari, in nome della serenità della magistratura milanese. Noi siamo sereni, aveva scritto in un documento la gran parte dei pm, ma anche molti giudici non solo di Milano ma dell’intero distretto. E quando, il 3 agosto, un Csm che fino a quel momento non aveva mostrato di aver capito quel che era successo con le rivelazioni di Palamara e non aveva ancora avviato alcun cambiamento, aveva dato finalmente il segnale di svolta sposando le ragioni di Storari, la botta li aveva colpiti tutti i due. Il procuratore generale della Cassazione, ma anche il capo dei pm milanesi. Davide aveva vinto contro non uno ma due Golia. Sono molti i motivi per cui da un po’ di tempo ci siamo permessi di suggerire al dottor Greco di non aspettare novembre per dare un corso diverso alla propria vita con un prepensionamento. Accidenti, ma che cosa deve capitargli ancora perché capisca che quella “cosa lì”, quella che ha dato lustro a lui e a Borrelli e agli altri della cucciolata, quella del potere e dell’impunità, della superiorità morale fondata sull’imbroglio delle regole, è arrivata già da un po’ al capolinea? Non è degno di lui far finta di niente, come un Davigo, incollato alla nostalgia del potere che fu. Il maccartismo ambrosiano è finito da tempo, le inchieste nei confronti di Berlusconi fanno ridere, quelle contro Salvini non sono mai davvero decollate, altri “nemici” politici non se ne vedono all’orizzonte. Resta solo la maledizione dell’Eni, il fiume carsico che entra ed esce dalle inchieste della procura milanese da trent’anni. Con opposti risultati. Quella dei primi anni Novanta era facile, in un certo senso. Bastava individuare i tre partiti che si nutrivano di quote di finanziamento provenienti dalle grandi aziende. Poi se ne salvava uno, sempre lo stesso, quello davanti al cui ingresso si fermò Tonino di Pietro, e il gioco era fatto. Anche perché molti politici, anche del partito salvato, avevano ammesso le proprie responsabilità. Negli anni duemila è tutto più complicato. Così il primo inciampo della procura milanese, anzi del suo vertice, avviene quando il giovane pm Storari passa al suo amico Davigo le carte (o la chiavetta) con la testimonianza dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, di cui non si sa neanche se esista, ma su cui Greco ha comunque indugiato a indagare. È il motivo per cui è oggi indagato a Brescia e per cui, di conseguenza, sono stati aperti da parte della Cassazione gli “accertamenti preliminari”. Ma c’è di più. Nello scorso mese di luglio il procuratore capo di Milano si è rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria con l’aggiunto Laura Pedio, che indagava insieme al pm Storari su un filone parallelo all’inchiesta principale sull’Eni e chiamato del “falso complotto”. Perché si è rifiutato? Non sono i magistrati a spiegare ogni giorno ai politici che bisogna difendersi “nel” processo e non “dal” processo? Poi ci sono le indagini, sempre a Brescia, cui sono sottoposti i due rappresentanti dell’accusa nel processo Eni, De Pasquale e Spadaro, che avrebbero nascosto importanti testimonianze a discarico nei confronti degli imputati. Quelle prove avrebbero dimostrato anche l’inattendibilità dell’avvocato Piero Amara, il grande accusatore dei vertici Eni. La domanda dunque è: il procuratore Greco ha “coperto” i due pm e sonnecchiato quando Storari gli chiedeva di indagare sulla Loggia Ungheria e sull’attendibilità dell’avvocato Amara perché riteneva che questi fosse un teste fondamentale per far condannare Eni per corruzione internazionale? Ed era al corrente di quel maldestro tentativo, sempre degli stessi due pm, di far entrare nel dibattimento un’altra testimonianza del Grande Accusatore che aveva definito come “avvicinabile” dagli avvocati della difesa addirittura il presidente Fabio Tremolada che conduceva il processo, con il rischio che questi fosse costretto ad astenersi? Questo è forse il punto più delicato della vicenda, che getta ombre sulla correttezza del procuratore di Milano. Perché lui, che non ha voluto indagare sulla Loggia Ungheria, quasi si trattasse di farneticazioni di Piero Amara, si è invece affrettato a inviarne la testimonianza alla procura di Brescia, quando il Grande Accusatore ha gettato lo schizzo di fango sul presidente Tremolada. Per tutelarne la reputazione? Forse. O forse no. Che cosa sarebbero tutti questi elementi così anomali, così paradossali, ma anche così in linea alle procedure di coloro che indagarono su Tangentopoli, se non facessero capo a un magistrato ma a un politico, e se finissero nelle mani dei nostri colleghi tagliagole, che sono così in tanti nell’orizzonte del giornalismo italiano? E se esistessero tribunale indipendenti, e non fossero sempre le toghe medesime a indagare sui propri colleghi e sulla casta di magistratopoli? Succederebbe oggi sicuramente qualcosa di peggio della pensione. A qualcuno. Che per sua fortuna è un magistrato e non un politico.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Procura di Milano, accertamenti preliminari su Francesco Greco. Il Dubbio il 7 settembre 2021. Il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ha avviato accertamenti preliminari sul procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ha avviato accertamenti preliminari su Francesco Greco, procuratore di Milano, atto dovuto a seguito dell’indagine a suo carico della Procura di Brescia per omissione di atti d’ufficio: avrebbe ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni rese a verbale dall’avvocato Piero Amara sulla presunta “loggia Ungheria”. «E’ ovvio che dalla comunicazione dell’iscrizione del magistrato nel registro delle notizie di reato discende automaticamente la corrispondente iscrizione nel registro delle indagini pre-disciplinare, trattandosi di un atto dovuto», spiega infatti la procura generale in una nota.

Il caso Storari. La Procura generale della Cassazione non ha impugnato, inoltre, per “valutazioni tecniche” l’ordinanza con cui lo scorso 3 agosto la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha rigettato la richiesta di trasferimento cautelare e di cambio delle funzioni avanzata per il pubblico ministero milanese Paolo Storari per la vicenda dei verbali di Piero Amara. Il pm resta dunque alla Procura di Milano, senza rischiare di essere trasferito, ma a suo carico il procedimento disciplinare va avanti.

Il processo disciplinare. «Il dottor Paolo Storari è sottoposto a procedimento disciplinare, che proseguirà per giungere alla valutazione del merito delle contestazioni», spiega la procura generale, che «non ha impugnato il rigetto della misura cautelare per valutazioni tecniche. Si è ritenuto, infatti, di non ricorrere per Cassazione contro l’ordinanza della Sezione disciplinare del Csm in considerazione dei limiti del giudizio di legittimità, che preclude la valutazione della motivazione sulla sussistenza di esigenze cautelari».

"Davigo imbarazzante, coltellate da Storari". E Greco si toglie i sassolini dalle scarpe. Luca Fazzo il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Il capo della Procura: "La magistratura è diventata sempre più corporativa". Ultime lacerazioni da quello che fu il pool Mani Pulite. Stretto nell'angolo tra inchieste giudiziarie e procedimenti disciplinari, costretto dagli eventi a dire in qualche modo la sua, il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco esce finalmente allo scoperto con una intervista in cui racconta la sua versione del «caso Amara», lo scontro frontale con il pm Paolo Storari sul caso dei verbali dello pseudopentito dell'Eni Piero Amara insabbiati per mesi e poi trapelati. Per rivendicare la propria correttezza Greco tira siluri a ripetizione contro l'ex collega Piercamillo Davigo, che per anni ha combattuto insieme a lui l'assalto a Tangentopoli. E che ora Greco indica invece come il vero beneficiario della diffusione dei verbali di Amara: «l'uscita era nell'interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante». Per raccontare la sua verità Greco si affida a una penna non ostile, Milena Gabanelli, sul Corriere della sera di ieri. Due intere pagine di intervista in cui evoca, dietro il «caso Amara» che ha portato a essere incriminati dalla Procura di Brescia ben quattro pm milanesi (lo stesso Greco, il suo vice Fabio De Pasquale, il collaboratore di questi Sergio Spadaro e l'incauto Storari) l'ombra di un complotto per delegittimare una «Procura simbolo» impegnata in inchieste sulla grande corruzione internazionale. Di questo complotto, a quanto pare di capire, Storari sarebbe stato secondo Greco una pedina - più o meno consapevole - al punto di avergli tirato «una coltellata alla schiena». Come e quando si siano incrociati secondo Greco le «coltellate» di Storari e gli «interessi» di Davigo non è chiaro. Tra i pochi punti fermi della vicenda c'è che è Storari, sentendosi quasi mobbizzato, a chiedere l'aiuto di Davigo, ed è Davigo poi a convincerlo a passargli i verbali del «pentito». Ma perché i due si siano resi strumenti del «complotto» non è chiarissimo. E Greco non affronta nel merito, limitandosi a dire di «non averlo mai visto firmato», il documento sottoscritto da quasi tutti i suoi sostituti in difesa di Storari. L'impressione è che il Procuratore sia andato allo scontro con Storari non preoccupandosi di avere il sostegno della sua base, o dandolo per scontato. Tanto che davanti alla plateale sconfessione ricevuta con la lettera dei 56 pm pro-Storari Greco chiama in causa la «diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche burocratiche» e un «cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale». Non è, come si vede, un messaggio distensivo nei confronti dell'esteso dissenso interno alla Procura milanese. Ma tanto tra due mesi Greco va in pensione, e a ricostruire l'ufficio giudiziario più importante d'Italia sarà il suo successore. Che il Csm pare sia intenzionato a nominare con tutta calma, senza dare alla pratica la priorità che meriterebbe.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Greco: «Davigo e i verbali? Fatto imbarazzante. Qualcuno vuole colpire la Procura di Milano». Il Dubbio il 12 settembre 2021. Dopo un lungo periodo di silenzio, il procuratore di Milano Francesco Greco torna a parlare in pubblico. «Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni». Dopo un lungo periodo di silenzio, il procuratore di Milano Francesco Greco torna a parlare in pubblico. Lo fa al Corriere della Sera, intervistato da Milena Gabanelli ed è l’occasione per tornare sulla tempesta che negli ultimi tempi ha sconvolto gli uffici giudiziari milanesi. Greco dice quindi la sua sull’affaire Amara, sui verbali in libertà, sul caso Davigo-Storari e sul mancato trasferimento di quest’ultimo da parte del Csm nonostante l’azione disciplinare promossa dall’ex pm del pool di Mani pulite. «Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini», dice, prima di andare dritto al punto: «Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante». E su Storari: «Ho sempre stimato Storari e avuto con lui un ottimo rapporto. A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me. Quindi mai mi sarei aspettato una coltellata nella schiena. Ha tradito anche la fiducia della collega, ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo… mentre i verbali “circolavano” per Roma»». 

Il capo dei pm milanesi in pensione a novembre. “Accoltellato alla schiena da Storari, la Procura di Milano è sotto attacco”, Greco grida all’accerchiamento. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Settembre 2021. Il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco grida all’accerchiamento. “Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni”. È quanto ha dichiarato il procuratore che a Milano ha cominciato alla fine degli anni ’70 e che a Milano finirà da Procuratore Capo a novembre in una lunga intervista a Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera. Un’intervista da fine ciclo. Lunga e piena di spunti: dal ruolo di Milano e la minaccia che su questa sarebbe incombente, dal caso della Loggia Ungheria a Processo Eni, dalle inchieste che hanno segnato la storia della Repubblica alla lettera di solidarietà a Storari firmata dai magistrati milanesi. “Certo quella lettera dei colleghi mi lascerà un segno” ammette infine Greco. Ed è proprio nelle parti legate alla Loggia Ungheria – questa lista di una 70ina di nomi tra magistrati, giudici, politici, imprenditori e giornalisti svelata dall’avvocato Piero Amara – che l’intervista è più succulenta. Una “slavina”, come scrive la giornalista, sulla Procura di Milano: “Greco finisce sulla graticola e Storari al consiglio di disciplina”. Greco era considerato la “mente finanziaria” del pool di Mani Pulite e delfino di Edmondo Bruti Liberati, storico esponente di Magistratura Democratica, la corrente nata negli anni ’60. Andrà in pensione il prossimo 14 novembre, e non c’è alcuna conferma sulle voci che lo vedevano dimissionario prima della scadenza. Greco è stato indagato nell’ambito del caso della “Loggia Ungheria”, atto dovuto, per omissione di atti d’ufficio. Avrebbe ritardato l’apertura di un fascicolo (avvenuta a maggio 2020) sulle dichiarazioni messe a verbale dall’avvocato Amara nel dicembre 2019 al Procuratore Aggiunto Laura Pedio e al Sostituto Procuratore Paolo Storari, titolari delle indagini su quello che è stato ribattezzato “falso complotto Eni”. Greco definisce il gesto di Storari – che per l’atteggiamento con il quale la Procura di Milano non stava a suo parere dando la giusta attenzione alle dichiarazioni di Amara, consegnò i verbali all’allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo – “una coltellata alla schiena” che mai si sarebbe aspettato. “A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me”. Per Greco Storari ha reagito irresponsabilmente – “aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini” – e non ha rispettato alcuna regola. Spera che il Procuratore di Brescia (competente su Milano) archivi subito in quanto “nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite”. Il Procuratore Capo si dice anche certo che “l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante“. Tutto un tradimento questa faccenda sull’asse Brescia-Milano-Roma. Quando il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto al Csm il trasferimento cautelare d’urgenza e il cambio di funzioni (bocciati) di Storari, la lettera di solidarietà per l’aggiunto è stata firmata da 56 magistrati su 64, per “mancanza di chiarezza”. E Greco spiega che quella “presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l’unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali”. E comunque, prima di ammettere l’amarezza per le adesioni, dice di non aver mai visto “quel documento firmato” e che “addirittura il Csm ne parla senza che sia stato prodotto”. Greco sottolinea con enfasi “il tentativo di decapitare la Procura di Milano”, “un simbolo che deve essere abbattuto”, e Gabanelli le chiede se c’è un disegno più ampio dietro tutto ciò: “Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale”. E comunque, chiosa Greco, “sono certo che questa Procura non cambierà pelle … almeno me lo auguro”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Milena Gabanelli per corriere.it il 12 settembre 2021. Nella sua lunga carriera iniziata a Milano alla fine degli anni ’70 come pm, e che a Milano si chiuderà a novembre come Procuratore capo, si è guadagnato il rispetto persino dei suoi imputati, anche quelli che ha mandato in carcere. Ascoltato dal potere politico per la capacità di indicare strade innovative contro i grandi mali del Paese: l’evasione fiscale e la corruzione. Notoriamente riservato, non ha mai partecipato a un talk televisivo, non ha mai scritto un libro. Poi è comparso in scena l’avvocato Amara e per Francesco Greco è iniziata la partita più difficile, quella contro il tentativo di azzerare la reputazione della Procura di Milano. Amara è l’artefice della diabolica operazione di depistaggio all’interno del processo Eni, e il rivelatore della fantomatica loggia Ungheria, dove spiattella una lista di 70 nomi: magistrati, giudici, politici, imprenditori, giornalisti. Il pubblico ministero che segue l’indagine Paolo Storari passa i verbali secretati al consigliere Davigo. La slavina fa il suo percorso silenzioso, e quando emerge, in Procura è valanga: Greco finisce sulla graticola e Storari al consiglio di disciplina.

Alla fine poi al Csm Storari ha raccontato che non c’era nessuna inerzia investigativa, ma che si era consultato con Davigo perché era preoccupato, e quindi non è stato punito. Perché invece lei lo ritiene un atto così grave?

«Tutti eravamo preoccupati, anche di capire il senso della collaborazione di Amara, ma aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini. Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante». 

A Brescia però Storari l’ha accusata proprio di voler rallentare le indagini, se non è vero perché il Procuratore non ha ancora archiviato?

«Spero che provveda, visto che la versione di Storari contrasta con la ricostruzione storica dei fatti, che ho documentalmente provato. Nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite». 

Ma se un magistrato temesse che il suo capo voglia mettersi di traverso cosa dovrebbe fare?

«Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia. Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso». 

Quando ha incaricato Storari di indagare su chi avesse fatto arrivare quei verbali ai giornalisti, lui non si è astenuto perché non pensava che fossero gli stessi che aveva dato a Davigo, e il Csm ha creduto alla sua buonafede. Lei invece non ci crede, perché?

«Penso che sia la Procura Generale che il Csm non avessero la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto, e che non lasciava dubbi sulla loro provenienza, riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l’indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano. Anch’io dell’esistenza di questa lettera, detenuta in originale unicamente da Storari, ne sono venuto a conoscenza solo recentemente. Inoltre, trattandosi di stampe di file word, potevano essere usciti solo dai nostri uffici, tant’è che, ipotizzando un hackeraggio, disposi accertamenti tecnici che non vennero eseguiti. Infine quando abbiamo intercettato la segretaria di Davigo, Storari che a quel punto non aveva più scuse, ha acconsentito che si facessero le intercettazioni per un reato che sapeva non essere mai stato commesso: accesso abusivo a sistema informatico» 

Storari è noto per la sua scrupolosità e dedizione, pensa che sia stato manipolato da Davigo? E a quale scopo?

«Non lo so e non mi interessa. Ho sempre stimato Storari e avuto con lui un ottimo rapporto. A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me. Quindi mai mi sarei aspettato una coltellata nella schiena. Ha tradito anche la fiducia della collega, ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo... mentre i verbali “circolavano” per Roma». 

Nella lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 c’è scritto che il problema è la mancanza di chiarezza. Dove nasce questo malessere?

«Premesso che quel documento firmato io non l’ho mai visto e addirittura il Csm ne parla senza che sia stato prodotto, la presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l’unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali. Devo però constatare con amarezza che il rigore non sempre paga, visto che per mesi è stata fatta circolare una versione dei fatti fondata sul nulla, provocando un danno enorme a tutto l’ufficio». 

Però rivela anche un disagio che covava da tempo, non crede?

«È vero, ma è difficile essere a proprio agio in un ufficio mantenuto dal ministero e dal Csm costantemente sotto organico sia di magistrati e Vpo (magistrati onorari), che di personale amministrativo. Milano già in partenza ha una pianta organica insufficiente in relazione agli affari e alla popolazione, e ben diversa da quelle di uffici che hanno lo stesso carico di lavoro se non largamente inferiore. Le Istituzioni non hanno mai risposto alle mie richieste ufficiali, né hanno sentito il dovere di sanare, nonostante gli impegni presi, l’improvvisa uscita di sei magistrati verso la Procura Europea. Ad oggi, mancano ben 14 magistrati!». 

Non pensa che sia anche un po’ colpa sua se non si è creata quell’integrazione necessaria fra i dipartimenti molto specializzati che lei ha messo in piedi?

«Intanto mi trovi lei un altro posto dove è possibile maturare specializzazioni diverse senza restare inchiodati tutta la vita alla stessa sedia. Detto questo, sicuramente ho commesso errori, a partire dalla volontà (non condivisa da tutti) di modernizzare la Procura informatizzandola, e con la creazione di un dipartimento dedicato ai reati transnazionali. Così come ho sottovalutato la diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche più burocratiche rispetto a quelle in cui ho maturato la mia esperienza professionale. Probabilmente non ho nemmeno colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale, e che trova il suo contraltare nelle circolari del Csm».

La conclusione del procedimento Eni-Nigeria ha scatenato una serie di polemiche e critiche pesanti al suo ufficio, e adesso il Csm sta verificando se non ci sia incompatibilità ambientale per il pm De Pasquale. Cosa è successo?

«Intanto i processi vengono disposti dal Gup quando ci sono elementi, che evidentemente c’erano. Purtroppo, diversi passaggi di questo processo hanno generato ogni sorta di polemica. È il caso di ricordare che è stato un avvocato dell’Eni (Amara) a intervenire con condotte corruttive (in parte già giudicate con sentenze definitive) nei confronti delle Procure di Trani e di Siracusa per “depistare” le indagini e costruire false accuse nei confronti di diverse persone interessate al processo. Lo stesso avvocato ha anche accusato “de relato” il presidente del collegio giudicante, accuse risultate infondate dalle verifiche fatte dalla Procura di Brescia, e che io stesso avevo registrato come “atti non costituenti notizie di reato”. Sull’accusa di non aver prodotto un video giudicato rilevante dal Tribunale, abbiamo documentalmente dimostrato che gli imputati e l’Eni ne avevano la trascrizione già da più di un anno, e non l’avevano usata o richiesta in sede di ammissione delle prove pur potendolo fare. È stato certamente un processo delicato, ma non diverso da tanti altri, e le complessità vanno affrontate e risolte nel dibattimento, non altrove. Altrimenti a che servono i processi?». 

Anche l’appello sarà complicato visto che il suo ufficio non è molto amato nemmeno dalla Procura Generale, tant’è che il procuratore Celestina Gravina ha già detto che questo processo è uno sperpero di denaro pubblico.

«Sarà interessante sentire cosa pensano sul punto i valutatori dell’Ocse che hanno esplicitamente chiesto di aprire i prossimi lavori di valutazione dell’Italia presso la Procura di Milano, proprio perché si è distinta in questi anni nell’applicazione della convenzione di Parigi 97 sulla corruzione Internazionale. Quanto al presunto sperpero di denaro ricordo che la procura di Milano ha portato diversi miliardi nelle casse dello Stato sorreggendo più di una manovra finanziaria, mentre nel processo di appello, la Procura Generale non ha ritenuto di difendere un sequestro di oltre 100 milioni di dollari confermato dalla sentenza di primo grado». 

Nella dura lettera di replica ai suoi colleghi lei scrive che si sta approfittando della debolezza della magistratura per colpire la Procura di Milano. A che scopo?

«Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni». 

Secondo lei sono pretesti di un disegno più ampio?

«Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale. Qui non è nata solo Mani Pulite, qui sono nate le indagini sui nuovi caporali digitali e sul trattamento dei riders, sull’evasione fiscale delle big-tech, sul riciclaggio delle banche internazionali, sulla corruzione internazionale, la tutela dei consumatori dalle truffe delle grandi multiutilities, è stata costante l’attenzione nei confronti della Mafia imprenditrice, dei soggetti deboli e della salute sui luoghi di lavoro. Per alcuni questa anomalia deve finire». 

Chi sono questi «alcuni»?

«Il desiderio di avere le mani libere ha accompagnato da sempre parte delle classi dirigenti politiche ed economiche del paese. Saverio Borrelli, consapevole di questa situazione, ci chiese di resistere, cioè di continuare a fare il nostro dovere con responsabilità ma senza compromessi. Controllare la legalità del potere richiede una “tenuta” psicologica che nel tempo logora, e infatti molti magistrati sono diventati insofferenti agli attacchi continui, e certi processi preferiscono evitarli. Ogni volta, c’è sempre qualcuno che dice “bisogna voltare pagina”. È successo in tutti i grandi uffici, ed ora qui, in occasione del mio pensionamento. Tuttavia sono certo che questa Procura non cambierà pelle... almeno me lo auguro». 

Pensa che l’origine di tanti problemi sia stata proprio la creazione del dipartimento reati internazionali? Quello che ha portato Eni a processo per intenderci?

«Quello che posso dire è che le condizioni internazionali impongono un rafforzamento del contrasto a questo tipo di corruzione, come lo stesso Biden ha recentemente ribadito nel suo primo memorandum dove dice che la lotta alla corruzione internazionale è un “ interesse centrale della sicurezza nazionale”. Del resto i trattati sottoscritti dall’Italia quali la convenzione di Parigi e la convenzione Onu di Merida sulla lotta alla corruzione stanno dentro la nostra Costituzione. Il tentativo di decapitare la Procura di Milano va in controtendenza, e sarà il caso di riflettere sulle conseguenze anche internazionali: non a caso il terzo dipartimento è stato indicato dal Governo all’Ocse come l’unica best practice italiana nel contrasto alla corruzione internazionale».

Il Csm nel luglio scorso ha messo in discussione il suo modello organizzativo presentato già qualche anno fa. Perché proprio ora?

«La coincidenza è curiosa, ma quello che trovo singolare è l’aver affermato che non avevo analizzato la realtà criminale del territorio dove lavoro da 43 anni! Con la nuova organizzazione abbiamo ridotto, ogni anno, la pendenza di 10.000 procedimenti (anche in periodo Covid), e il modello che abbiamo costruito è in grado di aumentare la produttività pur mantenendo l’elevato standing nei procedimenti specializzati. Ma nelle valutazioni evidentemente i risultai non contano!».

I risultati della gestione Greco si leggono sul bilancio sociale della Procura. Sul fronte dei reati fiscali, negli ultimi 3 anni sono stati recuperati ben 5,6 miliardi. Hanno pagato i giganti della digital economy, della moda, siderurgia e grandi gruppi finanziari, grazie soprattutto all’attivazione di un network istituzionale con la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate e delle Dogane, caso unico in Italia. Focus sulle grandi banche con sedi in Paesi con segreto bancario o fiscalità privilegiata: sono stati individuati circa 200 enti che ospitavano enormi capitali frutto di evasione fiscale. 

L’inchiesta sui riders ha dimostrato che svolgono a tutti gli effetti un lavoro subordinato ed è scattato l’obbligo di assunzione. Le società di servizi che utilizzano lavoratori in nero sono state costrette a rientrare nella legalità, anziché passare dal sequestro che poi le porta al fallimento. L’alta specializzazione ha reso le rogatorie internazionali più rapide, proprio perché vengono gestite da un dipartimento dedicato. Il referendum sulla liceità dell’eutanasia origina dall’incostituzionalità della legge sollevata dalla Procura di Milano sul caso Cappato (suicidio assistito). 

In quegli uffici ha passato tutta la sua vita professionale, qual è il suo bilancio personale?

«Non sono un sentimentale, ho avuto la fortuna e, penso, la capacità di condurre moltissimi processi interessanti, anche per la storia di questo Paese. Certo quella lettera dei colleghi mi lascerà un segno, ma per formazione o per abitudine guardo sempre avanti... e le idee hanno molte cose da fare». 

Il Consiglio di Stato. Prestipino è illegale, ennesima sentenza contro il procuratore abusivo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Il Consiglio di Stato ha emesso la quarta o la quinta sentenza (ho perso il conto…) contro il Procuratore di Roma Michele Prestipino. Ha detto a lettere chiarissime che non aveva i titoli per essere nominato Procuratore. Due dei suoi “competitor”, e cioè il Procuratore generale di Firenze Viola e il Procuratore di Palermo Lo Voi, avevano e hanno molti più titoli di lui e sono stati esclusi arbitrariamente dal Csm. Il Consiglio di Stato ha scritto proprio così, nella sentenza: “Molti più titoli”. Ormai non sembra che possano esserci molti dubbi sulla questione: prima il Tar e poi il Consiglio di Stato si sono pronunciati ripetutamente e in modo univoco sui ricorsi di Viola e Lo Voi e hanno messo il Csm con le spalle al muro. La nomina di Prestipino fu illegittima e – a occhio – fu frutto di una di quelle manovre di correnti (accordi, pasticci, scambi di favori e di potere) denunciate in modo molto circostanziato da Luca Palamara. Le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato sono abbastanza imbarazzanti per il Csm (non tutto, naturalmente: diciamo per quei consiglieri che hanno votato per Prestipino). Ma il problema più grosso è un altro: Prestipino finora non ha mostrato nessuna intenzione di lasciare. Continua a presentare nuovi ricorsi nonostante l’evidenza palmare della sua posizione insostenibile. E continua a mantenere il potere immenso che detiene un procuratore di Roma, continua a poter influenzare indagini, imputazioni, e anche sentenze. Il danno per la credibilità della giustizia (e per la serenità degli imputati) è gigantesco. Se un politico mostrasse la stessa arroganza sarebbe cacciato via di corsa dal suo stesso partito. Almeno dopo questa quarta sentenza, Prestipino avrà il buon gusto di farsi da parte? O, altrimenti, qualcuno vorrà intervenire per ristabilire la legalità?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Michele Prestipino, il procuratore di Roma è abusivo: l'accusa dei colleghi, caos-Capitale. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Il procuratore di Roma Michele Prestipino è sempre più abusivo. Il Consiglio di Stato, per l'ennesima volta, ha stabilito che l'attuale numero uno di piazzale Clodio non ha i titoli per ricoprire quel ruolo. Troppo scarso il suo curriculum e troppo debole la sua esperienza professionale per poter svolgere un incarico così importante. Ieri è stata depositata la sentenza che ha accolto il ricorso del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, il magistrato che l'anno scorso era stato bocciato dal Consiglio superiore della magistratura, a favore di Prestipino, per il posto di procuratore della Capitale. Per i giudici del Consiglio di Stato non si comprende, infatti, come il procuratore di Palermo, territorio da sempre caratterizzato da infiltrazioni mafiose, possa essere recessivo sul tema del contrasto alla criminalità rispetto ad un collega, come Prestipino, che per anni si è relazionato solo con la delinquenza romana. A meno di non voler dar retta a Roberto Benigni, alias Johnny Stecchino nell'omonimo film, secondo il quale il problema principale di Palermo era "il traffico". Il Csm per favorire Prestipino aveva lavorato di fantasia, affermando che Roma ha una sua «specificità criminale». Tesi bocciata senza appello dal Consiglio di Stato. Prima di Lo Voi anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, altro escluso dalla corsa per il posto di procuratore di Roma, aveva fatto ricorso, con successo, contro la nomina di Prestipino. La partita per la Capitale, comunque, non è ancora conclusa. Ci sarà un tempo supplementare. Prestipino, non accettando i responsi sfavorevoli, ha deciso di mettere in discussione l'autorità del Consiglio di Stato e si è rivolto ai colleghi della Cassazione. Il ricorso per "eccesso di potere" sarà discusso il 23 novembre. Prima di allora difficilmente il Csm metterà mano alla pratica romana, sfrattando Prestipino. La nomina del procuratore di Roma è il frutto avvelenato del Palamaragate. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva rivelato nel libro "Il Sistema" scritto con il direttore Alessandro Sallusti i pesanti giochi di potere dietro la scelta del capo della Procura più importante del Paese, quella che, secondo una vulgata in voga durante la Prima Repubblica, vale come "due ministeri". Prestipino era l'erede naturale dell'ex procuratore Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale Vaticano. Pignatone, come affermato sempre da Luca Palamara, è stato uno dei perni del "sistema" che condiziona le nomine in magistratura. E fu Pignatone ad avvisare Palamara che stavano facendo accertamenti nei suoi confronti, consigliandogli di rinunciare a fare carriera a Roma. Un ribaltone dal momento che, come sostiene ancora Palamara, fu lui a mettere in pista la nomina di Pignatone a capo della procura di Roma nel 2012, battendo la concorrenza di Giancarlo Capaldo. Palamara aveva esaudito tutti i desiderata di Pignatone, caldeggiando il trasferimento a Roma dei suoi stretti collaboratori e la promozione di magistrati di sua fiducia. «Lo aiuto a circondarsi di investigatori di sua scelta - qualcuno dirà che si era fatto una polizia privata - ma soprattutto m' impegno a portargli a Roma come vice il suo braccio destro di sempre, Prestipino, che era rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all'ufficio». Per uno scherzo del destino saranno proprio quegli ufficiali di polizia giudiziaria a condurre le indagini contro Palamara che ne hanno determinato la cacciata dalla magistratura. 

Prestipino e Greco delegittimati. Roma e Milano, procure senza capo: a comandare è la loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Naturalmente la nostra è solo un’ipotesi. Diciamo un ragionamento. I fatti sui quali proviamo a ragionare sono semplici e chiari. Dopo le vacanze riprende l’attività giudiziaria. Le due procure più importanti d’Italia sicuramente sono quelle di Milano e di Roma. Il problema è che la Procura di Milano ha un procuratore capo che sta per andare in pensione ma non ha intenzione di lasciare con anticipo, sebbene ha di fatto ricevuto la sfiducia circa del 95 per cento dei suoi sostituti e sebbene sia indagato da Brescia per avere forse ostacolato le indagini sulle rivelazioni dell’avvocato Amara, il quale sostiene che esiste una Loggia segreta (si chiama Ungheria) che governa la giustizia in Italia secondo le sue idee e i suoi interessi. È un bel problema. Milano è senza guida. A Roma la situazione è simile. Anche qui il Procuratore capo in carica è alquanto delegittimato. Stavolta non dai suoi sottoposti ma da un paio di tribunali che hanno messo in mora anche il Csm e hanno sostenuto che la sua nomina è stata illegittima. Voi sapete che in politica basta un avviso di garanzia per indurre un ministro, o un assessore, o un sindaco, o un presidente di Regione a farsi immediatamente da parte. Prima ancora, molto prima di essere giudicato. Come mai in magistratura questa accortezza non viene chiesta? Eppure il procuratore di Roma ha già due solenni sentenze contro: una del Tar e una del Consiglio di Stato. Anche Roma è senza guida. I giornali si interessano pochissimo di questa situazione. Cioè del punto di crisi quasi irreversibile al quale è giunta la giustizia italiana. Due procure delegittimate sono una cosa seria. Ma i giornali, si sa, non sono propensi a criticare la magistratura. A questo punto però il nostro ragionamento ci porta alla domanda del titolo. Molto pacata: chi comanda a Roma e a Milano? Il sospetto è che comandi proprio la Loggia Ungheria, della quale, a quanto pare, nessuno vuole parlare. Neppure i politici, mi sembra. I politici, evidentemente, o sono loro molto distratti, o sono anche loro sottomessi come i giornalisti, o sono molto impauriti. È così potente – se esiste – questa loggia Ungheria? Credo di sì. Così potente che può permettersi di esistere e dichiarare di non esistere.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

E i media tacciono...Prestipino non molla la poltrona: abusivo a Roma, si gioca la carta della disperazione spalleggiato dal Csm. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Il Palamaragate scoppiò il 29 maggio 2019. Quel giorno Corriere, Messaggero e Repubblica, con tre articoli sostanzialmente identici, diedero la notizia dell’indagine della Procura di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. In particolare, venne raccontato un incontro, avvenuto la sera fra l’8 e il 9 maggio precedente, presso una sala dell’hotel Champagne di Roma. In quel modesto albergo nei pressi della stazione Termini, Palamara si era intrattenuto con cinque componenti in carica del Consiglio superiore della magistratura e i deputati Cosimo Ferri (Iv) e Luca Lotti (Pd). L’argomento di discussione della serata era stato la nomina dei capi di alcune importanti Procure, ad iniziare da quella della Capitale. L’8 maggio, infatti, fu l’ultimo giorno di servizio di Giuseppe Pignatone. All’insaputa del diretto interessato, i convenuti iniziarono a ragionare sul nome di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. L’incontro venne registrato con il trojan inserito da qualche giorno nel cellulare di Palamara. Il 23 maggio successivo la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm voterà Viola nuovo procuratore di Roma con quattro voti su sei. Un voto ciascuno per gli altri due candidati, Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. Per Viola aveva votato anche Piercamillo Davigo. La notizia dell’incontro dell’hotel Champagne ebbe l’effetto immediato di stoppare la corsa di Viola. Il voto finale in Plenum, previsto per giugno, non ci sarà mai. I giornali ed i telegiornali per giorni si occuperanno di questa vicenda. E anche il capo dello Stato fu “costretto” ad intervenire stigmatizzando quanto era successo.

Il Csm “rinnovato” dopo le dimissioni dei togati che avevano partecipato a quell’incontro annullerà la votazione di Viola. Al suo posto verrà nominato Michele Prestipino, fedelissimo di Pignatone fin dai tempi di Palermo. Viola, siciliano di Cammarata in provincia di Agrigento, non si perse d’animo ed iniziò una battaglia a colpi di carte bollate davanti al giudice amministrativo, uscendone sempre vittorioso. Sia il Tar che il Consiglio di Stato stabilirono che aveva più titoli di Prestipino e che il Csm non doveva escluderlo. A differenza del Palamaragate, su questo aspetto è calato però il silenzio assoluto. La classica cappa di piombo. Un silenzio assoluto della grande informazione che per settimane ha gridato scandalizzata all’incontro di Palamara, poi radiato dopo un turbo processo. Adesso, invece, nessuno si scandalizza del fatto che la nomina dell’attuale procuratore di Roma da parte del Csm è illegittima. Grazie al silenzio dei media il Csm prende tempo. E, con una decisione senza precedenti, ha deciso di resistere insieme a Prestipino nei suoi ricorsi. Se i ricorsi davanti al giudice amministrativo sono stati tutti persi, è rimasta ora la carta della disperazione. Il ricorso in Cassazione per “eccesso di potere” del Consiglio di Stato. Il ricorso verrà discusso il prossimo 23 novembre. Ovviamente è un ricorso senza speranza. La tesi del procuratore romano è che il CdS abbia limitato la “discrezionalità” propria del Csm in tema di nomine. Le sentenze a favore di Viola sono comunque chiarissime. Il Csm ha violato le sue stesse regole in tema di incarichi direttivi. Viola per il momento non ha voluto indossare l’elmetto per lo scontro finale e chiedere l’ottemperanza della sentenza del giudice amministrativo che il Csm si rifiuta di eseguire. Nel frattempo, però, i mesi passano. Il tempo è una variabile fondamentale in questa partita. Quando, prima o poi, il Csm, affronterà il dossier, si può essere certi che all’interno del Plenum ci sarà chi alzerà la manina e dirà: “Come facciamo adesso a mandare via Prestipino che da maggio del 2019 sta reggendo, prima come facente funzioni e poi come titolare, la Procura di Roma?”. Un assist importante che rischia di fare carta straccia delle sentenze di Viola. Prestipino, comunque, anche se dovesse essere “salvato” dal Csm, come prevedibile, sarà sempre un procuratore nominato dopo una forzatura. Situazione non piacevole perché tutti sapranno sempre che il candidato più titolato per quel posto era un altro. Il merito, va detto, non è quasi mai di casa a Palazzo dei Marescialli. Passerà agli annali la frase del togato Valerio Fracassi a Palamara: «Decidi chi va, poi organizziamo il voto». Cosa aggiungere ancora? Paolo Comi

“Lo Voi ha più titoli di Prestipino”. Il Consiglio di Stato detta la linea sulla procura di Roma. Palazzo dei Marescialli accoglie il ricorso del procuratore di Palermo, ritenendo che abbia molti più titoli dell’attuale procuratore della Capitale. Il Dubbio l'1 settembre 2021. Il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha più titoli di Michele Prestipino e di questo dovrà tenere conto il Csm nel decidere chi sarà il nuovo capo della Procura di Roma. Con la decisione con cui ha respinto i ricorsi presentati dall’attuale procuratore capo della Capitale, dal ministero della Giustizia e dal Csm, il Consiglio di Stato ha reso definitiva la decisione che dà ragione – dopo averlo fatto già col procuratore generale di Firenze, Marcello Viola – anche al procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. Nel rivedere la nomina di Prestipino, decretata dal plenum di Palazzo dei Marescialli il 4 marzo 2020, l’organo di autogoverno dei giudici dovrà seguire le indicazioni che il Consiglio di Stato ha dato, in accoglimento del ricorso incidentale presentato, per conto di Lo Voi, dagli avvocati Salvatore e Tommaso Pensa bene Lionti. I giudici amministrativi sono entrati nel merito della scelta adottata dal Csm e hanno affermato che il capo della Dda del capoluogo siciliano ha molti più titoli dell’attuale procuratore della Capitale. In sostanza adesso la quinta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Federico Di Matteo, tiene conto di ciò che il tribunale amministrativo regionale del Lazio aveva considerato «assorbito» in altri punti del ricorso, riconoscendo la prevalenza della «specificità delle funzioni direttive» svolte da Lo Voi quale procuratore capo. «Se è statala raffinata conoscenza delle mafie tradizionali – si legge in sentenza – che ha consentito a Prestipino di cogliere l’originalità della situazione peculiare di Roma, non si comprende come tale capacità non potesse essere riconosciuta anche a Lo Voi». E quest’ultimo, «a differenza di Prestipino, dal 2014, è titolare di incarico direttivo, cioè di procuratore della Repubblica». Inoltre, nella Direzione distrettuale antimafia, la Procura di Palermo ha 60 aggiunti contro i 25 di Roma. In precedenza Prestipino era risultato «soccombente» anche per i ricorsi presentati da Viola, pure lui aspirante al posto: in questo caso la sentenza del Consiglio di Stato è definitiva da alcuni mesi ma il plenum dovrà solo reinserire tra i candidati da valutare il pg di Firenze, escluso a causa dei veleni del «caso Palamara». Contro Viola, Prestipino, assistito dall’avvocato Massimo Luciani, ha proposto un ulteriore ricorso allo stesso Consiglio di Stato (che lo ha respinto sul piano cautelare) e in Cassazione, che ha fissato l’udienza in camera di consiglio per il 23 novembre.

L'ombra della Loggia sulle procure. L’addio tormentato di Greco a Milano: da Eni alla Loggia Ungheria, così seppellisce la storia di Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Quando si apriranno questa mattina le porte degli uffici della Procura della repubblica di Milano, il procuratore Francesco Greco, con un piede nella pensione che non si prospetta serena, non può non avere nella memoria recente quella sessantina di sostituti che gli si erano rivoltati, preferendogli il giovane collega Storari. E sul tavolo il pensiero di quel groviglio di fascicoli aperti (uno anche su di lui) che corrono sull’asse Brescia-Milano-Roma e che paiono ormai la vera nemesi storica di quel che fu il glorioso gruppo di Mani Pulite. Una resa dei conti attesa da molti. E il fantasma di quella Loggia Ungheria, massoneria delle toghe potenti che sfiora la sua persona proprio qui, negli uffici in cui i magistrati Turone e Colombo scoprirono la P2, altro fantasma politico. Fino a ieri tra gli aggiunti ce ne era una sola al lavoro, l’aggiunto Tiziana Siciliano, che si occupa dei disastri ambientali, e quindi di quello della Torre del Moro, un grattacielo di diciassette piani nella zona sud di Milano ridotto a torcia nel giro di quindici minuti. Cronache di vita, angoscianti e lontane dal primo quesito, che potrebbe essere stato il tarlo delle vacanze di Greco, chissà se nella consuetudine della Maddalena: dimettersi, anticipando di tre mesi la scadenza naturale del pensionamento di novembre, allo scoccare dei settant’anni? Ipotesi brillante, che sarebbe piaciuta a quel Francesco di qualche decennio fa, quello che sognava la rivoluzione nel “gruppo del mercoledì”. Di difficile praticabilità da parte del procuratore Greco, che i ponti con quel sognatore li aveva già rotti ai tempi del maccartismo politico-giudiziario di tangentopoli. E che oggi si trova in una posizione di potere in cui le dimissioni anticipate potrebbero parere più una mossa di astuzia, ma debole, che non di coraggio e di forza. Nel suo carnet, suo e della procura (di ieri e di oggi), c’è la maledizione dell’Eni, il colosso nazionale idrocarburi fondata da Mattei. Da Eni tutto è partito, con la maxitangente Enimont dei tempi d’oro di Mani Pulite e la spartizione tra le forze politiche, con le condanne e la distruzione del pentapartito di governo e il salvataggio di cui immaginiamo si sia in seguito mangiato le mani l’ex pm Antonio Di Pietro, fermo sulla soglia della sede del Pci di via Botteghe Oscure. La soglia mai varcata, nonostante le tante testimonianze sui metodi spartitori di quegli anni: un terzo, un terzo, un terzo. Un po’ ai democristiani, un po’ ai socialisti e un po’ ai comunisti. Nella vicenda Eni di trent’anni fa la Procura aveva vinto, la politica aveva perso. Anche il presidente Gabriele Cagliari, una tragedia in più. Ma a certuni non basta vincere, si vuole strafare. Così il filone delle indagini su Eni non è mai asciutto, è carsico e non appena il quadro normativo e internazionale lo consente, si riaprono i fascicoli. Casualmente sulla scrivania dello stesso pubblico ministero di tanti anni prima. Ma i tempi sono cambiati. E non sono sufficienti gli esposti di qualche Ong per dimostrare la corruzione internazionale. La prima batosta arriva dal processo “Saipem-Algeria”, in cui l’ex ad di Eni Paolo Scaroni viene assolto in appello dall’accusa di aver versato una tangente di 197 milioni di dollari. È il gennaio di un anno fa. Si comincia a intuire che quel rito ambrosiano che aveva demolito la prima repubblica comincia a scricchiolare. E si arriva alla vera “maledizione dell’Eni”, il processo dell’inchiesta Nigeria, nel quale -siamo nel luglio 2020- il pm De Pasquale chiede 8 anni di carcere ciascuno per l’attuale e l’ex amministratore delegato, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni. Gli imputati vengono assolti con la formula più ampia, nonostante il rappresentante dell’accusa contasse molto sulla testimonianza di due personaggi discussi come Piero Amara e Vincenzo Armanna. Qui entrano in scena il pm Paolo Storari e la loggia Ungheria, quella di cui aveva parlato l’avvocato Amara, un centro di potere massonico, costituito da politici e imprenditori ma soprattutto alti magistrati, che avrebbero condizionato, tra l’altro, la nomina del procuratore capo di Milano. Ma non è per questo che Francesco Greco non accoglie la proposta di Storari di procedere a indagini e arresti. Il fatto è che il testimone Amara è troppo importante per far condannare i vertici Eni. Al punto di preparare un piattino avvelenato nei confronti del presidente del tribunale, che però non andrà in porto. Ecco perché, tra indagini milanesi, bresciane e del Csm (finora ha vinto solo Storari al Csm, gettando nella polvere addirittura il procuratore generale Salvi), Francesco Greco ha un bel da pensare e da decidere. Potrebbe essere lui alla fine a seppellire la gloriosa storia di Mani Pulite.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Magistratura e regime. Loggia Ungheria, indagine sparita nell’Italia guidata dal partito dei Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Vi ricordate quella storia della Loggia Ungheria? Ve la riassumo perché, certo, se magari leggete il Riformista solo saltuariamente suppongo che non sappiate molto di questa storia. Gli altri giornali ne parlano raramente e con molta sobrietà. Dunque la storia è questa: c’è un avvocato importante, che si chiama Piero Amara, inquisito da varie Procure e sempre ritenuto attendibile dalle Procure dalle quali è stato indagato, il quale, interrogato a Milano dal sostituto procuratore della Repubblica Paolo Storari, ha raccontato dell’esistenza di una loggia segreta, chiamata Ungheria, la quale ha in mano il controllo totale dei vertici della magistratura italiana. Che, dunque, se la denuncia di Amara fosse vera, sarebbero vertici interamente fuori dalla legalità. Bene, questo sostituto Storari ha verbalizzato tutto, ma la sua inchiesta è stata bloccata dal procuratore di Milano. Allora lui è andato a Roma a raccontare di questo scandalo a un membro del Csm molto famoso e conosciuto come integerrimo: Piercamillo Davigo. E ha consegnato a lui i verbali dell’interrogatorio di Amara. Pare che molta gente sia stata informata da Davigo, nei giorni successivi: il vicepresidente del Csm, il presidente della commissione parlamentare antimafia, giornalisti vari. Niente: silenzio. Poi la cosa è arrivata all’orecchio di Nino Di Matteo, anche lui del Csm, che finalmente l’ha denunciata. Due giorni in prima pagina e poi zitti tutti. Il procuratore generale della Cassazione a questo punto ha chiesto la cacciata di Storari. La Procura di Milano è insorta, mettendo il procuratore con le spalle al muro, e Storari si è salvato. Dopodiché è tornato il silenzio. Ufficialmente la Procura di Brescia sta indagando, ma non sembra che abbia fretta. I cronisti giudiziari forse sono in ferie, forse distratti, forse…E della Loggia Ungheria non si sa niente. le possibilità sono tre: o esiste, e allora è il caso di sovversione istituzionale più grave del dopoguerra. O non esiste, e allora è la provocazione politico-istituzionale più grave del dopoguerra, e bisognerebbe capire chi ne è l’ideatore e con quali gli obiettivi. Oppure è un comitato d’affari. Bene, al mondo politico e alla stampa di questi scenari interessa zero. Perché? Ve lo dico io: perchè noi viviamo in una repubblica che almeno da 30 anni è sottoposta a un solo potere. Quello del partito dei Pm. Che forse – dico forse – coincide con la Loggia Ungheria. Tutto qui.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Esiste o no? Tutte le ipotesi. Mistero loggia Ungheria, inchiesta sparita dai giornali (e dalle procure): tre scenari sul caso Amara. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Vi ricordate ancora della Loggia Ungheria? L’associazione super segreta, praticamente una P2 del terzo millennio, finalizzata a pilotare le nomine dei vertici delle Istituzioni e ad aggiustare i processi, la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato siciliano Piero Amara alla fine del 2019 ai pm di Milano Laura Pedio e Paolo Storari che lo interrogavano sul “complotto Eni”. La notizia, dopo il clamore iniziale, è sparita dalle pagine dei grandi giornali, ormai concentrati da settimane sul “green pass” e sulle scelte di Giuseppe Conte, tutti argomenti da togliere il sonno agli italiani. Il caso era esploso la scorsa primavera grazie al pm antimafia Nino Di Matteo. Il magistrato, intervenendo durante un Plenum del Consiglio superiore della magistratura, aveva preso le difese del collega Sebastiano Ardita che, secondo Amara, avrebbe fatto parte di questa loggia. “Una calunnia”, disse Di Matteo. Il pm del processo Trattativa era intervenuto in Plenum dopo aver ricevuto in una busta anonima qualche settimana prima i verbali di Amara, interrogato per ben sei volte alla fine 2019 dalla vice del procuratore milanese Francesco Greco, Pedio, e dal pm Storari. Quest’ultimo, vista l’inerzia dei propri capi nel voler svolgere accertamenti sulle parole di Amara, aveva consegnato a Piercamillo Davigo a marzo del 2020 tali verbali. Essendo atti coperti dal segreto, sia Storari che Davigo sono adesso indagati. Ed è indagata anche l’ex segreteria di Davigo, Marcella Contraffatto, che aveva spedito i verbali di Amara alle redazioni del Fatto e de La Repubblica. Il destino professione della ex segretaria di Davigo, per la cronaca, si deciderà il prossimo 8 settembre. Palazzo dei Marescialli ne ha chiesto il licenziamento. Ma torniamo alla loggia Ungheria. Quello che sappiamo ufficialmente è che diverse Procure stanno indagando. Milano e anche Perugia. Dagli atti depositati dai pm del capoluogo umbro, infatti, in particolare dagli interrogatori di Amara del 4 e del 17 febbraio 2021, risulta aperto il procedimento numero 84/2021, con delega al Gico della guardia di finanza di Roma. Il reparto da sempre in prima linea quando si tratta di fare indagini molto delicate. Non sappiamo, comunque, se Raffaele Cantone ha interessato per competenza Firenze dal momento che fra i nomi degli appartenenti ad Ungheria ci sarebbe il suo predecessore Luigi de Ficchy. Di nomi Amara ne aveva fatti una quarantina: dal comandante generale della guardia di finanza Giorgio Toschi, all’ex piduista ed ora editorialista de Il Tempo Luigi Bisignani; dal deputato di Italia viva Cosimo Ferri, per anni leader della corrente di destra delle toghe Magistratura indipendente, all’ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro. «La lista completa è a casa di un giudice», disse Amara, consegnato ai pm dei file audio con dei colloqui registrati. «Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi», disse l’avvocato siciliano, ricordando che Ungheria aveva condizionato la nomina del procuratore di Milano. Per Di Matteo la storia è «di una gravità inaudita e si deve andare a fondo: sarebbe grave se la loggia esistesse ma sarebbe ancora più grave se non esistesse». Il motivo: «Poteri occulti vogliono condizionare il Csm». Sperando che i pm raccolgano l’appello di Di Matteo, proviamo noi a fare delle ipotesi.

Primo scenario. La loggia Ungheria esiste. Si tratta di una loggia segreta coperta in grado effettivamente di condizionare l’attività dei magistrati e delle forze di polizia. Una loggia potentissima che è pure in grado di pilotare l’informazione in Italia. Dopo il clamore dei primi giorni, come detto, dovuto soprattutto alle parole di Di Matteo, la notizia è infatti sparita dai radar. E il condizionamento del Csm, terremotato dopo l’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, con le dimissioni di cinque componenti, potrebbe essere uno degli effetti di Ungheria. Su questo punto è necessario un passo indietro. Amara, ritenuto credibile dai pm umbri tanto da diventare la principale prova d’accusa a carico di Palamara, farebbe parte della loggia alla quale partecipava egli stesso, l’avvocato Giuseppe Calafiore ed il faccendiere Fabrizio Centofanti tutti coindagati dell’ex presidente dell’Anm ma che hanno subito tuttavia un trattamento diverso. Ad Amara e Calafiore non è stato inoculato il trojan ma è stato inviato “un mero preavviso di malfunzionamento” del cellulare mentre a Palamara è stato bloccato il traffico voce e il traffico dati. Inoltre, nei confronti di Amara e Calafiore non è stato richiesto il rinvio a giudizio ma sono stati stralciati per essere archiviati. Centofanti, che ha patteggiato, non solo non è mai stato intercettato ma nei suoi confronti non è stato compiuto alcun atto di indagine. Anzi il suo nome, pur essendo secondo i pm il corruttore di Palamara, è stato iscritto nel registro degli indagati il 27 maggio 2019 quando cioè l’indagine era finita e Palamara era a quella data intercettato da tre mesi.

Secondo scenario. La loggia Ungheria non esiste ed è il frutto della fantasia dell’avvocato Amara. Perché, però, avrebbe fatto questa messinscena? Amara aveva l’interesse ad accreditarsi come “pentito” con i pm di Milano, in quel momento impegnati nell’indagine più importante degli ultimi anni: quella per corruzione internazionale nei confronti dell’Eni. Lo scopo sarebbe stato raggiunto. Ad Amara non è mai stato sequestrato un euro del suo immenso patrimonio, frutto anche di condotte opache. Eppure l’ex pm romano Stefano Rocco Fava, prima che gli venisse tolto il fascicolo, aveva dimostrato la provenienza non regolare di queste ingenti somme. Fava aveva chiesto l’arresto di Amara ed il sequestro dei beni.

Infine un terzo scenario. Non è una loggia coperta ma un “tradizionale” comitato d’affari. Molto in voga nella Roma dei Palazzi. Nella Capitale è frequente, ad esempio, che avvocati e magistrati si frequentino anche fuori delle aule di giustizia. I rapporti di amicizia fanno il resto. Comunque sia un dato è certo: Amara, grazie ad Ungheria, è riuscito a mettere in salvo il suo patrimonio di quasi cento milioni di euro. Non è un risultato da poco. Anzi. Paolo Comi

Il caso Amara. Mistero loggia Ungheria, che fine ha fatto l’inchiesta? Magistrati in ferie e politica muta. Frank Cimini su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Pare che oggi il procuratore capo della Repubblica di Milano Francesco Greco torni in ufficio per qualche giorno interrompendo le vacanze iniziate con l’ufficio nella bufera in seguito al caso Eni-Nigeria e alle mancate o quantomeno tardive indagini sulla loggia Ungheria. In questo periodo la procura è stata coordinata dall’”aggiunto” con più anzianità di servizio Riccardo Targetti. Sarebbe interessante sapere che fine abbia fatto la loggia Ungheria, argomento del quale i grandi giornali hanno sempre avuto poca voglia di occuparsi, in qualche modo poi “giustificati” in questo momento dal dilagare di pagine e pagine dedicate all’Afghanistan e al Covid19. Dopo le prime tardate iscrizioni nel registro degli indagati che erano costate l’indagine bresciana sul procuratore Greco per abuso d’ufficio sotto forma di omissione sarebbe stato necessario accelerare i tempi al fine di capire se l’avvocato Piero Amara parlando della loggia avesse messo a verbale una bufala o cose vere. Una verifica fondamentale perché da un lato si tratta di indagare su magistrati, politici, imprenditori impegnati secondo Amara a confezionare le nomine del Csm, ad aggiustare inchieste e processi. Dall’altro lato fosse tutta fantasia sarebbe ugualmente inquietante perché bisognerebbe capire le ragioni delle invenzioni e pure l’obiettivo prefissato nella testa di quello che la procura aveva considerato il testimone chiave per ottenere la condanna dei vertici dell’Eni per le presunte molto presunte tangenti in Nigeria. L’avvocato Amara non era stato ritenuto attendibile dai giudici del Tribunale di Milano che avevano assolto tutti gli imputati nel marzo scorso. Il legale siciliano nel mirino di diverse indagini ha fatto più volte fuori e dentro dal carcere dove si trova tuttora, ma nessuno sa dove abbia nascosto circa 80 milioni di euro che finora non sono stati sequestrati. Della loggia Ungheria non si è saputo più niente neanche a Perugia, dove il procuratore capo Raffaele Cantone, ex capo dell’Anac usa le vacanze per rilasciare interviste dove si afferma che la giustizia non funziona. Quello della loggia appare un tema scomodo (eufemismo) perché la magistratura è chiamata a indagare su se stessa. Ma per sua fortuna pare possa dormire sonni tranquilli sia a causa delle ferie che per le toghe più di ogni altra categoria hanno una sorta di intoccabilità sia in ragione del fatto che sul punto la politica tace su tutta la linea. Quando la politica appare in difficoltà viene regolarmente azzannata dai magistrati impegnati a invadere il campo altrui per aumentare il proprio potere di casta (1992 docet). Ora che la magistratura vive il momento più difficile della sua storia i politici stanno zitti, a cominciare paradossalmente da quei partiti che hanno avuto molti motivi di scontro con le toghe. E questa sembra il motivo più importante per pensare che il caso della famosa loggia finisca in niente. Anche se entro novembre il Csm dovrà nominare il successore di Greco. Una partita ovviamente tutta politica. Md non intende mollare l’osso puntando sul candidato interno Maurizio Romanelli perché ritiene quella procura roba sua soprattutto a scapito di chi chiede un segnale di discontinuità, “il papa straniero”. Frank Cimini

Milioni di euro e greggio iraniano. Loggia Ungheria, il mistero del tesoro di Amara: dai soldi al petrolio, perché nessuno lo sequestra? Paolo Comi su Il Riformista il 27 Agosto 2021. Il silenzio tombale che da mesi ha ormai avvolto le indagini sulla Loggia Ungheria, la P2 del terzo millennio, la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara alla fine del 2019 in diversi interrogatori davanti ai pm di Milano, si accompagna ad un altro silenzio: quello sul destino del suo ingentissimo patrimonio. Uno degli aspetti più inquietanti della gestione del “pentito” Amara è, infatti, rappresentata certamente dalla circostanza che le Procure interessate (Roma, Messina, Perugia e Milano) non hanno mai proceduto in questi anni al sequestro, anche in via provvisoria, dei suoi beni. E questo pur a fronte di fondati dubbi sulla liceità della sua provenienza. Il solo “sacrificio” richiesto ad Amara è stato il versamento volontario di poche decine di migliaia di euro in occasione dei vari patteggiamenti conclusi a Roma e Messina. A proposito del patrimonio di Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, appare di fondamentale importanza evidenziare il ruolo della società Napag, la sua “cassaforte”, mai citata nelle fluviali dichiarazioni rese dall’avvocato siciliano alle Procure di mezza Italia. La Napag venne costituita a Gioia Tauro da Amara e dall’imprenditore Francesco Mazzagatti nel 2012 con un capitale di 10 mila euro. Inizialmente si dedica all’import-export di succhi di frutta; dopo due anni dopo cambia attività concentrandosi sugli idrocarburi. Nel 2017 ha ricavi record per 162 milioni. Come è stato possibile? È presto detto. Per capire l’arcano bisogna tornare al 15 luglio 2019 quando l’Eni presenta una denuncia contro Amara, che “operava per conto della Napag”, alla Procura di Milano tramite Stefano Speroni, il neo direttore degli affari legali del colosso petrolifero. Prima di quella data il ruolo della Napag come “cassaforte” di Amara dove far transitare i soldi di dubbia provenienza era emerso dalle indagini fatte, in solitaria, dall’ex pubblico ministero della Procura di Roma Stefano Rocco Fava che a febbraio di quell’anno aveva fatto una richiesta cautelare e di sequestro dei beni nei confronti dell’avvocato siciliano. L’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, insieme agli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, aveva però deciso di togliere il fascicolo a Fava sostenendo, fra l’altro, che vi erano “perplessità” sul ruolo di Amara nella Napag. I soldi, come diceva sempre Giovanni Falcone, lasciano traccia e sono ancora tutti su un conto ad Abu Dhabi. Poi c’è la questione della petroliera “White Moon”. Sempre l’Eni, il 13 giugno 2019, aveva presentato una denuncia alla Procura di Milano, indirizzata della dottoressa Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, segnalando che la White Moon era giunta “in prossimità del porto di Milazzo” alla fine del mese di maggio con un carico di greggio, acquistato dall’azienda del cane a sei zampe, non di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice, la società di intermediazione nigeriana Oando, ma di “qualità superiore e più pregiata”. La compagnia petrolifera aveva segnalato, inoltre, che era stata accertata la falsificazione della documentazione di accompagnamento del carico e che la reale fornitrice del prodotto fosse la Napag. L’Eni depositava una ulteriore denuncia, sempre diretta alla dottoressa Pedio, il 19 giugno 2019 segnalando la reticenza di Oando a dichiarare la reale provenienza del greggio una volta esclusa, in forza delle analisi chimiche effettuate, la sua provenienza irachena, trattandosi invece di greggio iraniano, soggetto ad embargo. Il 4 luglio 2019 sempre l’Eni depositava alla Procura di Milano la fattura di oltre 41 milioni di euro pagati dalla Oando alla Napag. E il 26 luglio successivo ancora l’Eni presentava una nuova denuncia allegando la documentazione contraffatta fornita a giustificazione della provenienza irachena del greggio. Niente è stato sequestrato dalla Procura di Milano ad Amara. Neppure il petrolio iraniano. Come mai? Mistero. Paolo Comi

L'inchiesta sul caso che ha scosso la magistratura. Mistero Loggia Ungheria, chi se ne occupa a Milano? Paolo Comi su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Ora che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha bocciato la richiesta di trasferimento del pm Paolo Storari, ci sarà una svolta nelle indagini sulla Loggia Ungheria? Storari era finito nel mirino del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare del potere disciplinare nei confronti delle toghe, per aver consegnato in maniera del tutto irrituale i verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Il pm allievo prediletto di Ilda Boccassini aveva interrogato Amara, insieme alla vice del procuratore di Milano, Laura Pedio, per diversi giorni verso la fine del 2019. Nelle sue lunghe deposizioni Amara, sentito inizialmente sul falso complotto nei confronti dell’Eni, aveva anche svelato l’esistenza di questa Loggia, una sorta di nuova P2, composta da magistrati, professionisti, imprenditori, alti esponenti delle forze dell’ordine. Lo scopo della Loggia, come affermato da Amara, sarebbe stato quello di pilotare i processi e condizionare le nomine dei magistrati e dei vertici dello Stato. Il resto della storia è noto. Storari avrebbe voluto fare accertamenti, procedendo subito con almeno otto iscrizioni sul registro degli indagati, per verificare la fondatezza di quanto dichiarato da Amara. I suoi capi, Greco e Pedio, sarebbero invece stati di diverso avviso. Amara, da quanto risulta, aveva fatto una settantina di nomi di appartenenti alla Loggia, fra cui quelli di due consiglieri del Csm in carica: Marco Mancinetti e Sebastiano Ardita.

Vista “l’inerzia” dei vertici della Procura di Milano, Storari avrebbe allora deciso di consegnare i verbali di Amara a Davigo, allora potente consigliere del Csm, affinché fosse posto a conoscenza di quello che stava accadendo alla Procura di Milano. I verbali di Amara finirono, poi, nelle mani di due giornalisti del Fatto e di Repubblica, che non vollero pubblicarli per “non compromettere” l’indagine. Anzi, denunciarono quanto accaduto. La “postina” sarebbe stata Marcella Contraffatto, la segretaria di Davigo, che Storari sembra avesse voluto intercettare ed arrestare. La donna è attualmente sotto indagine, come Storari e Davigo, accusati di rivelazione del segreto. Il Csm, dopo aver sospeso dal servizio la ex segretaria di Davigo, pare avesse deciso di licenziarla, salvo poi ripensarci. Essendo, dunque, rimasti tutti al proprio posto, tranne Davigo che per raggiunti limiti di età è andato in pensione lo scorso ottobre, sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le indagini sulla Loggia Ungheria, e quindi se è esistita veramente o se sia sta una invenzione calunniosa di Amara per chissà quale fine. Dalla reazione di Davigo, che aveva messo a conoscenza di questi verbali mezzo Csm, parrebbe che un qualche fondamento ci possa essere. Un magistrato esperto come l’ex pm di Mani pulite che in vita sua avrà letto chissà quanti esposti e denunce, si presume sappia distinguere se una notizia è bufala o meno. I verbali di Amara sono nel fascicolo sul falso complotto Eni. Il fascicolo è stato iscritto nel 2017 e risulterebbe essere pendente. Qualche mese fa era girata la notizia che Francesca Nanni, procuratrice generale di Milano, volesse avocarlo visto il tempo trascorso senza che la Procura avesse preso una determinazione. Ma poi, anche in questo caso, non si è più saputo nulla. Non è dato sapere, alla luce degli ultimi sviluppi, chi si occuperà di indagare sulla Loggia: Storari o Greco e Pedio che volevano cacciarlo. Se Greco a novembre andrà in pensione, Pedio è destinata a rimanere. Una situazione che non potrà non creare imbarazzo, soprattutto dopo che Storari ha affermato che la linea dei vertici della Procura di Milano prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, in quanto sarebbe tornato utile come teste in altri processi. Amara alla fine dello scorso mese di maggio fece una lunga intervista, accennando alla Loggia Ungheria, durante la trasmissione Piazza Pulita condotta da Corrado Formigli su La7. Qualche giorno dopo venne arrestato dalla Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari. Messo in libertà per aver fornito ampia collaborazione ai pm lucani, è stato quasi subito riarrestato in quanto, per una precedente condanna, il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva respinto la sua richiesta di affidamento. Adesso si trova nel carcere di Orvieto. In silenzio. Palamara la scorsa settimana su questa vicenda ha tirato fuori il classico pizzino, affermando l’esistenza di un “collegamento” fra quanto accaduto a lui e ad Amara, annunciando a breve delle “rivelazioni”. Paolo Comi

La denuncia del pm Fava pendente da due anni e mezzo. Perché il Csm teme Piero Amara, tra segreti e indagini infinite. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Agosto 2021. La giustizia italiana funziona a varie velocità. È un dato oggettivo. Molto dipende da chi è l’imputato. Se si chiama Luca Palamara, ex zar decaduto delle nomine dei magistrati, in meno di un anno il procedimento (disciplinare) viene definito in primo e secondo grado. Se, invece, si chiama Piero Amara, l’avvocato dai mille misteri ed esponente di punta della loggia segreta Ungheria, il fascicolo si “incaglia”. Per ricostruire la vicenda che vede protagonista Amara è necessario tornare al mese di marzo del 2019, quando l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone decise di revocare al pm Stefano Rocco Fava il procedimento nei confronti dell’avvocato siciliano. Fava all’epoca stava indagando Amara per autoriciclaggio e appropriazione indebita. Il pm aveva anche chiesto di arrestare il legale siciliano, sequestrandogli i 25 milioni di euro che aveva ricevuto dall’Eni. Pignatone, insieme agli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, dopo essersi rifiutati di apporre il visto sulla richiesta cautelare, aveva tolto il fascicolo a Fava, provvedendo a una nuova riassegnazione. Il fascicolo venne poi mandato a Milano per competenza territoriale. Fava, come previsto dalla circolare del Consiglio superiore della magistratura, senza ricorrere al metodo “Storari”, quello della consegna brevi manu al consigliere di riferimento, scrisse allora una ventina di pagine di osservazioni, affinché il Csm valutasse se dargli torto o ragione. Da Palazzo dei Marescialli fecero sapere che avrebbero risposto “non appena cessato il segreto”, essendo le indagini nei confronti di Amara in corso. Passano i mesi e, non avendo avuto alcuna notizia dal Csm sulle proprie “osservazioni”, dopo varie telefonate, per il tramite del proprio difensore, Fava decide di prendere carta e penna e chiedere formalmente notizie. Lo scorso marzo il segretario generale del Csm risponde a Fava comunicandogli che della questione era stata investita la Settima Commissione del Csm, competente per l’organizzazione degli uffici giudiziari. Dopo questa comunicazione passano altre settimane senza alcuna notizia. A maggio 2021 Fava, sempre per il tramite del proprio difensore, scrive allora direttamente alla Settima Commissione del Csm, chiedendo quali valutazioni abbia espresso sulle osservazioni di marzo del 2019. Fava manifesta anche la disponibilità a essere sentito per fornire tutti i chiarimenti, in caso fosse necessario. A metà giugno scorso, il Comitato di Presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovanni Salvi, fa sapere che sulle osservazioni di Fava di marzo del 2019 “non risultano adottate determinazioni”, ricorrendo asserite esigenza di “segretezza”. Il difensore di Fava risponde a stretto giro, rappresentando che non possono ritenersi sussistenti esigenze di segretezza poiché le osservazioni di Fava sono state depositate dalla Procura di Perugia ad aprile 2020 con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari fatto a Luca Palamara e sono state addirittura integralmente pubblicate sul libro Magistropoli del giornalista del Fatto Antonio Massari, edito nell’ottobre 2020. Da allora tutto tace. A norma del codice di procedura penale, le indagini possono durare, al massimo, due anni. Abbondantemente trascorsi da quando Fava fece le sue “osservazioni” e Pignatone, Ielo e Sabelli mandarono il fascicolo che gli avevano tolto alla Procura di Milano. Il procedimento su cui stava indagando Fava, giunto a Milano, venne riunito nel “fascicolo complotto Eni”, in carico alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio. La particolarità di questa storia è che il “fascicolo complotto Eni” risulta essere stato iscritto nel 2017. In questo fascicolo, pendente quindi da 5 anni, sono finiti anche i famosi verbali di Amara sulla loggia Ungheria, consegnati nella primavera del 2020 dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo. Resta da chiedersi, dunque, cosa e soprattutto chi tuteli il Csm ponendo il segreto su documenti finiti anche in un libro, e la Procura di Milano che non chiude le indagini dopo cinque anni. Paolo Comi

Da corriere.it il 6 agosto 2021. Luca Palamara scende in politica. Su candiderà «da libero cittadino» alle elezioni politiche suppletive nel collegio Roma-Primavalle lasciato libero dalla deputata Cinquestelle Emanuela Del Re nominata rappresentante Ue per il Sahel. L’annuncio è stato dato nel pomeriggio di oggi dallo stesso magistrato che ha fatto esplodere lo scandalo che ha travolto la magistratura italiana. «Mi candido con un mio simbolo» ha chiarito Palamara.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 7 agosto 2021. Chiusa la porta della magistratura, ora Luca Palamara punta a entrare nel porticato del Parlamento. E lo fa a due giorni di distanza dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione che ha bocciato il suo ricorso contro la radiazione. Riposta la toga nell'armadio, come lui stesso ha ammesso, l'ex presidente dell'Anm decide di candidarsi nel collegio uninominale di Roma Monte Mario-Primavalle, vacante da quando la grillina Emanuela Del Re è stata nominata rappresentante speciale dell'Ue per il Sahel. Alle tre del pomeriggio Palamara convoca i cronisti nella storica sede del Partito radicale, in via di Torre Argentina. Al suo fianco c'è il leader del Partito radicale Maurizio Turco, il quale mette subito in chiaro: «È dal 1989 che il Partito radicale ha deciso di non presentarsi alle elezioni in quanto tale». E se gli eredi di Marco Pannella non ci sono, allora da chi sarà sostenuto l'espulso dalla magistratura? A oggi dice di candidarsi con una sua lista, con tanto di simbolo dove si vede una dea che regge una bilancia e il cognome dell'ex magistrato. Di fatto, spiega, la sua discesa in campo è utile «a dare più forza al racconto» sul sistema delle correnti che ha denunciato nel libro con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. In parallelo continuerà a difendersi nel processo in cui è imputato a Perugia, impugnerà davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo la sentenza «ingiusta» contro la sua espulsione dalla magistratura, e sosterrà i referendum sulla giustizia proposti dai Radicali e dalla Lega di Salvini. Li firma tutti, eccezion fatta per quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Alla fine della conferenza stampa la novità è rappresentata dalla candidatura. Ha avuto contatti con la coalizione di centrodestra? «Da parte mia non c'è preclusioni né per la destra, né per la sinistra», risponde. Semplicemente, insiste, «voglio sposare i problemi di alcuni territori, partendo dal basso». Tuttavia l'impressione è che voglia essere più una mossa per vedere l'effetto che fa. Nel Palazzo nessuno si è scomposto. Anzi. L'azzurro Maurizio Gasparri boccia Palamara: «Lo cacciano dalla magistratura in maniera definitiva e allora propone la sua candidatura, come se il Parlamento fosse il ricettacolo di tutti gli errori del Paese. Non sarà eletto. Cerca solo protagonismo, venderà qualche libro, apparirà grazie alla par condicio qui e là». E anche Guido Crosetto di Fratelli d'Italia storce il naso: «Palamara in politica? Beh, non mi pare nulla di nuovo, molti magistrati fanno politica dal mattino alla sera, a favore o contro alcuni partiti».

Quei garantisti sedotti da Palamara…L'ex magistrato si presenta come il castigatore della magistratura. Ma lui è l'artefice del Sistema di potere delle procure. Qualcuno lo ha scordato...Davide Varì su Il Dubbio il 9 agosto 2021. E’ addirittura commovente il trasporto emotivo con cui una fetta dell’ala garantista della nostra politica e intellettualità ha accolto la decisione di Luca Palamara di fondare un proprio movimento politico. Ed è sorprendente la speranza che ripongono nell’uomo, (l’ex) magistrato, che ha scoperchiato il Sistema, certo, ma che, per sua stessa ammissione, prima ha contribuito a crearlo fino a diventarne punto di riferimento, mente, “mandante” e terminale. E quando parliamo del Sistema ci riferiamo al controllo sulle nomine delle procure più importanti del Paese, al condizionamento delle toghe in politica, pianificato e perseguito in modo mirato: i 39 processi a Silvio Berlusconi dicono qualcosa? E i 19 ad Antonio Bassolino? Per non parlare dell’agguato a Clemente Mastella quando era ministro della giustizia o alle centinaia di governatori e sindaci indagati, massacrati mediaticamente e poi assolti. Insomma, la lista degli orrori sarebbe davvero troppo, troppo lunga. Ma ora c’è chi pensa seriamente di affidare la battaglia garantista a uno degli artefici di quel massacro. Intendiamoci, Palamara ha tutto il diritto di entrare in politica e di raccontare che lo fa per il bene della giustizia, perché ha scoperto che i processi sono troppo lunghi, che il potere delle procure è eccessivo e che il sistema delle correnti genera mostri. Tutto vero: solo che noi lo sostenevamo quando lui era dall’altra parte della barricata… 

“Io, Luca Palamara, vi dico: ero garantista anche quando indossavo la toga”. La replica di Palamara al corsivo del Dubbio: "Vidi quell'imputato piangere disperato. Risultò innocente e questa cosa mi cambiò per sempre". Il Dubbio il 10 agosto 2021. La replica di Luca Palamara al corsivo del direttore del Dubbio, Davide Varì. Egregio direttore, mi pregio rappresentarLe che sul tema del garantismo sono in totale coerenza rispetto alle mie posizioni del passato, che intendo ribadire con ancora più forza e passione. Nella mia esperienza venticinquennale di pubblico ministero, dapprima presso la Procura di Reggio Calabria e poi di Roma, mi sono sempre ispirato a due principi: quello del giusto processo diventato principio della nostra Costituzione dal 2001; quello della necessità che anche nella fase delle indagini preliminari dovessero essere ricercati elementi a favore dell’imputato, così come scrive la norma di legge art.358 del Codice di Procedura Penale. Per queste ragioni non mi sono mai voluto appiattire sulle informative della polizia giudiziaria, nemmeno durante i c.d. “turni arrestati”, o sui generici racconti di chi denunziava fatti di reato, ma ho voluto sempre approfondire al fine di riscontrare probatoriamente quanto mi veniva riportato. Anche con riferimento all’istituto della custodia cautelare in carcere, ho sempre ritenuto che essa dovesse essere maneggiata con cura, in quanto tale misura costituisce – così come scrive il nostro codice di rito – una extrema ratio e come tale non deve trasformarsi in una anticipazione della condanna definitiva, perché – come insegna l’art.27 della Costituzione – è solo il passaggio in giudicato della sentenza che segna la parola fine su qualsiasi vicenda penale, salvi i casi ovviamente in cui può essere impugnato il giudicato. Questo anche nell’ottica di evitare che lo Stato italiano debba essere condannato a risarcire ingenti somme di denaro nei confronti di chi è stato ingiustamente detenuto. Dico questo non scordando mai la faccia di un imputato in stato di custodia cautelare che a Regina Coeli, durante un interrogatorio di garanzia di fronte al Gip, piangeva a dirotto invocando la sua innocenza. I fatti poi gli hanno dato ragione: era innocente. Quell’episodio mi ha segnato per sempre. Da quel giorno ho ritenuto e ritengo che quando si priva un individuo della propria libertà personale è sempre meglio pensarci un attimo in più che un attimo in meno. Questo mio convincimento mi ha portato sempre ad avere una schietta e leale collaborazione con la polizia giudiziaria, a non appiattirmi sui “teoremi” accusatori ma mi ha portato anche a serrati confronti nella consapevolezza che bisognasse assicurare alla giustizia non degli, ma imputati nei confronti dei quali fosse sostenibile l’accusa in giudizio, anche perché più le indagini erano fatte bene, maggiore possibilità ci sarebbe stata di ricorrere ai riti alternativi. Non ho mai pensato di avere di fronte a me presunti colpevoli, ma mi sono ispirato sempre alla necessità di andare a verificare fino in fondo se i fatti effettivamente si fossero svolti nel modo che mi veniva rappresentato. Ricostruire i fatti, verificarli, dimostrarli per me rappresentano l’essenza dello spirito garantista. Questa e’ la funzione che dal mio punto di vista deve svolgere il processo penale, facendo sì che lo stesso possa avere un proprio e riconosciuto carattere di autonomia e non debba svolgere una funzione servente ad altri fini. Nel 1993 il Parlamento decise di abolire l’autorizzazione a procedere facendo venir meno la linea di confine tracciata dai nostri Costituenti tra politica e magistratura. Conseguentemente, a partire da Tangentopoli, è accaduto che le doverose e – sottolineo doverose – indagini della magistratura nei confronti del potere politico venissero strumentalizzate, trascinando la magistratura stessa su un terreno di contrapposizione politica che evidentemente non le può appartenere. Sono stato, sono e sarò sempre fermamente convinto della necessità che i poteri dello Stato debbano svolgere la loro funzione senza travalicare i loro limiti. Applicherò i principi che le ho detto anche alla mia vicenda. Il tempismo perfetto del deposito della decisione delle Sezioni Unite nel giorno in cui la sezione disciplinare del CSM sconfessava la Procura generale della Cassazione sulle vicende milanesi, mi ha convinto ancor di più a portare il tema delle garanzie violate in Europa, al fine di verificare le ragioni per cui: non mi è stato concesso di ascoltare i testimoni a mia discolpa; sono state utilizzate intercettazioni ricavate da altri procedimenti con accertamenti su un server occulto tuttora in corso; non sono stato giudicato da un organo terzo ed imparziale visto che alcuni componenti della sezione disciplinare non si sono volontariamente astenuti. So di essere innocente e per questo porterò la mia vicenda dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per tutti questi motivi mi candido alle Elezioni Suppletive per il Collegio Uninominale Camera di Roma Primavalle, non solo per essere testimone civile della battaglia garantista, che è propria di tantissimi pubblici ministeri in Italia, ma anche per recuperare un rapporto diretto con i cittadini sui quesiti referendari che rappresentano linfa vitale per pungolare il legislatore a procedere con la riforma della Giustizia. Sono sicuro che le mie ragioni saranno le ragioni di molti, senza pregiudizi, che spero almeno in questa vicenda vengano messi da parte in nome di una giustizia giusta.

Luca Palamara a tutto campo: dall'impegno politico a Gratteri ed Enzo Tortora. Paolo Orofino su Il Quotidiano dle Sud il 10 agosto 2021. Il calabrese Luca Palamara scende in politica e si candida a Roma, nelle elezioni suppletive per la Camera dei deputati. L’ex numero uno dell’Anm, ormai, è definitivamente fuori dalla magistratura a seguito dell’inchiesta che ha subito ad opera della procura di Perugia. Ma lui non demorde, convinto delle sue ragioni. In una nuova intervista al Quotidiano – una delle prime che rilascia da politico – ci parla della sua scelta di candidarsi per il Parlamento; ci parla di alcune frasi di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, in pole position per andare a dirigere la procura nazionale antimafia; ci parla della vicenda di Enzo Tortora. Gli abbiamo pure chiesto se votasse in Calabria, a chi voterebbe alle regionali di ottobre e ci ha dato una risposta un po’ “democristiana”. Ma va bene lo stesso.

Perché ha deciso di scendere in politica?

«Ho deciso di dare gambe al racconto che è nato soprattutto per la richiesta dei tanti che volevano sapere la verità: in molti infatti mi hanno chiesto di capire il funzionamento del sistema delle correnti. Penso che per coerenza io debba mettere a disposizione quella che è stata la mia esperienza e quello che è il mio bagaglio di informazioni e di conoscenza per provare a riformare la giustizia. Rispetto a questa esigenza di cambiamento credo che i quesiti referendari possano rappresentare una nuova linfa per una magistratura credibile e autorevole e dare la possibilità a quei tanti magistrati che sono stati esclusi dal sistema di diventare protagonisti. E’ con questo spirito riformatore che mi candido al collegio uninominale di Roma Trionfale, Primavalle, Bravetta Pisana, Gianicolense, Corviale Casetta Mattei ,Aurelio, Boccea, Casalotti. Voglio metterci la faccia e tutta la mia esperienza e andare fino in fondo in questa battaglia per la verità e la Giustizia».

Se eletto, si toglierà qualche sassolino (per usare un eufemismo) dalle scarpe, contro qualcuno? Ricordando, magari, la morale del suo libro preferito, il Conte di Montecristo.

«Non ho nessun intento vendicativo ma la volontà di rendere una testimonianza civile sul tema della giustizia e sulla volontà di rappresentare le istanze di un quartiere importante della città in cui vivo».

Gratteri, qualche giorno fa, parlando del putiferio scatenatosi nella magistratura a seguito dell’inchiesta su di lei, ha detto: «vorrei sapere perché ha pagato solo Palamara». Come ha preso questa frase, bene o male?

«Mi ha fatto piacere. L’ho trovata di una grande onestà intellettuale, soprattutto da chi ha sempre avuto una visione autentica e genuina sul meccanismo delle correnti in magistratura. E questo, lo dico nonostante le nostre posizioni, su alcuni temi del processo, tra cui riforma Cartabia e carcerazione preventiva, non siano sempre

coincidenti».

In Calabria, a ottobre, si vota per le elezioni regionali. Ora che è sceso in politica, da originario calabrese, a chi voterebbe Palamara, fra i candidati in lizza nella nostra regione?

«Sono visceralmente legato alla terra di mio padre. La amo profondamente. Per questo farò il tifo per il candidato che farà diventare la Calabria ciò che merita ovvero la regione più bella d’Italia».

Ci parli, infine, di Enzo Tortora.

«La vicenda di Enzo Tortora mi ha sempre insegnato che è necessario non accontentarsi mai di una verità superficiale e, soprattutto, che bisogna sempre riscontrare le dichiarazioni che provengono da chi può aver interessi individuali a raccontare una cosa, piuttosto che una altra».

Intervista a Luca Palamara: “Mi batto per la giustizia giusta, ora voglio farlo in Parlamento”. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Agosto 2021. «Credo sia giunto finalmente il momento di dare una risposta ai tanti cittadini che chiedono una giustizia efficiente e, soprattutto, giusta», afferma Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex potente componente del Consiglio superiore della magistratura, presentando ieri nella sede del Partito Radicale a Roma la propria candidatura alle prossime elezioni suppletive per il collegio uninominale Lazio 1.

Dottor Palamara, non per voler usare una frase inflazionata, ma ha veramente deciso di scendere in campo?

Si. Ho deciso di candidarmi. Con una mia lista. Ho anche registrato il logo (Un tondo con all’interno la dea della giustizia bendata, il tricolore nazionale, e la scritta PALAMARA, ndr).

Che cosa l’ha convinta?

Guardi, è discorso che parte da lontano, da quando la Sezione disciplinare del Csm lo scorso ottobre pronunciò la sentenza che disponeva la mia rimozione dall’ordine giudiziario. In quel momento ho capito che era necessaria una operazione verità.

Sul funzionamento della giustizia in Italia?

Anche.

La pubblicazione del libro-intervista con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, un successo editoriale senza precedenti, rientra in questa sua “operazione verità”?

È stata la prima parte del percorso. Che ora prosegue con la candidatura al Parlamento.

A dire il vero in molti, soprattutto fra i suoi colleghi, hanno visto dietro la pubblicazione del libro la sua voglia di vendetta…

Non è vero. Non mi sono voluto vendicare di alcunché. Ho solo raccontato delle storie di cui sono stato protagonista. Poi lascio al lettore le valutazioni del caso.

Ammetterà, però, che la sua candidatura sarà molto criticata?

Io sono un cittadino libero. E ho solo voglia di rilanciare il mio impegno per una giustizia giusta.

Una candidatura di servizio?

Diciamo che mi candido per raccontare il funzionamento interno del sistema giudiziario. Anzi, voglio aggiungere una cosa.

Prego.

Sa quanta gente mi ferma per strada e mi racconta dei problemi che ha avuto avendo a che fare con i tribunali? Tantissimi. È evidente che qualcosa non funziona.

Ha già pensato a possibili alleanze?

No. E voglio dire fin da subito che non ho alcun tipo di preclusione. Sono aperto al confronto con tutti.

Chi dovrebbe votarla?

Come ho detto, mi sento di raccogliere le istanze del territorio. In prima battuta di coloro che chiedono, come detto, una giustizia efficiente. Sono per una rinnovata cultura della legalità.

Ieri la Cassazione ha confermato la sua rimozione. Come si sente?

Questa mattina ho riposto la mia toga e quella di mio padre (Rocco, ex magistrato, scomparso nel 1990, ndr) in armadio. Spero solo momentaneamente.

Pensava ad un esito diverso? Ad un annullamento del provvedimento della disciplinare?

Ho rispetto delle sentenze. Ma questa non la condivido. Questa è una sentenza ingiusta. E poi ci sono molte cose che non tornano.

Ad esempio?

C’è stato un tempismo perfetto. La mattina il Csm sconfessava il procuratore di Milano Francesco Greco, la sua vice Laura Pedio, ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che avevano chiesto l’allontanamento del pm Paolo Storari. E la sera la Cassazione depositava la sentenza nei miei confronti. Come ho avuto modo di dire, una ciambella di salvataggio per Salvi.

I giudici di piazza Cavour per confermare la sua rimozione hanno scritto quasi duecento pagine.

Le pare possibile tutte queste pagine per una cena? E poi, visto che si discute della cena all’hotel Champagne, perché non si fa luce sulla cena con cui è stata decisa la nomina dell’attuale vice presidente del Csm David Ermini? Non vedo molte differenze. E comunque mi auguro che questa sentenza non serva per fare carriera.

Si riferisce al magistrato che l’ha scritta?

Di solito le sentenze di questo genere vengono inserite nel fascicolo personale e si utilizzano quando si fa domanda per un incarico….

Oltre a presentare la sua candidatura, ha deciso di firmare i referendum sulla giustizia proposti dal Partito Radicale e dalla Lega. Tutti firmati tranne uno: quello sulla responsabilità dei magistrati. Perché?

Premesso che sono convinto che i referendum siano uno snodo fondamentale, non ho firmato quello sulla responsabilità diretta dei magistrati perché non dobbiamo ritrovarci con una magistratura “difensiva”. Il tema è molto delicato e serve un approfondimento.

Torniamo al suo processo, durato poco più di un mese. Lei continua a ripetere che molte cose non tornano.

Si. Tante cose.

Ne dica solo una.

Il 23 maggio del 2019 in Commissione incarichi direttivi il dottor Piercamillo Davigo aveva votato il procuratore generale di Firenze Marcello Viola per il posto di procuratore di Roma. Poi cambiò idea e votò per l’aggiunto Michele Prestipino che all’epoca non era stato preso in considerazione. Come mai? Cosa era successo? Davigo, poi, è stato il componente della sezione disciplinare che ha deciso la mia rimozione della magistratura. Immediatamente dopo la sentenza è stato pensionato. Bisogna fare quanto prima luce su questi passaggi. Paolo Comi

Il "deputato" Palamara: "Voglio rappresentare chi ha sete di giustizia". Anna Maria Greco il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Palamara si candida alle suppletive: «Corro con il mio simbolo, né di destra né di sinistra». «Voglio fare fuori dalla magistratura quello che facevo dentro la magistratura, quando avevo cariche ufficiali. Rispondere alle istanze dei cittadini è quello che mi piace di più». Diventare deputato è la nuova missione di Luca Palamara, che di vite ne ha avute più d'una, ma non si ferma neppure dopo la radiazione dall'ordine, confermata in Cassazione e in attesa del processo per corruzione a Perugia. «Stamattina (ieri, ndr) ho riposto la mia toga nell'armadio - dice- con la certezza di poterla indossare ancora alla fine di un percorso che sarà lungo, ma che ristabilirà la verità». Si candiderà «da libero cittadino» alle elezioni politiche suppletive nel collegio Roma-Primavalle, lasciato libero dalla deputata Cinquestelle Emanuela Del Re, nominata rappresentante Ue per il Sahel. Palamara l'annuncia nella sede del Partito Radicale, presentando il suo simbolo con la dea Giustizia che regge la bilancia e vicino un hashtag tricolore. «Non ho preclusioni - precisa - e non sono né di destra, né di sinistra». Questa è stata sempre la sua forza, quella di stare al centro, di mediare, leader della corrente di Unità per la Costituzione, che per anni si è alleata con la sinistra di Area e poi ha virato verso la moderata Magistratura indipendente, scatenando lo scandalo sulle nomine al Csm che ha travolto il mondo giudiziario. Ora Palamara vuol fare lo stesso in politica, correndo da solo per un posto in parlamento, slegato dai partiti. La sua candidatura, sottolinea, «non è calata dall'alto, ma viene dal basso». Nel senso che in questi mesi, in cui si è ritrovato a contatto con la gente come autore di un bestseller, Il Sistema, scritto con Alessandro Sallusti, ha scoperto che «tanti cittadini mi chiedono di non fermarmi e mi interrogano sui temi della giustizia». Se viene considerato un esperto di giustizia, ha ragionato, e non può più esserlo in magistratura, l'alternativa è la politica. Una mossa che crea qualche malumore, come sintetizza l'azzurro Maurizio Gasparri: «Ovviamente non sarà eletto. Cerca solo protagonismo». Insomma, dice di aver sentito un richiamo all'impegno sul fronte della riforma della giustizia, in particolare, quello che meglio conosce per vita vissuta. «Ho deciso di candidarmi - spiega l'ex magistrato - per dare più forza al mio racconto, per incoraggiare un cambiamento reale e appoggiare la battaglia per il referendum, nell'interesse dei cittadini che hanno sete di giustizia». I referendum promossi dai Radicali e dalla Lega lui li firma, tutti tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati. «Non lo firmo perché non voglio una magistratura difensiva, ma che rispetti le regole, questo è l'aspetto più importante. Per questo dico: discutiamone». Sul fronte personale, quello dell'espulsione appena confermata dalle Sezioni Unite della Cassazione e quello del processo che dovrà affrontare a Perugia, Palamara dice di portare avanti una «battaglia di verità», di non volere «vendetta», ma solo ristabilire i fatti. «Mai ho compiuto atti contrari ai miei doveri d'ufficio», ripete. Ha fiducia nel tempo. «Tutte le sentenze si rispettano e io rispetto anche l'ultima della Cassazione. È una decisione che ritengo ingiusta, anche per il tempismo con cui è arrivata», commenta. Il 25 novembre è fissata la prima udienza pubblica del processo per corruzione a Perugia e lui potrebbe arrivarci da deputato, anche se questo non cambierà l'iter ordinario. L'ex pm di Roma, ex consigliere del Csm ed ex presidente dell'Anm promette: «Parteciperò a tutte le udienze, rispettando i miei giudici. Nessuno mi silenzierà, mi difenderò nel processo». Ora Palamara inizierà la raccolta delle 250 firme necessarie alla candidatura e poi partirà la sua campagna elettorale, per farsi conoscere sul territorio. «Roma deve riabilitarsi, a partire dalle realtà più periferiche. Una delle mie ambizioni riguarda l'educazione alla legalità». È già un abbozzo di programma. Anna Maria Greco 

Vittorio Feltri su Luca Palamara radiato: "Il caso dell'ex pm insegna, se dici la verità in Italia finisci male". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 06 agosto 2021. Ormai Luca Palamara è più famoso di Lukaku, ogni dì i giornali e le televisioni si occupano di lui senza spiegare correttamente i motivi che lo hanno portato ai disonori della cronaca. Personalmente l'ho incontrato una sola volta, ci siamo stretti la mano e nulla più. Quindi se parlo di lui nessuno può dire che mi faccia velo l'amicizia. La sua vicenda, in base alla quale è stato radiato dall'Ordine giudiziario, mi ha sempre incuriosito per un semplice motivo: leggendo le sue requisitorie contro la categoria dei magistrati, ho capito che la ragione sta dalla sua parte. Egli non ha raccontato una fiaba bensì si è limitato a citare dei fatti verosimili alla luce di quello che è accaduto nella casta togata, il cui comportamento in linea di massima è valutabile da chiunque abbia gli occhi almeno semiaperti. Naturalmente evito con cura di entrare nei dettagli del polpettone di notizie riguardanti le prodezze, si fa per dire, degli amministratori della giustizia e specialmente dell'ingiustizia. In qualità di cronista mi occupai spesso di inchieste e processi. Ne ricordo uno emblematico, quello relativo al povero Enzo Tortora. Fui incaricato dal direttore del Corriere di allora, Piero Ostellino, di seguire le varie udienze a Napoli. Non capivo un accidente di quanto succedesse in aula, un groviglio di pentiti si affannava a lanciare accuse verso il famoso presentatore televisivo. Si discuteva soprattutto di droga. Sennonché la sera, a lavori ultimati, noi giornalisti in gruppo andavamo in trattoria. Poi i colleghi si radunavano in un locale per il poker fino a notte inoltrata. A me il gioco delle carte non piaceva e non piace, per cui me ne tornavo in albergo, sul comò della stanza era accatastato un plico contenente atti processuali. A cui per rompere la noia detti una occhiata veloce. Evi trovai delle contraddizioni sesquipedali. Per esempio era scritto che Melluso il 5 maggio, non rammento di quale anno, avrebbe consegnato a Tortora, in piazzale Loreto, una scatola zeppa di cocaina. Telefonai al nostro archivio e chiesi all'addetto di controllare i fascicoli per verificare dove si trovasse il pentito quel giorno. La risposta dopo un paio d'ore fu: era detenuto nel carcere di massima sicurezza di Campobasso. Mi si aprì il cervello e da quel momento  andai a caccia di stupidaggini e ne scovai parecchie, pertanto mi convinsi che Enzo fosse innocente, travolto da bugie enormi. La sentenza a suo carico fu comunque di colpevolezza, in primo grado: dieci anni di galera. Una follia che in secondo grado fu annullata con una piena assoluzione. Intanto però l'imputato era stato distrutto nell'animo e nel fisico e di lì a poco morì. Mi resi conto che i magistrati sono come i cronisti e i geometri: alcuni sono bravi, altri mica tanto. In seguito prestai attenzione a quanto accade nei tribunali e ho scoperto varie schifezze. Condanne insensate, assoluzioni tardive, pasticci giudiziari macroscopici. Tutti coloro i quali compiono un errore sul lavoro, tranvieri inclusi, pagano di tasca propria. Per i magistrati paga lo Stato, ovvio che essi se ne freghino di commettere sgarri. E qui torniamo a Palamara, che non sarà simpatico come Totò, ma suppongo che dica la verità nel descrivere i meccanismi che regolano le carriere nel baraccone giudiziario. Un intrigo di amicizie e complicità sta alla base delle carriere, anche nei livelli più alti. Risultato: invece di radiare i furbetti della toga, hanno radiato chi li ha denunciati, cioè Palamara. È un caso tipicamente italiano. Se uno afferma la verità lo mandano a casa come un reietto. Dovrebbero premiarlo, ma siccome sono giudici a decidere lo castigano. Un bel referendum non fu mai approvato. Peccato.

L'intervento del presidente dei penalisti italiani, Giandomenico Caiazza, all'indomani della radiazione definitiva di Luca Palamara dalla magistratura. Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 6 agosto 2021. È passata poco più che tra le brevi di cronaca la definitiva radiazione del dott. Luca Palamara dalla Magistratura italiana. Conosco da decenni quel magistrato e sento innanzitutto il bisogno di esprimergli pubblicamente un pensiero di vicinanza ed amicizia in un momento di immaginabile, profonda amarezza e solitudine. E ciò tanto più ora che tutti gli ossequienti amici e colleghi, petulanti sollecitatori di attenzioni e prebende di ogni sorta, hanno voltato le spalle, fuggendolo come un appestato, a colui che essi hanno in assoluta maggioranza liberamente scelto perché esprimesse -per quasi un decennio!- il vertice della magistratura associata. Ma l’atto finale di questo ad un tempo feroce e grottesco rito esorcistico non poteva scegliere momento migliore che ne esaltasse, in un’abbacinante controluce, l’insostenibile paradosso. Si applaude infatti a quella radiazione mentre la magistratura italiana, fin nei sancta sanctorum che l’hanno eroicamente rappresentata per decenni, è dilaniata -ed anzi, si dilania- tra ricorsi e controricorsi al TAR che delegittimano vertici di Procure importantissime, volantinaggi di verbali di indagine (in word, a quanto pare fa la differenza), giudici che nelle sentenze accusano i pm di aver nascosto prove a favore dell’accusa, altri che lumeggiano favori a presunte loggette massoniche, altri ancora che tolgono fascicoli al gip se questi respinge le richieste della Procura, mentre un provvedimento disciplinare proposto dalla Procura Generale della Cassazione viene respinto a furor di popolo magistratuale, che insorge pubblicamente, solidale con il proscrivendo PM, due giorni prima della decisione del CSM. Insomma, mentre prende corpo con inquietante precisione la ben nota profezia (o piuttosto anatema) di Francesco Cossiga (“finiranno ad arrestarsi tra di loro”), la magistratura italiana non trova di meglio da fare che espellere con disonore il suo già segretario nazionale, Presidente Nazionale ed infine Consigliere Superiore. Sarà bene ricordare i termini nei quali quell’accusa disciplinare è stata accortamente sagomata. Il dott. Palamara non viene processato ed espulso per essere stato l’incontestato ed anzi incensato interprete di un sistema degenerato di correnti e di potere (con annesse, frenetiche attività di “autopromozione” delle carriere), cioè per quei comportamenti che indignano l’opinione pubblica e ne sollecitano la più ferma censura; ma per avere, nella specifica occasione della imminente nomina del Procuratore Capo di Roma, coinvolto in alcune riunioni serali, perfettamente identiche a centinaia di altre tenutesi per centinaia di altre nomine per decenni, anche un politico in quel momento indagato da quella stessa Procura, e dunque indebitamente interessato alla manovra. Così, il dedalo inestricabile di chat, incontri, pranzi, cene, raccomandazioni di ogni risma, che ha riguardato un impressionante numero di magistrati di tutta Italia e pressoché le nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari del Paese negli ultimi dieci anni almeno, è rimasto prudentemente fuori da ogni censura disciplinare. Lì, se male non ho compreso, ce la siamo cavata con il mea culpa, e l’impegno morale ed etico al riscatto. Lo scandalo Palamara, quello che merita la radiazione (e solo la sua), è l’interlocuzione con il politico inquisito e dunque presumibilmente interessato a quella specifica nomina. Non mi intendo di giustizia disciplinare, ma converrete con me che questo esito appare francamente paradossale. Non voglio cadere in semplificazioni eccessive, comparando fatti e comportamenti così, un po’ alla carlona. Ma insomma, mi verrebbe difficile provare un sentimento di censura inferiore a quello che devo certamente riferire alle cene promiscue all’Hotel Champagne, se mi trovassi a giudicare – chessò, faccio il primo esempio che mi viene a tiro – pubblici ministeri che sottraggano al Giudice (al Giudice!) prove o principi di prova della indole calunniosa del principale teste di accusa. Forse saprete che tra le tante fesserie che ci vengono propinate per contrastare l’idea della separazione delle carriere, va molto di moda quella della cultura della giurisdizione (cioè della prova) che deve animare il P.M., tanto più che una norma lo obbliga (lo obbligherebbe, meglio) a raccogliere prove anche a favore dell’indagato (“ciao core”, chioseremmo romanescamente). Ora, se un PM, sollecitato per di più da un collega del suo stesso ufficio ad approfondire la calunniosità del principale teste di accusa, dice più o meno: “beh no, prima portiamo a casa la sentenza di condanna e salviamo l’inchiesta, poi si vede”, commette un fatto così sideralmente, incomparabilmente meno grave delle cene del dott. Palamara all’hotel Champagne? Evidentemente è così, non c’è che dire, non c’è altra spiegazione. O c’è?

"Gli imputati ora hanno paura dei tribunali". Luca Fazzo il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato: «Mi chiedono: Ma io devo esser giudicato da questi magistrati?». «Cosa è cambiato? In fondo nulla, tutto continua a funzionare come prima. Cioè malissimo». L'avvocato Ivano Chiesa è noto al grande pubblico come difensore di Fabrizio Corona. Ma del Palazzo di giustizia di Milano conosce, con decenni di processi sulle spalle, i pregi, i difetti, i riti. Ed è lui a raccontare come la tempesta del «caso Amara» sia vissuta dall'altra parte del banco, tra gli avvocati e gli imputati che del sistema giustizia sono gli interpreti più bistrattati. «Per gli avvocati - racconta Chiesa - quanto sta accadendo non cambia molto, tu il tuo lavoro cerchi di farlo comunque. Il problema riguarda gli imputati. Questo sistema funziona se anche loro hanno un po' di fiducia nei suoi confronti. Invece questa storia non fa che rafforzare il sentimento di disistima nei confronti della magistratura, la loro sensazione di essere in mano a un sistema fuori da ogni controllo».

Cosa le dicono i suoi assistiti?

«È da una vita che mi rivolgono domande imbarazzanti, quando si ritrovano indagati o sotto processo, e per la prima volta si rendono conto di come viene amministrata la giustizia in questo paese. Dal caso Palamara in avanti queste domande si sono moltiplicate. Mi chiedono ma cosa succede, ma cos'è questa roba?. Mi domandano: ma davvero devo essere giudicato da magistrati che fanno le cose che leggo sui giornali?»

Il «caso Amara» è andato ancora più in là del caso Palamara, i veleni tra le toghe sono esplosi, ci sono procuratori e pm sotto accusa. Come la vede?

«Come tutti mi chiedo chi abbia ragione e non so rispondere, perché non conosco le carte. Stando a quanto leggo, il dottor Storari ha sbagliato il metodo, altrimenti non si troverebbe indagato per rivelazione di segreto d'ufficio. Ma il suo obiettivo era quello di poter fare una indagine che riteneva necessaria. Allora mi domando: ma come, un pm che vuol fare le indagini tu lo trasferisci? È come se si punisse un medico del pronto soccorso che ha la pretesa di curare la gente. Sono queste secondo me le cose che la gente non capisce, e che portano il sentimento di sfiducia ai massimi livelli».

Era immaginabile quanto sta accadendo nella Procura di Milano?

«Assolutamente no. A me la Procura era sempre apparsa come un ufficio compatto, ora emergono spaccature profonde. Io resto basito e mi rincresce, anche perché i personaggi coinvolti li conosco tutti da anni. Forse sarebbe bastato un po' di buon senso in più da parte di tutti e tutto questo non sarebbe accaduto... Io non so se questi contrasti riguardino solo il caso Amara o nascano anche da altre vicende, di certo è che le modalità con cui sono esplose sono sconcertanti. E il fatto che il procuratore della Repubblica sia indagato non è una bella cosa».

Però se Storari non avesse passato la brutta copia dei verbali a Davigo...

«Io di quello che dice Davigo non condivido neanche che ora è, se per lui sono le otto per me sono almeno le otto e mezzo. Ma Davigo in quel momento era un uomo molto importante, non mi stupisce che Storari si sia rivolto a lui. Storari voleva fare una cosa buona, poi gli è scappata di mano. La risposta negativa del Csm alla richiesta di trasferirlo è un segnale molto forte. E adesso magari questa storia risulterà utile».

In che senso?

«È come col caso Palamara. Viene fuori un macello, la gente capisce, magari si fa un po' di pulizia e soprattutto si mette mano ai problemi veri».

Ovvero?

«Cominciamo da quelli contenuti nei referendum di Lega e radicali. Il vero obiettivo, il risultato indispensabile, è la separazione delle carriere. Sa qual è la prima domanda che mi fanno sempre i miei assistiti? Mi chiedono: ma davvero quello che mi giudica è un collega di quello che mi accusa?» 

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

La Cassazione conferma: Palamara è fuori. Lui: «Decisione ingiusta». Confermata la rimozione dalla magistratura dell'ex capo dell'Anm. Che fa sapere: «Porterò il caso in Europa: la battaglia continua». Simona Musco su Il Dubbio il 4 agosto 2021. Luca Palamara non è più un magistrato. Ufficialmente e, forse, definitivamente, in attesa della possibile pronuncia di Corti sovranazionali, alle quali l’ex zar delle nomine ha già annunciato di voler fare ricorso. L’ultimo capitolo della sua travagliata carriera è stato scritto stasera dalla Cassazione, che ha confermato la radiazione dell’ex presidente dell’Associazione nazionali magistrati. Una decisione che non lo ha colto di sorpresa, ma la battaglia, spiega al Dubbio, non è finita. «Ci aspettavamo questa decisione, nonostante tutto – ha sottolineato -. Non è questo il momento per ristabilire la verità, andremo avanti. Rispetto la decisione, ma la trovo ingiusta. Nei limiti del consentito, farò ricorso alla Corte di Giustizia europea sui profili delle intercettazioni. Pago il fatto che qualcuno ha ritenuto che non dovessi intromettermi nella scelta del procuratore di Roma, ma la mia lotta continua. Ormai me lo chiedono tutti e continuerò a farlo, per una giustizia giusta. In ogni caso attendiamo gli accertamenti delle procure competenti sui trojan. La battaglia per la legalità va avanti». Secondo i giudici della Cassazione, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira e al contempo e sinergicamente, ponendo in essere manovre strategiche tese a collocare – in alcuni uffici giudiziari sensibili – taluni magistrati in luogo di altri aspiranti». Una decisione, dunque, che conferma quanto stabilito dal Csm il 9 ottobre 2020, in un processo lampo durato poco meno di un mese. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è la cena del 9 maggio 2019 all’Hotel Champagne, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, conversazione che, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. Per il sostituto procuratore generale Simone Perelli e per l’avvocato generale Gaeta, che hanno rappresentato l’accusa a Palazzo dei Marescialli, il comportamento dell’ex magistrato è stato invece di «una gravità inaudita». Ma il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, ha contestato aspramente l’utilizzo del trojan, piazzato dai pm di Perugia per scoprire la presunta corruzione da 40mila euro poi eliminata dalle accuse, l’utilizzabilità delle intercettazioni e la riduzione della lista testi da 133 a sei. «Quando ero in disciplinare – spiegò allora Palamara – ho visto processi che saltavano per un certificato medico presentato più volte. Io sono stato processato in 10 giorni». Il provvedimento, lungo 187 pagine, respinge, punto per punto, le doglianze dell’ex pm romano. Al quale i giudici contestano un modus operandi che ha condotto alla «inevitabile ma necessaria conseguenza di sfavore di tutti i (numerosi altri) concorrenti rimanenti, diversi da quelli prescelti, programmaticamente selezionati non già sulla base di meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e dei suoi interlocutori». La condotta dell’ex zar delle nomine, secondo la sentenza, è «tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non addirittura scontata) interlocuzione tra magistratura e politica». I giudici, nel bocciare il ricorso, partono dalla richiesta di ricusazione avanzata dall’ex pm nei confronti di diversi consiglieri del Csm, tra i quali Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti, contro i quali, pochi giorni fa, ha presentato un esposto per mancata astensione dolosa e induzione in errore degli altri consiglieri. Palamara aveva chiesto l’astensione di Davigo in quanto lo stesso avrebbe «manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie», nel corso del pranzo con il pm Stefano Fava, durante il quale si sarebbe parlato dei contrasti con Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Secondo il Palazzaccio, però, Davigo si sarebbe limitato a parlare di «divergenze di vedute», acquisendo informazioni soltanto su una parte della vicenda, ovvero l’esposto presentato da Fava nei confronti dei vertici della procura, considerato dal Csm una campagna di delegittimazione ai loro danni. Le dichiarazioni di Davigo, inoltre, «non si configurano in nessun caso come esternazione con le quali, in relazione a quanto conosciuto, vengono prefigurati possibili esiti (ma nemmeno sviluppi intermedi) del procedimento disciplinare» a carico di Palamara.

 Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Quasi ossessionato dalla figura del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, Luca Palamara avrebbe tentato di danneggiarlo con ogni mezzo a disposizione. Inoltre con, l'obiettivo di interferire nelle nomine di uffici giudiziari importanti come Roma e Perugia, avrebbe cercato di pilotare le nomine dei procuratori capo. Fatti «gravissimi» e un particolare «dispregio verso le regole codificate e gli standard di comportamenti dovuti» dimostrato da Palamara convincono i giudici delle sezioni unite della Cassazione a respingere il suo ricorso contro la radiazione dalla magistratura decisa nell'ottobre scorso dalla sezione disciplinare del Csm. Palamara non potrà più vestire la toga. E a Perugia è stato appena rinviato a giudizio per corruzione. I giudici di piazza Cavour bocciano la difesa dell'ex pm e confermano che vi fu «una strategia unitaria diretta da parte dell'incolpato a ricercare una soluzione di discontinuità rispetto alla gestione Pignatone alla procura di Roma». E così confermano le «manovre» per condizionare la scelta del nuovo capo dell'ufficio della Capitale. La Cassazione ha respinto la richiesta di non utilizzabilità delle intercettazioni effettuate all'Hotel Champagne nel maggio 2019, quando Palamara e cinque ex consiglieri del Csm discutevano delle nomine con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. I colloqui erano stati captati grazie al trojan inserito nel cellulare di Palamara e sono stati ritenuti utilizzabili dalla Cassazione perché la presenza dei parlamentari è stata ritenuta casuale. Quei discorsi non furono «libera manifestazione di idee e valutazioni personali in tema di politica giudiziaria» come sostenuto dai difensori di Palamara, bensì un tentativo di interferire sulle nomine. Concordano i giudici di piazza Cavour con la disciplinare del Csm: «Tutte le numerose condotte intenzionalmente poste in essere sono state concepite, preparate e messe in opera con assoluta consapevolezza della loro contrarietà alle regole codificate e con "chirurgica" determinazione strategica degli obiettivi, delle azioni da programmare allo scopo, dei soggetti da coinvolgere nelle iniziative, delle modalità di attuazione del programma così accuratamente architettato». Motivi e «rancori» personali avrebbero alimentato le decisioni dell'ex magistrato «avendo egli agito principalmente se non unicamente sotto la spinta di ragioni personali variamente calibrate tra la soddisfazione di aspirazioni rancorose in confronto di taluni soggetti e più radicalmente obiettivi egoistici di affermazione personale e non già in base al nobile proposito di procurare la collocazione negli uffici giudiziari di quelle professionalità soggettive che, nella sua particolare rappresentazione, gli apparivano come le più idonee». «La battaglia continua, porterò il mio caso in Europa», reagisce in serata Palamara. 

Palamara: «Come fa la Cassazione a dire che ero da solo?…» Dall’ex capo Anm, Luca Palamara, invito ai colleghi di un tempo: «Mi hanno condannato come unico attore del Sistema: dite voi come stanno le cose». E spunta l'ipotesi candidatura. Simona Musco su Il Dubbio il 6 agosto 2021. «Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto». Luca Palamara si affida ad una similitudine. Un modo come un altro per dire ai giudici della Cassazione che no, non è ipotizzabile che il “Sistema” delle nomine riguardasse solo lui, che lui ne fosse l’unico componente e l’artefice assoluto. Perché è impossibile immaginare che a decidere del destino delle procure di tutta Italia fosse una persona sola, indisturbata, capace di manipolare tutti, al Csm come nel mondo delle correnti. L’ex capo dell’Anm vuole dire la sua. E così come ad ottobre scorso, quando la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ne decretò la radiazione, decide di affrontare la questione dalla sede del Partito Radicale, dove oggi, alle 15, racconterà la sua versione dei fatti commentando le 187 pagine della sentenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che hanno decretato il suo allontanamento dalla toga. Ma parlerà anche di referendum ed elezioni suppletive, particolare che fa pensare ad una sua possibile discesa in politica. Qualcosa, però, intanto la anticipa. Centellinando le parole e chiedendo anche agli altri, a coloro che del sistema hanno fatto parte o perlomeno beneficiato, di raccontare la loro versione dei fatti. «Io e non solo io, ma tutti coloro i quali si sono relazionati con me – dice al Dubbio – sanno che ho sempre anteposto gli interessi altrui a quelli personali. Sarebbe bello a questo punto che non fossi più io a parlare, ma che fossero i diretti interessati a raccontare quello che accadeva». Un invito che probabilmente cadrà nel vuoto. Ma non si può ignorare, in ogni caso, che è lo stesso Csm a dire che il sistema contava, per lo meno, qualche altro membro: i cinque che si trovano tuttora sotto “processo” davanti alla sezione disciplinare e per i quali la procura generale ha chiesto la sospensione, definendoli, comunque, la “longa manus” di Palamara.

Palamara, la Cassazione dà ragione al Csm. La decisione della Cassazione racconta una verità che ricalca quella del Csm e che tenta di smentire la versione raccontata dall’ex pm nel suo libro: Palamara «ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali», ha voluto «colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira», ha messo in atto «manovre strategiche tese a collocare – in alcuni uffici giudiziari sensibili – taluni magistrati in luogo di altri aspiranti», non per «meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e dei suoi interlocutori». Una condotta «tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non addirittura scontata) interlocuzione tra magistratura e politica». Questa interlocuzione, per la Cassazione, è addirittura «eversiva».

L’autopromozione non è reato…? Ma se ciò fosse vero, allora dovrebbe esserlo per tutti. Con buona pace della tesi secondo cui l’autopromozione non rappresenterebbe un illecito. Una circolare della procura generale della Cassazione licenziata poco dopo lo scandalo nomine, infatti, stabilisce che per un magistrato chiedere una raccomandazione a Palamara non rappresenta un reato, né illecito disciplinare. Si tratterebbe, dunque, di semplice “autopromozione”. Recita, infatti, la circolare: «L’attività di autopromozione effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari, non essendo “gravemente scorretta” nei confronti di altri e in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari».

Il caso Storari. La sentenza si addentra nel tentativo di allontanare ogni sospetto dal mondo della magistratura nel suo complesso, facendo di Palamara, come lui stesso si è definito, il “capro espiatorio”. Riconducendo il tutto ad un interesse personalissimo: la smania di diventare procuratore aggiunto a Roma. La pronuncia del Palazzaccio arriva in un giorno particolare: lo stesso in cui la sezione disciplinare del Csm rende nota una decisione che, di fatto, sconfessa il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che aveva chiesto l’allontanamento da Milano e il cambio delle funzioni per Paolo Storari, il pm che ha consegnato a Piercamillo Davigo i verbali di Piero Amara per tutelarsi «dall’inerzia» dei vertici degli uffici di procura. Quella decisione, infatti, boccia le motivazioni di Salvi, in fatto e in diritto. E la Cassazione, in un profluvio di parole che servono a spiegare quanto fosse peccaminosa e fuori dalle regole la cena all’hotel Champagne, si pronuncia a favore della stessa procura generale, che aveva chiesto, con successo, di bocciare il ricorso di Palamara. Una coincidenza, forse, o forse un modo per restituire un equilibrio alle cose in un giorno importantissimo per le toghe. In ogni caso, «una situazione surreale», afferma ancora l’ex pm. Forte del fatto che, nonostante questa sentenza confermi la pronuncia del Csm, per tutti i fatti nuovi prodotti dalla difesa la strada che lo porta alla Corte di Giustizia e alla Cedu è una prateria.

«La battaglia continua». La Cassazione, infatti, sostiene di non poter affrontare le nuove questioni, tra le quali spiccano le indagini sul trojan – ancora in corso a Firenze e Napoli – e sulla collocazione effettiva del server che ha immagazzinato quelle intercettazioni, nonché l’esposto contro Davigo e Fulvio Gigliotti, accusati da Palamara di mancata astensione dolosa e induzione in errore degli altri membri della sezione disciplinare. Insomma, se tutto ciò dovesse produrre risultati, la via della revisione della sentenza è, per gli stessi ermellini, del tutto plausibile. E Palamara non nasconde l’intenzione di perseguirla: «La battaglia per la verità e per una giustizia giusta continua», dice. Ma finché ciò non avverrà, guai a dire che il sistema esiste.

  Il radiato Palamara ora si butta in politica. Oggi l'annuncio: "La battaglia continua". Anna Maria Greco il 6 Agosto 2021 su Il Giornale. L'ex magistrato tentato dalla candidatura alle suppletive di Roma coi Radicali. Luca Palamara si candida? Le Sezioni Unite della Cassazione hanno appena messo la pietra tombale sul suo ricorso contro la radiazione dalla magistratura ed ecco l'annuncio di una conferenza stampa che sa di clamoroso. Oggi, alla sede del partito radicale, l'ex pm di Roma, ex presidente dell'Anm ed ex membro del Csm, quello che ha fatto esplodere lo scandalo che ha travolto la magistratura italiana, parlerà di referendum giustizia, caos procure ed elezioni suppletive, annuncia asettico un comunicato. Elezioni suppletive? Forse Palamara si è stufato di essere «ex» di tante cose, vuole vivere nel presente e cerca un nuovo ruolo, ufficiale, per dire la sua su un mondo che conosce negli anfratti più nascosti, quello della giustizia. Perché, altrimenti, il grande manovratore delle nomine a Palazzo de' Marescialli, il dominus che creava e rompeva alleanze pericolose e sempre diverse tra le correnti, l'accusato di corruzione a Perugia che dovrà affrontare un processo, dovrebbe parlare del voto d'autunno? In un agosto in cui la riforma della giustizia è al centro del dibattito politico e divide il governo, la maggioranza, il Parlamento, magistrati, avvocati, giuristi in genere ed uomini della strada, ecco che Palamara sembra rispondere ad una mossa con una contromossa. La mossa del cavallo, che può tirarlo fuori da una situazione critica e rimetterlo in gioco. Palamara, allora, si candida? Ne avremo conferma solo oggi a via di Torre Argentina, sapremo se davvero è così, con quale forza politica e dove (magari alle suppletive di Roma?). Quel che certo è che ha avuto il suo peso, almeno nell'accelerazione dell'annuncio, anche il fatto che la decisione su di lui della Cassazione, che risale a giugno, sia arrivata puntuale nello stesso giorno in cui il titolare dell'azione disciplinare, il procuratore generale, Giovanni Salvi (che ha ottenuto dal Csm una condanna pesantissima ed «esemplare», quanto inusuale, per Palamara), prendeva uno schiaffo sonoro dallo stesso Consiglio sul caso del pm di Milano, Paolo Storari. Lui, l'autore con Alessandro Sallusti del libro bestseller «Il Sistema», diventato grande accusatore dei colleghi e assurto al ruolo di vero esperto, spesso interrogato su come correggere le anomalie della giustizia, ha forse intenzione di cavalcare l'onda di una notorietà che, nel bene nel male, ne fa un personaggio di primissimo piano. Forse, pensa di poter dare lezioni più di molti altri che pontificano sulle storture di un sistema giudiziario in cui ha agito dai vertici, in ruoli diversi e da ogni prospettiva. In Procura, nel sindacato delle toghe, nell'organo di autogoverno della magistratura e infine come accusato e imputato, in sede disciplinare e in sede penale. Dopo la notizia che non avrebbe mai più indossato la toga, salvo colpi di scena che a questo punto sarebbero più che clamorosi, Palamara ha promesso: «La battaglia continua». E forse non parlava solo del suo ricorso in Europa, contro una rimozione che considera ingiusta. Anna Maria Greco 

"Pago per aver sostenuto posizioni evidentemente non gradite". Perché Palamara è stato radiato dalla magistratura. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Agosto 2021. Luca Palamara da ieri non è più un magistrato. Le Sezioni unite civili della Cassazione hanno confermato la radiazione dall’ordine giudiziario per l’ex presidente dall’Associazione nazionale magistrati. In quasi duecento pagine di provvedimento, relatore Enzo Vincenti, i giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di Palamara contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura dello scorso ottobre. Palamara, dunque, avrebbe posto in essere attività per “condizionare in modo occulto l’attività del Csm” per le nomine dei procuratori di Roma e di Perugia, proponendosi egli stesso come procuratore aggiunto della Capitale dopo aver cercato di delegittimare Paolo Ielo. «Rispetto la decisione che però ritengo ingiusta perché so per certo di non aver mai leso le prerogative del Csm. Pago perché qualcuno ha ritenuto che io mi fossi intromesso nella scelta del procuratore di Roma e per aver sostenuto posizioni evidentemente non gradite», ha commentato Palamara all’Adnkronos dopo la decisione della Cassazione. «Il mio impegno per la legalità, per l’affermazione della verità e per squarciare il velo di ipocrisia prosegue. Porterò il caso in Europa, in attesa di tutti gli accertamenti sul trojan tuttora in corso», annuncia. L’ormai ex magistrato si era difeso pancia a terra in questi mesi sostenendo in tutte le sedi che l’incontro serale dell’hotel Champagne era un semplice confronto su temi importanti, negando la volontà di interferire con le nomine. Palamara, in particolare, aveva definito l’incontro «un laboratorio politico istituzionale di teste pensanti e volenterose rispetto al problema del più importante ufficio giudiziario italiano». Di diverso avviso, invece, la Cassazione secondo cui dietro quell’appuntamento, al quale aveva partecipato anche l’ex ministro Luca Lotti, all’epoca imputato a Roma nel processo Consip, vi fosse «una strategia unitaria da parte di Palamara, a ricercare una soluzione di discontinuità rispetto alla gestione Pignatone». Fatti considerati gravissimi e di particolare «dispregio verso regole codificate e standard». Palamara, comunque, nei giorni scorsi aveva presentato una denuncia contro due dei componenti della sezione disciplinare del Csm che lo aveva radiato: Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti. I due avrebbero violato l’obbligo di astensione. Davigo, nei giorni scorsi, in una intervista aveva affermato di aver mostrato i verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara a Gigliotti. Gigliotti, all’atto del decidere, avrebbe quindi utilizzato informazioni di cui era già a conoscenza rispetto a quello che doveva essere il materiale utilizzabile ai fini della decisione. Inoltre Davigo sarebbe stato anche a conoscenza dei contenuti dell’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava. Alcune delle incolpazioni nei confronti di Palamara riguardano proprio Amara, indagato in alcuni procedimenti pendenti innanzi alla Procura di Roma. Altri elementi a supporto della tesi di Palamara, quindi della preordinata violazione dell’obbligo di astensione di Gigliotti e Davigo nel procedimento disciplinare a suo carico, arriverebbero anche dal fatto che cinque componenti della sezione disciplinare si sono recentemente astenuti dal giudizio disciplinare promosso dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi contro il pm milanese Paolo Storari. «Appare evidente come il pregiudizio» di Gigliotti e Davigo «non solo fosse palese ma si fosse concretamente estrinsecato anche in sede di ammissione delle prove a discarico atteso che, pur apparendo necessario a chiunque, la Sezione disciplinare ha addirittura ritenuto di dover escludere la testimonianza di Fava». Paolo Comi

L'interrogazione parlamentare resta senza risposta...Le chat come prove d’accusa, ma Gaeta dimentica le sue…Paolo Comi su il Riformista il 4 Agosto 2021. Alla fine è rimasta senza risposta l’interrogazione presentata esattamente un anno fa dal senatore Maurizio Gasparri al ministro della Giustizia a proposito del coinvolgimento dell’Avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta nelle chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Gaeta è attualmente il responsabile della procedura disciplinare a carico dei cinque ex togati del Csm che parteciparono all’incontro serale con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e lo stesso Palamara all’hotel Champagne. Questa settimana Gaeta ha concluso la sua requisitoria chiedendo per loro la sospensione delle funzioni da uno a due anni. In una delle ultime udienze Gaeta aveva prodotto le chat fra gli incolpati Corrado Cartoni, Antonio Lepre e Paolo Criscuoli e Palamara, ritenute funzionali alle tesi di accusa, dimenticandosi, però, di produrre anche le sue. Il nome di Gaeta, esponente di Magistratura democratica e quindi della sinistra giudiziaria, come il procuratore generale Giovanni Salvi, ricorre molte volte nella chat tra Palamara e Pina Casella, sostituto procuratore generale della Cassazione ed esponente della corrente Unicost cui apparteneva Palamara. La magistrata era la “testa di ponte” tra gli aspiranti in servizio alla Procura generale (ma non solo) e Palamara. Il 6 dicembre 2017 Casella scrive a Palamara: “Grazie per Gigi Salvato hai davvero contribuito a migliorare l’ufficio. Un abbraccio”, riferendosi alla nomina di Salvato ad Avvocato generale della Cassazione, altro accusatore nella vicenda Palamara. Il 10 gennaio 2018 Casella scrive sempre a Palamara: “Ciao Luca. Carmelo ti porterà un mio messaggio…a cui tengo molto…. .poi la prossima settimana ci vediamo. Baci. Ps: sono qui con Maria Teresa Cameli. Aspetta tue notizie”. Il Carmelo “messaggero” è il successore di Piercamillo Davigo al Csm Carmelo Celentano, e a proposito della Cameli il 31 gennaio 2018 Palamara scrive alla Casella: “Votata Cameli”. Risponde dopo due minuti Casella: “Una buona notizia dopo tre giorni difficili. Grazie”. Dice Palamara dopo due minuti: “Stiamo recuperando su tutto”. Ribatte Casella dopo 4 minuti: “Volere è potere”. La Cameli venne nominata procuratore di Forlì. Casella, sempre sui medesimi argomenti, scrive a Palamara il 10 febbraio 2018: “Quando hai le idee chiare mi fai sapere come sei orientato per pst Rimini Ancona macerata e Pesaro? Baci”. Risponde Palamara: “Assolutamente si. Ancora nessuno in trattazione” . Ancora la Casella scrive a Palamara il 12 febbraio 2018: “Che aria tira per Carmelo Sgroi??” Risponde Palamara: “Non facile ma ci stiamo lavorando”. Ribatte Casella: “Mi raccomando Luca. Per l’ufficio è importante. Chiamerò anche Maria Rosaria per farglielo capire….”. Il magistrato segnalato è Carmelo Sgroi sostituto procuratore generale in Cassazione mentre Maria Rosaria che doveva “capire” era Maria Rosaria Sangiorgio consigliere del Csm insieme a Palamara. In questo contesto si inseriscono le “interferenze” citate nell’interrogazione parlamentare e che riguardano l’accusatore di Palamara. Il 26 aprile 2018 Casella scrive a Palamara: “Ciao Luca sono in ufficio con Piero Gaeta che vorrebbe salutarti come già sai. Io ritorno a Roma il 2. Riesci quella settimana a passare dalle nostre parti per un caffè??”. Risponde Palamara: “Si assolutamente si con piacere”. Ancora la Casella: “Ok allora ti chiamo il 2 e organizziamo”. Come promesso il 2 maggio 2018 Casella si fa viva: “Ciao Luca. Quando puoi sentiamoci un attimo. Baci”. Risponde Palamara: “Assolutamente si”. Ancora Casella: “Ti chiamo fra un’oretta ok?”. Risponde Palamara: “Ok”. Il 3 maggio 2018 Casella scrive ancora: “Alle 17 Piero deve andare via. A questo punto rimandiamo”. Casella non demorde ed ancora il 9 maggio scrive: “Ciao Luca. Rimandiamo il tuo appuntamento di domani con Piero Gaeta alla prossima settimana? Io questa non ci sono e mi fa piacere partecipare. Ti chiamo lunedì per accordi precisi. Ok?? Baci”. Risponde Palamara: “Ok va bene un bacio”. Con tenacia cadorniana il 14 maggio Casella scrive ancora a Palamara: “Buon inizio settimana. Quando ci si vede?” Risponde Palamara: “Mercoledì pomeriggio caffè? buon inizio settimana anche a te!!”. Ribatte Casella: “Perfetto. Ti chiamo in mattinata e mi dai l’orario esatto”. Puntuale mercoledì 16 maggio 2018 Casella scrive: “Ciao caro. Confermato il caffè? A che ora?”. Risponde Palamara: “Ok per le 15 ti confermo orario preciso appena finiamo plenum”. Ribatte Casella: “Perfetto”. Sempre il 16 maggio 2018 Casella scrive: “Siamo a pranzo al francese. Ti aspettiamo per il caffè come d’intesa”. Risponde subito Palamara: “Alle 15.15 sono da voi”. Ribatte Casella: “Bravo…”. Alle 15.18 Palamara scrive: “Sto arrivando”. Risponde subito Casella: “Siamo qui”. Finalmente si concretizza il tanto auspicato incontro con il riottoso Palamara che evidentemente non ne poteva più, dopo quattro anni, delle solite questue. C’è tuttavia una significativa coda. Infatti il 6 febbraio 2019 Palamara, pur non essendo più consigliere del Csm, scrive a Casella: “Mi mandi numero di Piero Gaeta? Noi ci vediamo venerdì?”. Risponde Casella: “Certo. Baci” e subito dopo “Piero Gaeta Cellulare 320 ………”. Gaeta verrà nominato, all’unanimità, Avvocato generale, qualche settimana dopo. Paolo Comi 

L’EX CONSIGLIERE DEL CSM PALAMARA RINVIATO A GIUDIZIO DAL GUP DI PERUGIA. ASSOLTO RICCARDO FUZIO EX PG DELLA CASSAZIONE. Il Corriere del Giorno il 23 Luglio 2021. L’inchiesta, coordinata dai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, aveva coinvolto l’intera magistratura: il trojan inoculato dalla Guardia di Finanza sul suo telefono è stato una vera e propria valanga per le toghe. La decisione del Gup Piercarlo Frabotta del Tribunale di Perugia era facilmente prevedibile. Luca Palamara, accusato di corruzione, va processato insieme alla sua amica Adele Attisani anche lei imputata per corruzione. Il Gup di Perugia ha deciso che l’ex consigliere del Csm deve rispondere in Tribunale, secondo l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri, per aver messo a disposizione la sua funzione in favore dell’amico imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti con delle presunte utilità ricevute. Il Tribunale di Perugia ha accolto la richiesta di Centofanti di patteggiamento ad un anno e sei mesi, dopo che a giugno aveva reso dichiarazioni spontanee ai magistrati della procura di Perugia. L’inchiesta, coordinata dai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, aveva coinvolto l’intera magistratura: il trojan inoculato dalla Guardia di Finanza sul suo telefono è stato una vera e propria valanga per le toghe. I pm Gemma Miliani e Mario Formisano dopo le dichiarazioni rese ai magistrati proprio da Centofanti avevano modificato nelle scorse settimane il capo di imputazione contestando, tra le accuse, la “corruzione in concorso per l’esercizio delle funzioni”, e non più la “corruzione in atti giudiziari. La decisione del giudice arriva a otto mesi dall’apertura dell’udienza preliminare che aveva preso il via il 25 novembre scorso. Fissato il processo per Palamara e l’Attisani con prima udienza il prossimo 15 novembre davanti al primo collegio del Tribunale di Perugia. “In concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo Adele Attisani quale istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria, altresì ed in parte, delle utilità ricevute, Luca Palamara, prima quale sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Roma ed esponente di spicco dell’Associazione Nazionale magistrati fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Consiglio Superiore della Magistratura e magistrato fuori ruolo ricevevano da Fabrizio Centofanti le utilità per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri” si legge nel capo di imputazione. Ed in particolare “per la possibilità consentita a Centofanti da Palamara di partecipare a incontri pubblici o riservati cui presenziavano magistrati, consiglieri del Csm e altri personaggi pubblici con ruoli istituzionali e nei quali si pianificavano nomine ed incarichi direttivi riguardanti magistrati, permettendo in tal modo a Centofanti di accrescere il suo ruolo e prestigio di “lobbista”; per la disponibilità dimostrata da Palamara a Centofanti di poter acquisire, anche tramite altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, a lui legati da rapporti professionali e/o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso ed in particolare, su quelli pendenti presso la Procura della Repubblica di Messina e di Roma che coinvolgevano Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore; per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste di Centofanti finalizzate ad influenzare e/o determinare, anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura e/o di altri colleghi, le nomine e gli incarichi da parte del Consiglio medesimo e le decisioni della sezione disciplinare“. Nella contestazione vengono elencati e documentati diversi soggiorni di cui avrebbe usufruito l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, tra cui quello a Madonna di Campiglio, il viaggio a Madrid con il figlio, la vacanza a Favignana, a Dubai, oltre ai lavori eseguiti a casa della sua amica Adele Attisani. Cinque consiglieri del Csm si dimisero, così come il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di aver rivelato a cinque consiglieri del Csm si dimisero, così come il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di aver rivelato a Palamara notizie sull’indagine che lo riguardava. Le sue chat su nomine, promozioni, trasferimenti hanno portato anche all’apertura di diversi procedimenti disciplinari a carico di magistrati suoi interlocutori. notizie sull’indagine che lo riguardava. L’ex Pg, per il quale la procura aveva chiesto la condanna a 8 mesi in abbreviato, invece è stato assolto. Le sue chat su nomine, promozioni, trasferimenti hanno portato anche all’apertura di diversi procedimenti disciplinari a carico di magistrati suoi interlocutori. Assolto con rito abbreviato l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio. Per un episodio con la formula “perché il fatto non sussiste” e per un altro “per la tenuità del fatto”. Nei suoi confronti i pm di Perugia avevano chiesto una condanna a otto mesi. “Ringrazio i miei avvocati e lo studio di Grazia Volo” si è limitato a dire all’uscita dall’aula l’ex pg della Cassazione. Il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone ha così commentato: “Il provvedimento del giudice conferma il buon lavoro della Procura e la correttezza delle scelte fatte anche con la modifica del capo di imputazione avvenuta durante l’udienza preliminare”. “La sentenza di oggi è la testimonianza della buona fede di Riccardo Fuzio, una persona rispettosa delle Istituzioni, che si è difeso nel processo e non dal processo ed è stato riconosciuto per quello che è”: ad affermarlo l’avvocato Grazia Volo, difensore dell’ex procuratore generale della Cassazione, assolto dal Gup di Perugia nel processo con il rito abbreviato dall’accusa di concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. “Sia i pm che il giudice sono state persone misurate e attente” ha aggiunto il legale. Fuzio era accusato di avere rivelato a Luca Palamara (il quale deve rispondere di concorso nello stesso reato ma ha scelto il rito ordinario e l’udienza a suo carico è stata rinviata a settembre) che era pervenuto al Comitato di presidenza del Csm un esposto presentato dal magistrato Stefano Fava “avente ad oggetto comportamenti asseritamente scorretti posti in essere dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, iscritto a protocollo riservato del Csm e come tale coperto da segreto”. Fuzio doveva anche rispondere di avere comunicato sempre a Palamara “le iniziative che il Comitato di presidenza intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti indicati nell’esposto”. Al centro del processo con rito abbreviato anche alcune notizie relative all’indagine in corso a Perugia nei confronti dell’ex consigliere del Csm. Per questo episodio il Gup Frabotta ha però riconosciuto la tenuità del fatto contestato a Fuzio di fatto assolvendolo. “Udienza preliminare passaggio stretto e obbligato. Sono certo che l’udienza pubblica servirà a far emergere la verità e la mia innocenza”. Così Luca Palamara dopo il rinvio a giudizio. “Le prove documentali dei pagamenti effettuati sono insuperabili. Continuerò sempre a battermi per una giustizia giusta”. “Non temiamo affatto l’approfondimento dibattimentale e siamo certi che in quella sede si potranno chiarire a 360 gradi tutti gli aspetti di questa vicenda ed emergerà pienamente l’innocenza del nostro assistito” ha detto l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende l’ex consigliere del Csm. Nei giorni scorsi, Palamara aveva rilasciato delle corpose dichiarazioni spontanee, contestando il metodo di indagine e parlando addirittura di fatture false per accusarlo. “In qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto”, aveva affermato dinnanzi al Gup, producendo documenti relativi ai lavori di ristrutturazione della casa della coimputata Attisani, lavori che secondo l’accusa Palamara avrebbe fatto pagare al lobbista Centofanti. La Attisani, nel corso dell’udienza di lunedì, ha negato di aver fatto pagare ad altri i lavori a casa propria, depositando un bonifico da lei effettuato pari a 19.800 euro. “Il bonifico dimostra che la parte dei lavori relativa al cosiddetto lastrico solare era stata pagata già dal 2012 dalla signora – ha contestato Palamara – che si è assunta la piena titolarità delle lavorazioni commissionate, escludendo il coinvolgimento di terzi”. I difensori dell’ex consigliere del Csm hanno anche effettuato una perizia finalizzata a sgonfiare il residuo dei lavori. “Il dato che più ci ha inquietato – ha evidenziato l’ex pm – è che per calcolare il valore della veranda si è fatto ricorso addirittura a delle fatture false, ovvero non relative a lavori eseguiti su quella abitazione, ma su un’altra. Non trovando prova della corruzione, come già riconosciuto dal gip (Lidia Brutti, la quale ha negato l’esistenza di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ndr), l’unica soluzione era gonfiare i lavori di questa casa”. Relativamente, invece, al viaggio a Dubai, “c’è una intercettazione tra il titolare dell’agenzia viaggi e Centofanti, in cui quest’ultimo dice: “paga Luca, come sempre”. L’intercettazione, proveniente da un altro procedimento, era rimasta sommersa negli atti”. L’avvocato Cesare Placanica, difensore di Adele Attisani, ha osservato: “E’ un rinvio a giudizio che senza i limiti di valutazione dell’udienza preliminare non ci sarebbe stato. Non credo che il dibattimento possa mai portare a una sentenza di condanna”.

Caso Palamara, chiesta la sospensione per i cinque ex togati della cena all’Hotel Champagne. I cinque ex togati sono sotto procedimento disciplinare per la riunione notturna del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne, alla quale parteciparono con Luca Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, e in cui si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Simona Musco Il Dubbio 31 luglio 2021. Sospensione dalle funzioni per i cinque ex togati del Csm Luigi Spina (nella foto), Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni. È questa la sanzione chiesta dai rappresentanti della procura generale della Cassazione – l’avvocato generale della Corte Pietro Gaeta e il sostituto pg Simone Perelli nella requisitoria pronunciata ieri davanti alla sezione disciplinare del Csm. I cinque ex togati sono sotto procedimento disciplinare per la riunione notturna del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne, alla quale parteciparono con Luca Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, e in cui si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Gaeta ha evidenziato che le condotte dei cinque non sono sovrapponibili, per gravità, a quelle di Palamara, ma si troverebbero un gradino immediatamente sotto, per il contributo causale fornito a Palamara, con la piena consapevolezza delle modalità e delle finalità della sua condotta. Per tale motivo ha optato per la sospensione anziché per la radiazione – come fatto nel caso Palamara. Per Spina, Morlini e Lepre è stata chiesta la sospensione dalle funzioni «nella massima entità» , ovvero 2 anni. Spina, ha affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, è stato «il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare – ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Sarebbe stato, dunque, «la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare», mentre Morlini e Lepre – all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo – «ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave – ha detto Gaeta – la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne». Per gli ex togati Cartoni e Criscuoli, invece, il pg ha chiesto la sospensione per un solo anno. Il processo, che ha preso il via un anno fa, proseguirà il 6 settembre, quando la parola passerà alle difese. «La procura generale – ha sottolineato il professor Vittorio Manes, difensore di Morlini – ha dato nella sua richiesta di sanzioni una valutazione di gravità dei fatti radicalmente diversa rispetto a quella relativa alla vicenda che ha riguardato Palamara».

Da uno a due anni di sospensione. Per i cinque dell’Hotel Champagne, Salvi sceglie la linea soft. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per un periodo da uno a due anni. Poteva andare molto peggio. È questa la richiesta di condanna della Procura generale della Cassazione nei confronti dei cinque ex togati del Consiglio superiore della magistratura che la sera dell’8 maggio del 2019 ebbero la malaugurata idea di partecipare ad un dopo cena all’hotel Champagne di Roma insieme a Luca Palamara e ai deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Oggetto dell’incontro conviviale, come ormai stranoto, la nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Il convivio togato, registrato con il trojan inserito nel cellulare di Palamara dalla Procura di Perugia che lo stava indagando per corruzione, finì sui giornali e successe il finimondo. Questa vicenda «ha segnato un punto di non ritorno, quello che è successo è irreversibile: l’impatto sull’opinione pubblica è stato pessimo ma proprio per questo c’è un gran desiderio di voltare pagina», aveva affermato severo il procuratore generale Giovanni Salvi durante la conferenza stampa in Cassazione in cui aveva illustrato ai giornalisti le mosse della Procura generale, competente per l’azione disciplinare. Il primo a finire alla sbarra era stato proprio Palamara, radiato poi dalla magistratura al termine di un turbo processo conclusosi ad ottobre dello scorso anno. Diverso destino, dunque, per i cinque ex consiglieri. Palamara venne accusato di «aver violato i doveri di correttezza ed equilibrio, tenendo un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei colleghi che avevano presentato domanda per il posto di procuratore della Repubblica di Roma». E poi di aver «interferito nell’esercizio degli organi costituzionali». Palamara, inoltre, avrebbe pianificato una strategia per danneggiare Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, uno degli aspiranti al posto di Pignatone. “Discredito” era stato posto in essere da Palamara anche nei confronti dell’aggiunto della Capitale Paolo Ielo e dello stesso Pignatone. L’astio di Palamara nei confronti di Ielo, in particolare, sarebbe dovuto al fatto che quest’ultimo aveva trasmesso a Perugia gli accertamenti della guardia di finanza sui suoi rapporti il faccendieri Fabrizio Centofanti. Accertamenti che avevano determinato l’apertura dell’indagine per corruzione, “sbarrandogli” di fatto la strada verso la nomina a procuratore aggiunto a piazzale Clodio. Il processo inizierà a novembre. «Gravi violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio, scorrettezza verso i colleghi e il tentativo di condizionare in maniera occulta l’attività della commissione incarichi direttivi del Csm» era stata, invece, l’incolpazione formulata nei confronti dei cinque ex togati: tre di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, e due di Unicost, il gruppo di centro, Gianluigi Morlini e Luigi Spina. Per la Procura generale, che ha usato la mano leggera rispetto a Palamara, avrebbero sostanzialmente subito il condizionamento di quest’ultimo che aveva interesse a diventare procuratore aggiunto a Roma, e di quello di Lotti che voleva un procuratore che in qualche modo sistemasse la sua posizione nel processo Consip dove era imputato. Nella prossima udienza, in programma il 6 settembre, sono previsti gli interventi delle difese. La sentenza entro l’anno. Paolo Comi

P. F. per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2021. Luca Palamara, dunque, paga per tutti. Non è una grande novità di questi tempi. Anzi. La Procura generale della Cassazione, al termine della requisitoria nel processo disciplinare nei confronti dei cinque ex togati che parteciparono la sera dell'8 maggio 2019 all'incontro presso una saletta riservata dell'hotel Champagne di Roma con Palamara e gli allora deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, ha formulato ieri richieste molto blande: sospensione delle funzioni per tutti da un periodo di uno a due anni. Praticamente un "buffetto" rispetto alla radiazione dall'ordine giudiziario, il licenziamento, richiesta ed ottenuta lo scorso ottobre per Palamara. Durante quell'incontro si discusse della nomina del nuovo procuratore di Roma. I colloqui, intercettati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara, divennero di pubblico dominio con la loro pubblicazione sui giornali, trascinando il Consiglio superiore della magistratura nel panico. La Procura generale era rappresentata ieri da Pietro Gaeta e Simone Perrelli. Palamara, Lotti e Ferri furono, quindi, gli artefici del tentativo di discredito posto in essere verso il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo. Palamara perché voleva vendicarsi del fatto che da piazzale Clodio, nella primavera del 2018, era stato trasmesso alla Procura di Perugia, competente per i reati dei magistrati romani, un incartamento con i suoi rapporti con il faccendiere Fabrizio Centofanti. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva presentato in quel periodo la domanda per uno dei posti di aggiunto a Roma e questa vicenda avrebbe potuto compromettere la sua corsa per diventare dirigente. Lotti, invece, era imputato nel processo per le corruzioni Consip, e voleva un procuratore che potesse agevolarlo. I cinque ex consiglieri sarebbero stati, allora, oggetto di un condizionamento esterno. Una tesi molto azzardata e che prevede la sopravvalutazione delle capacità di Palamara di influenzare le decisioni di un organo collegiale come il Consiglio Superiore della Magistratura. Il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, ed è questo l'aspetto più inquietante, il cui nome venne fuori quella sera come candidato ideale per Roma, si sarebbe dovuto prestare ai desiderata di Palamara e Lotti. Peccato, però, che nell'indagine non è stata trovata alcuna conversazione o messaggino fra Viola e Palamara. Nessuno. Di fatto solo illazioni e chiacchiere serali che ebbero, comunque, l'effetto di danneggiare gravemente Viola. Votato il 23 maggio del 2019, il Csm, appena iniziò la pubblicazione di questi colloqui registrati all'hotel Champagne decise di azzerare tutto. Viola, escluso sulla base del gossip notturno presso l'hotel Champagne, fece ricorso ottenendo ragione dal giudice amministrativo. Il processo a Palazzo dei Marescialli è stato rinviato al prossimo 6 settembre quando parleranno le difese dei cinque ex consiglieri. Per quanto riguarda Cosimo Ferri, l'altro grande imputato, si è ancora in attesa che il Parlamento dia il via libera all'utilizzo di queste conversazioni. Insomma, Luca Palamara si conferma ancora una volta il capro espiatorio per eccellenza delle nefandezze togate.

L'ex zar delle nomine rinviato a giudizio. Magistratopoli, tutto secondo copione: Palamara va a processo. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Luglio 2021. Luca Palamara è stato rinviato a giudizio. Il processo inizierà il prossimo 15 novembre. E’ quanto ha deciso ieri pomeriggio il gup di Perugia Piercarlo Frabotta. Confermate, dunque, le previsioni della vigilia, anche se l’ex presidente dell’Anm in questi dieci mesi si era battuto per dimostrare la propria innocenza, portando prove e sottoponendosi a diversi interrogatori. «Sono certo che l’udienza pubblica servirà a far emergere la verità e la mia innocenza», il primo commento di Palamara. La Procura di Perugia le ha provate tutte, sempre convinta che da qualche parte la corruzione ci fosse e che bisognasse solo impegnarsi a trovarla. Fondamentale è stato il “pentimento” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti, il presunto corruttore di Palamara che ha poi patteggiato un anno e mezzo. L’indagine esplode, anticipata da articoli stampa, il 30 maggio del 2019. A Palamara viene contestata la corruzione propria per atto contrario ai doveri d’ufficio (articolo 319 codice penale) per aver ricevuto 40mila euro per la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la corruzione in atti giudiziari (articolo 319 ter codice penale) per avere ricevuto da Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, viaggi e vacanze. Nell’avviso di conclusione delle indagini del 20 aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio si cambia: scompaiono le due corruzioni e compare la corruzione per l’esercizio della funzione (articolo 318 cp). Scompaiono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Scompaiono nel senso letterale del termine perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che avevano avuto grandissima risonanza mediatica. A Palamara si contestano viaggi e vacanze e lavori edili mai pagati eseguiti non a casa sua ma a casa dell’amica Adele Attisani. Queste utilità le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte” da Centofanti. Scompaiono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, al 30 maggio 2019, erano il motore della corruzione essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, il 25 novembre 2020, si cambia ancora. A luglio si è insediato Raffaele Cantone e quindi qualcosa doveva pur succedere. Si rimane nella corruzione per l’esercizio della funzione ma si specifica che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. All’udienza del 22 febbraio 2021 nuovo cambio. Si contestano insieme tutte le corruzioni possibili. Ma all’udienza dell’8 luglio 2021 il colpo di scena: Cantone e i pm Gemma Miliani e Mario Formisano “viste le dichiarazioni di Centofanti” che evidentemente ritengono “prevalenti” su quelle fatte da Amara nel febbraio, modificano per la quinta volta le imputazioni ritornando all’ipotesi meno lieve della corruzione per l’esercizio della funzione, posto in essere consentendo a Centofanti di “partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano nomine”, manifestando Palamara disponibilità ad acquisire “informazioni anche riservate sui procedimenti in corso a Roma e Messina che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore”, ed infine “per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare”. Con Palamara andrà a processo solo Adele Attisani, essendo stato assolto l’altro suo coimputato, l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, accusato di averlo informato che al Csm era arrivata la comunicazione dell’indagine di Perugia nei suoi confronti. 

Caso Palamara, ecco che cosa è. Tutte le tappe della bufera sulle procure. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 23 luglio 2021. La vicenda dell'ex pm della procura di Roma accusato di corruzione scoppia a maggio del 2019. L'inchiesta travolge l'intero Csm. Oggi il gip di Perugia ha deciso di rinviare a giudizio Luca Palamara, ex pubblico ministero della procura di Roma che, indagato per corruzione, ha travolto nel suo caso l'intera magistratura. Ecco le tappe principali di questa vicenda giudiziaria.

Scoppia il caso Palamara. Il 29 maggio 2019 l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara viene perquisito dalla Guardia di Finanza: è accusato di una serie di corruzioni per le quali avrebbe messo a disposizione la sua funzione giudiziaria. Una ha a che fare con la nomina del procuratore di Gela (accusa poi archiviata), le altre riguardano i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti. Quest'ultimo, amico dell'ex pm, gli avrebbe pagato cene, viaggi e lavori di ristrutturazione.

Le chat e la bufera sulle procure. Sul telefono di Palamara è stato inoculato un trojan che ha registrato tutte le telefonate e le chat dell'ex consigliere del Csm: la magistratura intera ne esce travolta. Si parla di nomine, incarichi, spostamenti. Particolarmente discussa è la successione di Giuseppe Pignatone al vertice della procura di Roma. Palamara ne discute con vari colleghi del Csm, con Cosimo Ferri e con l'ex ministro dello Sport Luca Lotti durante una cena all'hotel Champagne di Roma. Palazzo dei Marescialli ne viene devastato: cinque consiglieri vengono sostituiti. Non solo: tra gli indagati anche l'allora procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio: accusato di aver rivelato a Palamara dettagli sull'indagine a suo carico. E per 21 magistrati viene aperto un procedimento disciplinare.

Palamara espulso dall'Anm e radiato dalla magistratura. Il 19 settembre 2020 Palamara viene definitivamente espulso dall'Anm. Poco dopo, il 9 ottobre, la sezione disciplinare del Csm lo radia dalla magistratura.

La richiesta di rinvio a giudizio. A maggio 2020 la procura di Perugia chiude l'inchiesta e ne chiede il rinvio a giudizio: l'accusa è di corruzione per i "regali" ricevuti da Centofanti (che ha chiesto di patteggiare a un anno e mezzo). A processo anche la sua amica Adele Attisani. Oggi il gip deciderà se mandare Palamara a processo.

Magistratura corrotta, Paese infetto. Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2020. Il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande...ROMA – Le chat private di alcuni magistrati che esprimevano giudizi pesanti su Matteo Salvini sono state l’ultimo durissimo colpo alla credibilità della giustizia. Claudio Martelli, ex guardasigilli all’epoca del governo Craxi (1991-1993) ha commentato lo scambio di messaggi tra i magistrati Luca Palamara e Paolo Auriemma: “Da Palamara che cosa vuole aspettarsi? In questa situazione bisognerebbe arrivare a un rimedio decisivo. È del tutto evidente che l’Anm è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del Parlamento, del governo e del ministro della Giustizia ogni due minuti. È un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare”. Per Martelli a questo punto c’è solo una cosa da fare: “L’Anm andrebbe sciolta. Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”. Un commento profetico. Adesso l’Anm, l’Associazione nazionale dei magistrati, o meglio le sue correnti interne, sono state travolte dal grave contenuto delle intercettazioni, cercando di trascinare con sè persino il Consiglio Superiore della Magistratura. Più di qualcuno adesso chiede al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura che egli stesso presiede, di mandare a casa il vicepresidente David Ermini e i suoi consiglieri, nonostante il Capo dello Stato in realtà non abbia alcun potere in proposito, e peraltro sia anche prossimo alla scadenza del suo mandato presidenziale.  Pochi ricordano e molti dimenticano che soltanto quasi un anno fa, quando esplose il “caso Palamara” ed il conseguente terremoto che propagò all’interno della magistratura inducendo alle dimissioni dei componenti togati (cioè magistrati) al Csm, era stato lo stesso Mattarella a chiedere un cambio di comportamento, intervenendo in qualità di presidente al plenum del Csm pronunciando parole durissime con le quali chiedeva un “cambio dei comportamenti” sostenendo che “accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione“. Ruoli diversi, tra magistratura e politica, con quest’ultima che avrebbe dovuto provvedere ad «una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario». Sei mesi dopo attraverso il deposito degli atti d’indagine sul “caso Palamara” al Giudice delle Indagini Preliminari di Perugia trapelano le intercettazioni acquisite grazie al “trojan” inoculato nel cellulare di Palamara, che coinvolgono anche molti giornalisti di importanti quotidiani nazionali come la Repubblica, la Stampa, il Corriere della Sera, e strani collegamenti (peraltro vietati dalla Legge) di alcuni di loro con delle costole dei “servizi” italiani. “E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro”. Con queste parole Luca Palamara la mattina del 23 maggio 2019 contenute nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano, si mostrava aggressivo e sicuro del fatto suo. La 5a Commissione Incarichi direttivi del Csm aveva appena espresso con il proprio voto i tre candidati per la guida della Procura di Roma, che vedeva in testa Marcello Viola, appoggiato dal gruppo Magistratura Indipendente e reale candidato “occulto” di Palamara, anche se la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e quindi l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (nonché ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura) si “armava” contro i membri togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria più estremista, decisi ad ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. il quale li definiva con queste parole: «Sono dei banditi, vergognosi». Questa parte del dialogo intercettato si è rivelato utile per capire quale fosse la reale posta in gioco per la quale l’ex pm della procura di Roma oggi indagato per corruzione si preparava a giocare partita della sua carriera. Tutto questo è diventato “pubblico” la settimana successiva, contenuto nel decreto di perquisizione con il quale la Procura di Perugia rese pubbliche di fatto le trame occulte con cui Palamara stava “manovrando” dall’esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore capo di Roma, venendo sostenuto e spalleggiato spalleggiato dai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa e “leader” riconosciuto della corrente di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La rivelazione di quelle trame oscure provocò un vero e proprio “terremoto” all’interno del Csm, con le dimissioni di tre componenti di Magistratura Indipendente e due di Unicost e contestualmente la prima crisi interna all’Anm. La maggioranza a tre fra Area, Magistratura Indipendente ed Unicost si azzerò allorquando Magistratura Indipendente venne accusata di non aver agito con la necessaria fermezza nei confronti dei propri consiglieri che partecipavano alle “riunioni segrete notturne” organizzate dal “trio” Palamara-Ferri-Lotti, e fu così nacque una nuova maggioranza della giunta dell’ Anm composta da Area, Unicost che aveva «epurato» il suo leader Luca Palamara e i due componenti del Csm dimissionari, ed i togati di Autonomia e indipendenza la corrente guidata da Piercamillo Davigo. Dopo solo un anno siamo punto e capo con la nuova crisi dei nostri giorni. Ma questa volta la rottura fra le correnti della magistratura è avvenuta tra Area e Unicost, a seguito della chiusura dell’indagine nei confronti di Luca Palamara, per la quale la Procura di Perugia (competente sugli uffici giudiziari di Roma) ha depositato tutti gli atti d’inchiesta comprese le “bollenti” ed imbarazzanti intercettazioni. Ma non soltanto, ci sono anche le chat delle conversazioni su WhatsApp dal 2017 in avanti, trovate sul cellulare di Palamara che all’epoca delle intercettazioni era componente del Csm, sino al settembre 2018, e di fatto “governava” la magistratura raggiungendo spesso e volentieri accordi e alleanze con i togati di “Area” e i laici di centrosinistra, anche perché tra il 2008 e il 2012 aveva guidato l’Anm proprio al fianco di Area). Un esempio calzante delle manovre dietro le quinte del Csm, fu l’archiviazione del procedimento disciplinare nei confronti del magistrato tarantino Pietro Argentino, accusato dal Tribunale di Potenza e dal Gip di Potenza di aver mentito per coprire le malefatte del collega Matteo Di Giorgio (attualmente in carcere dove sta scontando 8 anni di carcere), il quale subito dopo è diventato procuratore capo a Matera, incarico scambiato a tavolino con la nomina di Maurizio Carbone, ex segretario dell’ ANM, nominato “all’unanimità” (con l’appoggio di Unicost e Palamara) procuratore aggiunto di Taranto al posto proprio di Argentino ! Attualmente nei confronti dei magistrati “scambisti” Argentino e Carbone pende un procedimento dinnanzi alla 1a Commissione del Csm, che qualcuno aveva cercato di insabbiare e fare sparire. Inutilmente. Le conversazioni di Palamatra con i colleghi della sua stessa corrente (ma non mancano quelli di Area e di Mi), che rivelano e portano alla luce patti e manovre occulte per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, per poi “fotterne” altri, risalgono a quel periodo. Una vera e propria spartizione di nomine e incarichi decisi con un bilancino correntizio, «espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela», per usare un comunicato firmato da Area che pretendeva delle prese di posizione più rigide da parte di Unicost, e così ha origine la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Palamara è stato in realtà un alleato della sinistra giudiziaria sino all’autunno 2018, ed è proprio da questa alleanza inimmaginabile che hanno origine gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private, a cui hanno fatto seguito delle folli aperture di indagini sul leader leghista. Alla fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma ex membro togato del Csm e compagno di corrente in Unicost di Palamara manifesta il suo dissenso sull’ inchiesta aperta a carico del ministro dell’Interno, per la vicenda dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti. Palamara al telefono gli rispondeva: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Chi era il mandante? Probabilmente il PD in cui all’epoca dei fatti militavano Renzi, Ferri e Lotti. Pochi giorni dopo Palamara manda una foto a Francesco Minisci (sempre di Unicost) a quell’epoca presidente dell’Anm, scattata a Viterbo alla festa di Santa Rosalia, che così commenta: «C’è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto». Minisci risponde diplomaticamente «Va dappertutto». Qualche mese dopo proprio Minisci a finire “azzoppato” da Palamara, che così scriveva a Sirignano: “Già fottuto Minisci”. Conclusosi il mandato al Csm a fine settembre cambiano alleanze, equilibri e schieramenti fra le correnti dei magistrati. Perché nel nuovo plenum di Palazzo dei Marescialli (sede del Csm – n.d.r.) la corrente di Area non è più quell’alleato affidabile come prima e soprattutto Palamara ha intuito che non potrà contare sul loro sostegno per l’ambita poltrona di procuratore aggiunto a Roma, lasciata libera dal collega Giuseppe Cascini, da poco eletto al Csm, proprio grazie all’appoggio dell’ex pm che così manovrando aveva preparato una vera e propria staffetta a tavolino. E’ così che ha origine l’alleanza raggiunta da Palamara con la corrente di Magistratura Indipendente guidata dal “nume tutelare” Cosimo Ferri ex magistrato diventato deputato, ben noto per le sue capacità di trasformismo politico, passato dalla corte di Berlusconi, per poi passare con il Pd guidato da Matteo Renzi, che ha recentemente seguito ad Italia Viva). Un’accordo con la politica finalizzato alla nomina del nuovo procuratore capo di Roma e subito dopo di se stesso come procuratore aggiunto. Ma l’inchiesta per corruzione a suo carico ha fatto saltare il “banco”. portando alla luce un anno tutte le manovre dietro le quinte del Csm, l’intreccio delle sue imbarazzanti relazioni e vergognose opinioni. Non mancano gli intenti vendicativi (da buon calabrese…) contro i colleghi di Area. “Bisogna sputtanarli”, gli scriveva Sirignano, magistrato che il Csm ha trasferito la settimana scorsa dalla Procura Nazionale Antimafia, a causa di un’altra intercettazione in cui parlando al telefono con recentemente del suo ufficio e della prossima nomina del nuovo procuratore di Perugia, replicava convinto: «Esatto». L’appello del Capo dello Stato in realtà aggiunge quindi ben poco allo scenario già noto di una continua e mai interrotta spartizione di poltrone ed incarichi in cui il Csm diventa la “centrale operativa” di magistrati eletti che ubbidiscono alle correnti che li hanno candidati ed eletti. Un sistema malato ricordato anche ieri con comunicati e prese di posizione che inducono il Governo e la maggioranza a ricordarsi che così la giustizia non può funzionare, e che occorre intervenire incidendo anche sui meccanismi di nomina del Csm. Qualcuno però dimentica che in questa maggioranza governativa politica siano presenti anche Cosimo Ferri (un magistrato in aspettativa) deputato del Pd ora passato con Italia Viva di Matteo Renzi, e Luca Lotti a lungo il braccio destro dell’ex-premier fiorentino, ora a capo di una propria corrente interna nel Partito Democratico. Al momento però il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande...Alquanto improbabile che si arrivi ad una reale riforma ed alla separazione delle carriere dei giudici come sono tornati a chiedere nuovamente anche ieri gli avvocati. La pubblicazione delle intercettazioni che continuano ad essere pubblicare in questi giorni dimostra che l’uso diabolico delle stesse continua ad essere utilizzato anche da parte di coloro che da tempo lo hanno criticato. Adesso più di qualcuno vorrebbe accompagnare alla porta d’uscita l’avvocato fiorentino Davide Ermini, il vicepresidente del Csm (indicato proprio dal Pd di cui è stato deputato) , l’unico ad essere uscito a testa alta dallo scandalo scoppiato un anno fa, dimostrando di non aver mai ceduto alle pressioni di Lotti, Ferri e del magistrato Palamara i cui comportamenti gli sono costati in via cautelare la sospensione dalla magistratura senza stipendio ed a breve un processo per corruzione. Questa nuova stagione di intercettazioni ha colpito e mandato in pezzi l’Anm. I nuovi scandali hanno riguardato il rapporto tra il Guardasigilli Bonafede, i magistrati del suo staff pressochè tutti dimissionari, intercettati e coinvolti in vari scandali, hanno un filo rosso che li collega fra di loro: l’inchiesta sulla famosa “trattativa Stato-Mafia”. E tutto ciò fa capire come mai Renzi fu bloccato dal Quirinale (presidenza Napolitano) quando voleva nominare ministro di Giustizia nel suo Governo il magistrato Nicola Gratteri, e spiega la mancata nomina ai nostri giorni del magistrato antimafia Nino Di Matteo a capo del DAP il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E dire che questa la chiamano anche “giustizia”.

Maurizio Carbone è il nuovo procuratore aggiunto di Taranto. Il Corriere del Giorno il 21 Settembre 2017. La nomina di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto di Taranto, per la quale ha ricevuto 18 voti, cioè quello tutti i presenti al plenum del CSM di ieri presieduto dal vicepresidente Giovanni Legnini, da quanto abbiamo appurato, parlando con alcuni magistrati del CSM, è strettamente collegata a quella del suo predecessore Pietro Argentino, nominato nei mesi Procuratore Capo di Potenza. Su proposta della 5a Commissione è stata approvata dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura nella seduta di ieri pomeriggio la nomina del dr. Maurizio Carbone a Procuratore Aggiunto della Procura della repubblica presso il Tribunale di Taranto. Carbone è esponente della corrente di “Area” ed in rappresentanza di questa corrente è stato segretario nazionale dell’ANM (l’ Associazione Nazionale Magistrati). Napoletano, Maurizio Carbone è arrivato a Taranto nel 1996 è esponente della corrente di “Area” la componente più di sinistra della magistratura italiana, quando gli iscritti e i simpatizzanti dei due movimenti “fondatori” di Area si potevano contare sulle dita di una mano, mentre attualmente nel distretto di Lecce – Taranto e Brindisi sono 66 i magistrati aderenti a questa corrente. Dopo avere svolto per 5 anni il ruolo di Presidente della sottosezione ANM di Taranto, è stato eletto nella lista di AREA al CDC, unico candidato unitamente a Stefania Starace non iscritto ai due gruppi di MD e Movimento per la Giustizia ed ha ricoperto per 4 anni (dal 2012 al 2016) il ruolo di Segretario Generale dell’ANM che ha ricoperto per un solo mandato non venendo rieletto.  Nello scorso mese di luglio Carbone è stato eletto dai suoi colleghi a fare parte del coordinamento nazionale di Area.  arrivando terzo con 181 voti. La nomina di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto di Taranto, per la quale ha ricevuto 18 voti, cioè quello tutti i presenti al plenum del CSM di ieri presieduto dal vicepresidente Giovanni Legnini, da quanto abbiamo appurato, parlando con alcuni magistrati del CSM, è strettamente collegata a quella del suo predecessore Pietro Argentino, nominato nei mesi Procuratore Capo di Potenza che ricevette appena 11 voti (solo 1 in più del minimo cioè 10). Infatti in occasione della nomina di Argentino proposta dai membri laici (ex deputati di Forza Italia) del Csm, incredibilmente anche dei togati (cioè magistrati) di Area, appoggiarono la candidatura di Argentino, che fu frutto di una delle tante “lottizzazioni” della magistratura italiana. Come ci ha raccontato un esponente di Area (che ci disse “ho votato per Argentino per indicazione del mio gruppo”) l’accordo fra le correnti delle magistratura è stato raggiunto con uno scambio di “poltrone”, con il quale i membri laici (quindi non magistrati) del centrodestra hanno piazzato sulla poltrona di procuratore capo di Matera Pietro Argentino (la cui ex-moglie è cugina dell’ex-sottosegretario di Forza Italia, Pietro Franzoso tragicamente scomparso alcuni anni fa), appoggiando a loro volta la nomina unanime di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto della procura tarantina dove era in servizio come sostituto procuratore. Una Procura quella di Taranto, come ha ricordato il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini, è sotto organico di ben 6 magistrati, per un semplice motivo: nessun magistrato fa richiesta per prendervi servizio. Lasciamo ai nostri lettori di Taranto, che sono numerosi sopratutto a Palazzo di Giustizia ogni considerazione sulla motivazione, che per quanto ci riguarda è superflua. Ma come ha dichiarato ieri un magistrato membro del CSM al CORRIERE DEL GIORNO che per ovvi motivi ci ha chiesto di non essere citato, probabilmente “quella di Taranto non è ritenuta una procura che “conta” e che possa spingere i magistrati italiani a chiedere di prendervi servizio”. La recente condanna definitiva a 8 anni di carcere decretata dalla Suprema Corte di Cassazione nei confronti dell’ormai ex-magistrato Matteo Di Giorgio che era in servizio a Taranto, prima di essere arrestato, spiega tutto. Comprese le false testimonianze che risultano dalla sentenza del Tribunale di Potenza dell’ex procuratore capo di Taranto Petrucci e di un magistrato: tale Pietro Argentino. Sentenza quella del tribunale di Potenza che ha retto in appello ed è stata confermata appunto dagli ermellini della Cassazione. Ma più di qualcuno al Csm evidentemente ha dimenticato le riflessioni del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Canzio quando auspicava che il Consiglio Superiore della magistratura non diventi “terreno di conquista dell’associazione magistrati”. Al dottor Carbone gli auguri di buon lavoro dal CORRIERE DEL GIORNO auspicando che il suo nuovo incarico non risenta dei “condizionamenti” lasciati dal suo predecessore Argentino, il cui trasferimento da Taranto a Matera è stato celebrato e festeggiato nel bar di Palazzo di Giustizia da non pochi avvocati tarantini che credono ancora nella giustizia e sopratutto nel rispetto ed applicazioni della Legge.

Anm, cambiano i vertici Il nuovo presidente? È il pm dell'inchiesta P3. Chiara Sarra il 24 Marzo 2012 su Il Giornale. A sostituire Luca Palamara sarà Rodolfo Sabelli, il pm che condusse l'inchiesta sulla P3. Maurizio Carbone nominato segretario. Cambio ai vertici per l'Associazione nazionale magistrati. A sostituire Luca Palamara sarà Rodolfo Sabelli, il pm che condusse l'inchiesta sulla P3, quella su Enav e quella su Marrazzo. Segretario dell'associazione sarà invece il collega di Taranto Maurizio Carbone. Della nuova giunta fanno parte anche la vicepresidente Anna Canepa (sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia), Angelo Busacca (sostituto procuratore alla Dda di Catania), Alessandra Galli (consigliere di Corte d’appello a Milano), Cristina Marzagalli (giudice del Tribunale di Varese), Ilaria Sasso del Verme (sostituto procuratore a Napoli), Valerio Savio (gip del Tribunale di Roma) e Stefania Starace (giudice del Tribunale di Napoli). Nulla di fatto per Cosimo Ferri, leader di Magistratura indipendente, che, alle elezioni di febbraio, era risultato il più votato. Il Comitato direttivo centrale, il cosidetto "parlamentino", che ha eletto i nuovi vertici per il sindacato delle toghe sperava in una giunta unitaria, ma alla fine l'hanno spuntate le correnti di Unicost e Area, il cartello di sinistra che raggruppa Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, la stessa maggioranza dell’esecutivo uscente. Resta all’opposizione, invece, Magistratura indipendente. La giunta, in ogni caso, dovrebbe durare solo fino al 2013, quando le elezioni cambieranno il quadro politico e quando sarà possibile una giunta unitaria. "Intendiamo rappresentare tutte le sensibilità della magistratura. Ci proponiamo un’unità sostanziale e in un futuro, nei tempi più brevi, anche formale", ha detto Sabelli nella sua prima dichiarazione da presidente sottolineando che tutti i temi al centro dell’agenda politica (responsabilità civile dei magistrati, intercettazioni e corruzione) "sono alla nostra attenzione". Il neo presidente ha anche sottolineato: "Per noi è centrale la questione morale: no a compromessi, no a contiguità, no a gruppi lobbistici di ogni tipo". Chiara Sarra

Il discredito sul Csm inizia prima del caso Palamara. Intervista a Claudio Martelli: “Il fango che ha travolto le toghe è colpa dell’Anm”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 6 Agosto 2021.Il pianeta giustizia rivisitato da Claudio Martelli, Ministro di Grazia e Giustizia dal febbraio del 1991 al febbraio 1993, vice presidente del Consiglio, esponente di primo piano del Partito socialista italiano, ed oggi direttore dell’Avanti.

Molto si discute, e ci si divide, sulla riforma Cartabia, così come è stata licenziata dal Consiglio dei Ministri e approvata dalla Camera con il voto di fiducia. Lei come la pensa?

Penso che dobbiamo dire grazie a Mario Draghi e a Marta Cartabia per aver eliminato dalla nostra legislazione l’orrore giustizialista dell’abolizione della prescrizione dunque l’aspetto più incivile della legge Conte/Bonafede per altro votata prima anche dalla Lega e poi anche dal Pd quando l’una e l’altro sono stati al governo con i 5 Stelle.

Scrive Tiziana Maiolo: «Alla faccia della certezza del diritto, è il trionfo dei “salvo che”: dopo l’appello il processo può durare tre anni ma anche sei. Di certo c’è che il 70% delle prescrizioni si verifica durante le indagini preliminari e il primo grado. E che l’obbligatorietà dell’azione penale non esiste, esiste il totale arbitrio dei pm…». Insomma, è la vittoria del “travaglismo”?

Tiziana è generosa, veemente e anche esagerata. No, questa non è la legge di Travaglio e basta leggere gli argomenti e le ingiurie riservati da Travaglio a Draghi e a Cartabia per rendersene conto. Detto questo che alcuni processi – alla mafia, al terrorismo ecc – durino più di altri è nella natura delle cose. I processi al crimine organizzato sono più complessi e più lunghi di quelli con un solo imputato, la selezione delle prove e delle testimonianze valide più ardua. Tiziana ha ragione nel rilevare che il grosso delle prescrizioni avveniva nel corso delle indagini preliminari e il primo grado e su questo la legge è lacunosa e contraddittoria. Spero che i compromessi imposti dai 5 Stelle non si rivelino più forieri di abusi di quanto appaiono. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale interpretarla in modo intelligente e non scolastico dovrebbe essere compito della Corte Costituzionale, in assenza occorre una procedura di revisione per la quale oggi mancano sia il tempo sia la volontà politica della maggioranza parlamentare.

In un recente articolo sul “Corriere della sera” dal titolo: “Riforma della Giustizia: Toghe e doppie verità”, Paolo Mieli ha espresso, argomentandoli, un timore e un allarme. Il timore: «Che le loro istituzioni, a cominciare dal Csm, siano già sprofondate nel più assoluto discredito». L’allarme: «Che procure, passate alla storia come templi della legalità, siano oggi sconvolte da lotte fratricide». Che dire?

Che a dirlo sia anche Paolo Mieli per lunghi anni schierato con la Procura di Milano vuol dire che il vaso è proprio colmo. I garantisti e quanti hanno a cuore il buon funzionamento delle istituzioni e in particolare della magistratura non hanno aspettato l’ondata di fango sollevata dal caso Palamara. E, comunque, Mieli non va al fondo della questione: il Csm è sprofondato nel discredito da gran tempo cioè da quando la sua elezione e il suo funzionamento sono stati sequestrati dall’Associazione nazionale magistrati. Quello è il luogo in cui si unisce per i suoi scopi la magistratura politicizzata e clientelizzata, il luogo in cui le correnti ordiscono le loro trame, le loro spartizioni lottizzando nomine, promozioni ed esclusioni, trasferimenti e sanzioni disciplinari. L’Anm è il tempio delle correnti, l’epicentro che raccoglie e irradia il malcostume giudiziario.

La riforma della giustizia non si esaurisce con la Cartabia. Quali sono, a suo avviso, le questioni cruciali a cui dare risposta?

Cominciamo da quelle poste dai referendum radicali: separazione delle carriere, riforma del Csm, responsabilità civile del magistrato che sbaglia, gli abusi nella carcerazione preventiva, l’abrogazione della legge Severino che prevede la condanna e i suoi effetti di decadenza dalle cariche anche per chi sia stato condannato per un reato che tale non era al momento in cui fu commesso il fatto. Già queste riforme purificherebbero di parecchie storture il nostro sistema giudiziario riallineandolo almeno in parte con quello delle migliori democrazie. Suggerisco una ragionata depenalizzazione di reati che non minacciano la sicurezza pubblica non per “svuotare le carceri” ma per l’assurdità e l’inumanità di tenere in carcere malati di mente, tossicodipendenti per non dire dei tantissimi detenuti in attesa di giudizio e dunque innocenti fino a prova contraria. Aggiungerei di applicare finalmente il dettato costituzionale che mentre sancisce la piena autonomia e indipendenza dei giudici invitava – e invita! – il legislatore a definire con legge ordinaria l’autonomia e l’indipendenza dei pubblici ministeri. Dunque i padri costituenti avevano ben chiara la differenza sostanziale che c’è tra un giudice e un procuratore, sono i loro cultori accademici che se ne sono dimenticati. Infine è tempo di una riflessione sulla trentennale esperienza del codice Vassalli. Finché la parità nel processo e prima del processo – cioè nella fase delle indagini – non sarà assicurata nei fatti dall’autorità di un giudice dell’indagine dotato di veri poteri in molti di noi crescerà la nostalgia del giudice istruttore di un tempo cioè di qualcuno in grado di frenare l’esuberanza di troppi pubblici ministeri.

La metto giù un po’ brutalmente: perché al Pd e alla sinistra fanno così paura i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali?

All’inizio di questa storia ci fu l’incontro tra l’uso politico della magistratura da parte dell’opposizione comunista e la vocazione a essere contropotere di una parte della magistratura. Poi la voluta confusione tra questione morale e questione politica e tra sfera morale e sfera penale. Non dimentichiamo che il Pci screditò persino Falcone perché Falcone non si piegò mai a un uso politico della giustizia. Quanto al Pd nasce dalla fusione a freddo tra gli ex comunisti del Pds e gli ex Dc di sinistra, le due correnti scampate o salvate da Mani Pulite con i loro leader, Prodi e D’Alema. Forse fu un empito di gratitudine forse altro, sta di fatto che Il primo nomina Di Pietro deputato del Mugello, il secondo lo fa ministro dei lavori pubblici. Purtroppo quella fu la pasta e quello il lievito poi montato a dismisura nel ventennio dell’antiberlusconismo. Ancora nel 2008 Veltroni il Buono preferì allearsi con Di Pietro anziché col partitino socialista del tempo. Ulivo e Pd hanno avuto ministri della Giustizia Flick, Diliberto, Fassino, Orlando eppure nessuno di loro si è mai distinto per un approccio, tantomeno una riforma, di stampo garantista. Ci sono state nella storia eccezioni importanti come quelle di Emanuele Macaluso e di Gerardo Chiaromonte, di Giovanni Pellegrino e di Luigi Manconi, ma mai una revisione di fondo che insegnasse a guardare la giustizia dalla parte dei cittadini anziché dalla parte dello Stato e del suo apparato repressivo. Fa impressione riflettere che quella sinistra convertita in un batter d’occhio dall’Urss agli Usa, dall’anti capitalismo al liberismo e alla globalizzazione, non ha mai avuto il coraggio di divorziare da quel cancro della civiltà che è il giustizialismo. Giusto ma forse ozioso chiedersi se i compromessi peggiorativi imposti dal Pd alla riforma Cartabia siano la coda di quella malattia o la conseguenza dell’irresistibile fascino di Conte e Bonafede. Una cosa non esclude l’altra.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Le rivelazioni dell'ex zar delle nomine. Palamara senza freni: “Giovanni Salvi mi invitò a pranzo, voleva fare il Procuratore generale…” Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2021. «Giovanni Salvi mi offrì un bel pranzo con lo scopo di “autosponsorizzarsi” per l’incarico di procuratore generale della Cassazione». Lo ha detto ieri Luca Palamara, ormai senza più freni, davanti al gup di Perugia Piercarlo Frabotta. Durante l’ultimo giorno dedicato alle deposizioni spontanee, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ha prodotto anche la chat con l’allora procuratore generale di Roma. «È il mese di giugno del 2017 e Salvi, pg a Roma, capisce che è giunto il momento di attivarsi se vuole aspirare a diventare il procuratore generale della Cassazione», esordisce Palamara che in quell’anno era il potente presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. Il posto di pg a piazza Cavour è un incarico, ovviamente ambitissimo, e gli aspiranti iniziano a muoversi con almeno sei mesi di anticipo. Salvi, allora, decide di organizzare un “pranzo preparatorio” sulla terrazza del Martis Palace, un lussuoso hotel nel centro di Roma alla presenza anche del vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Il Martis Palace è uno dei più belli alberghi di Roma e d’Italia, almeno leggendo le recensioni. «Fiore all’occhiello – si legge sul sito dell’hotel – è uno splendido Roof Bar con una vista a 360° su tutti i monumenti e siti archeologici del centro storico romano: una vista che spazia dall’Altare della Patria al Pantheon e dal Gianicolo a Piazza Navona. In questa cornice mozzafiato è possibile rilassarsi con stuzzicanti aperitivi e dissetanti cocktail, o organizzare indimenticabili eventi esclusivi». Il prestigioso invito, però, non riscuote successo. Non per la qualità delle pietanze ma perché Palamara per l’incarico di pg in Cassazione ha già pensato a Riccardo Fuzio, all’insaputa di Legnini che puntava su Salvi. Il 14 dicembre è il giorno del voto alla Commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura. La sera prima Palamara poteva contare solo suo voto e su quello di Luca Forteleoni, togato di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. La mattina del voto, come i pesci del lago di Tiberiade, i voti raddoppiano. Per Fuzio vota il laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin e, soprattutto il togato Aldo Morgigni, davighiano della prima ora. Come ha fatto Palamara a convincere Morgigni? Con il solito gioco delle correnti. «Gli ho promesso che sistemavo in Cassazione un uomo di Autonomia&indipendenza, la corrente di Davigo”, ricorda Palamara. Il “baratto” va in porto e per Fuzio è fatta. Salvi verrà votato solo dal togato progressista Antonello Ardituro. Il laico Renato Balduzzi si asterrà. Le sorprese non sono finite. La sera del voto Palamara si precipita «dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone» per aggiornarlo. Pignatone, racconta Palamara, in quel momento era vicino a Fuzio e non era in buoni rapporti con Salvi, di fatto il suo “superiore”. Il motivo? Sempre nomine. Non ci si sbaglia. Salvi, ricorda Palamara «quando era consigliere del Csm lo aveva bocciato per diventare procuratore di Palermo preferendogli Francesco Messineo». Fuzio nel 2019 sarà poi costretto alle dimissioni e Salvi prenderà allora il suo posto. Fra i primi atti del neo pg della Cassazione l’anno successivo, la nota circolare che esclude la punibilità disciplinare per i magistrati che si “autosponsorizzano” per avere un incarico con i consiglieri del Csm. Terminati gli interrogatori, oggi è prevista la decisione di Frabotta sul rinvio a giudizio o meno di Palamara. Paolo Comi

Giacomo Amadori per "la Verità" il 23 luglio 2021. Circa un anno fa, presentando le linee guida per i giudizi disciplinari collegati al caso Palamara, il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, l'inquirente più alto in grado della magistratura, aveva stabilito che «l'attività di autopromozione» delle toghe nei confronti dei consiglieri del Csm, «effettuata direttamente dall'aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Alcuni giudici fuori dalle correnti avevano ironizzato: «Secondo l'indulgente Procuratore generale, il self marketing rientra nel necessario bagaglio professionale di ogni magistrato aspirante ad un incarico direttivo. Perché se lo fa uno allora anche il competitore è legittimato a farlo, anzi deve». Chissà cosa diranno adesso che Luca Palamara, nelle spontanee dichiarazioni rese ieri a Perugia, ha approfondito la vicenda della presunta «autopromozione» che Salvi, il Pg che lo ha fatto radiare, avrebbe portato avanti con lui. Davanti al gup Piercarlo Frabotta (che oggi dovrebbe decidere sull'eventuale rinvio a giudizio) Palamara ha dovuto spiegare, su richiesta del giudice, una chat con l'amico poliziotto Renato Panvino. Il quale, a un certo punto, mentre si lamenta del ministro dell'Interno Marco Minniti («Spero che il pelato non mi lasci qui a morire») chiede a Palamara di salutargli Salvi. Essì perché i due magistrati in quel momento stanno per vedersi. In una cornice davvero esclusiva, quella del Martis Palace, la cui terrazza affaccia sui tetti intorno a piazza Navona. Un albergo lussuoso il cui ristorante, come si legge sul sito, «grazie all'estro creativo dello chef», propone manicaretti che conciliano tradizione e modernità come lo «scrigno cacio e pepe con dadolata di pere» e le «tagliatelle di farro bio alla "gricia"». L'ex leader della corrente di Unicost ha persino consegnato una brochure ai magistrati perugini, accompagnandola con queste parole: «Questa è la terrazza con Salvi che non ha mai visto nessuno per dire che non avevamo bisogno del buon Centofanti (Fabrizio, il lobbista accusato di essere il corruttore di Palamara, ndr) per mangiare mangiavamo da soli». L'ex presidente dell'Anm ha esibito anche la chat con lo stesso Pg, il quale alle 12 e 14 del 23 giugno 2017 gli scrisse: «Perché non resti anche a pranzo? Colazione leggera, ma gustosa». Un invito che l'ex pm accettò «con piacere». Di fronte al gup ha dettagliato la presunta «autoraccomandazione» del Pg: «Il 23 giugno è il giorno del famoso incontro su questa terrazza romana tra me e Salvi (allora, ndr) Pg della corte d'appello []. Perché è importante la chat con Salvi? Perché testimonia come l'attività di lobbista di Centofanti non c'entrasse nulla con le nomine. Su quella terrazza io vengo invitato da Salvi e mi sono alzato dal tavolo senza avere pagato il pranzo che mi era stato offerto [] Questo era un sistema che funzionava. Se il Procuratore generale mi invita e si autoraccomanda è perché così funzionava, al punto che addirittura bisognava partire con 6 mesi di anticipo perché il procuratore Salvi sa del mio rapporto con Riccardo Fuzio (l'altro candidato Pg, coindagato di Palamara, ndr), sa che ormai io sto prendendo un'altra strada». Nel senso che sta sparigliando e sta mandando all'aria la vecchia maggioranza di centro-sinistra che comandava nella magistratura. Ma allora perché quel pranzo? «Io in quel momento ho un rapporto importante con il procuratore Salvi che origina dal suo trasferimento da Catania a Roma (sostenuto anche da Palamara, ndr), rispetto a quella situazione si cercano di ristabilire dei contatti». Però, al Martis Palace, l'ex pm non si sarebbe fatto convincere: il suo candidato e quello del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone resta il centrista Fuzio e non il progressista Salvi. In aula Palamara ha raccontato che il 14 dicembre 2017, senza dir niente al vicepresidente del Csm, il piddino Giovanni Legnini («che si arrabbiò molto»), in commissione sposta quattro voti su Fuzio lasciando a Salvi solo quello del consigliere di Md. L'ex pm ha spiegato a Perugia che a convincere Autonomia e indipendenza e Magistratura indipendente è stato «un accordo correntizio» per far votare da Unicost Giovanni Mammone (di Mi) come primo presidente della Cassazione e Stefano Schirò (di A&i) come aggiunto. La sera del 14 dicembre Palamara andò a casa di Pignatone a «esultare» visto che l'attuale presidente del Tribunale del Vaticano «era in quel momento più vicino a Fuzio perché nella sua testa Giovanni Salvi era il consigliere che all'epoca gli preferì Francesco Messineo come procuratore di Palermo». Insomma dietro alle nomine ci sarebbero anche vecchi regolamenti di conti. Ma dopo la sbronza di euforia Pignatone avrebbe rivelato a Palamara l'esistenza dell'inchiesta sui suoi rapporti con Centofanti: «Nel momento in cui mi stavo allontanando Pignatone mi richiama e mi fa quella che per me lo so che siamo al limite di una rivelazione, ma in quel momento sono rapporti umani e personali [ ] è un amico è un riferimento che dice "fai attenzione la tua frequentazione va avanti da un anno [] adesso, come è doveroso, dovranno essere svolti accertamenti su tutto ciò che è accaduto"». Nel febbraio del 2018 Centofanti viene arrestato e a maggio dello stesso anno il fascicolo viene trasferito a Perugia per gli accertamenti su Palamara. Ieri abbiamo contattato Salvi per raccogliere un commento sulle dichiarazioni di Palamara: «Valuterò il da farsi. Le posso dire che le cose non sono assolutamente andate in quei termini e per rendersene conto basterebbe leggere altre comunicazioni. Io non ho avuto nessun favore e non ho chiesto nessun favore. Non c'è nulla in questa vicenda di cui mi debba vergognare, al contrario e chiunque facesse una verifica su quello che è successo in quei sei mesi lo potrebbe vedere senza alcun bisogno di dichiarazioni da parte mia».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2021. Circa sei ore. Tanto è durata ieri a Perugia la deposizione di Luca Palamara davanti al giudice Piercarlo Frabotta. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, dopo aver rilasciato delle «spontanee dichiarazioni», si è fatto anche interrogare dai magistrati umbri per chiarire una volta per tutte come funzionava il «sistema delle nomine» al Consiglio superiore della magistratura. Secondo la procura di Perugia un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto Fabrizio Centofanti, un lobbista che era stato poi arrestato insieme all'avvocato Piero Amara, quest' ultimo noto alle cronache per aver rivelato l'esistenza della loggia segreta "Ungheria", una sorta di P2 finalizzata ad aggiustare i processi e condizionare gli incarichi ai vertici dello Stato. Palamara, in particolare, sarebbe stato corrotto con pranzi, cene e viaggi da Centofanti. In cambio di queste "utilità" il magistrato gli avrebbe consentito di «partecipare a incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano le nomine». Inoltre Palamara si sarebbe reso disponibile ad accogliere le richieste di Centofanti «finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare». Niente di più falso, ha ribadito più volte Palamara davanti al giudice. Le nomine dei procuratori e dei presidenti, ha puntualizzato, sono state decise sempre e soltanto dalle correnti della magistratura. È impensabile, ha ricordato Palamara, che un soggetto estraneo potesse condizionare in alcun modo le scelte del Csm. Palamara ha fatto anche degli esempi. Il più emblematico, certamente, quello relativo alla procura di Milano. Dopo il pensionamento di Edmondo Bruti Liberati avevano fatto domanda per diventare procuratore Giovanni Melillo, Nicola Gratteri e tre procuratori aggiunti milanesi: Ilda Boccassini, Alberto Nobili e Francesco Greco. «I magistrati di Milano volevano Nobili», ha ricordato Palamara, «ma gli accordi fra correnti fecero però vincere Greco». E sempre per rimanere alla Procura di Milano, tutti i procuratori aggiunti, quindi i più stretti collaboratori del procuratore, verrebbero scelti per logiche che nulla hanno a che vedere con il merito, essendo condizionate dai legami territoriali-correntizi. Non ci sarebbe spazio, dunque, per candidature esterne. Un accenno Palamara lo ha fatto anche alla genesi dell'indagine nei suoi confronti. «Tutti sapevano che ero indagato», ha detto: «Nei corridoi della Procura di Roma non si parlava d'altro». C'era «diffidenza» da parte dei colleghi, al punto che «avevo anche pensato di abbandonare la Capitale per il clima che si era creato». Alcuni magistrati gli dissero di stare poi «lontano da Cosimo Ferri», deputato renziano di Italia viva e per anni ras indiscusso delle toghe di "destra". «Il trojan ha registrato una conversazione poco simpatica fra me e Cosimo Ferri in cui parlavamo della pm Gemma Miliani», legata alla moglie di Ferri da rapporti di amicizia e familiarità, ha ricordato Palamara. Dell'indagine, pare, fosse poi a conoscenza anche il consigliere giuridico del Quirinale Stefano Erbani. Il collaboratore di Sergio Mattarella avrebbe detto ad un consigliere del Csm che esisteva a Perugia una informativa sui viaggi e sulle cene nei confronti di Palamara. L'ex numero uno dell'Anm, infine, si è anche tolto qualche sassolino dalle scarpe. Nel mirino il funzionamento a singhiozzo del trojan che era stato inserito nel suo cellullare.  Il virus spia non aveva registrato, ad esempio, la sua cena con il procuratore Giuseppe Pignatone.

Lo sfogo di Palamara: «Hanno cucito su di me il vestito del corrotto». L'ex capo dell'Anm racconta la sua verità nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup di Perugia: «Non più parole, ma fatti». Simona Musco su Il Dubbio il 21 luglio 2021. «In qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto». Parla tanto Luca Palamara, ex presidente dell’Anm ed ex zar delle nomine, che non accetta di essere un capro espiatorio. E lo fa nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup di Perugia Piercarlo Frabotta, raccontando per otto ore la sua versione della storia. «Non più parole, ma fatti», ha spiegato l’ex pm romano. E i documenti riguardano soprattutto i lavori di ristrutturazione della casa della coimputata Adele Attisani, lavori che secondo l’accusa Palamara avrebbe fatto pagare al lobbista Fabrizio Centofanti, che ha chiesto di patteggiare un anno e sei mesi. Attisani, nel corso dell’udienza di lunedì, ha negato di aver fatto pagare ad altri i lavori a casa propria, depositando un bonifico da lei effettuato pari a 19.800 euro. «Il bonifico dimostra che la parte dei lavori relativa al cosiddetto lastrico solare era stata pagata già dal 2012 dalla signora – ha evidenziato Palamara – che si è assunta la piena titolarità delle lavorazioni commissionate, escludendo il coinvolgimento di terzi». Ma la difesa dell’ex consigliere del Csm ha anche effettuato una perizia finalizzata a sgonfiare il residuo dei lavori. «Il dato che più ci ha inquietato – ha sottolineato l’ex pm – è che per calcolare il valore della veranda si è fatto ricorso addirittura a delle fatture false, ovvero non relative a lavori eseguiti su quella abitazione, ma su un’altra. Non trovando prova della corruzione, come già riconosciuto dal gip (Lidia Brutti, che ha negato l’esistenza di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ndr), l’unica soluzione era gonfiare i lavori di questa casa». Per Palamara, il processo non può essere un regolamento dei conti tra accusa e difesa: «Tutte le anomalie che sono emerse sono state per noi la spia di qualcosa che non ha funzionato. L’ipotesi è che in realtà i problemi sono altri, legati al trojan e all’hotel Champagne (dove si discusse della nomina del procuratore di Roma, ndr): in qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto», ha aggiunto. E anche sui presunti viaggi pagati da Centofanti, l’ex toga ha tirato fuori un’intercettazione che potrebbe aiutarlo: «Relativamente al viaggio a Dubai, c’è una intercettazione tra il titolare dell’agenzia viaggi e Centofanti, in cui quest’ultimo dice: “paga Luca, come sempre”. L’intercettazione, proveniente da un altro procedimento, era rimasta sommersa negli atti». Nelle dichiarazioni rilasciate alla procura di Perugia, Centofanti ha raccontato di una cena con l’ex presidente del tribunale di Roma, Francesco Monastero, organizzata da Palamara in vista della nomina a febbraio 2016, cena alla quale avrebbero partecipato anche il deputato di Italia viva Cosimo Ferri (già leader di Magistratura indipendente), la presidente del Senato Elisabetta Casellati (all’epoca consigliera del Csm) e altri magistrati. «È inquietante che il 21 giugno del 2021, circa tre anni dopo l’inizio delle indagini, si facciano gli accertamenti su quella cena, che si tiri in ballo il presidente del tribunale di Roma Monastero, che si dica che c’è stata una cena pagata alla quale io avrei partecipato – ha sottolineato – e che non si controlli quello che già risulta agli atti, ovvero la mia agenda, dalla quale risulta che quel giorno sono stato a casa di Balducci (Paola, ex consigliere del Csm, ndr). È grave che non si facciano accertamenti del genere». Ma Palamara va oltre: non è mai esistita, sostiene, una cena finalizzata alle nomine alla quale abbia partecipato Centofanti. «Le nomine sono sempre state il frutto di accordi tra correnti – ha ribadito -. Troppo facile rendere dichiarazioni basandosi sulle mie chat e leggendo i miei interrogatori. Non bisogna ingannare i cittadini. Nessuno, e dico nessuno, ha influenzato le scelte e le decisioni da me fatte. Se altri vogliono raccontare situazioni diverse, e il riferimento è ad Amara, non si deve tirare in mezzo chi non c’era, cioè me. Io sono un uomo delle correnti e lì dentro operavo. Perché avrei dovuto portare Centofanti? Non c’è un motivo logico». Perché, dunque, Centofanti avrebbe raccontato circostanze del genere? La risposta alla domanda rivolta dal gup è semplice, secondo Palamara: «Sta cercando una via d’uscita dal processo, perché questo, nell’immaginario collettivo, viene visto come un regolamento di conti tra me e una parte della magistratura. Ovvio che chi non c’entra niente cerchi in qualche modo di tutelarsi – ha aggiunto -. Centofanti, che io ho frequentato in veste di amico e non di lobbista, dice il vero quando conferma che io pagavo da me i viaggi, di non aver pagato i lavori della casa e quando dice di avermi invitato a cena più di una volta, nell’ambito di un rapporto di amicizia con il procuratore Pignatone e con ufficiali della Finanza. Ma gli altri discorsi, relativi alla partecipazione alle cene, sono un tentativo di captatio benevolentiae». Durante l’udienza, Palamara ha confermato di aver saputo dell’indagine sul suo conto da Giuseppe Pignatone, già a dicembre del 2017. E in merito alla famosa cena di commiato dell’ex procuratore, della quale non c’è traccia nelle intercettazioni effettuate dal trojan inoculato nel suo telefono, l’ex pm ha affermato di aver discusso, in quella occasione, anche della nomina a procuratore di Roma, rimarcando la stranezza che nonostante sia stato proprio Pignatone ad autorizzare l’utilizzo dei server a Roma per azionare il trojan lo abbia invitato ad una cena ristretta.

Luca Palamara picchia durissimo sulla magistratura: "Al servizio di interessi superiori e politici". Libero Quotidiano il 15 luglio 2021. Dalla magistratura alla politica. Luca Palamara pensa già al futuro e si dice pronto a mettere in campo le sue esperienze: "Non sono mai stato alla ricerca di cariche - premette -, né mi sono mai proposto ad alcuno. Nello specifico nessuno ovviamente mi ha proposto tale candidatura. In ogni caso, il mio contributo per la cosa pubblica va verificato anche sulla base delle attitudini e della opportunità che una figura come la mia con il proprio vissuto e la propria esperienza può dare alla collettività". L'ex magistrato, ora indagato per corruzione, spiega al Tempo di non essere "un uomo per tutte le stagioni e per tutti gli incarichi", quindi "se ciò che mi venisse proposto fosse nelle mie corde e capissi di poter dare un contributo serio al pubblico, valuterò, perché no? Di certo Palamara non le manda a dire ai colleghi e, dopo aver scoperchiato lo scandalo della magistratura piena di falle, ecco che rincara la dose. L'ex membro del Consiglio superiore della magistratura attacca quel "Sistema" da cui prende il nome il suo nuovo libro, scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti: "Lo stretto rapporto pm-giornalisti è servito e serve ad intensificare e rafforzare il Sistema. Basti pensare alla fuga di notizie". A detta di Palamara ci sono cose, intercettazioni comprese, in mano a una ristretta cerchia di persone. Tra questi i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. "In altre parole - scende nel dettaglio puntando il dito -, la magistratura sembra avere una funzione servente rispetto ad interessi superiori e politici. Eppoi, il venir meno dell'autorizzazione a procedere ha fatto mancare quella linea di confine tra politica e magistratura e le doverose indagini sul potere che la magistratura deve sempre comunque svolgere finiscono in realtà per essere strumentalizzate agli occhi dell'opinione pubblica per favorire una parte politica a scapito dell'altra". E l'ex toga non ha dubbi su chi sia questa parte politica: "Non sono mai entrato nel merito dei processi, ma è indubbio che la caratterizzazione politica, che in alcune circostanze anche la magistratura associata facendo sponda con il più grande partito di sinistra, ha finito per trascinare nel vortice anche quei giudici titolari di delicate inchieste nei confronti del potere politico".

Giacomo Amadori per "la Verità" l'8 luglio 2021. Con un ultimo colpo di teatro la Procura di Perugia ha proceduto a «derubricare» il reato di corruzione in atti giudiziari, punito con una pena da sei a dodici anni, contestato a Luca Palamara soltanto a febbraio di quest' anno a seguito delle dichiarazioni del pentito prêt-à-porter Piero Amara, sostituendolo con il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione, punito oggi con la pena da tre a otto anni, che, però, nel caso di Palamara, scende da uno a sei anni poiché si tratta di fatti commessi prima della cosiddetta legge Spazzacorrotti del 2019. Cioè Palamara non si sarebbe fatto corrompere con cene e viaggi per sistemare un procedimento giudiziario, bensì per il solo fatto di essere stato un magistrato e consigliere del Csm. Resta da valutare quale possa essere l'atteggiamento del gup Piercarlo Frabotta all'udienza di oggi, posto il principio di obbligatorietà e irretrattabilità dell'azione penale, dopo l'abbandono da parte della Procura dell'ipotesi più grave contestata. Infatti a solo cinque mesi di distanza dalle nuove accuse di Amara contro Palamara, anche la Procura di Perugia deve aver capito che puntare su questo pentito così chiacchierato avrebbe potuto trasformarsi in un clamoroso autogol, soprattutto dopo che è scoppiato il caso dei verbali milanesi e della fantomatica loggia Ungheria e lo stesso è stato accusato di calunnia. In Umbria hanno così preferito «aggrapparsi» alle più recenti spontanee dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti, il presunto corruttore dell'ex presidente dell'Anm. Peccato che Amara, dopo essere stato arrestato su richiesta della Procura di Potenza l'8 giugno avesse dichiarato di essere stato lui ad «aver costretto a pentirsi» lo stesso Centofanti a Perugia. Un'affermazione suffragata dal fatto, che in teoria, l'avvocato siracusano, nulla avrebbe potuto sapere dei verbali dell'amico. Vale la pena di riprendere le ondivaghe contestazioni perugine per comprendere la labilità delle accuse. Nel decreto di perquisizione del 29 maggio 2019 a Palamara veniva contestata la corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio (da 6 a 10 anni) per una presunta mazzetta da 40.000 euro che avrebbe ricevuto per la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la corruzione in atti giudiziari (6-12 anni) per avere ricevuto da Centofanti, Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2.000 euro, viaggi e vacanze con l'obiettivo di far sanzionare nel disciplinare del Cms l'allora pm siracusano Marco Bisogni. Subito dopo la Procura generale della Cassazione, il ministro della Giustizia e il Csm hanno contestato a Palamara gli stessi fatti e lo hanno sospeso dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di un mese. Nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari del 20 aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio viene contestata solo la corruzione per l'esercizio della funzione (per Palamara da 1 a 6 anni). Scompaiono i 40.000 euro per la nomina di Longo e l'anello. In quel momento Palamara è accusato di essersi fatto pagare viaggi, vacanze e lavori edili in gran parte mai saldati, né eseguiti a casa della sua amica Adele Attisani. E queste utilità Palamara le avrebbe ricevute «per l'esercizio delle funzioni svolte» dal solo Centofanti. Vengono infatti depennati Amara e Calafiore i quali, il 29 maggio 2019, risultavano essere il motore della corruzione, essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, il 25 novembre 2020, si svolta ancora. A luglio è arrivato il nuovo procuratore Raffaele Cantone e con lui viene specificato che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale «membro» del Csm «per l'esercizio delle funzioni svolte all'interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari». Nuovo colpo di scena all'udienza del 22 febbraio 2021, quando si cambia ancora, per tornare, in una certa misura, al passato, grazie ai verbali nuovi di zecca di Amara e Calafiore. Qui, per non farsi mancare nulla, vengono contestate tutte le sfumature della corruzione (tre diversi articoli) e questa volta Palamara avrebbe ricevuto in dono viaggi e vacanze «prima quale sostituto procuratore della Procura di Roma ed esponente di spicco dell'Associazione Nazionale Magistrati fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Csm» per una serie di «attività» che vanno dall'acquisizione di «informazioni riservate», non meglio indicate, sui «procedimenti in corso» a Roma e a Messina su Centofanti, ma anche su Amara e Calafiore (che però non sono imputati) e per la disponibilità a influenzare le nomine del Csm (ritorna il nome di Longo, ma non i 40.000 euro) e i procedimenti disciplinari. Ed eccoci a due giorni fa. Con un cosiddetto atto fuori udienza del 6 luglio 2021, ma verosimilmente in vista dell'appuntamento di oggi davanti al gup Frabotta, i pubblici ministeri Cantone, Gemma Miliani e Mario Formisano «viste le dichiarazioni di Centofanti Fabrizio», sono state modificate per la quinta volta le imputazioni ritornando all'ipotesi più lieve della corruzione per l'esercizio della funzione laddove Palamara l'avrebbe posta in essere consentendo a Centofanti di «partecipare a incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm [] nei quali si pianificavano nomine», ma anche «per la disponibilità dimostrata di poter acquisire [] informazioni anche riservate sui procedimenti in corso» e «in particolare» quelli già citati di Roma e Messina e, infine, «per la disponibilità del Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate a influenzare» anche attraverso altri consiglieri, «nomine e incarichi» del Csm e «decisioni della sezione disciplinare». Un'attitudine che, a dire dello stesso Centofanti, non si sarebbe mai tradotta in nulla di concretamente legato all'attività dell'ex magistrato, se non, grazie alle frequentazioni di toghe altolocate, nell'aumento di fatturato della propria agenzia di pubbliche relazioni. In pratica Palamara, in cambio della frequentazione di qualche magistrato, avrebbe spillato a Centofanti, per circa un decennio, viaggi e cene. Infatti tra le utilità contestate si sono aggiunti un trasloco di mobilio, trattamenti di bellezza e passaggi in taxi Roma-Fiumicino e mangiate per 31.000 euro, crapule che sarebbero state organizzate da Palamara in tre ristoranti romani, ma senza la specificazione delle date e dei partecipanti.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 7 luglio 2021. Nessuna novità esplosiva, e d' altronde la Commissione Antimafia non era la sede giusta per rivelazioni ad effetto. Ma il quadro che Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, traccia ieri davanti ai membri della commissione è più che sufficiente a capire perché in molti abbiano cercato di impedirne l'audizione. Palamara infatti descrive in modo ancora più crudo del solito i meccanismi di potere che governavano la magistratura italiana. E rivela qual era lo spauracchio che agitava i sonni della corporazione in toga: «Già da quando ero presidente dell'Anm la riforma che temevamo di più era quella del sorteggio, perché avrebbe scardinato il sistema delle correnti». È una ostilità che non si è placata: ora che di forme di sorteggio del Csm compatibili con la Costituzione si torna a parlare, l'opposizione da parte dell'Associazione è quasi compatta. Palamara non si tira indietro neanche davanti al tema più scottante, quello direttamente collegato alla sua convocazione a Palazzo San Macuto: la manovra che impedì che alla guida del Dap, la direzione delle carceri, approdasse il pubblico ministero palermitamo Nino Di Matteo, sorpassato in extremis da Francesco Basentini. «È stato messo in moto un meccanismo rispetto al quale il profilo di Di Matteo poteva essere ingombrante», ha spiegato Palamara. Di Matteo era «ingombrante» nonostante che «il tema del 41bis o tematiche dell'antimafia erano di più spiccata conoscenza di un magistrato impegnato in un processo sulla trattativa Stato-mafia». Al posto di Di Matteo arrivò Basentini, grazie a un meccanismo che Palamara definisce «parallelo» a quello delle correnti: «Direttamente o no, le correnti hanno influito sugli incarichi apicali del ministero della Giustizia. Nel caso di Basentini non c' è stata una diretta interlocuzione tra il ministro e i vertici della corrente», la nomina è avvenuta senza passare per le correnti ma sulla base di un «meccanismo parallelo». Lo strapotere delle correnti resta comunque il leit motiv della testimonianza di Palamara: «Vorrei tranquillizzare tutti e fare pulizia delle millanterie: se qualcuno sceglie sulle nomine sono solo le correnti, al di là dei racconti roboanti fatti in altre sedi. È difficile che il miglior influencer possa scavalcare il meccanismo delle correnti. I magistrati presenti in questa aula sanno bene che se un esterno ha un desiderio, ovvero che un suo amico possa essere eletto procuratore della Repubblica, ma quell' amico non appartiene alle correnti, non ci riuscirà mai». E sembra una risposta indiretta a chi, come l'avvocato Amara, dice a verbale di avere influito su nomine eccellenti.

Paolo Ferrari per "Libero quotidiano" il 7 luglio 2021. «Il sistema è imploso. Solo che adesso, dopo aver spazzato via i gruppi di centro e di destra, è tutto spostato a sinistra». L' intervento a gamba tesa è di Giusi Bartolozzi, magistrata e parlamentare di Forza Italia. Ieri, durante l'audizione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara davanti alla Commissione parlamentare antimafia, la deputata azzurra aveva chiesto se i gruppi della sinistra giudiziaria avessero partecipato alla lottizzazione delle nomine. Fino a questo momento, infatti, i gruppi coinvolti nello scandalo delle nomine, emerso dopo la pubblicazione delle celebri chat di Palamara, erano solo quelli di Magistratura indipendente e di Unicost Il primo, di destra, legato a Cosimo Ferri, il secondo, di centro, direttamente a Palamara. La magistrata, in particolare, aveva interrogato l'ex collega sulla nomina di Giuseppe Cascini a procuratore aggiunto a Roma. Cascini è ora componente del Consiglio superiore della magistratura ed è colui che sta valutando le chat di Palamara, sia ai fini disciplinari che per il conferimento degli incarichi. Nel 2017, ricostruisce Palamara che all' epoca era il capo della Commissione che effettuava le nomine, il pm romano Sergio Colaiocco, il magistrato che sta indagando sulla morte di Giulio Regeni, era in pole per diventare aggiunto. Nella spartizione degli incarichi romani, prosegue Palamara, quel posto spettava ad un magistrato di Unicost, la corrente alla quale era iscritto Colaiocco. Sembrava fatta quando spuntò il nome di Cascini, magistrato legato a Palamara per aver condiviso ai tempi il vertice dell'Anm. La candidatura di Cascini, «non doveva avere concorrenti» e venne quindi «consigliato» a Colaiocco di revocare la domanda, ricorda Palamara. Il motivo era dovuto al fatto che Cascini doveva essere messo nelle migliori condizioni per «affrontare la competizione al Csm», sottolinea Palamara. Colaicco, allora, rinunciò con la speranza di aver un credito futuro. Pur senza avere cognizione diretta, Palamara ha raccontato un curioso aneddoto. Dopo l'insediamento del governo gialloverde nel 2018, i capi delle correnti si aspettavano che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nominasse a via Arenula tutte toghe legate a Piercamillo Davigo, il magistrato idolo dei grillini. Il primo doveva essere il pm antimafia Nino Di Matteo, magistrato stimatissimo dai pentastellati. Per lui era pronta la poltrona di capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Bonafede, invece, per quell' incarico aveva nominato Francesco Basentini, procuratore aggiunto di Potenza, che sulla carta aveva «meno esperienza» per quel ruolo di Di Matteo. Come mai? Palamara ha fatto il nome di Leonardo Pucci, vice capo di gabinetto di Bonafede. Pucci era un ex compagno di Università di Bonafede e conosceva anche l'allora premier Giuseppe Conte. Va detto che Pucci ha sempre smentito questa ricostruzione affermando che «non ci sono state sponsorizzazioni». «Si è trattato di scelte discrezionali: per i vertici sono importanti discrezionalità e fiducia. Per quello che ho visto io, le scelte del ministro sono state sempre a discrezione sua, nei colloqui con le persone», aveva aggiunto.

L'ex zar delle nomine in Commissione antimafia. La confessione di Palamara: “De Ficchy mi avvisò che ero indagato…” Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Quando c’è di mezzo un magistrato il segreto istruttorio non vale: le indagini vengono immediatamente partecipate al diretto interessato. Peccato che ciò non avvenga per i comuni mortali. Sarebbe molto bello, quindi, che la Guardasigilli Marta Cartabia, nella sua prossima riforma della giustizia, prevedesse questa possibilità per tutti e non solo per le fortunate toghe. La sorprendente circostanza, anche se ormai quando si parla di vicende che riguardano i magistrati si fa sempre più fatica a sorprendersi, è stata raccontata ieri da Luca Palamara. L’ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal grillino Nicola Morra, ha ricostruito la genesi dell’indagine per corruzione aperta nei suoi confronti della Procura di Perugia. Il 3 maggio del 2018, ricostruisce Palamara, dalla Procura di Roma venne trasmesso a Perugia, ufficio competente per i reati commessi dai magistrati della Capitale, un fascicolo a suo carico. L’informativa, scritta dal Gico della guardia di finanza, riguardava i rapporti fra Palamara ed il faccendiere Fabrizio Centofanti. Quest’ultimo, in particolare, aveva pagato all’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati pranzi, cene e viaggi in cambio di varie utilità. La nota di trasmissione venne firmata dai tre aggiunti della Capitale: Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli. Il 15 giugno successivo, e qui viene il bello, il procuratore di Perugia Luigi De Ficchy si precipita a Roma da Palamara. L’incontro avviene lontano da occhi indiscreti: nell’ufficio di Palamara al Csm. Palamara avrebbe chat e messaggi che provano quell’incontro, oltre alla testimonianza della sua segretaria e di un usciere. De Ficchy, racconta Palamara, mi «avvisò che era arrivato un fascicolo da Roma e che riguarda i miei rapporti con Centofanti». De Ficchy gli preannunciò che comunque sarebbero stati fatti accertamenti e i “dovuti riscontri”. I riscontri dureranno mesi. A gennaio 2019, dopo oltre sei mesi, Perugia deciderà di iscrivere Palamara nel registro degli indagati per corruzione. E a febbraio, per avere ulteriori riscontri, chiederà di intercettarlo. Riscontri, evidentemente, non ancora non sufficienti dal momento che il successivo mese di marzo i pm umbri chiederanno di poter inserire il virus trojan nel cellulare di Palamara. Ottenuto il decreto da parte del gip, il trojan sarà però attivato solo dopo due mesi, a maggio. In questo modo tutto particolare di svolgere le indagini, Centofanti, il presunto corruttore di Palamara, sarà iscritto nel registro degli indagati solo alla fine di maggio del 2019, senza peraltro essere mai intercettato. Palamara, nella sua incredibile deposizione, ha anche affermato che Centofanti sarebbe stato in rapporti con lo stesso De Ficchy, il quale non avrebbe gradito di fare il procuratore di Perugia. La sua aspirazione, infatti, era di essere nominato a Roma. Nel 2013, racconta ancora Palamara, De Ficchy era il magistrato più titolato per essere nominato procuratore aggiunto a Roma. L’anno prima, il 2012, il Csm aveva nominato come procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, in precedenza procuratore di Reggio Calabria. Insieme a De Ficchy aveva fatto domanda Michele Prestipino, fino a quel momento aggiunto a Reggio Calabria con Pignatone. Prestipino, pur essendo più giovane e con meno titoli, era poi riuscito a spuntarla su De Ficchy. Lo “scontento” procuratore di Perugia, infine, secondo le testimonianze dell’avvocato Piero Amara ai pm di Milano, sarebbe poi uno degli esponenti di punta della loggia ‘Ungheria’, l’associazione segreta composta da magistrati, ufficiali delle Forze dell’ordine, professionisti, nata per pilotare gli incarichi nella pubblica amministrazione. Paolo Comi 

La testimonianza in Commissione antimafia. Palamara rivela: “Basentini fu scelto al Dap perché amico di Bonafede e Pucci”. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Francesco Basentini venne nominato capo del Dap “grazie” alla sua amicizia con il pm Leonardo Pucci, compagno di studi all’Università di Alfonso Bonafede. Lo ha confermato questa settimana Luca Palamara durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Interrogato a Palazzo San Macuto, l’ex zar delle nomine ha ricostruito come avvenne nella primavera del 2018 la nomina di Basentini, allora uno sconosciuto magistrato e senza particolari titoli, al vertice del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, posto per il quale era invece in pole position il pm antimafia Nino Di Matteo. «I capi delle correnti rimasero molto sorpresi quando il ministro della Giustizia Bonafede nominò Basentini al Dap», ha esordito Palamara. Tutte le nomine dei vertici degli uffici di via Arenula, a cominciare da quella del capo di gabinetto del ministro, sono sempre state il frutto di un “accordo fra le correnti”, premette Palamara. Nella spartizione correntizia un posto di primo piano lo ha sempre avuto il ruolo di numero uno del Dap, incarico particolarmente ambito fra i magistrati soprattutto per il suo maxi emolumento. Nel 2018 a seguito delle elezioni politiche, con la vittoria travolgente dei grillini, “cambiano i rapporti di forza” a via Arenula. Il Ministero era stato guidato fino a quel momento per cinque anni da Andrea Orlando, esponente di primo piano del Pd, che aveva preferito circondarsi, tranne rare eccezioni, da magistrati legati alla sinistra giudiziaria di Magistratura democratica e al gruppo centrista di Unicost, la corrente di Palamara. L’arrivo di Bonafede “sfugge ai rapporti” che Unicost aveva con via Arenula, creando “apprensione”. Le correnti, e quindi Unicost, temono che Bonafede attui un feroce spoil system fra le toghe di Md e Unicost che per anni hanno colonizzato il Ministero della giustizia. Favorite in questa partita dovrebbero essere le toghe di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, ben vista dai grillini e dal circuito mediatico che appoggia pancia a terra il M5s, come, ad esempio, il Fatto quotidiano di Marco Travaglio o il Gruppo Cairo. La mancata nomina di Di Matteo sorprende Palamara. «Non voglio offendere nessuno – mette le mani avanti l’ex zar – ma il profilo professionale di Di Matteo sul fronte del contrasto alla mafia era certamente diverso a quello di Basentini». Palamara conosce bene Basentini avendolo proposto a suo tempo per diventare procuratore aggiunto a Potenza nell’ambito di “accordi correntizi”. L’arrivo di Basentini al Dap, invece, è diverso: il magistrato pur essendo “legato” all’ambiente di Unicost, non è “espressione” di Unicost. Quindi una nomina non frutto della lottizzazione correntizia ma di rapporti di conoscenza che avevano comunque garantito un posto di prestigio nel risiko dei magistrati fuori ruolo a Unicost. A fare il nome di Basentini è dunque Pucci che aveva conosciuto Basentini quando lavorava a Potenza. Il compagno di studi di Bonafede, prosegue il racconto, era anche diventato il terminale delle segnalazioni e delle premure delle correnti in quel periodo. A supporto di quanto affermato, Palamara ha invitato tutti i componenti della Commissione parlamentare antimafia a rileggere la chat con Maria Casola, allora potentissima capa Dipartimento al Ministero. È il 22 giugno del 2018 quando la dottoressa Casola chiede a Palamara chi sia questo sconosciuto magistrato catapultato al vertice del Dap. «È del nostro concorso vicino a noi bravo ragazzo cugino di Speranza (Roberto, ndr) di Leu molto amico di Pucci. Che lo ha voluto», risponde secco Palamara. «Sono totalmente iniziative individuali e nessuno può essere ricondotto a noi», sottolinea quindi l’ex zar, escludendo di aver partecipato alla spartizione degli incarichi. Basentini, poi, si dimetterà dall’incarico travolto dalle polemiche per le rivolte nelle carceri a marzo dello scorso anno che causarono 13 morti fra i detenuti. Paolo Comi

Giacomo Amadori per “la Verità” il 4 luglio 2021. C'è una notizia che farà tremare i polsi di molte persone. Luca Palamara ha ritrovato il cellulare con cui aveva iniziato la consiliatura al Csm, con in memoria numerose chat inedite, che in parte compaiono in alcuni atti di mediazione civile in corso sul libro Il Sistema. Il telefonino, che i magistrati di Perugia non hanno sequestrato nel 2019, custodisce i segreti delle nomine dal 2014 al 2016. Le chat sino a oggi conosciute si fermavano all' inizio del 2017. Tra le conversazioni più sensibili del nuovo-vecchio cellulare ci sono quelle riguardanti la controversa nomina per la Procura di Palermo, quella in cui Palamara sosteneva formalmente Guido Lo Forte, ma sottobanco, su indicazione del suo vecchio capo Giuseppe Pignatone, spianò la strada a Franco Lo Voi. Nei giorni scorsi, davanti alla commissione Antimafia, come ha riportato La Verità, Palamara ha ricostruito le logiche che avevano portato all' aborto della candidatura di Lo Forte che «nell' ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale». E aveva evidenziato come l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che «nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», avesse cambiato «cavallo» nonostante fosse «molto amico di Lo Forte» e avesse spronato Palamara con queste parole: «Si va su Lo Voi». Una delle nuove chat, datata 17 dicembre 2014, giorno del voto al plenum, sembra confermare la ricostruzione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Palamara quel giorno scrive alla consigliera laica (in quota Sinistra e libertà) Paola Balducci: «Noi Lo Forte. Così via libera per l'altro con ballottaggio». «L' altro» chi è? Lo si capisce proseguendo la lettura. La Balducci chiede lumi sulla posizione del procuratore di Roma: «E Pigna?». Risposta secca: «Appunto vince Lo Voi». Che da Pignatone era sostenuto. Lo Forte nella precedente consiliatura era arrivato a un passo dalla nomina. A quel punto dal Quirinale era partita una missiva che invitava il Csm a procedere in ordine cronologico, ovvero partendo dalle Procura con il tempo di vacanza più lungo. Così il voto per Palermo slittò alla consiliatura di Palamara. Che nell' occasione non sfoderò le sue celeberrime doti di negoziatore. Infatti al primo turno il candidato della sua corrente, Unicost, si fermò a cinque preferenze, mentre Sergio Lari, sostenuto dal cartello di sinistra di Area raccolse sette voti. Lo Voi fu sostenuto dai quattro esponenti di Magistratura indipendente, la sua corrente, e da due consiglieri di centro-destra. A quel punto i commentatori erano convinti che i due gruppi alleati (Unicost e Area) convergessero su Lari o su Lo Forte. Invece Palamara trasformò Lo Forte in un candidato di bandiera e accettò la sconfitta. Al ballottaggio tutti i laici, anche quelli di sinistra, votarono per Lo Voi, nonostante fosse espressione dell'ala conservatrice. Pure i due membri di diritto del Csm, le cariche apicali della magistratura, lo appoggiarono. Alla fine Lo Voi totalizzò 13 voti e vinse a sorpresa. Infatti era il più giovane dei contendenti e l'unico a non aver mai diretto un ufficio giudiziario (gli altri erano stati già procuratore e Lari anche procuratore generale). Il vicepresidente di Palazzo dei marescialli, Giovanni Legnini, fu costretto ad allontanare i sospetti di intervento del Quirinale, negando «condizionamenti esterni». Nel gennaio del 2015 Lari e Lo Forte impugnarono la delibera di nomina e il 21 maggio il Tar del Lazio annullò la nomina di Lo Voi. A quanto risulta alla Verità Palamara, il 26 maggio, si recò personalmente a Palermo dove incontrò a una cena il procuratore sub judice, intenzionato a impugnare la decisione del Tribunale amministrativo di fronte al Consiglio di Stato. Una mossa a cui Palamara o, forse, i suoi punti di riferimento dovevano essere molto interessati. E le chat stanno lì a dimostrarlo. L'ex pm, quello che lui stesso ha definito un linguaggio in codice, iniziò a compulsare il procuratore di Palermo. Il primo messaggio è del 30 maggio 2015, quattro giorni dopo l'incontro siciliano. Scrive Palamara: «Benissimo. Un abbraccio». Lo Voi: «Caro Luca, spero stia bene. Io benissimo. Scusa se non ti ho chiamato prima, conto di farlo al più presto, sicuramente entro la prossima settimana. Un abbraccio, Franco». È un riferimento all' istanza di sospensiva di Lo Voi al Consiglio di Stato? Secondo Palamara sì. Il 4 giugno l'ex leader di Unicost pare in fibrillazione e comunica, a suo dire, in modo cifrato: «Caro Franco ancora non sono arrivati gli inviti. Sai dirmi esattamente quando?». La replica di Lo Voi pare coinvolgere Pignatone: «Giuseppe lo sa. Parla con lui». Se in parte l'interessamento di Palamara poteva essere giustificato, avendo la decisione del Tar sconfessato la scelta del Csm (che infatti farà ricorso), il ruolo di Pignatone risulta meno comprensibile, se non si prende per buono il racconto di Palamara. Il 5 giugno quest' ultimo sembra sollevato e manda un messaggio: «Grazie è arrivato l'invito. A presto un abbraccio». Palamara ha raccontato che, proprio in quei giorni di giugno, a casa sua si tenne un incontro tra Riccardo Virgilio, il presidente della quarta sezione del Consiglio di Stato che aveva in mano la pratica, e lo stesso Pignatone, una colazione a base di croissant in cui i due avrebbero parlato «in maniera molto fitta e riservata». Il 17 giugno i giornali comunicano che il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar. Nel gennaio del 2016 la stessa sezione ribalta definitivamente la decisione dei giudici amministrativi e conferma Lo Voi sulla poltrona di procuratore di Palermo. Il presidente Virgilio era un vecchio amico di Pignatone, mentre il giudice estensore e relatore della sentenza era Nicola Russo. Nei mesi successivi sono finiti entrambi sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari proprio in relazione ad alcune sentenze del Consiglio di Stato (non quella su Lo Voi) e successivamente sono stati rinviati a giudizio. Nel 2018, davanti al gip, Russo, che è stato anche arrestato, ha dichiarato «di avere ricevuto diverse segnalazioni su procedimenti a lui assegnati e indicato generali della Guardia di finanza e magistrati». A quel punto uno dei pm della Capitale gli ha chiesto: «Chi sono i giudici che si sono raccomandati?». E Russo ha replicato: «Suoi colleghi, anche pubblici ministeri che lei conosce bene». Ma si è fermato lì. Il 16 maggio del 2019, mentre è intercettato dal trojan, Palamara parla con il collega del Csm Luigi Spina. Questi domanda: «Ma è ricattabile Pignatone?». Palamara risponde: «Andiamo avanti a un'altra storia... Lo Voi lo fa fa Pignatone... il ricorso di Lo Forte c' è pure Pignatone in mezzo...vabbè è meglio che non ti racconto...». Il 21 maggio Palamara dice al vescovo Vincenzo Paglia: «Io sono stato uno dei fautori per aiutare Pignatone a portare Lo Voi a Palermo». Il 28 maggio, invece, Palamara parla con Cosimo Ferri (ex leader di Mi e oggi deputato di Italia viva): «E loro perché stanno a fa' i patti per Lo Voi (in quel momento candidato alla Procura di Roma, ndr)? Che faccio, mi metto a parlare di Lo Voi io? Io non mi posso mettere a parlare di Lo Voi eh!». Adesso quest' ultimo è in corsa per il posto di procuratore della Capitale. Per una sorta di contrappasso questa volta è lui ad aver impugnato la nomina del collega Michele Prestipino, attuale capo dei pm di Roma. Il Tar gli ha dato ragione. Ora, come sei anni fa, la palla è passata al Consiglio di Stato. Ma questa volta Palamara, Virgilio e Pignatone sono fuori dai giochi.

Palamara: «Il Csm non desecretò gli atti su Falcone e Borsellino». Luca Palamara in audizione in Commissione parlamentare antimafia ha parlato dei rapporti intercorsi fra la trattativa Stato-mafia e le nomine. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 2 luglio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura non avrebbe inizialmente desecretato tutti gli atti relativi alle vicende di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino «per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura». A dirlo è stato mercoledì scorso Luca Palamara, chiamato in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Fra i tanti argomenti toccati dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ampio spazio è stato dedicato ai rapporti intercorsi fra la trattativa Stato- mafia e le nomine, da parte del Csm, dei vertici degli uffici inquirenti del capoluogo siciliano. La desecretazione degli atti avvenne durante la scorsa consiliatura, in occasione della ricorrenza dei venticinque anni della morte dei due magistrati. Vice presidente del Csm era Giovanni Legnini (Pd), mentre Palamara, oltre ad essere il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, era il direttore dell’Ufficio studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli. Gli atti del fascicolo di Borsellino, in particolare, confluirono anche in un volume dal titolo “L’antimafia di Paolo Borsellino”. Nel testo, ancora oggi acquistabile tramite il portale del Csm, si raccontava il percorso professionale del magistrato, gli incarichi avuti, le valutazioni di professionalità. Fra gli atti degni di nota, anche il famoso verbale dell’audizione di Borsellino davanti alla prima Commissione del Csm nell’ottobre del 1991 nell’ambito della procedura per il trasferimento per incompatibilità ambientale dell’allora procuratore di Trapani Antonino Coci. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata alla data del 23 luglio 1992, «evitando di pubblicare la seduta del 30 luglio del 1992». Palamara si riferisce alla audizione svolta dal «gruppo di lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata». Nella seduta del 30 venne ascoltata la sorella di Falcone, Maria, e diversi colleghi dei due magistrati uccisi che avevano lavorato con loro a Palermo. Il verbale in questione verrà, comunque, reso pubblico lo scorso anno. Fra gli atti che invece non si trovano, ci sarebbe l’audizione fatta da Falcone nella primavera del 1990 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. In quell’occasione il magistrato aveva riferito dell’esistenza «di una centrale unica degli appalti» con valenza sull’intero territorio nazionale.

Giacomo Amadori per "la Verità" l'1 luglio 2021. L'ex presidente del Senato, Piero Grasso, esponente di punta del Pd, ha provato ad appellarsi a ogni cavillo del regolamento allo scopo di impedire la «libera audizione» dell'ex pm Luca Palamara di fronte alla commissione Antimafia. Al punto di far perdere la pazienza al presidente, Nicola Morra, ma anche a chi, vicino a lui, a un certo punto ha esclamato stizzito: «C'è il segretario, cazzo». Come a dire che c'era chi poteva controllare numero legale e altre questioni meglio di Grasso che, con il suo faccione, cercava di remare contro collegato da casa. «Capisco che voglia mettere i bastoni» ha commentato Morra, prima di concedere la parola a Palamara, al quale, evidentemente, qualcuno avrebbe preferito tappare la bocca. E forse dopo si è capito anche il perché. Infatti l'ex presidente dell'Anm ha depositato un appunto in cui sono citate diverse personalità di spicco del Pd. Del resto quello di Palamara è un osservatorio privilegiato del rapporto strettissimo tra toghe e sinistra, anche perché a un certo punto della sua carriera, tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, fu in predicato per un posto da parlamentare nelle file dei dem. Nel documento un ampio capitolo è dedicato alla nomina del procuratore di Palermo, ovvero dell'inquirente che avrebbe dovuto sostenere l'accusa nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Il candidato di Palamara, all' inizio, è Guido Lo Forte, a cui era stato assicurato sostegno anche dall' ex procuratore di Roma, il siciliano Giuseppe Pignatone: «Quest' ultimo, in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», scrive Palamara. «Ma Lo Forte nell' ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale». Il presidente emerito in questa vicenda è cruciale, visto che era stato intercettato nel procedimento palermitano e stava cercando in tutti i modi di stoppare la pubblicazione delle conversazioni che lo riguardavano. Palamara fa riferimento anche a una trattativa sulla Trattativa. A Palermo incontra uno degli inquirenti del processo, Antonio Ingroia: «Il quale mi riferirà di aver appreso dall' allora direttore di Repubblica Ezio Mauro che unitamente al predetto Mauro io sarei stato incaricato dal Quirinale per mediare i rapporti tra la Procura di Palermo e il Quirinale sulla vicenda intercettazioni». Un incarico che Palamara sembra ammettere: «Al riguardo io posso confermare di aver condiviso in quel periodo il disagio che Loris D'Ambrosio (consigliere giuridico di Napolitano, ndr) stava provando per il suo coinvolgimento nella vicenda (era stato intercettato anche lui, ndr) e soprattutto per la difficoltà di gestire il rapporto con il senatore Nicola Mancino (altro papavero piddino captato da Palermo, ndr) che in più occasioni gli chiese di interloquire direttamente con il presidente Napolitano. In tale ambito e in tale contesto affrontammo anche il problema relativo alla necessità di trovare un punto di equilibrio con la Procura di Palermo». In un altro passaggio l'ex toga ricorda la mossa di Napolitano: «In prossimità del plenum che doveva, come da accordi, varare l'operazione Lo Forte, arriva al Csm una lettera del capo dello Stato che invita a rispettare nelle nomine l'ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte quindi slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato alla tornata successiva». Cioè quella in cui verrà eletto Palamara. Il quale prosegue: «Pignatone sente puzza di bruciato e nonostante sia molto amico di Lo Forte cambia cavallo. Mi convoca e mi dice: "Si va su Lo Voi (Franco, ndr)". Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita». L'ex toga ricorda un pesantissimo editoriale di Eugenio Scalfari contro i pm di Palermo proprio di quei giorni. «È questo il clima che riaffiora al Csm nel dicembre del 2014, in occasione della nomina del nuovo procuratore di Palermo. Me lo fa capire anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (altro esponente Pd, ndr), che suo malgrado si allinea sul candidato Lo Voi, il meno rigido dei tre sull' inchiesta Stato-mafia. Rimango sorpreso, ma sono uomo di mondo e studio la pratica». A questo punto Palamara si inventa «un trucco concordato con le altre correnti», un tecnicismo, che garantisce la vittoria a Lo Voi. Confermata dalla quarta sezione del Consiglio di Stato «presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone era a lui legato da rapporti di antica amicizia», ha sottolineato l' ex presidente dell' Anm. Il quale ha ricordato anche un incontro a casa sua tra Virgilio e Pignatone, in cui i due avrebbero parlato «in maniera molto fitta e riservata». Nel suo appunto e nell'audizione Palamara ha evidenziato anche la contrarietà dei vertici della magistratura al conferimento di un incarico presso la Direzione nazionale antimafia al pm palermitano Nino Di Matteo, al centro di «invidie e gelosie di prime donne», e svela anche un retroscena sulla scelta del capo della stessa Dna: «La nomina di Di Matteo è in concomitanza con quella di Federico Cafiero De Raho alla Procura nazionale antimafia in relazione alla quale visti i suoi trascorsi alla Procura di Reggio Calabria vi è stata una diretta interlocuzione con l'allora ministro degli interni Marco Minniti». Sembra di capire che il calabrese Minniti si sia interessato alla nomina del magistrato che aveva guidato la Procura reggina. Palamara, infine, fa riferimento al procedimento Tempa rossa, che portò l'ex ministro Federica Guidi a dimettersi senza essere mai stata indagata e che «arrivò a sfiorare Elena Boschi, che infatti venne interrogata a Roma». E qui Palamara svela un clamoroso retroscena: «Per me fu abbastanza singolare che, dopo l'interrogatorio della Boschi, Luigi Gay, Laura Triassi e Francesco Basentini (i pm del fascicolo, ndr) vollero incontrarmi per tranquillizzarmi sull' andamento della indagine quasi a cercare una copertura da parte del Csm. [...], presenti le scorte, l'incontro avvenne presso il bar Vanni. Mi venne riferito che l'interrogatorio della Boschi non era durato due o tre ore come dicevano i primi lanci Ansa, ma molto di meno e che le lungaggini erano dovute a una circostanza molto più banale e grottesca: il computer si era inceppato e con grande imbarazzo di tutti nessuno sapeva cosa fare. Le circostanze da chiedere alla Boschi erano minime. Non mi capacitavo a quel punto della necessità di tutto quel clamore sulla vicenda. Comunque mi era chiaro che essendo prossimo il procuratore Gay alla pensione tanto Basentini che la Triassi ambivano ad incarichi semidirettivi. Basentini verrà poi nominato procuratore aggiunto di Potenza».

Magistratopoli. Da un anno a Nola, trasferita per "incompatibilità". Terremoto a Nola, il procuratore capo Triassi trasferito dal Csm dopo gli esposti dei colleghi. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Terremoto nella Procura di Nola. Il Consiglio superiore della magistratura ha disposti il trasferimento d’ufficio per il procuratore capo Laura Triassi, un provvedimento adottato per “incompatibilità con l’ufficio di attuale assegnazione e con gli uffici che, nell’ambito del distretto, hanno competenze ordinamentali e procedimentali che presuppongono un coordinamento con la Procura di Nola”. Come ricorda l’Ansa, il procedimento sulla Triassi era stato avviato lo scorso 14 giugno dalla prima commissione del Csm dopo una nota prodotta dal procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli Luigi Riello a seguito di una serie di audizioni. Il riferimento era ad una serie di condotte poste in essere dal procuratore capo di Nola Triassi e al procuratore aggiunto Stefania Castaldi. Ad aprile 12 dei 13 sostituti procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Nola avevano anche depositato un esposto al procuratore generale, poi integrato, nel quale Triassi e Castaldi venivano ritenute causa di “un profondo disagio e penoso malessere” per l’intero ufficio che, veniva sottolineato, avrebbe determinato “verosimilmente, molteplici ed imminenti richieste di trasferimento ad altra sede”. Nell’esposto si evocava anche il rischio di una “crisi dell’indipendenza interna dei sostituti dell’ufficio” alla luce di numerosi episodi diretti “compromettere la dignità della funzione giurisdizionale dei sostituti dell’Ufficio”. Triassi era alla guida della procura di Nola da poco più di un anno. Redazione

Il caso della procuratrice Laura Triassi e dell'aggiunta Stefania Castaldi. Magistratura nel caos, la rivolta di 12 sostituti procuratori contro i vertici della procura di Nola. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Il plenum si esprimerà domani. Nel frattempo, però, la procedura di trasferimento per incompatibilità della procuratrice di Nola, Laura Triassi, getta l’ennesima ombra sulla magistratura. L’iter è stato avviato il 14 giugno scorso dalla Prima Commissione del Csm sulla base dell’esposto che 12 dei 13 sostituti in servizio presso la Procura di Nola avevano indirizzato al procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, esattamente due mesi prima. In tutto questo tempo, di una vicenda tanto delicata si è saputo poco o nulla e cioè che i comportamenti di Triassi e dell’aggiunta Stefania Castaldi sarebbero stati causa «di un profondo disagio e penoso malessere» per l’intero ufficio dove i sostituti avrebbero conseguentemente firmato «molteplici richieste di trasferimento ad altra sede». Non solo: Triassi e Castaldi si sarebbero rese protagoniste di «innumerevoli e preoccupanti» episodi, addirittura tali da «compromettere la dignità della funzione giurisdizionale» esercitata dai sostituti. Insomma, quelle mosse dai colleghi all’indirizzo di Triassi e Castaldi sono accuse piuttosto pesanti. Tanto più se si pensa che la procuratrice, balzata per la prima volta agli onori delle cronache all’epoca di Tangentopoli, quando esercitava le funzioni di gip presso il Tribunale di Napoli, è solo da un anno alla guida della Procura di Nola. Eppure, nonostante siano trascorsi più di tre mesi dall’invio dell’esposto al procuratore generale Riello e la notizia-bomba della richiesta di trasferimento della Triassi sia già deflagrata, ancora non è dato capire i termini esatti della vicenda. Che cosa induce quasi tutti i sostituti a parlare addirittura di «penoso malessere»? In che cosa consistono esattamente i «preoccupanti episodi» denunciati? In che cosa è stata lesa «la dignità della funzione giurisdizionale»? E in quante e quali circostanze tutto ciò sarebbe avvenuto? Interrogativi che meritano una risposta e la meritano al più presto, se non si vogliono alimentare dietrologie sul lavoro dell’intera Procura di Nola e della magistratura nel suo complesso. Qualcuno ha idea delle sensazioni che un cittadino, magari messo sotto inchiesta dai pm di Nola in quest’ultimo anno, è indotto a provare in questo preciso momento? Qualcuno ha idea di quali timori e sospetti sia capace di alimentare una vicenda tanto grave quanto torbida? Fino a questo momento, invece, la comunicazione da parte dei rappresentanti delle toghe è stata alquanto lacunosa, per non dire nulla. Il che restituisce, per l’ennesima volta, la fotografia di una magistratura ambigua, sempre pronta ad arroccarsi sulle proprie posizioni e tetragona rispetto a qualsiasi forma di dialogo trasparente. Come se le dinamiche interne all’ordine non si riflettessero sulla percezione che i cittadini hanno del lavoro svolto nelle aule di giustizia. Ecco perché sarebbe il caso che i vertici locali o nazionali dell’Anm prendessero posizione sulla vicenda, che tutti i magistrati coinvolti chiarissero le rispettive posizioni e che il Csm adottasse una decisione ponderata e trasparente, in modo tale da tradurre certe espressioni criptiche in linguaggio comprensibile. Tutto ciò è indispensabile per evitare che la magistratura e il lavoro svolto da pm e giudici non sia ulteriormente appannato, dopo le vicende denunciate da Alessandro Sallusti e Luca Palamara nel loro libro-intervista e i casi di cronaca in cui diverse toghe sono state coinvolte: in gioco c’è la credibilità non solo di un ordine dello Stato, ma la tenuta di quella fragile impalcatura sulla quale si regge la nostra comunità con le sue libertà e i suoi diritti fondamentali.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Intanto ad Aversa arriva Troncone. Triassi al Csm: “Contro di me accuse ingiuste”. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Luglio 2021. C’è stato chi, tra i consiglieri del Plenum, l’ipotesi di un complotto non l’ha esclusa a priori, ricordando come la storia recente abbia insegnato che nulla è impossibile, nemmeno i complotti tra magistrati. E c’è stato chi, praticamente la maggioranza, ha sottolineato la necessità di un’istruttoria prima di adottare una decisione grave come quella di trasferire il capo di una Procura. La seduta del Plenum del Consiglio superiore della magistratura sul caso del procuratore di Nola Laura Triassi è durata oltre tre ore e si è conclusa con la decisione, adottata con undici voti favorevoli, nove contrari e tre astenuti, di sospendere la procedura visto che riguarda vicende per cui c’è un procedimento disciplinare in corso, rimandando quindi gli atti alla Prima Commissione e bocciando per il momento la proposta di trasferire d’ufficio la stessa Triassi. Il caso è nato da tre esposti firmati tra marzo e giugno scorsi da 12 dei 13 sostituti dell’ufficio inquirente, da 23 unità del personale amministrativo e da alcuni carabinieri della polizia giudiziaria per lamentare incomprensioni e tensioni con il capo della Procura nolana accusato di avere una gestione verticistica dell’ufficio e di rapportarsi con toni aggressivi o mortificanti. Di qui la relazione inviata dal procuratore generale Luigi Riello al Csm e la delibera della Prima Commissione di proporre il trasferimento della Triassi. Ieri la seduta del Plenum, dinanzi al quale la Triassi si è difesa: «Se non c’è una regìa occulta, devo pensare che le accuse contro di me derivino dal malcontento per alcune mie iniziative organizzative, come l’ufficio degli affari semplici, iniziative su cui i numeri mi stanno dando ragione perché gli arretrati sono diminuiti». Triassi ha chiesto quindi al Csm di fare approfondimenti prima di decidere delle sue sorti professionali: «La relazione del procuratore generale di Napoli è inesatta e incoerente, poco obiettiva nella valutazione dei fatti». ha sostenuto depositando una memoria difensiva per replicare a ogni accusa e spiegare i dettagli di alcuni episodi con alcuni sostituti che la accusano, negando tra l’altro di aver ostacolato la trasmissione di atti alla Dda di Napoli. Inoltre, la Triassi ha lamentato la mancanza di un’istruttoria che prevedesse l’audizione sua, dei sostituti e di tutti coloro che la accusano. Un passaggio, questo della necessità di istruttoria prima di una decisione, che è stato l’aspetto affrontato da molti dei consiglieri intervenuti alla seduta del Plenum, tra i quali Nino Di Matteo, Antonio D’Amato, Loredana Miccichè, Sebastiano Ardita e Stefano Cavanna. Intanto ieri il Plenum si è occupato anche di un’altra Procura campana, quella di Napoli Nord approvando, all’unanimità, la nomina di Maria Antonietta Troncone alla guida del grande ufficio inquirente che ha sede ad Aversa. Troncone è attualmente capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere e la sua nomina al nuovo incarico arriva proprio nel bel mezzo dell’inchiesta sulle violenze avvenute in carcere il 6 aprile 2020: un’inchiesta particolarmente delicata e complessa, caratterizzata anche dai grandi numeri e dagli indagati eccellenti. Troncone è stata scelta tra i magistrati che si sono proposti per assumere la guida della Procura di Napoli Nord candidandosi a succedere al procuratore Francesco Greco. Dai consiglieri del Csm Michele Ciambellini e Antonio D’Amato sono state espresse parole di apprezzamento per la designazione di Troncone: «Alla Procura di Napoli Nord opererò con il medesimo spirito di servizio mostrato in questi anni alla guida della Procura di Santa Maria Capua Vetere – ha commentato Troncone – Mi preme operare per offrire ai cittadini un servizio giustizia efficiente». Maria Antonietta Troncone sa bene quanto sia importante la sfida professionale che si appresta ad affrontare. Quello di Napoli Nord è un ufficio particolarmente complesso, ha competenza su 38 Comuni della provincia a cavallo tra Caserta e Napoli, cioè il territorio della cosiddetta Terra dei Fuochi, l’hinterland segnato da un alto livello di criminalità e da ancora numerosi reati ambientali. «Non ho la bacchetta magica – ha aggiunto Troncone – ma auspico di poter dare anche alla Procura di Napoli Nord il mio contributo». Il procuratore assumerà il nuovo incarico a settembre, nel frattempo continuerà il lavoro di coordinamento dell’indagine sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, indagine che ha scatenato un autentico terremoto non solo all’interno del corpo della polizia penitenziaria ma anche tra i vertici dell’amministrazione penitenziaria.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

“Chiarezza sullo scontro inaudito tra la Triassi e i 12 sostituti”, la richiesta dei penalisti. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Subito chiarezza sullo scontro in atto tra la procuratrice di Nola, Laura Triassi, e i 12 sostituti che contro di lei hanno firmato un esposto. A chiederlo è la Camera penale di Napoli, dopo che il Plenum del Csm ha sospeso la procedura di trasferimento per incompatibilità di Triassi. I penalisti napoletani non nascondono i propri timori per quello che bollano come «un inaudito scontro»: «la situazione ha pochi precedenti per gravità – scrive il presidente Marco Campora – ed è preoccupante per il riverbero che può avere sulla qualità delle indagini ma, più diffusamente, sulle istanze di giustizia dei cittadini». Di qui la richiesta: «Riteniamo sia un diritto della comunità forense e della collettività in generale conoscere in forma particolareggiata gli avvenimenti che si stanno verificando a Nola». L’appello dei penalisti napoletani segue di poche ore quello dei vertici locali dell’Anm che, attraverso la presidente Livia De Gennaro, hanno auspicato che «gli accertamenti in atto facciano chiarezza sui fatti oggetto di denuncia» e invitato «gli organi competenti a procedere con celerità». La parola spetta ora alla Procura generale della Cassazione che ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Triassi, alla guida della Procura di Nola da circa un anno.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

I nodi della giustizia. Nola, avvocati in campo: “Troppe inchieste flop, ora la verità su Triassi”. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Le denunce sono tante ma le indagini che arrivano a conclusione non sono altrettanto numerose. E molte, sottolineano i penalisti nolani, sono quelle che finiscono in una bolla di sapone o in richieste di archiviazione. Anche a Nola, come in altre Procure del distretto di Napoli, nel settore della giustizia ci sono sproporzioni che rischiano di causare criticità. E se si considera il recente scontro tra sostituti e procuratore è chiaro che nella cittadella giudiziaria di Nola c’è una particolare tensione. «Avevamo avuto la percezione di dissidi, ma non conosciamo le dinamiche che hanno portato a questo scontro tra il capo della Procura e i suoi sostituti – spiega l’avvocato Vincenzo Laudanno, presidente della Camera penale di Nola – La nostra posizione è neutrale in questo momento, l’unica nostra pretesa è quella della chiarezza. Si tratta di una situazione particolare, si fa fatica a recuperare episodi di analoga gravità nella storia se non ricordando il caso dell’ex procuratore di Napoli Agostino Cordova, ma con le dovute differenze». Il procuratore di Nola Laura Triassi si era insediata un anno fa ed ora è al centro di una pratica di incompatibilità ambientale dinanzi al Csm sospesa in attesa della definizione del procedimento disciplinare aperto in seguito all’esposto che i sostituti dell’ufficio inquirente nolano avevano inviato alla Procura generale. «Credo sia un diritto della comunità forense e della comunità in generale avere chiarimenti – continua il presidente Laudanno – perché questa situazione rischia di interferire sulla qualità delle indagini e sulle istanze di giustizia dei cittadini». L’attenzione è in particolare rivolta alle indagini che si risolvono in un nulla di fatto, lasciando gli episodi-reato senza colpevoli e i cittadini senza risposte certe. «Le richieste di archiviazione sono tante, non ho il dato aggiornato, credo siano migliaia all’anno e rappresentano un problema perché è evidente che sono richieste che non fanno i conti con la fondatezza o meno delle istanze del cittadino ma hanno ragioni di natura deflattiva o legate all’assenza di risorse in forza alla Procura, carenze comuni anche ad altre Procure del distretto» spiega il presidente dei penalisti di Nola. «A proposito di riforma Cartabia, sento dire che bisogna fare in modo di non andare verso l’impunità, ma questa – dice Laudanno facendo riferimento al fenomeno delle indagini archiviate – è già una forma di impunità, perché cestinare e non prestare attenzione alle denunce e alla querele, anche per fatti di una certa gravità, significa che l’impunità è garantita in partenza, senza aspettare la famosa improcedibilità in Appello e questo è un problema rispetto al quale noi penalisti siamo sensibili». «Noi – chiarisce – crediamo che l’obiettività, la correttezza, l’equilibrio del pubblico ministero e il cercare notizie ed elementi anche a favore dell’indagato, siano valori assoluti, ma tutto questo non c’entra nulla con il fenomeno di cui stiamo parlando. Qui si tratta dell’impossibilità di portare avanti le denunce che vengono presentate e il Governo deve farsi carico anche di queste criticità, dotando la Procura di Nola delle risorse aggiuntive che sono eventualmente necessarie». «Auspico quindi – afferma Laudanno – un cambio di passo in relazione all’attenzione che ogni magistrato dovrebbe riporre nel vagliare le domande di giustizia che non possono essere mortificate o sacrificate. Nola è un territorio particolare, gravato da microdelinquenza e da forme di delinquenza più articolate: servono risposte adeguate, sia pure nel rispetto delle garanzie del cittadino che sono sempre insopprimibili». Ne va anche della credibilità della giustizia. «In questo momento – conclude – assecondare questo declino, guardarlo scorrere senza far nulla, è deleterio perché la credibilità nel sistema giustizia viene meno. Abbiamo bisogno che il cittadino abbia fiducia nella giustizia e per fare ciò c’è bisogno di un maggiore impegno e di maggiori sacrifici da parte di tutti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

250 toghe chiedono chiarezza. Faida tra Pm a Nola, sos dei magistrati al Csm: “È ora di decidere”. Viviana Lanza su Il Riformista il 4 Agosto 2021. «Chiarezza sul caso della Procura di Nola». Ora a chiederlo sono oltre 250 magistrati, firmatari di una petizione. «È necessario che sia fatta al più presto chiarezza sulla vicenda – si legge nel documento – al fine di consentire l’immediato ripristino delle condizioni indispensabili allo svolgimento della funzione giudiziaria attraverso una lettura dei fatti scevra da interpretazioni devianti». Chiarezza è ciò che servirà per placare tensioni e polemiche, dubbi e preoccupazioni che aleggiano attorno all’ufficio inquirente della grande provincia. Dopo la Camera penale di Nola, anche la magistratura rompe il silenzio e chiede chiarezza. L’iniziativa, di cui ha dato notizia l’agenzia Dire, è partita da un gruppo di magistrati di Torre Annunziata e ha trovato adesioni tra giovani toghe di tutta Italia a seguito della decisione, votata a maggioranza dal Plenum del Consiglio superiore della magistratura, di sospendere la procedura per il trasferimento d’ufficio, per incompatibilità ambientale, del procuratore di Nola Laura Triassi in attesa della definizione del procedimento disciplinare. Tutta la vicenda nasce da un esposto consegnato al procuratore generale Luigi Riello e firmato da dodici dei tredici sostituti procuratori dell’ufficio giudiziario nolano (il magistrato che non ha firmato l’esposto si è dichiarato disposto a essere comunque audito per confermare i fatti riportati e si è detto solidale con i colleghi). Nell’esposto si denunciano «un profondo disagio e un penoso malessere» dovuti a comportamenti del procuratore Triassi ritenuti «suscettibili di produrre l’inaccettabile rischio di una crisi dell’indipendenza interna dei sostituti dell’ufficio». Nell’esposto, inoltre, si fa riferimento a una «gestione verticistica» da parte del capo della Procura sfociato in episodi definiti «innumerevoli e preoccupanti» e tali da generare disagio nei sostituti ma anche nella polizia giudiziaria e nel personale amministrativo. Di qui il caso arrivato all’attenzione del Csm, con la Prima Commissione che aveva proposto il trasferimento d’ufficio di Triassi e il Plenum che ha congelato la pratica, rinviando la decisione a quando la vicenda sarà definita dalla Procura generale della Cassazione. Ci vorrà tempo, quindi, forse anche un anno. E nel frattempo, alla Procura di Nola, si continuerà a lavorare in questo clima. Intanto, il procuratore aggiunto Stefania Castaldi, anch’ella finita nel mirino di alcune critiche, ha già chiesto e ottenuto il trasferimento a Santa Maria Capua Vetere, mentre resta sotto i riflettori il caso del procuratore Triassi. I magistrati firmatari della petizione sono critici nei confronti del Csm. «Non si comprende come – si legge nella petizione firmata da oltre 250 magistrati – a fronte di un’iniziativa volta a denunciare una situazione di penoso malessere, sia stata di fatto paventata, senza ancorarla ad alcuna circostanza oggettiva, l’ipotesi di un complotto ai danni del procuratore e del procuratore aggiunto». I firmatari della petizione ritengono che alcuni consiglieri del Csm, intervenuti a favore della sospensione che ha di fatto bloccato il trasferimento di Triassi, «hanno adombrato l’idea che l’iniziativa assunta dai sostituti fosse finalizzata a danneggiare la dirigenza (per motivi, tuttavia, sconosciuti) e non, invece, a garantire il buon andamento dell’ufficio e la necessaria serenità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. «Sarebbe stata opportuna – scrivono – maggior cautela da parte dei consiglieri intervenuti». «L’ipotesi del complotto – aggiungono i firmatari della petizione, sottolineando l’attualità del problema in considerazione del fatto che l’ultimo esposto risale al 22 giugno scorso – ha, comunque, determinato un inaspettato cambio di prospettiva nell’esame della grave situazione in cui versa attualmente la Procura di Nola. L’esigenza di verificare una mera congettura – concludono – è parsa più rilevante, più urgente, rispetto a quella di ristabilire la piena funzionalità dell’ufficio».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

“Ungheria P3, P4… Non logge ma lobby. Si indaghino le connessioni con la massoneria riconosciuta”. L’ex Gran Maestro del Grande Oriente Giuliano Di Bernardo intervistato su FQ MillenniuM in edicola da sabato 10 luglio. “La Commissione antimafia deve continuare a lavorare su logge e criminalità organizzata, ma Italia Viva si oppone”. Infosannio e Dagospia il 13 luglio 2021 da twnews.it – “Spesso si fa un abuso denominando “loggia” questi gruppi di potere che con le vere logge della massoneria non hanno nulla a che fare”. Parola di Giuliano Di Bernardo, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia negli anni drammatici che vanno dal 1990 al 1993 – anno in cui si dimise denunciando le connessioni fra massoneria e criminalità organizzata – intervistato da Marco Lillo su FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da sabato 10 luglio con inchieste e approfondimenti sulla massoneria. “La massoneria che ho conosciuto io era una cosa seria, tutt’altra cosa da queste situazioni”, continua Di Bernardo, incalzato sulla reale natura della “Loggia Ungheria” di cui si legge nei verbali dell’avvocato Piero Amara. “La P2 era una loggia del Grande Oriente d’Italia. Quindi tutto ciò che ha fatto Gelli lo ha fatto all’interno della massoneria. Queste logge di cui si parla nelle più recenti inchieste, la P3, la P4, ora la Loggia Ungheria, tutt’al più sono delle lobby impropriamente denominate “massoneria”. Però potrebbero esserci legami reali con le logge massoniche. Per questo dico che i magistrati devono andare fino in fondo”. Oggi la massoneria è “un’organizzazione che avendo perso potere è quasi innocua, un simulacro di quella massoneria che partendo dal 1700 ha cambiato il destino dei popoli”, continua l’ex Gran maestro, che ha appena pubblicato l’autobiografia “La mia vita in massoneria”. “La massoneria italiana poi è diversa da tutte le altre. Solo qui ci sono rapporti così stretti con organizzazioni criminali come la mafia e la ’ndrangheta”. La Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi nel 2017 “ha tratto delle conclusioni di una gravità incredibile: nelle logge della Gran Loggia Regolare d’Italia ci sono affiliati non identificabili nel 73,3 per cento dei casi in Calabria e Sicilia. Anche nel Grande Oriente, in percentuale molto minore, secondo la commissione Bindi ci sono molti affiliati non identificabili. Bisogna riprendere quel lavoro. Ne ho parlato anche con il presidente Nicola Morra. Ma dice che non c’è molta volontà di andare avanti da parte soprattutto degli altri partiti come Italia Viva”.

Nell’intervista a FQ MillenniuM, Di Bernardo ribadisce la certezza che esista un elenco di iscritti alla Loggia P2 ancora segreto, oltre alla lista sequestrata nel 1981 a Castiglion Fibocchi e poi resa pubblica. “Ho la certezza assoluta che questo elenco esista. Quando ero Gran Maestro, Licio Gelli mi fece sapere tramite un suo inviato che mi avrebbe dato quell’elenco se io l’avessi fatto rientrare nel Grande Oriente d’Italia. Il nome dell’emissario lo faccio per la prima volta nel libro: era Marco Urbini, un commerciante molto agiato con una bellissima casa lungo l’Arno, molto amico di Gelli che lo sostenne contro di me alle elezioni per il Gran Maestro dopo il periodo di Armando Corona. Dopo la mia vittoria Urbini mi disse: ‘Gelli è disposto a darti qualsiasi cosa se tu lo fai rientrare. Fissa tu una cifra’. Respinsi le sue offerte come già avevo fatto in passato”. Sul fronte politico, Di Bernardo racconta di aver ricevuto da Bettino Craxi, e con l’accordo di Giulio Andreotti, “il compito di provare a portare avanti la costituzione di un nuovo governo. Non tanto in qualità di Gran Maestro, ma perché si fidavano entrambi di me”. Era l’epoca del “Caf”, alla base c’era “un accordo segretissimo tra Craxi e Andreotti che prevedeva Andreotti alla presidenza della Repubblica e Craxi a Palazzo Chigi”. Poi però “tutto finisce con l’inizio dell’indagine Mani Pulite che distrugge il progetto e impedisce la formazione del governo”. E la politica di oggi? “Draghi è l’unica ancora di salvezza per l’Italia. Solo lui ha gli appoggi giusti in  Europa e fuori. Per me dovrebbe continuare come presidente del consiglio e Mattarella alla fine penso che resterà un anno in più al Colle. Dopo la sua riconferma e le elezioni politiche, chiunque vinca, dovrebbe riconfermare anche Draghi a Palazzo Chigi per terminare il lavoro promesso all’Europa. Poi, passato questo periodo di un anno o poco più, Draghi potrà dare il cambio a Mattarella al Quirinale”.

È scoppiata la guerriglia. La magistratura ha perso tutto (anche l’onore), ma non il suo potere sulla stampa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Proviamo a fare un riassunto delle ultime giornate, così, per semplicità di ragionamento.

1) Il dottor Davigo – raggiunto da un avviso di garanzia per aver inguattato il verbale con le dichiarazioni dell’avvocato Pietro Amara, che rivelava l’esistenza di una potentissima Loggia Ungheria – si difende vuotando il sacco e chiamando a correi, nell’ordine: Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione (cioè in pratica numero 1 della magistratura); David Ermini, vicepresidente del Csm; i Cinquestelle Fulvio Gigliotti e Nicola Morra, rispettivamente capo dei 5 Stelle in Csm e presidente dell’antimafia; Giuseppe Cascini, capo di fatto di Magistratura democratica; e infine il Procuratore di Milano Greco, il suo aggiunto e vari altri magistrati e politici di peso. Un terremoto.

2) Giovanni Salvi, chiamato in causa da Davigo, replica chiedendo che sia rimosso dal suo incarico (e forse inibito a fare mai più iil Pm), il sostituto milanese Paolo Storari, e cioè l’uomo che ha scoperto la Loggia Ungheria ma non ha potuto indagare perché bloccato dal procuratore. Salvi dice: puniamo lui, non chi l’ha bloccato.

3) Una commissione del Csm – con il voto determinante proprio di Gigliotti, insieme a due consiglieri “casciniani” di stretta osservanza, e a Sebastiano Ardita (che è uno dei magistrati accusati da Amara di far parte della Loggia Ungheria) – vota una mozione di censura della riforma Cartabia, e chiede che il plenum del Csm approvi questa censura. La censura, per ora, viene bloccata da un intervento secco del Presidente della Repubblica.

4) Luca Palamara, interrogato a Perugia, dichiara che Salvi in persona gli aveva pagato una cena per chiedere voti a favore della sua nomina a Procuratore generale della Cassazione.

5) La Procura di Milano scende in campo compattissima contro Roma, contro il Csm, contro Salvi e – di passaggio – anche contro il procuratore Greco, e sottoscrive un documento molto aspro a difesa del Pm Storari. Violando, probabilmente, qualche regola, e rivendicando la propria autonomia da tutto e il proprio potere, ma sbattendo sul tavolo l’evidente ingiustizia verso Storari e la chiarissima volontà di insabbiamento da parte di Roma, del Csm, e del procuratore generale della Cassazione. Il documento è firmato non solo dalla stragrande maggioranza dei sostituti e degli aggiunti, ma anche da un gran numero di Gip e di giudici. Una rivolta in piena regola. Senza precedenti nella storia della repubblica.

Ce n’è abbastanza? Gli stati maggiori della magistratura sono travolti da un terremoto, in gran parte autoprodotto, e ora stanno vivendo uno stato di guerriglia permanente, con scambio di fendenti e accuse davvero sanguinose. I cittadini guardano, e alcuni di loro si chiedono: ma è questa gente qui che poi dovrà giudicare i nostri eventuali misfatti?

Cerchiamo di dare un filo a tutti questi avvenimenti. Il filo è abbastanza semplice: un sostituto procuratore di Milano, Paolo Storari, interrogando il famoso avvocato Amara (che parecchi altri magistrati avevano già interrogato ma forse senza andare molto a fondo) scopre che probabilmente esiste una loggia segreta, chiamata Loggia Ungheria – più o meno massonica – la quale raduna magistrati, avvocati, dirigenti delle forze dell’ordine, giornalisti e politici, e che in vari modi è in grado di dirigere o comunque di condizionare il funzionamento della magistratura. Sia nella fase delle nomine, e dunque dell’organizzarsi del potere, sia nel momento degli avvisi di garanzia ai politici e delle sentenze, o almeno delle sentenze importanti. Questa rivelazione è una bomba atomica. Il Pm Storari viene invitato dai suoi superiori a lasciar perdere. Lui si rivolge a Piercamillo Davigo, il savonarola della magistratura del ventunesimo secolo, e denuncia il fatto. Davigo, a quanto sembra, ne parla un po’ con tutti, ma nessuno ne vuole sapere. Alla fine è una talpa, forse la segretaria di Davigo, che manda il plico ad alcuni giornali (tra i quali Il Fatto). Ma anche i giornali ignorano. L’omertà raggiunge livelli inauditi e dà la sensazione netta di una Spectre protetta da lamiere invalicabili.

Alla fine le carte finiscono in mano al magistrato Nino Di Matteo, e a Di Matteo tutto puoi dire (e noi glielo diciamo spesso) meno che accusarlo di essere un dipendente del potere. E infatti lui grida che il re è nudo, come fece il bambino della favola, e rende noto il dossier Storari.

Voi dite: a quel punto il gioco si spezza? Macché! I magistrati continuano a fare come pare a loro, le gerarchie restano quelle, nessuno si dimette, ai giornali viene imposto di mettere la sordina a questa Loggia Ungheria, tutto finisce nel silenzio tanto da dare a Giovanni Salvi la sensazione di potere, senza provocare contraccolpi, chiedere la rimozione del magistrato colpevole di avere parlato di questa Loggia.

E invece scoppia la rivolta. E parte da Milano, che è una Procura che non ha mai sopportato il potere romano. E così si arriva a questo documento dei 54 magistrati milanesi, che poi diventano cento e in serata 150, cioè della stragrande maggioranza dei magistrati, che sparano a palle incatenate. Obiettivo, un po’ dichiarato e un pop’ sottinteso, il Csm e la Procura generale.

E ora? Il partito dei Pm stavolta è del tutto impreparato. Si sentiva ancora forte, aveva lanciato l’offensiva contro il governo. Ora però sbanda. Potrà ignorare la sberla ricevuta da Milano?

E la politica potrà continuare a far finta di nulla? Quello che più colpisce in questo marasma è proprio la politica. Guarda, magari sorride, tace. Può pensare che tutto quello che sta succedendo non la riguardi?

Il paese si trova in mano a una magistratura del tutto delegittimata nei suoi vertici. Si sta allargando l’area di quelli che ora capiscono che quel gruppo degenerato di potere che si è impossessato della giustizia italiana, ha gettato nel fango ogni idea di giustizia, che i processi non sono affidabili, che le riforme ballano sotto il ricatto di gruppi sovversivi di magistrati e giornalisti. La politica tace? Subisce il ricatto dei ragazzi di Conte e Travaglio? Si nasconde dietro l’idea che la giustizia è cosa che riguarda solo la magistratura? Oppure nelle prossime ore assisteremo finalmente all’emergere di qualche barlume di coraggio? Si sono mossi persino i magistrati milanesi, diobuono, possiamo sperare in un sobbalzo di coscienza di qualche politico?

P.S. Quale può essere il sobbalzo? Semplicissimo: chiedere che si sciolga il Csm. Come si può pensare di lasciare la Giustizia italiana nelle mani di un Csm che ormai ha perso ogni credibilità e anche ogni dignità. Composto in parte non piccolissima da elementi chiamati in causa nel caso Palamara e nel caso Storari, eletti grazie alla pressioni delle lobby, delle correnti, dei gruppetti di potere, in un gioco diabolico di pressioni e di ricatti? E forse alla mercé di questa famosa Loggia Ungheria, che se esiste è una pericolosissima associazione a delinquere.

Ogni minuto che il Csm resta al suo posto è una nuova offesa all’idea stessa di giustizia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Amara e la «loggia Ungheria», le due verità su quando davvero iniziarono le indagini. Le indagini per verificare se Piero Amara, ex legale esterno di Eni, stesse rivelando un’associazione segreta chiamata Loggia Ungheria o stesse calunniando massime cariche dello Stato sono state fatte o no, dalla Procura di Milano? Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2021. Ma insomma, queste benedette indagini per verificare se l’ex legale esterno Eni Piero Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020 stesse disvelando un’associazione segreta denominata Ungheria o stesse calunniando «massime cariche dello Stato», furono fatte o no dalla Procura di Milano? Ha cioè ragione ora il procuratore aggiunto Laura Pedio, che nella relazione del 6 maggio scorso — assunta dal pg di Cassazione Giovanni Salvi per chiedere al Csm di trasferire d’urgenza il pm Paolo Storari— assicura «facilmente dimostrabile quante e quali attività istruttorie» siano state fatte all’epoca? Oppure, come sostiene invece il contitolare pm Storari, le verifiche su Ungheria per separare il vero dal falso non furono nemmeno iniziate per 4 mesi dai vertici della Procura di Milano sino a maggio-giugno 2021? Cioè sino a dopo che in aprile, per aggirare questa asserita inerzia investigativa, Storari consegnò copie word dei verbali segretati di Amara all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo, che fuori da procedure formali ne riferì al vicepresidente Csm David Ermini, a molti altri consiglieri Csm, e al pg di Cassazione Salvi, la cui telefonata al procuratore Francesco Greco determinò a Milano il 12 maggio 2021 la prima iscrizione della notizia di reato? Una inedita risposta sembra arrivare proprio da Pedio. Non nella sua attuale relazione a Greco, e quindi al pg Salvi. Ma in una mail agli atti con la quale il 17 aprile 2020 scriveva a Storari: «Dovremmo parlarne con Francesco (Greco, ndr). Ha perplessità sull’opportunità di cominciare un’indagine sulla quale ci sono dubbi di competenza. Qualche perplessità ce l’ho pure io, anche perché dobbiamo definire il procedimento Eni con priorità assoluta. Temo che l’avvio dell’altra indagine ci possa impegnare eccessivamente e portare a un risultato dubbio». Parrebbe di ricavarne dunque tre cose. Primo: che se il 17 aprile 2020 ancora si discuteva di «cominciare», vuol dire che quantomeno a quella data nessuna effettiva indagine era stata avviata sui verbali resi da Amara su Ungheria da dicembre 2019. Secondo: che l’esame dei presupposti di legge per iscrivere o meno una notizia di reato sarebbe invece stato fatto dipendere da un’altra «priorità assoluta». Terzo: che questa priorità era «il procedimento Eni», col timore che verifiche sull’attendibilità di Amara sulla loggia Ungheria comportasse un «risultato dubbio». Assai differente è l’attuale prospettiva che Pedio propone, a tratti con sdegno, nella relazione del 6 maggio in cui ribadisce che Storari non formalizzò mai insanabili dissensi al di là di fisiologiche dialettiche tra colleghi, e gli attribuisce invece «la volontà di inquinare l’attività investigativa, o di favorire chi in quelle vicende era coinvolto», o (se riteneva false le dichiarazioni di Amara) «di accrescerne la portata diffamatoria». Al netto del fatto che «si era entrati in lockdown dall’8 marzo al 3 giugno 2020, la polizia giudiziaria era in smart working, tutto era rallentato e si riusciva a malapena a garantire i servizi essenziali», Pedio snocciola e rivendica ben 25 atti di indagini sino all’iscrizione il 12 maggio 2020. Cronologia entro la quale riepiloga o ragionamenti sul da farsi, o incontri generici con colleghi di altre città, o atti istruttori compiuti sì ma nel fascicolo n.12333/17 sul complotto Eni, che ora Pedio conteggia e ascrive al fascicolo su Ungheria n.12675/20. E lo fa perché argomenta che «molte interconnessioni» facevano sì che, dalla «partenza dell’istruttoria il 5 giugno» sino al 9 dicembre 2020, «l’attività istruttoria svolta nell’uno» (il fascicolo Eni con 50 audizioni di testi) «aveva influenza anche sull’altro», il fascicolo su Ungheria (13 audizioni) smistato poi il 30 dicembre 2020 alla Procura di Perugia. La vice di Greco rimprovera a Storari «iniziative non concordate», come quando in un interrogatorio contestò ad Amara una circostanza falsa «con toni molti aspri, creando un certo imbarazzo a me a ai colleghi perugini». Lamenta che il collega «solo l’8 marzo 2021» avesse affidato quella perizia informatica concordata invece in gennaio» sui verbali anonimi di Amara portati in Procura da un giornalista del Fatto, e qui taccia Storari d’aver minimizzato la fuga di notizie apposta per celare ai colleghi d’aver dato in aprile a Davigo quegli stessi verbali, e di essersi invece fissato con l’idea di arrestare come inquinatori Amara e Armanna. E quando nell’aprile 2021 i pm di Roma e Perugia scoprono che la mittente degli anonimi ai giornali era l’ex segretaria al Csm di Davigo, Pedio accusa Storari «di essersi reso quasi irreperibile». Ora, «turbata e preoccupata», nella relazione chiede a Greco «di essere tutelata per il futuro», e attribuisce a Storari «un’infedeltà grave, oltraggio e danno innanzitutto nei miei confronti» quando «ha compromesso subdolamente l’indagine coassegnata, ha proseguito in palese conflitto di interessi, ha tenuto condotte fuorvianti sulle fughe di notizie, messo a rischio la nostra stessa sicurezza, e portato discredito a Lei e alla Procura».

"Ma questa parte della storia («il dito»), rappresenta nella ricostruzione di Davigo «un aspetto marginale» rispetto a ciò che più gli interessa. «La luna», ovvero «i mesi preziosi persi a Milano» nell'inerzia investigativa, a dispetto della rilevanza del contenuto di quei verbali" (Piercamillo Davigo).

GIUSEPPE SALVAGGIULO per la Stampa il 18 luglio 2021. Dal primo giorno, anche nelle sedi istituzionali, la linea difensiva di Piercamillo Davigo si è basata su quattro argomenti: la legittimità della ricezione dei verbali dal pm milanese Paolo Storari, «in quanto a un membro del Csm non è opponibile il segreto»; la differenza tra verbali autentici e firmati (mai avuti) e «bozze computerizzate» in formato word e non firmate, ricevute da Storari e portate a Roma dopo un mese, ai primi di maggio 2020, «come appunti a supporto della memoria»; la doverosità del suo comportamento successivo, informando «con cautele estreme e nel rispetto delle regole, cristallizzate nelle circolari, i membri del comitato di presidenza del Csm» (Ermini e Salvi subito, Curzio a luglio) e altri cinque componenti dell'organo, perché sapessero che due loro colleghi, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti (poi dimessosi per i rapporti con Palamara), erano citati nei verbali da Amara come appartenenti alla loggia Ungheria; l'impossibilità di formalizzare queste comunicazioni, «cosa peraltro non richiesta da nessuno dei membri del Csm con cui avevo parlato», proprio per tutelare il segreto, che altrimenti «sarebbe durato venti minuti» ottenendo la vanificazione dell'indagine sulla loggia, effetto opposto a quello da lui desiderato. Ma questa parte della storia («il dito»), rappresenta nella ricostruzione di Davigo «un aspetto marginale» rispetto a ciò che più gli interessa. «La luna», ovvero «i mesi preziosi persi a Milano» nell'inerzia investigativa, a dispetto della rilevanza del contenuto di quei verbali. Motivo, questo, che lo indusse a una serie di comportamenti inediti e irrituali. Compresa la sollecitazione, nei colloqui al Csm, a portare la vicenda a conoscenza del Quirinale, il cui inquilino è presidente dello stesso Csm e capo delle forze armate, istituzioni a cui appartengono esponenti di spicco indicati nei verbali dall'avvocato Piero Amara come associati alla loggia paramassonica Ungheria. Sono diverse le circostanze che leggendo i verbali di Amara suscitarono il suo «allarme per la possibile esistenza di una nuova P2». Alcune si riferiscono a episodi della sua esperienza al Csm, che quella lettura illuminava di luce diversa. Ma la prima riportava la memoria a una cena romana a cui, almeno dieci anni prima, era stato invitato da Cosimo Ferri, all'epoca consigliere del Csm per Magistratura Indipendente, corrente dello stesso Davigo che era giudice in Cassazione. Arrivato al ristorante, Davigo trovò già seduti con Ferri altri due commensali. Una, Ferri gliel'aveva preannunciata: Celestina Tinelli, avvocatessa emiliana designata dal Pd come membro laico del Csm. L'altro, invece, fu una sorpresa. Quando porse la mano presentandosi, ricorda oggi Davigo, «mi terrorizzò». Si trattava di Giancarlo Elia Valori, che conosceva di fama «come unico membro espulso della P2». Mentre la Tinelli taceva, Valori, ostentando confidenza con Ferri, monopolizzò la conversazione interloquendo con lui «con modi ambigui». Raccontava a Davigo di un vecchio scambio epistolare con l'ex procuratore di Milano ai tempi di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli, a testimonianza di una consuetudine che meritava ascolto. Dava la sensazione di voler portare il discorso in una direzione precisa, nota anche a Ferri. «Mi si gelava il sangue. Mi guardavo attorno. Pensavo: siamo a Roma, se qualcuno mi vede a cena con uno della P2? Addentai due antipasti, accampai una scusa e me ne andai. Da quel momento interruppi i rapporti con Ferri». Nel primo dei verbali consegnati da Storari a Davigo, Amara definisce Elia Valori «capo della cellula messinese della loggia Ungheria» e sostiene che «Ferri ricopre un incarico molto importante in Ungheria». Interrogato a Potenza un mese fa, Amara ha derubricato Ungheria da associazione segreta a fini eversivi a «semplice» associazione a delinquere finalizzata a plurimi abusi d'ufficio. Ma ha consolidato il ruolo di Ferri come «mente di tutto il sistema». Dichiarazioni ora in mano alla Procura di Perugia, a cui i verbali di Amara sono stati trasmessi per competenza sei mesi fa. Venerdì, nell'udienza preliminare del processo Palamara, il procuratore Raffaele Cantone ha chiarito di considerare Amara «un teste da prendere con le molle» e «utilizzare solo con adeguati riscontri», non certo «un pifferaio magico» da seguire estasiati nelle strade della Hamelin giudiziaria.

Quel segreto che tutti sapevano. Stefano Zurlo il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. C'erano una volta le fughe di notizie: i verbali scomparivano dagli uffici giudiziari e riapparivano sulle prime pagine dei giornali. C'erano una volta le fughe di notizie: i verbali scomparivano dagli uffici giudiziari e riapparivano sulle prime pagine dei giornali. Oggi scopriamo che le audizioni teoricamente segrete sono come le Madonne pellegrine portate in processione da un paese all'altro. E in effetti ora sappiamo che le superblindate affermazioni dell'avvocato Amara erano state viste l'anno scorso da una piccola folla di titolate autorità. L'elenco fatto da Piercamillo Davigo nella sconcertante intervista concessa ieri al Corriere della sera lascia sbalorditi: il vicepresidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il laico leghista Stefano Cavanna, i consiglieri Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, poi l'allora 5 Stelle Nicola Morra. Molte persone avevano capito almeno a grandi linee che dietro le quinte della celebratissima e per dogma immacolata procura di Milano si combatteva una guerriglia feroce e perfida sulla credibilità di Amara e sulla gestione dei suoi interrogatori. Davigo, che aveva ricevuto le carte sottobanco dal pm Paolo Storari, si mosse a ventaglio: a Ermini le diede stampate, ad altri le mostrò ma a qualcuno no, a Morra ricordò due volte che era tenuto al segreto che intanto circolava come veleno nelle vene della giustizia italiana. Salvi, secondo questa versione, non apparve neppure sorpreso, segno che probabilmente era già stato informato per altra via. Tutto in ordine sparso, con comportamenti degli autorevoli protagonisti a dir poco naïf. Sembra il segreto di Pulcinella, è l'approssimazione confusa e pasticciata, a meno di non immaginare la malafede, con cui funzionano i meccanismi del potere giudiziario nel nostro Paese. Tutti, a cominciare da Davigo, citano leggi, pareri, circolari che li abilitano ai comportamenti tenuti, ma il cortocircuito è evidente. C'è un degrado dell'istituzione e dei suoi membri che si sono rapportati come condomini alle prese con i loro millesimi e relative beghe, scambiando non si capisce bene se opinioni, allarmi, invettive, considerazioni esistenziali. Fino alla conclusione paradossale: Nino Di Matteo riceve per posta, altro capitolo oscuro, gli stessi testi e in plenum alza il sipario sull'intrigo, beccandosi ora la reprimenda di Davigo, che per decenza, dopo tutto questo pastrocchio, avrebbe almeno potuto evitare l'imbarazzante tirata d'orecchie al collega. Sullo sfondo appaiono querelle sbalorditive per chi crede che il Csm non sia come il mercato, o peggio: Davigo all'epoca non parlava più con l'ex compagno di corrente Sebastiano Ardita e così le incomprensioni personali si mischiano alle regole del diritto. Il segreto intanto correva di bocca in bocca. Nessuno si è mosso, tanti, troppi erano a conoscenza. Stefano Zurlo

Il caso dei verbali Storari-Amara. Loggia Ungheria, parla Davigo: “A Ermini diedi verbali, né lui né Salvi mi dissero di denunciare”. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2021. A una settimana dalla notizia dell’indagine a suo carico a Brescia, con l’ipotesi di reato di rivelazione del segreto d’ufficio, Piercamillo Davigo parla per la prima volta del caso dei verbali segreti del pm milanese Storari consegnati allo stesso ex consigliere Csm, resi dal plurindagato Piero Amara, ex avvocato esterno Eni, sulla presunta loggia segreta "Ungheria". Dall’ex pm del pool di Mani Pulite arriva, ovviamente, una chiara difesa del suo operato, con attacchi agli altri ‘protagonisti’ della vicenda, in particolare il vicepresidente del Csm David Ermini e il procuratore generale delle Cassazione, Giovanni Salvi. Davigo spiega in una intervista al Corriere della Sera che “nell’aprile 2020 Storari mi descrisse una situazione grave, e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un’associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto ad iscrizioni, che il codice invece richiede ‘immediatamente’. Per evitare possibili conseguenze disciplinari gli consigliai di mettere per iscritto. Pure se una Procura non crede a un dichiarante, non può sottrarre al controllo del gip la notizia di reato: deve iscriverla e poi chiede l’archiviazione. Storari mi diede file word del pc a supporto della memoria”. A inizio maggio, continua Davigo, “Storari mi disse che nulla era cambiato e anzi che Greco lo aveva rimproverato per la sollecitazione. A questo punto ritenni urgente avvisare il Csm”. Qui Davigo spiega di aver informato “il vicepresidente Ermini. In uno dei colloqui successivi glieli diedi, stampati, tutti quelli che avevo, ‘così li puoi consultare’. Anche perché venivano chiamati in causa consiglieri sia del Csm in carica sia del precedente. Ermini convenne sulla serietà e gravità della situazione”. Nessuno però, accusa Davigo, “si è sognato di dirmi di formalizzare. Non lo fece Ermini e non lo fece Salvi. Se mi avessero chiesto di formalizzare, avrei fatto subito una relazione di servizio – sottolinea – Salvi, se riteneva irregolare la procedura, essendo titolare dell’azione disciplinare e anche autorità giudiziaria e anche vertice della magistratura inquirente, poteva e doveva interrogarmi subito come persona informata sui fatti”. Invece, racconta l’ex pm di Mani Pulite, Salvi “non lo ha fatto, salvo poi prendersela con Storari. Se mai forse ho sbagliato io a illudermi che l’intervento del procuratore generale, cioè la telefonata a Greco, dopo la quale almeno fu iscritta a Milano la notizia di reato, potesse aver avviato a risoluzione la questione – aggiunge – La verità è che Storari in un Paese serio sarebbe destinatario di un encomio per aver cercato di fare rispettare la regola, invece è sconfortante sia sottoposto ad azione disciplinare”. Secondo Davigo, che evoca tra le righe una sorta di "complotto", con la sua azione “forse ho compromesso la mia permanenza al Csm”, in riferimento al pensionamento avvenuto nell’ottobre 2020. Ma per l’ex consigliere “non potevo non riferire a chi di dovere una situazione gravissima che Storari mi aveva segnalato nel mio ruolo istituzionale. Io credo di aver servito con disciplina e onore la giustizia. E non credo sarà questa accusa, infondata, a sporcare 42 anni di servizio”.

Davigo si trasforma nel nuovo Palamara. E i suoi avvertimenti arrivano a sfiorare il capo dello StatoDavigo si trasforma nel nuovo Palamara. E i suoi avvertimenti arrivano a sfiorare il capo dello Stato. Luca Fazzo il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex consigliere del Csm tira in ballo alti magistrati per discolparsi dell'accusa di aver diffuso i verbali dell'avvocato Amara sulla massoneria. In un'intervista al "Corriere" manda messaggi allusivi a Matterella. Dice al Giornale una fonte che queste cose le conosce da vicino: «Quella di Davigo a ben guardare è una nemesi. Con le sue dichiarazioni, lui si candida a diventare il nuovo Palamara. Quel Palamara che proprio lui ha fatto cacciare dalla magistratura». Può sembrare un paradosso, ma forse non lo è del tutto. Perchè nelle ultime ore accadono due fatti, strettamente legati tra loro. Parte ufficialmente l'operazione finalizzata a cacciare dalla Procura di Milano Paolo Storari, il pm che - in un cocktail esplosivo di coraggio, indignazione e incoscienza - consegnò a Davigo i verbali dell'avvocato Pietro Amara sulla misteriosa loggia Ungheria. E in contemporanea Davigo rilascia una torrenziale intervista al Corriere della sera in cui oltre a difendere Storari («meriterebbe un encomio») difende soprattutto se stesso. Lo fa un po' dicendo, un po' tacendo e soprattutto mandando una serie di segnali trasversali, come per evocare i nomi di chi, se le cose buttassero male, potrebbe tirare in ballo. E in questo valzer di citazioni non risparmia nemmeno il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Davvero, da questo punto di vista, sembra rivedere il Palamara di uno o due anni fa: quando, investito dalle inchieste giudiziarie, cercava in qualche modo di stare a galla a colpi di segnali, facendo capire di avere fatto parte di un sistema dove le colpe erano trasversalmente distribuite. Davigo (che con Palamara condivide almeno tre pezzi di Dna: entrambi ex pm, ex membri del Csm, ex presidenti dell'Associazione nazionale magistrati) sa anche lui di essere a rischio. Non può più essere cacciato dalla magistratura, perchè - suo malgrado - è in pensione. Ma sa che il capo di incolpazione disciplinare fatto partire contro Storari dalla Procura generale della Cassazione lo chiama in causa direttamente. E questo peserà non poco sull'indagine che a Brescia lo vede indagato per rivelazione di segreti d'ufficio: per avere prima «istigato» Storari a consegnargli i verbali di Amara, e poi per averli diffusi a mezza Roma. Nell'intervista, Davigo fa una serie di nomi di personaggi cui afferma di avere riferito il contenuto dei verbali di Amara o addirittura di averne consegnato copia: sempre informalmente, sempre brevi manu. Poichè per la Procura di Brescia Davigo ricevette illegalmente le carte da Storari, i nomi che fa Davigo sono una serie di chiamate in correità, trattandosi - dal primo all'ultimo - di pubblici ufficiali che avrebbero avuto l'obbligo di denunciarlo. Il primo della lista è Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, il medesimo che l'altro giorno ha fatto partire il procedimento disciplinare contro Storari: il quale, secondo Davigo, non solo non si scandalizzò nel sapere che Davigo conosceva i verbali, ma anzi mostrò di conoscere già, non si sa bene come, il contenuto delle dichiarazioni di Amara. Poi Davigo tira in ballo Giuseppe Cascini, membro del Csm (è il passaggio più surreale dell'intervista: gli avrebbe rivelato i verbali per avere da lui «una valutazione sulla attendibilità di Amara», al di fuori di qualunque procedura), e altri tre membri del Csm, il laico Stefano Cavanna e i togati Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Ma il nome più delicato è quello di un altro del Csm, il grillino Giuseppe Gigliotti. Il problema è che Gigliotti era il presidente della sezione disciplinare del Csm che decise la cacciata di Luca Palamara dalla magistratura. Ora si scopre che sia Davigo (membro anche lui della disciplinare) che Gigliotti avevano in mano, al momento del voto, verbali che gettavano una luce nuova su tutto il caso: perchè Amara indicava in Luigi de Ficchy, il capo della Procura di Perugia che indagava su Palamara, uno dei membri della loggia Ungheria. Ma fecero finta di niente, e cacciarono Palamara: che ora annuncia esposti a raffica per riaprire il caso. Poi c'è il passaggio che porta verso il Quirinale. Davigo dice di avere raccontato e poi consegnato i verbali a David Ermini, vicepresidente del Csm, l'uomo che di fatto rappresenta nel consiglio il presidente Mattarella. Chiede il giornalista del Corriere: Ermini le disse che ne avrebbe parlato con Mattarella? Risponde Davigo: «Preferisco qui non coinvolgere altre persone, ho riferito ai pm di Roma e di Brescia». É un silenzio pesante, perché è chiaro che se Ermini non avesse detto a Davigo nulla su un eventuale rapporto a Mattarella, alla domanda del cronista bastava rispondere «Ermini non mi disse niente». Invece così il sasso è lanciato nell'acqua. Proprio come faceva Palamara.

DAGOSPIA il 24 luglio 2021. LA VERSIONE DI DAVIGO: “NELL'APRILE 2020 STORARI MI DESCRISSE UNA SITUAZIONE GRAVE, CIOÈ CHE A QUASI 4 MESI DALLE DICHIARAZIONI DI AMARA I SUOI CAPI NON AVEVANO ANCORA PROCEDUTO AD ISCRIZIONI, CHE IL CODICE INVECE RICHIEDE "IMMEDIATAMENTE". GLI CONSIGLIAI DI METTERE PER ISCRITTO. A INIZIO MAGGIO MI DISSE CHE NULLA ERA CAMBIATO E RITENNI URGENTE AVVISARE IL CSM. E INFORMAI IL VICEPRESIDENTE ERMINI” - “SALVI, SE RITENEVA IRREGOLARE LA PROCEDURA POTEVA E DOVEVA INTERROGARMI SUBITO” - "I VERBALI AI GIORNALI E A DI MATTEO SPEDITI DA MARCELLA CONTRAFFATTO? TUTTORA NON MI CAPACITO DI QUANTO AVREBBE FATTO".

 «Tuttora non mi capacito di quanto avrebbe fatto, e delle modalità sconcertanti con cui l'avrebbe fatto. L'ho sempre giudicata affidabile, e tale la giudicava chi al Csm aveva lavorato con lei prima di me». 

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 24 luglio 2021.  

Dottor Davigo, perché non avvisò in modo formale il Csm dell'asserita stasi investigativa della Procura di Milano sui verbali di Amara?

«Non si poteva in quel caso. Se la procedura da seguire non consente di mantenere il segreto, allora non si può seguire. Al Csm, nonostante le cautele adottate, vi era stata la dimostrazione pochi mesi prima sulla notizia dell'indagine perugina su Palamara.

Nell'aprile 2020 Storari mi descrisse una situazione grave, e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un'associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto ad iscrizioni, che il codice invece richiede "immediatamente". 

Per evitare possibili conseguenze disciplinari gli consigliai di mettere per iscritto. Pure se una Procura non crede a un dichiarante, non può sottrarre al controllo del gip la notizia di reato: deve iscriverla e poi chiede l'archiviazione. Storari mi diede file word del pc a supporto della memoria».

Cioè i verbali: non le pare distinzione di lana caprina?

«Lo può pensare chi trova rilevante il contenitore anziché il contenuto. A inizio maggio Storari mi disse che nulla era cambiato e anzi che Greco lo aveva rimproverato per la sollecitazione. A questo punto ritenni urgente avvisare il Csm. E informai il vicepresidente Ermini». 

Solo a parole? O gli mostrò i verbali segretati? O glieli consegnò anche?

«In uno dei colloqui successivi glieli diedi, stampati, tutti quelli che avevo, "così li puoi consultare". Anche perché venivano chiamati in causa consiglieri sia del Csm in carica sia del precedente. Ermini convenne sulla serietà e gravità della situazione». 

Le disse che ne avrebbe parlato con il Quirinale?

«Preferisco qui non coinvolgere altre persone, ho riferito ai pm di Roma e Brescia». 

Poi lei ne parlò anche con il pg della Cassazione, Salvi.

«Non mostrò alcuna sorpresa, segno che doveva essere stato già informato».

Gli disse che lei aveva i verbali? Glieli fece vedere?

«No, non me lo chiese. Ma nemmeno mi disse "No, guarda che così non va bene..."». 

Il pg Salvi contesta nel disciplinare a Storari d'aver cercato di condizionare l'attività della Procura di Milano. Lei è in pensione, ma vale pure per lei, ed è accusa sanguinosa per un pm storico di Milano e Mani pulite.

«Quindi, se uno cerca di fare rispettare la legge, poi bisogna sentire il procuratore generale della Cassazione dire una cosa del genere che è fuori dal mondo? Nessuno si è sognato di dirmi di formalizzare. Non lo fece Ermini e non lo fece Salvi. Se mi avessero chiesto di formalizzare, avrei fatto subito una relazione di servizio.

Salvi, se riteneva irregolare la procedura, essendo titolare dell'azione disciplinare e anche autorità giudiziaria e anche vertice della magistratura inquirente, poteva e doveva interrogarmi subito come persona informata sui fatti. 

Eppure non lo ha fatto, salvo poi prendersela con Storari. Se mai forse ho sbagliato io a illudermi che l'intervento del procuratore generale - cioè la telefonata a Greco, dopo la quale almeno fu iscritta a Milano la notizia di reato - potesse aver avviato a risoluzione la questione.

La verità è che Storari in un Paese serio sarebbe destinatario di un encomio per aver cercato di fare rispettare la regola, invece è sconfortante sia sottoposto ad azione disciplinare». 

 Lei ha una tesi sul segreto alquanto controversa.

 «Non è opponibile al Csm e quindi ai membri (salvo a chi non lo possa conoscere per ragioni soggettive), e in ogni caso mai c'è violazione del segreto d'ufficio quando venga comunicato ad altro pubblico ufficiale tenuto al segreto».

A chi altri nel Csm mostrò i verbali o ne parlò?

«A Giuseppe Cascini (togato di Area, ndr ) lo dissi, e gli mostrai i verbali, perché mi serviva la sua valutazione di ex pm romano sull'attendibilità di Amara. A Giuseppe Gigliotti (laico indicato dal M5S, ndr ) lo dissi e gli mostrai i verbali perché si trovava a presiedere la sezione disciplinare Csm e lì stavano due dei magistrati additati da Amara.

A Stefano Cavanna (laico espresso dalla Lega, ndr ), solo sommariamente e senza mostrarglieli, perché a volte era in sezione disciplinare. A Giuseppe Marra e Ilaria Pepe (con Ardita e Davigo nel gruppo di Autonomia e Indipendenza, ndr ) perché volevano farmi riconciliare con Ardita, con il quale io non parlavo più già per pregresse vicende. A Marra li feci vedere, e poi, dopo ottobre 2020, quando cessai dal Csm, glieli diedi anche, dicendogli "te li lascio nel caso in cui il Comitato di presidenza Csm ritenesse di averne bisogno"». 

E Nicola Morra, allora M5S, che c'entra? Dice che voleva farla riappacificare con Ardita perché gli spiaceva aveste rotto voi due che eravate i suoi riferimenti nella politica giudiziaria.

«Ho incontrato il ministro Bonafede tre volte in circostanze ufficiali, mai in privato, mi sono sempre tenuto lontano dalla politica, compreso dai 5 Stelle, e quindi Morra non so se abbia fatto la politica giudiziaria del M5S con Ardita, di certo non l'ha fatta con me...

Venne come presidente della Commissione parlamentare Antimafia, insisteva anche lui sulla mia pacificazione con Ardita, io gli spiegai che non volevo per ragioni pregresse. 

E poi, raccomandandogli due volte che come pubblico ufficiale fosse vincolato al segreto, aggiunsi che oltretutto Ardita era anche indicato come appartenente a un'associazione massonica. L'alternativa era far dilagare il chiacchiericcio».

Ma non è contraddittorio che lei dica di aver così agito per rinvigorire un'indagine segreta, quando proprio la sua condotta ha finito per mettere in circolo la notizia?

 «La notizia non circolò per nulla, tanto che tre quarti dei membri Csm l'appresero solo nell'aprile 2021 dall'intervento al plenum Csm di Di Matteo, che trovo sorprendente abbia svolto in udienza pubblica anziché segreta». 

A spedire anonimi i verbali a Di Matteo, e prima a due giornali, per i pm di Roma fu colei che le faceva da assistente al Csm, Marcella Contraffatto. Lei ha sbagliato così tanto valutazione?

 «Tuttora non mi capacito di quanto avrebbe fatto, e delle modalità sconcertanti con cui l'avrebbe fatto. L'ho sempre giudicata affidabile, e tale la giudicava chi al Csm aveva lavorato con lei prima di me».

Ma non è che lei approfittò di Storari per guadagnarsi crediti al Csm, dove nell'estate 2020 si discuteva del suo poter restare o meno dopo i 70 anni a ottobre?

«Se mai l'esatto contrario: forse ho compromesso la mia permanenza al Csm. Ma non potevo non riferire a chi di dovere una situazione gravissima che Storari mi aveva segnalato nel mio ruolo istituzionale. Io credo di aver servito con disciplina e onore la giustizia. E non credo sarà questa accusa, infondata, a sporcare 42 anni di servizio».

Giovanni M. Jacobazzi per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2021. E ora chi chiederà scusa all'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio? ll gup di Perugia Piercarlo Frabotta, al termine del processo celebrato con rito abbreviato, ha stabilito che l'ex pg non ha commesso alcun reato discutendo con Luca Palamara del procedimento che riguardava l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. I fatti erano talmente noti da essere stati anche pubblicati un anno prima su tutti i giornali. Il classico segreto di Pulcinella. Fuzio, a maggio del 2019, era stato intercettato con il trojan mentre commentava alcuni dettagli del fascicolo aperto a Perugia nei confronti di Palamara per il reato di corruzione. In particolare, i viaggi pagati a Palamara dal faccendiere Fabrizio Centofanti ed il coinvolgimento nell'indagine perugina dell'avvocato Piero Amara. La conversazione fra i due finì, come spesso capita, su tutti i giornali. La fuga di notizie, su cui nessuno indagò, scatenò una polemica senza precedenti con lo scopo di costringere Fuzio alle dimissioni. Il pg della Cassazione, peraltro componente di diritto del Consiglio superiore della magistratura, provò a difendersi dicendo che non aveva violato alcun segreto in quanto si trattava di fatti stranoti alle cronache. Come, infatti, affermato questa settimana dal giudice Frabotta. Ma la campagna mediatica fu talmente forte che Fuzio dovette fare domanda di pensione con un anno di anticipo. Al suo posto verrà nominato Giovanni Salvi che da tempo aspirava a diventare il pg della Cassazione. «Coloro che sono coinvolti in queste vicende, al di là se poi saranno accertate responsabilità penali o disciplinari, facciano un passo indietro dando un segnale che consenta di recuperare credibilità», furono all'epoca le parole del pm romano Eugenio Albamonte, segretario delle toghe progressiste, fra i più accesi sostenitori delle dimissioni di Fuzio. E a ruota seguirono anche i vertici dell'Anm. Fuzio venne isolato da tutti, essendo stato scaricato a tempo di record anche dai colleghi di Unicost, la sua corrente. «I comportamenti», scrissero in un comunicato- «che emergono dalle cronache costituisconoun grave vulnus all'istituzione consiliare, oltre a essere lesivi dei valori fondanti di Unicost». «Il senso di responsabilità istituzionale che deve appartenere a chi ricopre incarichi di tale rilievo - aggiunsero le toghe di Unicost - impone non rimandabili scelte a tutela dell'istituzione giudiziaria e consiliare, per la credibilità della magistratura tutta». Amen. Tornando, invece, all'indagine di Perugia nei confronti di Palamara, gli avvocati dell'ex presidente dell'Anm hanno deciso di presentare alcune denunce per omissione di atti d'ufficio. Nel mirino è finito il consigliere grillino del Csm Fulvio Gigliotti. Tutto nasce dalla lunga intervista a Piercamillo Davigo pubblicata ieri dal Corriere. L'ex pm di Mani pulite ha ammesso di aver parlato dei verbali dell'avvocato Amara sulla loggia segreta Ungheria con diversi consiglieri del Csm. Primo fra tutti il pentastellato Gigliotti. Il consigliere grillino, pur a conoscenza delle rivelazioni di Amara, aveva poi presieduto, senza astenersi, il collegio della sezione disciplinare del Csm che aveva radiato Palamara dalla magistratura. «Presenteremo un esposto in Procura per fare chiarezza su questa vicenda inquietante», proseguono i legali di Palamara, gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Buratti. Amara, infatti, secondo i pm umbri, avrebbe beneficiato di informazioni riservate da parte di Palamara, condizionando poi le nomine del Csm tramite il faccendiere Fabrizio Centofanti che provvedeva a pagare al magistrato pranzi e viaggi. Il rinvio a giudizio di Palamara l'altro giorno è stata, però, l'occasione per una «riflessione» sull'udienza preliminare. «È transitata a dibattimento una accusa improponibile», hanno aggiunto gli avvocati di Palamara. «Avevamo portato proseguono i legali - prove inoppugnabili dei pagamenti effettuati da Palamara», dimostrando dunque che le accuse di corruzione si basavano su fatture per prestazioni inesistenti. L'udienza preliminare si è trasformata in un semplice passaggio di carte dove il giudice "copia e incolla" le accuse del pm. La riforma della giustizia voluta dalla ministra Marta Cartabia ha previsto una revisione radicale di tale istituto.

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 25 luglio 2021. «Piercamillo Davigo doveva consigliare a Paolo Storari di fare un esposto formale. Seguendo altre vie e diffondendo i verbali secretati al Csm ha contraddetto una vita intera all'insegna del rispetto di regole e procedure». È molto netta Augusta Iannini, in pensione dopo essere stata magistrato nelle carceri, giudice istruttore a Roma, al ministero come direttore generale della Giustizia penale, capo dipartimento Affari di giustizia e capo dell'Ufficio legislativo, infine vicepresidente dell'Autorità per la Privacy.

Al Corriere della Sera Davigo dice che non informò formalmente il Csm proprio per tutelare il segreto investigativo dei verbali di Amara consegnatigli da Storari. Sembra un paradosso.

«Seguendo una strada diversa tutto è caduto in un pettegolezzo poco consono al livello istituzionale del Csm. La prima cosa da fare quando il pm di Milano andò da lui era investire del caso ufficialmente gli organi titolari dell'azione disciplinare e in particolare il procuratore generale della Cassazione. E questo evitando di far vedere i verbali a chiunque. Mostrare e consentire la lettura di atti secretati di un'indagine non è un'attività consentita ma una forma di esibizione». 

Se lei si fosse trovata al posto di Storari che avrebbe fatto?

 «Mi sarei appunto rivolta al Csm e al Pg della Cassazione. Se in un team di lavoro nascono problemi si fa così. A Storari Davigo avrebbe dovuto consigliare l'esposto. Il Pg avrebbe potuto svolgere le sue indagini e sentire anche il procuratore Greco sulle dichiarazioni sulla Loggia Ungheria». 

Invece, Davigo fa una lunga lista di consiglieri del Csm con cui parlò mostrando i verbali, a partire dal vicepresidente Ermini e dal Pg Salvi che, dice, «non mi interrogò». Anche un politico, il presidente della commissione Antimafia Morra.

«Quando si sceglie un percorso non ufficiale, di confidenze e mezze voci, i verbali secretati girano clandestinamente, diventano veline, finiscono anche a soggetti esterni al Csm come Morra. Tutto questo getta una luce un po' sinistra sulla gestione dell'intera vicenda». 

Per Davigo comunque Salvi fu informato e non ufficializzò la questione.

«Solo un esposto formale avrebbe responsabilizzato i titolari dell'azione disciplinare, che avrebbero dovuto approfondire e nel caso archiviare». 

Sembra che invece, per vie traverse, cioè con una telefonata di Salvi al procuratore Greco, si sia cercato di raddrizzare la situazione senza clamore.

«Da quello che leggo sui giornali probabilmente si è cercato di regolarizzare, di proceduralizzare una questione, in un modo lontano dalle regole del codice di procedura penale». 

Davigo avrebbe informato anche Fulvio Gigliotti, che presiede la sezione disciplinare. Ora Palamara dice che sia lui che Davigo, avendo letto i verbali collegati alla sua vicenda, dovevano astenersi nel processo che ha portato alla sua radiazione e preannuncia un esposto.

«La giurisprudenza del Csm in casi simili è stata diversa. Concordo sul dovere di astensione. Al di là dei fatti penali su cui si pronuncerà il giudice, il comportamento degli organi disciplinari su Palamara è stato di una durezza inusuale. Anche magistrati arrestati e processati per fatti gravi, come la corruzione, non sono stati radiati in fase di indagini, semmai poi se condannati».

Davigo come esce da questa storia?

«La sua immagine di magistrato risulta diversa da quella che ha mostrato in interviste e prese di posizione: molto attento al rispetto di forme e procedure. In questo caso, non so se per il contrasto con il collega Ardita, sembra che abbia derogato alle regole che lui stesso si è imposto per tutta la sua vita professionale».

Il processo del Csm a Storari. Giallo sulle indagini «rallentate». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 24 luglio 2021. Mica male come testa coda: proprio il pm milanese Paolo Storari, che rivendica di aver dato in copia word nell’aprile 2020 i verbali segretati di Piero Amara sulla «loggia Ungheria» all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo solo per smuovere la paralisi investigativa a suo avviso imposta dai capi della Procura milanese, è accusato in via disciplinare dalla Procura generale della Cassazione (che l’altro ieri ne ha chiesto al Csm l’urgente trasferimento cautelare d’ufficio) di aver però a sua volta paralizzato 4 mesi un’altra indagine in cui era in conflitto di interessi: l’indagine con la quale Storari e il suo procuratore aggiunto Laura Pedio tra 2020 e 2021 cercarono invano di scoprire da dove fossero usciti gli altri verbali in word di Amara che il 30 ottobre 2020 il giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari aveva avvisato la Procura di aver ricevuto anonimi. Stasi accreditata al pg di Cassazione Giovanni Salvi dalle relazioni del 6 maggio scorso di Pedio e del 7 maggio del procuratore Greco: nelle quali si rimarcava che Pedio, dopo aver concordato con Storari nel gennaio 2021 di affidare a un consulente una perizia informatica, «avesse poi accertato che solo l’8 marzo 2021» Storari aveva fatto questo primo atto di indagine. Da qui l’accusa, mossa da Salvi a Storari, di «rallentamento» e «ostruzionismo» dell’indagine per 4 mesi, dal 30 ottobre 2020 all’8 marzo 2021. Solo che, se si verificano alcune circostanze con inquirenti della Guardia di Finanza, si scopre che già a novembre 2020 — pochi giorni dopo la venuta del giornalista che aveva raccontato come a portare i verbali anonimi in redazione a Roma fosse stata una donna subito andata via a bordo di una auto bianca — la Gdf aveva ricevuto proprio dal pm Storari l’incarico di acquisire il traffico della cella telefonica che copriva la redazione, le immagini delle telecamere della zona, e l’elenco di targhe di auto bianche a Roma. Così come già il 5 novembre la Gdf, sempre su incarico di Storari, aveva sequestrato il telefono di Vincenzo Armanna, l’ex manager Eni molto valorizzato dai pm del processo Eni-Nigeria, che già nel febbraio 2020 aveva mostrato agli allibiti Pedio e Storari di possedere un foglio di un verbale (vero, non word) di Amara. A queste indagini subito di novembre 2020, che parrebbero poco conciliarsi con un intento di «rallentamento» e «ostruzione» dell’istruttoria, non fa però alcun cenno l’atto d’accusa stilato dal pg di Cassazione, che del resto non avrebbe avuto modo di apprenderle ove non gli fossero state segnalate dalle relazioni di Pedio e Greco, assunte da Salvi come base per la richiesta di mandar via Storari da Milano e di non fargli più fare il pm. Se ne capirà di più venerdì prossimo, quando il Csm deciderà appunto sul trasferimento chiesto dal pg di Cassazione alla vigilia delle audizioni domani e dopodomani di una decina di pm e giudici milanesi già convocati dalla I Commissione in una pratica di «vigilanza» sulla Procura di Milano: ufficio dove sono indagati anche il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, nell’ipotesi che non abbiano sottoposto al Tribunale del processo Eni-Nigeria elementi (trovati e segnalati loro da Storari) di inattendibilità di Armanna «teste» d’accusa. Il Csm ha già ascoltato il presidente dell’Ordine degli avvocati, Vinicio Nardo. L’avvocatura milanese, ha premesso Nardo, non parteggia per un pm o per l’altro; ha però vissuto con sconcerto l’utilizzo nel febbraio 2020 da parte dei pm del processo Eni-Nigeria, nei confronti di un giudice «molto stimato» come Marco Tremolada, di uno solo degli omissis di Amara tra tutte le altre sue dichiarazioni che invece all’epoca i vertici della Procura prendevano con le molle; e in generale trova che il clima di tensione in Procura non faciliti il lavoro quotidiano degli avvocati..

Caso Amara, il pg di Cassazione Salvi chiede al Csm il trasferimento di Storari: “Non doveva dare i verbali sulla Loggia Ungheria a Davigo”. Il procuratore avvia il procedimento disciplinare contro l’aggiunto di Milano che aveva dato i documenti con le dichiarazioni di Amara sulla presunta Loggia all’ex componente del Csm. E proprio sul magistrato di Mani pulite scrive: “Non poteva ricevere quei documenti, lesi i diritti di Ardita”. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 23 luglio 2021. La vicenda dei verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara potrebbe costare cara al magistrato Paolo Storari. Il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi ha avviato il procedimento disciplinare nei suoi confronti e chiesto al Csm il suo trasferimento dalla procura di Milano per incompatibilità ambientale. Storari, che è indagato insieme all’ex componente del Csm Piercamillo Davigo, è accusato da Salvi di aver commesso il reato di rivelazione di segreti istruttori per aver dato a un «soggetto terzo i verbali ancora coperti da segreto» di Amara. La vicenda è nota: Storari, convinto dell’inerzia del suo capo, il procuratore Francesco Greco, di fronte a quei verbali e alle dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria, ha consegnato una copia delle dichiarazioni di Amara a Davigo, allora ancora componente del Csm. Scrive Salvi nella nota inviata al Consiglio superiore della magistratura sul procedimento disciplinare contro Storari: «Ha tenuto la seguente condotta costituente reato, idonea a ledere l’immagine del magistrato, per la quale egli è stato sottoposto a indagini preliminari ad opera della procura della Repubblica di Roma poiché “quale pubblico ministero in servizio presso la procura di Milano violando i doveri inerenti alle funzioni rivestite o comunque abusando di tale qualità , rivelava notizie d’ufficio, che dovevano rimanere segrete, segnatamente rivelava il contenuto di atti coperti dal segreto istruttorio, consegnando a Davigo copia in formato word dei verbali di Piero Amara”». Salvi contesta a Storari di «aver divulgato i verbali sulle dichiarazioni rese da Amara sull’associazione segreta “Loggia Ungheria” quale contitolare  delle indagini insieme all’aggiunto Pedio»: «Con tale condotta Storari forniva a soggetto terzo rispetto alle indagini, non autorizzato a riceverli, atti coperti da segreto e comunque riservati in tal modo ledendo il diritto alla riservatezza dei soggetti indicati dall’avvocato Amara (come ad esempio è avvenuto con il dott. Sebastiano Ardita, anch’egli consigliere del Csm)». E, ancora, Salvi contesta a Storari anche il suo comportamento all’interno della procura di Milano perché «in violazione dei doveri di imparzialità  e correttezza, nell’esercizio delle funzioni di sostituto procuratore presso il Tribunale di Milano  teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica Francesco Greco  e dell’aggiunto Laura Pedio accusandoli in colloqui con il componente del Csm Davigo di inerzia nelle indagini e ciò pur essendo a conoscenza delle attività in corso e pur avendo omesso , almeno fino all’inizio di aprile 2020, di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione nel registro degli indagati dell’avvocato Amara,  nonché per aver omesso qualsiasi formalizzazione di dissenso circa le modalità di gestione delle indagini». Infine secondo Salvi, Storari doveva astenersi dal prendere parte all’indagine sulla divulgazione dei verbali, inviati anche ad alcune testate giornalistiche avendo un possibile conflitto di interesse, avendoli lui consegnati a Davigo. Per tutte queste motivazioni Salvi chiede al Csm di applicare l’articolo 13 del decreto sul codice di disciplina dei magistrati che prevede la possibilità del trasferimento d’ufficio. 

Procura di Milano nei guai al Csm. I giudici rivelano: manovre dei pm sulla sentenza Eni. Luca Fazzo il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Corridoi deserti. Porte chiuse. Musi lunghi. Bocche cucite. La sensazione palpabile che si sia consumato qualcosa di irreparabile, e che nulla possa riportare la serenità nell'ufficio giudiziario che per decenni ha svolto un ruolo cruciale nella vita del Paese. Corridoi deserti. Porte chiuse. Musi lunghi. Bocche cucite. La sensazione palpabile che si sia consumato qualcosa di irreparabile, e che nulla possa riportare la serenità nell'ufficio giudiziario che per decenni ha svolto un ruolo cruciale nella vita del Paese. Il «day after» della Procura della Repubblica di Milano, dopo la ribellione di quasi tutti i pubblici ministeri contro il capo Francesco Greco e in difesa del collega Paolo Storari, racconta anche visivamente come si sia toccato il punto di non ritorno. L'ufficio del procuratore Greco è chiuso e buio, buie le stanze dei pochi magistrati che gli sono rimasti vicini, quelli del «cerchio magico» contro cui durava da mesi il mugugno che il «caso Storari» ha scatenato. La partita, ieri e oggi, si gioca 500 chilometri più a sud, nella sede del Consiglio superiore della magistratura, investito in pieno dal ciclone dei verbali del «caso Amara» e dai veleni della Procura milanese. Davanti al Csm oggi sfileranno una lunga serie di toghe milanesi: compresi i leader della protesta, il capo dell'Antiterrorismo Alberto Nobili e la giovane pm Francesca Crupi. Ma già ieri è stato sentito il magistrato che di questa vicenda è incolpevolmente al centro: Marco Tremolada, il giudice del caso Eni che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale (con la benedizione o almeno la tolleranza di Greco) ha cercato di infangare usando i verbali di Amara, per impedirgli di assolvere gli imputati. È stato quello il primo errore del «cerchio magico». L'interrogatorio di Tremolada dura poco più di mezz'ora. Avviene a porte chiuse, i verbali sono secretati. Ma si apprende che sia Tremolada che il suo superiore diretto, il presidente del tribunale Roberto Bichi, hanno confermato il dato cruciale, quello da cui nasce tutto: le pressioni della Procura per condizionare l'esito del processo Eni. Hanno risposto alle domande dei membri del Csm, hanno fornito carte. E le loro rivelazioni condizioneranno inevitabilmente la scelta delicata che attende il Csm venerdì, quando il Consiglio dovrà decidere la sorte di Storari, di cui il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto la rimozione immediata da Milano in quanto nocivo alla «serenità» dell'ufficio. Il documento firmato da oltre cento magistrati dimostra che se qualcuno a Milano turba la serenità del palazzo di giustizia non è certo Storari. Ieri Tremolada e Bichi indicano che i problemi erano ben altri. E se Nobili e gli altri confermeranno il contenuto della lettera, per il Csm cacciare Storari diverrà impossibile. Ma a questo punto è chiaro che se Storari viene lasciato a Milano a uscire sconfitto dal caso è, insieme agli attuali vertici della Procura milanese, anche Giovanni Salvi, il pg della Cassazione, il magistrato più potente d'Italia. E c'è già chi sta affilando le armi contro il pg: ieri in difesa di Storari scende in campo Articolo 101, la agguerrita corrente di minoranza dell'Associazione nazionale magistrati. È possibile, dice in un comunicato, che della vicenda Amara «l'unico chiamato a risponderne sia Storari»? Ma soprattutto viene sollevato il problema della «credibilità del procuratore generale Giovanni Salvi»: «È noto che il procuratore generale appartiene alla corrente a cui per tradizione è affidata la guida della Procura di Milano, scena principale dello spettacolo in cui si inserisce la condotta contestata a Storari». Cioè Magistratura democratica.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Csm, sotto la lente la Procura di Milano e la gestione di Greco. Luca De Vito, Giuliano Foschini su La Repubblica il 28 luglio 2021. Il figlio di Borrelli prende le distanze dal delfino del padre e firma per Storari. E per Nobili non è un problema lavorare con il pm che passò le carte del caso Amara a Davigo. Per l'aggiunto De Pasquale avviati gli accertamenti disciplinari: rifiuto di atti di ufficio. Se mai ci fosse stato un dubbio, il Csm ha messo nel mirino tutta la situazione che sta incendiando la procura di Milano. A spiegarlo, tre fatti rilevanti avvenuti nelle ultime ore. Il primo riguarda gli accertamenti disciplinari avviati dal pg della Cassazione Giovanni Salvi anche per il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, titolari dell'inchiesta su Eni-Nigeria, dopo la dura richiesta (trasferimento e perdita delle funzioni) avanzata per il pm Paolo Storari.

Csm, il giallo della telefonata su Storari: «Consigliagli tu di chiedere di andare via». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2021. L’audizione del pm Alberto Nobili: Edmondo Bruti Liberati mi disse “Tu che sei amico di Storari, non pensi sarebbe il caso che fosse lui per primo a chiedere il trasferimento dalla Procura di Milano?” La smentita di Bruti Liberati. Una innocua telefonata malintesa tra due magistrati ex colleghi (Edmondo Bruti Liberati e Alberto Nobili) al vertice della Procura di Milano? O un messaggio trasversale suggerito dall’uno all’altro perché lo veicolasse al pm Paolo Storari prima che questi, in vista degli interrogatori, scegliesse di non limitarsi a difendersi sull’aver consegnato nell’aprile 2020 all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo i verbali segretati del dichiarante Piero Amara sull’associazione segreta Ungheria, ma decidesse di chiamare in causa i propri capi sulla loro asserita inerzia investigativa, e su talune prove non presentate al Tribunale del processo Eni-Nigeria? Difficile dirlo: l’uno nega ciò che l’altro afferma. Nelle audizioni ieri di toghe milanesi convocate dalla I commissione Csm per chiedere generici lumi sul clima negli uffici giudiziari, c’è chi come il procuratore aggiunto Laura Pedio argomenta (nel solco della sua relazione del 6 maggio) le «infedeltà gravi e subdole» che afferma d’aver subìto da Storari. C’è chi come Riccardo Targetti, vicario di Francesco Greco, richiama un proprio appello ai «demoralizzati» colleghi: «Proseguiamo il nostro lavoro con serenità nella Procura che, nonostante tutto, è una delle prime del Paese: è il modo migliore per ribattere a chi ci presenta come un porto delle nebbie. Non lo siamo... nonostante tutto!». E c’è chi , come l’altro procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, al pari di Targetti addita una matrice di malumore nella scelta di Greco di costituire un pool affari internazionali (affidato all’aggiunto Fabio De Pasquale) che ieri Siciliano al Csm afferma avrebbe un carico di lavoro di 1 a 100 rispetto agli altri pool di pm. Ad Alberto Nobili, coordinatore dell’antiterrorismo ed ex procuratore aggiunto, viene chiesta la ragione dell’inedita presa di posizione di 60 su 64 pm milanesi, dettisi «turbati» non dal lavorare con Storari (candidato dal pg di Cassazione Giovanni Salvi al trasferimento d’urgenza e alla perdita delle funzioni di pm per i tre illeciti disciplinari connessi alla consegna dei verbali a Davigo), ma dalla protratta situazione di incertezza. Nobili espone la convinzione dei 60 pm che «ghigliottinare uno solo» sia semplicistico se «nel contempo non si fa chiarezza su tutte le altre questioni». E a un tratto Nobili racconta che Edmondo Bruti Liberati, storico punto di riferimento di Magistratura democratica, andato in pensione da procuratore di Milano quasi 6 anni fa dopo il duro scontro sul ritmo delle indagini Expo con il poi trasferito dal Csm procuratore aggiunto Alfredo Robledo, gli telefonò il 30 aprile facendogli questo discorso: tu che sei amico di Storari, non pensi sarebbe il caso che prendesse in considerazione l’opportunità di essere lui per primo a chiedere il trasferimento dalla Procura di Milano? È la via d’uscita semi-indolore spesso scelta da magistrati con grossi problemi disciplinari al Csm: chi sa di avere commesso gravi errori o addirittura reati, invece di dare battaglia e difendersi a fondo, gioca d’anticipo, chiede al Csm di cambiare ufficio, sceglie dove andare e cosa fare, e così schiva guai peggiori. Nobili dice di aver risposto a Bruti: io non ci penso nemmeno ad andare a dirlo a Storari, non lo ritengo opportuno, se vuoi chiamalo tu. La presidente della I commissione, Elisabetta Chinaglia, togata di Area, qui ferma Nobili con l’argomento che come sia andata a finire non attiene al tema delle audizioni. Tocca dunque verificare con Bruti Liberati. Che però ieri sera smentisce al Corriere Nobili: «Io interventi non ne ho fatti, me ne guardo bene. Escludo di aver dato suggerimenti non richiesti su eventuali vie di uscita. Con Nobili ho scambiato qualche idea ed espresso il rammarico per la situazione in ufficio, così come ho poi ribadito a Storari la mia stima personale, a prescindere dalla vicenda specifica». Ma se lo si fa presente a Nobili, questi invece ribadisce tutto, e aggiunge il ricordo di un messaggino l’indomani di Bruti a Storari («Ho mantenuto in memoria il tuo numero. Se credi, chiamami»), seguito il giorno successivo da una breve e fredda telefonata di cortesia tra Storari e Bruti. Che ora controreplica: «Se Nobili ha interpretato in quel modo le cose, sono sue interpretazioni». 

Caso Amara, le rivelazioni nei verbali di Davigo: "Ermini mi disse di avere informato Mattarella". Affari Italiani il 29/7/2021. "A maggio 2020 il vicepresidente del Csm, David Ermini, mi disse di avere informato il presidente della Repubblica". A parlare è Piercamillo Davigo, l'ex consigliere del Csm al quale nell’aprile 2020 il pm Paolo Storari consegnò i verbali segreti del dichiarante Piero Amara sulla cosiddetta loggia segreta Ungheria come reazione alla presunta inerzia investigativa dei capi della Procura di Milano.

Davigo: "Mattarella informato da Ermini". Le parole sono contenute nel verbale di sommarie informazioni reso da Davigo il 5 maggio alla Procura di Roma, quand’era testimone e non ancora coindagato a Brescia di Storari per rivelazione di segreto d’ufficio. Un elemento nuovo e fondamentale, come spiega Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera: "Davigo ai pm romani indica che entrambi, Ermini e Davigo, convennero sul dovere di informare il presidente della Repubblica che è anche il presidente del Csm, nel presupposto che fosse scorretto celargli la situazione. E a questo punto Davigo afferma con nettezza che Ermini gli disse di avere in effetti informato il capo dello Stato".

Le rivelazioni di Davigo sulla segretaria indagata. Nessun commento da parte di Ermini, del Colle o dello stesso Davigo. Altri dettagli dai verbali raccontati dal Corriere della Sera e relativi all’allora segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto, indagata dalla Procura di Roma con l’accusa di aver spedito (a partire da ottobre 2020, cioè da dopo la pensione di Davigo) i verbali di Amara in forma anonima al Fatto Quotidiano, a Repubblica e al consigliere Csm Nino Di Matteo. "Il primo è che Davigo, quando nel lasciare il Csm lasciò anche i verbali di Amara al consigliere Csm Giuseppe Marra nel caso in cui il Comitato di presidenza Csm ne avesse avuto bisogno, lo disse anche a Contraffatto, informandola di dove avesse sino allora nascosto i verbali. L’altro dettaglio può retrodatare la disponibilità dei verbali in mano alla segretaria: infatti Davigo spiega che il 7 aprile 2020, per portarsi dietro senza stamparli i verbali di Amara datigli da Storari, se li era autospediti dalla propria casella mail privata a quella istituzionale del Csm. Posta elettronica alla quale era abilitata ad accedere appunto anche la sua segretaria Contraffatto", conclude Luigi Ferrarella. 

Luca Fazzo per "il Giornale" il 28 luglio 2021. In una partita di rugby, quando scoppia la rissa l'arbitro espelle i due più scatenati, sperando che gli altri si diano una calmata. Nello scontro di asprezza mai vista che agita la Procura di Milano, ieri arriva la novità che punta allo stesso risultato. Tre giorni prima dell'udienza davanti al Consiglio superiore della magistratura che deve decidere la sorte del pm Paolo Storari, accusato dalla procura generale della Cassazione di avere violato una sfilza di regole nella gestione dei verbali del pentito Pietro Amara sul caso Eni, trapela la notizia che la stessa sorte potrebbe toccare anche sul fronte opposto a Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che cercò di usare i verbali di Amara per influenzare l'esito proprio del processo Eni. La procura generale della Cassazione starebbe indagando anche su De Pasquale, e anche per lui potrebbe arrivare al Csm la richiesta di allontanamento immediato da Milano. Di fatto, cacciando entrambi i contendenti il Csm chiuderebbe lo scontro con una sorta di pareggio. Se non fossero arrivate le voci sull'impeachment di De Pasquale, d'altronde, difficilmente venerdì prossimo il Csm avrebbe potuto accogliere la richiesta urgente del pg della Cassazione Giovanni Salvi di rimuovere Storari dalla Procura milanese. Fare del pm l'unico capro espiatorio della vicenda era impensabile, soprattutto dopo che al suo fianco era scesa non solo la Procura di Milano quasi per intero (58 pm su 64) ma anche una lunga lista di magistrati: compreso, si apprende ieri, Andrea Borrelli, figlio di Francesco Saverio, per vent' anni procuratore capo e creatore del pool Mani Pulite. Una firma che pesa. Come poteva il Csm fare finta di niente? Così, invece, lo scenario che viene proposto dal pg Salvi al Consiglio è più equidistante dai fronti. Via Storari ma via anche De Pasquale: un magistrato che ha fatto anche lui a suo modo la storia della Procura milanese, una carriera sopravvissuta alle polemiche sul suicidio in carcere nel 1993 di Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni, e culminata nella condanna di Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv. In vent' anni di assedio della Procura milanese al leader di Forza Italia, l'unico a vincere un processo è stato De Pasquale. Questo gli aveva dato prestigio, potere, la carica di procuratore aggiunto e una sorta di intoccabilità. Finora. Quanto emerso sulla sua gestione del processo Eni, con gli elementi a favore degli imputati tenuti deliberatamente nascosti, ora invece rischia di costare il posto all'eroe anti-Cav. Il problema è che alcune scelte di De Pasquale hanno potuto essere compiute solo con la benedizione dei vertici della Procura. Ieri davanti al Csm emergono nuovi dettagli. Davanti alla commissione che indaga sul «caso Milano» viene interrogato il pm Alberto Nobili, che della raccolta delle firme in difesa di Storari è stato uno dei promotori. Nobili - quasi quarant' anni di toga sulle spalle, profilo inattaccabile - racconta di come Storari si confidò con lui su quanto accadeva intorno al processo Eni, spiegandogli di avere trovato prove a favore degli imputati ma di essere stato stoppato dai superiori. Storari, racconta Nobili, aveva trovato elementi che dimostravano come i due supertestimoni utilizzati da De Pasquale nel processo ai vertici dell'azienda energetica di Stato, l'avvocato Piero Amara e l'ex dirigente Vincenzo Armanna, avessero predisposto prove false nei confronti dell'amministratore delegato Claudio Descalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni. Per questo Storari aveva deciso di arrestare per calunnia sia Amara che Armanna, ma la richiesta di custodia in carcere nei confronti dei due testimoni non ottenne mai l'autorizzazione del procuratore Greco. Di lì a poco Storari avrebbe appreso che De Pasquale intendeva utilizzare i verbali di Amara contro il giudice che presiedeva il tribunale del caso Eni. Ora la palla passa per intero alla sezione disciplinare del Csm. Al punto cui sono arrivate le cose, non è sicuro che mandare via da Milano Storari e De Pasquale basterebbe a riportare la serenità. Ma è sicuro che mandar via solo Storari avrebbe effetti disastrosi.

Marcello Sorgi per "la Stampa" il 28 luglio 2021. Strana coincidenza: mentre alla Camera si discute (e speriamo presto si approvi) la riforma del processo penale, tra Milano e Roma è esploso il caso del pm Storari, verso il quale il Procuratore generale della Cassazione Salvi ha promosso azione disciplinare chiedendo che sia trasferito e assegnato a funzioni diverse da quelle della pubblica accusa, e che il Csm ha cominciato ad esaminare. Storari è il magistrato che, ritenendo insabbiata dal suo capo, il procuratore di Milano Greco, la propria inchiesta sulle rivelazioni del discusso teste Amara a proposito di una fantomatica loggia massonica "Ungheria" (una specie di P2 in sedicesimo, tutta da dimostrare), lo bypassò, consegnando i verbali dello stesso Amara all'allora membro del Csm Davigo, che pensò di mostrarli al presidente della Commissione Antimafia Morra, mentre la sua segretaria, non si sa se a sua insaputa, provvedeva a farli avere a un giornale fidato. Un classico esempio di come oggi si fa giustizia, tra giudici, politici e giornali che agiscono insieme, fuori dei tribunali, senza chiedersi neppure di chi fanno il gioco, né se i materiali che mettono in circolazione siano credibili o meno. Per questa condotta Storari deve rispondere di violazione del segreto d'ufficio, oltre che dell'azione disciplinare intentata da Salvi. Ma in sua solidarietà si sono mossi con una lettera ben 59 dei 64 sostituti della Procura di Milano, suoi colleghi, 26 gip, 18 giudici di tribunale oltre a una decina sparsi nel resto d'Italia e al sindacato delle toghe Anm. Va da sé che se il Csm dovesse dar torto a Salvi e ragione a Storari, tenendo conto della larga solidarietà ricevuta dai suoi colleghi e non punendolo, verrebbe affermato un principio inaccettabile: il pm indisciplinato, che per contestare il proprio capo si rivolge a un membro togato del Csm, e insieme a lui o indipendentemente da lui trova il modo di far uscire verbali che ritiene trascurati, non commette reato né va punito perché ha violato la scala gerarchica con cui funzionano tutte le Procure d'Italia. Le quali appunto, come quella di Milano, smetterebbero di funzionare. Vedremo cosa deciderà il Csm, fresco di parere critico sulla riforma del governo. Ma forse nel caso Storari c'è materia a cui anche la ministra Cartabia potrebbe applicarsi.

 Giacomo Amadori per "la Verità" il 28 luglio 2021. Il caso del pm milanese Paolo Storari, accusato di ogni nefandezza dai suoi capi, è il granello che sta mandando all'aria l'oliatissima macchina che governa la magistratura italiana. L'unica corrente a uscire pulita dall'azione dei magistrati di Perugia (a guida Md) nel Palamara-gate era stata quella di Md che da lustri ha il suo principale feudo nella Procura di Milano. Il capo dell'ufficio, Francesco Greco, ex campione di Mani pulite, insieme con i colleghi di Roma e Perugia ha coccolato per mesi il «pentito-non pentito» Piero Amara. Nonostante le dichiarazioni sulla Loggia Ungheria e l'autodenuncia di affiliazione dell'avvocato siracusano risalissero al dicembre del 2019, si è dovuto attendere il 12 maggio 2020 per l'iscrizione della prima notizia di reato. E questo è stato possibile solo perché Storari aveva deciso, nell'aprile del 2020, di condividere con Piercamillo Davigo i verbali di Amara per denunciare l'inerzia dei suoi capi e Piercavillo ne aveva parlato con il procuratore generale della Cassazione (il massimo inquisitore dei magistrati) Giovanni Salvi, che a sua volta, come nel telefono senza fili, si era messo in contatto con Greco. Il quale, forse resosi conto della malaparata, decise di aprire il fascicolo. Ma perché sino a quel giorno ciò non era accaduto? Lo ha spiegato la vice di Greco, l'aggiunto Laura Pedio, coassegnataria del fascicolo insieme con Storari, in una mail del 17 aprile 2020. Un messaggio che probabilmente convinse Storari dell'inevitabilità di condividere quelle carte con Davigo. Ecco il testo della missiva, riportato ieri dal Corriere della Sera e depositato agli atti dei procedimenti pendenti contro Storari (uno penale a Brescia e uno disciplinare presso il Csm). «Dovremmo parlarne con Francesco (Greco, ndr). Ha perplessità sull'opportunità di cominciare un'indagine sulla quale ci sono dubbi di competenza». Se nel febbraio 2019, a Roma, avevano deciso di preservare il «teste d'accusa» Amara e di non arrestarlo nuovamente come forse meritava, a Milano, nell'aprile 2020, la principale preoccupazione della Procura sembra essere quella di non perdere Amara come testimone di accusa nei vari filoni del procedimento Eni come lascia intendere il prosieguo della mail della Pedio: «Qualche perplessità ce l'ho pure io, anche perché dobbiamo definire il processo Eni con priorità assoluta. Temo che l'avvio dell'altra indagine ci possa impegnare eccessivamente e portare a un risultato dubbio». È chiaro da questa mail che nell'aprile del 2020 le indagini sulla loggia Ungheria, quattro mesi dopo le dichiarazioni di Amara sul punto, erano ancora al palo e che, nel cosiddetto rito ambrosiano, l'obbligatorietà dell'azione penale è subordinata ad altre esigenze. In particolare portare a termine il processo Eni. Un obiettivo da raggiungere anche giocando sporco, se si dimostreranno fondate le accuse secondo cui il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro avrebbero nascosto alle difese carte fondamentali. Per questo ora sono iscritti sul registro degli indagati di Brescia con l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio e anche la Procura generale della Cassazione ha comunicato ieri di avere in corso accertamenti sui due pm. Intanto Storari, venerdì, si presenterà davanti alla sezione disciplinare del Csm a petto in fuori, avendo deciso di non ricusare nessuno dei componenti a cui Davigo mostrò i verbali di Amara e che nonostante questo non denunciarono nulla. A Palazzo dei marescialli lo attendono con i fucili spianati. Infatti sono schierati contro di lui sia gli esponenti della sinistra giudiziaria che i numerosi nemici di Davigo. Qualcuno è pronto a rinfacciargli il parere da lui firmato nell'aprile del 2020 insieme alla Pedio e indirizzato al Tribunale di sorveglianza di Roma. In esso Amara veniva definito «ravveduto» e ormai estraneo al «contesto criminale» frequentato precedentemente. Ma Storari non ha mai trovato contraddittoria quella sua posizione. Infatti per lui, nell'aprile del 2020, «era da matti» far andare in galera uno che, apparentemente, stava collaborando. Il pm ad alcuni colleghi ha specificato che «l'unica cosa che lo interessava era che le indagini venissero fatte, anche se a suo giudizio quelle investigazioni non erano ancora partite per davvero» e che per quanto lo riguardava «i suoi capi potevano scrivere quello che volevano sul presunto pentito». Inoltre in quel momento Storari non si era ancora convinto dell'inattendibilità di Amara, trattato come un oracolo da alcuni altri importanti magistrati, e solo in autunno avrebbe proposto ai suoi capi l'arresto di Amara con l'accusa, anche, di calunnia (reato per cui, però, l'avvocato siciliano non sarebbe mai stato iscritto). Un'istanza che non venne condivisa dai suoi superiori. Le accuse della Pedio contro il pm sono violente. Dopo aver scoperto che era stato lui a far uscire i verbali dalla Procura, l'aggiunto ha scritto a Greco contestando a Storari «un'infedeltà grave, oltraggio e danno innanzitutto nei miei confronti», quando «ha compromesso subdolamente l'indagine coassegnata, ha proseguito in palese conflitto d'interessi, ha tenuto condotte fuorvianti sulle fughe di notizie, messo a rischio la nostra stessa sicurezza e portato discredito a Lei e alla procura». In una sua relazione la Pedio ha negato le accuse di inerzia investigativa e ha rivendicato 25 atti d'indagine prima dell'iscrizione del fascicolo, nonostante il lockdown. Ma nell'elenco, evidenzia il Corriere, l'aggiunto avrebbe conteggiato «ragionamenti sul da farsi o incontri generici con colleghi di altre città o atti istruttori compiuti sì, ma nel fascicolo» Eni, visto, che per l'aggiunto, dal 5 giugno 2020 al 9 dicembre 2020, «l'attività istruttoria svolta nell'uno [] aveva influenza anche nell'altro». Peccato che i due procedimenti oggi risultino non solo non complementari, ma del tutto antitetici. Nel procedimento sulla loggia Ungheria, inaugurato a maggio 2020, ufficialmente sono state effettuate tredici audizioni di testimoni, ma solo a partire da giugno e non vennero organizzate, a quanto risulta alla Verità, trasferte ad hoc. Anzi una ci fu. Il 30 luglio 2020 Storari e la Pedio si sarebbero recati a Catania per una «riunione di coordinamento» con i colleghi siciliani per discutere dei procedimenti che riguardavano il giudice del Tar Dauno Trebastoni, coindagato per corruzione in atti giudiziari con Attilio Toscano, socio storico di Amara. La toga è stata coinvolta (e successivamente prosciolta) anche in un altro procedimento che ruotava intorno all'assunzione, per un breve periodo, della sorella di Trebastoni nello studio di Amara e del sodale Giuseppe Calafiore.Alcune fonti della Verità fanno notare che in quella trasferta la Pedio avrebbe unito l'utile al dilettevole, visto che a Messina, nelle stesse ore, il compagno sarebbe stato impegnato in una gara di nuoto. Il nome della donna era emerso anche nelle chat di Palamara. Il 3 ottobre 2017, in vista delle votazioni per gli aggiunti di Milano, Greco aveva incontrato l'ex stratega delle nomine a Roma nel bar di un hotel vicino alla stazione Termini. Il pm milanese Angelo Renna, il giorno dopo, aveva scritto allo stesso Palamara: «Greco mi ha voluto dire che ieri avete preso un caffè insieme. Laura Pedio - provo a indovinare - è in gamba e non so quanto sia utile votare a perdere su Ciaravolo». Questo il commento di Palamara oggi: «Come ho potuto ricostruire dalla mia agenda l'incontro avvenne il 3 ottobre del 2017 all'hotel Montemartini dove io e Greco eravamo soliti vederci. Effettivamente io avevo i tempi stretti e tra un hamburger e un sandwich venne affrontato il tema degli aggiunti che sarebbero stati votati da lì a breve. Come ho già detto nella mia audizione in prima commissione ero solito confrontarmi sulle nomine degli aggiunti di Milano con il procuratore Greco, così come mi capitava, ad esempio, per gli uffici di Roma, Palermo, Napoli. In quella occasione con Greco parlammo anche della dottoressa Pedio sulla quale ero comunque preparato, a prescindere dal suo meritevole curriculum, perché dall'interno della procura di Milano molti colleghi con i quali ero solito confrontarmi mi avevano segnalato essere a lui legata da un rapporto di stima e vicinanza amicale».

Esposto di Palamara contro Davigo: «Il Csm non sentì i miei testi scomodi». Nel procedimento disciplinare a carico di Luca Palamara davanti al Csm, Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti si sarebbero macchiati di un «pregiudizio palese» escludendo la testimonianza di Stefano Fava: «Avrebbe parlato di Amara, per questo non venne ascoltato». Simona Musco su Il Dubbio il 30 luglio 2021. Nel procedimento disciplinare a carico di Luca Palamara davanti al Csm, Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti si sarebbero macchiati di un «pregiudizio palese», venuto fuori in maniera prepotente «anche in sede di ammissione delle prove a discarico», escludendo la testimonianza di Stefano Fava, richiesta dall’ex capo dell’Anm. È quanto si evince dall’esposto presentato contro l’ex pm Davigo e il laico Gigliotti, ai quali Palamara contesta la violazione dolosa e preordinata dell’obbligo di astensione nel procedimento a suo carico e l’induzione in errore degli altri componenti della commissione disciplinare. Sia Davigo sia Gigliotti – che di quel collegio disciplinare era presidente – erano stati inseriti dall’ex pm nella lista dei testi a discarico. Palamara scelse di chiamare l’ex pm di Mani Pulite a testimoniare in quanto messo a conoscenza da Fava, all’epoca in forza alla procura di Roma, dell’esposto depositato contro l’allora capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. L’esposto riguardava la mancata astensione dei due vertici della procura capitolina nel procedimento penale a carico dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, a causa dei rapporti intrattenuti da quest’ultimo con i fratelli dei due magistrati. Indagando su Amara, Fava si era convinto che l’ex avvocato non stesse dicendo tutta la verità, chiedendo il suo arresto per l’ipotesi di bancarotta. Pignatone e Ielo, però, si opposero e a marzo 2019 il fascicolo venne sottratto a Fava. Da qui il suo esposto a Palazzo dei Marescialli, considerato, però, strumentale alla delegittimazione di Pignatone e Ielo, ordita da Fava per conto di Palamara, che così si sarebbe vendicato dei due colleghi. Sia all’udienza disciplinare del 28 luglio 2020 sia nel corso delle dichiarazioni rese a Perugia il successivo 19 ottobre, Davigo negò di aver mai parlato con Fava dell’esposto da lui presentato, circostanza smentita, però, dal suo ex amico Sebastiano Ardita, anche lui consigliere del Csm, che il 3 novembre, davanti ai pm, affermò di aver partecipato ad un pranzo con Davigo e Fava nel quale si era parlato delle tensioni negli uffici giudiziari di Roma. Ma le dichiarazioni di Davigo, che secondo Palamara «avevano indotto la sezione disciplinare a rigettare l’istanza di ricusazione», sarebbero state ulteriormente smentite da un’altra vicenda, quella relativa ai verbali consegnati all’ex pm di Mani Pulite ad aprile 2020 da Paolo Storari, che oggi sarà giudicato per questo dalla sezione disciplinare del Csm. In quei verbali Amara, stesso protagonista della vicenda Fava, ha rivelato l’esistenza della cosiddetta “Loggia Ungheria”, indicando tra i suoi esponenti anche Ardita. Dichiarazioni alle quali Storari, secondo quanto emerso dalle audizioni davanti alla prima Commissione del Csm, non avrebbe creduto, al punto da preparare, a febbraio 2021, una bozza di richiesta di misure cautelari a carico di Amara, Vincenzo Armanna (grande accusatore di Eni, ritenuto non credibile dal collegio giudicante) e Giuseppe Calafiore, con l’accusa di calunnia. Ma quella richiesta non fu controfirmata dai vertici della procura di Milano in quanto, secondo la tesi sostenuta da Storari davanti ai pm di Brescia, la credibilità di Amara e Armanna andava preservata per non far crollare il processo Eni- Nigeria. Quei verbali erano dunque arrivati nelle mani di Davigo mesi prima che il procedimento a carico di Palamara si avviasse. E del loro contenuto l’ex pm di Mani Pulite aveva informato anche Gigliotti, così come dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera. «A Giuseppe Gigliotti, laico indicato dai 5 Stelle, lo dissi e gli mostrai i verbali – ha detto Davigo – perché si trovava a presiedere la sezione disciplinare del Csm e li stavano due dei magistrati additati da Amara». Secondo Palamara, dunque, Gigliotti avrebbe potuto utilizzare, nel giudicare il suo caso, «una sua personale scienza privata rispetto a quello che doveva essere il materiale utilizzabile ai fini della decisione». E ciò in quanto il contenuto dell’esposto di Fava, oggetto delle accuse mosse a Palamara, riguardavano proprio Amara. Ora, a convincere l’ex capo dell’Anm di una «preordinata violazione dell’obbligo di astensione» c’è anche la scelta di Gigliotti, assieme ad altri cinque componenti della sezione disciplinare, di astenersi dal giudizio contro Storari. Una diversità di trattamento sulla quale Palamara ha deciso di andare a fondo.

Palamara, tegola sul Csm: presentato l’esposto contro Davigo e Gigliotti. Paolo Lami mercoledì 28 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Lo avevano già annunciato qualche giorno fa ed ora i legali dell’ex-magistrato Luca Palamara sono passati dalle parole ai fatti ed hanno presentato l’esposto contro i consiglieri del Csm,Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti. “Abbiamo presentato un esposto nei confronti dei consiglieri Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti e ciò anche alla luce delle astensioni nel procedimento disciplinare contro il dottor Paolo Storari – hanno spiegato i difensori di Palamara, gli avvocati Benedetto Buratti, Roberto Rampioni e Mariano Buratti. – Confidiamo in un approfondimento investigativo che faccia piena luce sul procedimento disciplinare nei confronti di Luca Palamara chiuso in tempi record”. Il Consiglio Superiore della Magistratura si era affrettato a processare Palamara cercando così di limitare il gravissimo danno reputazionale e circoscrivendo lo scandalo addebitandolo unicamente all’ex-consigliere di palazzo dei Marescialli additato al pubblico ludibrio come unico responsabile e sbattuto fuori dalla magistratura con ignominia. Una strategia che, tuttavia, è riuscita solo a metà. Nessuno davvero crede che il marcio venuto fuori in tutti questi anni dalla magistratura sia circoscrivibile solo a Palamara, il quale altro non è che un ingranaggio dell’intero sistema correntizio e ideologizzato delle toghe italiane. All’origine dell’esposto le dichiarazioni fatte 4 giorni fa da Davigo al Corriere della Sera su Gigliotti e sui verbali di Pietro Amara, ex-consulente legale dell’Eni. Una vicenda che ha creato una grandissima frattura all’interno della Procura milanese con la contrapposizione fra il capo della Procura, Francesco Greco e il sostituto Paolo Storari contro il quale ha avviato un procedimento disciplinare il Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, travolto a sua volta dalla vicenda Amara. “Alla luce delle dichiarazioni rese in una intervista dal dottor Davigo – avevano spiegato 4 giorni fa i legali di Palamara anticipando l’intenzione di presentare l’esposto – emerge che i verbali dell’avvocato Amara sulla Loggia Hungaria erano anche nella disponibilità di Fulvio Gigliotti, Presidente del collegio della sezione disciplinare che ha rimosso il dott. Palamara dalla magistratura. Le nuove e coraggiose dichiarazioni del dottor Davigo impongono ora di comprendere per quale motivo il dott.Gigliotti non si sia astenuto pur conoscendo quei verbali e abbia ugualmente partecipato alla espulsione di Palamara dalla magistratura”. “Ormai appare chiaro che non solo membri del collegio disciplinare ma il Csm tutto fosse a conoscenza di atti che ne hanno preventivamente influenzato il giudizio.”

Da “il Giornale” il 29 luglio 2021. Luca Palamara va all'attacco. E dopo le ultime evoluzioni del caso Amara e le dichiarazioni di Piercamillo Davigo al «Corriere della sera», annuncia un esposto sia contro Davigo sia contro il presidente del collegio che lo ha rimosso dalla magistratura, Fulvio Gigliotti, perché avrebbe dovuto astenersi. «Emerge che i verbali dell'avvocato Amara sulla Loggia Hungaria - denuncia la sua difesa - erano anche nella disponibilità di Fulvio Gigliotti, presidente del collegio della sezione disciplinare che ha rimosso il dott. Palamara dalla magistratura. Le nuove e coraggiose dichiarazioni del dottor Davigo impongono ora di comprendere per quale motivo il dott. Gigliotti non si sia astenuto pur conoscendo quei verbali e abbia ugualmente partecipato alla espulsione di Palamara dalla magistratura. Per questo motivo depositeremo un esposto alla Procura della Repubblica».

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 29 luglio 2021. Nel maggio 2020 «il vicepresidente del Csm, David Ermini, mi disse di avere informato il presidente della Repubblica». Piercamillo Davigo, l'ex consigliere del Csm al quale nell'aprile 2020 il pm Paolo Storari consegnò i verbali segreti del dichiarante Piero Amara sull'associazione segreta «Ungheria» come reazione all'asserita inerzia investigativa dei capi della Procura meneghina, lo ha affermato nel verbale di sommarie informazioni reso il 5 maggio alla Procura di Roma, quand'era testimone e non ancora coindagato a Brescia di Storari per rivelazione di segreto d'ufficio. Rispetto a quanto sinora si era già ricostruito in una intervista al Corriere , l'ex pm di Mani pulite, oltre a confermare al procuratore di Roma, Michele Prestipino, e ai pm Rosalia Affinito e Fabrizio Tucci, di aver a inizio maggio informato del contenuto dei verbali Ermini quale presidente del Comitato di presidenza del Csm (composto dai poi pure informati procuratore generale e presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio), ma ha anche aggiunto che raccomandò a Ermini la massima circospezione: addirittura invitandolo a scendere in cortile a parlare, senza cellulare, per paura di intercettazioni fuorilegge. Ma soprattutto Davigo ai pm romani indica che entrambi, Ermini e Davigo, convennero sul dovere di informare il presidente della Repubblica che è anche il presidente del Csm, nel presupposto che fosse scorretto celargli la situazione. E a questo punto Davigo afferma con nettezza che Ermini gli disse di avere in effetti informato il capo dello Stato. Ermini, al quale Davigo ha detto di aver poi anche consegnato tutti i verbali stampati di Amara datigli da Storari, interpellato ieri dal Corriere risponde di «non potere dire nulla perché ho riferito alla Procura di Brescia». Analoga risposta arriva da Davigo alla richiesta di spiegare meglio quanto detto il 5 maggio a Roma. E nessun commento anche dallo staff del Quirinale. Ieri Ermini si è astenuto (come altri tre consiglieri Csm informati all'epoca da Davigo) dal collegio disciplinare che domani deciderà se accogliere la richiesta del pg Salvi di trasferire d'urgenza in via cautelare Storari da Milano e togliergli le funzioni di pm. L'allora segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto è indagata dalla Procura di Roma con l'accusa di aver spedito (a partire da ottobre 2020, cioè da dopo la pensione di Davigo) i verbali di Amara in forma anonima al Fatto Quotidiano, a Repubblica e al consigliere Csm Nino Di Matteo. Su questo il 5 maggio Davigo ha aggiunto due inediti e interessanti dettagli logistici allo stupore già più volte espresso sulla condotta della segretaria, da lui ritenuta affidabile. Il primo è che Davigo, quando nel lasciare il Csm lasciò anche i verbali di Amara al consigliere Csm Giuseppe Marra nel caso in cui il Comitato di presidenza Csm ne avesse avuto bisogno, lo disse anche a Contraffatto, informandola di dove avesse sino allora nascosto i verbali. L'altro dettaglio può retrodatare la disponibilità dei verbali in mano alla segretaria: infatti Davigo spiega che il 7 aprile 2020, per portarsi dietro senza stamparli i verbali di Amara datigli da Storari, se li era autospediti dalla propria casella mail privata a quella istituzionale del Csm. Posta elettronica alla quale era abilitata ad accedere appunto anche la sua segretaria Contraffatto.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 31 luglio 2021. La ricostruzione della consegna dei verbali del finto pentito Piero Amara sulla loggia Ungheria da parte del pm milanese Paolo Storari, per una presunta inerzia investigativa dei suoi capi, all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, continua ad avere molti punti oscuri. In particolare a non tornare sono le date. Da mesi i giornali scrivono che Storari avrebbe consegnato a Davigo i verbali nell'aprile del 2020, mentre, come vedremo, lo stesso ex consigliere del Csm, in una testimonianza resa a Perugia il 19 ottobre 2020 alla vigilia del pensionamento coatto, sembra retrodatare di un mese la conoscenza del loro contenuto, e in particolare quella della presunta appartenenza alla loggia Ungheria del suo ex pupillo, il consigliere di Autonomia e indipendenza Sebastiano Ardita. Lo stesso che, nella testa dell'ex campione di Mani pulite, lo avrebbe ingannato facendogli incontrare per due volte il pm Stefano Fava, sospettato di essere un sodale di Luca Palamara, e facendogli votare il 23 maggio 2019 come procuratore di Roma il Pg di Firenze Marcello Viola, candidato di Palamara, Luca Lotti e Cosimo Ferri, quest' ultimo presunto confratello di Ardita nella fantomatica loggia. Di certo c'è che nel marzo del 2020 Davigo si rimangia il sostegno a Viola e punta le sue fiches su Michele Prestipino, rompendo con Ardita e con Nino Di Matteo, i quali si astengono. Da allora Piercavillo sostiene di non parlare più con Ardita, ma forse per un motivo diverso rispetto all'apparente spaccatura sulla scelta del procuratore capitolino. Davigo dopo aver richiesto e ottenuto copia dei verbali da Storari ad aprile anziché depositarli formalmente al Csm ha iniziato a farli girare nei corridoi, mostrandoli a questo o a quello, finanche nella tromba delle scale del parlamentino, per stigmatizzare il comportamento di Ardita. Però non ne ha parlato solo in modo carbonaro nei corridoi di Palazzo dei marescialli per mesi (quanti?), sino alla vigilia della cacciata dallo scranno consiliare, ma sembrerebbe averli usati per mandare messaggi in codice nel verbale delle dichiarazioni che ha reso a Perugia nell'ambito dell'inchiesta su Luca Palamara. Leggiamo. Domanda: «Ha parlato con il dottor Ardita dell'esposto presentato dal dottor Stefano Fava contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone?». Risposta: «Ho parlato con Ardita dell'esposto contro Ielo e non contro Pignatone, una volta uscite le intercettazioni. Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale». Domanda: «Perché Ardita era preoccupato?». Risposta: «Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta in parte da segreto d'ufficio». Nei mesi scorsi ci eravamo chiesti a quale segreto facesse riferimento Davigo il 19 ottobre e oggi risulta abbastanza chiaro che stesse collegando la vicenda Palamara alla storia dei verbali di Amara e della loggia Ungheria, di cui, secondo l'avvocato siracusano, Ardita faceva parte. Ed eccoci alla questione della possibile retrodatazione della conoscenza dei verbali da parte di Davigo. I pm perugini hanno chiesto una seconda volta all'ex campione di Mani pulite perché Ardita fosse preoccupato e la replica è stata la seguente: «Questa è la parte coperta da segreto d'ufficio su cui non posso rispondere. Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo 2020». Ovviamente il segreto riguardava una Procura diversa da quella di Perugia e oggi è facile immaginare che il riferimento fosse agli interrogatori di Amara fatti dalla Procura di Milano. In passato noi avevamo collegato, come detto, la data di marzo allo scontro per la votazione del procuratore di Roma, ma probabilmente a spaccare il fronte di Autonomia e indipendenza era stata la notizia delle dichiarazioni del «pentito» su Ardita. Se così fosse, la soffiata di Storari sarebbe arrivata almeno un mese prima rispetto alla consegna dei verbali a Davigo. In quel mese di buco il consigliere ha sollecitato il pm per avere le carte? E quando Storari sceglie di informare Davigo, lo fa perché la questione Ardita e il voto per Viola erano già stati motivo di discussione tra i due? Chissà se adesso che è indagato a Brescia per rivelazione di notizie riservate Davigo deciderà di riferire a quale segreto d'ufficio si riferisse a Perugia e spiegherà quando seppe della loggia Ungheria e del suo ipotetico collegamento con Ardita.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” l'1 agosto 2021. I pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici sono indagati dalla procura di Brescia per le vicende relative all'inchiesta Mps condotta dai tre magistrati. Il fascicolo, assegnato alla pm Erica Battaglia, è in fase di indagine preliminare e lo scorso 15 luglio è stata chiesta la proroga delle indagini. L'ipotesi di reato è l'omissione di atti d'ufficio. Il filone riguardante le responsabilità di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e amministratore delegato tra il 2013 e il 2016, sono state al centro di un lungo braccio di ferro tra procura e giudici. Nel maggio scorso i tre pm si sono spogliati del fascicolo, dopo che il gip Guido Salvini aveva respinto l'ennesima richiesta di archiviazione delle posizioni degli ex vertici della banca senese, ordinando una nuova perizia e assegnando altri 45 giorni per svolgere indagini nel filone che riguarda la contabilizzazione dei crediti deteriorati dell'istituto. Dopo la riassegnazione del fascicolo, nelle settimane scorse, la Guardia di finanza ha effettuato una serie di acquisizioni di documenti e sentito manager della banca, consulenti e funzionari della Bce. I tre pm hanno complessivamente avanzato per sei volte richieste di assoluzione o archiviazione per Profumo e Viola, in due distinti filoni: oltre a quello dei crediti deteriorati, c'è anche un distinto filone che riguarda la contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini per il quale i due manager sono stati condannati in primo grado nell'ottobre scorso. L'indagine della procura di Brescia è partita da una denuncia di Giuseppe Bivona. La procura di Brescia, competente per gli accertamenti sui magistrati milanesi, sta già indagando per omissione di atti d'ufficio, in un diverso fascicolo, il procuratore Francesco Greco. Greco, secondo quanto trapelato, non avrebbe avviato tempestivamente le indagini in seguito alle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 da Piero Amara, avvocato siciliano interrogato per la vicenda del complotto Eni, su una fantomatica associazione segreta in grado di condizionare nomine in magistratura e in incarichi pubblici (loggia Ungheria). Indagini aperte solo 5 mesi dopo, con le iscrizioni il 12 maggio di Amara, del suo collaboratore Alessandro Ferraro e dell'ex socio Giuseppe Calafiore. Per la stessa vicenda è indagato anche il pm Paolo Storari.

Francesco Greco indagato? Difeso dallo stesso legale dell'Anm e degli ex vertici di Mps: toh che caso...Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Per rendere ancora di più incandescente il clima alla Procura di Milano ci mancava solo il "conflitto d'interessi" fra toghe. A sollevare il caso è stato il manager romano Giuseppe Bivona, fondatore del fondo inglese Bluebell. Bivona questa settimana ha scritto al procuratore di Brescia, Francesco Prete, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, e ai componenti del Consiglio superiore della magistratura. Oggetto della nota del manager sono i profili di "opportunità" nella scelta del procuratore di Milano Francesco Greco di essere difeso dallo stesso legale dagli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, aloro volta imputati eccellenti della Procura guidata da Greco. Bivona, in passato, aveva anche manifestato perplessità sulla conduzione delle indagini su Mps dirette dai pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre magistrati erano i titolari, in particolare, del fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano stati iscritti per "falso in bilancio" Profumo, Viola e Paolo Salvadori, altro top manager di Rocca Salimbeni. Per i pm milanesi i tre non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso, invece, il giudice Guido Salvini che aveva respinto la richiesta d'archiviazione nei loro confronti, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. Dalle segnalazioni di Bivona erano partite, poi, le indagini bresciane a carico di Baggio, Civardi e Clerici. Profumo e Viola, difesi da Mucciarelli, sono stati condannati a ottobre 2020 in primo grado a sei anni per i derivati Alexandria e Santorini. Mucciarelli assiste Greco a Brescia nel procedimento per "omissione d'atti d'ufficio" per aver ritardato gli accertamenti sulle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara a proposito della Loggia segreta Ungheria. Il fascicolo era stato aperto dopo la denuncia del pm Paolo Storari. Mucciarelli, lo scorso anno, era stato anche incaricato dall'Associazione nazionale magistrati, durante la presidenza del pm milanese Luca Poniz, di costituirsi parte civile nel procedimento penale nei confronti di Luca Palamara. Tornado a Storari, invece, ieri si è svolta l'udienza in camera di Consiglio davanti alla Sezione disciplinare del Csm. La Procura generale della Cassazione ha chiesto per il magistrato il trasferimento di sede ed il cambio di funzioni: da pm a giudice. Per il procuratore generale Giovanni Salvi, Storari con il suo comportamento avrebbe creato «grave discredito» nei confronti di Greco e della sua vice Laura Pedio.  Storari, come si ricorderà, vista «l'inerzia» dei sui capi nel compiere accertamenti, aveva consegnato personalmente all'allora componente del Csm Piercamillo Davigo i verbali degli interrogatori di Amara, effettuati in Procura a Milano nelle ultime settimane del 2019 nell'ambito del procedimento sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. E per questo motivo era stato poi indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. In difesa di Storari si erano espressi circa 250 magistrati, firmando un appello in suo favore. Fra i promotori della raccolta firme, il capo dell'antiterrorismo di Milano, il procuratore aggiunto Alberto Nobili. «Non abbiamo mai depositato la lista delle persone che hanno accordato la loro fiducia e la loro simpatia umana», ha però specificato il legale di Storari, l'avvocato Paolo della Sala, all'uscita dal Csm. «Ci tengo a rappresentare con chiarezza che la fiducia accordata dai magistrati al mio assistito non è mai stata in alcun modo strumentalizzata», ha poi aggiunto.  

Mps, inquisiti tre pm milanesi: non indagarono su Siena, troppo morbidi verso gli ex manager. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 03 agosto 2021. Forse sarebbe il caso che il ministro della Giustizia Marta Cartabia mandasse gli ispettori alla Procura di Milano. Si è, infatti, perso il conto dei pm attualmente sotto indagine. Uno dei primi ad essere finito sotto procedimento è Francesco Greco, il capo dei pm, accusato di "omissione d'atti d'ufficio". Il procuratore di Milano, secondo le accuse, non avrebbe fatto accertamenti dopo le dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, sulla loggia "Ungheria", l'associazione segreta ed illegale composta da magistrati, professionisti, imprenditori ed alti ufficiali delle Forze dell'ordine, creata per aggiustare i processi e pilotare le nomine ai vertici degli uffici pubblici. Sempre per il medesimo reato è indagato uno dei vice di Greco, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, capo del dipartimento "reati economici e trasnazionali", ed il pm Sergio Spadaro, fresco di nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura alla neo costituita Procura europea con sede in Lussemburgo. I due, titolari del procedimento Eni-Nigeria, non avrebbero depositato prove a favore degli imputati. In particolare dei video in cui il principale accusatore dei vertici del colosso petrolifero di San Donato stava pianificando contro di essi una strategia di discredito, accusandoli di corruzione. Il processo Eni-Nigeria era, comunque, finito in una bolla di sapone con tutti gli imputati assolti. E' invece indagato per "rivelazione del segreto" il pm Paolo Storari. Il magistrato, anche sotto procedimento disciplinare al Csm (domani è attesa la decisione, ndr), aveva consegnato alcuni verbali di Amara a Piercamillo Davigo al fine, verosimilmente, di informarlo della "inerzia" dei propri capi nel fare le indagini. Anche Davigo è stato poi indagato per rivelazione del segreto. 

REATI ECONOMICI. Sono poi indagati i pm Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre avevano il fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano iscritti per "falso in bilancio" gli ex vertici di Rocca Salimbeni Alessandro Profumo, Fabrizio Viola e Paolo Salvadori. I top manager di Mps, per i tre pm, non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso il giudice Guido Salvini che aveva respinto la loro richiesta d'archiviazione, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. A seguito di ciò era scattata la denuncia contro i tre pm per "omissione d'atti d'ufficio" da parte di Giuseppe Bivona, manager del fondo Bluebell Parteners che aveva chiesto anche l'intervento della Consob. Questa vicenda ricorda, in parte, quanto accaduto al sindaco di Milano Beppe Sala nel procedimento Expo. Anche all'epoca la Procura di Milano retta da Greco aveva deciso di non procedere, chiedendo l'archiviazione per tutte le accuse. La Procura generale diretta da Roberto Alfonso, però, si era messa di traverso. E dopo aver "avocato" il fascicolo e disposto nuovi accertamenti aveva chiesto il processo per il sindaco. Sala era stato poi condannato in primo grado a sei mesi di carcere, convertiti in una multa da 45mila euro, per il reato di "falso ideologico e materiale". Il gran numero di pm indagati in quello che ai tempi di Mani pulite era considerato il santuario della legalità potrebbe, allora, essere il motivo per cui diversi magistrati che aspiravano al posto di Greco, in pensione fra un paio di mesi, non hanno formalizzato la candidatura. Fra i nomi di punta che si sono sfilati, il procuratore di Napoli Giovanni Melillo e il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri.

Quella catena di scelte errate del Csm che adesso travolge la procura di Milano. Luca Fazzo l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Per oltre dieci anni il potere è rimasto in mano alla stessa cerchia di toghe. Ora si volterà pagina: in pole per la successione a Greco il pg di Firenze Viola. Una lunga serie di occasioni perdute, di scelte cruciali compiute un po' per quieto vivere e un po' per convenienza: sta in questa catena di decisioni sbagliate del Consiglio superiore della magistratura la vera radice del dramma che travolge in questi giorni la Procura della Repubblica di Milano, lacerata al suo interno, con un capo sotto inchiesta e un futuro tutto da disegnare. I dettagli, i passaggi tecnici della vicenda dei verbali di Piero Amara, pseudo-pentito del caso Eni, sono complicati, già quasi tutti noti, e alla fine quasi irrilevanti. Ciò che conta è che l'ufficio giudiziario forse più importante del paese è allo sbando. Ed è difficile non indicarne una causa nella continuità di potere garantita per più di dieci anni dal Csm alla stessa cerchia di magistrati, legati da vincoli personali più ancora che di corrente. Per anni il Csm ha impedito non solo l'arrivo a Milano come procuratore di un «papa straniero», di un capo proveniente da fuori, ma ha anche che al vertice dell'ufficio arrivassero magistrati che pure nel capoluogo lombardo avevano fatto tutta la loro carriera, ma che portavano come pecca la estraneità al gruppo dominante. Se si fosse data aria alle stanze, non si sarebbe mai consolidata la rete di contiguità dentro cui è potuta maturare l'incredibile vicenda dei verbali di Amara, imboscati dalla Procura per salvare il traballante processo Eni. Per due volte, il Csm ha avuto la possibilità di girare pagina a Milano. La prima volta quando si trovò a scegliere il successore del procuratore Manlio Minale tra due candidati di punta: Ferdinando Pomarici, procuratore aggiunto, una vita in prima linea contro terrorismo e mafia, ma fama di scontroso e soprattutto di destrorso. E dall'altra parte Edmondo Bruti Liberati, esperienza sul campo vicina allo zero, ma leader di Magistratura Democratica ed ex presidente dell'Associazione magistrati. Sulla carta non c'era partita, ma il Csm - Forza Italia compresa, e con la benedizione del Quirinale - nomina Bruti. È lì che comincia a prendere forma il «cerchio magico» di cui parlerà spesso Alfredo Robledo, unico procuratore aggiunto estraneo al mondo del capo. La scena si ripete quando Bruti se ne va, dopo lo scontro furibondo con Robledo, e ci sono già richieste perché nella procura milanese approdi un capo da fuori. Scendono in campo candidati autorevoli come Giovanni Melillo e Giuseppe Amato, ma entrambi si convincono a rinunciare. Alla fine a giocarsela sono due milanesi: Francesco Greco, l'uomo della continuità, e Alberto Nobili, veterano della procura milanese, uomo di trincea come lo era Pomarici. E come Pomarici anche Nobili viene sconfitto. Il Csm insedia Greco ma non solo: due anni dopo gli permette di scegliersi personalmente i suoi vice uno per uno. Compreso Fabio De Pasquale, il pm che con la sua gestione del processo Eni svolge un ruolo decisivo dei pasticci di oggi. Perché nessuno, centrodestra compreso, abbia voluto girare pagina a Milano è uno di quei misteri fatti di riti romani e di presunte astuzie impossibili da sciogliere. Adesso che i risultati sono sotto gli occhi di tutti, il paradosso è che il Csm questa responsabilità dovrà prendersela per forza. Perché quest'autunno, quando le inchieste sul caso Eni saranno presumibilmente tutte ancora aperte, andrà scelto il successore di Greco, che va in pensione. E per la prima volta sul tavolo non ci sarà nessuna candidatura che possa mantenere al comando lo stesso gruppo di potere. Ieri si ufficializzano le candidature alla successione a Greco: ci sono delle sorprese, prime tra tutte la scomparsa dall'elenco degli aspiranti dei procuratori di Napoli e Catanzaro, Giovanni Melillo e Nicola Gratteri, che sarebbero stati dei top player. Restano nove nomi in tutto, sei con zero speranze, tre in pista davvero: il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato, e poi Maurizio Romanelli: che dei tre è l'unico in servizio a Milano, ma è un allievo di Pomarici e di Armando Spataro, lontano anni luce dal cerchio magico (e interrogato venerdì dal Csm pare si sia dichiarato all'oscuro di quanto emerso nel caso Amara). Qualunque sia la scelta, per Milano sarà l'addio a una generazione che ha regnato indisturbata. Ma non sarà merito del Csm.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

IL CSM CONTRO LA PROCURA GENERALE DELLA CASSAZIONE SUL CASO AMARA. IL PM PAOLO STORARI RESTA A MILANO. Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2021. Secondo la commissione disciplinare non c’è stato un “comportamento gravemente scorretto” da parte di Storari nei confronti Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e nessuna accusa nei loro confronti di “inerzia investigativa”. Il Csm ha rigettato la richiesta del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di trasferimento cautelare d’urgenza e di cambio di funzioni per il magistrato Paolo Storari che invece resta come pubblico ministero a Milano, nell’ambito del caso dei verbali dell’avvocato Amara sulla presunta esistenza di una associazione segreta denominata “Loggia Ungheria”. Storari era stato audito nella giornata di ieri per due ore davanti al Csm dove era arrivato insieme al suo legale Paolo Della Sala. Il magistrato milanese si è difeso davanti ai giudici chiamati ad esprimersi sulla presunta incompatibilità ambientale e sul suo trasferimento. Poi, dopo la camera di consiglio è arrivata la decisione. Nessun “comportamento gravemente scorretto” da parte di Storari nei confronti del Procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e nessuna accusa nei loro confronti di “inerzia investigativa”. Semmai nei colloqui con Piercamillo Davigo, il pm milanese ha espresso una “preoccupazione (…) sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali Piero Amara “in presenza di una chiara divergenza di vedute”, scrive il Csm. “Siamo molto soddisfatti”, commenta a caldo l’avvocato della Seta difensore di Storari. “La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante”. I sei giudici disciplinari del Csm hanno escluso che esistano esigenze cautelari in relazione ai tre illeciti disciplinari contestati a Storari, il quale sul versante penale è anche indagato a Brescia (insieme a Davigo) per rivelazione di segreto d’ufficio, anticipando e di fatto condizionando l’operato e le eventuali decisioni della Procura bresciana. 

Questi gli illeciti disciplinari contestati dalla Procura generale della Cassazione:

La PRIMA contestazione consisteva nella “informale e irrituale” consegna da Storari a Davigo di copie non firmate di verbali di un delicatissimo procedimento “su una supposta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte anche due consiglieri Csm” consegna avvenuta “a insaputa del procuratore di Milano“, e fatta “a un singolo consigliere del Csm” avesse violato le modalità formali (consegna in plico riservato al Comitato di presidenza del Csm) ricavabili da due circolari Csm del 1994 il 1995, ribadite dalla risposta che nel settembre 2020 il Csm diede a un quesito posto nel 2016.

La SECONDA “grave scorrettezza” di Storari, era stata quella nei confronti del suo procuratore Francesco Greco, la cui relazione del 7 maggio (che non gli ha evitato di finire pure indagato a Brescia per omissione d’atto d’ufficio) lamentava che Storari non avesse “formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine” secondo quanto proposto nell’imputazione dal pg di Cassazione Salvi , rappresentato in udienza dal suo sostituto pg Marco Dall’Olio, e che solo successivamente avesse richiesto per iscritto che si svolgessero ulteriori attività di indagine e si procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati.

Storari nell’udienza dinnanzi alla Disciplinare del Csm, ha provato a spiegare di aver voluto reagire a quattro mesi di solleciti a voce alla contitolare procuratore aggiunto Laura Pedio, al procuratore capo Francesco Greco e all’altro aggiunto Fabio De Pasquale; e di non aver quindi potuto “ritualmente prospettarli” proprio ai suoi capi. Il Csm non ha sposato con la sua decisione la tesi accusatoria di uno Storari che con il suo comportamento avrebbe gettato “discredito” su Greco e Pedio, secondo il procuratore generale Salvi “non messi anticipatamente al corrente di un effettivo e formalizzato dissenso sulla conduzione dell’indagini”, e quindi esposti a “una sotterranea campagna di discredito oggettivamente posta in essere da Storari, per giunta all’interno del Csm“.

La TERZA contestazione della Procura Generale della Cassazione partiva dal fatto che nell’ottobre 2020 Antonio Massari giornalista del Fatto Quotidiano, si fosse recato in Procura ad avvisare i magistrati di avere ricevuto in forma anonima apparenti verbali segreti di Amara (quelli che solo di recente la Procura di Roma accuserà la segretaria di Davigo al Csm di aver spedito): per questa imputazione Storari ha spiegato al Csm per quali ragioni non collegò i verbali anonimi con i verbali che aveva dato mesi prima a a Davigo (circostanza non palesata in quel momento ai capi). Il procuratore generale Salvi valorizzava l’accusa mossa a Storari dal procuratore aggiunto Laura Pedio nella relazione del 6 maggio scorso: cioè il fatto che la Pedio, dopo aver concordato con lui nel gennaio 2021 di esplorare la pista investigativa sulla fuoriuscita dei verbali su carta o su computer attraverso un incarico a un perito informatico, “abbia poi accertato che solo l’8 marzo” Storari aveva conferito l’incarico al perito riguardo alla natura delle copie spedite al giornalista, e invece ancora nessun incarico sui computer della Procura. 

Un comportamento, quello di Storari, che prima Greco e Pedio nelle loro relazioni, e successivamente il procuratore generale della Cassazione Salvi nell’imputazione, hanno qualificato di “rallentamento” e “ostruzionismo” delle indagini. Ma Storari deve avere opposto al Csm dei dati di fatto contrastanti a questa ricostruzione, evidentemente tali da aver convinto la Sezione Disciplinare, composta — dopo le astensioni del vicepresidente Csm David Ermini e degli altri consiglieri Csm ai quali Davigo mostrò o parlò dei verbali di Amara ricevuti da Storari , dal componente laico (eletto dal Parlamento) espresso dalla Lega, Emanuele Basile, presidente del collegio, dall’altro membro di nomina parlamentare, il relatore Filippo Donati (5Stelle), e dai togati (cioè eletti invece dai magistrati) Giuseppe D’Amato e Paola Braggion (entrambi di Magistratura Indipendente), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost) . Sotto il profilo penale Storari resta indagato a Brescia per rivelazione di segreto nella consegna dei verbali di Amara a Davigo, mentre Greco a Brescia è indagato per l’ipotesi di omissione d’atto d’ufficio nelle ritardate iscrizioni delle notizie di reato scaturenti dai verbali di Amara.

Il Csm in relazione nei colloqui con Piercamillo Davigo, ha espresso una “preoccupazione (…) sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali Piero Amara “in presenza di una chiara divergenza di vedute”. La sezione disciplinare ritiene che la consistenza degli indizi sottoposti con la richiesta “non conduca a un giudizio prognostico di sussistenza dell’illecito”. La situazione che si è determinata “non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia” né “si riverbera sull’esercizio delle funzioni specifiche”.

Adesso, con Storari non cacciato da Milano in via cautelare come auspicava il suo procuratore Greco intervenuto con una lettera aperta ai pm milanesi alla vigilia dell’udienza disciplinare al Csm contro Storari, proseguirà per lui comunque il procedimento disciplinare ordinario, al termine del quale potrà essere o prosciolto o sanzionato secondo varie gradazioni (dall’ammonimento alla censura, dalla perdita di anzianità alla radiazione). Nel frattempo procede l’inchiesta parallela della Procura di Brescia, che indaga sul procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e sul pm Sergio Spadaro per l’ipotesi di rifiuto d’atto d’ufficio, nel presupposto che questi due pm, titolari del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria succesivamente conclusosi il 17 marzo scorso con la assoluzione di tutti gli imputati, non abbiano messo a disposizione del Tribunale talune prove: proprio quelle che, scoperte da Storari proprio in un fascicolo parallelo con Pedio, e da lui segnalate ai colleghi e ai capi della Procura tra fine 2020 e inizio 2021, che mettevano in dubbio l’attendibilità dell’accusatore di Eni, il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, su cui la Procura di Greco aveva investito (nel processo istruito da De Pasquale e Spadaro) e ancora stava investendo (nell’indagine di Pedio e Storari in corso da quattro anni sul depistaggio giudiziario Eni).

Sconfessati Greco e i suoi fedelissimi. Veleni e tradimenti, la procura di Milano ora è senza guida. Luca Fazzo il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Il capo (indagato) in pensione in autunno. Il futuro è un'incognita. Una vittoria dei pm che avevano firmato in difesa del loro collega. La presenza di Paolo Storari nella Procura di Milano «non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia». È questa la frase chiave del provvedimento che ieri dal Csm arriva a Milano, dove passa (virtualmente) di mano in mano tra le decine di magistrati che avevano sottoscritto l'appello in difesa del pm sotto accusa per i verbali del caso Amara. È la frase decisiva perché fa proprio quanto era stato scritto nell'appello firmato dall'intera Procura della Repubblica (tranne i fedelissimi del capo Francesco Greco). Storari è uno di noi e siamo pronti a continuare a lavorare al suo fianco, diceva in sostanza il documento: entrando così in rotta di collisione con Greco, che infatti l'aveva preso malissimo; nonché con la procura generale della Cassazione che aveva chiesto al Csm la testa di Storari proprio in nome della «serenità» della Procura milanese. Ieri, per i firmatari, è il giorno della vittoria: nella decisione del Csm si scrive anche che Storari può continuare a fare il pm a Milano perché quanto accaduto intorno ai verbali di Amara è una vicenda irripetibile, «collegata ad una particolarissima situazione fattuale, che aveva creato sovrapposizioni e disfunzioni difficilmente reiterabili in altri casi». Incolpare Storari di avere violato il segreto consegnando i verbali a Davigo è arduo perché lo stesso Csm ha diramato una tale serie di circolari sul segreto che non ci si capisce più niente: «Le circolari hanno dato luogo a problematiche interpretative», e l'accusa mossa a Storari è figlia di una «interpretazione normativa di non piana soluzione» e di un precetto non «chiaramente individuabile». Il pm viene prosciolto anche dall'avere accusato ingiustamente i suoi capi di voler bloccare le indagini sulla «loggia Ungheria»: nel suo sfogo con Davigo, si limitò secondo il Csm a manifestare «la preoccupazione sulle modalità di gestione del procedimento, in presenza di una chiara divergenza di vedute con il Procuratore». Le dieci pagine che i colleghi milanesi di Storari si trovano in mano sono, insomma, quasi una assoluzione piena per il pm finito nei guai. La reazione è di sollievo, «siamo felicissimi per Paolo», dice uno dei firmatari. Ma è chiaro a tutti che insieme alla vittoria di Storari la decisione del Csm porta anche a una sconfessione piena di Greco e del suo cerchio magico, e mette da questo punto di vista la Procura milanese in una situazione drammatica, con un capo che a tre mesi dalla pensione si trova indagato penalmente a Brescia e smentito dall'organo di autogoverno. Così la domanda che si fanno le decine di pm qualunque, quelli che hanno firmato il documento più per amicizia verso Storari che per avversione a Greco, è: adesso cosa accadrà? La paura della maggioranza è di trovarsi di fronte a un interregno di lunga durata, in un ufficio sostanzialmente non governato. E questo non gioverebbe a nessuno. Ieri, nella grande Procura svuotata dall'agosto, accade - da questo punto di vista - un incontro significativo. Greco, che è tra i pochi presenti al lavoro, incontra il procuratore aggiunto Riccardo Targetti. Targetti è il più anziano tra i «vice» del capo, e questo lo destina a guidare l'ufficio nei lunghi mesi che il Csm impiegherà a scegliere il nuovo procuratore. Anche Targetti ha firmato l'appello in difesa di Storari: ma si dice che lo abbia fatto anche per non schierarsi contro la base dell'ufficio, e per candidarsi a riportare l'armonia, all'indomani del pensionamento di Greco, in un gruppo di lavoro devastato da contrapposizioni e veleni. Il lungo incontro di ieri tra Greco e Targetti non è ancora un passaggio di testimone, ma forse è il segnale che ci si prepara a voltare pagina. Comunque non sarà facile, perché questa storia ha lacerato anche i rapporti personali: e perché in Procura rimane comunque Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che i verbali di Amara voleva usarli contro l'Eni, e che Greco ha voluto alla testa del contestatissimo pool sui reati economici internazionali. Un pool che era il fiore all'occhiello della Procura milanese, e che perfino l'Ocse si preparava a incontrare in questi giorni. Incontro saltato, ovviamente.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Ancora Csm-Procura di Milano: un teatrino che non aiuta l'Italia. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 5 agosto 2021. MENTRE va avanti con estrema lentezza la riforma Cartabia che per quanto ridotta rappresenta comunque il giro di boa dopo il peggio del peggio dalla riforma Bonafede, la giustizia italiana seguita a dare spettacolo e non dei migliori. Al centro del disastro, di nuovo, la procura di Milano dove il Csm è intervenuto per contraddire per rendere inefficaci le decisioni del procuratore capo Greco, stabilendo che il pm Sergio Spadaro non debba essere rimosso da Milano e che non ci sia alcun inquinamento ambientale che suggerisca un tale provvedimento. Come se non bastasse e già lo sappiamo, la procura di Brescia stagione indagando su quella di Milano, mentre il figlio del procuratore Borrelli ha preso le distanze da Greco che era stato ai tempi di mani pulite il delfino del padre. Cerchiamo di ricapitolare brevemente per capire di che cosa stiamo trattando. Il pubblico ministero Spadaro era titolare dell’inchiesta sulle rivelazioni fatte dall’avvocato Amara che contengono un racconto estremamente grave sulla situazione giudiziaria in generale. In quel racconto si parlerebbe anche di una non meglio specificata loggia Ungheria di cui non si capisce se dovrebbe o no far parte della massoneria o se si tratterebbe soltanto di una accolita di persone che coltivano interessi di carriera comuni e in cui ci sarebbero determinate carriere, assegnazioni di inchieste, epiloghi di indagini. Di questa confraternita secondo quanto avrebbe testimoniato l’avvocato Amara farebbero parte non soltanto dei magistrati ma anche avvocati, giornalisti, e qualche membro delle forze dell’ordine e forse dei servizi segreti ma non se ne sa molto di più. Il procuratore Spadaro decise di venire a capo di questa faccenda e controllare parola per parola le dichiarazioni di Amara. Ma si è visto sottrarre il fascicolo dal suo capo il procuratore capo Greco. A questo punto Spadaro, sentendosi abbandonato e vedendo a rischio la sua attività di fedele servitore dello Stato ha pensato di rivolgersi a Piercamillo Davigo membro del CSM a Roma per non far affossare l’inchiesta. E gli consegnò clandestinamente il dossier. Poi gli eventi sono precipitati nel senso che non è accaduto nulla ma con alcune curiose varianti. Davigo avrebbe parlato del dossier Amara facendone riferimento come la prego ma senza compiere alcun atto preciso. In compenso lo stesso dossier sarebbe stato fotocopiato e inviato anonimamente a due giornalisti di due importanti testate italiane i quali, fedeli al motto  “noi altri giornalisti pubblichiamo tutto non importa che cosa ci sia dentro perché il nostro dovere mestiere”, si sono tenuti il malloppo nelle loro case senza far trapelare una parola. È nata così un’inchiesta anche su ciò che ha fatto Davigo, se è stato lui o no a dare questo dossier. Brutta storia brutta faccenda.  Adesso il Csm che si sente fortemente sotto la lente di ingrandimento, è in stato d’accusa davanti all’opinione pubblica per le numerose rivelazioni che  negli ultimi anni non hanno certo contribuito a migliorare la sua immagine, ha deciso di intervenire con un gesto clamoroso: contraddire Greco, che è già sotto inchiesta dalla procura di Brescia, dare ragione di fatto a Spadaro e ammettere quindi che la questione del dossier Amara è grave, importante, che finora è stata trattata in una maniera che non può considerarsi accettabile quantomeno per l’opinione pubblica. Questa vicenda come abbiamo detto e l’esempio ultimo ma non unico di una situazione della giustizia in crisi e in alcune procure come quella di Milano si direbbe ad un crollo verticale della dell’immagine e degli uomini che ora gestiscono. Gli uomini sono quelli che si rifanno ancora all’antico pool originario di Borrelli, quello che per intendersi decapitò la prima Repubblica attraverso l’inchiesta Enimont, e  che si concluse con innumerevoli processi, pochissime insignificanti condanne, e una terribile quantità di vite umane perdute per suicidio o morti misteriose come quella di Raul Gardini che dopo aver recapitato una valigetta al Palazzo delle Botteghe Oscure, dove aveva sede il partito comunista italiano, tornato a casa ci sarebbe fatto una rigenerante doccia e poi sdraiato sull’accappatoio si sarebbe distrattamente sparato alla tempia. Per non dire di Emanuele Cagliari presidente dell’ENI che si sarebbe suicidato girando la testa in un sacchetto di plastica azione che è del tutto impossibile effettuare come suicidio perché qualsiasi persona voglia usarla al fine di morire non riesce a portarla a termine si strappa via il tasto il sacco dalla testa. Cagliari no. La storia è molto lunga e per nulla trasparente. Non sappiamo neanche dire se oggi siamo gli epigoni di quelle vicende ma certamente siamo nel solco di una brutta storia, che ci fa apparire all’Europa indegni di ricevere i fondi degli altri paesi europei che vantano una tradizione più civile nella gestione della giustizia dei cittadini. Adesso abbiamo questa piccola riforma Cartabia di cui come abbiamo detto possiamo esserci certi che quantomeno si tratta del punto di svolta. Non risolve tutto anzi risolve pochissimo. Ma quel poco è buono: viene stabilita la improcedibilità dei processi penali protratti oltre i limiti intendendosi che la prescrizione illimitata è una colpa del magistrato, che viene meno all’obbligo di concludere in tempo la sua inchiesta poiché non è ammissibile in nessuna civiltà moderna e democratica che un cittadino si veda inquisito e processato a vita senza via di scampo neanche quando viene dichiarato innocente in primo grado, e neanche il secondo. La riforma Cartabia ha interrotto quella linea perversa, ha salvato un po’ capra e cavoli introducendo i limiti dei processi che contengono elementi di mafia, terrorismo e delitti sessuali, cosa che non da tutte le garanzie ai cittadini dal momento che qualsiasi magistrato che avrebbe  interesse a protrarre un processo per molti anni, non deve far altro che includere uno di questi reati seppure in forma ipotetica tra le accuse rivolte salvo poi essere smentito dalla sentenza. L’abbiamo visto recentemente col processo alla mafia romana, trattato come un caso di mafia si sia  ridotto a un caso di banale criminalità urbana e dunque con l’abuso di tutte le norme, i  riferimenti giudiziari che fanno capo ai processi di mafia. Ma siamo già un pezzo avanti è questo l’importante. Abbiamo avuto la fortuna o il piacere di vedere il ministro Bonafede  parlare contro sé stesso contro la propria cosiddetta riforma e votare contro ciò che lui stesso aveva fatto. Bella soddisfazione. I Cinque Stelle sono divisi in micro-stelline sparse, anche se adesso Giuseppe Conte ha i titoli formali per guidare il movimento. La questione della giustizia è appena nata dal punto di vista della sua riforma perché bisogna ora attendere la questione dei referendum, se si faranno, quando e con quali risultati. Oppure se il Parlamento avrà la forza,  il coraggio di riprendere in mano tutta la materia e legiferare prima del referendum in maniera più organica e completa. Potrebbe accadere ma nel dubitiamo: tutto è assolutamente dubbio, salvo il fatto che la presenza di Draghi costituisce ancora una volta una garanzia e proprio queste ultime vicende giudiziarie lo dimostrano dal momento che l’enorme macchinario farraginoso ha cominciato a muoversi e sia pur cigolando la macchina ha ripreso seppur lentamente a funzionare.

Loggia Ungheria, procure in mezzo al guado. Frank Cimini su Il Riformista il 5 Agosto 2021. L’ormai famosa loggia Ungheria è esistita, esiste o si tratta di una bufala messa a verbale dall’avvocato Piero Amara? Non lo sappiano e c’è il rischio di non saperlo mai. Le procure di Milano, Perugia e Vattelapesca dovrebbero accertarlo. Il condizionale è d’obbligo perché a quanto pare nulla è stato fatto sia prima sia dopo l’emergere del caso. Diciamo che le procure potrebbero (eufemismo) essere imbarazzate. Nel caso dovessero indagare finirebbero inevitabilmente per lanciare il messaggio di sospettare di altre toghe. Dal momento che Piero Amara ha affermato che ne facevano parte anche magistrati e giudici insieme a politici imprenditori avvocati e uomini di affari. Anche per intrallazzare sulle nomine del Csm. Nel caso invece non dovessero indagare finirebbero per buttare a mare con un gioco di parole Amara che per molti versi ci si è buttato da solo. Ma, dettaglio importantissimo, l’avvocato siciliano viene ancora valorizzato al massino come testimone della corona dalla procura di Milano nel ricorso in appello contro la sentenza che ha assolto i vertici dell’Eni dall’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari nel tentativo in verità non facile di ribaltare il verdetto al processo di secondo grado. Delle due l’una. Non esiste una terza via, a meno che non dovesse trattarsi di non fare niente. A non fare niente intanto anche sul punto è il Csm che pare non toccato dalla vicenda. A cominciare dal suo presidente Sergio Mattarella che è anche il capo dello Stato e di questi tempi parla di tutto persino dell’istituto di previdenza dei giornalisti ma non della bufera che ha investito la categoria nel suo complesso. A tacere poi è la politica tutta. Storicamente quando la politica è in difficoltà, basta ricordare il mitico 1992, viene azzannata dalla magistratura che in questo modo aumenta il proprio potere. Quando la magistratura è in difficoltà la politica sembra avere paura. È riuscita a tacere in sostanza anche sul caso del senatore Caridi assolto dopo 5 anni compresi 18 mesi di carcere dove lo mandò il Parlamento accogliendo la richiesta di arresto dei giudici. Tornando a botta. Cosa farà per esempio sulla famosa loggia Ungheria la procura di Milano in pratica delegittimata dal Csm che ha deciso di non trasferire il pm Pm Paolo Storari il quale aveva rotto con il capo Francesco Greco proprio su quelle indagini mancate? Cosa può coordinare Greco a pochi mesi dalla pensione e indagato a Brescia giusto per lo scontro con Storari? E nel caso in cui Greco anticipasse la pensione chi lo dovesse sostituire come facente funzione in attesa della nomina del successore riprenderebbe subito in mano la patata bollente? E a Perugia sono tutti presi solo dal caso Palamara senza avere tempo per altro? Non resta che aspettare magari nella consapevolezza di non doversi aspettare niente se non che il tempo scorra. Frank Cimini 

"Tra Storari e De Pasquale io salvo il primo". Luca Fazzo l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato gran conoscitore del tribunale milanese: "60 pm su 65 la pensano come me". «Non sono amico del dottor Storari, l'ho avuto come pm in molti processi e posso dire che è un osso molto duro. Ma anche di estrema correttezza, è uno che mantiene la parola. E se sessanta pm su sessantacinque hanno preso le sue difese, questo significa che la pensano come me».

Davide Steccanella, avvocato da 35 anni a Milano, è una delle voci critiche - anche con i suo interventi sul blog Giustiziami.it - del rito ambrosiano della giustizia. Come tutti i suoi colleghi, legge da giorni quanto sta emergendo sullo scontro furibondo innescato nella procura di Milano dalla gestione del processo Eni e dai verbali del pentito Piero Amatra. E non ha esitazioni nell'indicare da che parte stiano le ragioni.

Chi vive in tribunale a Milano ha i mezzi per capire quanto sta accadendo?

«Non del tutto, ci sono sicuramente parti di non detto che non vengono divulgate urbi et orbi. Poi non abbiamo le carte, che sono ancora nei fascicoli disciplinari del Csm e della Procura di Brescia. Ma una idea me la sono fatta».

E qual è?

«Che da una parte ci siano stati da Storari comportamenti formalmente eccepibili. Che sono però assolutamente meno gravi dei comportamenti sostanziali che, se venissero provati, vengono addebitati all'altra parte (cioè al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del processo Eni, ndr). Per capire la gravità dell'accaduto bisogna ricordare che stiamo parlando della Procura di Milano, probabilmente la più importante del paese per gli interessi che è in grado di smuovere».

Però Storari l'ha fatta grossa, passando quei verbali a Davigo.

«Bisogna sempre distinguere tra forma e sostanza. Va bene, Storari ha fatto vedere degli atti segreti. Ma lo ha fatto, per quanto se ne capisce, in stato di necessità. Dall'altra parte cosa è accaduto? Premetto che bisogna essere garantisti con tutti, quindi anche con i magistrati. Ma se venisse confermato quanto emerso finora, siamo di fronte a qualcosa di ben più grave. La Procura ha fatto un uso parziale di verbali di cui aveva la disponibilità, usando solo la parte che le serviva per colpire il giudice del processo Eni. Vede, quel giudice io lo conosco bene, siamo amici, abbiano studiato insieme all'università. È una delle persone più oneste della storia umana. Pensare di accusare Marco Tremolada di essere a disposizione di chicchesia è aldilà di ogni verosimiglianza».

Però la Procura generale della Cassazione ha chiesto il trasferimento di Storari, e non di De Pasquale.

«Ho trovato un po' strano che il primo a essere oggetto di un provvedimento fosse Storari. Il Csm evidentemente è stato del mio stesso avviso».

De Pasquale è accusato anche di avere nascosto elementi utili alla difesa degli imputati. Non c'è un po' di ipocrisia in questa accusa? Davvero esistono invece pm che cercano le prove dell'innocenza dei loro indagati?

«Se esistono, io non ne ho mai incontrato uno. Ma devo dire che non mi scandalizzo. Sì, esiste una norma del codice che lo prevederebbe, ma credo che sia la meno applicata in assoluto dell'intero codice. Ricordo però che Giovanni Falcone, quando entrò in vigore questo codice di procedura, disse: adesso il pubblico ministero è l'avvocato della polizia. Ecco, io considero il pm il mio omologo dall'altra parte, e per questo non mi aspetto che mi dia una mano. Il problema è quando il giudice sta dalla sua parte, quando si fa coinvolgere anche lui dall'agonismo del pm».

Il giudice può anche essere bravo, ma un processo non è mai uno scontro ad armi pari.

«Per forza, per sei mesi il pm indaga senza dirti niente. Quando scendi in pista tu, per raggiungerlo devi essere Marcell Jacobs».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Lo strano doppio ruolo di De Pasquale su Eni (col benestare di Greco). Luca Fazzo il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. È indagato per aver omesso un video chiave. Ma continua a rappresentare l'accusa. Chi sta difendendo il dottor Fabio De Pasquale, procuratore aggiunto della Repubblica a Milano, nel processo Eni e nel gigantesco intrigo che ne è seguito? Sta difendendo gli interessi della giustizia e della verità, o sta difendendo se stesso? Poiché tutto è possibile, magari sta difendendo entrambi. Ciò non toglie che non si possa capire bene la tempesta che ha investito la Procura milanese, lacerata al suo interno e con un capo sconfessato persino dal Consiglio superiore della magistratura, se non si scava bene nelle pieghe del processo da cui tutto nasce, l'accusa di corruzione ai vertici Eni per le tangenti in Nigeria; e non si focalizza l'attenzione sulle scelte compiute in questi giorni da De Pasquale, che delle accuse all'Eni è stato il protagonista assoluto. Il tribunale, come è noto, il 17 marzo ha assolto con formula piena i vertici Eni. Una assoluzione che De Pasquale temeva, e che ha fatto di tutto per impedire. Al punto di nascondere le prove a favore degli imputati, in particolare il video di un incontro in cui Vincenzo Armanna, l'ex manager Eni utilizzato da De Pasquale come «gola profonda», si rivelava come un ricattatore in piena regola, pronto già un anno prima a «fare arrivare una valanga di merda» sui vertici aziendali se non avessero accolto le sue pretese. Un video definito «dirompente» dai giudici che hanno assolto i vertici Eni. Per non avere portato quel video in aula, oggi De Pasquale è sotto inchiesta a Brescia per abuso d'ufficio. Eppure c'è la firma di De Pasquale sotto il ricorso presentato contro l'assoluzione dei dirigenti Eni. Il ricorso per ben otto pagine, dalla 72 all'80, si occupa del video di Armanna. Il video è cruciale per capire la vera storia degli affari Eni in Nigeria. Insieme ad Armanna vi compare Piero Amara, ex avvocato Eni, l'altro «pentito» usato da De Pasquale nel processo, insieme a due uomini di area Pd: Andrea Peruzy, ex braccio destro di Massimo D'Alema, e Paolo Quinto, assistente di Anna Finocchiaro. Nel video, Armanna annuncia agli altri la sua intenzione di ricattare i vertici Eni. Ma De Pasquale tiene il video per sé: decisione che i giudici definiscono «incomprensibile» visto che «reca straordinari elementi in favore degli imputati». Nel suo ricorso contro le assoluzioni, De Pasquale definisce «affaristico» e «da spaccone» il tono di Armanna, ma dice che il video «in nessun modo può diventare l'arma che distrugge un intero processo». Se ne occuperà a suo tempo la Corte d'appello. Il problema, per ora, è che De Pasquale si trova a giocare sia il ruolo di accusatore che quello di accusato. Al punto da non capire se le otto pagine che dedica al video nel ricorso siano più finalizzate a ottenere la condanna dei vertici Eni o la propria assoluzione nell'inchiesta bresciana. Questo doppio ruolo di De Pasquale sarebbe in teoria impedito dalla norma che prevede l'astensione del pubblico ministero davanti a «gravi ragioni di convenienza»: una facoltà che diventa un obbligo quando il pm ha un «interesse proprio» nella vicenda. Eppure non solo De Pasquale non si astiene, non solo firma (da solo) il ricorso ma si candida a sostenere personalmente l'accusa anche nel processo d'appello: per impedire che a occuparsene sia la Procura generale, che già in un altro processo ha smontato le accuse a Eni definendo Armanna un «avvelenatore di pozzi». Il problema è che De Pasquale può interpretare il doppio ruolo di accusatore e di accusato solo perché glielo consente il suo capo, Francesco Greco. Perché questo venga consentito da un magistrato della esperienza e della limpidezza di Greco è uno dei misteri di questa vicenda. Ma intanto tutto, dalla fuga dei verbali di Amara al video sparito del suo compare Armanna, riporta al gorgo del processo Eni: un processo caricato dalla Procura di Milano di tali e tanti significati da considerare l'assoluzione una sorta di tragedia. E così hanno perso la testa.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Terremoto nella magistratura. Salvi e Greco delegittimati, si dimetteranno? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Agosto 2021. «Se il procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi dovesse essere sconfessato dalla prima commissione del Csm cui ha chiesto trasferimento e cambio di funzioni per il pm milanese Paolo Storari, si dovrebbe dimettere». Lo scrivevamo sul Riformista lo scorso 27 luglio, e non possiamo che ribadirlo. Non per un improvviso furore giacobino nei confronti dell’alto magistrato, ma semplicemente perché quando si perde uno scontro politico importante come quello in corso tra le toghe italiane, si dovrebbe almeno mostrare la stessa dignità che viene richiesta ogni giorno ai politici. “Per ragioni di opportunità”, si usa dire. Insieme alla sconfitta di Salvi, del suo asse con il procuratore di Milano Francesco Greco e con il loro nume tutelare Giuseppe Cascini (potremmo aggiungere senza timore di sbagliare) è andato in crisi un sistema, un metodo che dominava e soffocava da trent’anni la democrazia italiana. Il sistema Mani Pulite, che era la presunta lotta del Bene contro il Male, ma anche e soprattutto qualcosa di più, qualcosa di peggio e di terribile: la capacità di governare trucchi e trucchetti processuali con la garanzia dell’impunità. Un vero maccartismo politico per via giudiziaria. È stata in gioco in tutti questi anni semplicemente la Grande Questione del Potere. Non è vero, come vuole la interessata vulgata del partito dei pm, che loro hanno occupato, obtorto collo, spazi che una politica imbelle aveva lasciato liberi. È andata esattamente al contrario. È invece successo che, proprio come ha capito e realizzato molti anni dopo il populista Beppe Grillo dando l’assalto al Parlamento, all’inizio degli anni novanta un Movimento in toga, cogliendo il momento di difficoltà politica e soprattutto economica del Paese, abbia aggredito i partiti e le grandi imprese. L’acclamazione delle tricoteuses e del popolo festante che faceva il girotondo intorno al Palazzo di giustizia di Milano hanno fatto il resto. I suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari ancora grondano sangue a dimostrazione di quanto violenta e politica sia stata quella guerra, con relativa presa del Palazzo d’inverno da parte del Movimento in toga. Non è un caso che i nodi siano venuti al pettine nel corso di un nuovo accanimento proprio sull’Eni. L’aggressione ai partiti è oggi più difficile. Quelli della Prima Repubblica non ci sono più, con la sola eccezione di quel Pci-Pds-Ds-Pd che è stato fin dal primo momento l’angelo custode del Movimento in toga. Non disinteressato, ovviamente. Un po’ perché salvato, nonostante fossero provati, anche da testimonianze “interne”, sia il finanziamento illegale ricevuto dall’Unione sovietica, sia la partecipazione alla spartizione con gli altri partiti alle commesse illegali delle grandi aziende. Alcune delle quali furono spolpate e portate alla cessazione dell’attività. Non a caso nessuno si alzò a protestare in quell’aula del 1993 quando Bettino Craxi disse che i bilanci di tutti i partiti erano “falsi o falsificati”. Né Occhetto né D’Alema né altri loro compagni chiesero la parola. Tutti muti e ipocriti. L’assalto ai partiti sui finanziamenti illeciti e sulla corruzione è praticamente finito lì, con la distruzione del pentapartito e della Prima Repubblica. Non a caso le centinaia di agguati giudiziari tesi in seguito a Berlusconi, di cui uno solo andato in porto, erano diretti a colpire l’uomo politico tramite la sua attività di grande imprenditore. E quelli tentati su Salvini non hanno dato grandi risultati. Ma è sempre rimasto sul piatto il boccone grosso dell’Eni. Che paradossalmente si è poi rivelato essere la vera buccia di banana su cui è sciolto il Rito Ambrosiano. Che si è rivelato essere una vera Magistratopoli Lombarda. In che cosa consiste (è consistito) il Rito Ambrosiano? Nella grande disinvoltura nell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, prima di tutto. La difesa a parole da parte di procuratori e sindacalisti in toga dell’articolo 112 della Costituzione è la garanzia costante di poterlo violare con la garanzia dell’impunità. Lo aveva ben capito Matteo Renzi quando, da presidente del Consiglio, era andato a Milano a ringraziare il procuratore Bruti Liberati, uscito vincitore al Csm grazie al presidente Giorgio Napolitano dalla guerra con Alfredo Robledo, per aver salvato Expo dalle inchieste giudiziarie. Difendere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per poterlo violare sempre senza doverne rispondere a nessuno (cosa che sarebbe impossibile in regime di discrezionalità), è sempre stato un grande asso nella manica della Procura della repubblica di Milano. Insieme a quello della competenza territoriale, violata senza che altri avessero la possibilità di contestarlo, in nome della propria superiorità “morale”. L’altro punto di forza è stato la costruzione di un fortino molto omogeneo sul piano politico e molto compatto. Grazie ai santi in paradiso, cioè al Csm, e al sistema di alleanze e cene romane (quelle ben raccontate nel libro di Sallusti e Palamara), i procuratori capo di Magistratura Democratica si sono susseguiti a Milano senza soluzione di continuità: Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati, Greco. Una storia che andrà raccontata per bene, un giorno, magari con le testimonianze dei pochi corpi estranei come Tiziana Parenti o come Alfredo Robledo, che sono stati sputati via come nocciolini indigesti, con noncuranza. Con Paolo Storari il giochino non ha funzionato. Non si illuda, il giovane sostituto milanese. E non si adombri se gli diciamo che lui non è l’eroe del caso Eni né che, se ha sconfitto il proprio capo e addirittura un uomo potente come il procuratore generale Giovanni Salvi, ha qualche merito la sua deposizione davanti alla prima commissione del Csm. Perché quella stessa, in tempi e situazioni diverse, avrebbe sputato via come un nocciolino anche lui, lo avrebbe, senza fare neanche un plissé, trasferito a Caltanissetta e demansionato a fare il passacarte. Non è andata così perché sta cambiando tutto. E ancora pare non essersene accorto Francesco Greco, il procuratore di Milano che farebbe bene ad anticipare di qualche mese la data della propria pensione, prevista per novembre. E farà bene il Csm a spezzare la continuità del Rito Ambrosiano nella nomina del nuovo procuratore, sia questo un esponente di Unicost (corrente centrista) come Giuseppe Amato, piuttosto che Marcello Viola, l’esponente di Magistratura indipendente già penalizzato su Roma. Francesco Greco dovrebbe chiudere i battenti anche perché ha enormi responsabilità. La procura di Milano ha investito tutto sul processo Eni, ha fatto una scommessa pensando di poter usare i metodi del passato, quell’elasticità del Rito Ambrosiano per cui tutto è consentito pur di raggiungere il fine supremo, che in questo caso era la condanna dei vertici, presenti e passati, del colosso petrolifero. Il fortino non ha retto in questo caso, per molti motivi. Perché la testimonianza di Luca Palamara ha scoperchiato trucchi e trucchetti politici di certa magistratura che i cittadini non tollerano più. Perché i due pm del processo, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno esagerato: prove a favore degli imputati tenute nascoste e il tentativo di usare come un cavallo di troia una testimonianza che avrebbe costreetto il presidente del tribunale alle dimissioni. E sono anche incappati in un tribunale e in un presidente come Marco Tremolada che non solo ha assolto gli imputati, ma ha bacchettato con severità nelle motivazioni della sentenza il comportamento dei pubblici ministeri. E anche perché a Brescia, a capo della procura che oggi sta indagando ben cinque pm milanesi tra cui lo stesso Greco, c’è Francesco Prete, che arriva proprio da quegli stessi uffici, e che, pur non avendo mai fatto parte del “cerchio magico”, ben ne conosce le abitudini e i metodi di lavoro. Il che non è tranquillizzante per gli indagati. A questo possiamo aggiungere che fin dal 2019 i pubblici ministeri milanesi erano in rivolta nei confronti del capo e glielo hanno quasi gridato in faccia firmando in 60 su 64 a favore di Storari, quando il procuratore Salvi, dopo aver parlato con Greco, aveva chiesto l’allontanamento del sostituto da Milano, per non turbare la “serenità” dei colleghi. Avrebbe dovuto saperlo che in politica, anche quella giudiziaria, non porta fortuna parlare di “serenità”! La composizione della prima commissione del Csm, infine, quella che decide sui trasferimenti: disboscata da tutti coloro che per un motivo o per l’altro erano in conflitto di interessi, è diventata un luogo decisionale quasi “normale”. E normalmente, come avrebbe cantato Lucio Dalla in Disperato erotico stomp, ha incontrato.. non “una puttana ottimista e di sinistra”, cioè l’immagine del vecchio Csm, ma una decisione che apre alla speranza di un vero cambiamento di regime. Per tutti questi motivi, e magari molti altri, Paolo Storari resta al suo posto. E si prevede che ne vedremo delle belle, prossimamente.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"È una guerra di potere, escono male tutti". Stefano Zurlo il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato: "Dopo Mani Pulite il conflitto si è trasferito dentro la corporazione". Un altro colpo alla credibilità della magistratura. «Questo verdetto disorienta ancora di più l'opinione pubblica - spiega Gaetano Pecorella, uno dei più noti avvocati italiani ed ex deputato di Fi -. Nessuno ne esce vincitore, la percezione è quella di una guerra di potere, meglio di una faida interna alla magistratura».

Il procuratore generale della Cassazione aveva chiesto l'allontanamento di Storari da Milano. È stato sconfessato?

«Mi pare che il Csm l'abbia delegittimato. Salvi aveva chiesto in via cautelare, insomma d'urgenza, il trasferimento di Storari e l'addio alla carriera di pm. Per carità, il procedimento disciplinare va avanti, ma a parte i tecnicismi è evidente che Salvi ha perso su tutta la linea. E altrettanto forte mi pare lo schiaffo dato dal Csm al procuratore di Milano Francesco Greco che aveva denunciato la scorrettezza di Storari, ma evidentemente la difesa del pm è stata convincente e ora Greco è un capo debolissimo, abbandonato da sessanta colleghi che si sono schierati con Storari, per nemesi storica nella città di Mani pulite e di tante inchieste importantissime».

Chi ha torto e chi ha ragione in questa storia?

«Mi pare che nessuno faccia una bella figura. Greco e Salvi incassano una sconfitta clamorosa, ma anche Storari non brilla: ha consegnato sottobanco i verbali ancora segreti dell'avvocato Amara a Piercamillo Davigo, venendo meno alle regole della professione e al principio di lealtà verso i suoi superiori. È un quadro imbarazzante, da qualunque parte lo si guardi».

Il Csm?

«I suoi vertici e numerosi consiglieri erano a conoscenza da mesi di queste carte e della guerra che si combatteva dietro le quinte alla procura di Milano. Sapevano ma hanno gestito il caso in modo approssimativo e opaco. Si resta sconcertati davanti a questi comportamenti».

Insomma, per tornare alla domanda decisiva: hanno tutti torto?

«Le ragioni degli uni e degli altri hanno un'importanza relativa, perché quello che emerge è la guerra di potere e dunque ogni passaggio viene letto come la vittoria o la sconfitta di una fazione contro l'altra».

Intanto le procure indagano sulle procure.

«È un'altra nemesi storica. Con Mani pulite la magistratura ha messo in ginocchio la politica e il conflitto si è trasferito dentro la corporazione togata».

Risultato?

«Le guerre di potere seguono le stesse dinamiche anche se si veste la toga. Una corrente attacca l'altra, una sale, l'altra scende, tutte si azzannano. Il potere non basta mai e alla fine chi era sul piedistallo cade».

D'accordo ma la magistratura non dovrebbe essere impermeabile ai meccanismi della politica?

«Invece li ha mutuati. E questo è gravissimo perché mina la nostra fiducia nel sistema giudiziario. Un imputato penserà magari sbagliando che la sua sentenza sia il frutto di accordi, di amicizie o inimicizie, di scambi di favori».

I correttivi?

«Anzitutto dobbiamo portare la sezione disciplinare fuori dal Csm. Non possono essere i giudici a giudicare altri giudici. Se ne parla da molti anni ma finora non si è mai fatto nulla».

Poi?

«La prima e più importante riforma da mettere in cantiere è quella della separazione delle carriere, non mi interessa se con referendum o altro strumento».

Ma perché è la più urgente?

«Perché i conflitti che abbiamo visto in questi mesi partono sempre dai pm. E i pubblici ministeri, che oggi non sono separati dai giudici, trascinano in questo disastro i colleghi che dovrebbero essere terzi, imparziali, distanti. Invece, vengono risucchiati in questo pantano. Sono molto preoccupato perché stiamo perdendo l'immagine sacrale del giudice che in passato ci aveva sempre rassicurato». Stefano Zurlo

Fuga di verbali, il Csm smonta l'accusa di Salvi e assolve Storari: no al trasferimento. Anna Maria Greco il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Dovrà comunque affrontare il processo disciplinare ordinario. "Nessuna scorrettezza a Greco". Il magistrato: "Sollevato e contento". Paolo Storari, «molto contento e sollevato», esce vincitore dal primo mach al Csm: non sarà trasferito dalla Procura di Milano, né perderà la funzione di pm. Gli sconfitti, in questa fase, sono il Procuratore generale Giovanni Salvi e il capo della procura meneghina Francesco Greco, che ne volevano l'allontanamento per incompatibilità ambientale e funzionale, come misura cautelare. La sezione disciplinare del Csm, invece, respinge la richiesta del Pg, basata anche sulle accuse fatte dal procuratore, esclude un «comportamento gravemente scorretto» di Storari nei confronti di Greco e dell'aggiunto Laura Pedio e nega che li abbia accusati di «inerzia investigativa» per le dichiarazioni di Piero Amara, ex legale esterno di Eni, su una presunta loggia «Ungheria». Nulla giustifica un pesante provvedimento d'urgenza e vengono rigettate, almeno per ora, le accuse del Pg Salvi di aver leso l'immagine dell'ufficio e di aver esposto i suoi capi ad una «sotterranea campagna di discredito» al Csm. La vicenda, per i giudici disciplinari, «non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia», né c'è necessità di uno spostamento dall'ufficio, perché il pm da gennaio lavora in un dipartimento diverso da quello coordinato dalla Pedio. Storari dovrà comunque affrontare il processo disciplinare ordinario, che si concluderà con una sanzione o con il proscioglimento ed è anche indagato a Brescia, con Piercamillo Davigo, per rivelazione di segreto d'ufficio. Ma la sua posizione è certo migliorata. «Siamo molto soddisfatti - commenta il legale, Paolo Della Seta- La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante. È evidente la buonafede di Storari». Il collegio, presieduto dal laico Emanuele Basile (Lega) e composto dal relatore Filippo Donati (laico 5Stelle) e dai togati Giuseppe D'Amato e Paola Braggion (MI), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost), smonta uno per uno i tre illeciti disciplinari contestati da Salvi. Primo: l'«informale e irrituale» consegna da Storari a Davigo di copie non firmate dei verbali di Amara, che riguardavano anche due consiglieri Csm. Il pm ha spiegato di aver sollecitato per 4 mesi l'apertura formale di un fascicolo, parlando più volte con Greco, la Pedio e Fabio De Pasquale, ma inutilmente. Per questo non avrebbe potuto trasmettere l'esposto ai vertici della Procura, secondo la procedura, prima di coinvolgere il Csm. Secondo: la «grave scorrettezza» di Storari verso Greco (indagato a Brescia per omissione d'atto d'ufficio), che nella relazione del 7 maggio lo accusa di non aver «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell'indagine» e di aver chiesto solo dopo per iscritto ulteriori indagini e l'iscrizione nel registro degli indagati. Per il Csm, Storari non avrebbe espresso a Davigo «una chiara accusa di omessa iscrizione, o di inerzia investigativa, solo la preoccupazione sulle modalità di gestione del procedimento». Terzo: incaricato di indagare sull'invio anonimo dei verbali di Amara ad Antonio Massari del Fatto ad ottobre 2020 (sotto accusa è l'allora segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto), Storari non si sarebbe astenuto e avrebbe creato «rallentamento» e «ostruzionismo». Ma il pm ha spiegato per quali ragioni non collegò i verbali a quelli dati mesi prima a Davigo e per il Csm non ha compiuto alcuna «omissione consapevole di astensione» dalle indagini. Anna Maria Greco

La sezione disciplinare rigetta la richiesta del pg della Cassazione. Loggia Ungheria, bocciato il trasferimento del pm Storari da Milano: batosta del Csm a Salvi e Greco. Antonio Lamorte su il Riformista il 4 Agosto 2021. Paolo Storari resterà a Milano. Resterà nella procura simbolo degli ultimi trent’anni di storia italiana nonostante la richiesta del Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi. Dal pg era stata sollevata una presunta incompatibilità ambientale del pubblico ministero dopo l’esplosione del caso della Loggia Ungheria e richiesto trasferimento e cambio delle funzioni. “Sto bene, sono contento … Non dico altro”, ha commentato il pm all’Agi. Storari aveva passato all’ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo i verbali in formato word nel quale l’avvocato Piero Amara rivelava l’esistenza di una presunta loggia detta “Ungheria”. Storari aveva agito per come la Procura di Milano stava affrontando il caso. A rigettare la richiesta di Salvi è la sezione disciplinare del Csm. Il Procuratore generale aveva chiesto di destinare il pm ad altre funzioni. E invece niente. Il Csm “ha rigettato in toto tutte le richieste del Pg Salvi – ha osservato l’avvocato del pubblico ministero Paol Della Sala – La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante”. Il magistrato, con l’avvocato Della Sala, si era presentato ieri davanti al Csm ed era stato sentito per quasi due ore in merito alla vicenda dei verbali secretati ed emersi solo dopo essere arrivati ad alcuni quotidiani e dopo la denuncia del membro del Csm Nino Di Matteo. Davigo invece, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, avrebbe parlato solo in via informale di questi verbali sulla “loggia Ungheria” allo stesso Salvi, al vicepresidente del Csm David Ermini, al presidente della Cassazione Pietro Curzio, ad altri cinque consiglieri del Consiglio e al senatore del Movimento 5 Stelle Nicola Morra. Salvi aveva formulato la sua richiesta sulla scorta delle relazioni del procuratore di Milano Francesco Greco e della vice Laura Pedio. I sei giudici del Csm hanno però escluso esigenze cautelari in relazione ai tre illeciti contestati a Storari, indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. Il primo illecito riguardava l’“informale e irrituale” consegna di Storari a Davigo delle copie word, e non firmate, dei verbali; il secondo che Storari non avesse “formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine” al procuratore Greco; il secondo sul “rallentamento” e “ostruzionismo” nelle indagini sui verbali degli interrogatori emersi e che un giornalista de Il Fatto Quotidiano aveva denunciato di aver ricevuto. Tutto rigettato. La sezione disciplinare – composta da dal componente laico (cioè eletto dal Parlamento) espresso dalla Lega, Emanuele Basile, presidente del collegio, dall’altro membro di nomina parlamentare, il relatore Filippo Donati (5Stelle), e dai togati (cioè eletti invece dai magistrati) Giuseppe D’Amato (Magistratura Indipendente), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost) e Paola Braggion (Magistratura Indipendente) – ha scritto nel provvedimento come non ci sia stato nessun “comportamento gravemente scorretto” da parte del pm nei confronti di Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e che al limite ha espresso una “preoccupazione […] sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali “in presenza di una chiara divergenza di vedute”. E quindi il collegio “ritiene insussistente […] l’impossibilità” per il pm “che possa continuare a svolgere con la dovuta serenità e il necessario distacco le sue funzioni in un ambiente compromesso dai comportamenti tenuti nei confronti della dottoressa Laura Pedio e del Procuratore della Repubblica di Milano”. Per Storari continuerà comunque il procedimento disciplinare ordinario, con il quale potrà essere prosciolto o sanzionato con l’ammonimento, la censura, la perdita di anzianità o la radiazione. Contro il trasferimento si erano espressi nei giorni scorsi 60 dei 64 pm milanesi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesco Greco indagato? Difeso dallo stesso legale dell'Anm e degli ex vertici di Mps: toh che caso...Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Per rendere ancora di più incandescente il clima alla Procura di Milano ci mancava solo il "conflitto d'interessi" fra toghe. A sollevare il caso è stato il manager romano Giuseppe Bivona, fondatore del fondo inglese Bluebell. Bivona questa settimana ha scritto al procuratore di Brescia, Francesco Prete, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, e ai componenti del Consiglio superiore della magistratura. Oggetto della nota del manager sono i profili di "opportunità" nella scelta del procuratore di Milano Francesco Greco di essere difeso dallo stesso legale dagli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, aloro volta imputati eccellenti della Procura guidata da Greco. Bivona, in passato, aveva anche manifestato perplessità sulla conduzione delle indagini su Mps dirette dai pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre magistrati erano i titolari, in particolare, del fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano stati iscritti per "falso in bilancio" Profumo, Viola e Paolo Salvadori, altro top manager di Rocca Salimbeni. Per i pm milanesi i tre non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso, invece, il giudice Guido Salvini che aveva respinto la richiesta d'archiviazione nei loro confronti, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. Dalle segnalazioni di Bivona erano partite, poi, le indagini bresciane a carico di Baggio, Civardi e Clerici. Profumo e Viola, difesi da Mucciarelli, sono stati condannati a ottobre 2020 in primo grado a sei anni per i derivati Alexandria e Santorini. Mucciarelli assiste Greco a Brescia nel procedimento per "omissione d'atti d'ufficio" per aver ritardato gli accertamenti sulle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara a proposito della Loggia segreta Ungheria. Il fascicolo era stato aperto dopo la denuncia del pm Paolo Storari. Mucciarelli, lo scorso anno, era stato anche incaricato dall'Associazione nazionale magistrati, durante la presidenza del pm milanese Luca Poniz, di costituirsi parte civile nel procedimento penale nei confronti di Luca Palamara. Tornado a Storari, invece, ieri si è svolta l'udienza in camera di Consiglio davanti alla Sezione disciplinare del Csm. La Procura generale della Cassazione ha chiesto per il magistrato il trasferimento di sede ed il cambio di funzioni: da pm a giudice. Per il procuratore generale Giovanni Salvi, Storari con il suo comportamento avrebbe creato «grave discredito» nei confronti di Greco e della sua vice Laura Pedio.  Storari, come si ricorderà, vista «l'inerzia» dei sui capi nel compiere accertamenti, aveva consegnato personalmente all'allora componente del Csm Piercamillo Davigo i verbali degli interrogatori di Amara, effettuati in Procura a Milano nelle ultime settimane del 2019 nell'ambito del procedimento sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. E per questo motivo era stato poi indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. In difesa di Storari si erano espressi circa 250 magistrati, firmando un appello in suo favore. Fra i promotori della raccolta firme, il capo dell'antiterrorismo di Milano, il procuratore aggiunto Alberto Nobili. «Non abbiamo mai depositato la lista delle persone che hanno accordato la loro fiducia e la loro simpatia umana», ha però specificato il legale di Storari, l'avvocato Paolo della Sala, all'uscita dal Csm. «Ci tengo a rappresentare con chiarezza che la fiducia accordata dai magistrati al mio assistito non è mai stata in alcun modo strumentalizzata», ha poi aggiunto.  

Francesco Greco indagato? Alessandro Sallusti: "Dall'intoccabile mondo oscuro sopra a Palamara sparano i cecchini". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'1 agosto 2021. Se fossimo come loro, cioè come certi procuratori e i giornalisti loro complici, oggi diremmo che Francesco Greco, capo della procura di Milano, una delle più importanti d'Italia, è un insabbiatore di inchieste e complice di una loggia segreta. Greco ha infatti ricevuto ieri un avviso di garanzia per omissioni di atti d'ufficio per aver ritardato e ostacolato una delicata inchiesta del suo sottoposto Paolo Storari su presunti rapporti poco chiari tra magistrati, politici e faccendieri, il famoso caso "Loggia Ungheria" che ha già visto finire nei guai un altro pezzo da novanta della magistratura, il moralista manettaro Piercamillo Davigo. Siccome noi non siamo come loro, cioè non riteniamo che la tesi contenuta in un avviso di garanzia sia una verità assoluta e già accertata, siamo cauti e quindi fino a prova contraria Greco è uomo pulito e magistrato integro. Ciò non toglie che evidentemente ai vertici della magistratura le cose non sono così limpide come ci si vuole fare credere. Io ovviamente non so se è mai esistita o esiste ancora una loggia chiamata Ungheria, ma ormai mi è chiaro che la magistratura oltre che in correnti politiche è divisa in logge più o meno segrete che magari non necessitano di riti di iniziazione ma che operano dietro le quinte per raggiungere scopi che nulla hanno a che fare con la giustizia.  Come? Inquinando, attraverso i giornalisti "affiliati", i pozzi dell'informazione certamente e molto probabilmente - basti pensare al recente caso della maxi inchiesta Eni finita nel nulla - anche i processi che hanno a che fare con la politica, gli affari e i loro protagonisti. Altro che caso Palamara. Sopra a Palamara c'è stato un mondo oscuro neppure scalfito dallo scandalo che ha coinvolto l'ex magistrato ancora in grado - Palamara nei suoi racconti li chiama "i cecchini" - di togliere di mezzo personaggi sgraditi, adepti bruciati e aprire la strada a nuovi amici vergini e affidabili per ricominciare tutto da capo. È inutile provare a riformare la magistratura per via ordinaria se non si prende atto che stiamo parlando di un sistema marcio alla radice che, giralo come ti pare, non potrà che dare frutti bacati. Ma qui dovrebbe intervenire la politica, per cui non facciamoci illusioni: la giustizia rimarrà a lungo nelle mani di logge e lobby.

“Sfiduciato” e indagato: il caso Amara travolge anche Greco. E Storari attende il suo destino. Il procuratore di Milano indagato per aver ritardato le indagini sulla "Loggia Ungheria". Il pm del falso complotto Eni attende l'esito del disciplinare. Simona Musco Il Dubbio 31 luglio 2021. Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”. È questo il clamoroso particolare di cui si arricchisce la vicenda che ormai da mesi tiene in ostaggio la procura meneghina, dopo l’iscrizione sul registro degli indagati, da parte della procura di Brescia, del pm Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio – per aver consegnato i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, anche lui indagato – e dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati, invece, di omissione di atti d’ufficio, per aver “nascosto” alcune prove utili alle difese nel processo Eni- Nigeria. L’iscrizione di Greco è un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che ha lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. Greco ha già parlato con i colleghi bresciani, difendendo il suo operato. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», ha dichiarato il procuratore. Storari, a febbraio 2021 – secondo quanto emerso dalle audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dal canto suo, ha consegnato i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm. Quei verbali, però, sono stati spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha denunciato pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia. Circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato. A spedire quei verbali, secondo la procura di Roma, sarebbe stata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per calunnia ai danni di Greco. L’iscrizione sul registro degli indagati del procuratore Greco è stata comunicata dalla procura di Brescia al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia una ventina di giorni fa. Il reato contestato è omissione d’atti d’ufficio (articolo 328 cp 1/ o comma), per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara a Pedio e Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni”. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla “Loggia Ungheria”, cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020, ovvero circa un mese dopo la consegna dei verbali a Davigo. Ieri, intanto, il pm milanese è comparso davanti alla sezione disciplinare, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile e riunita per decidere sulla richiesta di trasferimento formulata dal procuratore generale. Salvi ne ha chiesto il trasferimento per aver «divulgato i verbali», assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Greco e dell’aggiunto Pedio, da lui accusati di inerzia nelle indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. L’udienza continuerà martedì prossimo, mentre la decisione verrà presa nei giorni a seguire. Al termine dell’udienza Storari e il suo avvocato, Paolo Dalla Sala, non hanno rilasciato dichiarazioni. Intanto la procura di Milano è sempre più spaccata. Dalla parte di Storari si sono schierati praticamente tutti i sostituti dell’ufficio, che hanno sottoscritto, assieme a centinaia di magistrati del distretto e di tutta Italia, un appello a suo sostegno. Mossa che ha infastidito Greco, che giovedì ha invece scritto una mail ai colleghi, accusando Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare. 

(ANSA il 30 luglio 2021) Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l'apertura dell'indagine nata dalle dichiarazioni messe a verbale da Piero Amara sulla presunta "Loggia Ungheria". La sua iscrizione è un atto dovuto a seguito delle denunce ai pm bresciani del pm Paolo Storari, pure lui indagato dalla magistratura bresciana per rivelazione di segreto d'ufficio. La notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati del procuratore Greco è emersa a seguito della comunicazione, avvenuta, una ventina di giorni fa, dell'avvio del procedimento da parte della procura bresciana al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia. Il reato contestato, come atto dovuto, è l'omissione d'atti d'ufficio (art. 328 cp 1/o comma) per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall'avvocato Piero Amara al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari nell'ambito dell'indagine sul cosiddetto falso complotto Eni. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un'indagine sulla Loggia Ungheria. Cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020. (ANSA). 

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 31 luglio 2021. Quello che in calendario sarebbe dovuto essere il «venerdì nero» di Paolo Storari, cioè del pm di cui ieri il Consiglio superiore della magistratura doveva decidere o meno il trasferimento disciplinare d'urgenza da Milano e la revoca delle funzioni di pm chiesti dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi per aver «gettato discredito» nella primavera 2020 sul suo capo Francesco Greco, diventa invece il «venerdì nero» del procuratore della Repubblica di Milano ed ex pm di Mani pulite. Messo sotto indagine dalla Procura di Brescia per omissione d'atti d'ufficio sulla scorta di quanto Storari ha riferito a Brescia nel difendersi dall'accusa di aver violato il segreto d'ufficio nell'aprile 2020 quando, per sbloccare l'impasse, ritenne di consegnare all'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo i verbali segretati dell'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sull'associazione segreta «Ungheria»: ipotesi di omissione per avere, da dicembre 2019 appunto, lasciato galleggiare 4 mesi le controverse dichiarazioni di Amara senza iscrivere le notizie di reato contenutevi. Ciò avvenne solo il 12 maggio 2020, cioè solo dopo che il pg Salvi, che come il vicepresidente Csm David Ermini e altri consiglieri Csm era stato informalmente allertato da Davigo, telefonò a Greco. Il procuratore, difeso dal professor Francesco Mucciarelli e dall'avvocato Francesco Arata, è stato già interrogato dal suo collega bresciano Francesco Prete. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», dice Greco, rimarcando che anzi Storari in una mail scriveva «con Laura (Pedio, procuratore aggiunto, ndr ) mi trovo bene a lavorare». Mentre ora Storari attesta che nessuna indagine fu fatta per mesi, Greco (come Pedio) sostiene che «il 16 gennaio 2020 venne genericamente illustrato ai colleghi di Perugia il contenuto delle dichiarazioni di Amara per le possibili connessioni con l'indagine su Palamara dove pure era indagato Amara», e «le attività investigative proseguirono per tutto febbraio». Poi «dall'8 marzo gli uffici giudiziari vennero sostanzialmente chiusi a causa del Covid e il lavoro subì inevitabili rallentamenti». Sino allora, «mentre alcuni dei file audio» evocati da Amara e dal suo socio Calafiore «vennero consegnati e se ne dispose la trascrizione, non venne mai consegnata la lista degli associati a "Ungheria", fondamentale per cominciare le indagini su solide fondamenta di riscontri documentali». Tuttavia Pedio scriveva a Storari il 17 aprile 2020 una mail da cui si ricaverebbe che in realtà a quella data le indagini non fossero ancora state avviate, e non lo fossero state per privilegiare le inchieste Eni nelle quali Amara era molto valorizzato: «Dovremmo parlarne con Francesco (Greco, ndr ). Ha perplessità sull'opportunità di cominciare un'indagine sulla quale ci sono dubbi di competenza. Qualche perplessità ce l'ho pure io, anche perché dobbiamo definire il procedimento Eni con priorità assoluta. Temo che l'avvio dell'altra indagine ci possa impegnare eccessivamente e portare a un risultato dubbio». Nelle ore in cui ieri emergeva la notizia di Greco indagato, a Roma Storari rendeva dichiarazioni spontanee al Csm (udienza a porte chiuse) sulla richiesta di suo trasferimento disciplinare, illustrata dal pg Marco Dall'Olio e poi aggiornata a martedì per l'arringa di Paolo Della Sala. La difesa ha rimarcato che intende affrontare il merito e perciò rinuncia a ripararsi dietro qualsiasi eccezione procedurale sia su un difetto di notifica, sia su un'incongruenza nel terzo illecito disciplinare contestato a Storari dal pg di Cassazione sulla base delle relazioni di Greco e Pedio: non essersi astenuto nell'ottobre 2020 dall'indagare sulla fuga di notizie dei verbali anonimi di Amara portati ai pm il 30 ottobre 2020 da un giornalista del Fatto , simili a quelli che Storari tacque ai colleghi di aver dato mesi prima a Davigo; e d'aver così anzi ostacolato e ritardato 4 mesi (sino a una perizia l'8 marzo 2021) quest' indagine per accesso abusivo a sistema informatico. Indagine che in realtà, come fascicolo autonomo per accesso abusivo, fu iscritta da Greco e Pedio solo a aprile 2021 (quando Storari non c'era più), e che dunque formalmente non esisteva a ottobre 2020.

Terremoto alla procura di Milano: indagato il pm Francesco Greco. Francesca Galici il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. A seguito delle denunce del pm Paolo Storari, Francesco Greco è stato inserito nel registro degli indagati per i ritardi nelle trascrizioni di Amara. Il procuratore di Milano Francesco Greco è stato iscritto nel registro degli indagati a Brescia circa un mese fa per aver ritardato l'apertura dell'inchiesta a fronte delle dichiarazioni rese dall'avvocato Pietro Amara nel dicembre 2019 su quella che è stata definita la "loggia Ungheria". La procura parla di atto dovuto nei confronti di Francesco Greco, che fa seguito alle denunce del pm Paolo Storari ai magistrati bresciani. Storari, nelle settimane scorse aveva riferito agli inquirenti bresciani di avere chiesto al capo della Procura di indagare sulla presunta associazione occulta. Lui stesso è indagato dalla procura di Brescia con l'accusa di aver rivelato segreti d'ufficio. Pietro Amara rese le sue dichiarazioni al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari all'interno dell'indagine su quello che è stato poi definito il "falso complotto" Eni. Facendo seguito alle rivelazioni dell'avvocato Amara, Paolo Storari chiese a Francesco Greco e Laura Pedio di avviare nel più breve tempo possibile un'indagine sulla loggia Ungheria. Ma i due pm hanno dato seguito alle parole di Storari solo 5 mesi dopo, nel maggio del 2020. Un mese prima, il pm Paolo Storari avrebbe portato manualmente i verbali, trascritti su un foglio Word e mancanti di firma, all'ex pm Piercamillo Davigo. Non un comportamento ligio al protocollo quello di Storari, che si è successivamente difeso sostenendo di aver agito in questo modo come forma di auto-tutela a fronte del ritardo dei pm delle iscrizioni nel registro degli indagati di quanto dichiarato da Pietro Amara. Storari voleva agire tempestivamente per trovare riscontri sulle parole dell'avvocato. A sua volta, pare che Piercamillo Davigo, in tempi e modi diversi, abbia fatto cenno di quanto spiegatogli da Storari, almeno con il vicepresidente del Csm David Ermini e con altri due membri del Consiglio superiore della magistratura.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Procura di Milano, il pm Francesco Greco indagato: quel ritardo sospetto sulla "loggia Ungheria". Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco è indagato a Brescia per aver ritardato l'apertura dell'indagine nata dalle dichiarazioni messe a verbale dall'avvocato Piero Amara sulla presunta "Loggia Ungheria". Lo riporta l'Ansa. La sua iscrizione è un atto dovuto a seguito delle denunce ai procuratori bresciani del pm Paolo Storari, pure lui indagato dalla magistratura per rivelazione di segreto d'ufficio. La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del procuratore Greco è emersa a seguito della comunicazione, avvenuta una ventina di giorni fa, dell’avvio del procedimento da parte della procura bresciana al Csm, al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia. Il reato contestato, come atto dovuto, è l’omissione d’atti d’ufficio per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto falso complotto Eni. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla Loggia Ungheria. Cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020. Intanto alla Procura di Milano diversi magistrati sono insorti proprio contro Greco in difesa di Storari. All'origine della protesta la decisione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di chiedere al Csm la testa di Storari: via da Milano e mai più pubblico ministero. 

Loggia Ungheria, il procuratore Greco indagato a Brescia. Al procuratore di Milano è contestato il reato di omissione d'atti d'ufficio per aver ritardato l'apertura dell'indagine relativa ai verbali di Piero Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 30 luglio 2021. Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”.

È questo il clamoroso particolare di cui si arricchisce la vicenda che ormai da mesi tiene in ostaggio la procura meneghina, dopo l’iscrizione sul registro degli indagati, da parte della procura di Brescia, del pm Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio – per aver consegnato i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, anche lui indagato – e dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati, invece, di omissione di atti d’ufficio, per aver “nascosto” alcune prove utili alle difese nel processo Eni-Nigeria. L’iscrizione di Greco è un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che ha lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. Storari, a febbraio 2021 – secondo quanto emerso dalle audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dal canto suo, ha consegnato i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm. Quei verbali, però, sono stati spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha denunciato pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia. Circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato. A spedire quei verbali, secondo la procura di Roma, sarebbe stata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per calunnia ai danni di Greco. L’iscrizione sul registro degli indagati del procuratore Greco è stata comunicata dalla procura di Brescia al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia una ventina di giorni fa. Il reato contestato è omissione d’atti d’ufficio (articolo 328 cp 1/o comma), per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara a Pedio e Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni”. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla “Loggia Ungheria”, cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020, ovvero circa un mese dopo la consegna dei verbali a Davigo. Ieri, intanto, il pm milanese è comparso davanti alla sezione disciplinare, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile e riunita per decidere sulla richiesta di trasferimento formulata dal procuratore generale. Salvi ne ha chiesto il trasferimento per aver «divulgato i verbali», assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Greco e dell’aggiunto Pedio, da lui accusati di inerzia nelle indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. L’udienza continuerà martedì prossimo, mentre la decisione verrà presa nei giorni a seguire. Al termine dell’udienza Storari e il suo avvocato, Paolo Dalla Sala, non hanno rilasciato dichiarazioni. Intanto la procura di Milano è sempre più spaccata. Dalla parte di Storari si sono schierati praticamente tutti i sostituti dell’ufficio, che hanno sottoscritto, assieme a centinaia di magistrati del distretto e di tutta Italia, un appello a suo sostegno. Mossa che ha infastidito Greco, che giovedì ha invece scritto una mail ai colleghi, accusando Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare.

Atto dovuto dopo le parole di Storari. Loggia Ungheria, indagato Francesco Greco: capo della procura di Milano. “Indagini in ritardo”. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Dopo Davigo anche Greco. La fantomatica “Loggia Ungheria” coinvolge anche il procuratore Francesco Greco, prossimo alla pensione (novembre 2021). Il capo della Procura di Milano è indagato dalla Procura di Brescia, competente nelle indagini sui magistrati meneghini, nell’ambito della vicenda con al centro i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla presunta associazione segreta denominata, ‘Loggia Ungheria’, in grado di condizionare nomine in magistratura e in incarichi pubblici. L’iscrizione di Greco nel registro degli indagati è relativa a quasi un mese fa e si tratterebbe di un atto dovuto dopo le dichiarazioni a verbale del pm milanese Paolo Storari. L’accusa è di omissione di atti d’ufficio: Greco avrebbe ritardato l’apertura di un fascicolo (poi avvenuta a maggio 2020) in seguito alle dichiarazioni rese a verbale da Amara, nel dicembre 2019, al procuratore aggiunto Laura Pedio e al sostituto procuratore Storari, titolari delle indagini su quello che è stato ribattezzato il “falso complotto Eni”. Verbali segreti che Amara ha poi consegnato all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (anche lui indagato a Brescia per rivelazione di segreti d’ufficio) prima di finire nelle mani della stampa, rendendo pubblica di fatto la guerra interna alla procura milanese. La notizia dell’avvio del procedimento, come atto dovuto nei confronti anche di Greco, è trapelata – chiarisce l’Ansa – a seguito della comunicazione, avvenuta una ventina di giorni fa, da parte della procura bresciana al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia per gli eventuali profili disciplinari. Greco, proprio ieri, in una lettera ai suoi sostituti, senza mai citarlo ha attaccato Storari aggiungendo che “le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti”. Intanto nel pomeriggio si è tenuta al Csm l’udienza a porte chiuse di Storari, alla quale partecipano lo stesso magistrato, assistito dal suo legale. La Sezione disciplinare del Csm deve decidere se trasferirlo in via cautelare da Milano e dalle sue funzioni come ha chiesto il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per la vicenda dei verbali dell’avvocato Piero Amara. Storari ha poi lasciato Palazzo dei Marescialli senza rilasciare dichiarazioni. 

(ANSA il 27 luglio 2021) Non solo l'azione disciplinare a carico del pm milanese Paolo Storari. Da parte del Pg della Cassazione Giovanni Salvi sono in corso - a quanto si è appreso - accertamenti nei confronti del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, titolari del fascicolo Eni/Shell-Nigeria e indagati a Brescia per rifiuto di atti d'ufficio. L'iniziativa è legata all'inchiesta dei pm bresciani, partita dopo le dichiarazioni rese da Storari, che è a sua volta indagato per il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, rifiuta di consegnare alla Procura di Brescia (che sta indagando sul suo vice Fabio De Pasquale sull'ipotesi che non abbia sottoposto ai giudici del processo Eni-Nigeria prove dell'inattendibilità dell'accusatore Vincenzo Armanna) gli atti sulla trasferta in Nigeria che la sua vice Laura Pedio fece nel settembre 2019. Questa rogatoria nigeriana del 2019 - argomenta Greco - sarebbe coperta da segreto perché sta nell'indagine milanese tuttora aperta sul cosiddetto «complotto Eni», e dunque solo la Nigeria potrebbe autorizzarne l'utilizzo prima. Non è così, ribatte a Greco il suo collega bresciano Francesco Prete. Che cerca l'interrogatorio del teste Mattew Tonlagha (suggerito nel 2019 da Armanna ai pm milanesi a riscontro delle proprie accuse a Eni) non per utilizzarli in altri processi (cosa appunto vietata dalle norme); ma per verificare se Armanna, come emerso proprio dalle sue chat con Tonlagha scoperte dal pm Paolo Storari e segnalate invano ai propri vertici tra fine 2020 e inizio 2021, nel 2019 avesse appunto indottrinato il giorno prima il teste Tonlagha. Ma Greco non cede, e anzi si affretta a scrivere al ministero della Giustizia una lettera in cui chiede alla struttura della Guardasigilli Cartabia di domandare alla Nigeria se intenda autorizzare la consegna della rogatoria ai pm di Brescia. I quali ribussano a Milano ma devono arrestarsi. Perché la lettera del Ministero alla Nigeria è già partita.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 29 luglio 2021. La creazione del dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali è un progetto fortemente voluto dal capo della Procura di Milano Francesco Greco, ha preso forma nel 2017 ed è stato affidato all'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del caso Eni-Nigeria. Ma sull'attività dell'ufficio si sono addensate rapidamente le nubi del malumore degli altri pm e si è insinuata l'idea che sia stato creato su misura proprio per l'inchiesta sulla presunta tangente da 1,1 miliardi pagata dalla multinazionale e finita con l'assoluzione di tutti gli imputati. Già a marzo 2020 ventisette pm hanno redatto un documento molto critico sulle «lacune» del Progetto organizzativo 2017-2019 della Procura, evidenziando come il terzo dipartimento «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni (di che affari si tratta), del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool.  Il Progetto organizzativo rimarca che, «in poco meno di due anni, il dipartimento ha investigato numerosi casi di corruzione internazionale, fiscalità e riciclaggio transnazionale. Alcuni di questi casi sono pervenuti a dibattimento e vi sono stati sequestri e pronunce giudiziali. Sono state complessivamente trattate 2.117 pratiche e ne sono state definite, allo stato, 1.514». Nel documento denuncia dei pm - dal quale già trapelano le tensioni in Procura poi esplose con i contrasti tra Greco e gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, da un lato, e il pubblico ministero Paolo Storari dall'altro - i 27 magistrati firmatari evidenziavano le «due lacune fondamentali del Progetto organizzativo».  Ossia quelle sulla «indicazione e, poi, l'analisi particolareggiata dei flussi» dell'attività d'indagine, un «difetto» che «impedisce alla radice di apprezzare gli aspetti riguardanti la congruità (e la tipologia) delle forze umane e materiali destinate a fronteggiare i singoli fenomeni» di criminalità. «Non si rinviene un'analisi della realtà criminale nel territorio di competenza», si legge nel documento, che rileva inoltre come «non sono stati specificamente individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale che l'ufficio intende perseguire, né gli obiettivi che l'ufficio è o non è riuscito a conseguire nel precedente periodo». Attenzione particolare viene dedicata proprio al terzo dipartimento per verificarne la «necessità», anche in relazione al rapporto con gli altri uffici della Procura «in grave sofferenza» dal punto di vista dei fascicoli da trattare e dell'organico dei magistrati. I numeri forniti, si legge nel documento, sono relativi solo al 2019 e non al triennio, dunque non farebbero chiarezza sull'attività del pool che ha a disposizione sei pubblici ministeri, di cui un aggiunto, e altri tre magistrati fuori quota. Dallo scritto emerge che il 3 marzo 2020 i ventisette magistrati della Procura milanese che hanno manifestato critiche sul progetto organizzativo lamentano una carenza di dati statistici dettagliati relativi allo stato delle pendenze e ai flussi di lavoro ritenuti essenziali per elaborare strategie di contrasto alla criminalità, per una razionale distribuzione delle risorse umane e la priorità nella trattazione dei procedimenti. Ma è soprattutto la sproporzione delle forze a creare nervosismo: viene ritenuta eccessiva l'assegnazione dei magistrati al dipartimento reati economici transnazionali rispetto a quelli che si occupano di reati gravi. La questione sarà affrontata dalla settima commissione del Csm, che dovrà gestire anche un'altra criticità. La Procura milanese, unico ufficio del distretto della Corte d'Appello, non ha inviato al consiglio giudiziario - l'organismo territoriale di autogoverno delle toghe - per il parere e la trasmissione al Csm, il nuovo piano organizzativo con cui si indicano gli obiettivi di «repressione» dei reati, la «produttività» che si vuole raggiungere e il bilancio dei risultati dell'attività di indagine degli anni precedenti. Inoltre non ha nemmeno depositato il decreto di conferma del piano organizzativo precedente. Lo ha segnalato nei giorni scorsi, con un verbale, lo stesso consiglio giudiziario al Csm.

DAGONEWS il 29 luglio 2021. Lo psicodramma in corso alla Procura di Milano, con la maggioranza dei pm schierati a difesa di Paolo Storari (per il quale il Pg della Cassazione, Salvi, ha chiesto il trasferimento) è soprattutto una rivolta contro il "Sistema Greco". Una gestione cauta della Procura, che ha sfilato il coltello tra i denti ai pm. Un "controllare, troncare e sopire" finalizzato a una giustizia senza strepiti o crociate moralizzatrici. Dopo lo scandalo dei verbali di Amara consegnati dal pm Paolo Storari all'ex consigliere del Csm Davigo, a causa del sospetto che la Procura volesse insabbiare le indagini, e il bailamme interno che ne è conseguito (annesso scazzo tra la vice di Greco, Laura Pedio, e lo stesso Storari), Francesco Greco avrebbe dovuto dimettersi, ammettendo implicitamente la fine di un'epoca nel palazzo di Giustizia di Milano. Se le dimissioni non sono mai state presentate è anche perché il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha marcato stretto Greco (che a ottobre andrà in pensione) evitando che la Procura più importante d'Italia precipitasse nel caos.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 29 luglio 2021. Lo spettacolo del Termidoro della Procura di Milano ha in sé qualcosa di malinconico, drammatico, e insieme profetico. Dice molto di ciò che è stato e non potrà più essere. E di quanto appaia improvvisamente secolare quell'immagine del pool di Mani pulite che almeno tre generazioni di italiani conservano impressa nella retina e con cui hanno continuato ad associare un luogo a chi lo abita. Certifica le convulsioni, lo smarrimento, le pulsioni autofaghe di un ordine giudiziario che si scopre improvvisamente analfabeta di un tempo nuovo di cui ha perso il filo. E che il caso Palamara, i suoi esiti, hanno incattivito, gonfiato di sospetto e rancori. Armando le Procure l'una contro l'altra, in un reciproco controllo di legalità dove, venuto meno l'argine del vecchio consociativismo tra correnti, il fair play non ha più diritto di cittadinanza. Dove cane morde cane. In un redde rationem che non ammette prigionieri. A cominciare dal processo intentato allo straniante capro espiatorio battezzato in questa ennesima velenosissima estate. Francesco Greco, oggi settantenne Procuratore prossimo al congedo, che fu il più giovane, scanzonato, e irregolare dei pubblici ministeri che scrissero la storia di Mani pulite. Il romano cresciuto nel quartiere "Delle Vittorie", ma milanese di adozione e nel midollo, per il quale Francesco Saverio Borrelli stravedeva. Con più di qualche ragione. Perché, in qualche modo, se la foto simbolo di quella stagione della storia d'Italia e della magistratura italiana è sopravvissuta nel tempo, è proprio perché, nel 2016, assumendo l'incarico di Procuratore, Greco ha provato a non farne una reliquia. Figlio di Magistratura democratica, di una cultura della giustizia e del diritto penale mite, Greco, cinque anni fa, immagina una terza via che sottragga la Procura di Milano e con lei quella parte della magistratura che a quell'ufficio guarda come il suo laboratorio più avanzato, all'alternativa del diavolo tra un ritorno nei ranghi di un controllo di legalità a bassa intensità che, per dirla con Luciano Violante, la vede accucciata sotto il trono e il "Resistere, resistere, resistere" come manifesto di un "contro-potere" che si candida ad avanguardia di un capovolgimento o comunque di una modifica degli equilibri di sistema. Greco immagina e costruisce una Procura che vigila sui poteri, ne indaga le devianze, ma non li indirizza. Facendosi carico, se necessario, delle compatibilità. Che squarcia il velo dell'ipocrisia dell'effettiva obbligatorietà dell'azione penale (che nessun ufficio giudiziario è in grado di assicurare con i criteri dell'automaticità) dichiarandone al contrario l'agenda e le priorità. E che ne misura l'efficacia dal risultato che è in grado di portare a casa. Greco detesta i "processi al Sistema" e immagina una frontiera di aggressione all'illegalità che privilegia i reati della sfera finanziaria, fiscale, del lavoro, anche in ragione della loro capacità di muoversi in uno spazio "transnazionale". Un modello in cui il patteggiamento non è una sconfitta, ma un principio di economicità. Che, per dire, costringe nel tempo Apple, Google, Facebook Italia, Amazon a concordare un versamento di 824 milioni di imposte evase all'Erario. Per non dire del gruppo Kering, polo del lusso proprietario tra gli altri del marchio Gucci, alla più alta conciliazione fiscale della storia repubblicana: 1 miliardo e 250 milioni di euro. Francesco Greco, tuttavia, sottovaluta uno degli insegnamenti di Francesco Saverio Borrelli che, negli anni di Mani pulite, era comune ascoltare nei corridoi della Procura. Far sentire ogni singolo magistrato del suo ufficio al centro del mondo. Convincerlo che la regola egualitaria del "cantare portando la croce" non conosca eccezioni. Il governo certosino del capitale umano non è una sua dote. Ed è così che si guadagna silenziosamente nemici. Anche quelli di cui oggi, scorrendo le 56 firme in calce al documento di solidarietà a Paolo Storari, non riesce a immaginare le ragioni del "tradimento". È così che la sua squadra di procuratori aggiunti messi a capo di otto dipartimenti organizzati secondo un criterio di competenza "tematica", e a cui Greco affida assoluta autonomia nella trattazione dei fascicoli, nella gestione dei sostituti, nella scelta delle strategie processuali, comincia lentamente ad essere percepita dalla pancia della Procura come una corona di "ottimati" da cui guardarsi e a cui guardare con diffidenza (o addirittura sospetto, come accadrà con Paolo Storari, al punto da guadagnarsi il non certo lusinghiero appellativo di "cerchio magico"). È così che sottovaluta le insidie che la gestione del caso Amara è in grado di produrre non solo a Milano, ma a Roma, in un Csm balcanizzato dove persino il canto del cigno di un altro figlio di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è una coltellata. È così che viene chiamato a rendere politicamente conto di una sconfitta processuale catastrofica - il processo Eni - e delle scelte istruttorie del suo aggiunto Fabio De Pasquale (oggi per questo indagato a Brescia e sottoposto all'azione disciplinare). È così che viene abbandonato dal consiglio giudiziario prima, dal Csm, poi. Già, perché in una némesi che lo vuole condannato perché ex Robespierre invecchiato da riformista, la ghigliottina alzata per Greco sulla scalinata del palazzo di Giustizia a pochi mesi dalla sua pensione vede le due anime della magistratura italiana (quella accucciata sotto il trono e quella rimasta orfana della foto del Pool e della sua letteralità) convergere. Con un risultato. L'arrivo a Milano, dopo trent' anni, di un Papa straniero. La cui scelta, da domani (giorno in cui scadrà il termine della presentazione delle domande per Procuratore Capo), sarà affare di un Conclave mai così carico di pessimi presagi.

La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 30 luglio 2021. Fabio De Pasquale non molla. E, nonostante potrebbe non esserci nel prossimo dibattimento, nelle 123 pagine dell'appello presentato contro l'assoluzione di tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria, decide di difendere ancora una volta l'ex manager Vincenzo Armanna e l'avvocato Piero Amara. Il primo è stato da poco indagato dalla collega Laura Pedio per calunnia nei confronti dell'avvocato Luca Santamaria. Al secondo, in carcere a Orvieto, è stata da poco respinta la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali perché le sue dichiarazioni sarebbero mero «opportunismo processuale». È una delle parti più rilevanti quella che la pubblica accusa - sulla presunta corruzione internazionale intorno al giacimento Opl 245 - dedica all'ex responsabile Eni per l'Africa subsahariana. Per De Pasquale, infatti, è «Eni a non essere in buona fede» mentre «Armanna non aveva fatto ricatti». Il pm sostiene anche che nel video del 28 luglio 2014 non ci siano intenti «calunniatori» da parte di Armanna, in totale contrasto rispetto a quanto detto dal tribunale presieduto da Marco Tremolada. Per la settima sezione del palazzo di giustizia milanese, invece, l'ex manager Eni «perseguiva lo scopo precipuo di gettare fango sui dirigenti Eni che potevano ostacolarne gli affari, di mettere in imbarazzo la compagnia e, in ultima analisi, di sollevare un caso mediatico giudiziario che lo avrebbe messo in una posizione di forza rispetto alla sua ex società». Non solo. De Pasquale ribadisce anche l'importanza della mancata ammissione della testimonianza di Amara, quella che non fu accolta dal tribunale, dopo che il capo della procura Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio avevano portato i verbali a Brescia. La Procura bresciana ha archiviato il procedimento che avrebbe riguardato presunte pressioni degli avvocati difensori di Eni su Tremolada. Ma per De Pasquale è sbagliato quello che sostengono i giudici, cioè «che le dichiarazioni che avrebbe potuto rendere Piero Amara non contenevano conoscenze dirette, ma si riferivano a notizie apprese da altri, come facilmente desumibile dai capitolati della prova». Per il pm di Messina Amara invece «aveva anche conoscenza diretta» dei fatti. Ma a difendere i due non è solo De Pasquale. Anche l'avvocato del governo nigeriano Lucio Lucia, nella sua impugnazione, sostiene che anche se Armanna si sia vendicato, come si evince dal video del luglio 2014, può averlo fatto «attraverso la denuncia di fatti veri. In altre parole» scrive Lucia «non è possibile l'equivalenza «"vendetta di Armanna uguale dichiarazioni non veritiere per la corruzione relativa all'Opl 245"». Va ricordato che l'ex manager Eni fu messo alla porta dal Cane a sei zampe per spese ingiustificate pari quasi a 300.000 euro. Come detto, è possibile che il prossimo dibattimento dell'appello su Opl 245 si svolgerà senza i protagonisti degli ultimi 8 anni di indagine. Il capo della Procura Greco andrà in pensione a novembre. Sergio Spadaro, pubblica accusa insieme con De Pasquale, è già in forza alla Procura europea. Lo stesso De Pasquale potrebbe essere spostato insieme con Paolo Storari, quest' ultimo sotto indagine al Csm proprio per aver sottolineato più volte l'inattendibilità di Armanna e Amara durante l'indagine sul falso complotto. L'appello insomma farà felice soprattutto gli avvocati, che hanno già incassato quasi 100 milioni. Dentro la Procura è iniziato invece il lento cupio dissolvi della corrente storica di Magistratura democratica, ora Area. La lettera appello a difesa di Storari firmata da 56 pm è una sfiducia nei confronti di una storica figura di Md come Greco, per di più dopo la decisione di un altro storico esponente della corrente di sinistra, ovvero il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Non a caso anche Edmondo Bruti Liberati, secondo Alberto Nobili, sarebbe intervenuto per spostare Storari. Insomma dopo più di 10 anni di dominio è iniziata la ribellione contro il sistema correntizio di sinistra. Quello che in questi anni ha voluto puntare tutto il lavoro della Procura sul processo Eni, rimediando una sonora sconfitta. E in Appello forse nessuno di loro ci sarà.

Caso Eni, De Pasquale (indagato) non molla. Ricorso contro le assoluzioni del processo. Cristina Bassi  e Luca Fazzo il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Oltre 120 pagine per contestare la sentenza: "Trattato come un caso bagatellare". Milano. L'aggiunto Fabio De Pasquale non intende mollare. Nel pieno della bufera che sta investendo la (ex) gloriosa Procura di Milano e dei guai che lo vedono, insieme al pm Sergio Spadaro, indagato a Brescia e - parrebbe - oggetto di istruttoria disciplinare del pg di Cassazione deposita il ricorso in Appello contro la sentenza Eni-Nigeria. Proprio il procedimento che gli ha portato le peggiori grane che una toga possa avere. De Pasquale chiede di ribaltare la decisione del Tribunale che il 17 marzo scorso ha assolto, «perché il fatto non sussiste», tutti i 15 imputati per la presunta maxi tangente Eni. Tra gli imputati, l'ad Claudio De Scalzi e il predecessore Paolo Scaroni. Anche la parte civile, il governo nigeriano rappresentato dall'avvocato Lucio Lucia, ha fatto ricorso. Il deposito dell'impugnazione arriva a ridosso della scadenza dei termini. Il procuratore aggiunto ha scritto 123 pagine per contestare, punto per punto, le motivazioni della Settima sezione penale, presieduta dal giudice Marco Tremolada. Per il Tribunale, non è stata raggiunta la prova della presunta corruzione del colosso petrolifero per ottenere le concessioni sul giacimento Opl245. Eppure De Pasquale avrebbe ben altro cui dedicarsi, per difendersi dalle accuse della Procura di Brescia, che lo indaga per rifiuto di atti d'ufficio proprio perché avrebbe tenuto per sé fondamentali prove a favore degli imputati nel processo poi perso. Non solo. Avrebbe usato in modo selettivo i verbali di Piero Amara, per altri versi dalla stessa Procura ritenuti non degni di approfondimento, per denunciare a Brescia il giudice Tremolada (poi archiviato) come «avvicinabile» dalle difese. Per la vicenda, che ha causato in Procura uno scisma senza precedenti, il pg di Cassazione potrebbe chiedere al Csm di cacciarlo da Milano, come ha già fatto per il pm Paolo Storari, la cui udienza è fissata per oggi. Se non bastasse, è emerso che nel marzo 2020 in un documento molto critico 27 pm milanesi sottolineavano che il dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali, guidato da De Pasquale, «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni, del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool. In sostanza nel ricorso l'aggiunto sostiene che i giudici della Settima hanno trattato il caso «come se fosse una storia bagatellare». Per De Pasquale, il Tribunale porta argomenti «veramente esili» e «illogici», con «gravi svalutazioni» delle prove e in certi passaggi fornisce una «ricostruzione unidimensionale». Sul teste-imputato Vincenzo Armanna, che i giudici dichiarano «non attendibile», animato «da intenti ricattatori» e autore di dichiarazioni «generiche, contraddittorie e non riscontrate», l'aggiunto ribadisce che «gran parte del suo racconto è non solo vero, ma pacificamente vero». E che il Tribunale ricorre a un escamotage per screditarlo: in caso di «circostanze su cui Armanna è stato pienamente riscontrato» succede che «affermi che la circostanza è sì vera ma ha una sua spiegazione lecita, ovvero che non è rilevante, o che è parzialmente vera». Sul video, «dirompente» per i giudici, in cui Armanna afferma di voler infangare l'azienda e che i pm - è l'accusa della Corte - hanno tenuto nascosto: De Pasquale dichiara che la Corte stessa aveva deciso di non ammetterlo, perché rientrava in un'altra inchiesta in corso (sul «complotto» Eni); che i difensori già ne conoscevano il contenuto; che l'intento calunniatorio del teste non si deduce dal video, ma ha origine nella «percezione soggettiva del giudicante». La videoregistrazione, si conclude, non può diventare «l'arma micidiale che distrugge un intero processo». Fa sapere infine Eni che «conferma la propria totale estraneità rispetto ai fatti contestati e ripone la massima fiducia che la magistratura giudicante in Appello possa rapidamente confermare le conclusioni raggiunte nell'ambito del primo grado».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Fabio De Pasquale, la rivolta dei colleghi contro il pm anti-Cav: "Lavora poco e ha troppo potere", qui crolla la procura. Paolo Ferrari Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. È scattata la rivolta al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, dove ha sede la procura della Repubblica, contro il "dipartimento reati economici transazionali" diretto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Dopo la raccolta di firme a sostegno del pm milanese Paolo Storari, "reo" di aver messo in discussione l'operato dei suoi capi, il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, il nuovo terreno di scontro fra le toghe riguarda questo dipartimento molto particolare. L'ufficio, nato per volontà di Greco, al momento si è essenzialmente occupato di processare i vertici dell'Eni per l'accusa di aver corrotto esponenti del governo della Nigeria per la gestione di un pozzo di petrolio nel golfo di Guinea. Il dipartimento di De Pasquale, secondo quanto riferito da una trentina di sostituti, avrebbe un carico di lavoro nettamente inferiore a quello degli altri dipartimenti della Procura milanese. La suddivisione dei fascicoli è stata fatta direttamente dal procuratore. Il rapporto con gli altri dipartimenti sarebbe impietoso: 1 a 100, secondo l'aggiunto Tiziana Siciliano, capa di quello per la "tutela della salute, dell'ambiente e del lavoro", evidentemente travolta dai procedimenti. Oltre a non avere fascicoli, il dipartimento di De Pasquale ha anche un'altra particolarità: è diventato recentemente una fucina di "procuratori europei delegati", i pm della neo costituita Procura europea che ha lo scopo di perseguire i reati contro gli «interessi finanziari dell'Unione». Dei 14 pm italiani scelti per occuparsi delle frodi al bilancio comunitario e non, per fare un esempio, di quello italiano con le truffe sul reddito di cittadinanza, ben tre provengono proprio dal dipartimento di De Pasquale: Gaetano Ruta, Donata Costa, Sergio Spadaro. Quest' ultimo, peraltro, è attualmente indagato con De Pasquale a Brescia, Procura competente per i reati commessi dai magistrati milanesi, per non aver depositato alcune prove a favore degli imputati nel processo Eni-Nigeria. Una circostanza che sta creando imbarazzo a Lussemburgo dove ha sede la Procura europea. Spadaro, fresco di nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura, che aveva messo in evidenza le sue capacità professionali, potrebbe essere allora defenestrato se, come recita il regolamento europeo «ha commesso una colpa grave». Certamente non una bella figura per l'Italia. Elemento scatenante di questa situazione infuocata è sempre Storari, anch' egli indagato a Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio per aver consegnato i verbali dell'ex avvocato esterno dell'Eni, Piero Amara, all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Storari ha sempre affermato di averlo fatto a causa dell'inerzia dei suoi capi nel fare accertamenti sulle rivelazioni di Amara, in particolare sugli appartenenti alla Loggia segreta Ungheria. Ma non solo: Storari, che assieme all'aggiunta Pedio aveva interrogato Amara, aveva evidenziato diverse anomalie nella deposizione e nella raccolta delle prove. Come quella di una registrazione, mai prodotta in dibattimento, in cui si pianificava il complotto contro i vertici dell'Eni. De Pasquale aveva poi ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all'attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». Domani, comunque, la sezione disciplinare del Csm si esprimerà nei confronti di Storari visto che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto per lui il trasferimento di sede e il cambio di funzioni. Quattro dei sei giudici della Sezione disciplinare hanno deciso di astenersi in quanto erano stati messi a conoscenza da Davigo del contenuto dei verbali delle dichiarazioni di Amara. Oggi pomeriggio, invece, è prevista sempre alla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli l'udienza nei confronti di Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e deputato renziano di Italia viva. Con Luca Palamara aveva partecipato all'incontro all'hotel Champagne di Roma dove si discusse della nomina del nuovo procuratore della Capitale. L'ex presidente dell'Anm, invece, hanno fatto sapere i suoi avvocati, ha depositato ieri alla Procura di Firenze, alla luce di queste astensioni, un esposto contro Davigo e Gigliotti. Costoro nel procedimento contro di lui, finito con la radiazione dalla magistratura, non si erano astenuti pur essendo all'epoca già a conoscenza delle dichiarazioni di Amara.

Il Csm "boccia" Greco. Lui attacca il pm Storari: "Slealtà e menzogne". Cristina Bassi il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Dura lettera del procuratore ai sostituti: nel mirino la raccolta firme per il collega indagato. Milano. La serenità ormai è un miraggio al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Con tre pm, su due fronti opposti, nel mirino delle Procura di Brescia e a rischio provvedimento disciplinare del Csm, ora arriva la delibera approvata a larga maggioranza in cui il Consiglio superiore prende atto del progetto organizzativo del procuratore Francesco Greco per il triennio 2017-2019, ma con diversi «rilievi». Non c'è, si legge, «un'analisi dettagliata della realtà criminale nel territorio di competenza, non risulta un'indicazione e un'analisi attuale e dettagliata dei dati relativi alle pendenze e ai flussi di lavoro, non sono stati individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale». Una carenza che «preclude al Csm una compiuta valutazione delle scelte effettuate». Il Csm dà ragione alle osservazioni già mosse da 27 pm e dall'ex pg facente funzioni Nunzia Gatto che aveva segnalato in particolare un'apparente «anomalia» tra il numero di magistrati addetti al dipartimento Affari internazionali, quello di Fabio De Pasquale, e assegnati ad altri dipartimenti che pure trattano «reati gravi e delicati». Intanto ieri lo stesso Greco ha inviato una dura mail ai propri sostituti in cui attacca (senza farne il nome) il pm Polo Storari, oggi davanti al Csm per la vicenda dei verbali di Piero Amata consegnati a Piercamillo Davigo. «Altro è difendersi - scrive il capo della Procura -, altro è lanciare gravi e infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio, non astenendosi, tra l'altro, da un'indagine su un fatto in cui si è personalmente coinvolti». Ancora: «Le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate». Greco poi affronta la questione della lettera in sostegno a Storari: «Un documento sottoscritto da molti colleghi dell'Ufficio è stato reso pubblico e ha destato inevitabile clamore. Una cosa è la umana solidarietà nei confronti di un collega in difficoltà, altro è una presa di posizione che non poteva non essere presentata nei media come intervento teso a condizionare una procedura giudiziaria garantita, quale è il procedimento disciplinare». Continua il procuratore: «I valori tutelati in questa procedura sono la credibilità e la fiducia dei cittadini nel regolare andamento di un ufficio giudiziario (...). L'augurio di tutti non può essere altro che sia fatta chiarezza quanto più rapidamente dai giudici competenti sotto i diversi profili coinvolti». E rivendica, «senza timore di smentite che in tutti questi anni, da Procuratore aggiunto e poi da Procuratore, senza mai rinunciare al dovere di rappresentare la mia valutazione in un confronto aperto e leale, ho sempre avuto il massimo rispetto per l'autonomia dei colleghi. Altrettanto rispetto dobbiamo avere tutti per le procedure in corso, la cui definizione è l'unico mezzo per ricostruire appieno la fiducia dei cittadini in questa Procura. Una Procura, che è sempre stata un punto di riferimento in Italia e anche all'estero». Infine: «Avviandomi alla conclusione della mia carriera in magistratura, sono orgoglioso di aver fatto parte della grande storia della Procura di Milano». Cristina Bassi

Domani decide la commissione disciplinare del Csm. Caos in Procura a Milano, Greco attacca Storari: “Slealtà e menzogne, lettera può influenzare il Csm”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Procura di Milano in fiamme nella battaglia in corso tra il procuratore Francesco Greco e il pm Paolo Storari alla vigilia dell’udienza in commissione disciplinare del Csm che dovrò decidere sulla richiesta di trasferimento del magistrato in relazione alla consegna a Piercamillo Davigo, allora consigliere del Csm, dei verbali segreti di Piero Amara. Come noto Storari ha consegnato quei documenti a Davigo con la "giustificazione" dell’inazione da parte dei vertici della procura di fronte alle parole di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria, di cui farebbero parte politici, magistrati, vertici delle forze di polizia, avvocati e imprenditori. In una lettera spedita via mail ai pm della Procura di Milano, il procuratore Greco attacca Storari scrivendo che il pm è “venuto meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio, non astenendosi, tra l’altro, da una indagine su un fatto in cui si è personalmente coinvolti”. Ma Greco mette nel mirino anche gli autori della solidarietà al pm coinvolto nella vicenda dei verbali di Amara, raccolta firme che ha raccolto l’adesione di circa 230 magistrati milanesi, in gran parte del suo ufficio. Mail che ha lasciato “senza parole” gran parte dei sostituti sia per i toni sia per i modi sia per la tempistica. Greco scrive infatti che “una cosa è la umana solidarietà nei confronti di un collega in difficoltà, altro è una presa di posizione che non poteva non essere presentata nei media come intervento teso a condizionare una procedura giudiziaria garantita, quale è il procedimento disciplinare già a partire dalle indagini e dalla fase cautelare”. Nella lettera, Greco non cita mai espressamente Storari, ma nel riferirsi al pm il procuratore milanese ricorda che “il collega ritenuto responsabile (della fuga di notizie, ndr) è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare in un procedimento giurisdizionale nel quale si applica il codice di procedura penale”. Greco quindi rivendica “senza timore di smentite” che nei suoi anni alla guida della procura “senza mai rinunciare al dovere di rappresentare la mia valutazione in un confronto aperto e leale, ho sempre avuto il massimo rispetto per l’autonomia dei colleghi”.

Quindi dalla penna di Greco altre ‘mazzate’ a Storari ma anche agli altri protagonisti della vicenda, da Davigo in poi: ”Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali” di denunciare”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

Dalla rivoluzione al pool di Mani Pulite. Chi è Francesco Greco, ascesa e caduta del procuratore di Milano. Frank Cimini su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Non vale certo per tutti ma per molti decisamente sì. Vale per il procuratore capo di Milano Francesco Greco che da giovane pm fece parte di una sparuta ma combattiva pattuglia di magistrati che tra Roma e Milano come “sinistra di Md” si oppose strenuamente all’emergenza antiterrorismo, alle leggi speciali. Greco scriveva su “Woobly collegamenti” un foglio dell’area dell’Autonomia e insieme a chi verga queste povere righe, a Gianmaria Volontè, al libraio Primo Moroni, a magistrati e avvocati prese parte a un collettivo, “il gruppo del mercoledì” impegnato a perorare la causa dell’amnistia per i detenuti politici. Insomma ne è passata di acqua sotto i ponti per arrivare ai giorni nostri, gli ultimi della carriera di Francesco Greco che il 14 novembre andrà in pensione dopo aver fatto cose molto diverse, eufemismo, dal contenuto delle sue idee giovanili. Greco fu la cosiddetta “mente finanziaria” del pool Mani pulite, una nuova emergenza dove recitò fino in fondo il ruolo di chi stava dalla parte di una categoria che approfittando del credito acquisito anni prima saltava al collo della politica per dire “adesso comandiamo noi”. Stiamo parlando di un magistrato che diede un enorme contributo ai mille pesi mille misure dell’inchiesta che avrebbe dovuto, stando alle aspettative, cambiare in meglio il paese. E invece tanto per fare un esempio Sergio Cusani che non aveva incarichi e nemmeno firme sui bilanci in Montedison prese il doppio delle pene riservate ai manager Sama e Garofano. Greco è stato il delfino di Edmondo Bruti Liberati, storico esponente di Md corrente nata a metà degli anni ‘60 teorizzando l’orizzontalità negli uffici giudiziari ai danni della verticalità. Bruti, con al fianco Greco e supportato dal capo dello Stato e presidente del Csm Giorgio Napolitano, usò tutta la verticalità possibile nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo esautorato e trasferito perché voleva fare le indagini su Expo. E da quello scontro interno alla procura di Milano è derivata la linea generale del Csm che adesso lascia i capi delle procure liberi di scegliersi gli aggiunti senza interferire e rinunciando in pratica al suo ruolo. Tanto è vero che Greco riusciva a far nominare tra i suoi vice Laura Pedio che aveva titoli di gran lunga inferiori a quelli di Annunziata Ciaravolo. Ciaravolo aveva preannunciato a Greco la propria candidatura e il capo della procura aveva dato l’ok. Poi, è storia nota, Greco chiedendo l’appoggio di Palamara riusciva a ottenere il grado per la sua protetta. Adesso la rogatoria eseguita in Nigeria dall’aggiunto Pedio per il caso Eni è al centro di uno scontro furibondo con la procura di Brescia che chiede quelle carte nell’ambito dell’inchiesta sui pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Greco ha risposto picche spiegando che gli atti fanno parte di una istruttoria in corso coperta da segreto. Il procuratore di Brescia Francesco Prete, in questa lotta a chi ce l’ha più duro, si è rivolto al Governo che dovrebbe chiedere lumi alla Nigeria. Lo stato africano avendo fornito assistenza alla procura di Milano non dovrebbe creare problemi per il passaggio delle carte anche a Brescia. Ma nella vicenda Eni che sta facendo vivere alla procura milanese e al suo capo i giorni più difficili della sua storia nulla è scontato. Frank Cimini

Una risposta all'arroganza dei procuratori. Lo schiaffo dei Pm ai mandarini Salvi e Greco. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 27 Luglio 2021. L’arroganza è sempre una cattiva consigliera, figurarsi nella gestione dei rapporti gerarchici tra magistrati. A maggior ragione se ad adottarla sono due figure apicali come il procuratore generale della Cassazione Salvi e il procuratore capo di Milano Greco. Esse si muovono in un contesto nel quale sono già avvenuti terremoti sia a livello di Anm e di Csm sia per ciò che riguarda Milano, che è nell’occhio del ciclone per una serie di questioni. Ma innanzitutto per una: siccome i pm De Pasquale e Spadaro hanno puntato tutte le loro energie per distruggere il gruppo dirigente dell’Eni, l’assoluzione, accompagnata da una durissima motivazione, già aveva rappresentato una sconfitta bruciante per la procura nel suo complesso con code processuali visto che De Pasquale e Sergio Spadaro sono sottoposti ad un procedimento presso la procura di Brescia. A monte di tutto ciò c’è il preteso caso Palamara, preteso perché esso coinvolge tutto il funzionamento interno della magistratura per ciò che riguarda l’assegnazione delle cariche. Palamara infatti era una ruota dell’ingranaggio e non si è inventato lui la permanente trattativa fra le correnti indipendentemente dai curricula e dai meriti. Se non che ad un certo punto Palamara, leader della corrente di centro, ha commesso l’errore di rovesciare le alleanze passando da una alleanza di centrosinistra ad una di centrodestra. Così è partito non un proiettile, ma un missile a più stadi, cioè il trojan. Attraverso le intercettazioni del trojan, è stato messo in piazza il sistema, appunto, non le malefatte di Palamara. A quel punto, per salvare la magistratura ed il suo prestigio, occorreva una sorta di Rivoluzione Culturale con l’azzeramento di tutto, con le dimissioni del Csm, del suo vicepresidente Ermini, con la messa in questione anche della nomina – peraltro derivata da una dimissione – del pg della Cassazione Salvi, perché tutto derivava non da Palamara, ma dal Sistema nel quale Palamara era uno dei dirigenti del traffico. Invece, con un misto di arroganza e cecità, si è pensato di mantenere in piedi l’impianto, operando un assassinio mirato (il medesimo Palamara appunto, addirittura espulso dalla magistratura) con qualche mezzo suicidio selezionato (dimissioni talora sollecitate dalle correnti di riferimento anche di soggetti poi risultati innocenti). Già l’operazione era asfittica di per sé, poi è avvenuta in un contesto nel quale la contestazione di questo sistema giustizia era crescente: bastava solo che qualcuno accendesse un cerino. Il libro di Palamara e Sallusti è stato questo cerino che ha dato fuoco alla prateria. Neppure questo segnale è bastato. Questo è il retroterra utile a spiegare ciò che è avvenuto in questi giorni: un caso di straordinaria arroganza, posto in essere dal Procuratore di Cassazione Salvi in stretta connessione con il Procuratore di Milano Greco. Per raggiungere l’obiettivo di radere al suolo il gruppo dirigente dell’Eni, due avvocati in rottura con quella azienda, cioè Amara e Armanna, risultavano per i pm molto utili. Il primo aveva addirittura fatto oblique affermazioni secondo le quali il dottore Tremolada che guidava il processo, un magistrato da tutti stimato, “era avvicinabile dalla difesa dell’Eni” (questa affermazione se raccolta poteva far saltare il processo), in secondo luogo i due pm Di Pasquale e Spadaro sono in giudizio a Brescia per non aver inserito negli atti del processo delle prove favorevoli alla difesa (come è noto il pm esercita la pubblica accusa non per i fatti propri ma a nome del popolo italiano e quindi deve raccogliere anche eventuali prove favorevoli agli accusati): è quello che ai tempi di Mani pulite fece il vice di Borrelli dottor Dambrosio, quando raccolse prove a favore di Greganti e quindi del PCI – PDS). In un contesto già di per sé così ambiguo ed inquietante, Amara ha riferito al pm Storari che egli faceva parte di una loggia segreta, la Hungaria, insieme a personalità di grande rilievo (e ha fatto i nomi di alcune di esse che manipolavano i processi e contribuivano a costruire carriere nella magistratura). Non è affatto detto che Amara abbia raccontato la verità, però quello che egli ha messo a verbale andava accertato seguendo il meccanismo classico: avvisi di garanzia, indagini, perquisizioni, intercettazioni, magari anche con il trojan. Se non che Storari ha verificato che il suo procuratore capo Greco non si muoveva e allora si è rivolto ad una personalità rilevante del Csm cioè Davigo per suonare un campanello d’allarme. Ieri Davigo ha fornito sul Corriere della Sera un imbarazzante resoconto di tutte le personalità da lui interpellate, fino a lambire la presidenza della Repubblica. Quello che è avvenuto dimostra due cose: la prima è che si sono inceppati alcuni meccanismi procedurali nel sistema. La seconda è che, come ha affermato Sabino Cassese, la magistratura non può esercitare i meccanismi disciplinari su se stessa, perché, anche per l’esistenza delle correnti, ciò può produrre incredibili disastri. Comunque, come se in questi mesi non fosse successo niente, come se il Sistema fosse solidissimo, il procuratore capo della Cassazione Salvi, anch’egli contestabile perché espresso proprio da quel Sistema, ha deciso di prendere la scimitarra e di tagliare la testa di Storari, del solo Storari, addirittura allontanato da Milano per ridare serenità a quella procura e privato per il futuro di poter esercitare ancora il ruolo di pubblico ministero. Parliamoci chiaro: l’obiettivo di questo attacco frontale del Procuratore Salvi nei confronti di Storari ha come retroterra filosofico un motto tipico degli anni Settanta: colpiscine uno per educarne cento. E si fonda sulla forza del principio di autorità, in questo caso sostenuto anche dal procuratore capo di Milano Greco. L’iniziativa dei due potentissimi procuratori avrebbe dovuto mettere in riga tutti. Ma Salvi e Greco non hanno fatto i conti con la situazione attuale: essi sono gli ultimi dei “mandarini” di un sistema in crisi dalle fondamenta. Così, invece di andare a baciare la pantofola dei due procuratori, c’è stata l’iniziativa di un documento eterodosso sostenuto da un Pm di grande prestigio come Alberto Nobili che ha ottenuto più di cento firme, fra cui 56 su 64 fra i componenti della Procura. Il documento è assai calibrato, ma colpisce al cuore, anzi ridicolizza, le esagitate esternazioni di Salvi nel punto cruciale: «La loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell’esercizio delle sue funzioni presso la procura della Repubblica di Milano». Se qualcuno voleva risolvere con una operazione disciplinare il problema Storari, che non è più tale ma è quello della Procura di Milano, si è sbagliato di grosso. Che poi la sezione disciplinare di questo Csm delegittimato sia a sua volta in grado di affrontare a colpi di scimitarra una questione di questo spessore ci sembra del tutto impossibile. Passando dalla magistratura alla politica, è come se qualcuno pensasse di risolvere i tanti problemi politici che ha il Pd con la stessa metodologia autoritaria usata a suo tempo dal gruppo dirigente del Pci nei confronti del manifesto. Se Salvi pensa di trattare Storari come a suo tempo Longo, Amendola, Natta trattarono Pintor fa un errore colossale. La crisi è di sistema. Comunque bisogna dare atto si magistrati inquirenti di Milano di aver dato la prova di avere la schiena dritta. Il documento apre però problemi enormi per ciò che riguarda, al di là dell’episodio in oggetto, proprio il funzionamento della magistratura. Fabrizio Cicchitto

Storari si difende sulle carte a Davigo. "No al trasferimento". Anna Maria Greco il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Incompatibilità ambientale e funzionale. Via da Milano e non più pubblico ministero. Incompatibilità ambientale e funzionale. Via da Milano e non più pubblico ministero. Per Paolo Storari è pesante la richiesta del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha avviato il procedimento disciplinare nei suoi confronti e chiesto al Csm il suo trasferimento dalla procura meneghina. E a Palazzo de' Marescialli il difensore, Paolo Della Sala, per un'ora e mezza cerca di smontare le accuse. «L'auspicio è che venga rigettata la richiesta», dice. Ma tutto avviene a porte chiuse, nella sezione disciplinare e sono «totalmente riservati», spiega l'avvocato, i tempi entro cui arriverà la decisione. Potrebbe essere in settimana o nella prossima, con il deposito della motivazione. Della Sala, uscendo con Storari dall'udienza durata due ore, sottolinea che il suo assistito non vuole strumentalizzare la raccolta di firme di solidarietà con lui di 250 pm e giudici, né farla apparire come una rivolta contro il procuratore Francesco Greco. «Non abbiamo mai depositato una lista delle persone che hanno accordato fiducia e la loro simpatia umana al dottor Storari, contrariamente a quanto qualcuno ha pubblicato. Non abbiamo enfatizzato questo argomento. La difesa propone ben altri argomenti». Storari è accusato da Salvi di aver commesso ad aprile il reato di rivelazione di segreto istruttorio, per aver consegnato all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (indagato con lui) i verbali ancora coperti da segreto» degli interrogatori di Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Anna Maria Greco

Caso verbali, Storari si difende ma senza “sfruttare” la solidarietà dei colleghi. Il pm non deposita la lettera di solidarietà di circa 250 colleghi. La decisione attesa in settimana, ma intanto la procura di Milano è una polveriera. Simona Musco su Il Dubbio il 4 agosto 2021. L’ora x per il pm di Milano Paolo Storari è arrivata. La commissione disciplinare del Csm si è riunita questo pomeriggio in camera di consiglio, per valutare le accuse formulate dal pg della Cassazione Giovanni Salvi, che ha chiesto per il magistrato milanese il trasferimento cautelare d’urgenza e il cambio di funzioni per aver consegnato i verbali secretati di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

La linea difensiva di Paolo Storari. Il pm milanese è rimasto al Csm per circa due ore, in compagnia del suo avvocato, Paolo Dalla Sala, che ha depositato una corposa memoria difensiva. Memoria che, a differenza da quanto ipotizzato nei giorni scorsi, non contiene la lettera di sostegno sottoscritta da circa 250 magistrati, a partire dai togati milanesi, che hanno manifestato solidarietà a Storari. Sono stati depositati, invece, i documenti consegnati alla procura di Brescia, che lo indaga per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex pm di Mani Pulite Davigo. «La nostra linea difensiva non si fonda su quella lista di adesioni – spiega al Dubbio Dalla Sala -. Non abbiamo depositato alcuna lista e non è stato in alcun modo enfatizzato questo argomento, anche per non strumentalizzare questa manifestazione di fiducia e solidarietà umana che di certo è importante, ma non è un argomento che attiene alla difesa. Abbiamo solo depositato un ritaglio, al fine di dimostrare l’esistenza del fenomeno, ma l’argomento non poteva essere enfatizzato più di tanto davanti al Csm. Sono altri gli argomenti, in fatto e in diritto, e molto articolati».

Salvi chiede il trasferimento d’ufficio. Salvi ha chiesto il trasferimento di Storari per aver «divulgato i verbali» di Amara a Davigo nell’aprile 2020, violando il segreto d’ufficio e assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio, da lui accusati di aver ritardato le indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. Storari ha dichiarato a Brescia di aver consegnato a Davigo i verbali raccolti nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni” insieme a Pedio nell’ottica dell’apertura di una pratica «a sua tutela», senza poter prevedere che la segretaria dell’ex membro del Csm, Marcella Contrafatto, potesse inviarle ai giornalisti, così come sostiene la procura di Roma che la indaga per calunnia ai danni di Greco.

Greco indagato a Brescia. L’ultimo capitolo di questa vicenda è rappresentato dal fascicolo aperto, sempre a Brescia, a carico di Greco, indagato per aver ritardato l’apertura dell’indagine sulla presunta “Loggia Ungheria”, della cui esistenza ha parlato Amara proprio in quei verbali. Un atto dovuto, a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, secondo cui l’inerzia dei vertici della procura sarebbe stata dettata dalla necessità di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto però dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», ha dichiarato Greco a Brescia. E anche secondo il sostituto pg Marco Dall’Olio, che ha sostenuto l’accusa davanti al Csm, Storari avrebbe dovuto formalizzare il proprio dissenso denunciando i ritardi al procuratore generale di Milano o, comunque, scegliendo le vie ufficiali. Anche perché quei verbali, alla fine, sono diventati pubblici, senza conoscere la veridicità del contenuto, smentito solo dalle incongruenze più eclatanti, come i riferimenti al togato del Csm Sebastiano Ardita, vittima, secondo il collega Nino Di Matteo, di un vero e proprio complotto.

La solidarietà dei colleghi a Storari. Intanto la procura di Milano è una polveriera. La lettera di solidarietà a Storari, infatti, dimostra una spaccatura interna ormai insanabile, conseguenza, forse, anche del silenzio in cui si sono chiusi i vertici dell’ufficio giudiziario nei giorni in cui si consumava lo scandalo dei verbali. Davanti alla prima commissione che segue il caso Storari, infatti, diversi magistrati hanno dichiarato di aver appreso quanto stava avvenendo soltanto dai giornali. E dopo la solidarietà pubblica al pm, Greco non ha nascosto il proprio fastidio, in una mail inviata ai colleghi nella quale, di fatto, accusa Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare.

Gli altri pm milanesi indagati. Storari e Greco non sono gli unici indagati: Brescia ha puntato i fari anche sull’aggiunto Fabio De Pasquale e sul sostituto Sergio Spadaro, accusati di omissione d’atti d’ufficio nel processo Eni-Nigeria. Un cerchio che si chiude attorno ad Amara e Armanna, pomo della discordia di tutta la vicenda. Gli stessi per i quali Storari, a febbraio 2021, aveva preparato una bozza di richiesta di misure cautelari con l’accusa di calunnia, richiesta avanzata anche a carico di Giuseppe Calafiore ma mai controfirmata dai vertici della procura. La decisione del collegio della Sezione disciplinare sarà ora resa nota contestualmente al deposito delle motivazioni, che potrebbe arrivare entro la fine della settimana.

Da Borrelli alla debacle di Greco, gli ultimi 40 anni della procura di Milano tra scandali e misteri. Frank Cimini su Il Riformista il 6 Agosto 2021.  Alla vigilia, ma in realtà ci vorranno mesi, di quello che potrebbe essere un avvenimento epocale come l’arrivo del cosiddetto “papa straniero” a capo della procura di Milano vale la pena di ricordare cosa è accaduto negli ultimi quarant’anni e passa.

Nel 1977, quando chi scrive queste povere righe iniziò a frequentare il palazzo di giustizia come collaboratore abusivo e non pagato (diciamo per militanza) del manifesto, il capo dei pm era Mauro Gresti passato alla storia per aver dato, e non avrebbe dovuto farlo, l’ok per il passaporto al banchiere Roberto Calvi. Di Gresti si racconta pure che la moglie fosse solita rimproverarlo quando portava fuori il cane “perché per ammazzare te mi ammazzano anche lui”.

Il successore di Gresti fu Francesco Saverio Borrelli il santo procuratore della farsa di Mani pulite targato Magistratura democratica dalla quale però a un certo punto prese le distanze. Un giudice di quei tempi era solito etichettare Borrelli come “quello che fa proclami al popolo”. Borrelli al termine del mandato scese al terzo piano a fare il procuratore generale cioè il superiore gerarchico e il controllore dello stesso ufficio inquirente che aveva diretto per anni. Ma si tratta di “dettagli” di cui il Csm, che di solito fa cose anche peggiori, non si è mai voluto interessare.

Del resto anche Manlio Minale fece lo stesso percorso scendendo di piano senza che la cosa suscitasse attenzione. Minale quando aveva già fatto la domanda per diventare pm era il giudice che in corte d’Assise condannò Sofri. Avrebbe mai potuto smentire l’ufficio in cui stava per entrare?

Ma prima di Minale il capo era stato Gerardo D’Ambrosio, lo zio Gerry, colui che da giudice istruttore aveva cercato di salvare l’onore e l’immagine della questura ricorrendo al “malore attivo” dell’anarchico Pinelli. D’Ambrosio in Mani pulite salvava il Pci Pds spiegando che Primo Greganti aveva usato i soldi non per il partito ma per comprare una casa. Ma da Montedison Greganti aveva incassato 621 milioni di lire, esattamente la stessa cifra data agli emissari di Psi e Dc. Misteri di Mani pulite.

Dopo D’Ambrosio arrivò Edmondo Bruti Liberati uno dei fondatori di Md il quale, contrariamente a quelli che erano stati i valori e lo spirito originario della corrente, fece fino in fondo “il padrone” del quarto piano cacciando Robledo che voleva indagare su Expo, ma per salvare la patria dell’evento non si poteva.

Francesco Greco, suo ex delfino, ha continuato l’opera di Bruti incagliandosi alla fine nel caso Eni Nigeria.

Siamo alla storia di questi giorni. Greco era stato sempre “coperto” dal Csm. Ricordiamo che poco tempo prima di essere nominato procuratore aveva chiesto una serie di archiviazioni in procedimenti di tipo fiscale. Il gip a ragione gettava le richieste e a quel punto interveniva la procura generale della Repubblica avocando a sé i fascicoli.

In alcuni di questi casi si arrivava alla condanna attraverso il patteggiamento. Insomma veniva completamente ribaltato quello che Greco aveva prospettato. In casi del genere il Csm è chiamato ad andare a verificare. Non accadeva nulla.

Greco insieme al pg della Cassazione Salvi evidentemente pensava di risolvere la questione Eni-Amara facendo trasferire Storari. Stavolta non ha centrato l’obiettivo. Frank Cimini

La lettera di 150 toghe in difesa di Storari. Valanga sulla procura di Milano, dopo 30 anni sotto accusa il metodo Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Una valanga. È ormai una valanga quella che si sta abbattendo sulla Magistratopoli milanese, sul capo della procura Francesco Greco e il suo asse che pareva inattaccabile con il pg della Cassazione Giovanni Salvi e i vertici di Magistratura democratica, la corrente sindacale che sostenne trent’anni fa la roccaforte di Mani Pulite e i loro metodi che oggi sono sul banco degli imputati. Una piccola ricompensa per le tante vittime di quel sistema, e soprattutto per i 41 che proprio per quello si tolsero la vita. Una valanga che oggi porta le firme di 58 pm milanesi su 64, e poi gip e giudici di tribunale e corte d’appello, e l’intera procura di Busto Arsizio, fino a superare il numero di 150 toghe che, dietro le righe di una solidarietà al collega Paolo Storari che Salvi vuole cacciare da Milano e da qualunque procura, dicono “basta” alla Magistratopoli lombarda. Il pg della cassazione (e con lui il capo della procura di Milano) ritiene che i magistrati milanesi non siano sereni, se Storari rimane lì. Siamo molto sereni qui con lui, rispondono in coro i colleghi. Quasi dicendogli “stai sereno” tu. Non è importante stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, per capire le ragioni di quel che sta succedendo. È stato il libro di Palamara e Sallusti a far rotolare il primo sassolino che diventerà valanga o è il caso Storari-Davigo con la maledizione del processo Eni a disvelare che ormai da tempo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si dice che “il re è nudo”? Nessuno pensava che un giovane sostituto fosse così importante, e probabilmente non lo è. Ma in tanti tra quelli più anziani negli uffici hanno la memoria lunga. E qualcuno sicuramente ricorderà le aspettative di chi avrebbe potuto diventare nel 2016 il capo della procura quando invece la scelta del Csm –quello in cui spopolava il sistema Palamara- era caduta su Francesco Greco, esponente di Magistratura democratica come gli altri candidati (a Milano finora è sempre andata così) ma soprattutto ex componente di quel gruppo che si arrogò il diritto di definirsi di Mani Pulite. Non è un caso che il leader dei giovani di procura che hanno steso il documento che, difendendo Storari, colpisce al cuore l’asse Salvi-Greco, si chiami Alberto Nobili e che sia, a quanto pare, il primo firmatario dello scritto di solidarietà al giovane pm che osò ribellarsi, pur con procedure sgrammaticate, al proprio capo. Chi ha la memoria più che lunga, addirittura lunghissima, tanto da saper andare, senza errori, fino all’indietro di trent’anni, potrà constatare che il Metodo, il Sistema, di certi procuratori, quello criticato con fermezza dal tribunale che ha assolto i vertici Eni nonostante la procura avesse esercitato pressioni di ogni tipo per arrivare alla condanna, non sono mai cambiati. Sono stati inventati allora e vengono messi in pratica ancora. Quando il procuratore Borrelli diceva come non fosse vero che loro tenevano le persone in carcere per farle confessare, ma che li scarceravano solo dopo che avevano parlato. Quando colui che allora era un semplice sostituto, Francesco Greco, al collega romano che era anche stato suo mentore Francesco Misiani che gli contestava la costante violazione della competenza territoriale, rispondeva come non fosse importante quale procura facesse le inchieste, ma “chi” potesse permettersi di farle. Cioè loro, gli alfieri con le Mani Pulite. Quel che è successo al processo Eni, e nei filoni complementari, ne è la plateale dimostrazione. Non è un caso che, proprio nei giorni scorsi, il procuratore Greco si sia rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria dalla collega e fedelissima Laura Pedio, che indagava insieme al collega Storari, su un filone parallelo rispetto al processo principale e che veniva chiamato del “falso complotto”. Anche senza entrare troppo nel merito, appare palese il fatto che la mentalità di allora si rispecchi nell’oggi: non è importante di chi è la competenza, ma “chi” è il predestinato a svolgere certe indagini. E Milano non dà le carte al procuratore di Brescia Francesco Prete, che è costretto a rivolgersi al governo. Così la procura di Milano, già all’attenzione del ministero (che ha mandato gli ispettori), del Csm (che sta ascoltando tutti, e proprio ieri Fabio Tremolada, che ha presieduto il processo Eni) e dei pubblici ministeri di Brescia (che indagano sia su Storari e Davigo per la diffusione di atti segreti, che su De Pasquale e Spadaro perché avrebbero nascosto al processo Eni importanti atti a discarico degli imputati) è decisamente sul banco degli imputati. Lo è per il metodo, e per l’arroganza. Come definire diversamente quel che è accaduto al processo Eni? Basta dare un’occhiata alle motivazioni della sentenza che ha assolto i vertici dell’azienda petrolifera per restare allibiti. Che i protagonisti dell’accusa si spendano per ottenere la condanna degli imputati è logico. Pur se si dovrebbe sempre ricordare che il pm è obbligato anche a portare in causa eventuali elementi a discarico. Se i due pm, come pare, non l’hanno fatto, nascondendo al processo una serie di prove che avrebbero dimostrato l’inattendibilità di un loro teste-accusatore, saranno sicuramente rinviati a giudizio dalla magistratura bresciana, competente a giudicare i colleghi milanesi. Ma il fatto più inquietante è un altro, anche perché ha una coda che riguarda personalmente il procuratore capo Greco e l’aggiunto Pedio. A un certo punto del dibattimento Eni, i pubblici ministeri avevano tentato di far entrare nel processo un verbale dell’avvocato Piero Amara (quello che aveva parlato della famosa “Loggia Ungheria”) in cui si metteva in dubbio l’integrità del presidente del tribunale Fabio Tremolada, definito come uno “avvicinabile”. Un tipo di testimonianza, soprattutto se resa da un personaggio discutibile come Amara, che in genere dovrebbe prendere la strada del cestino e essere trattato come carta straccia. Invece no. I due pm De Pasquale e Spadaro ci hanno provato, pur non potendo ignorare che un atto di quel tipo avrebbe potuto portare il presidente all’astensione e il blocco dell’intero processo. Ma la cosa ancora più grave è il fatto che il procuratore Francesco Greco e la fidata Laura Pedio inviarono quel pezzo di carta straccia alla procura di Brescia. A tutela del presidente Tremolada? Certamente. Quando mai ci si fanno gli sgambetti tra colleghi? Soprattutto quando un processo molto “politico” e molto mediatico sta andando male per la procura? Ora si vedrà se il Csm, se questo Csm che non ha avuto la forza di dare veri segnali di cambiamento dopo il “caso Palamara”, tenterà o meno di chiudere tutta la faccenda usando il pm Paolo Storari come capro espiatorio, come del resto ha chiesto il pg Giovanni Salvi, cacciandolo da Milano. Sarebbe un passo indietro, inaccettabile per la valanga delle firme che chiede il contrario. Ma se il procuratore della Cassazione, che forse ha a sua volta il problema di qualche cena di troppo e di qualche dichiarazione assolutoria nei confronti dei colleghi che si fanno raccomandare per fare carriera (ma non si chiama “traffico di influenze” se lo fa un politico?) da farsi perdonare, venisse sconfessato, dovrebbe dimettersi. E forse sarebbe ora di una svolta che rompesse anche la tradizione milanese quando a novembre Francesco Greco andrà in pensione.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il pizzino dell'ex procuratore. Bruti Liberati nei guai, chiese l’autoesilio di Storari. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Giocare d’anticipo ed evitare così i provvedimenti disciplinari del Consiglio superiore della magistratura. Il modus operandi è sempre lo stesso. Immutabile da anni. E se il magistrato non dovesse procedere in autonomia, c’è comunque qualcuno pronto a ricordargli di farlo in maniera “spintanea”. Stiamo parlando, ovviamente, del trasferimento “in prevenzione”. Una sorta di salvacondotto togato. In concreto, quando ad un magistrato viene aperta o sta per essere aperta una pratica di trasferimento per “incompatibilità ambientale”, per uscire in maniera indolore è sufficiente che presenti la domanda di trasferimento, appunto “in prevenzione”, e tutti i problemi vengono risolti in un lampo. Il trasferimento “in prevenzione” è tornato di attualità per la vicenda del pm milanese Paolo Storari che, con il suo comportamento, avrebbe creato, secondo il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, “discredito” nei confronti del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio. In particolare, consegnando i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara sulla loggia segreta Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Come raccontato ieri dal Corriere, il procuratore aggiunto di Milano e capo dell’antiterrorismo Alberto Nobili, sentito in audizione segretata dalla prima commissione del Csm questa settimana sull’accaduto, avrebbe riferito di essere stato contattato lo scorso 30 aprile da Edmondo Bruti Liberati. L’ex procuratore avrebbe detto a Nobili se non fosse il caso che Storari lasciasse Milano per altri lidi. Nobili, però, avrebbe rispedito l’invito al mittente, rifiutandosi di comunicarlo a Storari. Non sappiamo poi cosa sia successo in quanto Elisabetta Chinaglia, la presidente della Prima Commissione del Csm, quella che si occupa delle “incompatibilità”, avrebbe interrotto la deposizione di Nobili. Ma perché Bruti Liberati si era rivolto a Nobili? Probabilmente perché era a conoscenza dell’ottimo rapporto fra i due magistrati. Ed infatti Nobili si è fatto promotore nei giorni scorsi di una raccolta di firme proprio a sostegno di Storari. Nobili, nel 2016, era in pole per diventare procuratore di Milano. Il solito meccanismo delle correnti gli aveva però favorito Francesco Greco, nonostante in quel momento fosse il magistrato più gradito dai pm milanesi. Con il trasferimento “in prevenzione”, come recita la disposizione, il procedimento “non può essere iniziato o proseguito”. Il trasferimento è vantaggioso per tutti. Il magistrato finito nell’occhio del ciclone, come detto, evita conseguenze di qualsiasi tipo e sull’intero ufficio cala un silenzio provvidenziale. E già: se Storari si fosse tolto dall’impiccio il Csm avrebbe evitato di dover capire cosa fosse successo nella gestione delle testimonianze di Amara. Pare, infatti, che questi interrogatori siano finiti un fascicolo assegnato alla dottoressa Pedia che risulterebbe aperto da quasi cinque anni. Un periodo totalmente fuori da qualsiasi tempistica prevista dalle norme. Storari, invece, ha tenuto il punto e domani si presenterà davanti alla sezione disciplinare del Csm i cui componenti hanno quasi tutti deciso di astenersi. L’ex pm di Mani pulite, dopo aver avuto i verbali di Amara da Storari, aveva deciso a sua volta di farli vedere a diversi componenti della disciplinare del Csm, fra cui David Ermini, Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra e Fulvio Gigliotti. A non astenersi, invece, Salvi, anch’egli, secondo il racconto che fece Davigo, a conoscenza di questi verbali. Quanto sta accadendo a Storari ricorda molto da vicino quello che capitò ad Alfredo Robledo. L’allora aggiunto di Milano si scontrò in maniera violentissima con il suo capo, quel Bruti Liberati che ha contattato Nobili, uscendone poi a pezzi, travolto da disciplinari assortiti. Il motivo? Sempre le modalità di gestione di procedimenti penali. Nulla di nuovo, insomma. Paolo Comi

Giustizia, il meccanismo perverso della magistratura italiana: "Colpire un pm per educarne cento".  Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano il 26 luglio 2021. Oramai, specie nelle vicende riguardanti la magistratura, la realtà supera la fantasia. Se uno di quegli scrittori che si sono specializzati nei noir del tipo di "romanzo criminale" in cui si combinano insieme sparatorie, delitti, magistrati, investigatori, killer avesse messo insieme una storia nella quale un pubblico ministero riceve la deposizione di una strana figura di avvocato che gli parla di una loggia segreta nella quale ci sarebbe di tutto (magistrati, avvocati, imprenditori, politici) e che ha costruito fior di carriere di magistrati e manipolato anche processi e questo sostituto procuratore siccome ha trovato nel suo procuratore capo un muro di gomma che di fatto ha bloccato o messo a dormire ogni indagine, si rivolge a un "grande vecchio del Csm" per suonare l'allarme, per cui il procuratore generale della Cassazione Salvi mette sotto accusa proprio questo pm, ne ordina il trasferimento e lo cancella dalle sue funzioni e non persegue i pm che volevano utilizzare i verbali dell'avvocato non per far luce sulla loggia, bensì per infangare e delegittimare i giudici di un processo che non erano sufficientemente appiattiti sulla accusa, e quei pm adesso sono indagati per avere nascosto le prove favorevoli agli imputati, i critici letterari e anche molti lettori avrebbero detto che quel giallista ha esagerato in complottismo e in costruzioni fantastiche. Perche solo in una repubblica delle banane possono avvenire cose di questo tipo ma certamente non in Italia. Ebbene invece tutti i fatti citati hanno nomi e cognomi. Per dirne una Storari è il pm che deve essere la vittima designata di tutto, e poi su pista ci stanno fior di magistrati come Davigo, Greco, Salvi. E che fine ha fatto l'indagine sulla loggia Hungaria, sui due avvocati provocatori cioè Amara e Armanna, che puntavano al bersaglio grosso, cioè a distruggere il gruppo dirigente dell'Eni, e che per questo hanno goduto di un occhio di riguardo da parte di pm che dai tempi del suicidio dell'ingegner Calvi, hanno solo uno scopo, cioè distruggere l'Eni? Di quella indagine non si sa più nulla. Attenzione: era ed è possibile che quello che ha detto Amara sulla loggia Hungaria sia tutta una sua invenzione. Ma chi ha fatto le indagini su di essa e sui suoi eventuali componenti? Per farlo bisognava fare avvisi di garanzia che a loro volta avrebbero giustificato intercettazioni di vario tipo compreso l'uso del trojan. Invece niente indagini, niente intercettazioni, niente trojan e avendo messo tutto in piazza gli intercettati avvertiti in grande anticipo certamente sanno da tempo quello che devono dire o non dire per telefono. Di conseguenza tutta l'indagine sulla loggia Hungaria è stata bruciata. In compenso però nel mirino è il magistrato che vedendo che le indagini proprio non si muovevano ha sollevato il problema. Insomma, un gigantesco insabbiamento com quasi tutti i giornali e i parlamentari distratti dal caso Zan. Per ciò che riguarda poi il trattamento riservato a Storari, il messaggio è preciso ed è fondato su uno slogan che risale agli anni Settanta: «Colpiscine uno per educarne cento». Così in futuro i sostituiti procuratori, debitamente educati si guarderanno bene dal contestare il loro capo che insabbia: anzi, sulla base delle indicazioni esplicite e implicite formulate dal procuratore Salvi gli andranno a baciare la pantofola.

Caso Eni, salgono a 150 le firme dei magistrati a sostegno del pm Paolo Storari. La Repubblica il 26 luglio 2021. L'iniziativa promossa dal capo dell'Antiterrorismo Alberto Nobili sottoscritta da gran parte delle toghe della procura, ma anche dai gip e da magistrati di altre sezioni. Il Csm intanto ascolta il presidente del tribunale milanese e il giudice che ha guidato il processo Eni-Nigeria. Stanno aumentando col passare delle ore, e sfiorano già la cifra di 150, le firme delle toghe milanesi al documento di solidarietà e stima nei confronti del pm Paolo Storari, nei cui confronti il pg della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza e il cambio di funzioni per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Oltre a 57 pm, sui 64 in totale dell'organico della procura, hanno già firmato pure 28 gip e molti giudici di diverse sezioni penali, tra cui la quinta, la sesta, la nona e la prima (firme destinate a crescere e a coinvolgere anche altre sezioni). Stanno aderendo, poi, anche i magistrati della Sezione autonoma misure di prevenzione, con la quale il pm Storari ha lavorato molto in questi ultimi anni portando in aula anche richieste di commissariamento di società importanti, poi accolte. Per ragioni di opportunità l'appello non è stato firmato da alcuni vertici degli uffici giudiziari, pur condividendo il sostegno a Storari. La vicepresidente dei gip milanesi Ezia Maccora, invece, a quanto si è saputo, ha inviato un messaggio ai colleghi nel quale, in sostanza, spiega che lei ritiene più corretto rispettare che il procedimento disciplinare arrivi a conclusione per salvaguardare l'imparzialità della giurisdizione. Adesioni sono arrivate, intanto, anche da altri uffici del distretto della Corte di Appello, come l'intera procura di Busto Arsizio (Varese). Va considerato che sono circa 300 i magistrati a Milano e va tenuto conto che nel civile, settore tra l'altro non coinvolto dalle vicende, è già scattata la sezione feriale. Nella lettera, promossa da Aberto Nobili a capo del dipartimento antiterrorismo e storico pm milanese e che dovrebbe essere inviata al Csm, i firmatari sottolineano che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell'esercizio delle sue funzioni". Oggi, intanto, nell'ambito dell'indagine ad ampio raggio aperta dalla prima commissione del Csm vengono ascoltati il presidente del Tribunale Roberto Bichi e Marco Tremolada, il giudice che ha presieduto il collegio Eni Nigeria, e alcuni ex pm del dipartimento affari internazionali dell'aggiunto Fabio De Pasquale, indagato a Brescia per rifiuto di atti d'ufficio assieme al collega Sergio Spadaro, con lui titolare dell'inchiesta Eni-Nigeria. Mentre Storari è accusato di rivelazione di segreto d'ufficio con l'ex membro del Csm Piercamillo Davigo. Tra i temi caldi dello scontro tra pm milanesi, ma anche tra uffici requirenti e giudicanti, c'è il fatto che in pieno dibattimento sul caso nigeriano i vertici della Procura milanese, ossia il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio, consegnarono alla magistratura di Brescia (che poi archiviò il fascicolo) una decina di righe di un verbale in cui Amara gettava ombre sul presidente del collegio Marco Tremolada. E i pm De Pasquale e Spadaro tentarono di far entrare Amara come teste nel processo, senza che il collegio sapesse nulla di quelle dichiarazioni.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 29 luglio 2021. La creazione del dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali è un progetto fortemente voluto dal capo della Procura di Milano Francesco Greco, ha preso forma nel 2017 ed è stato affidato all'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del caso Eni-Nigeria. Ma sull'attività dell'ufficio si sono addensate rapidamente le nubi del malumore degli altri pm e si è insinuata l'idea che sia stato creato su misura proprio per l'inchiesta sulla presunta tangente da 1,1 miliardi pagata dalla multinazionale e finita con l'assoluzione di tutti gli imputati. Già a marzo 2020 ventisette pm hanno redatto un documento molto critico sulle «lacune» del Progetto organizzativo 2017-2019 della Procura, evidenziando come il terzo dipartimento «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni (di che affari si tratta), del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool.  Il Progetto organizzativo rimarca che, «in poco meno di due anni, il dipartimento ha investigato numerosi casi di corruzione internazionale, fiscalità e riciclaggio transnazionale. Alcuni di questi casi sono pervenuti a dibattimento e vi sono stati sequestri e pronunce giudiziali. Sono state complessivamente trattate 2.117 pratiche e ne sono state definite, allo stato, 1.514». Nel documento denuncia dei pm - dal quale già trapelano le tensioni in Procura poi esplose con i contrasti tra Greco e gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, da un lato, e il pubblico ministero Paolo Storari dall'altro - i 27 magistrati firmatari evidenziavano le «due lacune fondamentali del Progetto organizzativo».  Ossia quelle sulla «indicazione e, poi, l'analisi particolareggiata dei flussi» dell'attività d'indagine, un «difetto» che «impedisce alla radice di apprezzare gli aspetti riguardanti la congruità (e la tipologia) delle forze umane e materiali destinate a fronteggiare i singoli fenomeni» di criminalità. «Non si rinviene un'analisi della realtà criminale nel territorio di competenza», si legge nel documento, che rileva inoltre come «non sono stati specificamente individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale che l'ufficio intende perseguire, né gli obiettivi che l'ufficio è o non è riuscito a conseguire nel precedente periodo». Attenzione particolare viene dedicata proprio al terzo dipartimento per verificarne la «necessità», anche in relazione al rapporto con gli altri uffici della Procura «in grave sofferenza» dal punto di vista dei fascicoli da trattare e dell'organico dei magistrati. I numeri forniti, si legge nel documento, sono relativi solo al 2019 e non al triennio, dunque non farebbero chiarezza sull'attività del pool che ha a disposizione sei pubblici ministeri, di cui un aggiunto, e altri tre magistrati fuori quota. Dallo scritto emerge che il 3 marzo 2020 i ventisette magistrati della Procura milanese che hanno manifestato critiche sul progetto organizzativo lamentano una carenza di dati statistici dettagliati relativi allo stato delle pendenze e ai flussi di lavoro ritenuti essenziali per elaborare strategie di contrasto alla criminalità, per una razionale distribuzione delle risorse umane e la priorità nella trattazione dei procedimenti. Ma è soprattutto la sproporzione delle forze a creare nervosismo: viene ritenuta eccessiva l'assegnazione dei magistrati al dipartimento reati economici transnazionali rispetto a quelli che si occupano di reati gravi. La questione sarà affrontata dalla settima commissione del Csm, che dovrà gestire anche un'altra criticità. La Procura milanese, unico ufficio del distretto della Corte d'Appello, non ha inviato al consiglio giudiziario - l'organismo territoriale di autogoverno delle toghe - per il parere e la trasmissione al Csm, il nuovo piano organizzativo con cui si indicano gli obiettivi di «repressione» dei reati, la «produttività» che si vuole raggiungere e il bilancio dei risultati dell'attività di indagine degli anni precedenti. Inoltre non ha nemmeno depositato il decreto di conferma del piano organizzativo precedente. Lo ha segnalato nei giorni scorsi, con un verbale, lo stesso consiglio giudiziario al Csm.

DAGONEWS il 29 luglio 2021. Lo psicodramma in corso alla Procura di Milano, con la maggioranza dei pm schierati a difesa di Paolo Storari (per il quale il Pg della Cassazione, Salvi, ha chiesto il trasferimento) è soprattutto una rivolta contro il "Sistema Greco". Una gestione cauta della Procura, che ha sfilato il coltello tra i denti ai pm. Un "controllare, troncare e sopire" finalizzato a una giustizia senza strepiti o crociate moralizzatrici. Dopo lo scandalo dei verbali di Amara consegnati dal pm Paolo Storari all'ex consigliere del Csm Davigo, a causa del sospetto che la Procura volesse insabbiare le indagini, e il bailamme interno che ne è conseguito (annesso scazzo tra la vice di Greco, Laura Pedio, e lo stesso Storari), Francesco Greco avrebbe dovuto dimettersi, ammettendo implicitamente la fine di un'epoca nel palazzo di Giustizia di Milano. Se le dimissioni non sono mai state presentate è anche perché il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha marcato stretto Greco (che a ottobre andrà in pensione) evitando che la Procura più importante d'Italia precipitasse nel caos.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 29 luglio 2021. Lo spettacolo del Termidoro della Procura di Milano ha in sé qualcosa di malinconico, drammatico, e insieme profetico. Dice molto di ciò che è stato e non potrà più essere. E di quanto appaia improvvisamente secolare quell'immagine del pool di Mani pulite che almeno tre generazioni di italiani conservano impressa nella retina e con cui hanno continuato ad associare un luogo a chi lo abita. Certifica le convulsioni, lo smarrimento, le pulsioni autofaghe di un ordine giudiziario che si scopre improvvisamente analfabeta di un tempo nuovo di cui ha perso il filo. E che il caso Palamara, i suoi esiti, hanno incattivito, gonfiato di sospetto e rancori. Armando le Procure l'una contro l'altra, in un reciproco controllo di legalità dove, venuto meno l'argine del vecchio consociativismo tra correnti, il fair play non ha più diritto di cittadinanza. Dove cane morde cane. In un redde rationem che non ammette prigionieri. A cominciare dal processo intentato allo straniante capro espiatorio battezzato in questa ennesima velenosissima estate. Francesco Greco, oggi settantenne Procuratore prossimo al congedo, che fu il più giovane, scanzonato, e irregolare dei pubblici ministeri che scrissero la storia di Mani pulite. Il romano cresciuto nel quartiere "Delle Vittorie", ma milanese di adozione e nel midollo, per il quale Francesco Saverio Borrelli stravedeva. Con più di qualche ragione. Perché, in qualche modo, se la foto simbolo di quella stagione della storia d'Italia e della magistratura italiana è sopravvissuta nel tempo, è proprio perché, nel 2016, assumendo l'incarico di Procuratore, Greco ha provato a non farne una reliquia. Figlio di Magistratura democratica, di una cultura della giustizia e del diritto penale mite, Greco, cinque anni fa, immagina una terza via che sottragga la Procura di Milano e con lei quella parte della magistratura che a quell'ufficio guarda come il suo laboratorio più avanzato, all'alternativa del diavolo tra un ritorno nei ranghi di un controllo di legalità a bassa intensità che, per dirla con Luciano Violante, la vede accucciata sotto il trono e il "Resistere, resistere, resistere" come manifesto di un "contro-potere" che si candida ad avanguardia di un capovolgimento o comunque di una modifica degli equilibri di sistema. Greco immagina e costruisce una Procura che vigila sui poteri, ne indaga le devianze, ma non li indirizza. Facendosi carico, se necessario, delle compatibilità. Che squarcia il velo dell'ipocrisia dell'effettiva obbligatorietà dell'azione penale (che nessun ufficio giudiziario è in grado di assicurare con i criteri dell'automaticità) dichiarandone al contrario l'agenda e le priorità. E che ne misura l'efficacia dal risultato che è in grado di portare a casa. Greco detesta i "processi al Sistema" e immagina una frontiera di aggressione all'illegalità che privilegia i reati della sfera finanziaria, fiscale, del lavoro, anche in ragione della loro capacità di muoversi in uno spazio "transnazionale". Un modello in cui il patteggiamento non è una sconfitta, ma un principio di economicità. Che, per dire, costringe nel tempo Apple, Google, Facebook Italia, Amazon a concordare un versamento di 824 milioni di imposte evase all'Erario. Per non dire del gruppo Kering, polo del lusso proprietario tra gli altri del marchio Gucci, alla più alta conciliazione fiscale della storia repubblicana: 1 miliardo e 250 milioni di euro. Francesco Greco, tuttavia, sottovaluta uno degli insegnamenti di Francesco Saverio Borrelli che, negli anni di Mani pulite, era comune ascoltare nei corridoi della Procura. Far sentire ogni singolo magistrato del suo ufficio al centro del mondo. Convincerlo che la regola egualitaria del "cantare portando la croce" non conosca eccezioni. Il governo certosino del capitale umano non è una sua dote. Ed è così che si guadagna silenziosamente nemici. Anche quelli di cui oggi, scorrendo le 56 firme in calce al documento di solidarietà a Paolo Storari, non riesce a immaginare le ragioni del "tradimento". È così che la sua squadra di procuratori aggiunti messi a capo di otto dipartimenti organizzati secondo un criterio di competenza "tematica", e a cui Greco affida assoluta autonomia nella trattazione dei fascicoli, nella gestione dei sostituti, nella scelta delle strategie processuali, comincia lentamente ad essere percepita dalla pancia della Procura come una corona di "ottimati" da cui guardarsi e a cui guardare con diffidenza (o addirittura sospetto, come accadrà con Paolo Storari, al punto da guadagnarsi il non certo lusinghiero appellativo di "cerchio magico"). È così che sottovaluta le insidie che la gestione del caso Amara è in grado di produrre non solo a Milano, ma a Roma, in un Csm balcanizzato dove persino il canto del cigno di un altro figlio di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è una coltellata. È così che viene chiamato a rendere politicamente conto di una sconfitta processuale catastrofica - il processo Eni - e delle scelte istruttorie del suo aggiunto Fabio De Pasquale (oggi per questo indagato a Brescia e sottoposto all'azione disciplinare). È così che viene abbandonato dal consiglio giudiziario prima, dal Csm, poi. Già, perché in una némesi che lo vuole condannato perché ex Robespierre invecchiato da riformista, la ghigliottina alzata per Greco sulla scalinata del palazzo di Giustizia a pochi mesi dalla sua pensione vede le due anime della magistratura italiana (quella accucciata sotto il trono e quella rimasta orfana della foto del Pool e della sua letteralità) convergere. Con un risultato. L'arrivo a Milano, dopo trent' anni, di un Papa straniero. La cui scelta, da domani (giorno in cui scadrà il termine della presentazione delle domande per Procuratore Capo), sarà affare di un Conclave mai così carico di pessimi presagi.

Milano nel caos, 150 toghe si schierano con Storari: «Il pg Salvi ci ripensi». Caso Eni-Nigeria e Loggia Ungheria, alla procura di Milano il clima è avvelenato. Simona Musco su Il Dubbio il 27 luglio 2021. Mentre centinaia di magistrati italiani si mobilitano per difendere Paolo Storari, il pm per il quale il procuratore generale Giovanni Salvi ha chiesto il trasferimento immediato da Milano in via cautelare senza che possa più esercitare le funzioni di pubblico ministero nemmeno nella nuova sede, al Csm sono iniziate le audizioni dei magistrati meneghini nell’ambito della indagine aperta per capire se si sono determinate situazioni di incompatibilità negli uffici giudiziari milanesi, a partire caso Eni. Un caso spinoso che vede da un lato Storari indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio, per aver consegnato a Piercamillo Davigo – all’epoca consigliere al Csm e anche lui indagato – i verbali secretati di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, denunciando l’immobilismo della procura sulla mancata iscrizione dei primi indagati in merito alle rivelazioni sull’esistenza di una presunta loggia denominata “Ungheria” e, dall’altro, l’aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio, in merito alla gestione delle prove legate al processo Eni e connesse anche alle indagini di Storari sul falso complotto. Davanti ai sei componenti della Commissione presieduta dalla togata Elisabetta Chinaglia sono comparsi il presidente del Tribunale Roberto Bichi, il giudice Marco Tremolada, che ha presieduto il collegio Eni Nigeria e ha fortemente criticato l’operato di De Pasquale e Spadaro in sentenza, e alcuni pm, mentre oggi verranno sentiti altri magistrati. Tra i pm convocati tra ieri e oggi, in presenza o in modalità telematica, ci sono gli aggiunti Tiziana Siciliano, Eugenio Fusco, Maurizio Romanelli e Letizia Mannella, come anche i sostituti Alberto Nobili, Gaetano Ruta e Francesca Crupi. Il tutto mentre si attende la “sentenza” del Csm su Storari, prevista il 30 luglio, quando la Sezione disciplinare del Csm, in camera di consiglio, si esprimerà sulla richiesta di Salvi. Un clima avvelenato sul quale incombe anche l’appello di centinaia di toghe a favore di Storari. Sono quasi 150 i colleghi della procura e degli uffici giudicanti ad aver sottoscritto il documento di solidarietà. «Avendo appreso che è stato chiesto al Csm il trasferimento d’urgenza del collega Paolo Storari “per serenità di tutti i magistrati del distretto” – si legge in una nota circolata tra le toghe -, i sottoscritti magistrati, rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell’esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano». Il documento è stato firmato, al momento in cui scriviamo, da 59 magistrati su 64, tra cui il capo del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, mentre tra i gip sono 24, su 32, coloro che hanno aderito. I pm milanesi si dicono però turbati «dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte», motivo per cui «sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». Ma la vicenda è “uscita” dal tribunale di Milano, per arrivare prima agli altri uffici del distretto della Corte d’Appello e poi anche nelle altre sedi d’Italia. «Ci associamo all’auspicio di chiarezza, celerità e serenità nell’accertamento dei fatti, nel rispetto del diritto al pieno contraddittorio dei soggetti coinvolti nella vicenda specifica – si legge nella dichiarazione sottoscritta da alcuni consiglieri di Corte di appello, giudici e pm di ruolo a Napoli, Salerno e Bologna, Roma Taranto, Latina, Verona e Udine – e alla parità d’iniziativa e di trattamento in fattispecie identiche, nell’interesse alla tutela delle prerogative di tutti i colleghi interessati, e alla certezza e trasparenza delle procedure disciplinari dell’intera magistratura italiana». A mancare all’appello sono i vertici della procura, ovvero proprio coloro ai quali Storari ha contestato una certa inerzia e, dunque, il procuratore capo Francesco Greco, l’aggiunta Laura Pedio ( con la quale condivideva il fascicolo sul falso complotto), De Pasquale e Spadaro, che avrebbero ignorato le segnalazioni del collega in merito alla credibilità di Vincenzo Armanna, grande accusatore del processo Eni- Nigeria bollato dai giudici come inquinatore di pozzi. Ma che effetto avrà la raccolta firme sul Csm? Un dato, stando al documento, è certo: la presenza di Storari non sembra disturbare nessuno. Mentre nessun giudizio viene espresso nei confronti di Greco e dei suoi collaboratori più stretti, anche se le divisioni interne alla procura, negli ultimi mesi, erano ormai diventate palesi. Intanto a schierarsi sono anche le toghe di Articolo 101 del direttivo dell’Anm, che in una nota puntano il dito contro Salvi, parlando di iniziativa «intempestiva, spropositata, ingiusta e, in definitiva, incredibile», scrivono Andrea Reale, Ida Moretti e Giuliano Castiglia. «La generale solidarietà, pacata ma sentitissima, che in queste ore giunge al dottor Storari – hanno sottolineato – evidenzia con nettezza che il caso è tutt’altro che liquidabile con un provvedimento cautelare a senso unico». Al di là del giudizio di merito, «non possiamo che rilanciare l’invito al procuratore generale Salvi a fare un passo indietro, a tutela dell’Istituzione che rappresenta e della credibilità della magistratura tutta». 

(ANSA il 25 luglio 2021) Sono 45 i pm milanesi che hanno finora firmato una lettera in cui si afferma che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega" Paolo Storari, "nell'esercizio delle sue funzioni presso la Procura della Repubblica di Milano. Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza". E' un passaggio del testo che sta circolando tra i pubblici ministeri dopo aver saputo della richiesta del pg della Cassazione di trasferimento per incompatibilità ambientale del pm Storari per il casi dei verbali di Amara. L'iniziativa della lettera a favore di Storari, al momento sottoscritta da quasi 2/3 dei pubblici ministeri in servizio alla procura di Milano, è stata promossa da Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese e uno dei magistrati che ha fatto la storia d'Italia, e da altri tre aggiunti. "Avendo appreso da fonti giornalistiche - questo è il testo integrale - che è stato chiesto al Csm il trasferimento d'urgenza del collega Paolo Storari, anche 'per la serenità di tutti i magistrati del distretto', i sottoscritti magistrati rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell'esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano. Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggiano sull'accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità dei colleghi coinvolti". Infatti il 'pacchetto' delle indagini su Eni, in cui si inserisce il caso Amara e lo scontro tra Storari e il Procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio, riguarda anche la gestione di Vincenzo Armanna e le sue dichiarazioni accusatorie nel processo Nigeria (in primo grado gli imputati sono stati tutti assolti) da parte dell'aggiunto Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro. Su queste vicende, sono stati avviate indagini ministeriale e del Csm (domani cominciano le audizioni) e anche la Procura di Brescia ha aperto una inchiesta e ha indagato da un lato Storari e l'ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto di ufficio, mentre dall'altro ha iscritto De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti d'ufficio.

La grande anomalia della giustizia italiana. Marco Gervasoni il 26/7/2021 su Il Giornale. Il fatto non ha precedenti. La magistratura vive una così profondissima spaccatura, che ben cento magistrati si sono espressi contro la rimozione del Pm Storari dalla Procura di Milano. Il fatto non ha precedenti. La magistratura vive una così profondissima spaccatura, che ben cento magistrati si sono espressi contro la rimozione del Pm Storari dalla Procura di Milano: essi si dicono «turbati» e chiedono «chiarezza» e «accertamento completo dei fatti». Parole pesanti, che certificano una spaccatura della Procura mai vista. Ma se i magistrati sono arrivati a questo livello di guerra civile interna alla corporazione, c'è da chiedersi come si condurranno nei confronti dei politici. E ne abbiamo un esempio: da ministro Salvini fu falcidiato dalle indagini dei pm ma ora, dai 49 milioni di finanziamento fino alla recente indagine sui voli di Stato, tutte sono state archiviate o stanno per esserlo. Salvini, per la sua persona, per le sue proposte, per il ruolo che occupava (il ministero dell'Interno è il più politico di ogni esecutivo) rischiava di essere una minaccia per un intreccio di consorterie e di interessi più o meno coperti. Doveva saltare. E in Italia il modo migliore per eliminare un avversario politico resta la via giudiziaria: basta ancora solo un avviso di garanzia. A sua volta questa crisi è figlia della degenerazione di una giustizia interventista, pronta a determinare la vita politica del Paese. E, statene certi, quello che è successo a Salvini non sarà nulla rispetto allo stillicidio che subiranno i ministri di un futuro governo di centrodestra: Meloni o Salvini a Palazzo Chigi sono un incubo per molti, a cominciare dai pasdaran della giustizia politicizzata. Per evitare che vada a finire così, con delegittimazione del politico di turno sbattuto in prima pagina dalla stampa amica delle procure, occorre quindi una riforma della magistratura assai più incisiva di quella Cartabia. Bisognerà premere affinché i referendum sulla giustizia fungano da spallata. Anche i quesiti che non sono stati sostenuti da tutto il centrodestra. A cominciare da quello sulla abolizione della legge Severino. È giusto preoccuparsi per la corruzione (che esiste) ma la Severino fornisce a ogni pm lo strumento per tagliare le ali a chiunque, poco importa se poi sarà innocente. Quanto al quesito carcerazione preventiva, la sua abolizione totale ci preoccupa perché se ne avvantaggerebbero criminalità comune, spacciatori, stupratori. È frutto più della cultura radicale che di quella conservatrice. Però bisogna riformare questo istituto perché funge da strumento improprio per estorcere testimonianze, spesso false. Legge e ordine sì, ma con una magistratura «normale», che in Italia ancora non c'è.

"Ora basta coi magistrati che giudicano se stessi: il tetto vi cadrà addosso". Luca Fazzo il 26 Luglio 2021 su Il Giornale. Il costituzionalista avverte: "Va tolta al Csm la funzione disciplinare, serve un organo terzo". Alla fine, a decidere sul putiferio in corso nel palazzo di giustizia di Milano sarà il Consiglio superiore della magistratura: giudici che giudicano se stessi, una sezione disciplinare dove spesso sembrano contare più le appartenenze di correnti che i torti e le ragioni. Ma è venuto il momento di togliere al Csm la funzione disciplinare: sarebbe una svolta epocale, e a proporla è Sabino Cassese, uno dei più importanti costituzionalisti italiani. Che intanto avverte i Procuratori: attenzione, il tetto vi sta per crollare sulla testa.

Professore, a Milano più di metà di una procura insorge in difesa di un pm di cui il capo della stessa Procura ha chiesto l'allontanamento. È un caso senza precedenti. Fin dove si possono spingere i poteri del capo di un ufficio inquirente? I pm non sono liberi per legge?

«L'articolo 107 della Costituzione dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Questo vuol dire che le garanzie del pubblico ministero non sono direttamente stabilite dalla Costituzione ma vengono stabilite dalla legge. In secondo luogo, le garanzie di indipendenza necessarie per gli organi giudicanti non sono simili a quelle necessarie per gli organi dell'accusa, le cui decisioni sono comunque sottoposte al giudizio della magistratura giudicante. Le implicazioni di queste due premesse mi paiono chiare».

Storari ha consegnato i verbali di Amara a Davigo sostenendo che di fatto gli veniva impedito di indagare. Ma in base alla Costituzione l'azione penale non sarebbe obbligatoria?

«Non conosco gli atti e ho una conoscenza sommaria dei fatti, come noti attraverso la stampa. I verbali erano atti riservati della procura e non dovevano circolare.

A giudicare Storari, di cui il pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento cautelare da Milano e dalle funzioni, sarà lo stesso Consiglio superiore della magistratura di cui fanno parte consiglieri il cui nome compare negli stessi verbali di Amara. Come si esce da questo cortocircuito?

«In casi di questo tipo, i principi del diritto richiedono un obbligo di astensione di tutte le persone che abbiano conflitti di interessi».

Non sarebbe il momento di portare la funzione disciplinare fuori dal Consiglio della magistratura, in modo da impedire che a giudicare siano a volte i colleghi di corrente degli accusati?

«La funzione disciplinare dovrebbe essere comunque rimessa ad un organismo terzo, per assicurare indipendenza e imparzialità non solo rispetto al poter esecutivo, ma anche nei confronti del corpo della magistratura. Al di là di ciascuno dei singoli passaggi di questa vicenda, due considerazioni generali vanno fatte. La prima è che la declinazione dell'indipendenza in termini di autogoverno è stata errata fin dall'inizio (e duole dire che fu Lodovico Mortara a parlarne per primo, ancor prima della Costituzione). La seconda è che sarebbe consigliabile un maggior self-restraint del corpo dei procuratori, per salvaguardare l'ordine giudiziario, che altrimenti corre il rischio di vedersi precipitare il tetto addosso».

Davigo aveva il diritto di ricevere quei verbali informalmente?

«Non so se si possa parlare di un diritto di ricevere, mentre mi sembra abbastanza chiaro che vi era un obbligo di riservatezza di colui che ha consegnato».

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Storari prepara la sua difesa: al Csm depositerà tutto il carteggio con Greco. Il pm milanese rischia il trasferimento per aver consegnato i verbali di Amara a Davigo. Il Dubbio il 25 luglio 2021. Una memoria articolata in cui si difenderà spiegando le sue ragioni, con mail e altri documenti allegati, verrà depositata al Csm dal pm di Milano Paolo Storari nell’ambito del procedimento disciplinare. Il pubblico ministero il 30 luglio, nell’udienza in cui si discuterà sulla richiesta del pg della Cassazione del suo trasferimento d’urgenza dagli uffici milanesi e del cambio di funzioni, ricostruirà nel dettaglio, rispondendo alle “accuse”, quando già denunciato alla Procura di Brescia in merito ai verbali sulla loggia Ungheria dell’avvocato Piero Amara e alla gestione nel processo Eni-Nigeria dell’imputato Vincenzo Armanna. Le contestazioni del pg riguardano l’aver divulgato i verbali di Amara , «atti coperti da segreto e comunque riservati», consegnandoli all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo per autotutelarsi dall’inerzia dei vertici della Procura . Denuncia quest’ultima ritenuta un «comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio», da lui accusati nei colloqui con Davigo di non procedere con le iscrizioni omettendo «di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione» di Amara, e in generale «per aver omesso qualsiasi formalizzazione di dissenso circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre per il pg, Storari doveva astenersi dal prendere parte all’indagine sulla divulgazione ad alcuni quotidiani di quei verbali. Indagine trasferita a Roma dopo che è stato accertato che era stata la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, a recapitarli ai giornalisti. A queste accuse il pm Storari, che davanti al Csm non si farà difendere da alcun magistrato ma dal suo legale, Paolo Della Sala, replicherà punto per punto. In queste ore sta lavorando, assieme all’avvocato, a una memoria in cui capitolo per capitolo e con il supporto delle carte allegate, spiegherà i suoi motivi: produrrà, per esempio, le e-mail inviate a Greco e Pedio per chiedere di indagare e alle quali mai sarebbe stata data risposta e anche quella in cui a maggio, sempre dell’anno scorso, ha trasmesso ai suoi superiori una scheda per procedere alle iscrizioni, ricevendo in cambio una critica: il suo gesto sarebbe stato definito «gravissimo». Inoltre, Storari è intenzionato a raccontare la gestione da parte dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro dell’ex manager di Eni Vincenzo Armanna nel processo con al centro la vicenda nigeriana nel quale in primo grado sono stati assolti tutti gli imputati e che ha creato una frattura, se non uno scontro, tra i due titolari dell’accusa e il Tribunale. Insomma Storari ribadirà quanto ha già raccontato al procuratore di Brescia Francesco Prete, che ha indagato lui e Davigo per rivelazione del segreto di ufficio ma anche De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti di ufficio. «Sono senza parole. Ti conosco come un ottimo pm e la stima che tu hai fra di noi penso debba darti l’energia per superare tutto questo». È uno di una serie di messaggi inviati oggi dai magistrati di Milano al pubblico Ministero Paolo Storari, nei cui confronti il pg della Cassazione ha chiesto al Csm il trasferimento d’urgenza per incompatibilità ambientale e il cambio di funzioni per il caso dei verbali di Amara. L’azione disciplinare è stata definita da un’altra toga «profondamente ingiusta e viziata» anche perché «sei tra i migliori pm» che lavorano al Palazzo di Giustizia milanese.

Caso verbali, i magistrati milanesi si schierano con Storari. Il Dubbio il 25 luglio 2021. Una settantina di magistrati hanno firmato un documento di solidarietà al pm milanese che rischia il trasferimento per aver consegnato i verbali di Amara a Davigo. All'iniziativa non ha aderito il capo della procura, Francesco Greco. Una settantina di magistrati di Milano, tra Pm e Gip, hanno firmato un documento di solidarietà al Pm del caso Amara, Paolo Storari, per il quale la procura generale della Cassazione ha chiesto nei giorni scorsi il trasferimento alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura. Sono una ventina di Gip e una cinquantina di pubblici ministeri, le toghe che hanno aderito all’iniziativa promossa da 5 procuratori aggiunti, tra cui Alberto Nobili. Non ha aderito invece il capo della procura, Francesco Greco. «Avendo appreso da fonti giornalistiche che è stato chiesto al CSM il trasferimento d’urgenza del collega Paolo Storari, anche per la serenità di tutti i magistrati del distretto, – si legge nel testo della petizione – i sottoscritti magistrati rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell’esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano». «Siamo turbati – si legge ancora – dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». A chiedere di cacciare dalla procura milanese Storari sarebbe stato il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. E lo stesso Storari avrebbe preparato una memoria difensiva da depositare al Csm in cui spiega le sue ragioni, con mail e altri documenti allegati. Storari nell’aprile 2020, per tutelarsi dalle inattività che i vertici della Procura praticavano a suo avviso da 4 mesi sulle controverse dichiarazioni di Piero Amara su un’asserita associazione segreta denominata “Ungheria”, avrebbe consegnato in formato word i verbali segretati all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo. Tre «le gravi scorrettezze» che Salvi contesta a Storari sul piano disciplinare (separato dal penale nel quale Storari è indagato a Brescia per rivelazione di segreto). La prima è «l’informale e irrituale» consegna da Storari a Davigo di copie non firmate di verbali «su una supposta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte anche due consiglieri Csm»; la seconda nasce dalla relazione del 7 maggio del procuratore milanese Francesco Greco, assunta da Salvi per accreditare che, sino alla consegna dei verbali a Davigo, Storari non avesse «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine»; la terza contestazione è che, dopo che nell’ottobre 2020 il giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari avvisò i pm d’aver ricevuto anonimi verbali di Amara, Storari non si astenne dall’indagine sulla fuga di notizie. La vicenda ha anche portato all’iscrizione dello staesso Davigo nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d’ufficio.

“Turbati da situazione, non da sua presenza”. Caso Amara, la procura di Milano più divisa: in 45 si svegliano pro Storari. Frank Cimini su Il Riformista il 25 Luglio 2021. “Scetet Catari’ ca l’aria è doce”(svegliati Caterina che l’aria è dolce, traduzione per chi non conosce il norvegese). E in effetti 45 pubblici ministeri più di due terzi del totale, si sono svegliati emettendo un comunicato per dire di non essere turbati dalla presenza tra loro di Paolo Storari, per il quale il Pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento in relazione alla consegna a Piercamillo Davigo allora al Csm dei verbali di Piero Amara. I 45 magistrati chiedono “chiarezza” in relazione allo scontro che vede protagonisti da una parte il procuratore Francesco Greco con l’aggiunto Laura Pedio e dall’altra appunto Storari. “Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggiano sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità dei colleghi coinvolti” sono le parole della nota firmata dai pm. Evidentemente i firmatari in questi ultimi anni hanno vissuto altrove e ci voleva la sentenza con cui i vertici Eni sono stati assolti per riportarli alla realtà. Da tempo se potessero a Milano i pm si arresterebbero tra loro. Francesco Greco è il secondo capo della procura consecutivo che si salva dal procedimento disciplinare perché va in pensione. Succederà il 14 novembre. Greco segue le orme del suo predecessore Edmondo Bruti Liberati per il quale il Csm annunciò il “disciplinare” solo dopo che lo stesso aveva dichiarato di andare in pensione in anticipo. Era stata la procura di Brescia nell’assolvere Bruti dall’accusa di abuso d’ufficio a mettere nero su bianco che c’era materia da Csm dal momento che il capo della procura aveva agito in base a criteri politici nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo in relazione al caso Expo. Ai tempi della “guerra” Bruti-Robledo solo molti mugugni e boatos con la procura che ostentò unità. Il caso Eni iniziò a scoppiare con un messaggio di Storari in una discussione interna: “Caro Francesco le cose non stanno così e lo sai benissimo, ne parleremo”. Si era all’indomani dell’assoluzione dell’Eni dopo che tra l’altro in modo azzardato la procura aveva mandato a Brescia un “veleno” di Amara sul presidente del collegio “avvicinabile” da due avvocati della difesa. Adesso a Brescia oltre a Storari per violazione del segreto d’ufficio istigato da Davigo sono indagati i pm del caso Eni De Pasquale e Spadaro per non aver depositato atti favorevoli alle difese. Greco ha rifiutato di consegnare ai pm di Brescia gli esiti di una rogatoria in Nigeria sull’Eni. È una guerra per bande all’interno della procura di Milano dove adesso a rischiare di più nell’immediato è Storari che ha temere sia il trasferimento sia di non fare più il pm. Questa almeno è la richiesta del pg della Cassazione Salvi che per arrivare a quel posto si era a un certo punto appoggiato a Palamara, quello che ora tutti fingono di non conoscere. Poi Salvi ha deciso che non possono essere sottoposti al “disciplinare” i magistrati che si autopromuovono. Insomma ha prosciolto se stesso. Storia di una categoria che si era proposta per salvare il paese vista dalla procura che fu il simbolo della grande farsa di Mani pulite. C’erano guerre interne anche allora. Di Pietro “rubo’” letteralmente un indagato a De Pasquale. Ma il capo Borrelli diede ragione a Tonino allora mediaticamente una forza della natura. E poi allora sui giornali non uscivano certi fatti se non in poche righe. Frank Cimini

(ANSA il 25 luglio 2021) Dopo i pm di Milano, anche gran parte dei magistrati dell'ufficio Gip, una ventina sui 32 in servizio, e i giudici del Tribunale di Milano come quelli della sesta sezione penale, hanno sottoscritto l'appello a favore del pm Paolo Storari, nei cui confronti il pg della cassazione ha chiesto il trasferimento per incompatibilità ambientale per il caso dei verbali di Amara. Anche loro hanno firmato l'appello promosso da Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese, e da 3 aggiunti, per rimarcare che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega" in Procura. (ANSA).

Monica Serra per “La Stampa” il 25 luglio 2021. Davanti al durissimo provvedimento richiesto dal pg di Cassazione Giovanni Salvi, il pm milanese Paolo Storari è pronto a difendersi. E, mentre prepara la memoria in vista dell'udienza fissata d'urgenza per venerdì prossimo dalla sezione disciplinare del Csm, a fargli forza, per tutta la giornata di ieri, sono state mail e messaggi di solidarietà ricevuti dai colleghi del palazzo di giustizia di Milano, e non solo. «Nello smarrimento assoluto del periodo che la Magistratura sta attraversando, ritengo che essere un tuo collega possa per me solo rappresentare, nel mio piccolo, un vero onore». E ancora: «Comunque vada, e spero bene, avrai sempre la certezza (e la avremo in tanti) che sei tra i migliori pm che il nostro ufficio abbia avuto (e, si spera, avrà)». Salvi chiede che Storari venga allontanato «per la serenità dell'ufficio», ma anche che smetta di fare il pm. «Nonostante - sottolinea il difensore Paolo Della Sala - la qualità e la quantità del suo lavoro sotto gli occhi di tutti». Storari è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d'ufficio. Per «autotutelarsi» dalla presunta inerzia della procura di Milano ha consegnato all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo (anche lui indagato) i verbali dell'ex avvocato Eni Piero Amara sulla «loggia Ungheria». Le contestazioni mosse sul piano disciplinare da Salvi, prima della conclusione delle indagini bresciane, si fondano non solo sulla scelta di «divulgare i verbali» di Amara consegnandoli a Davigo. Ma anche sul «comportamento gravemente scorretto nei confronti» dei vertici della procura a cui non avrebbe «comunicato formalmente il proprio dissenso». E sul fatto che Storari avrebbe ritardato le indagini sulla fuga di notizie, una volta che quei verbali sono arrivati ai giornali. Accuse a cui il pm è pronto a rispondere punto per punto.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 26 luglio 2021. L'organico della Procura di Milano ha in questo momento il procuratore Francesco Greco, otto vice (i procuratori aggiunti a capo dei vari pool) e 64 sostituti procuratori: e ieri appunto 56 di questi 64 pm, cioè la quasi totalità dell'ufficio, «avendo appreso da fonti giornalistiche che» dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi «è stato chiesto al Consiglio superiore della magistratura il trasferimento d'urgenza del collega Paolo Storari» con esigenze cautelari che accanto alla rilevanza mediatica non scemata annoverano anche «la serenità di tutti i magistrati del distretto», tengono a far sapere che, «esclusa ogni valutazione di merito, la nostra serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell'esercizio delle sue funzioni presso la Procura». «Turbati», invece, i pm milanesi si dicono «dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte», sicché «sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull'accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». Non si tratta dunque né di una solidarietà a scatola chiusa a Storari, indagato a Brescia con l'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo per avergli consegnato nell'aprile 2020 copie word dei verbali segretati resi sulla «loggia Ungheria» dal controverso ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e ad avviso di Storari lasciati galleggiare dai vertici della Procura per evitare che la verifica di attendibilità o inattendibilità di Amara si riverberasse negativamente sull'attendibilità di Vincenzo Armanna, nel processo Eni-Nigeria sia coimputato sia accusatore di Eni assai valorizzato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro. Né si può leggere la lettera come uno schierarsi pro o contro questi due altri colleghi, pure indagati a Brescia nell'ipotesi che non abbiano sottoposto al Tribunale del processo Eni-Nigeria taluni elementi (trovati da Storari e da lui segnalati a Greco, alla sua vice Laura Pedio e a De Pasquale) che mettevano in dubbio l'affidabilità di Armanna. E neppure la lettera dei 56 è assimilabile a una «sfiducia» a Greco e al suo gruppo dirigente, pur se da molti anni l'ufficio non assumeva più in pubblico una posizione unitaria, e pur se essa non in linea con quella prospettata al pg Salvi dalle relazioni di Greco e Pedio. I firmatari non intendono interferire con gli organi istituzionali deputati a valutare i tre rilievi disciplinari per i quali il pg Salvi chiede che venerdì il Csm mandi via Storari da Milano, e gli vieti di fare il pm anche altrove: e cioè l'aver violato le circolari Csm 1994 e 1995 nel modo scelto per far arrivare al Csm le proprie doglianze sull'asserita stasi investigativa; l'aver esposto Greco e Pedio «a una campagna di discredito» senza aver prima «mai formalizzato il proprio dissenso»; e l'aver taciuto ai colleghi (quando il 30 ottobre 2020 un giornalista del Fatto portò in Procura altri verbali di Amara ricevuti anonimi) di aver lui dato in aprile a Davigo copia di quegli stessi verbali, non astenendosi dall'indagine e oltretutto (stando alle relazioni di Pedio e Greco) «ostruendola» e «rallentandola». Preme invece ai pm firmatari (veterani come Alberto Nobili e ultimi arrivati, toghe di ogni corrente o senza corrente, pm facenti parte anche dei pool guidati da De Pasquale e Pedio) assicurare di non avere con Storari problemi di «serenità» nel lavoro, e chiedere che abbia rapida fine la cappa di incertezze e tensioni che da mesi viene lasciata gravare sull'ufficio. La cui insolita mobilitazione ha nel pomeriggio di ieri (pur domenica, pur già tra le ferie) l'effetto di mobilitare anche l'Ufficio dei giudici delle indagini preliminari, dove in breve aderiscono 26 su 32 gip; le varie sezioni dibattimentali del Tribunale, dove circa metà dei giudici si fanno avanti; e perfino uffici del distretto lombardo, dove aderiscono altre decine di toghe, tra cui l'intera Procura di Busto Arsizio.

Il caso toghe sfascia la procura di Milano. Firmano 100 giudici in difesa di Storari. L'ira del capo Greco. Luca Fazzo il 26 Luglio 2021 su Il Giornale. Scontro senza precedenti tra i magistrati meneghini che isolano il procuratore, tradito anche dai vice Targetti, Siciliano e Dolci Corsa a sostenere il collega indagato e allontanato per aver passato i verbali a Davigo. E adesso c'è la prima vittima, nella disastrosa vicenda giudiziaria scaturita dal processo Eni e dai verbali del «pentito» Pietro Amara: ed è la vittima più gloriosa di tutte, la Procura della Repubblica di Milano. Che dallo scontro innescato dalla consegna dei verbali di Amara dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo viene ieri travolta in pieno, con la ribellione di quasi cento magistrati che insorgono in difesa di Storari. A poche ore dalla decisione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di chiedere al Csm la testa di Storari - via da Milano, e mai più pubblico ministero - la raccolta di firme in difesa del collega sotto accusa, in corso da giorni nei corridoi del palazzaccio milanese, viene allo scoperto. È un documento che non entra nel merito dei verbali consegnati a Davigo, ma poco importa. La frase cruciale è una: i firmatari dicono che «la loro serenità non è turbata dalla presenza del collega». È esattamente il contrario di quello che il capo della Procura, Francesco Greco, e il pg della Cassazione sostengono: consegnando i verbali a Davigo, e continuando intanto a indagare su Amara e persino sulla fuga di notizie di cui egli stesso era l'origine, Storari avrebbe messo «a disagio» l'intero ufficio. Per questo, aveva scritto Salvi, Storari va cacciato da Milano: per la «serenità» dell'ufficio. La nostra serenità, rispondono i firmatari, non è affatto messa in discussione dalla presenza di Storari. Ed è una discesa in campo senza precedenti, una ribellione inimmaginabile ai tempi di Borrelli, un colpo devastante all'immagine di uno degli uffici giudiziari più importanti d'Italia. I segnali c'erano stati, la protesta covava nelle chat e nei corridoi. I segnali di solidarietà a Storari erano arrivati da più parti. Ma il procuratore Greco, e con lui Salvi, hanno deciso di andare avanti. Forse non pensavano che i leader del fronte pro Storari avrebbero scelto alla fine di uscire allo scoperto. Si sbagliavano. Firmano 55 pm, i due terzi del totale. E a scendere in campo non sono solo i «peones», i giovani pm della base. Nell'elenco compaiono nomi importanti. Il primo è quello di Alberto Nobili, veterano della Procura e delle inchieste sulla criminalità al nord, oggi a capo dell'antiterrorismo. Con lui, tre procuratori aggiunti, i «vice» di Greco: Ferdinando Targetti, Tiziana Siciliano e il capo dell'antimafia Alessandra Dolci. Si tratta di magistrati che hanno condiviso con Greco decenni di lavoro e rapporti di amicizia; la Siciliano e la Dolci sono state appoggiate da Greco nella domanda per i posti che oggi ricoprono. Eppure anche loro oggi si schierano contro di lui. Greco, si dice, la prende malissimo. Adesso il procuratore è un uomo solo, con accanto solo i suoi fedelissimi. A partire da Fabio De Pasquale, il grande accusatore del caso Eni, oggi sotto procedimento penale a Brescia proprio per la sua gestione del processo ai vertici del colosso. Non è tutto. A firmare il documento pro-Storari ci sono anche quasi cinquanta giudici: più di metà dei giudici preliminari, una intera sezione penale, toghe giovani e meno giovani. Il caso Storari diventa l'occasione per un atto d'accusa contro l'intera gestione della giustizia a Milano da parte della Procura. Decenni di timori reverenziali verso quella che fu la corazzata di Mani Pulite sembrano dissolti. Impossibile dire come se ne uscirà. Greco dopo l'estate andrà in pensione, lasciando una Procura spaccata (e a guidarla in attesa del nuovo capo sarà Targetti, uno dei firmatari del documento). Ma prima ancora si dovrà vedere come il Consiglio superiore della magistratura sceglierà di comportarsi in uno scontro che sembra sfuggito di mano a tutti quanti. A partire dalla giornata di oggi, quando il Consiglio interrogherà uno dei personaggi-chiave della vicenda milanese: Marco Tremolada, il giudice del processo Eni, oggetto durante il processo di una serie plateale di pressioni perché condannasse gli imputati (poi da lui assolti con formula piena), culminata nel tentativo di De Pasquale di fare entrare in aula i verbali di Amara che lo definivano «avvicinabile». Dall'interrogatorio di Tremolada si capirà quanto il Csm abbia intenzione di scavare a fondo sui metodi che regnavano a Milano. E un altro segnale arriverà nei giorni successivi: per venerdì è fissata l'udienza urgente che dovrebbe decidere sulla richiesta di Salvi di allontanare immediatamente Storari da Milano. Una urgenza che era stata motivata con la «serenità» della Procura milanese e che il documento di ieri dei cento milanesi smentisce platealmente. A questo punto un rinvio del processo a Storari a dopo l'estate vorrebbe dire prendere atto che a Milano le colpe non stanno tutte dalla stessa parte.

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Loggia segreta, Davigo l’indagatore finisce indagato. Ha tenuto per sé i verbali con i quali l’avvocato Amara avvisava della loggia segreta. Aldo Torchiaro il 17 Luglio 2021 su largomento.com. Da grande indagatore a indagato eccellente. I tornanti della storia fanno venire il mal di stomaco ma vanno percorsi. Oggi tocca all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani Pulite e noto opinionista tv, esponente dell’ala “dura e pura” dei magistrati d’assalto ed infine, last but not least, blogger de Il Fatto, è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. I fatti sono quelli legati alla Loggia “Ungheria”, l’associazione segreta che – denuncia l’avvocato Amara – per anni ha riunito magistrati e uomini delle istituzioni. I verbali in questione sono arrivati tra fine 2020 e inizio 2021 a due giornali romani, che avvisarono i pm di Milano e di Roma, e al consigliere Csm Nino Di Matteo che denunciò tutto in Consiglio e al Procuratore di Perugia (competente su Roma) Raffaele Cantone. E così esplose il caso. Un nuovo scandalo, altra bufera, sulla magistratura. Il “dottor Sottile”, al Csm fino all’ottobre 2020, ex pm di Mani Pulite e giudice di Cassazione, aveva ricevuto i verbali di Amara che raccontava di questa presunta e forse fantomatica Loggia di potere – con dentro membri della magistratura, dell’imprenditoria, della politica e via dicendo. Documenti in formato word consegnatigli dal pm milanese Paolo Storari, mosso dall’”inerzia” con la quale la Procura di Milano stava affrontando il caso. Verbali che Amara aveva riempito dal dicembre 2019 al gennaio 2020 interrogato da Storari e dal procuratore aggiunto Laura Pedio. Il metodo con cui Davigo decise di tenere nel cassetto quei verbali, parlandone solo con alcuni, costituisce un vulnus procedurale: per Storari si tratta di carte che andavano chiarite rapidamente, anziché a suo avviso relegate “in un limbo di immobilismo investigativo dai vertici della Procura”. 

Aldo Torchiaro. Condirettore de L’Argomento, di cui coordina la redazione per il quotidiano e il mensile. È appassionato di arti performative come il cinema, la canzone d’autore e la politica. Ha scritto tre saggi su come cambia il mondo dell’informazione, l’ultimo è “L’Inganno felice”. Pratica il salto con l’astice e la corsa al buffet.

"Non esistono persone innocenti". La nemesi del pm tradito dall'ansia di uscire di scena. Luca Fazzo il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Proverà sulla sua pelle le asprezze che ha sempre predicato. Il pasticcio commesso nel momento in cui si avvicinava la pensione. Sarebbe crudele, ora che la sua parte in scena è bruscamente cambiata, augurare a Piercamillo Davigo di provare sulla sua pelle le asprezze che lui medesimo ha predicato per anni: da quella più nota, per cui non esistono innocenti «ma solo colpevoli che l'hanno fatta franca» alla più recente, secondo cui «è un errore italiano dire sempre di aspettare le sentenze». E invece anche nel suo caso bisognerà aspettare la sentenza, considerarlo innocente fino alla fine, e consentirgli di difendersi utilizzando in ogni modo quel codice di procedura penale che, a suo dire, «è stato scritto per aiutare i criminali». Ma intanto è inevitabile chiedersi come diavolo abbia fatto un uomo della esperienza e della astuzia di Davigo a andarsi a infilare in un simile guaio, commettendo uno dopo l'altro degli svarioni di cui - in attesa che ne venga valutata la rilevanza penale - brilla una inverosimile dissennatezza: prima tra tutte, forse, la pensata di appartarsi in un retroscala del Csm e raccontare tutti i verbali milanesi a uno loquace e incontrollabile come Nicola Morra, presidente dell'Antimafia. Che infatti alla prima occasione lo ha scaricato senza complimenti in diretta tv. Cosa ha a che fare questo Davigo imprudente e scomposto con il gelido calcolatore che trent'anni fa, dal suo minuscolo ufficio al quarto piano del tribunale milanese, dava veste giuridica ai colpi di clava di Di Pietro contro Tangentopoli? Come si conciliano i traffici di fotocopie e soffiate su cui ora indaga la Procura di Brescia con la lucida precisione con cui Davigo ha saputo costruire il suo futuro dopo Mani Pulite, fino all'arrivo in Cassazione, poi alla presidenza dell'Associazione magistrati, e all'approdo finale al Csm? Purtroppo, l'unica spiegazione plausibile attiene a una fragilità dell'animo umano che è l'ansia di invecchiare: e che negli uomini di potere si assomma a un tarlo ancor più lacerante, che li coglie quando vedono il loro comando prossimo alla fine, e il ruolo sociale pronto ad abbandonarli. Non è un caso che il pasticcio in cui va a infilarsi incontrando Storari coincida con mesi di sofferenza per il Dottor Sottile: siamo nell'aprile dell'anno scorso, mancano sei mesi al settantesimo compleanno che coinciderà con il pensionamento da magistrato. Davigo in quei giorni ha già iniziato a darsi da fare per continuare, contro ogni regola, a fare parte del Csm. Ma è già chiaro che l'operazione è destinata a fallire. Anche perché contro Davigo si sono messi due suoi ex fedelissimi, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, magistrati che proprio lui, inventandosi una corrente dal nulla e sbancando le elezioni, ha fatto approdare al Csm. E che si preparano a voltargli le spalle, votando la sua destituzione. Il Davigo dell'aprile 2020 è un anziano che vede avvicinarsi inesorabile il momento dell'uscita dalla scena pubblica, lo spettro della panchina. Così quando il povero Storari, in piena sindrome da accerchiamento, bussa fiducioso alla sua porta, per Piercamillo è come un raggio di sole in una giornata plumbea. Se è a lui, e solo a lui, che un bravo pm si rivolge per avere giustizia, allora non tutto è finito. Allora la fase in cui è lui a imprimere la linea, è lui a simboleggiare la giustizia, è ancora tutta da vivere. Sono ancora io, il Dottor Sottile. E Davigo disse a Storari: «Dammi quelle carte».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

LA FESTA E’ FINITA: PIERCAMILLO DAVIGO INDAGATO PER RIVELAZIONE DI SEGRETO D’UFFICIO. Il Corriere del Giorno il 17 Luglio 2021. L’ex componente del Csm, Piercamillo Davigo, è indagato per l’ipotesi di rivelazione di segreto per averne poi parlato al Csm al quale nel 2020 il pm milanese Paolo Storari consegnò i verbali di Piero Amara sulla lobby Ungheria in relazione all’asserito immobilismo dei vertici della procura di Milano. Interrogati come testi il vicepresidente Csm Ermini, 7 consiglieri, e l’onorevole Morra. Il pm Storari della Procura di Milano consegnò nell’aprile 2020 all’ormai ex-consigliere del CSM Piercamillo Davigo i verbali segreti (in formato word non firmato) che il plurindagato Pietro Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso da dicembre 2019 a gennaio 2020 al pm Paolo Storari ed al procuratore aggiunto Laura Pedio, su un’asserita associazione segreta, denominata “Loggia Ungheria” capace a suo dire di poter condizionare ed influire su magistrati ed alti burocrati dello Stato: dichiarazioni controverse che secondo Storari andavano chiarite rapidamente, anziché a suo avviso erano state circoscritte nell’ immobilismo investigativo dai vertici della Procura milanese. Storari non è la prima volta che finisce nei guai, sembra quasi che se li vada a cercare. Infatti, quando nel 2001, Storari era ancora un giovane pm della Procura di Torino, venne chiamato a far parte del pool che indagava su uno dei “misteri” di quegli anni: lo scandalo Telekom Serbia, una storia su delle presunte tangenti che avrebbero accompagnato l’acquisto da parte di Telecom Italia di una quota della compagnia telefonica del regime di Belgrado. Anche in quel caso Storari sentiva puzza di insabbiamento. E sapete cosa fece il magistrato? Invitò presso la propria abitazione per una cena a base di pizze ordinate a domicilio, due giornalisti che stavano seguendo il caso (come accerterà un’inchiesta). Dopo alcuni giorni, quei due giornalisti pubblicarono uno scoop sull’affare Telekom, e quindi partì l’indagine sulla fuga di notizie, e guarda caso anche in quel caso si arrivò a una mail partita proprio dal computer di Storari. Coincidenze? Non proprio. La Procura di Milano competente sugli uffici giudiziari di Torino, formulò la richiesta di processo per il giovane magistrato Storari presunto responsabile della “rivelazione di segreti d’ufficio”. Sarebbe stata una carriera distrutta. Ma venne prosciolto da un giudice che sostenne che qualcuno avrebbe usato il suo computer alla propria insaputa. Bruno Tinti suo procuratore capo all’ epoca dei fatti lo festeggiò così: “Storari è un magistrato da portare come esempio per chiunque”. Tinti andato in pensione è diventato collaboratore di un giornale. Immaginate quale? Semplice: il Fatto Quotidiano! A seguito dell’inchiesta della Procura di Brescia competente sull’operato negli uffici giudiziari di Milano, si indaga sull’ ipotesi di reato di rivelazione di segreto d’ufficio (i verbali milanesi di Piero Amara nell’aprile 2020) , sono stati interrogati in gran segreto in una caserma dei Carabinieri a Roma, quasi un mese fa, come persone informate sui fatti il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, ed altri sette componenti del Csm (i consiglieri laici Fulvio Gigliotti (M5S) e Stefano Cavanna (Lega) , i consiglieri togati Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, ed il presidente della Commissione parlamentare , Nicola Morra, conseguentemente è stato possibile apprendere che si stia indagando quindi non solo sul pm milanese Paolo Storari, ma anche nei confronti di Piercamillo Davigo, ex pm del pool “Mani pulite” della Procura di Milano e successivamente giudice di Cassazione, eletto consigliere del Csm sino al suo pensionamento avvenuto nell’ottobre 2020. Davigo lo scorso 11 maggio partecipando al programma televisivo “Di Martedì” condotto da Giovanni Floris, racconto che Storari gli aveva “segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del Csm, non è opponibile al Csm”. Sul presunto immobilismo della Procura a Milano, secondo Davigo la questione era “che, quando uno ha dichiarazioni che riguardano persone in posti istituzionali importanti, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo: quindi, in un caso e nell’altro, quelle cose richiedevano indagini tempestive. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione” giustificando “la necessità di informare in maniera diretta e sicura i componenti del Comitato di presidenza Csm (perché questo dicono le circolari)“, Davigo giustificava la sua decisione di parlarne, in maniera e tempistiche diverse, quantomeno al vicepresidente Csm Ermini; agli altri due membri del Comitato, il procuratore generale Giovanni Salvi ed il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio; così giustificando al senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia i propri raffreddati rapporti con il consigliere Ardita (evocato da Amara) ad alcuni consiglieri Csm. Da quel poco che ora emerge a Roma, dove raramente un segreto istruttorio ha resistito così a lungo, a seguito del gran numero di audizioni sensibili, sono rimaste non coincidenti le versioni sul contenuto dei colloqui già affiorate in passato tra Ermini e Davigo, e tra Morra e Davigo. Al momento non risulta siano stati sinora ascoltati (tra i consiglieri Csm) Curzio e Salvi, quest’ultimo tre mesi fa, spiegò in un comunicato di aver appreso da Davigo di “contrasti in Procura a Milano circa un fascicolo molto delicato che a suo avviso rimaneva fermo”, e di aver informato “immediatamente” il procuratore capo Francesco Greco per avviare un coordinamento. Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione ha avviato a inizio giugno l’ azione disciplinare nei confronti di Storari proprio per la consegna dei verbali a Davigo, che poi in tutt’altro contesto tra fine 2020 e inizio 2021 vennero ricevuti in forma anonima da due quotidiani romani (La Repubblica ed il Fatto Quotidiano) che avvisarono i pm di Milano e Roma, e dal consigliere Csm Nino Di Matteo (che andò a denunciarlo al procuratore perugino Cantone): secondo i pm di Roma, a spedirli sarebbe stata Marcella Contraffatto, la segretaria di Piercamillo Davigo al Csm, indagata per l’ipotesi di calunnia del procuratore Francesco Greco, additato come “insabbiatore” nel messaggio anonimo inviato a Di Matteo. Dal Csm e quindi sempre da Roma arrivano novità sul filone parallelo d’indagine nel quale il procuratore bresciano Francesco Prete e il pm Donato Greco indagano sul procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e sul pm Sergio Spadaro per “rifiuto d’atti d’ufficio“, nell’ipotesi che costoro non abbiano trasmesso al Tribunale del processo Eni-Nigeria alcuni indizi sottoposti loro da Storari di inattendibilità, e perfino di inquinamenti processuali, del dichiarante accusatore di Eni, Vincenzo Armanna. Lo scorso 5 febbraio 2020 avviene in quell’aula qualcosa di incredibile. Il pm Fabio De Pasquale che cercava di convincere il giudice Marco Tremolada a fare entrare nel processo Eni un verbale di Amara puntualmente… pieno di omissis. Ma De Pasquale arriva al punto di non dire al giudice che il bersaglio di quei verbali era proprio lui, il giudice Tremolada. Da questo gesto si scatenerà la lucida follia giudiziaria di Storari. Ma il verbale di Amara chi lo ha fatto avere al pm De Pasquale? La lettera di trasmissione porta la data del 29 gennaio 2020, cioè solo cinque giorni prima dell’udienza in cui De Pasquale riparte alla carica. In fondo a quella lettera compaiono i nomi di Storari e del suo capo. Ma guarda caso, però, la firma di Storari non c’era…La prima Commissione del Csm, presieduta dal togato Elisabetta Chinaglia per una imprecisata pratica di “vigilanza” sulla Procura di Milano ha sinora ascoltato il nuovo procuratore generale Francesca Nanni, convocando a fine mese per un’audizione il coordinatore dell’antiterrorismo Alberto Nobili, e due “vice” del procuratore capo Francesco Greco, i procuratori aggiunti Letizia Mannella e Tiziana Siciliano. 

Davigo indagato. La tesi dei pm: ha convinto Storari a farsi consegnare i verbali di Amara. Luca Fazzo il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Due i capi d'accusa. Ascoltato chi ha avuto contatti con lui. La vicenda si intreccia con l'inchiesta aperta sul caso Eni. Lo scandalo che ha investito la Procura della Repubblica di Milano trascina sul banco degli indagati l'uomo che per lunghi anni ne è stato un simbolo: Piercamillo Davigo, la mente giuridica del pool Mani Pulite, l'unico della squadra di Tangentopoli ad avere poi scalato i massimi gradi della magistratura. Davigo - come rivelato ieri mattina da Corriere della sera - è indagato dalla Procura di Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio. Al centro dell'accusa, la vicenda che da mesi avvelena la Procura milanese, e che è sbarcata nei palazzi del potere romano: i verbali di Pietro Amara, il discusso avvocato-faccendiere siciliano, sull'esistenza di una «loggia Ungheria» affollata di magistrati, politici, alti ufficiali delle forze armate. Da tempo si sapeva che Paolo Storari, il pm milanese che aveva raccolto i verbali di Amara e che sospettava i propri capi di volerli insabbiare, si era rivolto a Davigo - allora membro del Csm - per ottenerne l'appoggio. Storari è per questo indagato dalla Procura di Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio. Ma ora, dalla formulazione usata dal procuratore bresciano Francesco Prete per iscrivere Davigo nel registro degli indagati, si scopre che le cose sono andate esattamente all'opposto di quanto si sapeva finora. Non è Storari a consegnare spontaneamente la minuta delle dichiarazioni di Amara a Davigo, ma al contrario è il «Dottor Sottile» a convincere il giovane collega a consegnargli le carte. Per questo Davigo nel primo capo d'accusa viene indagato per «concorso per istigazione» nel reato commesso da Storari. Poi c'è il secondo capo d'accusa, quello in cui l'autore del reato è direttamente Davigo, che nella veste di consigliere del Csm, quindi pubblico ufficiale, viene indagato per avere rivelato il contenuto dei verbali a una serie di interlocutori, tra cui il vicepresidente del Csm David Ermini e il presidente dell'Antimafia, Nicola Morra. Tutti coloro che hanno avuto a che fare con Davigo in quei mesi sono stati interrogati dalla procura bresciana. Sul primo capo d'accusa il verbale decisivo è stato proprio quello di Storari, che - interrogato come indagato - ha detto che fu proprio Davigo a spiegargli che passandogli le carte non commetteva alcun reato, visto che il Csm è abilitato a ricevere anche atti coperti da segreto. Ma non certo brevi manu e in brutta copia. Davigo nelle sue interviste televisive ha cercato di sostenere che «per le cose importanti le modalità possono essere derogate». La procura di Brescia, a quanto pare, è di diverso avviso. Altrettanto irrituali, e quindi inaccettabili, sono considerate dai pm di Brescia le modalità con cui Davigo, dopo essersi fatto dare le carte da Storari, le porta a Roma e le divulga. Nel mirino non ci sono le buste anonime inviate ad alcune redazioni dalla segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, che resta indagata da sola in un fascicolo aperto a Roma. Davigo dovrà invece rispondere degli incontri in cui ha rivelato il contenuto dei verbali di Amara a interlocutori come Nicola Morra. Morra (come pure Ermini) è stato interrogato dai pm bresciani e anche le sue dichiarazioni sono alla base della iscrizione di Davigo tra gli indagati. Il problema ora per gli inquirenti bresciani è anche capire il senso e l'obiettivo dell'attivismo di Davigo. Le motivazioni di Storari sono chiare: il pm è indignato perché i suoi superiori gli impediscono di scavare sui verbali di Amara, che però invece usano per cercare di indirizzare a proprio favore (invano) gli esiti del processo Eni. Da questo punto di vista, cioè il gioco sporco della Procura milanese sul fronte Eni, i sospetti di Storari stanno trovando conferma: il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro sono indagati a Brescia, e si dice che l'inchiesta stia portando a galla nuovi e rilevanti episodi. Ma cosa spinge Davigo a irrompere nella intricata vicenda divulgando i verbali di Amara ricevuti da Storari, mettendosi in rotta di collisione con la stessa Procura di Milano dove ha lavorato per oltre vent'anni, e con il suo capo Francesco Greco, collega di un tempo? Davigo non poteva ignorare di andarsi a infilare in un vespaio senza precedenti: e che proprio per questo era indispensabile rispettare le regole. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto. 

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Luciano Capone per ilfoglio.it articolo del 21 maggio 2021. L’interrogatorio a Brescia di Paolo Storari chiarisce alcuni elementi della posizione del pm milanese ma lascia aperti altri interrogativi. La tesi di Storari è che le dichiarazioni di Amara sull’esistenza della presunta “loggia Ungheria” in cui sarebbero coinvolti importanti magistrati andavano accertate attraverso un’indagine, sia che fossero vere sia che fossero calunniose. Ma l’inerzia del procuratore Francesco Greco lo ha spinto a chiedere consiglio a un membro del Csm come Piercamillo Davigo che gli “ha detto che si sarebbe assunto la responsabilità di questo fatto”, dice il suo avvocato. Ci sarebbe, in sostanza, la buona fede di Storari nella consegna di atti coperti da segreto a una persona, come Davigo, che si riteneva autorizzata a riceverli. In realtà non è chiaro se Davigo fosse davvero titolato e se quindi questa ricostruzione scagioni Storari (questo lo appureranno i magistrati di Brescia), ma il pm milanese fa capire che lui non c’entra nulla con la successiva diffusione dei verbali urbi et orbi. Ciò che non torna è un riferimento, fatto sia da Storari sia da Davigo, agli atti definiti non come verbali bensì come “atti di supporto alla memoria”. Non essendo verbali ufficiali, con timbro e firma, non ci sarebbe rivelazione del segreto. Se questo fosse il ragionamento sarebbe tanto cavilloso quanto ridicolo. In primo luogo perché lo stesso Davigo ha dichiarato di aver ricevuto tali atti in quanto “non si può opporre il segreto al Csm” e di averli trattati informalmente proprio per tutelarne la segretezza. In secondo luogo perché se passasse questo concetto non esisterebbe più il segreto d’ufficio: chiunque potrebbe copiare il contenuto di un atto secretato su un foglio word e divulgarlo o mandarlo ai giornali. L’altro elemento che non torna è il ruolo di Davigo. Ha indotto Storari, indagato per rivelazione di segreto, a consegnarli proprio quegli atti. Ha parlato del contenuto di quei verbali a destra e a manca, in danno del consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Ha rivelato il contenuto dei verbali, in particolare ciò che riguarda Ardita, al senatore Nicola Morra. Infine, la sua segretaria è indagata per l’invio dei verbali ai giornali. Per molto meno i magistrati Luca Palamara e Riccardo Fuzio sono imputati per un presunto “dossieraggio” ai danni di Pignatone. Com’è possibile che Davigo non sia indagato? Un’ipotesi è che i colleghi lo stiano trattando con i guanti bianchi, senza spiegarsi quale ruolo attribuirgli in questa vicenda. L’altra è che stiano cercando di fregarlo, perché quando Davigo viene ascoltato in qualità di testimone non può essere reticente né mentire. In ogni caso, viste le personalità coinvolte, sarà difficile insabbiare o non andare a fondo di questa vicenda e pertanto l’iscrizione di Davigo nel registro degli indagati sarebbe un atto a garanzia del suo diritto alla difesa.

Piercamillo Davigo indagato a Brescia. Toghe, la slavina è cominciata: verbali segreti e "loggia Ungheria", il sospetto sul pm. Libero Quotidiano il 17 luglio 2021. L'ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo è indagato a Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio. È il primo atto ufficiale nell'inchiesta sul caso dei verbali di Piero Amara: a rivelarlo sul Corriere della Sera è Luigi Ferrarella. Nell'aprile 2020, quando Davigo era ancora consigliere del Csm, il magistrato aveva ricevuto dal collega milanese Paolo Storari i verbali segreti resi in Procura a Milano da Amara, ex avvocato di Eni, allo stesso Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio. In quelle carte, Amara parlava di una associazione segreta di toghe e alte cariche dello Stato, la "loggia Ungheria", che avrebbe condizionato pesantemente le nomine nel mondo della giustizia italiana. Storari aveva consegnato tutto a Davigo confidando che qualcosa si sbloccasse e qualcuno iniziasse a indagare sulle dichiarazioni rese da Amara, contestando l'immobilismo dei vertici della Procura di Milano. Una volta emerso il fatto, con i verbali recapitati nelle redazioni di Repubblica e Fatto quotidiano, Davigo si è difeso pubblicamente, in tv, sottolineando come Storari gli avesse "segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del Csm, non è opponibile al Csm". "Quando uno ha dichiarazioni che riguardano persone in posti istituzionali importanti - aveva precisato l'ex membro del pool Mani Pulite -, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo: quindi, in un caso e nell’altro, quelle cose richiedevano indagini tempestive. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione". I verbali non finirono mai sul tavolo del Csm in via ufficiale. Davigo ne aveva però parlato al vicepresidente David Emini, al procuratore generale e il presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio e al presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra. Secondo i magistrati bresciani, non coincidono le versioni date su quei colloqui da Davigo, Ermini e Morra. Una storia dai tratti limacciosi e oscuri, tra corvi e veleni con, sullo sfondo, il valzer delle nomine nelle varie procure italiane. Indagata è anche Marcella Contrafatto, la segretaria al Csm di Davigo, considerata la persona che ha trasmesso i verbali segreti ai giornalisti e sospettata di calunnia per aver presentato in un messaggio anonimo all'altro consigliere del Csm Nino Di Matteo come "insabbiatore" Francesco Greco, il procuratore di Milano accusato di fatto da Storari di non voler procedere su Amara.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 17 luglio 2021. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, almeno sette componenti del Csm (i consiglieri laici Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, i togati Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita), e il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, sono stati interrogati a Roma come persone informate sui fatti — non adesso ma quasi un mese fa, in gran segreto in una caserma dei carabinieri — nell’inchiesta della Procura di Brescia che, per l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio sui verbali milanesi di Piero Amara nell’aprile 2020, ora si capisce stia dunque indagando non solo il pm milanese Paolo Storari, ma anche Piercamillo Davigo, consigliere Csm sino al pensionamento nell’ottobre 2020, ex pm di Mani pulite e giudice di Cassazione. A Davigo nell’aprile 2020 il pm Storari consegnò (in formato word non firmato) i verbali segreti che da dicembre 2019 a gennaio 2020 il plurindagato Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso (appunto a Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio) su un’asserita associazione segreta, denominata «Ungheria» e condizionante toghe e alti burocrati dello Stato: controverse dichiarazioni che per Storari andavano chiarite rapidamente, anziché a suo avviso relegate in un limbo di immobilismo investigativo dai vertici della Procura. L’11 maggio scorso in tv a Di Martedì Davigo spiegò che Storari gli aveva «segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del Csm, non è opponibile al Csm». Circa l’impasse in Procura a Milano, per Davigo il problema era «che, quando uno ha dichiarazioni che riguardano persone in posti istituzionali importanti, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo: quindi, in un caso e nell’altro, quelle cose richiedevano indagini tempestive. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione». E ritenuta «la necessità di informare in maniera diretta e sicura i componenti del Comitato di presidenza Csm (perché questo dicono le circolari», Davigo ne aveva parlato, in misura e in momenti diversi, quantomeno al vicepresidente Csm Ermini; agli altri due membri del Comitato, il procuratore generale e il presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio; nonché (per spiegare i propri raffreddati rapporti con il consigliere Ardita evocato da Amara) ad alcuni consiglieri Csm e all’onorevole Morra, presidente dell’Antimafia. Da quel poco che ora emerge a Roma, dopo che una rara coltre di segreto ha resistito così a lungo su un così gran numero di audizioni «sensibili», sul contenuto dei colloqui sono rimaste non coincidenti le versioni già affiorate in passato tra Ermini e Davigo, e tra Morra e Davigo. Inoltre tra i consiglieri Csm sinora non risulta siano stati ascoltati Curzio e Salvi, il quale tre mesi fa in un comunicato spiegò di aver appreso da Davigo di «contrasti in Procura a Milano circa un fascicolo molto delicato che a suo avviso rimaneva fermo», e di aver «immediatamente» informato il procuratore Greco per avviare un coordinamento. Salvi, procuratore generale della Cassazione e dunque titolare dell’azione disciplinare, l’ha avviata a inizio giugno nei confronti di Storari proprio per la consegna dei verbali a Davigo, che poi in tutt’altro contesto tra fine 2020 e inizio 2021 vennero ricevuti in forma anonima da due giornali romani (che avvisarono i pm di Milano e Roma) e dal consigliere Csm Di Matteo (che andò a denunciarlo al procuratore perugino Cantone): a spedirli, per i pm di Roma, sarebbe stata la segretaria Csm di Davigo, Marcella Contraffatto, indagata per l’ipotesi di calunnia del procuratore Francesco Greco, additato come insabbiatore nel messaggio anonimo a Di Matteo. Sempre da Roma e dal Csm arrivano novità sul parallelo filone nel quale il procuratore bresciano Francesco Prete e il pm Donato Greco indagano per «rifiuto d’atti d’ufficio» sul procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e sul pm Sergio Spadaro, nell’ipotesi che non abbiano trasmesso al Tribunale del processo Eni-Nigeria alcuni indizi (sottoposti loro da Storari) di inattendibilità, e perfino di inquinamenti processuali, del dichiarante accusatore di Eni, Vincenzo Armanna. La I Commissione del Csm, che in una imprecisata pratica di «vigilanza» sulla Procura di Milano ha sinora ascoltato il neoprocuratore generale Francesca Nanni, ha infatti convocato per una audizione a fine mese il coordinatore dell’antiterrorismo Alberto Nobili, e due dei vice di Greco, Letizia Mannella e Tiziana Siciliano.

Davigo indagato per rivelazione del segreto d’ufficio. Il Dubbio il 17 luglio 2021. Davigo nell'aprile 2020 il pm Storari consegnò verbali segreti che da dicembre 2019 a gennaio 2020 il plurindagato Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso su un'asserita associazione segreta denominata «Ungheria». L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani Pulite è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo quanto scrive” Il Corriere della Sera”, a Davigo nell’aprile 2020 il pm Storari consegnò verbali segreti che da dicembre 2019 a gennaio 2020 il plurindagato Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso su un’asserita associazione segreta, denominata «Ungheria» e condizionante toghe e alti burocrati dello Stato: controverse dichiarazioni che per Storari andavano chiarite rapidamente, anziché a suo avviso relegate “in un limbo di immobilismo investigativo dai vertici della Procura”. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e dal pm Paolo Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni- Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta, composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare al togato del Csm Piercamillo Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela. Davigo, a propria volta, pare avesse informato i vertici del Csm. Ad iniziare dal Capo dello Stato. Lo scorso ottobre, andato in pensione l’ex pm di Mani pulite, la sua segretaria al Csm, Marcella Contrafatto, aveva provveduto a inoltrarli alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. I due giornali, ricevuto il materiale, avevano però deciso di non pubblicarlo e di denunciare in Procura l’accaduto. Contrafatto era quindi stata sospesa dal servizio e indagata dalla Procura di Roma. Davigo ieri ha difeso il proprio operato sul punto, sottolineando che «c’è stato un ritardo non conforme alle disposizioni normative nell’iscrizione della notizia di reato, e un ritardo conseguente nell’avvio delle indagini: non è questione di lotte interne, è questione che c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità; che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo».

Morra: “Davigo mi parlò del caso Amara”. «Sapevo anche io della questione perché informato da Piercamillo Davigo. Sono contento che Sebastiano Ardita sia uscito bene da questa vicenda». Sono le parole pronunciate qualche settimanfa fa da l presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Parole che certificano che la vicenda relativa ai famosi verbali di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata Ungheria, non è rimasta circoscritta al Csm, ma è stata portata anche all’esterno, dove forse non era legittimo che andasse. Anche perché attualmente la procura di Roma e quella di Brescia indagano per rivelazione di segreto d’ufficio, reato per il quale i pm capitolini hanno iscritto il pm milanese Paolo Storari, ovvero colui che ha consegnato quei verbali all’ex pm di Mani Pulite. Morra, nei giorni scorsi, «ha, per le vie formali, messo a conoscenza della procura di Roma i fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza». Ma dalla sua dichiarazione ciò che emerge è che fosse consapevole della presenza, in quei verbali, del nome di Ardita, erroneamente indicato come appartenente alla fantomatica loggia “Ungheria”, composta, secondo quanto dichiarato da Amara, da magistrati, membri delle forze dell’ordine, politici e avvocati e in grado di pilotare nomine e funzioni. Ma nei verbali di Amara il ruolo di Ardita sarebbe molto più sfumato: l’ex avvocato, infatti, lo colloca ad un incontro, indicandolo come pm di Catania nel 2006, periodo in cui era già al Dap. Insomma, quanto affermato circa il consigliere del Csm non sarebbe credibile. Ma c’è di più. In quei verbali, infatti, non ci sarebbe solo il nome di Ardita, ma anche di un altro consigliere di Palazzo dei Marescialli, ovvero Marco Mancinetti, all’epoca ancora in carica e dimessosi a settembre scorso a seguito dell’azione disciplinare avviata a suo carico in merito all’affaire Palamara.

La spaccatura sull'aiutino a Prestipino. Da Ardita a Di Matteo, tutti i no al golpe del Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Luglio 2021. «Non siamo stati citati, non ci dobbiamo difendere, e, anzi, dovremmo cercare di evitare lo spreco di denaro pubblico», ha affermato Antonio D’Amato, togato di Magistratura indipendente, opponendosi, senza successo, alla decisione di Palazzo dei Marescialli di “aiutare” il procuratore di Roma Michele Prestipino a rimanere al proprio posto nonostante la stroncatura da parte del Consiglio di Stato. Il Consiglio superiore della magistratura, a maggioranza, ha deciso questa settimana, con una delibera senza precedenti, di costituirsi in giudizio davanti alle Sezioni unite della Corte di Cassazione insieme a Prestipino che aveva lamentato “il vizio di eccesso di potere giurisdizionale” del Consiglio di Stato, “per invasione della sfera di discrezionalità riservata al Csm su una pluralità di profili”. Una costituzione, quella del Csm, “adesiva”, come si usa dire, finalizzata a dare forza al ricorso di Prestipino e con lo scopo, ovviamente non dichiarato ufficialmente, di mettere sotto pressione i giudici di piazza Cavour nella battaglia contro il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, vincitore al Tar ed al Consiglio di Stato. «Prima di costituirsi in giudizio dovremmo valutare le probabilità di accoglimento del ricorso», ha aggiunto la giudice Loredana Miccichè, l’altra togata di Magistratura indipendente al Csm che, peraltro, presta servizio proprio in Cassazione. «Non c’è stato alcun eccesso potere da parte del Consiglio di Stato», prosegue la magistrata, ricordando che la Cassazione su un caso analogo, dove però il Csm non si era costituito, aveva respinto. Il ricorso, per la cronaca, era stato all’epoca presentato dal pm milanese Maurizio Romanelli, bocciato per l’incarico alla Direzione nazionale antimafia. «Prestipino – afferma Miccichè – ha tutto il diritto di ricorrere ma la giurisprudenza è chiara». Anche il pm antimafia Nino Di Matteo è stato molto chiaro: «Se il Csm si è sentito leso nelle sue prerogative doveva sollevare conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato alla Consulta». «Ma meno male c’è il Consiglio di Stato e che interviene: sono felice!», il commento del consigliere laico in quota Lega Stefano Cavanna. In scia anche Sebastiano Ardita, l’altro pm antimafia, che ha evidenziato la contraddizione del Csm dopo essersi battuto negli ultimi mesi per limitare la propria “discrezionalità” nelle nomine. Quale è, allora, il segreto inconfessabile dietro questa decisione? Il terrore di dover prima o poi fare i conti con il fatto che Prestipino non ha i titoli per ricoprire l’incarico di procuratore di Roma. Filippo Donati, laico in quota M5s, ha ricordato che non c’è stato alcun eccesso di potere da parte dei giudici di Palazzo Spada. «Il Consiglio di Stato ha chiesto solo di capire come sia stato possibile scegliere un procuratore aggiunto (Prestipino) invece di un procuratore generale (Viola)», puntualizza Donati, aggiungendo che serviva una adeguata “motivazione”. Tesi tutte respinte dal togato progressista Giuseppe Cascini secondo il quale la magistratura non è l’Arma dei carabinieri dove ci sono i gradi e vige il rapporto gerarchico. Il Csm l’anno scorso per nominare Prestipino si era lanciato in una motivazione tutta incentrata sulla particolare realtà criminale romana, composta da “organizzazioni nuove ed originali”. Il radicamento territoriale avrebbe, allora, favorito Prestipino, già vice di Giuseppe Pignatone, nei confronti degli altri concorrenti al posto di procuratore di Roma. Nella battaglia per la Procura della Capitale, destinata a durare a lungo, un punto fermo però già c’è: Viola il mese scorso ha ritirato la domanda per la Procura generale di Palermo, il premio di consolazione che il Csm aveva pensato per lui se avesse rinunciato alle aspirazioni romane. «Il procuratore non ha intenzione di prestarsi a nessuno scambio. Il Csm non è, o non dovrebbe essere, il suk di Tunisi», avevano dichiarato al Riformista alcuni stretti collaboratori di Viola. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, spingendo il pg di Firenze a ritirare la domanda per Palermo, era stata una intervista di Paolo Mieli alla trasmissione OttoeMezzo condotta da Lilli Gruber su La7. Mieli aveva dato per scontato che tutto si sarebbe risolto con Prestipino tranquillo a Roma, nonostante il Tar ed il Consiglio di Stato avessero affermato che la nomina era illegittima, e Viola a Palermo. Un trasferimento che lo avrebbe addirittura fatto felice essendo Viola siciliano. Paolo Comi

Bocciato anche il Csm. Decapitata la Procura di Roma, il Consiglio di Stato respinge il ricorso di Prestipino. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare presentata dal procuratore di Roma Michele Prestipino che aveva impugnato la sentenza con cui l’11 maggio scorso è stata confermata la decisione del Tar del Lazio che aveva accolto il ricorso presentato dal procuratore generale di Firenze Marcello Viola contro la nomina del capo della procura della capitale, avvenuta il 4 marzo 2020. Nell’istanza cautelare Prestipino chiedeva di sospendere le sentenze in attesa della definizione del ricorso in Cassazione e del ricorso per revocazione. Il ricorso presentato per Cassazione verrà discusso a novembre. La decisione del Consiglio di Stato arriva dopo la camera di consiglio che si è tenuta ieri. Nelle ordinanze con cui sono state respinte le quattro istanze cautelari si sottolinea che “non sussistono i presupposti per l’accoglimento della istanza di interinale inibitoria degli effetti della sentenza impugnata” e che ”le ragioni di pregiudizio non siano connotate dai requisiti della ‘eccezionale gravità ed urgenza’ che, ai sensi dell’art. 111 cod. proc. amm., giustifichino, a fronte della contestazione dei ‘profili inerenti alla giurisdizione’ affidati al ricorso per cassazione, l’interinale inibitoria degli effetti della pronuncia impugnata”. La "palla" passa ora al Consiglio superiore della magistratura: se infatti Palazzo dei Marescialli non dovesse aderire all’indirizzo dettato dal Consiglio di Stato facendo ripartire il procedimento di nomina del procuratore di Roma, Marcello Viola, che ha vinto le impugnazioni fino ad oggi presentate contro la nomina di Prestipino, potrebbe proporre il “ricorso per ottemperanza”, costringendo il Csm a rifare la nomina.

IL PALAMARAGATE E L’ESCLUSIONE DI VIOLA – La battaglia a suon di carte bollate per la poltrona di capo della procura di Roma si intreccia con le note vicissitudine riguardanti l’ex consigliere del Csm Luca Palamara. Il 23 maggio 2019 Viola, procuratore generale di Firenze, venne proposto con 4 voti per il ruolo di ‘erede’ Giuseppe Pignatone dalla commissione incarichi direttivi del Csm, superando Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, entrambi fermi a un voto. La nomina di Viola venne però bloccato con un ritorno in commissione sulla decisione dopo l’emergere delle intercettazioni di Palamara ed in particolare su un presunto interesse dell’ormai ex magistrato e dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti alla nomina di Viola come procuratore romano. Viola venne quindi escluso dalla seconda votazione, aperta a Lo Voi, Creazzo e Prestipino, con la "vittoria" finale di quest’ultimo il 4 marzo 2020. Da lì quindi la battaglia di Viola, arrivato oggi al Consiglio di Stato che ha respinto l’istanza cautelare presentata da Prestipino.

Procura di Roma, Prestipino è fuori: il Consiglio di Stato avverte il Csm. Respinte le istanze cautelari proposte dal procuratore di Roma Michele Prestipino dirette a paralizzare le sentenze amministrative che avevano annullato la sua nomina alla procura capitolina. Il Dubbio il 30 luglio 2021. Il Consiglio di Stato ha respinto le istanze cautelari proposte dal procuratore di Roma Michele Prestipino Giarritta, dirette a paralizzare le sentenze amministrative che avevano annullato la sua nomina al vertice dell’ufficio inquirente della Capitale. Per effetto di questa decisione il Consiglio superiore della magistratura dovrà adesso far ripartire il procedimento di nomina del procuratore di Roma. Se Palazzo dei Marescialli non dovesse aderire all’indirizzo dettato dal Consiglio di Stato, Marcello Viola, candidato che era stato battuto da Prestipino ma che ha vinto le impugnazioni finora presentate, potrebbe proporre – attraverso gli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia – il cosiddetto ricorso per ottemperanza, per costringere il Csm a rifare la nomina. Prestipino – con il sostegno dello stesso Csm che aveva aderito al ricorso e chiesto l’annullamento della sentenza del Consiglio di Stato – aveva a sua volta provato metodi straordinari di impugnazione, presentati sia al Consiglio di Stato che alla Cassazione, ma i primi sono stati adesso rigettati in sede cautelare.  La vicenda della Procura di Roma è al centro di una lunga querelle che affonda le radici nel cosiddetto caso Palamara. La commissione incarichi direttivi dell’organo di autogoverno dei giudici, il 23 maggio 2019, aveva infatti proposto Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, con 4 voti, mentre Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, avevano riportato un voto ciascuno. In quello stesso periodo di due anni fa però vennero fuori le intercettazioni della vicenda Palamara, da cui era emerso un presunto interesse dell’ex presidente dell’ Anm ed ex consigliere del Csm Luca Palamara e dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, di ottenere la nomina di Viola come procuratore romano. Il risultato era stato il ritorno in commissione della decisione e la successiva esclusione di Viola dal novero dei tre candidati (Prestipino, Lo Voi e Creazzo) che si erano contesi la Procura, con il successo finale – il 4 marzo 2020 – di Prestipino. Il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato, con due decisioni di segno uguale, avevano però imposto al Csm di ripartire dalla originaria proposta della commissione del Csm e cioè quella che aveva visto in pole position Viola, poi immotivatamente escluso, secondo i giudici amministrativi di primo e secondo grado, perché del tutto inconsapevole delle manovre riguardanti il suo nome.

Chi c'è dietro il golpe al Csm. La Loggia Ungheria è viva e forte, e inguaia Piercamillo Davigo: avviso di garanzia per il dottor Sottile. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Un amico mi ha chiesto se per caso io abbia notizie della Loggia Ungheria. Quell’associazione segreta denunciata dall’avvocato Amara durante un interrogatorio a Milano – e che raggrupperebbe magistrati, alti funzionari dello Stato, avvocati, giornalisti e anche politici – messa in piedi qualche anno fa allo scopo di controllare e indirizzare la magistratura e di governare il corso della giustizia. Gli ho risposto domandandogli se volesse sapere che fine ha fatto la Loggia o l’inchiesta giudiziaria sulla Loggia. Tutte e due, mi ha risposto. Gli ho detto che la Loggia è viva e forte. L’altro giorno è intervenuta pesantemente al Csm per mettere a tacere la componente legalitaria del Consiglio – che chiedeva che fossero rispettate le regole e la Costituzione – e per fare approvare un documento che chiede che siano gettate al gabinetto le sentenze del Consiglio di Stato e del Tar, le quali avevano dichiarato illegittima la nomina del dottor Michele Prestipino a capo della procura di Roma. Perché illegittima? Perché Prestipino non ha i titoli e fu scelto su indicazioni delle correnti perché nei rapporti di forza tra le correnti il suo nome era quello che prevaleva. Non per titoli, no, diciamo per comprovata disciplina di corrente. La Loggia Ungheria non si è limitata a imporre al Csm una posizione evidentemente del tutto al di fuori della legalità. Ha fatto di più: chiesto e ottenuto che tutti i giornali (salvo forse solo noi, Il Dubbio e la Verità) tacessero la notizia di quello che, con parecchie ragioni, credo, noi abbiamo definito un golpe. Se volevate la prova dell’esistenza della Loggia, ecco qui che la prova è evidente. Discorso diverso per l’inchiesta giudiziaria sulla Loggia. Quella invece ha la stessa consistenza di una nuvola. È a Brescia l’inchiesta (con propaggini a Firenze e Perugia, dove però ognuno indaga su quelli che indagano su di lui e l’effetto è comico). Brescia lavora sodo? Per ora ha spedito un avviso di garanzia al solo dottor Storari, che è quello che aveva scoperto l’esistenza della Loggia. Storari, quando ebbe le notizie proprio dal dottor Amara, da lui interrogato per vicende relative all’Eni, chiese al procuratore Greco di poter iscrivere nel registro degli indagati quelli che Amara sosteneva fossero i capi della Loggia segreta. Ma Greco disse di no, e il dossier restò moribondo nelle mani di Storari. Il quale pensò di rivolgersi a Piercamillo Davigo, all’epoca consigliere del Csm. Davigo, capite? L’eroe di chiunque voglia fare giustizia, denunciare i reprobi, i colpevoli, i sospettati, gli indiziati, i gaglioffi. Chi meglio di lui poteva aiutare Storari? Ma forse Storari si era sbagliato. Davigo prese il plico e l’inguattò. Lui dice di averne parlato con Ermini e con Salvi (il primo è il vicepresidente del Csm, il secondo è il Procuratore generale della Cassazione), loro dicono che non è così. Dicono che Davigo fece con loro solo accenni vaghissimi a malumori interni alla Procura di Milano. Davigo dice di averne parlato anche con Morra, sottovoce, sulla rampa delle scale. Morra è il parlamentare dei 5 Stelle presidente della commissione Antimafia. Comunque Davigo non consegnò il dossier di Storari né alla presidenza del Csm né alla Procura. Come avrebbe dovuto fare. Ora uno può anche pensare che magari Davigo di diritto non ne sappia tantissimo (effettivamente spesso, quando scrive sul Fatto, dà questa impressione…) e perciò si sia confuso, però non ci vuole un rettore di giurisprudenza per sapere come si comporta un pubblico ufficiale che riceve una notizia di reato, no? E così il dossier scomparve, e Storari restò col cerino in mano. Finché un bel giorno Davigo se ne andò in pensione e qualcuno, forse la sua ex segretaria, spedì il dossier al Fatto e a Repubblica. Ma anche il Fatto e Repubblica, in genere prontissimi a pubblicare verbali segreti di qualunque genere, stavolta non pubblicarono nulla. Allora il dossier fu mandato al Domani e a Nino Di Matteo, i quali invece ruppero finalmente l’omertà e resero pubblico lo scandalo. Ora voi immaginate se la Loggia fosse una Loggia che fa capo a Renzi, o a Berlusconi o a qualche altro politico di peso! Pensate l’inferno che si sarebbe scatenato, gli avvisi di garanzia, le gogne, le condanne sul campo. Invece la Loggia è una cosa della magistratura. Silenzio. Qualche giorno di titoli sui giornali e poi l’oblio. Chiede il mio amico: ma Davigo per quali reati è stato indagato? Non sapete quanto ci ho messo per convincerlo che Davigo, allo stato, non risulta indagato. Né per omessa denuncia, né per favoreggiamento, né per ricettazione. Per niente di niente. Il mio amico non ci credeva. Speriamo che nel frattempo, magari in segreto – come sosteneva ieri Dagospia – l’avviso di garanzia sia partito. Resta il fatto che la Loggia è ancora lì, è potente, condiziona come e più di quando condizionava Palamara, si fa beffe della legalità, lancia campagne contro il Consiglio di Stato, e nessuno è indagato per associazione a delinquere. Se ne è andato sconsolato, il mio amico. Ha detto che lui va a vivere in Venezuela.

Aggiornamento: Il Corriere della Sera riporta che l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani Pulite è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

 Nessuno ne parla più. Loggia Ungheria, cala il silenzio sull’inchiesta: il giallo sulla sorte di Davigo. Frank Cimini su Il Riformista il 9 Luglio 2021. Ma che fine ha fatto la loggia Ungheria? Nessuno ne parla più a cominciare dai giornali, da chi fa le indagini, dal Csm. Eppure l’avvocato Piero Amara introducendo l’argomento a verbale l’aveva descritta come un’associazione segreta nata con lo scopo di condizionare le nomine e le decisioni interne alla vita giudiziaria e politica italiana. Piero Amara era stato condannato e inquisito per i depistaggi contro l’Eni e per episodi di corruzioni in atti giudiziari. Sulla loggia Ungheria formalmente indaga la procura di Perugia (oltre a quella di Milano) diventata una sorta di crocevia della storia nazionale e non solo perché sede di accertamenti sui magistrati in servizio a Roma. Amara, più volte arrestato, di recente è ritornato in libertà dopo aver fatto alcune ammissioni davanti ai magistrati di Potenza, ma senza fare più accenni alla famosa loggia. A pensare male si fa peccato come sosteneva Andreotti ma si può anche azzeccare la verità. Insomma può nascere il sospetto che l’avvocato siciliano prima abbia tirato la pietra nello stagno e poi con il suo silenzio abbia fatto un favore a chi punta a non approfondire l’argomento della loggia Ungheria. Noi non sappiamo se questa loggia esista o meno però siccome ne farebbero parte secondo quanto è stato ipotizzato magistrati, giudici, imprenditori ufficiali di polizia e carabinieri insieme ad altri importanti personaggi, non si può far finta di niente. Espliciti riferimenti alla loggia sono stati trovati nel computer di Amara dai pm di Milano che avevano usato il legale siciliano come una sorta di “testimone della corona” nel processo Eni-Nigeria finito ingloriosamente per l’accusa. Il pm milanese Paolo Storari aveva consegnato i verbali di Amara a Piercamillo Davigo all’epoca consigliere del Csm. Una procedura sicuramente anomala. Storari è indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Nulla si sa invece della sorte di Davigo. Risulta che il procuratore di Brescia Francesco Prete ex pm a Milano oltre a non parlare con i giornalisti non faccia parola dell’inchiesta per telefono nemmeno con i suoi colleghi. Cioè c’è il massimo riserbo, quello che manca nella maggior parte delle inchieste dove sono coinvolti i comuni mortali, quelli che non fanno i magistrati e nemmeno i giudici. Il Csm tace. E lo fa dopo aver in pratica deciso di considerare non processabili neanche a livello disciplinare le cosiddette autopromozioni dei magistrati candidati a posti di vertice di cui ha parlato a lungo l’ex magistrato Luca Palamara, l’unico ad aver pagato con la radiazione per una vicenda che coinvolge buona parte della magistratura associata. Tace Mattarella che non ha il potere di sciogliere il Csm ma dovrebbe cercare di andare al di là dei “moniti” che hanno caratterizzato la sua condotta fin qui. Invece di insistere sul “cercare la verità” su storie del passato dove si sa quanto accaduto a causa di tonnellate di atti processuali che escludono “misteri”. Frank Cimini

L'affaire Csm. Report Rai PUNTATA DEL 09/12/2019 di Luca Chianca. Collaborazione di Alessia Marzi. A Report il caso Csm: quando la politica cerca di influenzare le toghe. Il magistrato Luca Palamara, cinque componenti del Consiglio superiore della magistratura e i deputati Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (Iv) vengono registrati mentre discutono le nomine ai vertici delle procure. Per quella di Roma, in particolare, puntano su Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze. In lizza c'era anche Giuseppe Creazzo, capo della Procura di Firenze che ha indagato sia i genitori del segretario di Italia Viva Matteo Renzi sia la Fondazione Open.

L’AFFAIRE CSM Di Luca Chianca Collaborazione Alessia Marzi Immagini Matteo Delbò Montaggio Emanuele Redondi

CONFERENZA STAMPA DEL 27/11/2019 MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Mi sembra di essere divenuto, l'oggetto di attenzioni speciali da parte di qualche magistrato che addirittura ha deciso che io ho fatto un partito. Un tempo i magistrati della procura di Firenze era famosi perché davano la caccia al mostro di Scandicci, oggi mi sembra che l'attenzione sia più sul senatore di Scandicci, non vorrei che sbagliassero fascicolo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È quello aperto dal capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo sui conti e i finanziamenti della Fondazione Open, che fa riferimento a Matteo Renzi. Quella che ha raccolto oltre 6 milioni euro. LUCA CHIANCA Buongiorno.

DONNA Ah, giornalisti.

LUCA CHIANCA Dice, lei chiude?

DONNA Per forza.

LUCA CHIANCA Qui era la fondazione Open, no?

DONNA Non lo so.

LUCA CHIANCA Alberto Bianchi era il presidente della Fondazione?

UOMO Sì, quello sì. C'ha lo studio qui.

LUCA CHIANCA Senta, mi conferma la raccolta fondi di oltre 6 milioni di euro, quasi 7 milioni di euro, in tutti questi anni?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN È morta da molto tempo.

LUCA CHIANCA Perché non ci sono più i nomi online dei finanziatori?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Open ha chiuso, eh.

LUCA CHIANCA Sì, però essendo stata una fondazione così importante per il candidato.

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Non così importante da tenere su il sito anche dopo 9 mesi dalla chiusura.

LUCA CHIANCA Vabeh, l’ex premier ha sempre parlato di trasparenza, di massima trasparenza.

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Quello che dice l'ex premier lo chiedete all'ex premier.

LUCA CHIANCA Qua l'ha mai visto Matteo Renzi, entrare e uscire?

UOMO No.

LUCA CHIANCA Nessuno del partito veniva qua?

UOMO Sì, qualcuno sì.

LUCA CHIANCA Chi?

UOMO Mi sembra il Lotti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra il 2017 e il 2018, tra i principali finanziatori della Fondazione con circa 300mila euro, c'è una nota famiglia Toscana, i Maestrelli. Lavorano nel settore dell'ortofrutta. E il legame tra Renzi e la famiglia è forte. Riccardo, uno dei rampolli, nel 2015, era stato nominato durante il governo Renzi nel consiglio di amministrazione di una società di Cassa depositi e prestiti. La mamma di Riccardo, lo scorso anno ha prestato 700mila euro a Matteo Renzi.

RECEPTIONIST Senti, Silvia ci sono dei giornalisti di Report di Rai3 e volevano parlar con Riccardo. Eh, no, infatti gli ho detto che non c'è. Niente.

LUCA CHIANCA Dico, ‘sta storia della signora… Quanti anni ha la mamma?

RECEPTIONIST Non lo so avrà boh, una settantina.

LUCA CHIANCA Che un giorno le arrivano 700mila euro dai figli e il giorno stesso li bonifica a Renzi altri 700.

RECEPTIONIST Io non lo sapevo neanche il discorso della mamma.

LUCA CHIANCA No: loro danno dei soldi, 700mila euro, alla mamma e lei il giorno stesso bonifica quei soldi su un conto di Renzi e della moglie, con cui poi anticipano la caparra di questa villa.

RECEPTIONIST Sì, sì, sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La villa viene acquistata a giugno del 2018 per 1,3 milioni di euro e si trova in una delle zone più incantevoli e romantiche di Firenze. Ma dei 700 mila euro prestati da mamma Maestrelli, Renzi ne ha usati solo 400 per la caparra.

LUCA CHIANCA Glieli avrebbero dati questi soldi se non fosse stato Matteo Renzi, ex premier, ex segretario del Pd? A me 700 mila euro difficilmente me li possono prestare.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Ma se li può permettere di riportarglieli 700mila euro?

LUCA CHIANCA È ma, difficilmente, avrei difficoltà a farmi prestare anche 50mila, 30mila, 10mila euro.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Ma se uno guadagna 1 milione l'anno, se uno fattura 1 milione l'anno e paga mezzo milione di tasse e restituisce e si impegna a restituire in 5 mesi, che siano 7 euro che siano 7 milioni, dipende da quanto uno guadagna.

LUCA CHIANCA È vero che parte dei soldi che poi ha restituito arrivano da Davide Serra?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Anche qui, tra gli speech, i miei discorsi fatti, c'è ne sono alcuni fatti per la Fondazione Algebris che è una realtà creata da Davide Serra. Io le dico: con questo mio introito pago io 500 mila euro di tasse che consentono a tanti parlamentari – tanti… 3, 4 parlamentari - di avere uno stipendio annuale, o se vuole a qualche giornalista della Rai o se vuole a qualche un medico, perché è giusto. Se tu guadagni di più, se io non guadagnassi lo Stato ci perderebbe.

LUCA CHIANCA Fa un opera di distribuzione di reddito.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA È un'opera nella quale io vengo pagato, spero anche a lei che arrivi un giorno in cui qualcuno la paghi per poter fare dei discorsi interessanti all'estero, magari succederà, sarà molto piacevole stare ad ascoltarla. Però vede, i miei denari sono denari che io guadagno onestamente e lecitamente e regolarmente. Il fatto che si possa entrare nel mio conto corrente. Come si possa entrare nella chat Whatsapp di un imprenditore perquisito solo perché ha dato un piccolo contributo o grande contributo, non a Matteo Renzi persona fisica, ma alla fondazione, alla Fondazione che organizza degli eventi politici, è il segno di un Paese che perde il confine della libertà.

LUCA CHIANCA Stiamo parlando dell’indagine, no?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA No: non stiamo parlando dell’indagine. Sono persone che non c'entrano niente con le indagini, che sono persone che hanno fatto finanziamenti regolari; non sono inquisite, non sono indagate. Non hanno niente.

LUCA CHIANCA “Articolazione di partito” viene definita la fondazione dai magistrati, dissimulare un finanziamento alla politica.

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE Parole dei magistrati, chiedetene il significato ai magistrati, se son parole dei magistrati.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alberto Bianchi, l’ex presidente di Open, è indagato per finanziamento illecito. Avrebbe versato 200 mila euro nella fondazione dopo aver ottenuto consulenze dal gruppo Toto Costruzioni, società della holding che ha anche le concessioni autostradali.

LUCA CHIANCA Queste consulenze con Toto... Lei ha preso quasi 2 milioni di euro, no?

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Non ho dichiarazioni da fare. Quello che avevo da dire è uscito adesso sulle agenzie.

LUCA CHIANCA Renzi è stato molto duro con l'attacco ai giudici, ai magistrati.

ALBERTO BIANCHI – EX PRESIDENTE FONDAZIONE OPEN Chiedete a Renzi

CONFERENZA STAMPA DEL 27/11/2019 MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Questa fondazione per due magistrati di Firenze, i dottori Creazzo e Turco, è un partito politico. La domanda è? Fare un partito politico è una scelta che fa un leader politico o un magistrato? Amici questo punto è enorme è l'elefante nella stanza, perché se assegniamo ai magistrati il compito di decidere che cosa è un partito e cosa no, abbiamo messo in discussione la separazione dei poteri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Va riconosciuto all’ex premier Matteo Renzi il fatto che è stato l’unico leader politico di un certo peso, ad aver accettato per cinque volte le interviste di Report. Chapeau. Insomma, la separazione dei poteri è cosa sacra perché significa il funzionamento della macchina democratica di un Paese. Tuttavia andrebbe evocata anche quando intorno a un tavolo si siedono dei politici con dei magistrati per condizionare le nomine delle procure più importanti d’Italia. Sono il suo ex braccio destro Luca Lotti, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ex ministro dello sport. Con lui poi c’è Cosimo Ferri, magistrato, ex Csm, anche lui ex sottosegretario al ministero della Giustizia in vari governi, deputato ex Pd, oggi in Italia Viva. Parlano con 5 membri del Csm su come condizionare la nomina delle procure più importanti d’Italia: c’è Roma, che è molto delicata perché svolge indagini sulla politica e la pubblica amministrazione; poi c’è Perugia, competente sui magistrati di Roma; Firenze che è competente sui magistrati di Perugia; Genova, competente a sua volta su quelli di Firenze. Ecco, quella di Roma è particolarmente delicata perché è un’inchiesta bollente, quella su Consip. I magistrati hanno chiesto l’archiviazione per la posizione del papà di Renzi, Tiziano; hanno rinviato a giudizio invece Luca Lotti con l’accusa di favoreggiamento. Pignatone sta per lasciare la Procura di Roma all’epoca per raggiunti limiti di età. Al suo posto potrebbe arrivare Giuseppe Creazzo, che è il capo della Procura di Firenze, l’uomo che ha indagato i genitori di Renzi con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Oggi ha aperto anche le indagini su Open. L’ipotesi di reato è finanziamento illecito e ha indagato il Presidente Bianchi e il braccio destro di Matteo Renzi Carrai. Ecco, insomma, parlano i due parlamentari con i membri del Csm, ma ne parlano anche con l’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, che è indagato anche lui alla Procura di Perugia per corruzione. Ha passato, dice in un’intercettazione, sette anni di lusso tra cene e viaggi pagati da un “piccoletto”. Chi è il piccoletto? Lo vedremo più tardi. Insomma, Palamara però è considerato il regista di questo condizionamento delle nomine delle procure più importanti: il capitano, l’uomo che ha una grande visione di gioco, ha dei piedi buoni e sfiora il suo goal. Solo che a difesa della porta c’erano degli investigatori bravi e gli anticorpi del sistema giudiziario. Il nostro Luca Chianca.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO San Luca è un paesino di 4 mila abitanti alle falde dell'Aspromonte. Nel mondo è diventato famoso per la lunga faida di ‘ndrangheta tra due cosche, culminata qualche anno fa con la strage di Duisburg in Germania. Dopo anni di commissariamento, in primavera ci sono state finalmente nuove elezioni. A sorpresa, Klaus Davi, massmediologo, giornalista da sempre impegnato contro le mafie e candidato sindaco non eletto, è diventato consigliere comunale.

LUCA CHIANCA Giugno scorso ci sarebbe dovuta essere…

KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) La partita del cuore.

LUCA CHIANCA Tra chi?

KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Cantanti, la squadra delle poste, magistrati.

LUCA CHIANCA Un bell'evento.

KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Un bellissimo evento che tutta la comunità di San Luca aspettava e che a pochi giorni dall'elezione del nuovo consiglio comunale è saltato misteriosamente senza spiegazioni. Mai, mai, mai. stata una spiegazione ufficiale.

LUCA CHIANCA Però c'è una persona che potrebbe spiegare la mancata occasione e la mancata partita: il capitano della squadra dei magistrati. Chi era?

KLAUS DAVI - CONSIGLIERE COMUNALE DI SAN LUCA (RC) Luca Palamara

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Luca Palamara è l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, uno dei promotori di questa iniziativa, realizzata per la prima volta due anni fa.

FRANCESCO GIAMPAOLO – PRESIDENTE ASD SAN LUCA Palamara giocava pure bene, si sapeva muovere molto bene a centrocampo, era un regista tutto tondo diciamo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sarebbe il regista anche per i magistrati di Perugia del più grande scandalo che abbia mai colpito il Consiglio Superiore della Magistratura che esplode pochi giorni prima la partita del cuore. Per questo l’atteso incontro di calcio salta. L’indagine punta il dito su un incontro avvenuto in questo albergo di Roma. Il 9 maggio Palamara, 5 consiglieri del Csm e due parlamentari, Luca Lotti del Pd e l'ex magistrato Cosimo Ferri oggi in Italia Viva, brigano per pilotare le nomine di alcune procure italiane. A farne subito le spese è Pasquale Grasso, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, in quota di Magistratura Indipendente, la corrente vicina a Cosimo Ferri.

PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Vi ho ascoltato e compreso; ovviamente rassegno le mie dimissioni. Lo faccio serenamente dicendo “no” a me stesso in ricordo di un grande intellettuale italiano del passato che ricordava che i moralisti dicono “no” agli altri, mentre l'uomo morale dice “no” a se stesso. Grazie.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lo scandalo coinvolge 5 membri del Csm: 2 facevano capo a Unicost, la corrente di Luca Palamara, 3 di MI, Magistratura Indipendente, di cui è stato presidente per anni il parlamentare Cosimo Ferri. Mentre Unicost fa subito fuori i due consiglieri, MI si riunisce a porte chiuse sostenendo i suoi tre consiglieri. LUCA CHIANCA Durante quell'assemblea lei è in disaccordo.

PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Nettissimo.

LUCA CHIANCA Fa un discorso, fa riferimento a Ferri.

PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Sì.

LUCA CHIANCA Il drago che sta mangiando la nostra casa.

PASQUALE GRASSO – EX PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI Ho detto che era del tutto inopportuno continuare ad avere rapporti con Cosimo Ferri che, anche fosse stato un amico d'infanzia, una volta scelto di fare il politico non poteva più avere interlocuzioni e interferenze con l'attività di Magistratura Indipendente.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In quel dopo cena però, si discute a lungo della strategia da tenere per nominare il nuovo Procuratore Capo di Roma che a maggio avrebbe sostituito il pensionato Giuseppe Pignatone. Puntano su Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, ma in lizza ci sono anche Giuseppe Creazzo, il capo della Procura di Firenze che ha indagato i genitori di Renzi e il pm Lo Voi della procura di Palermo, vicino a Pignatone.

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE È anche un mio personale amico Cosimo Ferri; lo conosco da tanti anni, Cosimo Ferri.

LUCA CHIANCA Insieme a Lotti, si vedono con Palamara e alcuni consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura per decidere le nomine.

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ma non è che se Cosimo Ferri parla con qualche consigliere, i consiglieri fanno quello che dice Cosimo Ferri.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche Racanelli, magistrato della procura di Roma, suo malgrado, si ritrova intercettato dal trojan messo nel cellulare di Palamara con cui parla nel suo ufficio.

LUCA CHIANCA Lei sempre su Roma dice “mettere un cappello su Roma è sempre un vantaggio”.

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Sì, questo se non sbaglio in una conversazione con Palamara a proposito del rapporto con Unicost, perché Unicost aveva difficoltà di appoggiare credo il candidato Viola.

LUCA CHIANCA Eh, ma mettere il cappello su Roma, che significa?

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ma no, ma guardi, ma scusi, bisogna anche stare attenti quando si parla in una conversazione diciamo così privata, si usano anche termini informali. Significava secondo me per Magistratura Indipendente un buon risultato anche dal punto di vista anche dell'immagine. Anche all’interno della magistratura.

LUCA CHIANCA Però leggendo quello che è uscito fuori, sembra una guerra tra bande, eh. Sarà anche l'intimità della chiacchiera in privato, ma i termini utilizzati sembra appunto “metto il mio, puntiamo su quello, facciamo fuori l'altro”.

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE A prescindere dai termini che sono usati, sicuramente io posso dire che questa vicenda è stata utilizzata quasi come un regolamento di conti.

LUCA CHIANCA Onorevole salve. Chianca di Report, come sta?

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ciao carissimo, tutto bene.

LUCA CHIANCA Ci possiamo mettere qui un secondo? Senta io mi sto occupando come lei sa di CSM, Palamara e dei vostri incontri con Lotti, la famosa sera del 9 maggio.

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Vieni dentro.

LUCA CHIANCA Un attimo, un attimo non mi vada dentro, mi spieghi almeno…Però aspetti che c'ho l'operatore fuori però. Rimaniamo qui. Onorevole scusi, però non mi fugga, parliamo.

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Lei sa che sia io che Lotti siamo parlamentari, c'è un problema di utilizzabilità del trojan per quanto riguarda conversazioni, incontri dove c'era il Trojan, sono inutilizzabili processualmente.

LUCA CHIANCA Quello è il ruolo dei magistrati, io faccio il giornalista quindi, con la scusa del trojan, qui non si parla del contenuto di quello che è emerso, no?

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Allora ci sono delle regole giuridiche. C'è la massima disponibilità a fare esercitare il suo diritto di cronaca, però su questioni fondate.

LUCA CHIANCA Se lei mi risponde riusciamo a esercitarlo il diritto di cronaca perché altrimenti è impossibile. Lei è ex magistrato, consigliere del CSM e poi diventa politico e continua ad aver rapporti...

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Già le ho detto, ho già risposto. Penso che di giustizia uno si possa occupare.

LUCA CHIANCA Dì. ma non si può discutere sui voti che vengono dati per la Procura di Roma, no? Quando sappiamo bene…

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma lei, ma lei allora sa bene che lei quando...

LUCA CHIANCA No lì fate i conti, lì conteggiate proprio: Viola prende questo, Creazzo prende quello e tra l'altro tentate di mettere in difficoltà Creazzo che è il pm. Ascolti, Creazzo è il pm che si è occupato dei genitori di Renzi, non lo volete fare a Roma e parlate anche di problemi che potrebbero uscire dall'esposto che è andato a Genova su Creazzo.

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA No, no...

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Perché Giuseppe Creazzo non è ben visto come capo della Procura di Roma? Creazzo, A febbraio aveva fatto arrestare i genitori di Matteo Renzi per bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false. Una storia in cui viene coinvolto, senza volerlo, anche Carlo Fontanelli, giornalista ed editore di Empoli, una delle memorie storiche del calcio italiano.

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Qui c’è Tutto Sport dal ’45 in originale. Qui abbiamo il Corriere dello Sport dal ’48. Questa è un’altra Gazzetta dello Sport dal ’47.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO 10 anni fa lo chiamano dalla lontana Sicilia. Lo accusano di non aver pagato alcune fatture della Delivery Service, una società che secondo i magistrati faceva riferimento a mamma e papà Renzi.

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Abbiamo scoperto che facevo parte della compagine amministrativa di questa azienda.

LUCA CHIANCA Qualcuno ti aveva nominato consigliere d'amministrazione a tua insaputa?

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA A mia insaputa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Carlo denuncia, ma viene tutto archiviato. I suoi rapporti con la società, riconducibile secondo i magistrati ai coniugi Renzi, iniziano un bel po' di tempo fa, quando gli propongono di diventare responsabile degli automezzi della Delivery Service.

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Tale Signor Bargilli che mi propone appunto di entrare nel ruolo e le mansioni di preposto agli automezzi.

LUCA CHIANCA Bargilli diventerà persona nota quando Matteo Renzi scala il partito, perché che cosa faceva per Matteo Renzi?

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Era l'autista del camper di Renzi, ma questo l'ho appreso anche io anni dopo quando ha svolto queste mansioni.

LUCA CHIANCA Finché ti arriva una telefonata.

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Sì, una telefonata da una sedicente signora Laura Bovoli.

LUCA CHIANCA Mamma di Matteo Renzi, che ti dice che cosa?

CARLO FONTANELLI - GIORNALISTA Che la vecchia proprietà avrebbe ceduto a una nuova proprietà che aveva intenzione di confermarmi come preposto agli automezzi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si è trovato indagato con l’accusa di bancarotta semplice per una società che farebbe riferimento ai coniugi Renzi. Questo almeno secondo i magistrati fiorentini, che hanno prima indagato, poi hanno chiesto l’arresto, poi c’è stata la scarcerazione immediata da parte del Tribunale di Firenze. Ecco, il Procuratore che ha condotto le indagini è Giuseppe Creazzo, che è colui anche che è in corsa per coprire il posto lasciato vacante da Giuseppe Pignatone presso la Procura di Roma. Solo che i parlamentari Luca Lotti, Cosimo Ferri, i cinque membri del Csm, Luca Palamara puntano su un altro nome: Marcello Viola, che è Procuratore Generale della Corte d’Appello di Firenze. Nel frattempo Giuseppe Creazzo è anche oggetto di un esposto presentato presso la Procura di Genova. Questo esposto potrebbe pregiudicare la sua corsa alla Procura di Roma, ma soprattutto alimenta l’istinto bellicoso di Luca Lotti. Questo è quello che emergerebbe dalle intercettazioni, però Cosimo Ferri ci avverte: “attenzione, quello che è stato captato dai trojan sui nostri discorsi, non può essere oggetto di un procedimento penale, di un processo, perché è vietato dalla legge”. Tutto vero. Ma dal punto di vista morale? Tutti si appellano alla forma, nessuno guarda dentro i contenuti. Ecco, non siamo certo dei verginelli. Non è la prima volta che la politica cerca di condizionare la magistratura e la magistratura è stata spesso accusata del contrario. Questo perché chi detiene un potere non ama essere sottoposto a giudizio. Qui il corto circuito avviene perché ci troviamo di fronte non a una separazione di poteri ma a una convergenza di interessi di chi si sente caduto nel fango, ha reazioni scomposte e rischia anche di sporcare chi gli è vicino.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA I politici perché mettono bocca? Attenzione. Perché i politici fanno parte del CSM? Perché lo prevede la Costituzione.

LUCA CHIANCA La Costituzione non prevede che ci siano incontri fuori il CSM per decidere i capi delle procure tra politici magistrati e consiglieri del CSM, questo è il punto.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io non le faccio certe cose.

LUCA CHIANCA Però le ha fatte il suo braccio destro, è quello il punto, no?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Discutere e mettere in croce una persona che si chiama Luca Lotti…

LUCA CHIANCA Che però è l'uomo più vicino a lei fino a pochi mesi fa.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Guardi, io di Luca Lotti penso tutto il bene possibile, punto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Riavvolgendo il nastro delle conversazioni il 9 maggio 2019, pochi mesi prima, Lotti e Palamara rimangono soli e Lotti sembra anticipare in parte il piano di allargare ai moderati. Poi parlano di Matteo. LUCA CHIANCA Lotti si sfoga con te, in questo caso, parlate di come sta Matteo, Matteo da quando hanno arrestato la mamma e il papà…

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Il commento sull'indagine è umano certo, no?

LUCA CHIANCA Perfetto. Sembra un po' risentito di questa cosa. Lotti dice che lei è amareggiato da questa storia. Le ha rovinato l’immagine, ed è “fermo lì a guardare”. Questo lo dice lui a prescindere dal fatto che sono stati…

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io non ho letto le intercettazioni di Luca su questa cosa qua.

LUCA CHIANCA Però mi faccia…

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Considero che sia vergognoso che su delle intercettazioni illegittime, perché stiamo intercettando in modo illegittimo…

LUCA CHIANCA Questo lo decideranno i magistrati, i giudici…

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Questo lo dice la Costituzione che dice che non si può intercettare un parlamentare.

LUCA CHIANCA Ma le abbiamo lette su tutti i giornali. Una volta…

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA E questo le volevo dire.

LUCA CHIANCA …le pongo la questione.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Si sappia che il reato lo fa chi passa quelle cose. Bene.

LUCA CHIANCA Sono uscite su tutti i giornali, quindi io, letti i giornali, le pongo la questione.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Frutto di un reato. C’è una bellissima frase di un grande scrittore francese, quando non c’erano le intercettazioni, che diceva “datemi un paio di forbici e ghigliottinerò chiunque”. Perché? Perché è normale che tagliando e cucendo, puoi costruire quello che ti pare. Lei sta facendo un’opera di mistificazione.

LUCA CHIANCA Lotti dice “bisogna fare almeno la guerra contro Creazzo” per non farlo nominare a Roma.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM L’accordo era che, l'operazione era quella di votare Viola perché c'era il discorso che Creazzo poteva andare a Reggio Calabria. Creazzo non viene a Roma, ma a Reggio Calabria. Non lo si voleva segare brutalmente come può sembrare, no?

LUCA CHIANCA Lui parla che se la cosa è seria, bisogna andare avanti.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l’esposto è serio.

LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra come dire? L

UCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l'esposto è serio, questo è.

LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Se l'esposto è serio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lasciamo giudicare i magistrati di Genova, quello che abbiamo cercato di capire con Luca Lotti è se invece volevano utilizzarlo per altri scopi.

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Buona giornata.

LUCA CHIANCA Lei su Creazzo dice bisogna almeno fare la guerra.

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ora le auguro buona giornata.

LUCA CHIANCA Bisogna almeno fare la guerra, onorevole. C’è un esposto di Creazzo a Genova…

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ma questo guardi, c’è un punto di fondo diverso tra me e lei.

LUCA CHIANCA …che voi volete utilizzare per i vostri scopi.

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD No. Ma lei sbaglia. Ma quali scopi? Ma lei sta costruendo...

LUCA CHIANCA Vorrei chiedere quale era il vostro scopo?

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Ma non è così, non ci sono scopi.

LUCA CHIANCA Era perché il pm in questione…

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Buona giornata.

LUCA CHIANCA …aveva fatto le indagini sul papà e la mamma di Renzi?

LUCA LOTTI – DEPUTATO PD Però si deve anche fermare, perché senno non rispetta neanche il lavoro degli altri. Io rispetto il suo lavoro lei deve rispettare anche noi.

LUCA CHIANCA Ma se lo rispettasse risponderebbe alle domande.

LUCA CHIANCA Lotti, facendo riferimento a Creazzo che ha voluto quegli arresti, “bisogna” dice “bisogna almeno fare la guerra”.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Lei mette insieme dei puntini e dice “Lotti fa la guerra a Creazzo perché serve a Renzi o meglio, ai genitori di Renzi”.

LUCA CHIANCA Infatti la domanda che poi le avrei fatto è: lei sapeva?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Io sono un ragazzo… No, non sapevo, ma sono…

LUCA CHIANCA Sembra quasi una resa dei conti, no?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Bravissimo...

LUCA CHIANCA È vero o no?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Non è vero, non lo è, ma sono un ragazzo intelligente e ho capito dove lei vuole andare a parare. Lei sta facendo un'opera di mistificazione perché non sappiamo davvero se questo fosse il disegno. Se un magistrato che si chiama Mario…

LUCA CHIANCA Quando si candidano, se c’è un esposto, la candidatura decade, no?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA …attacca un altro magistrato che si chiama Paolo, lei sta forse dicendo che questo esposto lo ha scritto Lotti?

LUCA CHIANCA No, assolutamente.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Benissimo. Lei sta forse dicendo che questo esposto lo ha scritto Ferri?

LUCA CHIANCA No, assolutamente…

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Benissimo. Figuriamoci se io sto dentro alle vicende dei magistrati.

LUCA CHIANCA Sto dicendo, c’è un esposto a Genova contro Creazzo e loro ne parlano e ne discutono per capire se può essere utilizzabile per minare la credibilità del magistrato per la nomina a Roma.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Qual è la domanda? Se c'è un esposto di un magistrato contro un magistrato, ma saranno fatti loro?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello è certo, è che qualcosa nei rapporti consolidati da un decennio tra Palamara e il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, si è rotto. E tutto avrebbe inizio con l’indagine su Consip che ha visto da poco rinviato a giudizio Luca Lotti e l’archiviazione per Tiziano Renzi. L'indagine nasce a Napoli e vede protagonista il noto imprenditore Alfredo Romeo e gli appalti della Consip. Nel 2016 l'indagine viene trasferita a Roma dove l'ex braccio destro di Matteo Renzi, Luca Lotti, avrebbe rivelato dell’inchiesta in corso l’allora amministratore delegato della Consip, Luigi Marroni.

LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Lotti avrebbe avvisato Marroni che c'era un’indagine in corso con intercettazioni. Marroni capì ambientali perché Lotti fece un gesto con la mano e con il dito girando, girandolo, come per indicare che c'erano delle cimici ed altro. Il gesto fu questo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le cimici erano nell'ufficio di Marroni che a dicembre 2016 interrogato, fa il nome di Luca Lotti. A marzo Marroni viene confermato dal governo a guida Pd a capo della Consip. A Giugno però salta la sua poltrona e viene di fatto messo alla porta.

LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Allora tra marzo e giugno che cosa avviene di nuovo e perché cambia tutto?

LUCA CHIANCA Che cosa è cambiato?

LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI É cambiato che Marroni è stato risentito e ha confermato tutte le accuse. Evidentemente le persone accusate da Marroni speravano che facesse marcia indietro e ritrattasse, qualche segnalino anche a noi era arrivato. Proprio il giorno in cui Marroni va e conferma, qualcuno disse che i magistrati si attendevano e gradivano una ritrattazione, ma questo accadeva lo stesso giorno.

LUCA CHIANCA Avvocato ci dica chi è però. Sennò mandiamo messaggi ambigui

LUIGI LI GOTTI – AVVOCATO LUIGI MARRONI Ne ho parlato con i magistrati, proprio con il procuratore Pignatone e Pignatone fece un sorriso di quelli che io capivo, fece un sorriso che per me ebbe un solo significato: “lo sappiamo già che c'è stata questa manovra”.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A ottobre Lotti viene rinviato a giudizio per favoreggiamento. Era indagato per traffico di influenze anche Tiziano Renzi, ma il pm Paolo Ielo chiede l'archiviazione. Ed è di questo che Luca Palamara e Luca Lotti parlano la sera del 9 maggio 2019 mentre il trojan registra la loro conversazione. Sembra che qualcosa sia andato storto.

LUCA CHIANCA Qui tu sei molto chiaro, no? E dici: “vicenda Consip”. Fai riferimento a Pignatone e gli dici a Lotti, “tu ti sei seduto a tavola con lui, lui ha voluto parlare con Matteo, lui ha voluto fa quelle cose. Lui crea l'affidamento, mi lascia col cerino in mano, io mi brucio e loro si divertono”.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Te l'ho detto.

LUCA CHIANCA E dai spiegamela però questa.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Quello che ho detto: che si erano visti, c'erano stati

LUCA CHIANCA Ma per accordarsi sull'indagine?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Sull’indagine no, questo non l'ho detto io che si sono accordati sull'indagine, dico che c'era stato un incontro, più incontri tra di loro.

LUCA CHIANCA Tra chi?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone e Lotti, Pignatone e Renzi.

LUCA CHIANCA Tutti e tre insieme? O solo…

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Questo non te lo so dire. Io ti posso dire quello che ho visto io.

LUCA CHIANCA C’eri pure tu?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM In certe occasioni c'ero pure io.

LUCA CHIANCA In quali occasioni?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone - Lotti c'ero, sì.

LUCA CHIANCA Si incontrano e parlano di Consip?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM No, però si crea come dire, no?

LUCA CHIANCA Un rapporto che prima non c'era.

LUCA CHIANCA Palamara parla con Lotti e dice che Pignatone si è seduto a tavola con Lotti e poi ha parlato anche con lei. Questo dice.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA Il dottor Pignatone più volte io l'ho incontrato, ma le svelo un segreto - non vorrei che lei rimanesse sorpreso - io ho fatto il Presidente del Consiglio dei Ministri.

LUCA CHIANCA Sì ce lo ricordiamo.

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA E la sede di Palazzo Chigi e la città di Roma, quindi mi è capitato di incontrare il dottor Pignatone.

LUCA CHIANCA Avete mai parlato di Consip?

MATTEO RENZI – SENATORE ITALIA VIVA I casi in cui io ho parlato con il dottor Pignatone di vicende di giustizia sono stati casi in cui mi ha interrogato come testimone. Quindi “lei si è seduto con Pigantone”? Sì mi ha interrogato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In questa vicenda sono importanti le date delle indagini a carico di Lotti e Palamara coordinate dal pm di Roma Paolo Ielo. A settembre 2018, Ielo chiede il rinvio a giudizio per Lotti per la vicenda Consip. A maggio, invece, aveva inviato le carte dell'indagine su Palamara a Perugia, che è competente sui magistrati romani. A dicembre Palamara viene a sapere che c'è un'indagine a suo carico. La Finanza lo ascolta mentre parla con il collega Cesare Sirignano per favorire la nomina a capo della Procura di Perugia di un magistrato che possa aprire un fascicolo contro Paolo Ielo. Sirignano si spinge a dire che “uccidere” questa gente significa andare a mettere le pedine nei posti giusti.

LUCA CHIANCA Con Sirignano vai giù pesante, eh. A Sirignano gli dici “mettiamo uno a Perugia che apra un fascicolo su Ielo”. Lì vai giù pesante, eh. Però parli di aprire un'indagine contro Ielo.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Valutassero quello, come lo fanno per me…

LUCA CHIANCA “Come facciamo ad aprire un'indagine su Ielo”?

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Come fanno con me, come poi è successo, come mi stai vivisezionando i capelli, giusto? Allora vale per tutti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il riferimento è all'avvocato Domenico Ielo, il fratello del magistrato Paolo Ielo che lavora da 20 anni come consulente anche per l'Eni. Il magistrato quando viene a sapere delle consulenze del fratello, chiede di astenersi dai procedimenti in corso che lo legano all'ex avvocato dell'Eni Piero Amara. In Procura a Roma inizia un conflitto insanabile sulla gestione degli indagati tra il capo Pignatone e Stefano Rocco Fava, uno dei magistrati che lavorano con Ielo sull'inchiesta Amara. Fava ne parla con Palamara, e Palamara ne parla con Ferri e Lotti. Il 21 maggio l’ex braccio destro di Renzi, Lotti, sostiene di aver ricevuto dal top manager di Eni, De Scalzi, carte sul fratello di Ielo che potrebbero tornare utili per delegittimare il magistrato.

LUCA CHIANCA Lei dice “la carta dell'Eni, De Scalzi me l'ha consegnata la settimana scorsa”.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Ci risiamo? Ancora un’altra volta? Abbiamo già risposto su questo.

LUCA CHIANCA Risponda a me, non risponda agli altri, risponda a me, la prego dobbiamo fare un'operazione trasparenza con lei.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD E la facciamo scrivendogli punto su punto, quello che lei ci ha chiesto. Oggi le rispondiamo.

LUCA CHIANCA Ma risponda qui davanti alla telecamera, siamo io e lei.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Sta citando cose che sono in corso sulle quali non le voglio rispondere. Basta, non c’è altro.

LUCA CHIANCA Mi spieghi perché lei chiedeva informazioni sul fratello di Paolo Ielo….

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Ma non è così, lo dice lei. Ma lo dice lei.

LUCA CHIANCA …magistrato che l'ha indagata e l’ha rinviata a giudizio a Roma.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Sta sbagliando.

LUCA CHIANCA Le dice lei queste cose, le dice lei. “La carta dell’Eni”…

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD I processi si fanno nelle aule non per strada provando a raccontare qualcosa che non è vero.

LUCA CHIANCA Palamara mi conferma la stessa identica cosa, che lei ha detto a Palamara la stessa cosa che le sto riportando.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD Io non so se ha parlato con Palamara, le auguro di averlo fatto però non funziona così. Lei non può costruire una cosa…

LUCA CHIANCA Ma non è che costruisco: faccio le mie verifiche.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD …sulla base delle intercettazioni, che non so nemmeno quanto siano legittime o meno.

LUCA CHIANCA E che vengono confermate da Palamara.

LUCA LOTTI – DEPUTATO DEL PD E farete un bel servizio con Palamara e l'intervista di Palamara”.

LUCA CHIANCA Lui dice “Descalzi mi ha dato le carte, me l'ha consegnata la settimana scorsa.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Quello che ha detto nell'intercettazione c'è, è proprio quella, c'è l'audio lì basta richiedere l'audio quello che ha detto, ha detto, non è che…

LUCA CHIANCA Tu non sapevi se millantasse se era accreditato.

LUCA PALAMARA Questo è come le cose che ci siamo detti in tutte le cene. Non mettevo in dubbio dati i rapporti che si erano creati,che uno dicesse cazzate all'altro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Dati i rapporti che si erano creati non avevo motivo di pensare che ci dicessimo delle bugie”, per usare un eufemismo. Palamara è convinto della sincerità dei discorsi, dei dialoghi, perché non c’è miglior amico di chi hai reso tuo complice. Sono tutti sulla stessa barca, il salvataggio di uno implica quello dell’altro. In alternativa “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Sono anche benvenuti degli schizzi di fango che possono colpire chi sta indagando su di te. Qualcuno, a detta delle intercettazioni che sono state pubblicate e confermate anche da Palamara, quei dialoghi che ha riportato, quelli con Lotti, sarebbero state le carte che l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, avrebbe fornito a Lotti riguardanti il fratello avvocato, il pm Paolo Ielo. Eni ci ha scritto e smentisce in modo categorico che Descalzi abbia consegnato al dottor Lotti documentazione relativa all’avvocato Domenico Ielo, fratello di Paolo. Lo stesso Lotti poi ha smentito i suoi dialoghi intercettati. Insomma, delle due l’una. O Lotti millantava o le carte gliele potrebbe aver fornite qualcun altro. Insomma, comunque il procuratore aggiunto Paolo Ielo aveva informato il suo ufficio responsabile sull’eventuale incompatibilità, che non è stata poi rilevata. E anche il Procuratore Capo Giuseppe Pignatone è finito oggetto di un esposto. L’ha presentato un suo sostituto, Stefano Fava. Aveva sollevato un problema di incompatibilità per quello che riguardava un indagato dalla Procura di Roma: l’inchiesta su Piero Amara, ex avvocato dell’Eni. Secondo Fava Piero Amara avrebbe offerto un contratto di consulenza al fratello avvocato di Pignatone, Roberto. Ecco, abbiamo verificato. È stato veramente offerto questo contratto di consulenza, ma nel 2014 e, particolare non trascurabile, è stato rifiutato. E quindi non esisteva la possibilità di una incompatibilità, anche perché l’inchiesta su Amara Ielo e Pignatone l’hanno aperta ben tre anni dopo. Tuttavia quell'esposto poteva diventare un’arma, benché spuntata, nelle mani di chi voleva cambiare l’equilibrio all’interno della Procura di Roma. Finisce la patata bollente nelle mani del membro laico del Csm Lanzi, che è anche il Presidente della commissione che deve giudicare sulla bontà dell'esposto.

LUCA CHIANCA A leggere quello che si dicono fra loro i protagonisti della storia, enormi ritardi, l’esposto non va avanti, qui la bloccano sta cosa, se uscisse fuori Palamara sarebbe quasi salvo.

ALESSIO LANZI – CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO No, aspetti, aspetti. Allora. Questo è il desideratum di uno che confidava molto che l'esposto gli salvasse la situazione, chi se ne importa insomma, ma non esistono pratiche, esposti risolti in un mese.

LUCA CHIANCA Mi perdoni dottore, proprio se insisto su questa cosa. Io non capisco il vostro interesse a velocizzare un procedimento, un esposto contro il capo di una procura quella romana che andrà in pensione da lì a qualche mese. Qual è l'interesse?

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Non si trattava di velocizzare, si trattava di fare in modo che il Csm rispettasse le regole. Quando arriva un esposto in prima Commissione…

LUCA CHIANCA Però la domanda è: ma a lei che interessa sta roba?

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Se c’è praticamente un qualcosa che riguarda l’ufficio è anche interesse di un magistrato che fa parte dell'ufficio che sia fatta piena luce e che la procura ne esca con l'immagine tranquilla e pulita all'esterno.

LUCA CHIANCA Lotti, Palamara, Ferri parlano e ad un certo punto dicono che al posto di Ielo ci vorrebbe una persona di fiducia e individuano lei.

ANGELANTONIO RACANELLI – EX SEGRETARIO MAGISTRATURA INDIPENDENTE Ah, questo non lo so non so. Non so da dove risulta questa intercettazione, non sono in grado di dirle perché non conosco questo tipo di intercettazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sono passati 4 mesi dallo scandalo che ha coinvolto il CSM. Vengono eletti due nuovi membri al posto di quelli sospesi; il vice presidente del Csm David Ermini dà il benvenuto ai nuovi colleghi.

ROMA 10 OTTOBRE 2019 PLENUM CSM DAVID ERMINI – VICEPRESIDENTE CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Io mi voglio ricordare, ma voglio ricordare, il Consiglio Superiore non è un piccolo parlamento. I consiglieri eletti non hanno e non devono avere un rapporto fiduciario con le correnti o con i gruppi parlamentari - parlo per i non togati - che li hanno espressi. Nel momento in cui noi entriamo a far parte del Consiglio Superiore non ci sono più le casacche di appartenenza.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Di diverso avviso Luca Lotti. Si lamenta con Palamara del fatto che Ermini, forse temendo di finire nelle intercettazioni, non gli risponde più. Lotti scrive al vice presidente del CSM un sms che sa di rivendicazione: “Davide io non sono un senatore qualunque che ti scrive messaggi senza di me non eri lì punto …rispondi punto!” Sui rapporti tra politica e Csm spunta anche il nome di Lanzi, membro laico in quota Forza Italia che secondo Palamara dovrebbe essere avvicinato dalla Casellati, la presidente del Senato, per votare il loro nome a capo della procura di Roma.

LUCA CHIANCA Avete mai parlato delle nomine della Procura di Roma?

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO No, assolutamente no.

LUCA CHIANCA Ne parlano sempre Lotti e Palamara.

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO Della Casellati?

LUCA CHIANCA Sì, deve lavorare su di lei.

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO Se questa fosse un'indicazione è destituita da ogni fondamento.

LUCA CHIANCA Tra l’altro dicono anche lei è già stato fregato dal gruppo.

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO E allora vede quando ci fu la nomina del vicepresidente per curriculum avevo tutte le caratteristiche per poterlo diventare e poi sembra che gli accordi fra Palamara, Ferri e Lotti abbiamo portato ad un'altra designazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quella di David Ermini, ex Responsabile nazionale della Giustizia del Pd, al posto di un altro big del partito Giovanni Legnini e definita dallo stesso Palamara “la vittoria più bella del renzismo”.

LUCA CHIANCA Non è un po' esagerato? Aprire una porta e trovarsi dall'altra parte.

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE CSM MEMBRO LAICO È stata fatta un'altra scelta, evidentemente sono state scelte…

LUCA CHIANCA...politiche. Politiche nel senso proprio di mettere un politico, un proprio uomo lì dentro.

ALESSIO LANZI - CONSIGLIERE LAICO CSM Può essere. Come è sempre stato nel Csm negli anni passati, eh. Intendiamoci.

ROMA 21 GIUGNO 2019 PLENUM CSM SERGIO MATTARELLA - PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Quel che è emerso nell’incontro di un’inchiesta giudiziaria ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile. Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l'autorevolezza non soltanto di questo Consiglio, ma anche il prestigio e l'autorevolezza dell'intero Ordine Giudiziario.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il Presidente Mattarella è il primo capo dello Stato che si trova costretto a condannare uno scandalo senza precedenti durante il plenum al Csm. Poco più in là, alla sua sinistra c'è il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, amico di Palamara. Ironia della sorte, firma le carte per i procedimenti contro i consiglieri coinvolti nello scandalo, ma lascia l’incarico solo a luglio quando si apprende che era indagato anche lui per rivelazione di segreto d’ufficio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Rivelazione di segreto d’ufficio. Ecco, di questo è stato accusato Fuzio, il quale avrebbe rivelato particolari sullo stato dell’indagine a Palamara. Però il Procuratore generale della Cassazione dice, si difende: “ma io non ho detto nulla di nuovo a Palamara, nulla che già non sapesse”. Ecco, a completare il quadro, sconcertante, così l’ha definito Mattarella, il Presidente della Repubblica, c’è anche il fatto che cinque membri del Csm si sono dovuti dimettere. Uno, Luigi Spina, è anche indagato per rivelazione, anche lui, di segreto d’ufficio. Poi c’è anche l’accusa di favoreggiamento per il sostituto Stefano Fava. Poi c’è l’accusa di corruzione, sempre presso la Procura di Perugia, nei confronti dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara. Gli sarebbero state pagate delle cene, dei viaggi anche all’interno di una spa. Avrebbero vissuto sette anni nel lusso pagati da un “piccoletto”. Questo emergerebbe dalle intercettazioni. Chi è il piccoletto? È Fabrizio Centofanti, responsabile delle relazioni istituzionali, ex responsabile di Francesco Bellavista Caltagirone. È stato soprattutto anche il titolare della Cosmec, una società che organizzava eventi per la magistratura. Questo nella facciata nobile. Poi in quella promiscua, invece, serviva a fare lobby. Perché Centofanti è soprattutto l’uomo, l’anello di congiunzione tra magistrati e il sistema di Piero Amara, ex avvocato dell’Eni, che è accusato di essere al centro di un sistema di corruzione per condizionare le sentenze e i processi. Ma per fortuna ci sono gli anticorpi. Luca è sceso giù, là dove tutto è cominciato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Bisogna tornare in Sicilia da dove siamo partiti lo scorso anno per raccontare il “sistema Amara”, dal nome dell'avvocato che l'ha di fatto messo in piedi insieme al suo collega Giuseppe Calafiore con il pm Longo di Siracusa. Un sistema corruttivo per aggiustare processi e sentenze che ha minato le fondamenta della magistratura italiana. Indagini che hanno coinvolto diverse procure, ma che partono da quella di Siracusa dove 8 giovani magistrati hanno avuto il coraggio di denunciare.

MARCO BISOGNI – MAGISTRATO Ci sono stati magistrati che si sono fatti avvicinare si può dire ormai, anche corrompere, da alcuni faccendieri e colletti bianchi e magistrati che hanno provato a resistere a questa attività.

LUCA CHIANCA Ed è proprio a causa del sistema Amara che iniziano i suoi problemi.

MARCO BISOGNI – MAGISTRATO Io ho ricevuto 12 esposti dall'avvocato Amara e dall'avvocato Calafiore rivolti alle più varie autorità. Mi hanno citato per danni per 8 milioni di euro e hanno prodotto nel corso del giudizio una consulenza che poi si è scoperta con le indagini di Messina essere stata pagata 30 mila al collega Longo.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Quando mi hanno arrestato nel corso dell’indagine io ero convinto che avrei fermato questa indagine dato il mio livello relazionale così importante.

LUCA CHIANCA Lei avverte Calafiore qualche giorno prima degli arresti, “game over” gli scrive un messaggino no?

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Io gli scrivo game over, sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Amara e Centofanti prima del loro arresto, condividono alcune società e lo studio a Roma in Via Puglia 23. Mentre i magistrati romani stanno indagando su di loro, spuntano viaggi, pagamenti e prenotazioni nella spa di Fonteverde in Toscana, Madonna di Campiglio, Favignana e Dubai, tra Centofanti e Luca Palamara. Ad avvisarlo, secondo la ricostruzione di Palamara, è proprio l'ex capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone con il quale fino a poco tempo prima, condivideva un intenso rapporto d'amicizia.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM Pignatone mi dice: con chi sei stato a dormire a Fonteverde, fuori? L'accertamento riguarda due notti, una a febbraio dove c'è scritto “ognuno paga per sé”, una a marzo, una notte, 350 euro, dove la Finanza dice che “la ricevuta di quella notte viene rilasciata a Centofanti”. Poi Madonna di Campiglio. Madonna di Campiglio è nel 2011 mi contestano che mia sorella è andata con Centofanti; poi una mia vacanza del 2014 con la mia famiglia, io bonifico 4700, ho bonificato, sconto del 30%, la Finanza dice che l’albergatore dice che il residuo l'ha messo Centofanti.

LUCA CHIANCA Poi c'è Favignana.

LUCA PALAMARA Favignana 400 euro, 400.

LUCA CHIANCA E Dubai.

LUCA PALAMARA E Dubai, pagamento del biglietto con la mia carta di credito, mia. E l'albergo gli dico “non me la caricare a me, caricatela te poi dopo facciamo i conti”.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fabrizio Centofanti è stato un brillante funzionario dell'Ufficio Stampa dell'Esercito Italiano, poi in Croce Rossa e fino a pochi anni, fa nelle relazioni istituzionali di Acquamarcia di Francesco Bellavista Caltagirone. Poi, si mette in proprio e con la società Cosmec inizia a organizzare convegni per la magistratura. Umberto Croppi, accusato nell'inchiesta romana di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, era a capo della società di eventi.

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC L'ultima cosa che abbiamo fatto proprio la settimana dopo l'avvenuto arresto di Centofanti, era un convegno al Plaza con tutti i vertici di tutte le magistrature con la partecipazione del ministro della Giustizia e con il patronato della Presidenza della Repubblica.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La società Cosmec è controllata da un'omonima associazione presieduta da una ex consigliera di Stato e un comitato scientifico composto da un giurista e altri due magistrati.

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC La società organizzava come service congressi per conto di alcuni organi della magistratura.

LUCA CHIANCA Per esempio?

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Per esempio il consiglio superiore della magistratura, quello della magistratura contabile.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dalle carte dell'indagine risultano viaggi a Dubai anche con il pm Longo di Siracusa amico di Calafiore e Amara, rapporti strettissimi con Luca Palamara, ma anche con il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone.

LUCA PALAMARA – EX CONSIGLIERE CSM La frequentazione con Centofanti è una frequentazione che io faccio normalmente con altri miei colleghi e quando c'è il periodo dell'arrivo di Pignatone a Roma nel 2012 per un periodo c'era una frequentazione anche con le mogli con Pignatone e il presidente della Corte dei Conti Squitieri.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Cosmec di Centofanti compra un quadro per 312 mila euro. E Secondo questo documento dell'unità informativa di Banca d'Italia ben 262mila finiscono nelle tasche di un giudice civile del tribunale di Roma, Massimiliana Battagliese.

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Io non ne so nulla. Io non me lo sono trovato neanche nel patrimonio della società, quindi non glielo so dire.

LUCA CHIANCA Però è anomalo no? Strano quanto meno.

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Come è entrato dev'essere anche uscito.

LUCA CHIANCA Lei non...

UMBERTO CROPPI – EX PRESIDENTE COSMEC Proprio non ne so nulla.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Beatrice Sciarra, figlia del proprietario delle storiche vetrerie di San Lorenzo a Roma, entra nel mondo di Fabrizio Centofanti attraverso il suo ex compagno, già consigliere di Stato e a Catania inaugurerà una mostra di pittura.

BEATRICE SCIARRA Qui ho avuto l'incarico di organizzare le mostre itineranti nei quattro alberghi Acquamarcia in Sicilia, tra i più belli d'Italia e penso di Europa.

LUCA CHIANCA Caratteristica di questi eventi è proprio la partecipazione di magistrati.

BEATRICE SCIARRA E c'erano moltissimi giudici, consiglieri, presidenti, un livello altissimo.

LUCA CHIANCA Quello che mi è meno chiaro è il ruolo di Centofanti.

BEATRICE SCIARRA Probabilmente per un'amicizia molto forte che aveva con molti di loro. Una volta ci ospitò anche casa sua ad Artena e c'erano solo alti magistrati.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Centofanti nel 2013 dà una mano per la prima campagna elettorale alla presidenza della regione Lazio di Nicola Zingaretti in questo palazzo in via delle Botteghe Oscure.

LUCA CHIANCA I rapporti tra Centofanti e Zingaretti?

BEATRICE SCIARRA Si conoscevano.

LUCA CHIANCA Cioè ha sostenuto pubblicamente la campagna elettorale?

BEATRICE SCIARRA Lui c'ha invitato sicuramente quella sera eravamo invitati da lui.

LUCA CHIANCA Da Centofanti?

BEATRICE SCIARRA Sì. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Centofanti, mille rapporti. A causa di alcune consulenze che avrebbe pagato Centofanti ad uomini vicini al governatore del Lazio Nicola Zingaretti, è finito anche lui sotto indagine. L’accusa, l’ipotesi è finanziamento illecito, ma gli stessi pm hanno chiesto l’archiviazione. Vedremo come va a finire. Invece per quello che riguarda i rapporti di cui parla Palamara tra Centofanti e l’ex Procuratore Capo Pignatone, Pignatone ci scrive: «se ci sono fatti di reato, la sede competente a esaminarli è l’Autorità Giudiziaria di Perugia. Se invece c'è la volontà di confondere tutto e tutti in una nuvola di polvere e fango, io sono del tutto estraneo a questo gioco, anzi ne sono la vittima». Del resto Pignatone aveva informato sulla natura dei suoi rapporti con Centofanti il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Roma, come vuole la legge, e aveva ritenuto, il Procuratore, con un provvedimento formale, che non esistevano motivi di incompatibilità, di astensione. Ecco, e poi del resto alla fine della partita, con Pignatone a capo della Procura di Roma, a testimonianza che al di là delle frequentazioni, delle amicizie, delle correnti, la qualità e l’indipendenza delle istituzioni vengono determinate dalla qualità, l’indipendenza degli uomini: Fabrizio Centofanti è stato indagato per corruzione, bancarotta e frode fiscale e, per lo stesso reato, in un altro procedimento, è stato chiesto il rinvio a giudizio. Lotti invece è stato rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento per l’affaire Consip. Lotti, ci perdoni un po’ la frase, è un po’ come il prezzemolino.

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Io avevo rapporti ottimi con Lotti.

LUCA CHIANCA Lei è stato anche un sostenitore anche al livello economico del Partito Democratico, di Renzi, di Lotti.

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Ho fatto tutta una serie di iniziative, erano legate alle cene, a queste cose qua.

LUCA CHIANCA Cioè, non ha dato soldi, ma dava una mano?

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Tanta mano, spendevo tante ore del mio tempo dietro le loro cose.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Delle amicizie di Andrea Bacci con la famiglia Renzi e Luca Lotti, ci aveva parlato Piero Amara, che con l'imprenditore fiorentino tenta alcune operazioni commerciali con l'Eni per rifornire con l’olio di palma le raffinerie green.

PIERO AMARA Quindi lei capisce che se riesce a rifornire tutte le raffinerie in Italia è una cosa molto molto importante; una cosa a cui teneva molto Bacci, a cui teneva Luca Lotti.

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE L’olio di palma era una cosa meravigliosa. Questo me ne parlò coso, me ne parlò Amara.

LUCA CHIANCA Però ha fatto riunioni con l’Eni, con qualcuno dell'Eni?

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Ho fatto riunione con uno dell'Eni perché c'era questa ditta di Prato che voleva comprare delle palline di polistirolo che venivano dai residui del petrolio.

LUCA CHIANCA Con Versalis?

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Esatto.

LUCA CHIANCA Dove si è un po’ anche scaldato, no?

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Li ho mandati a fanculo, mi prendevano in giro, scusi.

LUCA CHIANCA Però lì non c'era appunto stato un interesse da parte di Lotti, di Amara.

ANDREA BACCI - IMPRENDITORE Io ho chiesto a Lotti se c'era verso di parlare con l'Eni, per comprare questa materia prima, mi segui? Per comprare - Mi segui? - ma non a un prezzo di favore; per comprare. E lui mi disse “boh, non lo so”. Dice “io con l'Eni parlo sempre con Granata”. Lotti, io sono andato a chiedere mi disse io parlo sempre con un certo Granata.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Claudio Granata è il responsabile Relazioni Istituzionali di Eni, braccio destro di Claudio Descalzi ed è l'uomo di riferimento di Amara in Eni. Oltre all'olio di palma, quindi tentano anche un'altra operazione con la società di Eni Versalis, per l'acquisto di polipropilene.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Granata parlava con me, io riferivo a Lotti e rappresentai l’opportunità che si assecondassero i desiderata dei fiorentini; c’era il problema di una certificazione che il Granata promise a Lotti di risolvere, vi fu - così almeno mi fu riferito -, una riunione tra l’altro anche drammatica in Versalis, in cui Bacci disse “il governo vi impone di fare questa cosa qui”, poi Claudio mi scrisse un messaggio “no, questi sono pazzi, io non posso passare i guai, insomma…”

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Gli affari di Bacci con Eni non vanno in porto. Lotti ha detto ai magistrati di aver incontrato Amara solo una volta intorno al 2015. La versione di Amara è diversa: parla di più incontri e di comunicazioni riservate attraverso app di messaggistica criptate.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Tipo Silent, Wickr, Telegram attraverso cui noi comunicavamo anche in tempo reale, cioè non c’è l’esigenza di...

LUCA CHIANCA Sempre con Lotti?

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI No, questo con tutti: Lotti, Granata, Bacci.

LUCA CHIANCA Senta, ma è normale che lei avesse questi rapporti con Lotti che era un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio?

PIERO AMARA Avevo un rapporto prefere… confidenziale, avevo titolo per poter parlare con loro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eni ci scrive e conferma che “Andrea Bacci chiese un incontro preliminare con la direzione dell’azienda chimica Versalis, che peraltro fu interrotto su iniziativa dello stesso Claudio Granata”. Ma dice anche che “l’incontro non ebbe origine da Amara.” Con la Procura di Roma l’avvocato Amara ha patteggiato una pena di 3 anni per l’accusa di corruzione e frode fiscale. A Messina ha patteggiato un anno e due mesi sempre per corruzione, a Milano invece è indagato nei panni di ex avvocato Eni per aver costituito, inventato, un falso complotto ai danni di Descalzi, per schermarlo dalle accuse ben più gravi di presunte tangenti in Nigeria. Amara, che è al centro di un sistema corruttivo teso a condizionare l’esito delle sentenze, è potuto penetrare nel ventre molle della giustizia perché è stato fiaccato da decenni di correnti e dall’avidità. Ma è possibile immaginare un mondo, una magistratura indipendente, senza le correnti? Oggi sono diventate la cruna dell’ago dove un magistrato deve passare per fare carriera. Hanno mortificato la meritocrazia, l’indipendenza da dentro. Insomma, noi siamo concreti e pensiamo che è impossibile la magistratura senza correnti perché appartiene alla debolezza umana, quella di cercare di aggregarsi e di gestire il potere. Se correnti devono essere, che almeno servano a pulire dalle mele marce, non che diventino lo strumento di qualche mela marcia. Altrimenti assistiamo allo spettacolo indecente che abbiamo visto, quello dove la giustizia viene considerata roba loro. Ora, al di là del tono che trapela dalle intercettazioni, intercettazioni che i politici dicono “non potete usare per rispetto della legge”, che poi invece quella è la stessa legge che chiedono di rispettare, la mortificano dall’interno, mortificando un istituto, la giustizia, mortificando anche il valore della toga che i cittadini idealizzano come fosse un saio di un sacerdozio civile. Secondo Giovanni Falcone, che ha lanciato un monito prima di morire, «confondere la politica con la giustizia penale in un Paese che pretende di essere la culla del diritto, si rischia invece di farla diventare la tomba». 

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2021. L'errore più grande di Matteo Renzi sulla giustizia? Scegliere le persone sbagliate nei posti di responsabilità. Ad esempio, gli ultimi due componenti laici del Consiglio superiore della magistratura in quota Pd, nell'ordine Giovanni Legnini e David Ermini. L'ex rottamatore, che ieri ha però incassato l'assoluzione di sua madre dall'accusa di bancarotta nel processo in corso a Cuneo, ha parole molto dure per entrambi, attribuendogli di fatto molte delle vicissitudini giudiziarie che lo vedono coinvolto da tempo. Legnini, esponente di primo piano dei dem in Abruzzo dove si candidò anche a governatore, avrebbe «concorso a decidere ogni singola nomina attraverso il meccanismo della lottizzazione delle correnti». Ermini, invece, sarebbe stato preferito a concorrenti più blasonati, come il costituzionalista Massimo Luciani, ultimamente incaricato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia di scrivere la riforma del Csm. Renzi ricorda poi, senza entrare nello specifico, la scelta della Banca popolare di Bari da parte di Legnini come banca per gestire la cassa milionaria del Csm. Una scelta che aveva sorpreso un po' tutti gli addetti ai lavori del mondo della finanza e che merita di essere raccontata. Il Csm aveva pubblicato il bando per l'affidamento del suo servizio di tesoreria il 7 agosto del 2015 con scadenza per la presentazione delle domande il successivo 16 agosto. L'unico requisito richiesto era l'offerta «più vantaggiosa». Bpb, con solo cinque sedi in tutto il centro Italia, offrendo anche ai magistrati del Csm mutui scontatissimi e prestiti a tassi irrisori, vinse a mani basse, superando colossi come Intesa o Unicredit. Se fossero stati richiesti, invece dei mutui scontatissimi, altri indicatori, tipo la solidità finanziaria, si sarebbe scoperto che nel 2010 la Banca d'Italia aveva evidenziato a carico di Bpb «carenze nell'organizzazione e nei controlli interni sul credito». Pur a fronte di tali carenze Bpb nel 2014 aveva acquisito la Cassa di risparmio di Teramo (Tercas), con la partecipazione per 330 milioni del Fondo interbancario di tutela dei depositi, al quale si era opposta la Commissione europea ritenendolo un aiuto di Stato. Nel 2015, anno in cui iniziò a gestire le risorse dei magistrati, le azioni di Bpb divennero carta straccia. E nel 2016 un'altra ispezione della Banca d'Italia rilevò «significativi ritardi rispetto agli obiettivi prefissati» e, nuovamente, «l'esigenza di rafforzamento nel sistema dei controlli sui crediti». Nel 2017 partì, allora, l'ultimatum da via Nazionale per un aumento di capitale al fine di impedire il fallimento della banca. Il 2018 si chiuse con un rosso record, oltre 430 milioni, per il sistema bancario italiano. Nel 2019 ci fu, infine, l'ennesima visita degli ispettori della Banca d'Italia con la sentenza di "morte". «Si segnala scrissero gli ispettori - l'incapacità della governance di adottare le misure correttive per riequilibrare la situazione patrimoniale. Le gravi perdite portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari». Il commissariamento chiuse così l'avventura di Bpb e il governo Conte dovette stanziare 900 milioni per il suo salvataggio. Nel 2016 a carico di Bpb, per non farsi mancare nulla, venne aperto dalla Procura di Bari un fascicolo per associazione a delinquere, truffa, ostacolo alla vigilanza, false dichiarazioni in prospetto. Fra gli indagati il presidente Marco Jacobini, poi arrestato, e l'amministratore delegato Vincenzo De Bustis. Questo quadro giudiziario poco idilliaco, però, non impedì a Bpb di continuare a gestire i soldi del Csm e di sponsorizzare i convegni dei magistrati. Nel settembre del 2017, a Pescara, Bpb sponsorizzò infatti un maxi incontro organizzato dalle toghe di sinistra dal titolo «Dialoghi sulle Procure». In prima fila, oltre a Legnini, tutto il gotha di Magistratura democratica, dall'attuale procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi al procuratore di Milano Francesco Greco, magistrato quest' ultimo molto esperto proprio di reati finanziari. Ieri sera, intanto, Renzi ha dato la notizia dell'assoluzione della madre Laura Bovoli su Facebook: «Mia mamma oggi assolta dopo anni di indagini e processi dall'accusa di bancarotta a Cuneo. Perché? Perché il fatto non sussiste. La verità arriva, prima o poi. Tante sofferenze ma poi arriva. Continuino ad attaccarmi, non mollo. E soprattutto: ti voglio bene, mamma. Scusami se hai dovuto subire tutto questo per colpa mia».

Dagospia il 17 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Legnini. Caro Dago, a proposito dell'articolo a firma di Paolo Ferrari su Libero, che hai pubblicato oggi, da lettore e per amore di verità vorrei precisare alcune cose. Il pezzo contiene diverse dichiarazioni del Senatore Matteo Renzi su cui vale la pena soffermarsi. Sulla vicenda della tesoreria del Csm affidata nel 2015 alla Banca Popolare di Bari occorre ricordare che fu affidata con gara pubblica europea, interamente gestita dalla struttura del Consiglio, e aggiudicata da una commissione di gara. Il Vice Presidente non aveva nessuna competenza trattandosi di atto di gestione amministrativa.  Inoltre è bene dire che nessun pregiudizio ha subito il Consiglio dalla gestione della tesoreria da parte di una banca andata in dissesto anni dopo la stipula del contratto. Non si comprende, quindi, come a distanza di sei anni e dopo che la vicenda è stata oggetto di chiarimenti in ogni sede, ciò possa costituire oggetto di critica. Quanto al resto delle dichiarazioni bisogna ricordare che durante i quattro anni del mio mandato, ho ripetutamente e pubblicamente preso posizione e agito contro le degenerazioni correntizie nella magistratura, garantendo imparzialità e attenendomi al rispetto scrupoloso delle regole. A conferma del mio operato è sufficiente sottolineare che dopo anni di indagini su diversi soggetti, anche interni al Csm, portate avanti dalla magistratura, peraltro utilizzando strumenti molto invasivi, nessun mio comportamento, non dico illecito ma neanche semplicemente scorretto, è stato oggetto di rilievo o attenzione da parte degli inquirenti. Le altre considerazioni appartengono alle opinioni del Senatore Renzi e come tali possono essere valutate da ciascun lettore. Cordialmente, ti saluto, Giovanni Legnini

Renzi: “Bonafede? Il peggior ministro: è sua la colpa dello scandalo Capua Vetere”. L'affondo del leader di Italia Viva: "Ritengo Conte, Bonafede e Basentini responsabili delle violenze in carcere. La riforma Cartabia? Avremmo fatto diversamente ma è un passo avanti". Il Dubbio il 14 luglio 2021. «Dobbiamo prender atto che qualcosa deve profondamente modificarsi, arrivo di Bonafede non è stato positivo, è stato uno dei peggiori ministri, lo volevamo mandare a casa, ma ci siamo fermati per rispetto di Conte». Non si risparmia Matteo Renzi nel suo intervento alla Camera in occasione della presentazione del suo libro “Controcorrente”, edito da Piemme: «Non siamo ancora a livello di Rocco Casalino che aveva superato Obama, ma il volume nelle prevendite sta andando bene». «Ritengo Conte, Bonafede e Basentini i responsabili italiani del più grande scandalo avvenuto negli ultimi anni, ovvero quello che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere e in altre carceri», accusa ancora il leader di Italia Viva intestandosi “l’operazione Draghi”: «Sei mesi fa l’operazione fatta con il cambio del governo è stata un mezzo miracolo. L’obiettivo del libro è dire ai ragazzi di non fidarsi della montagna montante dei social ma di andare oltre, controcorrente appunto». Quindi l’affondo sulla riforma del processo penale.  «La riforma Cartabia? Magistratura e politica sono in guerra dal 1992, è un dato di fatto, c’è tensione che spero possa essere risolta nella fine della “guerra dei trenta anni”», prosegue Renzi. «È un grande passo in avanti – aggiunge – bisogna prendere atto che la questione giudiziaria nasce prima del 1992, Enzo Tortora è precedente. Spero si possa arrivare alla fine del conflitto con l’elezione del Csm, questione su cui faccio autocritica nel libro». «Credo che la legge Bonafede sulla prescrizione sia uno scandalo, i responsabili sono i grillini ei leghisti. Noi l’avremmo cambiata in modo diverso, la proposta del governo non è quella che avremmo voluto noi ma va nel senso che abbiamo auspicato. Ho visto che Conte nella sua nuova veste ha aperto ad una discussione in Parlamento, ci troverà lì», chiosa l’ex premier. Sui referendum di Lega e radicali Renzi fa sapere che «non abbiamo ancora deciso, stiamo valutando».  «Il fatto che sia un referendum portato dai radicali – spiega – mi porta a dire che sia un referendum interessante. Naturalmente ci sono degli aspetti, in quei quesiti, anche discutibili».

Renzi: libro Controcorrente, nel 2019 i pm andarono all’assalto di chi finanziava la Leopolda. Le dure accuse dell'ex premier. Firenze Post.it il 15/7/2021. «Nel novembre 2019 il procuratore Turco va all’assalto di chi finanzia – in modo trasparente, lecito e rendicontato – iniziative politiche come la Leopolda, che la fondazione Open organizza ogni anno. Alle sei del mattino, decine di finanziatori non indagati, vengono svegliati con un blitz da centinaia di uomini della Guardia di Finanza. Centinaia di finanzieri, per un costo esagerato che tanto paga il contribuente. Il messaggio è chiaro: voi avete finanziato la Leopolda di Renzi? E adesso noi vi entriamo in casa al mattino, vi rovesciamo i cassetti e andiamo a spulciarvi il telefonino che vi sequestriamo. E cosa c’entra il telefonino con un bonifico la cui copia è semplicemente ottenibile in banca? Nulla». Lo scrive il leader di Italia Viva Matteo Renzi in un capitolo del suo nuovo libro “Controcorrente” (Piemme). «Per mesi i telefonini, con i messaggi privati, le foto private, i dati privati restano nelle mani degli inquirenti. Il Pm Turco, nel silenzio impaurito dei commentatori, prende i telefonini dei non indagati finanziatori della Leopolda con l’unico obiettivo di avere più informazioni su di loro. E su di me – continua Renzi. Non sta cercando prove, sta cercando reati. E questa frase non la dico io, la dice mesi dopo la Corte di Cassazione che dà quattro volte torto al pubblico ministero fiorentino. Sono parole che dovrebbero far arrossire di vergogna gli inquirenti quelle che la Suprema Corte mette per iscritto nell’annullare le ordinanze di sequestro: un inutile “sacrificio di diritti”, con un sequestro “onnivoro e invasivo”, “asimmetrico”, “che finisce per assumere una non consentita funzione esplorativa”. Il sequestro insomma sacrifica i diritti di un cittadino per andare a cercare altri reati. Con centinaia di finanzieri che al mattino vengono inviati a sequestrare telefonini di persone per bene, nemmeno indagate, ma a cui viene dato il messaggio: “State lontani da Renzi”. Ma non ci rendiamo conto che in questo stile – contestato dalla Corte di Cassazione, non dalle chiacchiere del bar – c’è una fortissima invasione di campo della magistratura nella sfera politica? Chi tocca Renzi rischia, chi finanzia iniziative cui lui partecipa rischia ancora di più. I cittadini finanziatori hanno reazioni diverse. Qualcuno smette anche di parlarmi. Molti soffrono la violazione della privacy in silenzio. Altri sono indignati e consolano me quando io non trovo le parole per scusarmi con loro. Uno mi scriverà dopo mesi: “Ti chiedo scusa se in questi mesi ti ho evitato. Ma quando ho visto i finanzieri aprire i cassetti di camera mia mi sono sentito come violentato. E ho pensato che tu avessi combinato chissà che cosa”».

Doppia inchiesta su Renzi dopo gli attacchi alle toghe. Lodovica Bulian e Fabrizio De Feo il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Offensiva contro l'ex premier tra Roma (false fatture) e Firenze (l'evento di Abu Dhabi). "Nulla da nascondere". È il giorno della presentazione di «Controcorrente», il libro in cui Matteo Renzi, il «Demolition Man» della politica italiana, vuole «togliersi molti sassolini dalla scarpa». Un volume in cui esplora i retroscena della sua parabola politica, ripercorre la sua odissea giudiziaria e le tante indagini che hanno colpito lui e le persone a lui vicine - «mi arriveranno addosso dieci processi» dice ai suoi - e vibra potenti fendenti contro la Procura di Firenze, puntando il dito contro il procuratore aggiunto Luca Turco «specializzato in Renzologia». Un argomento evidentemente attuale visto che, come in uno scherzo del destino, proprio ieri da una parte arriva la notizia di una nuova inchiesta ai suoi danni da parte della Procura di Roma, dall'altra è lo stesso fondatore di Italia Viva a svelare i dettagli di un'altra indagine partita a Firenze a inizio 2020 per la sua partecipazione a un convegno ad Abu Dhabi. Ma andiamo con ordine. Indiscrezioni dell'indagine romana filtrano già in mattinata. «Rapporti contrattuali fittizi» e «fatture inesistenti». Renzi e il manager dei vip Lucio Presta - già organizzatore della Leopolda - sono indagati per finanziamento illecito alla politica e false fatturazioni, nell'ambito di un'inchiesta sui rapporti economici intercorsi tra il leader di Italia Viva e l'agente televisivo. Al centro delle indagini - partite dopo una verifica fiscale - ci sarebbero non solo i flussi di denaro inerenti al documentario di Renzi «Firenze secondo me», prodotto da Presta, ma anche contratti e bonifici per progetti mai realizzati. Per somme che arriverebbero a 700mila euro. Nei giorni scorsi la guardia di Finanza, su disposizione dei pm romani, ha perquisito la società di Presta, la Arcobaleno Tre, ha acquisito contratti e bonifici, tra cui anche quelli con cui nel 2018 è stato versato all'ex premier un maxi cachet da 450 mila euro considerato anomalo per un documentario che poi era stato venduto a Discovery per 20mila euro. Era già emerso che il denaro ottenuto da Presta sarebbe servito a Renzi per restituire parte del prestito da 700mila euro ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l'acquisto della sua villa di Firenze. Le indagini però ora si allungano su altre operazioni e compensi versati a favore di Renzi dalla società del manager per progetti televisivi e cessione dei diritti. I magistrati vogliono verificare se dietro a queste operazioni ci sia un finanziamento illecito alla politica. Nel decreto di perquisizione si ipotizzano «fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa di costi occulti del finanziamento della politica». Per l'avvocato di Presta «si tratta di prestazioni esistenti, regolarmente fatturate e pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell'attività svolta, non al Politico o al Partito». E Renzi attacca: «Tutte le nostre attività sono legali, legittime, lecite. Non ho paura. Buon lavoro ai magistrati». L'altro fronte è quello fiorentino. Nel libro l'ex premier racconta «la storia dell'indagato Renzi». E poi dà notizia di un'altra inchiesta della quale aveva parlato La Verità mesi fa, ma della quale non c'erano state ulteriori conferme. «A inizio 2020 avendo finito il resto della famiglia ed essendo le nonne troppo anziane (una centenaria, l'altra novantenne) Turco invia un avviso di garanzia anche a me» racconta nel libro. «Vengo indagato per prestazione inesistente dopo aver partecipato a un convegno ad Abu Dhabi con leader come Nicolas Sarkozy, Tony Blair, David Cameron. Prestazione talmente inesistente da essere reperibile online sul canale Youtube e sulle testate internazionali a cominciare da Bloomberg America. Inutile dire che ho ricevuto un bonifico in modo trasparente per il quale ho pagato le tasse in Italia. Su quale base giuridica si vuole impedire a un ex premier italiano di fare quello che fanno costantemente gli ex leader del mondo?». La chiosa finale Renzi la dedica però soprattutto al processo Open, «uno scandalo istituzionale che partirà nel 2022». «I miei genitori fino a 65 anni sono stati cittadini irreprensibili, poi io divento presidente del Consiglio e loro diventano Bonnie e Clyde. Se il procuratore di Firenze vuole procedere contro di me io rinuncio all'immunità». Lodovica Bulian e Fabrizio De Feo

Arriva la risposta delle toghe: Renzi indagato. Luca Sablone il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Il leader di Italia Viva indagato con Lucio Presta per finanziamento illecito: ecco il "fallo di reazione" dei magistrati dopo il sostegno ai referendum sulla giustizia e il nuovo libro. Arriva puntuale quello che potrebbe essere considerato una sorta di "fallo di reazione" da parte dei magistrati: Matteo Renzi è indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni insieme al manager Lucio Presta. Stando all'anticipazione fornita dal quotidiano Domani, qualche giorno fa la procura di Roma avrebbe iscritto il leader di Italia Viva nel registro degli indagati "in merito a un'inchiesta sui rapporti economici con l'agente televisivo". Al centro dell'indagine - sempre secondo il giornale - ci sarebbero i bonifici del documentario "Firenze secondo me", che nel 2019 finirono in una relazione dell'antiriciclaggio della Uif (Unità di informazione finanziaria per l'Italia). Il quotidiano riporta che il documentario "costato quasi un milione di euro tra compenso per Renzi e spese di produzione, ad oggi non ha incassato nulla". I soldi ottenuti da Presta, "già organizzatore della Leopolda", sarebbero serviti all'ex presidente del Consiglio per "restituire parte del prestito da 700mila euro che aveva ricevuto dalla famiglia Maestrelli per l'acquisto della villa di Firenze". Ora la procura di Roma vuole vedere chiaro sulla regolarità dell'operazione: i sospetti maggiori non sono incentrati tanto sul documentario ma, scrive Domani, i dubbi toccherebbero "altri due contratti e relativi bonifici da centinaia di migliaia di euro a favore di Renzi, scoperti dopo una verifica fiscale nella sede dell'Arcobaleno Tre". I pm parlerebbero di "rapporti contrattuali fittizi, con l'emissione e l'annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell'utilizzazione quali costi deducibili inerenti all'attività d'impresa costi occulti del finanziamento della politica".

La reazione dei magistrati. Proprio nei giorni scorsi Renzi ha pronunciato dichiarazioni di certo non accomodanti nei confronti del mondo della magistratura. Innanzitutto l'ex premier ha strizzato l'occhio verso la raccolta firme per i referendum sulla giustizia lanciata dalla Lega e dal Partito radicale. "Ci stiamo ragionando se firmarlo, non c'è obbligo di partito", ha fatto sapere nelle scorse ore. A questo si aggiunge che oggi il numero uno di Italia Viva ha lanciato il suo nuovo libro "Controcorrente" ed è già primo in classifica per le vendite. Un libro - ha assicurato - utile per togliersi "molti sassolini" dalle scarpe. Nel corso della presentazione alla Camera dei deputati, Renzi ha denunciato amaramente: "I miei genitori sono arrivati a 65 anni da incensurati. Sono entrato in politica e sono diventati Bonny and Clyde o la Banda Bassotti". "C'è un magistrato che ha chiesto l'arresto di mio padre e di mia madre, poi ha indagato mio cognato, poi non potendo indagare mia nonna che ha 101 anni, ha indagato me per più di un reato e ha creato le condizioni del processo", ha aggiunto. Ha poi parlato anche del processo Open, a suo giudizio un punto preoccupante in quanto lo reputa un processo alla politica: "Non si processa il finanziamento di nascosto ma si pretende che i finanziamenti li decide il giudice penale". In sostanza il suo ragionamento è che lui viene accusato di aver fondato una corrente "e il giudice penale pretende di decidere che io ho formato una corrente e sequestra 30 telefoni di persone". All'indomani di tutto, quindi, sembra proprio che il referendum e il libro "con in quale mi sono tolto molti sassolini" abbiano fatto sobbalzare dalla sedia le toghe che subito sono partite col contrattacco. Contrattacco contro Renzi.

"Nulla da nascondere". Non si è fatta attendere la replica dell'ex presidente del Consiglio: "Quello che mi colpisce è che qualcuno possa pensare che mi possa fermare di fronte a certe cose. Che possa perdere il buon umore o scoraggiarmi. Chi mi conosce sa che sono davvero uno che va controcorrente, che non ha paura. Pensate se possono farmi paura, con qualche velato avvertimento, con un avviso di garanzia comunicato via stampa, in un determinato giorno". Renzi ha affidato a un video Facebook la risposta alla notizia che dice di aver appreso questo pomeriggio da un giornalista: "Si parla di un'attività professionale che sarebbe finanziamento illecito alla politica, e questo non sta né in cielo né in terra. Non ho nulla da nascondere, buon lavoro ai magistrati".

"Fatture pagate per attività". L'avvocato Lucarelli ha specificato che si tratta di "prestazioni esistenti, regolarmente fatturate all'Arcobaleno Tre e pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell'attività svolta, non al politico o al partito". Si sta presentando ora una memoria con documentazione contrattuale e bancaria "che certamente sarà motivo di attenta valutazione da parte della Procura, onde frugare ogni dubbio sulla posizione dei signori Presta".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura.

L’ultimo avviso di garanzia a Renzi conferma che ormai  giustizia è sfatta. Anni e anni di casi giudiziari, di indagini che non approdano a nulla salvo distruggere la vita delle persone. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 15 luglio 2021. Giornata davvero poco nobile per la giustizia italiana e per l’Italia stessa: Matteo Renzi viene sottoposto ad inchiesta giudiziaria per aver fatto una conferenza internazionale retribuita credendo forse di essere Tony Blair o Emmanuel Macron e si è visto recapitare le carte bollate contenenti un’accusa davvero sorprendente per un ex primo ministro. Nel frattempo sua madre, una normale mamma anziana che è stata trascinata sui giornali da accuse riconosciute poi come assolutamente infondate cervellotiche, è stata assolta si può dire in diretta, mentre suo figlio riceveva un’altra mezza quintalata di carta bollata subito dopo aver presentato un libro con la sua storia della giustizia sicché il popolo italiano ha assistito a uno degli spettacoli meno edificanti della sua storia recente. Nel frattempo, il presidente Draghi è andato a Santa Maria Capua Vetere con la ministra Cartabia per compiere un gesto importante sia sul piano politico che giuridico e morale e cioè avvertire che mai più in Italia si permetteranno pestaggi in carcere e che l’Italia è in Europa non soltanto quando si tratta di vincere un torneo di calcio, ma anche quando si tratta di difendere la dignità della pena affinché non diventi la pena della dignità. L’Italia fa progressi, ma lentissimi se si considera che prima della riforma che porta il nome della ministra della giustizia abbiamo dovuto subire la controriforma del ministro Bonafede, il quale è stato l’uomo grazie al quale Di Maio ha conosciuto Giuseppe Conte portandolo di conseguenza a Palazzo Chigi. Conte d’altra parte sta facendo grandi capricci contro la riforma Cartabia, vuole difendere un passato recente ma davvero poco onorevole, quello della abolizione della prescrizione che renderebbe tutti gli italiani perseguibili a vita. Quella riforma è stata momentaneamente corretta e forse si potrà fare anche di meglio considerato che finora è stato stabilito il principio di non procedere ulteriormente qualora si varchino alcuni limiti di tempo posti come barriere invalicabili. La giustizia soffre, il caso Palamara è ancora attualissimo benché pochi ne parlino e con la giustizia soffre anche l’immagine del paese dal momento che Draghi sta in grande fretta cercando di mostrare all’Europa la volontà italiana di darsi un sistema giudiziario degno dei paesi più civili del nostro continente. Ricorderemo questo anno non soltanto per i progressi della lotta contro il covid, per quanto sempre incerti e minacciati dalle nuove forme virali e dalle bizzarrie euforiche estive, ma anche perché per la prima volta viene dato uno scossone a quello strapotere di quella parte della magistratura che non onora particolarmente l’immagine dell’Italia nel consesso delle Nazioni civili. Di questo parlava e parla il libro di Matteo Renzi, il quale ha ottenuto come recensione il trillo alla porta dell’avviso di garanzia. Certamente Renzi agli occhi di una parte della magistratura è colpevole di aver fatto cadere un governo e farne succedere un altro, quello attuale che non va certamente giù ad alcune toghe inferocite per il desiderio della politica di prendere in mano la situazione. Non dimentichiamo che le prerogative di indipendenza di cui godono i magistrati non godono dei privilegi di loro accordati, ma semmai il privilegio che il popolo italiano ha voluto concedere a se stesso per garantirsi una giustizia indipendente, veloce, giusta. La giustizia in realtà non è stata mai nessuna di queste cose prevalendo la lentezza nel migliore dei casi e spesso anche i risultati sconcertanti di indagini che non approdano a nulla ma sconvolgono la vita politica del paese interferendo apertamente con essa e dando la sensazione di una volontà esterna di comandare sulla politica negando alla politica il diritto di rappresentare e legiferare. Tutto questo dimostra che una crisi di crescenza è in atto ma questa crisi prevede anche dei colpi di coda, delle amare sorprese e ciò che è accaduto ieri a Matteo Renzi non offre un panorama particolarmente confortante in questo senso. Comunque il governo va avanti con le sue riforme, sa che le resistenze fanno parte dell’ordine delle cose e dunque adesso si tratta di procedere con calma e razionalità ma anche con la volontà di mostrare al paese la preminenza del Parlamento su tutti gli altri poteri come prescrive la costituzione della Repubblica.

Un film già visto. Augusto Minzolini il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Puntuale come un orologio svizzero è arrivata la risposta dei giudici alla politica che tenta di rialzare la testa. Puntuale come un orologio svizzero è arrivata la risposta dei giudici alla politica che tenta di rialzare la testa. Il solito avviso di garanzia per una vicenda di presunto finanziamento illecito ai partiti e fatture false che vede nel mirino Matteo Renzi e l'agente dei vip dello spettacolo, Lucio Presta. Roba che a prima vista fa ridere. Quello che non fa ridere, invece, e anzi preoccupa è l'ennesima coincidenza: l'avviso di garanzia all'ex presidente del Consiglio è arrivato proprio mentre esce un suo libro che mette a nudo i meccanismi perversi che regolano i rapporti tra magistratura e politica. Senza contare che proprio in questi giorni il leader di Italia Viva sta valutando se appoggiare o meno i referendum sulla giustizia promossi da Matteo Salvini e dai radicali. Se fossi in lui non attenderei un minuto per firmarli, perchè ormai il meccanismo è talmente sfacciato, scontato, automatico, chirurgico, imbarazzante che mette a repentaglio addirittura il diritto di critica e l'agibilità politica in questo Paese. Lo stesso Renzi nel libro svela di essere stato oggetto di un altro avviso di garanzia nei mesi scorsi per «prestazione inesistente» in relazione ad un convegno ad Abu Dhabi. E proprio ieri, presentando il suo libro alla stampa, si è lasciato andare ad una scommessa: «Vedrete che mi arriveranno addosso dieci processi».

A questo punto neppure i bookmakers inglesi, malgrado la loro spavalderia, avrebbero il coraggio di puntare contro una simile previsione. Perché è nelle cose, è nella storia recente del Paese. Queste analisi spietate sullo stato della giustizia in Italia Silvio Berlusconi, purtroppo inascoltato, le faceva già un quarto di secolo fa. La verità è che per comprendere le inchieste che coinvolgono i politici, nella maggior parte dei casi, non devi basarti sugli atti processuali ma sulle logiche, appunto, politiche. Perché una parte della magistratura ormai è palese - Palamara docet - fa politica. Solo così scopri i perchè dell'accanimento sull'ex premier, che è lo stesso metro utilizzato in passato e ancora oggi nei confronti di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi: nella circostanza Renzi deve pagarla perchè ha messo in crisi il governo più giustizialista di tutti i tempi, quello che aveva come Guardasigilli un personaggio come Alfonso Bonafede, che ha provocato più danni al nostro ordinamento penale e alle nostre carceri di Pierino alle elementari. Sono operazioni che ormai non sono neppure tanto nascoste, ma si fanno alla luce del sole. Tre giorni fa il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, criticava nell'assemblea di magistratura democratica la riforma della prescrizione del ministro Cartabia e il grillino Mario Perantoni commentava felice: «Non siamo più soli». Il giorno dopo questo Giornale titolava: «Crociata manettara, asse tra Pm e grillini». Siamo stati facili profeti: ormai il giustizialismo al tramonto può contare solo sulle toghe. Augusto Minzolini

Il silenzio dei giustizialisti. Luca Sablone il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Da una parte Pd e 5 Stelle saldano l'alleanza e tacciono sulla reazione delle toghe, dall'altra Forza Italia solidarizza con Renzi per la giustizia a orologeria. Due inchieste che fanno godere i giustizialisti. Adesso Matteo Renzi deve fare i conti con un'indagine per finanziamento illecito e false fatturazioni, insieme al manager Lucio Presta, e un'altra per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. A comunicarlo è stato proprio il leader di Italia Viva nella presentazione di "Controcorrente", il nuovo libro in cui ripercorre la sua odissea giudiziaria e le tante indagini che lo hanno colpito. Un'occasione per "togliersi molti sassolini dalla scarpa". Quanto al primo caso, al centro delle indagini ci sarebbero flussi di denaro inerenti al documentario "Firenze secondo me" e contratti e bonifici. C'è chi la considera una sorta di "fallo di reazione" da parte delle toghe, finite di recente nel mirino dell'ex presidente del Consiglio che di certo non ha usato mezzi termini per criticare certe scelte e determinate "coincidenze". Ma ciò che è emerso nelle ultime ore è palese e non sorprende più di tanto: da una parte i manettari si sono rintanati in un imbarazzante silenzio e non hanno perso tempo per rilanciare la notizia dell'indagine; dall'altra Forza Italia ha solidarizzato con Renzi per quella che viene definita una "giustizia a orologeria".

Il silenzio dei giustizialisti. Dal Partito democratico non filtra nulla. Mutismo assoluto. Dal Movimento 5 Stelle invece si sparano sui social i titoli di alcuni giornali che danno la notizia dell'inchiesta sul numero uno di Italia Viva. Ad esempio è il caso di Dino Giarrusso, europarlamentare grillino, che ha colto l'occasione per difendere a spada tratta l'operato dell'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e attaccare gli avversari politici: "Anche ieri condanne, arresti e nuovi indagati fra i politici dei vecchi partiti, con una nuova accusa per il politico meno amato della storia, Matteo Renzi. Chi ha cose da nascondere e processi per condotte non sempre trasparenti, spera nella prescrizione per rimanere impunito e beffare le vittime. È un'anomalia tutta italiana che noi abbiamo fermato grazie alla riforma Bonafede, e che sarebbe assurdo ripristinare con un colpo di mano". Anche Stefano Buffagni su Facebook è intervenuto sul caso: "Renzi con il 2% di share guadagna più di Fiorello a Sanremo. I conti non tornano. Fare chiarezza al più presto". Il deputato pentastellato, pur riconoscendo il diritto dell'ex premier di difendersi, ritiene che sia un problema di etica pubblica: "Renzi ai tempi non era un semplice parlamentare ma aveva appena terminato la sua esperienza di presidente del Consiglio e Presta lavora e guadagna anche grazie a contratti con la Rai".

La solidarietà a Renzi. A differenza dei giustizialisti, Forza Italia ha immediatamente solidarizzato per quanto avvenuto. Anche perché non va dimenticato che vi sono personaggi politici che, come rivelato nel libro Il Sistema di Alessandro Sallusti, hanno provato sulla loro pelle gli effetti di certe dinamiche. Il senatore azzurro Francesco Giro ha espresso "piena solidarietà" a Renzi che, va ricordato, fino a prova contraria è innocente: "Oggi i giornali propalano la notizia sull'inchiesta a piena pagina senza neppure attendere gli esiti della fase istruttoria. Molti giudici, ma anche moltissimi giornalisti, dovrebbero farsi un bell'esame di coscienza. Vogliono distruggere anche Renzi?".

Pure Carlo Calenda si è unito al coro di solidarietà. "Ho visto troppe di queste inchieste concludersi in nulla verso i politici in generale e Matteo Renzi in particolare per attribuire un qualsiasi peso a quanto accaduto. Mi dispiace per i magistrati seri, ma su questa roba la magistratura ha perso ogni credibilità", ha scritto su Twitter il leader di Azione. Il candidato sindaco di Roma ha poi ricordato che "negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a cose inimmaginabili, pensate che Bassolino ha avuto 19 inchieste da cui è uscito assolto, rovinandogli la vita". "Pensate anche a Berlusconi", ha aggiunto Calenda. Insomma, nulla di nuovo: i giustizialisti godono (a intermittenza) per indiscrezioni giornalistiche, mentre i garantisti si attengono ai sacrosanti principi costituzionali.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene.

Renzi indagato? Sallusti: c'è chi dice che sia un messaggio a Mario Draghi. La magistratura è un'emergenza. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. «Sto seriamente pensando se firmare il referendum sulla giustizia», aveva detto poche ore fa Matteo Renzi. La risposta della magistratura non si è fatta attendere: avviso di garanzia per lui e per il manager dello spettacolo Lucio Presta con il quale l'ex premier aveva prodotto per Discovery il documentario "Firenze secondo me", quattro puntate andate in onda nel 2018 su tv Nove peraltro senza grande riscontro di pubblico. L'accusa è di finanziamento illecito ai partiti, la solita che i magistrati contestano ai politici quando, pur frugando nelle loro vite, non trovano nulla di serio. Non per fare il garantista a oltranza ma la scena di questo avviso di garanzia sembra uscita dalle pagine del libro "Il Sistema" nel quale Luca Palamara ricostruisce le scorribande della magistratura nella vita politica. C'è il politico ingombrante da punire (di solito, come in questo caso, nemico del Pd), c'è il pm con smania di protagonismo, ci sono i giornali amici che preparano il terreno e ci inzupperanno il biscotto. Tutto da copione, compreso il fatto che Matteo Renzi stia in questi mesi facendo impazzire la sinistra e ammicchi sia con Salvini che con Berlusconi per bloccare il decreto Zan e per far passare la riforma della giustizia. I più raffinati, e informati delle segrete cose sostengono che questo avviso di garanzia sia anche un segnale a Mario Draghi che pochi giorni fa aveva indicato, all'insaputa dei partiti, Marinella Soldi come futuro presidente Rai. La signora all'epoca dei fatti finiti sotto inchiesta era infatti amministratore delegato di Discovery, la compagnia di produzione che aveva sottoscritto con Renzi il contratto in questione e che secondo i magistrati era sproporzionato rispetto alle qualità artistiche dell'ex premier. Insomma parliamo del nulla o giù di lì. Ma è un nulla rumoroso e pericoloso, l'ennesimo tentativo di interferire nel corso della politica e dei governi. Qui non basta una riforma, il cancro di una magistratura incosciente è una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile.

Alessandro Sallusti per "Libero quotidiano" il 14 luglio 2021. «Sto seriamente pensando se firmare il referendum sulla giustizia», aveva detto poche ore fa Matteo Renzi. La risposta della magistratura non si è fatta attendere: avviso di garanzia per lui e per il manager dello spettacolo Lucio Presta con il quale l'ex premier aveva prodotto per Discovery il documentario "Firenze secondo me", quattro puntate andate in onda nel 2018 su tv Nove peraltro senza grande riscontro di pubblico. L'accusa è di finanziamento illecito ai partiti, la solita che i magistrati contestano ai politici quando, pur frugando nelle loro vite, non trovano nulla di serio. Non per fare il garantista a oltranza ma la scena di questo avviso di garanzia sembra uscita dalle pagine del libro "Il Sistema" nel quale Luca Palamara ricostruisce le scorribande della magistratura nella vita politica. C'è il politico ingombrante da punire (di solito, come in questo caso, nemico del Pd), c'è il pm con smania di protagonismo, ci sono i giornali amici che preparano il terreno e ci inzupperanno il biscotto. Tutto da copione, compreso il fatto che Matteo Renzi stia in questi mesi facendo impazzire la sinistra e ammicchi sia con Salvini che con Berlusconi per bloccare il decreto Zan e per far passare la riforma della giustizia. I più raffinati, e informati delle segrete cose sostengono che questo avviso di garanzia sia anche un segnale a Mario Draghi che pochi giorni fa aveva indicato, all'insaputa dei partiti, Marinella Soldi come futuro presidente Rai. La signora all'epoca dei fatti finiti sotto inchiesta era infatti amministratore delegato di Discovery, la compagnia di produzione che aveva sottoscritto con Renzi il contratto in questione e che secondo i magistrati era sproporzionato rispetto alle qualità artistiche dell'ex premier. Insomma parliamo del nulla o giù di lì. Ma è un nulla rumoroso e pericoloso, l'ennesimo tentativo di interferire nel corso della politica e dei governi. Qui non basta una riforma, il cancro di una magistratura incosciente è una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile.

Alessandro Sallusti per “Libero Quotidiano” l'11 luglio 2021. Parlare di Matteo Renzi agli elettori del Centrodestra è come fargli venire l'orticaria. Oggi lo facciamo non per spirito masochistico ma perché l'ex premier ha scritto un libro (edizioni Piemme) che svela interessanti retroscena - ne anticipiamo alcuni - della politica e nel quale si parla, e soprattutto si sparla, della sinistra. Già il titolo, "Controcorrente", ammicca al popolo montanelliano anche se la prosa, ovviamente, non è la stessa del Maestro. Vale però la pena di leggerlo perché come recita un antico detto di attribuzione incerta «il nemico del mio nemico è mio amico». Lo stesso Montanelli teneva nel suo ufficio un busto di Stalin e a chi gliene chiedeva stupito la ragione rispondeva: «Semplice, ha ucciso più comunisti lui di chiunque altro». Ecco, Renzi ci ha provato a far fuori i comunisti dalla sinistra italiana - la famosa rottamazione - e di questo tentativo lo ringraziamo. È che ha perso e alla fine hanno fatto fuori lui, così oggi si ritrova detestato sia da destra, in quanto ex leader del Pd, che da sinistra, in quanto traditore del Pd. Quando un politico scrive un libro con retroscena inediti della propria attività significa che sa di non poter più tornare ai vertici, altrimenti certi segreti li terrebbe per sé e li giocherebbe nelle segrete stanze dove si fa e si disfa il potere; meglio monetizzare fino a che si è in tempo. Un peccato perché Renzi è stato - e ancora è - un vero talento della politica. Una volta Berlusconi mi fece una delle sue battute: «Dite che non ho eredi? Tutta colpa della malasanità perché io l'erede lo avevo ma c'è stato uno scambio di neonati in culla e così la sinistra si è ritrovata Renzi e noi Alfano». Erano i tempi del Patto del Nazareno, un progetto purtroppo abortito dopo soli pochi mesi di gestazione perché Renzi, come tutti i fenomeni, è imprevedibile. Di recente, estate 2019, è riuscito a stoppare, insediando a sorpresa il governo Conte due, elezioni anticipate che avrebbero visto trionfare il Centrodestra a guida Salvini. Ma poi quel governo assurdo lo ha fatto cadere e ci ha regalato Mario Draghi. In canna ha certamente ancora alcuni colpi da sparare e siccome è il migliore tiratore su piazza c'è da aspettarsi di tutto. Se è da temere o incoraggiare, come al solito, lo si capirà all'ultimo istante. 

La giustizia nel nome del popolo indignato. Il sospetto che lo Stato, teoricamente arbitro della legalità, fosse complice se non regista della giustizia svenduta è argomento che esula dalla discussione circolare e dai retroscenisti di professione. Filippo Santigliano La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2021. Il sospetto che lo Stato, teoricamente arbitro della legalità, fosse complice se non regista della giustizia svenduta è argomento che esula dalla discussione circolare e dai retroscenisti di professione. Siamo invece di fronte a qualcosa che va oltre e che ha trasformato quello che si pensava potesse essere una scossa isolata in uno sciame infinito, capace di travolgere in poco tempo le certezze che si ripongono nella Giustizia (anche quando è ingiusta) in preoccupazione, incubo, oppressione, fino a diventare «piaga»: da Trani a Bari passando per Taranto, la questione giustizia in Puglia si è trasformata da processo penale che deve accertare un fatto in un fatto penalmente rilevante creato dalla stessa magistratura e che viene ora perseguito al suo interno. Un passaggio traumatico che fa emergere da una parte la lotta ai reati, e ai corrotti, e dall'altra una problematica della società, ovvero la corruzione. Che ovunque puoi anche aspettarti di incrociare, ma non di certo in quel deposito fiduciario che sono le procure e i Tribunali. Nulla a che fare con la Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti - dramma teatrale del 1944 - che trattava di tematiche interne a un certo modo di esercitare la funzione della magistratura, ma ancora attuali se declinate a questi tempi moderni e tristi. Il triangolo irregolare tratteggiato da Trani a Taranto passando per Bari - e scoperchiato dai colleghi delle procure di Potenza e Lecce - fa infatti emergere una tavolozza espressiva tutt'altro che astratta, per il semplice motivo che siamo di fronte a una maxi indagine a puntate che non ha parole fraintese, ma fatti evidenti (anche se bisogna sempre attendere i processi) che rappresentano un distillato amaro per chi esercita con rigore e umanità le magistrature e soprattutto per i cittadini disorientati se non tramortiti da una serie di avvenimenti che hanno messo la Puglia, suo malgrado, sul «piedistallo» dell'indignazione. Senza capire - o rendersi conto - che è proprio la pratica di questo tipo di giustizia mondana, al pari di comportamenti ed atteggiamenti che avrebbero se non altro richiesto un minimo di contenimento e senso del limite, a fare il gioco degli avversari della giustizia che approfittano di questa vergogna per alimentare il proprio pregiudizio ed avvicinarsi ai propri obiettivi. Con l'aggravante che, in più di una circostanza, il diritto ad affermare un certo tipo di giustizia aveva il sapore della vittoria di una fazione sull'altra, in quel campionato interno alle toghe falsato pure dal «Var», come descritto a esempio da Palamara nel suo sistema. Ora tuttavia è tempo di curare il male e non soltanto i sintomi per prosciugare quel bacino di sofferenza morale che pervade l'altra parte della magistratura, quella che fa il suo dovere e che spesso e volentieri opera al fronte e in condizioni complesse se non difficili. In tal senso emerge il ruolo di chi, da magistrato che indaga su un collega, invece di far scorrere l'ordine delle cose ha invece scoperto il «sistema» che da Trani a Taranto via Bari alterava i pesi della bilancia. E mai come in queste situazioni scoprire significa vedere qualcosa che c'è e che nessuno vede (o che non voleva vedere), in quella semplice e scrupolosa onestà di fondo che dovrebbe caratterizzare ogni civil servant, al di là delle gerarchie, oltre i ruoli e le funzioni. Fermo restando le cautele che devono comunque accompagnare ogni procedimento, ed il principio di non colpevolezza garantito dalla Costituzione, è fuori discussione che indipendentemente dalle verità processuali, siamo già di fronte a più un tassello di verità storica che ci consegna la possibilità di allestire un mosaico disarmante. Per chi deve continuare a esercitare la Legge in nome del popolo e per chi chiede Giustizia, ovvero i cittadini, oggi sfiduciati. Recuperare quindi il discredito da una parte e quell’autorevolezza morale dall'altra è dunque quanto mai necessario per riscattare gli uffici giudiziari quando assumono una decisione, dalla più importante a quella apparentemente futile o irrilevante. Per cicatrizzare queste ferite profonde servirà certamente un profondo bagno di umiltà e una revisione di certi meccanismi, a cominciare da quello delle garanzie, ovvero avere interlocutori credibili e non affaccendati in affari contro l'ufficio di cui sono incaricati. Nel tempo si potrebbero sciogliere vari nodi operativi funzionali, ma la vera partita col diavolo (le magistrature deviate) è ritrovare la strada dell'etica senza cedere ai moralismi. Mai come in queste circostanze, per la sacralità che assume la Giustizia nella vita quotidiana, i mercanti vanno accompagnati fuori dal tempio.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Da un po’ di anni si sente dire che, se una certa magistratura militante (o quello che noi chiamiamo il Partito dei Pm) ha acquisito tanto potere fino a esercitare un ruolo di supplenza rispetto al compito dei partiti, la responsabilità è tutta del ceto politico. Le toghe sarebbero in un certo senso state costrette a riempire un vuoto lasciato da altri. Un vuoto politico riempito con la “loro” politica. Che è fatta delle loro carriere, ma anche della loro giurisprudenza, essendo il successo di tanti pubblici ministeri intriso delle une e dell’altra. Tanto da far balzare i più popolari non solo su qualche scranno in Parlamento, ma soprattutto a governare grandi città. In un tripudio di popolo e con la passività muta della gran parte del mondo politico. Poi è arrivato Luca Palamara a dire che anche nel mondo delle toghe il re era nudo e che tanti magistrati passavano il tempo a brigare per le proprie carriere e promozioni, e anche che ordivano complotti per impallinare qualche avversario che sedeva in Parlamento o al governo. I nomi più gettonati erano quelli di Berlusconi e di Salvini. Così chi voleva capire aveva capito quale era la vera “casta”. Altro che autonomia e indipendenza della magistratura! Il “Sistema” ha scompaginato un po’ le carte, aprendo gli occhi a migliaia di cittadini che non immaginavano che quel mondo fosse fatto di piccoli uomini più che di eroi. E ha iniettato quel po’ di coraggio che serviva al mondo politico per rialzare la testa. Anche perché –e forse la coincidenza non è così peregrina- era nel frattempo crollato il governo della maggioranza vestita in toga che sempre meno gridava “onestà-onestà”, avendo trovato altro tipo di “ideali” molto più concreti da portare a casa. Era arrivato Mario Draghi, con Marta Cartabia come guardasigilli. Così ora ci troviamo a un bivio. Da una parte un Csm che il lunedì pare fatto di pugili suonati e poi il martedì trova la forza di spedire in pensione il recalcitrante Davigo senza più subirne il fascino. Ma che compie poi il passo falso, con la radiazione di Palamara. Un gesto imprudente, perché di questo magistrato ex-potente la casta togata non si libererà facilmente, e non stiamo parlando di ricorsi. Stiamo dicendo che l’Italia intera conosce la persona ed è al corrente di quel che ha disvelato. E si domanda come mai lo Stato abbia coccolato e riverito fior di criminali “pentiti”, consentendo loro di dire verità e bugie, a volte persino, da liberi, di consumare vendette, anche con omicidi. E come mai, se il “pentito” accusava i politici era un eroe, e se invece disvela fatti gravi commessi dalle toghe viene addirittura cacciato. Tanta paura da arrivare a zittire lui e i suoi testimoni? Ma sarà difficile liberarsi di lui. Passo falso. Sembra che scatti una specie di giustizia sommaria, quella della fretta. La stessa che ha di fatto espulso dalla magistratura un uomo come Otello Lupacchini. Chi ha ascoltato a Radio Radicale lo svolgimento delle sedute della commissione del Csm che ha processato l’ex procuratore generale di Catanzaro non può non aver notato il senso di fastidio del presidente Fulvio Gigliotti e del procuratore Marco Dall’Olio mentre il dottor Lupacchini parlava. Avrebbero dovuto rispettare la sua competenza, la sua cultura. Invece avevano fretta. Ma la magistratura intera, quella associata nel sindacato unico e quella presente nel Csm, farà bene a riflettere su queste due (ancora) toghe, sulla frettolosità con cui li ha spinti fuori come fossero zanzare fastidiose. Perché, come ha detto quello più anziano, «non avranno pace». Anche perché non sta passando inosservato il fatto che, mentre il Csm pare avvitato in modo corporativo su se stesso, la ministra Cartabia non sta con le mani in mano. Sono pronti gli ispettori sugli uffici giudiziari di Verbania per verificare se nell’inchiesta sul grave incidente della funivia, la gip Donatella Banci Buonamici, che aveva scarcerato, sia stata tolta di mezzo perché troppo garantista. E sulla procura di Milano per capire per quale motivo il vertice dell’ufficio abbia impedito al pm Paolo Storari di arrestare per calunnia l’avvocato Piero Amara e l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, preferendo preservarli come testi d’accusa nel processo Eni, quello in cui gli imputati sono stati poi assolti, nonostante una serie di prove loro favorevoli non fossero state presentate dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I quali, oggi indagati a Brescia, avrebbero però voluto far entrare nel processo Eni la testimonianza dell’avvocato Amara, il quale aveva definito il presidente del tribunale Marco Tremolada come “avvicinabile” dagli avvocati della difesa. Il che avrebbe costretto il presidente ad astenersi. Fatti molto gravi, su cui vedremo a che cosa porteranno le ispezioni della ministra. Ma anche che cosa avrà il coraggio di fare questo Csm ancora avvitato sulla propria storia di Casta.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il capo della task force di Cartabia voleva fare il vice. Chi è Massimo Luciani, il professore che deve abolire le correnti con cui intrallazzava…Paolo Comi su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Domanda: a chi affidare la Commissione ministeriale che dovrà riformare il Consiglio superiore della magistratura, sottraendolo al giogo delle correnti dell’Anm? Risposta: ad uno che voleva diventare vice presidente del Csm (il presidente è il capo dello Stato, ndr) ed aveva chiesto alle correnti di votare per lui. Il professore Massimo Luciani. L’incredibile circostanza, per la quale è anche difficile trovare le parole, è emersa dalla deposizione dell’ex segretario generale di Magistratura indipendente, il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, davanti alla Prima commissione del Csm il mese scorso. Racanelli, per molti anni capo delle toghe di “destra”, era stato sentito a Palazzo dei Marescialli sui suoi rapporti con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Rispondendo ai quesiti dei consiglieri che volevano conoscere l’esatta natura di questi rapporti, Racanelli aveva “allargato” la discussione, riportando un curioso episodio accaduto nell’estate del 2018. Anche questa volta, bisogna ringraziare il consigliere Nino Di Matteo di aver colto “l’assist” di Racanelli facendosi raccontare con dovizia di particolari l’accaduto. Ma iniziamo dalla fine. Il professor Luciani, presidente dei costituzionalisti, è colui che su mandato di Marta Cartabia dovrebbe predisporre la riforma del Csm che elimini lo strapotere dei gruppi associativi della magistratura a Palazzo dei Marescialli. Nell’estate del 2018, quando si doveva rinnovare il Csm, giunto a scadenza naturale, Luciani sarebbe stato attivissimo. «Venne da me Cascini (Giuseppe, ndr), ancora non si era insediato, e aveva fatto sapere che (Luciani) avrebbe accettato la candidatura solo se avesse avuto la garanzia di fare il vice presidente», esordisce Racanelli. I voti di Magistratura indipendente erano importantissimi. Prima del ribaltone Mi aveva ben cinque consiglieri al Csm. Tre furono poi fatti fuori per aver partecipato all’incontro con Palamara e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti all’hotel Champagne. Il racconto è molto circostanziato. «Nel luglio 2018 ricevetti una telefonata di Cascini». Cascini, procuratore aggiunto a Roma come Racanelli ed esponente di primo piano della sinistra giudiziaria di Area, era stato eletto da poche ore al Csm. Una elezione “scontata”: per i quattro posti nella categoria dei pm, le quattro correnti candidarono un candidato a testa. Per essere eletti era sufficiente che i candidati si votassero da soli. «Senti Antonello, qui bisogna pensare seriamente, qui è interessato, è un grosso professore di diritto costituzionale che però ha una richiesta: lui accetta di essere nominato tra gli eletti dal Parlamento solo se c’è l’accordo all’unanimità di tutti i gruppi sul suo nome», ricorda Racanelli, riportando le parole di Cascini che, pur non essendosi ancora insediato a Palazzo dei Marescialli, manovrava alacremente per la scelta del vice di Sergio Mattarella. La scelta di Luciani era prendere o lasciare. Racanelli: «Guarda Giuseppe, non tocca a me decidere, io posso trasmettere il tuo messaggio e la tua richiesta ai consiglieri di Mi». Racanelli, che in quel momento si trovava in spiaggia in Sardegna per un periodo di relax, inviò subito un sms ai cinque neo consiglieri in quota Mi. Il testo doveva essere all’incirca questo: «Guardate, Cascini mi ha chiamato, mi ha detto questa cosa, vuole l’appoggio di tutti i gruppi su questo nome. Decidete voi. Se siete d’accordo io dico a Cascini che Mi è d’accordo a eleggerlo». I consiglieri di Mi, ricevuto l’sms di Racanelli iniziarono a consultarsi fra loro. Non è dato sapere se qualcuno si sia chiesto a che titolo Cascini stesse “sponsorizzando” Luciani. Cascini a nome di chi chiamava? A nome suo? A nome del Pd, partito di riferimento delle toghe di sinistra, che doveva indicare Luciani? A nome dello stesso Luciani? Domande rimaste senza risposta. Anche perché Racanelli, giocando d’anticipo, aveva messo le mani avanti con i consiglieri che lo interrogavano: «Non lo so e comunque non mi interessa saperlo. Anzi, non tocca a me saperlo». Terminato il consulto, comunque, i cinque consiglieri di Mi fecero sapere al loro capo che Luciani non andava bene. Racanelli, allora, riportò la ferale notizia: «Guarda Giuseppe, i consiglieri di Mi non sono disposti ad appoggiarlo come vice presidente». Passa qualche settimana e Cascini, incassato il no a Luciani, riparte alla carica con Racanelli. L’allora segretario di Mi, terminate le ferie in Sardegna, era tornato in ufficio a piazzale Clodio. Proprio in quei giorni il Parlamento, in seduta congiunta, aveva eletto gli otto componenti laici del Csm. Il Pd aveva rinunciato a Luciani, la prima scelta e in ottimi rapporti con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ripiegando su David Ermini, ex responsabile giustizia dei dem, renziano di stretta osservanza. Cascini convocò Racanelli nel suo ufficio. E partì da lontano. «Sai – iniziò Cascini a cui evidentemente interessava moltissimo la nomina del futuro vice presidente del Csm – siccome sento dire che probabilmente Mi intende appoggiare il professore Lanzi (Alessio, eletto in quota Forza Italia, ndr), ti comunico che Lanzi è stato autore di un’audizione in Commissione bicamerale». Cosa aveva detto Lanzi di così tremendo da mettere in allerta Cascini? «Ha parlato della separazione delle carriere», la risposta di Cascini. Non sia mai. Parlare di separazione delle carriere a un pm è come parlare male della Madonna a Papa Francesco. Racanelli rimase spiazzato. «Io non sapevo – aggiunse – di questo particolare, ognuno ha il suo modo di rapportarsi e sapere le vicende degli altri». Racanelli, come San Tommaso, chiese le carte a Cascini. «Fammi sapere cosa ha detto». Cascini, che aveva già tutto, consegnò le copie delle audizioni incriminate di Lanzi. Su cosa sia successo dopo il racconto di Racanelli, purtroppo, si interrompe. Ma qui entra in scena il libro di Palamara e Alessandro Sallusti e siamo in grado di ricostruire gli sviluppi successivi. Palamara, con Cosimo Ferri, fra i leader indiscussi di Mi e allora renzianissimo parlamentare del Pd, convinceranno i togati di Mi ad abbandonare Lanzi al suo destino in favore di Ermini. Cascini e la sinistra giudiziaria, per tutta risposta, decideranno di puntare sul grillino Alberto Maria Benedetti. L’elezione del vicepresidente del Csm, il 27 settembre del 2018, sarà al cardiopalma: 13 voti per Ermini, 11 per Benedetti. Determinanti saranno i voti dei capi di corte: il primo presidente Giovanni Mammone (Mi) e il pg Riccardo Fuzio (Unicost), soprannominato da Palamara “baffetto”. I due laici leghisti, all’epoca eravamo in pieno governo giallo-verde, con Luigi Di Maio e Matteo Salvini in luna di miele con l’autorizzazione di Marco Travaglio, voteranno per Benedetti. Lanzi, che aveva visto sfumare sul traguardo la nomina a vicepresidente del Csm e sulla carta era il candidato che aveva più titoli di tutti, voterà scheda bianca. A fargli compagnia, l’altro laico di Forza Italia, l’avvocato napoletano Michele Cerabona. E Luciani? È diventato l’avvocato di fiducia di Piercamillo Davigo e di Michele Prestipino nei loro contenziosi contro il Csm. Che dovrebbe riformare. Paolo Comi

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 2 luglio 2021. È ripartita la grancassa dei "giornaloni" a favore dell'attendibilità dell'avvocato Piero Amara, il principale teste d' accusa nei confronti dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara nell' indagine di Perugia. Amara, come riportava ieri con dovizia di particolari il Corriere della Sera, avrebbe iniziato nei giorni scorsi una nuova proficua collaborazione. Questa volta con i magistrati di Potenza. L'avvocato siciliano, l'ideatore del "Sistema Siracusa", il sodalizio finalizzato ad aggiustare i processi e pilotare le sentenze anche al Consiglio di Stato, era stato arrestato tre settimane fa dai pm lucani con l'accusa di abuso d' ufficio, favoreggiamento e corruzione. Nell' indagine era coinvolto anche l'ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Amara si sarebbe guadagnato la fiducia dei magistrati - soprattutto del procuratore Francesco Curcio che hanno così stabilito per lui il solo obbligo di dimora a Roma. Forte di questo provvedimento, Amara ha subito presentato al Tribunale di Sorveglianza di Roma una istanza di affidamento in prova ai servizi sociali. L'avvocato siciliano, infatti, per le medesime accuse di Potenza, aveva patteggiato nel 2019 in un procedimento aperto dalla Procura della Capitale. Il difensore di Amara, l'avvocato Salvino Mondello, per la cronaca, ha chiesto in subordine la semilibertà. In attesa, allora, che i giudici di sorveglianza decidano se accogliere o meno l'istanza, vale la pena elencare tutte le collaborazioni di Amara al momento in essere presso le varie Procure d'Italia. Collaborazioni "pluriennali". Il primo racconto di Amara inizia a Roma ad aprile del 2018, prosegue l’anno successivo, andando avanti per mesi e mesi, a Milano e Perugia, riparte adesso a Potenza. Per non farsi mancare nulla Amara ha anche rilasciato interviste televisive e sui giornali. In ogni interrogatorio, ormai si è perso il conto del loro numero, Amara aggiunge un "pezzettino" della sua verità. Il bello è che viene sempre creduto. A Perugia, ad esempio, racconta le gesta di Palamara, a Milano svela particolari della loggia "Ungheria", a Roma delle corruzioni al Consiglio di Stato. Nessuno si insospettisce, poi, che i racconti di Amara non siano mai in ordine cronologico. A Potenza è tornato con la memoria a vicende di cinque anni addietro. Prima che iniziasse la collaborazione romana. Il nuovo target pare essere ora Cosimo Ferri, l'ex leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, attuale parlamentare di Italia Viva. Le collaborazioni con gli inquirenti, comunque, hanno dato i loro frutti: oltre ad essere al riparo dal carcere, nessun magistrato si è sognato di sequestrargli un euro del suo ingente patrimonio sulla cui provenienza ci sarebbero molti interrogativi. Chi non si convinse mai della bontà della collaborazione di Amara fu il pm romano Stefano Rocco Fava che, agli inizi del 2019, voleva addirittura arrestarlo. Per tutta risposta il fascicolo gli venne tolto e, come se non bastasse, gli arrivò da Amara una richiesta di risarcimento danni pari a 500mila euro. Il motivo? L' ingente «danno morale che ha causato sofferenza interiore» provocato proprio dal comportamento di Fava. Per fortuna del magistrato il giudice non aveva però accolto la richiesta danni.

La Cassazione conferma: destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. Siracusanews.it il 21 settembre 2020. La difesa di Musco, rappresentata dall'ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato dall’ex Pm Maurizio Musco confermando così la destituzione proposta dal Csm per non essersi astenuto da un’udienza il cui imputato era assistito dall’avvocato Piero Amara, con cui aveva un rapporto di amicizia. La sentenza – si legge sull’articolo de La Sicilia firmato da Francesco Nanìa – è stata emessa il 3 settembre al termine di un lungo iter nel corso del quale il magistrato aveva impugnato la decisione del Csm. La difesa di Musco, rappresentata dall’ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Sezione disciplinare del Csm, a giugno del 2019, aveva già deciso di destituire dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco per aver tenuto comportamenti che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria e per non aver osservato l’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. Nel 2016 già la Corte di Cassazione riconobbe “l’esistenza di uno strettissimo rapporto di amicizia con l’avvocato Amara”, sottolineando la gravità delle condotte e il danno “cagionato all’immagine della gestione equilibrata e imparziale della funzione giudiziaria del pubblico ministero”. Con queste motivazioni venne confermata la condanna per l’ex Procuratore Ugo Rossi e del Pm Maurizio Musco. In particolare, la commissione disciplinare del Csm aveva evidenziato che il magistrato avrebbe violato il dovere di astensione nei procedimenti penali nei quali era coinvolto l’avvocato Piero Amara (che ha patteggiato 3 anni di carcere nell’ambito dell’inchiesta sul Sistema Siracusa e le sentenze “pilotate” al Consiglio di Stato) con il quale Musco aveva un legame di amicizia consolidatosi nel tempo e arricchitosi di rapporti economici e imprenditoriali tanto “da divenire fatto noto nell’ambiente forense e giudiziario” e tale da far apparire il suo comportamento processuale “non scevro da condiscendenza” nei confronti del legale. Un atteggiamento tale da porre in essere comportamenti che hanno messo in dubbio la terzietà del magistrato. Si tratta dell’ultimo passaggio della vicenda dei “Veleni in Procura”, con il magistrato Musco – oggi a Sassari – condannato per abuso d’ufficio per aver arrecato un ingiusto danno all’ex sindaco di Augusta Massimo Carrubba e all’ex assessore Nunzio Perrotta nel caso Oikothen.

La Cassazione conferma: destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato dall’ex Pm Maurizio Musco confermando così la destituzione proposta dal Csm per non essersi astenuto da un’udienza il cui imputato era assistito dall’avvocato Piero Amara, con cui aveva un rapporto di amicizia. La sentenza – si legge sull’articolo de La Sicilia firmato da Francesco Nanìa – è stata emessa il 3 settembre al termine di un lungo iter nel corso del quale il magistrato aveva impugnato la decisione del Csm. La difesa di Musco, rappresentata dall’ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Sezione disciplinare del Csm, a giugno del 2019, aveva già deciso di destituire dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco per aver tenuto comportamenti che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria e per non aver osservato l’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. 

Fabio Amendolara per "la Verità" il 23 luglio 2021. Più che un pentimento vero e proprio, al giudice del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha rigettato la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali, le ultime verbalizzazioni dell'avvocato Piero Amara sono sembrate scelte di «opportunismo» processuale. L'avvocato di Augusta (Siracusa), prima di finire in carcere a Potenza un mese fa (è poi stato scarcerato dal gip dopo un lungo interrogatorio e due interrogatori investigativi con i pm), si occupava di assistenza ai disabili per la cooperativa il Melograno, dove era già stato affidato in prova (ai giudici ha spiegato di non svolgere più il lavoro di avvocato ma solo quello di imprenditore, titolare di una società che si occupa di energie rinnovabili). Mercoledì si è quindi costituito nel carcere di Orvieto per scontare una pena residua di 3 anni e 10 mesi di reclusione nel frattempo diventata definitiva. L'ex legale esterno di Eni e Ilva, che alla Procura di Milano, nel dicembre 2019, aveva raccontato l'esistenza di una presunta loggia massonica coperta denominata Ungheria, ha patteggiato più di una condanna per corruzione in atti giudiziari, come risulta dal suo casellario giudiziario (che ha una copertura temporale di oltre dieci anni) di quattro pagine in cui la giustizia italiana porta il conto delle sue pene. Alla richiesta di affidamento in prova era allegata una dichiarazione dei pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari che, proprio sulla base delle dichiarazioni relative alla loggia Ungheria, attestavano la sua collaborazione. «Dopo una prima fase nella quale egli ha reso dichiarazioni parziali», è scritto nel documento, «[] ha intrapreso un percorso di collaborazione che ha consentito a questo Ufficio di acquisire elementi importanti al patrimonio conoscitivo dell'indagine». Non solo: «L'atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall'indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l'ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti». Parole che certificherebbero la bontà delle dichiarazioni di Amara (che hanno prodotto condanne per un paio di giudici), ma soprattutto la sua volontà di collaborazione. Poi, però, Amara è finito nei guai a Potenza, dove il procuratore Francesco Curcio gli contesta l'ennesimo episodio di corruzione in atti giudiziari, perché, sostiene l'accusa, grazie anche al suo contributo, la Procura di Taranto, in cui era stato nominato come capo Carlo Maria Capristo, si sarebbe ammorbidita nei confronti dell'Ilva. Il giudice di Roma, infatti, nel suo provvedimento fa riferimento a procedimenti ancora aperti. Anche l'entità della pena, 3 anni e 10 mesi, oltre alle valutazioni sulla sua reale collaborazione con la giustizia, sembra aver avuto un certo peso nella decisione. Il provvedimento è impugnabile in Cassazione. E l'avvocato di Amara, Francesco Montali, spiega: «È un atto che stiamo ancora valutando».

Giacomo Amadori per "la Verità" il 2 luglio 2021. Dall' inizio dell'inchiesta su Luca Palamara ci sono un giornale e un cronista sempre in prima linea quando c' è da attaccare l'ex pm. Una linea nata quando il Csm stava per incoronare procuratore della Capitale Marcello Viola, in barba ai desiderata di Giuseppe Pignatone, che al giornale e al cronista affidò la sua intervista testamento prima di lasciare la Procura di Roma. Noi non vorremmo più parlare di quel giornale e di quel cronista, se non fosse che ieri hanno pubblicato in esclusiva il verbale del pentito a rate Piero Amara che guarda caso, con le sue nuove «dichiarazioni» attaccava Palamara, l'ex leader di Magistratura indipendente Cosimo Ferri e Luca Lotti, ovvero i convitati dell'hotel Champagne, coloro i quali avevano provato (in un'occasione certamente non consona) a boicottare la continuità con Pignatone. E a chi Amara è andato a vendere (per l'ennesima volta) lo scalpo dei tre? Al procuratore di Potenza Francesco Curcio, esponente di Area, la corrente progressista, quella che più si è spesa per assicurare la continuità a Pignatone. Qualcuno potrebbe obiettare: ma perché Curcio ha chiesto l'arresto di Amara che tanti pm progressisti, da Perugia a Milano, hanno trattato come un oracolo? A parte l'obbligatorietà dell'azione penale, questo ennesimo pentimento di Amara mette in ombra i capitoli precedenti della storia, ovvero quelli su cui si stavano concentrando media e giudici: le calunnie e le amnesie dell'avvocato siracusano. Ma adesso la clamorosa decisione del gip di Potenza (su istanza della difesa e senza opposizione della Procura) di scarcerare Amara dopo che questi ha consegnato agli inquirenti un nuovo pacco di accuse restituisce all' indagato un po' di credibilità. E così siamo ancora una volta qui a commentare i verbali dell'uomo che ha corrotto toghe à gogo e che ha portato all' estero decine di milioni di euro che nessuno gli ha mai sequestrato. Pure noi abbiamo provato a chiedere all' avvocato di Amara, Salvino Mondello, notizie sulla scarcerazione e magari il verbale pubblicato dal noto cronista sul noto giornale. Ma il legale ci ha fatto sapere di non avere apprezzato alcuni nostri articoli, anche se, ha precisato, non ci legge. Forse non gli è piaciuto quando abbiamo citato un libro in cui si dice che è stato testimone di nozze del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, lo stesso che discusse con Fava perché quest' ultimo voleva far arrestare Amara. Ora il cronista e il suo giornale ci fanno sapere che Amara avrebbe dichiarato a proposito di Ielo, il presunto compare di matrimonio del suo avvocato, quanto segue: «E sostanzialmente, mi dispiace dirlo che è persona per bene, l'obiettivo è proprio che arrivasse Viola perché così - testuali parole -"Ielo se ne andava a fare le fotocopie"». C' è da capire da chi abbia ascoltato questa battuta Amara, visto che, come dimostrano il trojan di Palamara e le coeve intercettazioni dell'avvocato siciliano (inizialmente indagato come corruttore dell'ex presidente dell' Anm) nel periodo delle riunioni dell' hotel Champagne (maggio 2019), non aveva rapporti diretti con nessuno dei presunti sponsor di Viola. Tutti gli giravano alla larga, quanto meno dalla data del suo primo arresto, avvenuto nel febbraio del 2018. Però tali affermazioni rinforzano la tesi accusatoria della Procura di Perugia, che considera Palamara e Ferri due mariuoli, anche se il secondo non è mai stato indagato in Umbria, nonostante la guardia di finanza gli abbia dedicato un'intera informativa. Adesso bisognerà capire se verrà iscritto a Potenza, dopo che Amara lo ha chiamato in causa per l'ennesima volta (lo aveva fatto anche a Milano): «Io ho reso dichiarazioni, a mio avviso, gravissime nei confronti di una serie di Cosimo Ferri che è la mente di tutto il sistema non gliene è fregato niente a nessuno» ha affermato. Tradotto: io le cose le dico, siete voi magistrati che non prendete provvedimenti. Accuse di «paura» e «assenza di aggressività» che ha esteso ai pm di Milano, di cui aveva decantato sino a poche ore dall' arresto «l'intelligenza mostruosa». Facciamo sommessamente notare che a Roma c' è un solo procuratore aggiunto su una decina che fa riferimento a Magistratura indipendente, la corrente di cui «la mente del sistema» era leader e che nella Capitale, come a Milano, non si ricorda un procuratore di Mi. Quando stava per arrivare, con Viola, è successo il patatrac. La verità è che Ferri per molti anni non ha toccato palla, quando Palamara decideva nomine e assetti con gli amici della corrente progressista di Area. Poi a fine 2018 ha provato ad allearsi con i conservatori di Ferri ed è finito quasi in galera. Un ulteriore pallino di Amara è l'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. A noi, a maggio, Amara aveva detto che il finanziamento da 186.000 euro alla svizzera Racing horse di Andrea Bacci, suo socio nella Teletouch Srl, ma anche stretto collaboratore di Matteo Renzi e Lotti, era una somma destinata al Giglio magico: «Loro avevano problemi nel finanziamento della Leopolda. Sia chiaro che non finanziavo la Racing horse per la bella faccia di Bacci». Amara aveva messo nel mirino anche un altro politico in disgrazia, Denis Verdini, che a suo dire si aspettava soldi dal business dell'olio di palma, il nuovo carburante green per le raffinerie dell'Eni: «Costituimmo una società che doveva acquistare questo prodotto dall'Oceania e poi venderlo all' Eni, quindi siamo andati a Dubai con Verdini e abbiamo aperto dei conti. Ma visto che l'operazione ritardava ad andare in porto e Lotti diceva che aveva bisogno, non per lui, ma per la politica in generale, noi abbiamo iniziato a finanziare Verdini attraverso la P&G e Lotti attraverso la Investment eleven (società di dritto maltese, ndr) coinvolgendoli, però, nelle nostre operazioni». Si tratta di ricostruzioni di cui al momento non ci risultano esistere riscontri. Sul politico dem Amara a Potenza ha raccontato: «Lotti aveva la delega al Csm, i laici rispondevano a loro, punto e basta fino a quando non scoppiavano gli scandali chi decideva il voto dei laici all' interno era Lotti e poi si coordinava insieme a Palamara e Ferri». La prova? Il disciplinare del pm siracusano Maurizio Musco (ex amico di Amara), che sarebbe stato risolto davanti a un caffè in Galleria Sordi a due passi da Palazzo Chigi. Una vicenda che Amara non ci risulta abbia mai riferito prima nei suoi oltre tre anni di collaborazione con la giustizia. «Intervenne Palamara e neppure la censura (sanzione che venne risparmiata a Musco, ndr). Bacci e la Boschi (Maria Elena, ndr) intervengono su Fanfani (Giuseppe, ex membro laico del Csm, originario di Arezzo, ndr) e questo era il funzionamento della sezione disciplinare» ha svelato. Nessuno dei componenti della suddetta sezione, tutti interpellati dalla Verità, nonostante la differenza di corrente e vedute, ha ricordo di queste presunte pressioni. Da Fanfani all' ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, da Lorenzo Pontecorvo a Nicola Clivio, da Antonio Leone a Palamara alla relatrice Maria Rosaria San Giorgio. In Basilicata Amara non ha risparmiato neppure l'ex commissario dell'Ilva Enrico Laghi, che Fava voleva arrestare insieme con il «pentito» siciliano, trovando l'opposizione di Pignatone, Ielo e altri: «(Laghi, ndr) era il dominus di certi rapporti in relazione alla vicenda Ilva il rapporto era direttamente con il premier (all' epoca Renzi, ndr) e con la famiglia Riva. Questo "giocava con tre mazzi di carte"». Tra le notizie «bomba» lanciate da Amara c' è la storia di un giudice, amico di Palamara, che avrebbe chiesto «la maglietta della Juventus sudata. Doveva essere sudata di Pogba». Un episodio così commentato di fronte ai pm: «Uno che fa queste richieste ha problemi seri». Non si intravede, però, la notizia di reato. A conferire credibilità ad Amara sarebbe la frase: «Mi sto un po' in carcere e poi vorrei». Insomma l'arrestato si sarebbe preso il tempo di maturare, questa volta, un pentimento genuino. Peccato che il tempo di decantazione e meditazione sia durato solo due settimane. E che Amara abbia già chiesto, per l'ennesima volta, l'affidamento ai servizi sociali. Un colpaccio che gli è già riuscito a Roma.

Piero Amara, nuova bufera sulla magistratura: a Messina indagine su alcuni colleghi di Catania. L’avvocato e faccendiere chiede di patteggiare per bancarotta. E a verbale dice: “Il sistema dei giudici? Meglio avere a che fare con il clan Santapaola”. Enrico Bellavia e Antonio Fraschilla su l'Espresso il 6 luglio 2021. La scossa è di quelle che preannunciano l’ennesimo sisma. Piero Amara, l’avvocato corruttore di giudici per aggiustare sentenze, chiede un patteggiamento per bancarotta a Siracusa, il terzo: per ottenere lo sconto di pena ammette le proprie responsabilità e racconta di aver fatto ricorso ai legami con alcuni magistrati per favorire una società. In cambio ha ottenuto parcelle per 1,3 milioni di euro che hanno dissanguato l’azienda, portandola al crac. A cascata, le sue rivelazioni aprono l’ennesimo squarcio sul mondo giudiziario e la procura di Messina è già al lavoro. Obiettivo: ricostruire quanto ci sia di vero nel dettagliato resoconto di Amara. Il legale, tramite i buoni uffici del procuratore Tinebra, avrebbe infatti ottenuto che la procura generale di Catania avocasse le inchieste che lo interessavano.  Il patteggiamento di Siracusa riguarda il coinvolgimento di Amara nella bancarotta dell’Ato idrico della provincia, ovvero la società pubblica Sai8 che si occupa dell’acqua. Per il crac, l’avvocato ha proposto una pena di sei mesi, in continuità con altre due pene concordate a Messina e Roma. E, viste le ammissioni, la procura ha dato parere favorevole. L’esito, dunque, appare scontato. Tuttavia a riservare sorprese è il contenuto di un incidente probatorio relativo a questa vicenda. Poco prima di essere arrestato dalla procura di Potenza per la vicenda Ilva, infatti, Amara era stato interrogato il 4 aprile. E qui aveva raccontato il sistema escogitato per tirarsi fuori dai guai giudiziari. In quasi cento pagine di verbale che l’Espresso ha potuto consultare nella sua integrità, Amara ricostruisce i legami con alcuni magistrati che negli anni d’oro del sistema reggevano la procura di Siracusa, come Ugo Rossi, oppure avevano ruoli chiave a Catania, come l’allora aggiunto Giuseppe Toscano e l’allora capo della procura generale Giovanni Tinebra.  Adombrando ancora una volta lo spettro di “sistemi” e senza mancare di utilizzare alcune espressioni forti. Come quando, proprio in riferimento alla rete di relazioni con i magistrati sull’asse Siracusa-Catania, afferma che era «meglio avere a che fare con il clan Santapaola, almeno paga ed è tranquillo». Intendendo alludere a un sistema di corruzioni e ricatti molto più avviluppato di quello mafioso. Il riferimento a tinte fosche è collegato proprio al metodo utilizzato per stoppare l’azione  del pm Marco Bisogni, il magistrato che a Siracusa aveva aperto un fascicolo che riguardava vicende legate ad Amara.  Secondo Amara a fargli il favore fu proprio Tinebra che avocò poi l’inchiesta al suo ufficio. Una cortesia su cui ora dovrà lavorare la procura di Messina guidata da Maurizio de Lucia. Il verbale del 4 aprile è circostanziato. Amara è interrogato dal Gup Salvatore Palmeri e da Dario Riccioli, avvocato di Attilio Toscano (figlio del magistrato Giuseppe Toscano e anche lui imputato per la bancarotta Sai8 avendo ricevuto parcelle dell’importo simile a quello incassato da Amara). Ricostruendo i suoi rapporti con alcuni magistrati, in particolare Rossi e Toscano, Amara racconta anche della vicenda che lo ha riguardato direttamente: l’indagine di Bisogni. Dice Amara: «….Poi per esempio alcune decisioni venivano discusse con Gianni Tinebra anche, che all’epoca era Procuratore generale, perché Bisogni aveva un fascicolo nei miei confronti, si pose anche il problema di fare una vocazione di questo fascicolo, lui mandò un amico di Toscano, gli amici, che non mi ricordo chi era il Sostituto procuratore generale, il quale arrivò a Siracusa, prese possesso del fascicolo di Bisogni, poi tornò a Catania e disse “Mi sono divertito, là non si tocca”... Quindi quello era il sistema... per me era meglio avere a che fare con il clan Santapaola, almeno paga ed è tranquillo». Poi Amara ricorda anche il nome del magistrato che secondo lui venne mandato a Siracusa: «Si chiamava Platania, mi pare». Ora il verbale è stato mandato dalla procura di Siracusa, guidata da Sabrina Gambino, a diverse procure. Compresa quella di Messina per i fatti che riguardano la vicenda Bisogni e per verificare se le dichiarazioni di Amara corrispondono al vero, o siano l’ennesimo tentativo di gettare ombre sulla magistratura. Tanto più che Tinebra, scomparso nel 2017, non può certo replicare in alcun modo. Amara racconta (o millanta) anche di rapporti e relazioni con altri magistrati e ufficiali di polizia giudiziaria. L’avvocato Riccioli chiede ad Amara: «Può chiarire quali erano queste ragioni del suo rapporto personale ed ottimo con il procuratore Toscano?». Amara risponde: «In relazione non al procuratore Toscano, ma più in generale su cui io sono vincolato ad un obbligo di segretezza da altre procure, perché dopo le dichiarazioni del maggio del 2018…Per quanto riguarda i miei rapporti personali, sono... dei rapporti personali estremamente confidenziali, io sono andato a casa, con lui, con altri magistrati, magistrati del Tar, magistrati di questa Procura, ufficiali di polizia giudiziaria, direi straordinari, discutevamo delle parcelle di suo figlio alla Sai 8…Posso fare l’elenco dei magistrati con cui sono stato a casa sua…Maria Stella Boscarino (magistrato del Tar di Catania)... Tinebra, Adamo Trebastoni (magistrato del Tar di Catania), Longo, poi c’era il... tra gli ufficiali di polizia giudiziaria... mi pare uno Rizzotto si chiamava». Amara parla di rapporti vincolanti con alcuni magistrati, rapporti che in alcuni casi definisce «mafiosi». Relazioni comunque che gli avrebbero permesso di vincere sempre le cause dei suoi clienti: «In questo senso mi sono permesso e chiedo scusa al giudice di qualificare quasi latu sensu mafioso un certo rapporto, nel senso quando lei chiude un accordo, con il quale lei crea anche il problema, quindi in quel momento, sbagliando, purtroppo questo in gran parte è stata la dinamica dei miei rapporti con la magistratura, che purtroppo per me ho avuto una percentuale di successo quasi all’80 per cento… questa è la dinamica di quei rapporti. Per essere chiari». E il terremoto è servito.

Nelle intercettazioni non c’è traccia di un suo ruolo. Le rivelazioni di Amara su Ferri e Lotti? Prese dai giornali…Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2021. La lettura dei giornali è stata sicuramente di grande aiuto a Piero Amara: nell’interrogatorio che ha permesso all’avvocato siciliano, ideatore del ‘Sistema Siracusa’, di ottenere la scorsa settimana la libertà dopo essere stato arrestato dalla Procura di Potenza, le cronache del “Palamaragate” hanno avuto un ruolo fondamentale. Nella sua deposizione fiume Amara ha affrontato, infatti, la questione della famosa (mancata) nomina del procuratore generale di Firenze Marcello Viola a procuratore di Roma.

Nel verbale del 10 giugno scorso Amara dichiara che l’obiettivo di Luca Palamara e dei deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti era che arrivasse Viola, definito tuttavia “persona perbene”, perché «così Ielo (Paolo, aggiunto a Roma, ndr) se ne andava a fare le fotocopie». Il giudice e i pubblici ministeri di Potenza non hanno chiesto, tuttavia, ad Amara come facesse a sapere lui della nomina di Viola, a maggio del 2019, alla Procura di Roma, considerato che dalle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia non era emerso alcun suo ruolo ed anzi le intercettazioni telefoniche a suo carico erano state interrotte su richiesta dal Gico della guardia di finanza diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, ufficiale di fiducia dell’allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone, perché infruttuose ed irrilevanti. Non si comprende del resto cosa Amara potesse sapere di nomine fatte dal Csm nel maggio 2019 quando Amara stesso era stato arrestato per la corruzione del pubblico ministero di Siracusa Giancarlo Longo il 6 febbraio dell’anno prima, circostanza che di certo rendeva improbabile oltreché rischiosa una sua interlocuzione ad opera di Palamara e Ferri che di certo non avevano bisogno di aiuto o consigli di Amara. Non resta, quindi, che ipotizzare che Amara abbia riferito a Potenza ciò che, ormai da due anni, è su tutti i giornali, guadagnandosi così la libertà. Una vicenda sulla quale Amara si sofferma a lungo, e che pure pare sfuggita al sensorio mediatico e giudiziario, riguarda l’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti, ora giudice al Tribunale di Roma, esponente di Unicost e relatore della decisione, annullata dal Tar e dal Consiglio di Stato, che ha portato alla revoca della nomina di Viola quale procuratore di Roma. Ebbene su tale vicenda il “collaboratore di giustizia siciliano” ripete, da ormai molti mesi, di una offerta di denaro fatta da Mancinetti al rettore dell’Università Tor Vergata per avere le tracce dei temi per l’ammissione alla Facoltà di medicina cui doveva concorrere il figlio. Dice in proposito Amara di possedere una “registrazione” tanto che esclama «più prova di questa che ti devo dare» perché per risolvere il problema di Mancinetti «Ferri si rivolge a me, Palamara si rivolge a Centofanti (Fabrizio, un faccendiere accusato di aver corrotto Amara, ndr) per organizzare un incontro a Mancinetti che voleva che il figlio che doveva superare gli esami di medicina insomma voleva i testi, i temi che peraltro si va a prendere la moglie che è attuale sostituto procuratore generale e quello addirittura gli offre anche dei soldi e il rettore dice: non, non Sua Eccellenza ma ci mancherebbe, io il favore glielo faccio i temi glieli do ..ma non c’è bisogno». Da notare che il nome di Ferri compare ora per la prima volta in questa vicenda e non si comprende perché Ferri si sarebbe dovuto rivolgere a Amara per aiutare Mancinetti considerato che quest’ultimo non era un esponente della corrente di Magistratura indipendente (la corrente di Ferri, ndr) e che c’era già il canale Palamara/Centofanti. Paolo Comi

Contraddizioni e sorprese: ecco che cosa non torna. Tutti i bluff del pentito Amara: dalle bugie su Barbaro e Fava alle anomalie su Centofanti. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Quando c’è di mezzo Piero Amara, le sorprese non finiscono mai. Trapelano in queste ore, infatti, ulteriori particolari dall’interrogatorio reso dall’ideatore del Sistema Siracusa – nonché principale accusatore dell’ex zar delle nomine Luca Palamara – lo scorso 10 giugno davanti al gip di Potenza. Particolari “sfuggiti” alla disamina del Corriere della Sera che la scorsa settimana in esclusiva aveva pubblicato la notizia della deposizione di Amara, avvenuta qualche giorno dopo il suo arresto da parte della Procura lucana in una indagine per corruzione. Il quotidiano di via Solferino aveva concentrato la sua attenzione, seguendo una linea “consolidata” da maggio del 2019, sempre sulle parti dell’interrogatorio relative al famoso dopo cena dell’hotel Champagne di Roma con Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti. Nelle circa 80 pagine di interrogatorio di Amara ci sono, invece, altri aspetti forse più interessanti. Ad esempio, l’accusa di Amara nei confronti del procuratore generale di Messina Vincenzo Barbaro di avere reso ai pubblici ministeri di Perugia “dichiarazioni palesemente false” circa i suoi rapporti con Palamara. Amara, a tal proposito, afferma che “per fortuna Cantone” sa chi ha detto la verità e chi invece ha mentito, formulando un invito agli inquirenti di Potenza a “sentire” l’ex capo dell’Anac per ricevere lumi, anche perché a Perugia “hanno modificato il capo di imputazione a Palamara sulla base delle mie dichiarazioni”. Sennonché Barbaro, interrogato l’11 marzo scorso dai pm del capoluogo umbro aveva dichiarato, senza mezzi termini, di «considerare calunniose le dichiarazioni dell’avvocato Amara» e, soprattutto, di non aver incontrato Palamara dopo le riunioni di coordinamento con la Procura di Roma del 14 febbraio 2017 e del 15 marzo 2017. Alla domanda posta da Cantone – “si è incontrato con Luca Palamara dopo le riunioni del 14 febbraio 2017 e del 15 marzo 2017?”, Barbaro aveva risposto stizzito “assolutamente no”, portando come testimoni anche due colleghi con i quali era ripartito per Messina dopo la prima riunione, e rispondendo in maniera certa anche sulla seconda riunione. A riprova degli stretti rapporti intrattenuti da Amara con la Procura di Perugia, nell’interrogatorio che gli ha poi permesso di essere scarcerato, l’avvocato siciliano afferma di aver “costretto” Centofanti (Fabrizio, faccendiere accusato di aver corrotto Palamara con pranzi e cene, ndr) a pentirsi a Perugia. In effetti alla data in cui Amara rendeva dichiarazioni a Potenza, il 10 giugno 2021, nulla si sapeva del “pentimento di Centofanti a Perugia” poiché i verbali di costui, dell’1 giugno e del 9 giugno precedenti, erano stati depositati dai pm di Perugia all’udienza a carico di Palamara, dell’ex procuratore generale Riccardo Fuzio e dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, nel procedimento per rivelazione del segreto, soltanto il giorno dopo, l’11 giugno. Essendo Amara stato arrestato dalla Procura di Potenza la mattina dell’8 giugno 2021, sarebbe interessante capire come possa avere avuto notizie segrete sulle indagini perugine in corso. Amara, inoltre, ha parlato come al solito di Fava che è stato l’unico magistrato che sin dall’inizio non gli ha creduto e che lo voleva arrestare e sequestrargli l’ingente patrimonio. Dice di non aver collaborato con la Procura di Roma proprio perché c’era Fava e perché sapeva «del rapporto fortissimo tra Fava e Palamara». Ed inoltre perché c’era Cascini (aggiunto a Roma, ndr) «che se ne doveva andare al Csm grazie a Luca Palamara… perché lui a tutti i costi doveva andare al Csm e Tescaroli (Luca, altro pm romano, ndr) se ne doveva andare a fare… da un’altra parte». Sennonché Fava è da quasi due anni al Tribunale di Latina, trasferito d’ufficio dal Csm, proprio perché voleva arrestare Amara e costui ha iniziato a “collaborare” con la Procura di Milano a novembre del 2019 quando Fava non era più pubblico ministero in servizio a Roma da molti mesi. Nulla quindi avrebbe impedito ad Amara di collaborare a Roma visto che Cascini, Tescaroli e Fava non erano più in servizio nella Capitale da alcuni anni. Dalle chat e dagli sms risulta, inoltre, che il “rapporto fortissimo” Palamara lo aveva con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, con Cascini e con Tescaroli, per questioni di nomine, mentre tra Fava e Palamara non è stato rinvenuto alcun messaggio, neppure per gli auguri di Natale, e mai Fava ha chiesto a Palamara di interessarsi alla sua carriera come invece hanno fatto gli altri magistrati che insieme a lui indagavano su Amara. Risulta, infatti, dalle intercettazioni a mezzo trojan che Pignatone fece pressioni su Palamara per la nomina di Ielo e di Rodolfo Sabelli come aggiunti, e che Cascini e Tescaroli avevano frequenti rapporti con l’ex presidente dell’Anm. Di fatto l’unico dei pm che indagava su Amara a non avere il “rapporto fortissimo” con Palamara era proprio Fava. Paolo Comi

Antonio Massari e Valeria Pacelli per il "Fatto quotidiano" il 6 luglio 2021. Bancarotta per dissipazione. È il reato iscritto dalla Procura di Perugia nell'ambito del fascicolo sulla vicenda del concordato Acqua Marcia. Si tratta dell'indagine partita dalle dichiarazioni di Piero Amara. Il fascicolo ha attraversato mezza Italia: da Milano è stato trasmesso a Roma che poi l'ha inviato a Perugia per competenza. Qui i pm, guidati da Raffaele Cantone, hanno escluso l'eventuale coinvolgimento di magistrati e hanno rimandato le carte nella capitale, iscrivendo solo il reato. Non ci sono infatti indagati. Tutto parte dunque dal verbale di Amara (poi arrestato dalla Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari e ora tornato libero con l'obbligo di dimora a Roma) del14 dicembre 2019. Quel giorno davanti ai pm milanesi, l'avvocato siciliano - le cui parole sono tutte da verificare - racconta: "Su richiesta di Vietti mi interessai del concordato preventivo della società Acqua Marcia di Roma. Vietti sapeva che Caltagirone aveva il problema di far omologare dal Tribunale di Roma il concordato preventivo della sua società Acqua Marcia. Mi chiese pertanto di parlare con Fabrizio Centofanti che all' epoca era il responsabile delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia (...) e di dirgli di nominare come legali della società Enrico Caratozzolo, Guido Alpa e Giuseppe Conte. Mi disse Vietti che la nomina era per ottenere l'omologa del concordato". Gli accertamenti dei pm di Perugia però hanno escluso l'eventuale coinvolgimento di magistrati. Su quanto raccontato da Amara, l'ex presidente del Csm Vietti, non indagato, nei mesi scorsi ha smentito categoricamente; come pure Centofanti, anche questi non indagato, che al Fatto ha spiegato: "Rivendico la correttezza sia professionale sia economica di quell'incarico conferito nell' interesse del Gruppo. In merito alla parcella di circa 400 mila euro per 26 società in concordato per un valore tra attivo e passivo di circa 2 miliardi di euro mi sembra ci abbia trattato molto bene!". In un'intervista al Fatto del 12 maggio Conte (non indagato) invece ha ribadito: "Non ho nulla a che fare con i loschi traffici del signor Amara, non l'ho mai conosciuto. Il mio nome sarebbe stato fatto da Vietti, con cui pure non ho mai avuto rapporti personali e professionali. Trecento pareri legali mi hanno occupato per quasi un anno, quindi quel compenso era il minimo: tutte quelle parcelle hanno passato il vaglio del tribunale e dei commissari giudiziali nominati dai giudici fallimentari".

Csm ed ex Ilva, Piero Amara scarcerato: "Ecco le mie verità. Gestivano tutto Ferri, Lotti e Palamara".  Giuliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'1 luglio 2021. L'avvocato siciliano, accusato di corruzione in atti giudiziari, ha ripreso a parlare. Ieri la decisione del gip di Potenza: fuori di cella dopo aver riempito pagine e pagine nelle quali ha parlato dei suoi rapporti con la politica e con le persone vicine all'ex premier Renzi. E dei giochi all'interno del Consiglio superiore della magistratura. Nella partita diabolica che l'avvocato Piero Amara sta conducendo con la giustizia italiana c'è una rilevante novità: l'avvocato siciliano ha ripreso a parlare. E i magistrati, per il momento, gli credono. Ieri, infatti, il gip di Potenza Antonello Amodeo lo ha scarcerato dopo che, per giorni, l'avvocato siciliano ha riempito verbali raccontando le sue verità. Amara è accusato di corruzione in atti giudiziari: secondo l'accusa avrebbe prima contribuito alla...

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" l'1 luglio 2021. Dopo tre settimane di carcere, un interrogatorio con il giudice che l'ha fatto arrestare e altri due con i pubblici ministeri che conducono le indagini, l'avvocato Piero Amara torna a casa. Grazie al parere favorevole della Procura di Potenza che lo accusa di concorso in corruzione per le interferenze nelle nomine dell'ex procuratore di Trani e di Taranto Carlo Maria Capristo, ieri il giudice ha disposto l'obbligo di dimora nella sua abitazione romana. Questo dimostrerebbe che gli inquirenti lucani sono orientati a dare credito all' ex legale esterno dell'Eni che ha già patteggiato diverse condanne e, alla fine del 2019, parlò con i magistrati milanesi dell'ormai famosa quanto fantomatica «loggia Ungheria»; poi con quelli di Perugia della presunta corruzione dell'ex componente del Csm Luca Palamara, e infine con quelli di Potenza delle vicende per le quali è indagato, ma non solo. Il contenuto dei verbali davanti al procuratore Francesco Curcio è ancora riservato, mentre quello dell'interrogatorio di garanzia con il gip Antonello Amodeo del 10 giugno (due giorni dopo l'arresto) rappresenta una sorta di sintesi di ciò che Amara ha detto, intende dire o minaccia di dire. «Io volevo venire da lei a raccontare le cose di Milano - sostiene rivolto a Curcio, presente all'interrogatorio - perché non è un'indagine che si può trattare in quel modo in cui è stata trattata, con paura e senza aggressività». Si aspettava altro, l'avvocato che da accusato è diventato accusatore, e sottolinea: «Io ho reso dichiarazioni, a mio avviso, gravissime nei confronti di una serie di... Cosimo Ferri, in assoluto, che è la mente di tutto il sistema... Non gliene è fregato niente a nessuno...». Cosimo Ferri è il giudice-deputato renziano che da leader della corrente Magistratura indipendente faceva accordi con Palamara (alla testa di Unità per la costituzione), e a Perugia il procuratore Raffaele Cantone ha utilizzato una parte delle dichiarazioni di Amara, considerate riscontrate, nel procedimento a carico di Palamara. Un nome che l'avvocato pronuncia spesso anche a Potenza, assieme a quello dell'ex ministro Luca Lotti, già braccio destro di Renzi ma rimasto nel Pd: «Lotti aveva la delega al Csm... I laici rispondevano a loro, punto e basta... Fino a quando non scoppiavano gli scandali chi decideva il voto dei laici all' interno era Lotti, e poi si coordinava insieme a Palamara e a Ferri». A Potenza e a Roma Amara, assistito dai difensori Salvino Mondello e Francesco Montali, è accusato di aver utilizzato i rapporti con il funzionario di polizia Filippo Paradiso (altro arrestato nell' indagine lucana) per interferire sul Csm, ma l'avvocato nega: «Per me Paradiso era niente dal punto di vista delle relazioni mie personali. Io avevo relazioni dimostrate... con Cosimo Ferri, immediatamente e dirette. Una volta abbiamo gestito un voto all' interno del Csm alla Galleria Sordi (noto luogo di ritrovo al centro di Roma, ndr )». Era, dice Amara, il processo disciplinare contro l'ex pm di Siracusa Maurizio Musco, prima trasferito e poi prosciolto: «Intervenne Palamara e neppure la censura. Bacci (imprenditore già socio di Tiziano Renzi, ndr ) e la Boschi (ex ministra renziana, ndr ) intervengono su Fanfani (ex membro del Csm, ndr ) e questo era il funzionamento della Sezione disciplinare». La veridicità delle affermazioni di Amara è tutta da dimostrare, ma in certi passaggi sembrano ricalcare le note intercettazioni tra alcuni consiglieri (poi dimissionari) del Csm e il trio Palamara-Ferri-Lotti sulla battaglia per la nomina del procuratore di Roma, con le guerre intestine che avevano nel mirino anche il procuratore aggiunto Paolo Ielo: «E sostanzialmente, mi dispiace dirlo... che è persona per bene, l' obiettivo è proprio che arrivasse Viola perché così - testuali parole - "Ielo se ne andava a fare le fotocopie!"». Quanto alle vicende tarantine e dell'ex Ilva per cui è accusato, collegate secondo l'accusa alla nomina del procuratore Capristo e a due successivi incarichi ricevuti dall' azienda, Amara sminuisce il proprio ruolo e sposta l'attenzione sull' ex commissario Enrico Laghi: «Era il dominus di certi rapporti... In relazione alla vicenda Ilva il rapporto era direttamente con il premier (all' epoca Renzi, ndr ) e con la famiglia Riva. Questo "giocava con tre mazzi di carte"». Secondo l'avvocato, nel mondo delle toghe che aspiravano a promozioni o qualche incarico, «c' erano magistrati che non avevano nessuna intenzione di incontrare politici e ce n' erano invece, non solo Capristo, che volevano incontrare anche il netturbino se potevano raggiungere un certo risultato... Forciniti (ex consigliere del Csm, ndr ) una volta chiese la maglietta della Juventus sudata; doveva essere sudata, di Pogba. Uno che fa queste richieste ha problemi seri...». Ma a parte le note di colore (sempre se autentiche), quando il giudice chiede da che cosa nasca l'interesse per la nomina di Capristo a Taranto, Amara rinvia a futuri colloqui con i pm: «Mi sto un po' in carcere e poi vorrei...». Tre settimane e due interrogatori dopo (il secondo l'altro ieri), Amara è uscito di prigione.

L'indagine condotta da Curcio. “Filippo Paradiso è un uomo di Amara”, il poliziotto sbattuto in galera senza uno straccio di prova…Paolo Comi su Il Riformista il 3 Agosto 2021. La notizia è semplicemente clamorosa. Le nomine dei vertici degli uffici giudiziari non sarebbero influenzate, come si è sempre pensato, dalle correnti della magistratura che lottizzano ogni incarico in base ai rapporti di forza fra i gruppi. Un ruolo di primo piano nel condizionamento delle scelte del Consiglio superiore della magistratura lo avrebbero, è la novità di queste ultime settimane, persone che Palazzo dei Marescialli lo hanno visto, se va bene, solo dal marciapiede. Le recenti indagini delle Procure di Perugia e Potenza sull’avvocato Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, plurindagato ed arrestato, puntano ad avvalorare la tesi, alquanto originale, che le nomine dei magistrati possano essere condizionate dal primo che passa. A Perugia, infatti, si è molto valorizzato il ruolo di Fabrizio Centofanti, ex titolare di una società che organizzava convegni giuridici ed ex grande amico di Luca Palamara. Per i pm del capoluogo umbro, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati in cambio di pranzi e cene pagate da Centofanti, gli avrebbe consentito di «partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano nomine». In particolare, si legge nelle imputazioni, «per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare». Nel capoluogo lucano, invece, il ruolo di play maker delle nomine togate spetterebbe ad un poliziotto di nome Filippo Paradiso, definito la “longa manus” di Amara. Paradiso è stato arrestato lo scorso giugno nell’ambito dell’indagine che ha coinvolto, oltre ad Amara, anche l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Dopo un paio di mesi trascorsi nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, Paradiso è stato messo ai domiciliari dove si trova tutt’ora. La storia di Paradiso merita di essere raccontata. Arruolatosi nel 1985, nel 2004 rimane vittima di un errore giudiziario e trascorre circa due anni in custodia cautelare. Assolto perché “il fatto non sussiste”, gli viene riconosciuto un risarcimento di 270mila euro per ingiusta detenzione. Dopo quella esperienza nefasta decide di non indossare mai più la divisa venendo distaccato presso vari Ministeri. Ne gira tanti: da quello per le Politiche comunitarie a quello dei Rapporti con il Parlamento, da quello dell’Agricoltura a quello dell’Interno. Nel frattempo viene promosso sovrintendente. Al Ministero dell’interno lavora nella segreteria particolare dell’allora ministro Matteo Salvini e poi del sottosegretario Carlo Sibilia. Per tre mesi, dall’ottobre del 2018 al gennaio del 2019, presta servizio presso la segreteria della presidente del Senato Maria Alberti Casellati, con il compito di organizzare dei convegni. La presidente Casellati lo sostituirà con l’ex togato del Csm Claudio Maria Galoppi. Paradiso conosce Amara quando Saverio Romano era ministro dell’Agricoltura. Secondo i magistrati lucani Paradiso era molto vicino a Capristo «non solo dal punto di vista amicale, poiché egli era anche un punto di riferimento di Capristo nello sviluppo del suo circuito relazionale in ambienti anche istituzionali e della sua carriera». E in questo rapporto che «fa ingresso l’avvocato Piero Amara, il cui collegamento con Capristo è determinato proprio da Paradiso». Paradiso, dunque, viene considerato «alter ego e uomo di Piero Amara», il cui interesse era quello di influenzare le nomine dei magistrati. I magistrati di Potenza, come riscontro di queste intermediazioni, hanno trovato qualche biglietto aereo ed alcuni pranzi pagati da Amara a Paradiso. Nella lunga ordinanza di custodia cautelare, però, non vengono mai indicati i soggetti che concretamente lo avrebbero favorito nei suoi piani, né tantomeno provato come lo avrebbero fatto. I pm battono molto sulle disponibilità economiche di Paradiso, soprattutto una polizza assicurativa che sarebbe incompatibile con i suoi emolumenti. Il poliziotto, però, ha prodotto una relazione a firma del professore Francesco Di Ciommo, ordinario di Diritto Privato alla Luiss, in cui si afferma che i redditi percepiti sono perfettamente compatibili con le entrate della famiglia Paradiso. A “difendere” il poliziotto è sceso in campo anche Amara, raccontando in uno dei suoi tanti interrogatori che non aveva bisogno di lui «per arrivare a certi livelli della magistratura italiana». Perché allora Paradiso è ancora detenuto? Le indagini sono condotte dal procuratore di Potenza Francesco Curcio. Il magistrato era balzato alle cronache quando a Napoli, da sostituto, insieme ad Henry John Woodcock aveva condotto l’inchiesta sulla loggia P4. Inchiesta che nel corso del giudizio in Tribunale si era poi dissolta come neve al sole. Paolo Comi

Le relazioni pericolose tra Amara e l'ex procuratore. Mistero Capristo: cosa sapevano di lui al Csm? Paolo Comi su Il Riformista il 13 Agosto 2021. È il mistero giudiziario degli ultimi anni: chi ha voluto che Carlo Maria Capristo diventasse procuratore di Taranto? Sono almeno tre le Procure che, a vario titolo, stanno indagando sulla nomina di Capristo, avvenuta nella primavera del 2016, a capo dei pm tarantini: Perugia, Roma, Potenza. I primi ad accendere i riflettori su questa nomina furono i magistrati di Perugia. Nel fascicolo per corruzione aperto nel 2018 nel capoluogo umbro nei confronti dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, il nome di Capristo compare a seguito delle dichiarazioni dell’avvocato Giuseppe Calafiore, collega di studio di Piero Amara, l’avvocato siciliano ideatore del “Sistema Siracusa” ed esponente di punta della “Loggia Ungheria”. Capristo, allora procuratore di Trani, sarebbe stato convinto da Amara a fare domanda per la Procura di Taranto, vacante dopo il pensionamento di Franco Sebastio. La presenza di Capristo a Taranto serviva, secondo gli inquirenti, per gestire le vicende relative all’Ilva, dove Amara aveva degli interessi importanti. Amara, pur non avendo alcuna nomina, partecipava agli incontri fra la Procura di Taranto e i legali di Ilva in amministrazione straordinaria. A seguito di questi incontri, nel 2017 venne avanzata la proposta di patteggiamento che avrebbe dovuto consentire alla società, gestita dai commissari straordinari Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, di uscire dal maxi processo “ambiente svenduto”. Il patteggiamento sarà, però, bocciato dai giudici. Calafiore, durante il suo interrogatorio, affermò di non aver mai saputo con chi si relazionasse Amara per raggiungere l’obiettivo al Consiglio superiore della magistratura, limitandosi a dire che aveva rapporti “con mezzo Csm”. I riferimenti di Amara, comunque, sarebbero stati Palamara e il giudice Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, ex Pd, già leader di Magistratura indipendente. Con il primo Amara avrebbe parlato tramite il faccendiere laziale Fabrizio Centofanti, con il secondo direttamente. Ferri, che era sottosegretario alla Giustizia quando venne nominato Capristo, aveva poi smentito questa ricostruzione, dichiarando di non aver mai avuto il cellulare di Amara. A Palamara, invece, non venne fatta alcuna contestazione formale sul punto. Dopo Perugia venne, nel 2019, il turno di Roma con l’entrata in scena questa volta, insieme al solito Amara, di Filippo Paradiso, un agente di polizia distaccato presso i Ministeri. Quest’ultimo, secondo i pm della Capitale, sfruttando la propria rete di relazioni istituzionali, avrebbe condizionato le nomine al Csm. Venne aperto un procedimento nei confronti di Amara e Paradiso e fu tirata in ballo anche l’attuale presidente del Senato ed ex componente del Csm Elisabetta Casellati. Quest’ultima, però, come Ferri, smentì seccamente. E arriviamo, infine, alla Procura di Potenza dove a far compagnia ad Amara ci sono sia Capristo che Paradiso. Per il procuratore di Potenza Francesco Curcio, che lo scorso giugno ha arrestato Amara e Paradiso, il poliziotto sarebbe stato una sorta di “alter ego” di Capristo. Una vicinanza “non solo dal punto di vista amicale”, dal momento che “era anche un punto di riferimento di Capristo nello sviluppo del suo circuito relazione in ambienti anche istituzionali e della sua carriera”. Paradiso, secondo l’accusa, avrebbe poi fatto conoscere Capristo ad Amara. «Paradiso e Capristo hanno fatto carte false per raggiungere la posizione di Procura (…) Paradiso ha certamente un sistema di relazioni importanti. Io contatti diretti con Capristo non ne avevo, passavo sempre da Paradiso», aveva dichiarato a verbale Amara, che si sarebbe successivamente avvantaggiato delle intermediazioni del poliziotto pagandogli qualche biglietto aereo ed alcuni pranzi. Il ruolo di Paradiso come king maker delle nomine sarebbe stato limitato. Per gli incarichi importanti, puntualizzò Amara, avrebbe avuto altri interlocutori. Dopo questa deposizione Amara era stato scarcerato. Diverso destino per Paradiso che si trova ancora ai domiciliari: evidentemente non ha fornito i nomi dei suoi referenti al Csm. In attesa di nuovi sviluppi, giunti a questo punto una domanda è d’obbligo: i consiglieri del Csm che nel 2016 votarono Capristo procuratore di Taranto saranno stati a conoscenza delle manovre di questi faccendieri? Paolo Comi

CASO AMARA. ESISTONO ANCORA GIUDICI SERI CHE APPLICANO LA LEGGE E NON CERCANO PROTAGONISMO MEDIATICO. Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2021. Pietro Amara, salvo nuove successive decisioni del Tribunale, dovrà scontare tutte condanne accumulate in questi anni ed il cumulo dei patteggiamenti per corruzione in atti giudiziari, che sono arrivati a 3 anni e 9 mesi di carcere. Ma i giornalisti che amano l’ Area “condizionata” tacciono…Mentre alcuni cronisti pugliesi pendevano dalle labbra e millanterie dell’ avvocato-faccendiere Pietro Amara, originario di Augusta (Siracusa), amplificando le sue millanterie e strategie con le quali ha preso in giro non pochi magistrati compreso il procuratore di Potenza Francesco Curcio ed il Gip Antonello Amodio, ma per fortuna in Italia ci sono ancora dei magistrati seri che in silenzio applicano le norme di Legge, come è accaduto alcune settimane fa (per la precisione il 21 luglio scorso) nel tribunale di Sorveglianza di Roma. L’avvocato siciliano corruttore di magistrati ed investigatori di mezza Italia dopo aver illuso il gip ed il procuratore di Potenza, non è riuscito a trovare credito dinnanzi al tribunale di Sorveglianza che rigettato la sua richiesta di affidamento ai servizi sociali e quindi ad Amara non è restata altra scelta che quella di costituirsi direttamente in carcere. Amara prima di finire in carcere a Potenza un mese fa ( poi scarcerato dal gip Amodio dopo un lungo interrogatorio e due interrogatori investigativi con i pm guidati dal procuratore capo Curcio ), si occupava di assistenza ai disabili per la cooperativa il Melograno, dove era già stato affidato in prova (ai giudici ha spiegato di non svolgere più il lavoro di avvocato ma solo quello di imprenditore, titolare di una società che si occupa di energie rinnovabili). Lo scorso giugno l’avvocato Amara, era riuscito ad uscire per l’ennesima volta dal carcere, in quel caso su decisione del giudice potentino Antonello Amodeo. che insieme al procuratore Curcio sono cascati nel solito “teatrino” dal solito copione: Amara parla dicendo quello che gli fa comodo, inventando di tutto e di più, accontentando alcuni magistrati creduloni, alla ricerca di visibilità mediatica, che lo ritengono attendibile e cosi esce di prigione, o in ogni caso ottiene maggiore libertà. Ma il teatrino di Amara questa volta non ha convinto i giudici della Sorveglianza del Tribunale di Roma, ed è finito nella casa circondariale Orvieto. Secondo fonti vicine alla sua difesa legale, l’avvocato siciliano avrebbe preferito costituirsi in questo quel carcere onde evitare di essere trasferito da Roma in un secondo momento, in quanto un problema di sovraffollamento spesso i detenuti della casa circondariale di Roma vengono trasferiti in luoghi scelti dell’autorità giudiziaria. Adesso Pietro Amara, salvo nuove successive decisioni del Tribunale, dovrà scontare tutte condanne accumulate in questi anni ed il cumulo dei patteggiamenti per corruzione in atti giudiziari, che sono arrivati a 3 anni e 9 mesi di carcere. Inutile è stato il parere del procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, o alcune obsolete archiviazioni sparse per l’Italia, che i suoi difensori hanno presentato al tribunale di Sorveglianza di Roma per ottenere l’affidamento ai servizi sociali. A nulla sono servite le svariate mendaci e fantasiose dichiarazioni spontanee con le quali Amara evidenziava e contestava la carenza di coordinamento investigativo tra le varie procure che si erano occupate delle sue attività illegali. Inutile il controverso discutibile parere della procura di Milano che definiva Amara “collaborativo ed estraneo al contesto criminale” che lui stesso aveva messo ai piedi. Infatti anche secondo i pm milanesi l’avvocato siciliano si sarebbe “pentito”. Per ottenere l’affidamento ai servizi sociali l’avvocato Amara aveva depositato una dichiarazione dei pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari che attestavano la sua collaborazione sui racconti dell’esistenza di una presunta loggia massonica coperta denominata “Ungheria”. “Dopo una prima fase nella quale egli ha reso dichiarazioni parziali”, è scritto nel documento dei sue magistrati della procura di Milano, ” ha intrapreso un percorso di collaborazione che ha consentito a questo Ufficio di acquisire elementi importanti al patrimonio conoscitivo dell’indagine“, ma non solo ! “L’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall’indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti. Tutto ciò è stato inutile dinnanzi al giusto e dovuto rigore giudiziario del Tribunale di Sorveglianza di Roma, chiamato a valutare e decidere sulle sue pendenze giudiziarie, che non l’ha accordata sia per l’entità della pena, sia per i procedimenti tuttora aperti (potrebbero portare ad altre condanne), sia perché la collaborazione di Amara, piuttosto che da un vero pentimento, potrebbe derivare solo da scelte di “opportunismo” processuale. Il provvedimento è impugnabile in Cassazione. L’avvocato Francesco Montali difensore di Amara dichiara: “È un’iniziativa che stiamo ancora valutando”. Per il momento quindi addio servizi sociali per Amara. Una decisione pesante arrivata sulla testa dell’avvocato proprio mentre il Tribunale di Siracusa aveva accolto la sua richiesta di patteggiamento a 9 mesi di carcere per Amara, proposta dalla procura siracusana nell’ambito dell’inchiesta per il fallimento della società che gestiva il servizio idrico a Siracusa.

O che bel mestiere fare il faccendiere. Filippo Ceccarelli su L'Espresso il 21 giugno 2021. L’avvocato Amara erede di una eterna categoria italiana. Personaggi spesso pittoreschi, che si insinuano nel sottopotere seducendo, minacciando, adulando, e quasi sempre millantando. Amara o Amàra, questo è il problema. Non l’unico certo, né il peggiore, ma tale da anteporre l’enigma identificativo a qualsiasi trattazione di un soggetto, Piero Amara appunto, che da un paio di mesi va riempiendo le cronache giudiziarie: accuse, impicci, patacche, elenchi di logge segrete, Eni, Procura di Milano, Csm, traffici intorno alle nomine della magistratura, da un paio di settimane anche gli eco-disastri dell’Ilva di Taranto, un record di storiacce in sordida concentrazione che generano un secondo interrogativo: in quale mai classe professionale va compreso questo avvocato Àmara o Amàra, che dir non si voglia? E qui la possibile risposta si biforca in due lingue di fuoco. La prima è che il tipo in questione è siciliano; e se i siciliani sono il sale del mondo, offrendo da secoli materia grigia in sovrabbondanza, è pur vero che la Sicilia è un’Italia al cubo nella quale la più intricata rete di scambi finisce per generare una sottilissima ambiguità che a sua volta si esprime in linguaggi mirabilmente elusivi e al tempo stesso, se necessario, fin troppo chiari. Che sarebbe un modo per dire che non ci si capisce mai niente. L’altro corno fiammeggiante della premessa è che su potere e quattrini, assai più che le funzioni contano l’attitudine psicologica, lo stile di relazione e il tratto umano, per così dire. Così, di Amara se ne sono lette tante, e tante ancora se ne seguiteranno a leggere, ma la più impressiva ed eloquente - sul long form di Repubblica a cura di Bonini, Lauria, Ossino, Palazzolo e Sannino - è che avendo a cuore una sentenza che avrebbe favorito un certo affare, come un angelo Amara entra nel cuore di un certo giudice che deve pronunciarla, e compreso che questi ha a cuore la salute di un amico malato, si offre di pagargli una costosa e disperata operazione; dopo di che quasi immediatamente passa all’incasso e ottiene la sentenza, ghermisce il denaro e s’ammanta di bontà e fama d’onnipotenza. Sembra la trama di un film, una commedia all’italiana di quelle “cattive” che Rodolfo Sonego scriveva per Alberto Sordi negli anni 60. E invece è solo per collocare, finalmente, questo Amara in un inconfondibile comparto dell’antropologia del sotto-comando all’italiana. Ebbene, prima di piegare la bocca in una smorfia di disgusto è bene sapere che la figura archetipica del “Faccendiere” ha elevatissime ascendenze, se non altro lessicali. Secondo i dizionari etimologici è Niccolò Machiavelli ad aver messo in circolo la parola, nell’anno 1513, e con la definizione: «Chi si dà da fare specificamente in affari poco onesti». In oltre 500 anni la classe di questi ultimi si è comprensibilmente dilatata, dal che l’immaginario, ma anche il mansionario del perenne faccendiere arriva a comprendere ogni sorta di nefandezze. Per restare agli ultimi 70-80 anni: delazioni e salvataggi durante la guerra civile; finti nobili, cocaina, “donnine”, come si diceva, e affari all’ombra del Vaticano nella prima fase della Repubblica; poi trame golpiste, traffici di petrolio, massonerie predone e ricatti con contorno di banchieri strangolati; si aggiunga quindi un po’ di spionaggio e compravendita di armi, complotti & depistaggi, relazioni proibite con la criminalità, commercio di giornalisti, tangenti sugli appalti, grande evasione e grandi affari, dalla chimica alle discariche passando per i post-terremoti, beh, ce n’è quanto basta e avanza per stabilire che i faccendieri svolgono, ai loro fini, un mestieraccio che i veri potenti di solito fanno finta di ignorare, ma spesso gli fa comodo. Di contemporaneo nell’avventura di Amara compare il minimo sindacale: impicci calcistici, società di internet reputation, vacanze a Dubai. La novità vera sta nell’efficace impegno di pilotaggio delle nomine di vertice nelle Procure. Ma lo stile del mestiere, con tanto di elenchi, rivelazioni e registrazioni “al sicuro”, rientra pienamente, tanto più nel consueto clima di guerre per bande, in quello storico serraglio di intraprendenti, arrembanti, empatici e loschi personaggi. Ora maneggioni, ora pirati e capitani di ventura, cortigiani accreditati, ex venditori di tappeti e di materassi, colli torti dotati della più malevola ipocrisia ecclesiale, ma anche goliardoni attempati da casino e da trattoria, millantatori sparapalle e cani da pagliaio. L’esito di tale gallery è che in Italia non c’è scandalo che non contempli il suo faccendiere di riferimento in riprovevole operatività, ma come avviene per i funghi, occorre smuovere bene il fogliame del sottobosco perché essi si attraggono a vicenda e non sai mai bene chi sta fregando chi. Siamo, grosso modo, alla terza o quarta generazione, quest’ultimissima magari camuffata dietro i titoli di “lobbisti” e “facilitatori”. Dal secondo dopoguerra, con ragionevole approssimazione, si può azzardare che il capostipite dei faccendieri sia il marchese (titolo controverso) Ugo Montagna (di San Bartolomeo), misterioso, elegante, gran cacciatore nella tenuta di Capocotta, spregiudicato deus ex machina dell’affare Montesi in qualità di procacciatore di affari e “partite di piacere”, prima per i fascisti e poi per la entrante nomenklatura democristiana. Così come il titolo di presidente onorario della categoria tocca di diritto a Licio Gelli, il Maestro Venerabile della P2, anche lui nominato conte dall’esiliato Re, il cui esoterismo praticone andava a braccetto con le passioni cardinalizie del suo sodale Umberto Ortolani, donde l’immaginifico abbinamento “Il Gatto e la Volpe” da parte della vedova del povero banchiere Roberto Calvi. Sulla figura di Gelli, che si dilettava a scrivere poesie e nascondeva lingotti d’oro nelle fioriere di Villa Wanda, esiste una abbondante bibliografia e una montagna di atti parlamentari e giudiziari che sono arrivati a coinvolgerlo nelle stragi. Imprenditore dell’anticomunismo, scappò nell’emisfero australe; imprigionato in Svizzera, evase e si fece fotografare travestito da suonatore di organetto a Nizza. Ma anche qui il tratto più significativo era la dislocazione dei suoi ospiti, a mo’ di catena di montaggio, nelle tre stanze dell’Excelsior; e mentre il Venerabile si aggirava indaffaratissimo e i telefoni squillavano, “Caro Presidente!”, “Caro ministro!”, “Eccellenza!”, “Eminenza!”, lui copriva la cornetta con la mano e sussurrava ai suoi pollastri il nome del potente facendogli l’occhiolino. Gelli fu soppiantato da Flavio Carboni, che riforniva Calvi di pecorino sardo e come hobby destinale aveva la prestidigitazione (e il karatè); ma questi se la doveva vedere con Francesco Pazienza, che all’albo d’oro recò il coté dello spionaggio international e d’alto bordo, ricerche oceanografiche, aerei Concorde, Rolls Royce, trovando il suo Tacito nell’imprenditore ruspante Alvaro Giardili che così ebbe a presentarlo in sede di inchiesta parlamentare: «Francesco ciaveva un cervello diabbolico, parlava quattro cinque lingue e se l’incartava tutti». Ora, sembra che tutti i faccendieri facciano una brutta fine, in realtà vale solo per quelli perdenti. Ma ce ne sono che per misteriose pulsioni si agitano, brigano e intrigano quasi solo per strabiliare il prossimo, col risultato di svelare propria impostura. Di questa tipologia per così dire creativa e quasi letteraria (Zavattini? Manganelli? Borges?) il più ragguardevole esemplare resta dell’Igor Marini, anche lui finto conte e vero stunt-man, che ai tempi di Telekom-Serbia, fiutata l’aria o imbeccato che fosse, tra un fantomatico archivio svizzero e un gigantesco rubino posseduto da un cinese, arrivò a mettere sotto accusa l’intera classe dirigente del centrosinistra inventandosi tangenti, rielaborando soprannomi (“il Rospo” Dini, “Mortadella” Prodi e “Cicogna” Fassino) e dando vita e notorietà a personaggi (il Cavalier Palermini, Padre Astolfo) inesistenti. Il tutto sotto il manto stellato della sòla che si fa arte, ma soprattutto all’insegna di quel codice tutto italiano, per cui la realtà inesorabilmente va a confondersi con la sua rappresentazione e la vita con la sua messa in scena. È ovvio che ogni faccendiere fa storia a parte, certo più avvincente delle normali traversie del potere. Dal pre-Tangentopoli a Phoney-money, dai ricettori delle dazioni perseguiti da Mani Pulite al post-craxiano Walterino Lavitola che, specializzatosi in Sudamerica per Berlusconi, conduce oggi un ristorante di pesce a Monteverde, sono sempre storie a loro modo anche istruttive. “Uomo di relazioni” si definì Gigi Bisignani e non è un caso che Gianni Letta abbia usato per lui la stessa espressione: «Amico di tutti, il più conosciuto che io conosca». Celebrato in almeno un paio di volumi come “L’uomo che sussurra ai potenti” (con Paolo Madron, Chiarelettere, 2013) e scrittore di gialli lui stesso, “Bisi” assomma allegra prontezza, disavventure giudiziarie e sbuffi di mondanità nella diuturna opera di sondare, sponsorizzare, intercedere, ma anche pensare e presentare libri: «Può arrivare un po’ dovunque», secondo l’ex onorevole, attore, producer anche dell’Eliseo Luca Barbareschi. Se i confini fra gli ambiti, fra teatro mirato e botteghino, sono saltati, i machiavellici free-lance dell’intrallazzo subito ne hanno tratto vantaggi. E tuttavia nello scorrere del tempo e nella varietà della specie, le costanti, si vorrebbe dire l’anima, restano. C’è sempre un tesoro di dubbia provenienza; non manca mai un sentore di dossier; ma specialmente si avverte la più acuta sensibilità nel comprendere le debolezze altrui per sfruttarle ai propri fini. Àmara o amara è del resto la natura umana.

Il tesoro nascosto di Piero Amara: case, terreni e società per il lobbista più conteso dalle Procure. Cessioni, donazioni, vendite. Mentre l’avvocato coinvolto nelle inchieste su Eni e Ilva continua a parlare, il suo patrimonio prende il largo. E tra i beni spuntano anche otto appartamenti acquistati nel 2013 dall’ex ministro Saverio Romano. Enrico Bellavia e Antonio Fraschilla su L'Espresso il 9 luglio 2021. Parla, rivela, racconta o forse millanta. E intanto risparmia. Anni di carcere con i patteggiamenti per corruzione e bancarotta. E soldi. Tanti. Quelli almeno che l’avvocato plurinquisito e pluriarrestato, Piero Amara, diventato il jukebox delle procure di mezza Italia, riesce a far sparire in un gioco di prestigio fatto di cessioni, alienazioni, spoliazioni, munifiche regalie. In un sistema di scatole cinesi che è la sua specialità. Anche così l’uomo chiave del processo Eni, ora al centro dell’inchiesta Ilva, può fatturare anni di spericolate relazioni con il mondo giudiziario e dell’intelligence, in un gioco di favori e ricatti, solo in parte svelato. Che ha per posta un tesoro fatto di impianti fotovoltaici, immobili, terreni, case a Milano e in mezza Sicilia. Ecco: dove sta la roba di Amara, il mastro Don Gesualdo dei faldoni, il lobbista degli uffici giudiziari? Dove si riversa quel fiume di parcelle e consulenze, drenate a manbassa aggiustando processi in giro per l’Italia e per conto di facoltosi quanto spregiudicati clienti? Perché quello che Amara toccava si trasformava in oro. Prendete la Napag, su cui indaga la procura di Milano. Importava frutta e con Amara alle spalle si votò al petrolio. Risultato? Novanta milioni tondi di commesse da Eni. Tanto per avere un’idea delle leve che il legale dalla remota provincia di Siracusa era in grado di muovere, destreggiandosi tra società di Dubai e Lussemburgo, i cui nomi si rincorrono, si mischiano e si sovrappongono nelle migliaia di pagine dei verbali e delle informative della Finanza. Molte sigle, niente cifre. Perché, almeno finora, la caccia al tesoro di Amara non pare neppure cominciata, mentre lui dosa fatti accanto a opinioni, verità e congetture. Che intanto sporcano, infangano, inguaiano, terremotando il sistema giudiziario. E non solo. Se la roba è un’ossessione, la famiglia una debolezza. E, come dimostrano alcuni documenti che L’Espresso ha consultato in esclusiva, i soldi di Amara non sono andati poi troppo lontano. Una separazione consensuale dalla moglie, una donazione al figlio sono solo il primo schermo. Utile quanto basta a mettere distanza tra le mani e le tasche. 

LE PARCELLE. Di certo c’è che fino al 2017, ultimo anno di fulgore del formidabile sistema creato da Amara, i clienti sono stati prodighi. Del resto, come lui stesso ha ammesso, la rete di società che coccolavano i magistrati vicini alla cricca, era in grado di assicurare ai committenti una percentuale di successo «dell’80 per cento». E la quasi infallibilità si paga. Così Mr. Wolf Amara incassava cifre da capogiro per una transazione filata liscia o per un processo provvidenzialmente arenatosi. Secondo un audit interno commissionato da Eni a Kpmg, reso noto dal Corriere della Sera nel 2019, solo la multinazionale energetica pubblica gli ha elargito 11 milioni di euro in provvigioni professionali. Piatto forte, al quale l’ineffabile avvocato ha accostato contorni succulenti dopo aver cucinato la solita minestra di legami. La Sai 8, la società che ha gestito l’Ato idrico di Siracusa ha cambiato in blocco il pool degli avvocati, confermando solo Giovanni Pitruzzella per poi rivolgersi ad Amara e liquidargli parcelle per 1,3 milioni, dissanguandosi fino alla bancarotta. Amara garantiva del resto una corsia preferenziale con l’ex procuratore Ugo Rossi e con l’allora aggiunto a Catania Giuseppe Toscano. Interlocutori privilegiati dal momento che il figlio di Rossi, si scoprirà, era diventato nel frattempo socio di Amara nella Gi.da srl e il figlio di Toscano, Attilio, venne chiamato poi come consulente esterno alla Sai 8 per una cifra pari a quella di Amara (1,3 milioni). Centomila euro, invece, il cadeau di Ilva all’avvocato Amara per essersi speso, sostiene l’accusa, in favore della nomina di Carlo Maria Capristo a procuratore di Taranto. Una toga gradita perché assai accomodante in favore delle acciaierie. 

LO SHOPPING. Per capire il sistema Amara bisogna frugare nella selva di sigle delle sue srl. E da lì risalire ai soci: magistrati e figli di magistrati, i preferiti, ma in generale chiunque potesse aiutarlo a tessere la trama di relazioni essenziale per gli affari. In anni non sospetti ha aperto una società con il magistrato Raimondo Cerami, la Cms service, poi varie aziende energetiche piazzandovi l’allora moglie, Sebastiana Bona, oppure avvicinandosi a imprenditori a loro volta prossimi a chi era nella stanza dei bottoni. Gli è capitato così di essere insieme ad Andrea Bacci, imprenditore legato alla famiglia Renzi. Con Bacci, Amara diventa socio nella Teletouche, avventura non andata proprio bene ma che, secondo la procura di Roma, avrebbe consentito di far transitare all’estero alcuni fondi dell’ex presidente del Cga e del Consiglio di Stato Vittorio Virgilio. In questo caso la mission aziendale non era proprio il fatturato. In altri invece sì. È accaduto con la Da.gi srl, al 90 per cento di proprietà della moglie di Amara. Solo formalmente, secondo i magistrati, nei fatti gestita dal marito: tanto è vero che lì venne assunta, sempre secondo i pm romani, un’amica del presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi. La Da.gi si occupa di impianti di energia rinnovabile: aperta nel 2009, all’inizio ha bilanci leggeri con fatturati da 50 mila euro. Poi nel 2013, dopo aver acceso un mutuo per nuovi campi fotovoltaici, esplode e inizia a macinare successi con ricavi da 5 milioni di euro tra il 2013 e il 2017. Altra società che a un certo punto inizia a correre è quella che Amara ha con Giuseppe Calafiore, suo partner in molte partite del “sistema”. La P&g registra ricavi per quasi 2 milioni di euro tra il 2011 e il 2016. Non pochi per una società di consulenza di due allora semisconosciuti avvocati siracusani. Se il business in quegli anni decolla, anche gli investimenti prendono il volo. Nel 2013 la Da.gi srl rileva il 100 per cento delle quote della Roma Uno Immobiliare che ha in pancia otto appartamenti appena ristrutturati in via Giacomo Watt a Milano. Il prezzo pagato è di 600 mila euro versati ai soci, più la presa in carico di un mutuo da quasi un milione di euro. Di chi sono le quote della Roma Uno Immobiliare? Dell’ex ministro Saverio Romano e della moglie Stefania Martorana. Romano nei primi anni Duemila, insieme al messinese Augusto Reitano, ha infatti ristrutturato le ex fabbriche Watt a Milano e comprato poi 20 appartamenti per un valore di 4 milioni di euro. Nello stesso complesso di via Watt ha un appartamento anche l’ex governatore siciliano Salvatore Cuffaro. In quegli anni, Reitano è un imprenditore in vista, considerato il re della 488 e dei fondi europei per il turismo in Sicilia. Una perizia che L’Espresso ha consultato rivela poi che attraverso le due società di famiglia, la Geostudi srl e la Augusta immobiliare, negli anni ruggenti Amara ha arricchito il proprio patrimonio con immobili e terreni a Catania, Siracusa e Augusta per un valore pari a 3 milioni di euro. 

LE DONAZIONI. Fino al 2019, ovvero fino a quando Amara ha potuto muoversi senza intralci, società, appartamenti, terreni, impianti, fabbricati e incassi da parcelle sono tracciabili e riconducibili a lui, alla luce del sole. A partire da quell’anno, quando ormai è finito al centro dei riflettori, l’avvocato inizia a distillare verità autentiche o presunte e a spogliarsi di buona parte del patrimonio. Sa che i guai sono solo all’inizio e liberarsi dei segreti è solo una parte del lavoro che gli tocca. Il primo agosto del 2019, davanti al notaio Marco Cannizzo, Amara firma un accordo di separazione dalla moglie: a quest’ultima cede le sue quote nelle società Geostudi srl e nella Augusta immobiliare. Il restante 50 per cento resta alla sorella di Amara, Serafina. Quanto valgono i beni gestiti da queste due società? Lo scrive, nelle perizie allegate all’accordo di separazione, l’ingegnere Tommaso De Luca: per la Geostudi i beni valgono 1,9 milioni di euro, per la Augusta immobiliare un milione. Amara alla moglie trasferisce anche due appartamenti ad Augusta e a Catania: nel capoluogo etneo cede un appartamento di 14 vani in pieno centro sul quale pende una ipoteca per mutuo da 1,8 milioni che Bona si accolla senza chiedere nulla in cambio. E gli appartamenti di Milano? Tutte le quote della Roma Uno Immobiliare passano nel 2020 dalla moglie Bona alla società Milan Luxury, a sua volta di proprietà al cento per cento della Dagon srl. E di chi è la Dagon? Del figlio di Piero Amara, Giuseppe. E la Da.gi srl che gestisce gli impianti fotovoltaici che fine ha fatto? Sempre nel 2020 passa alla Augusta Energia, quest’ultima di proprietà al 100 per cento della Dagon, quindi sempre del figlio, Giuseppe Amara. Insieme al peso delle sue malefatte, l’avvocato sembra essersi alleggerito anche del portafogli. Gli restano qualche casa e terreni tra Augusta e Melilli, le quote in P&g e Teletouche, entrambe in liquidazione. Poca cosa, il grosso se ne è andato. Dopo i fiumi di denaro, restano però fiumi di parole. Che valgono ancora oro.

Il giallo degli arresti bloccati: così Piero Amara ha spaccato i suoi pm.  Paolo Biondani su L'Espresso il 18 giugno 2021. Mentre si accreditava come super-pentito della "lobby Ungheria", l'avvocato aggiusta-processi è riuscito a dividere la procura di Milano. E a paralizzare due indagini. Piero Amara, l'avvocato aggiusta-processi, negli ultimi tre anni è finito in carcere per tre volte. Con l'accusa-base di aver corrotto giudici e pm dalla Sicilia a Roma fino alla Puglia. Ora si scopre che ha rischiato altri due arresti. Che ha evitato riuscendo a spaccare i magistrati-anticorruzione di Milano. Presentandosi come super-pentito alla stessa Procura che lo accusava di orchestrare false indagini, per accumulare soldi e potere. Lui questa volta si proclama innocente. Ma se fosse colpevole, si riconfermerebbe un genio delle trame legali. L’Espresso nel numero in edicola da domenica e già online per i nostri abbonati, pubblica un'inchiesta sui retroscena dello scontro tra i pm di Milano, che ha provocato l'apertura di indagini a Brescia, Roma, Perugia e al Csm. Al centro del caso c'è Amara, l'ex avvocato dell'Eni già arrestato nel 2018 come grande corruttore di giudici del Consiglio di Stato e pubblici ministeri siciliani. Nel 2019, dopo aver confessato e patteggiato una condanna complessiva a quattro anni e due mesi, Amara restava indagato a Milano per altre due accuse. Sono le due indagini che hanno avvelenato i rapporti tra il pm Paolo Storari e gli aggiunti Fabio De Pasquale e Laura Pedio, appoggiati dal procuratore capo Francesco Greco. Entrambe le inchieste della discordia riguardano l'avvocato Amara. Sospettato di avere nascosto molti soldi all'estero grazie a una società petrolifera denunciata dall'Eni. E di aver orchestrato gravi calunnie insieme a Vincenzo Armanna, imputato e testimone d'accusa nel maxi-processo Eni-Nigeria, che il tribunale di Milano ha chiuso nel marzo scorso con una clamorosa assoluzione generale. Le presunte calunnie miravano a colpire, in particolare, l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, e il capo del personale, Claudio Granata. In ogni ufficio giudiziario è normale che i magistrati discutano e si dividano sui tempi o sulla gravità degli indizi necessari per chiedere il carcere. Ma è raro che si blocchino due diverse richieste di arresto per lo stesso indagato. Questi contrasti tra pm dividono la procura di Milano da più di un anno. E si legano anche all'indagine più recente e clamorosa, quella sulla lobby Ungheria, la presunta associazione segreta che avrebbe interferito nei processi e nelle carriere giudiziarie: proprio Amara ne ha parlato agli stessi pm di Milano a partire dal dicembre 2019, giurando di voler collaborare con la giustizia e raccontare tutto. Ma le accuse di calunnia complicano il quadro. Ora tocca ai pm di Perugia il difficile compito di distinguere il vero dal falso nei suoi verbali. Amara ha sempre negato di nascondere tesori all'estero o di aver mai verbalizzato calunnie. In questi giorni è stato riarrestato dai magistrati di Potenza, con l'accusa di aver corrotto il procuratore dell'Ilva di Taranto, già capo dei pm di Trani, che smentisce tutti i reati ipotizzati.

I segreti di Piero Amara, il pentito spacca-procure che ha evitato due arresti. Paolo Biondani su L'Espresso il 18 giugno 2021. Un'indagine su tesori nascosti all'estero. E gravi accuse di calunnia contro i vertici dell'Eni. Ecco le inchieste che l’avvocato aggiusta-processi è riuscito a paralizzare. Presentandosi come super-testimone. Fino allo scontro tra pm sulla “lobby Ungheria”. Piero Amara, l’avvocato aggiusta-processi, negli ultimi tre anni è finito in carcere per tre volte. Con l’accusa-base di aver corrotto giudici e pm dalla Sicilia a Roma fino alla Puglia. Ora si scopre che ha rischiato altri due arresti. Li ha evitati, riuscendo a spaccare i magistrati-anticorruzione di Milano. Presentandosi come super-pentito alla stessa Procura che lo accusava di orchestrare false indagini, per accumulare soldi e potere. Un genio delle trame legali. Fino al 2017 Amara è l’avvocato che risolve i problemi giudiziari dell’Eni in Sicilia, incassando parcelle da un milione all’anno per più di un decennio. Nel 2018 viene arrestato come grande corruttore di magistrati. Tre Procure (Messina, Roma e Milano) lo accusano di aver comprato un pm di Siracusa e diversi giudici del Consiglio di Stato, che vengono arrestati e condannati. Se ne parla poco, ma è il primo scandalo di sistema: investe l’organo di vertice della giustizia amministrativa, che ha il potere di modificare le nomine decise dal Csm. Amara confessa e patteggia una condanna a quattro anni e due mesi. Ma resta indagato per altre due accuse a Milano. E proprio qui annuncia di voler collaborare. A partire dal 9 dicembre 2019, il grande corruttore racconta ai pm Laura Pedio e Paolo Storari, ancora uniti, che esisterebbe una lobby segreta, chiamata Ungheria dal nome di una piazza di ritrovo a Roma, che interferisce nei processi e nelle carriere giudiziarie. Dentro, a suo dire, c’è il gotha della giustizia italiana. Amara mette a verbale 74 nomi eccellenti, ma lui stesso avverte che non tutti erano associati, solo alcuni l’hanno usata per fini illeciti, altri furono strumentalizzati. Quelle dichiarazioni dividono i pm milanesi. Indagare tutti e subito? O cercare prima riscontri oggettivi? E quale reato ipotizzare? L’accusa di associazione segreta, prevista dalla legge Anselmi, era nata per contrastare logge massoniche deviate come la P2, che aveva liste di iscritti, tessere, ricevute di versamenti. Mentre Amara descrive una rete di potere informale, che si può ricostruire solo a parole. Le sue. Confermate da registrazioni private. Nel febbraio 2020, quando Amara torna in carcere per scontare la pena, il suo collega (e complice) Giuseppe Calafiore fa l’agente provocatore: contatta i presunti associati e li registra di nascosto, per spingerli a confermare la lobby. Gli audio però, secondo due fonti che li hanno ascoltati, provano poco o nulla: parla quasi solo Calafiore. L’indagine intanto è ostacolata e rallentata dalla pandemia. E il primo scontro tra pm riguarda un’inchiesta diversa, ma collegata. Pedio e Storari indagano su una società, Napag, nata negli anni Novanta come piccola ditta di ortofrutta a Reggio Calabria. Dopo il 2013 si è trasformata in azienda petrolifera, ha trasferito la sede a Roma, nello studio di Amara, e ha cominciato a fare grossi affari con l’Eni. E grazie a quell’accredito, con compagnie straniere. Fonti interne al colosso statale oggi precisano che la Napag avrebbe incassato «tra 70 e 100 milioni di euro solo dall’Eni», con «un margine del 25 per cento». Quindi i pm di Milano iscrivono Amara nel registro degli indagati con l’accusa di esserne «socio occulto». I primi avvisi di garanzia partono a fine novembre 2019. Poco dopo il padrone della Napag, Francesco Mazzagatti, crea una nuova holding a Londra, registrata il 23 dicembre. Si chiama Viaro, è estranea alle indagini e ha molti soldi: nell’estate 2020 compra per 300 milioni una società petrolifera inglese, BlackRose Energy; poi acquista oleodotti e giacimenti dal gruppo Halo. I nuovi avvocati dell’Eni, intanto, denunciano la Napag a Milano. E il pm Storari scrive una richiesta d’arresto di Amara, che non convince la collega Pedio nè i vertici della procura. Mesi dopo, ne prepara un’altra, questa volta per calunnia. Neanche questa supera l’esame dei capi. Contro Storari si schiera l’aggiunto Fabio De Pasquale, appoggiato dal capo della Procura, Francesco Greco. È normale che i magistrati discutano e si dividano sui tempi o sulla gravità degli indizi. Ma è raro che si blocchino due arresti diversi per lo stesso indagato. A torto o a ragione, Storari si convince che Amara sia intoccabile per il suo legame con Vincenzo Armanna, l’ex manager che accusa l’Eni di aver concordato una maxi-corruzione in Nigeria. Quel processo si chiude nel marzo scorso con un’assoluzione generale e mille polemiche. Il tribunale per la verità riconosce che l’Eni ha versato un miliardo e 92 milioni di dollari, nel 2011, su un conto del governo nigeriano, che però risulta totalmente svuotato: allo Stato (e al popolo) africano non è arrivato un soldo. Circa mezzo miliardo è finito a un ex ministro pregiudicato, Dan Etete, che si era auto-assegnato il giacimento durante la dittatura militare. Nel tentativo di provare la complicità dell’Eni, il pm Fabio De Pasquale aveva puntato molto su Armanna. Ora il magistrato è indagato a Brescia con l’accusa, da lui smentita, di non aver depositato prove favorevoli alle difese. Quelle trovate da Storari, con la sua indagine per calunnia. Che riguarda un coacervo di accuse e ritrattazioni di Armanna e Amara. La premessa è l’interrogatorio del 30 luglio 2014 che coinvolge per la prima volta il numero uno dell’Eni, Claudio Descalzi, nello scandalo nigeriano. Una videoregistrazione privata, sequestrata all’imprenditore Ezio Bigotti, mostra che Armanna, due giorni prima, ha preannunciato ad Amara che i loro nemici interni all’Eni verranno colpiti da «avvisi di garanzia da Milano». Il video viene depositato in tribunale solo quando lo scopre un difensore. Nel 2015 la trama si capovolge. Amara e Armanna orchestrano una falsa indagine, con il pm corrotto di Siracusa, per far saltare lo stesso processo Eni-Nigeria. Fallito l’obiettivo, tutti confessano il depistaggio, ma non rivelano il mandante, che i pm Pedio e Storari identificano nell’allora capo dell’ufficio legale dell’Eni, Massimo Mantovani, che nega, ma viene licenziato. La terza manovra somiglia alla prima. Armanna, che nel 2016 aveva ritrattato le accuse a Descalzi, contro-ritratta. E sostiene che il mandante sarebbe un fedelissimo di Descalzi, Claudio Granata. A confermarlo è il solito Amara, che parla di un incontro a Roma riscontrato dai loro messaggi. Nell’autunno 2020, il pm Storari acquisisce i telefonini e conclude che è tutto falso: i messaggi sono manipolati e l’incontro non c’è stato, perché Granata era nel suo ufficio a Milano. Armanna avrebbe anche cancellato una frase su 50 mila dollari destinati a un testimone nigeriano. I capi della Procura però congelano l’accusa di calunnia, contestando le modalità di acquisizione dei messaggi, da regolarizzare con una perizia (tuttora in corso). Il pm Storari non si fida più. E dopo l’ultima lite consegna i verbali segreti sulla lobby Ungheria a Piercamillo Davigo, che ne parla ai vertici del Csm. Secondo l’accusa, invece, bisognava fare un esposto formale. Il caso scoppia quando due giornalisti denunciano di aver ricevuto pezzi dei verbali da una fonte, poi identificata con la segretaria di Davigo. Lei nega, ma non si fa interrogare. Di certo gestiva la posta del magistrato, aveva la sua password e ha copiato i verbali. Ed è una funzionaria del Csm con un profilo notevole: prima di Davigo, ha lavorato per altri capi-corrente, tra cui spicca Cosimo Ferri; convive con un ex giudice; e qualche anno fa frequentava anche Fabrizio Centofanti. Il presunto corruttore di Luca Palamara, l’ex magistrato (radiato) nemicissimo di Davigo e dei pm di Roma. In attesa dei primi verdetti, va sottolineato che Mazzagatti e la Napag hanno sempre smentito le accuse (intentando anche una causa contro l’Espresso a Londra, senza successo). Amara nega di avere tesori nascosti, ma è tornato in cella con l’accusa di aver dimenticato di confessare la presunta corruzione del procuratore di Taranto. Mentre i nuovi avvocati dell’Eni accusano la procura di Milano di aver creduto ai calunniatori. E vedono nell’operazione Ungheria l’ennesima trama per salvare soldi e potere: un’arma di distrazione di massa. Ora tocca ai pm di Perugia il difficile compito di distinguere il vero dal falso nei verbali di Amara. E smascherare i suoi mandanti.

Clamorosi sviluppi del caso Consip. Romeo fu arrestato da Pignatone dopo aver presentato esposto contro Bigotti, socio del fratello del procuratore…Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Vi dico subito che il protagonista – e la vittima – della storia che sto per raccontarvi è l’editore di questo giornale. Cioè Alfredo Romeo. Vi aggiungo che Alfredo, oltre ad essere il mio editore, è anche un mio amico. Poi vi dico che ieri, dopo aver letto i due articoli di Paolo Comi che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, a proposito del secondo dei video sequestrati nel corso delle indagini sul famoso avvocato Amara – video che oltre che su Amara forniva notizie su un certo Ezio Bigotti, imprenditore, e sull’avvocato Roberto Pignatone -, sono andato a parlare proprio con Romeo perché mi chiarisse alcune cose. Gli ho chiesto: ma è vero quello che mi hai raccontato tempo fa, e cioè che tu cinque anni fa presentasti all’Anac e all’Antitrust e a Consip due esposti contro Bigotti? Lui ha fatto la faccia stupita e ha ammesso. E allora gli ho chiesto: ma è vero anche che dopo quei due esposti sei stato arrestato? Lui mi detto di nuovo di sì, ancora più stupito, e giurando che lui era del tutto innocente, che non c’era nessuna prova contro di lui, e che nelle gare Consip lui fu sempre vittima di manovre mai chiarite di altri gruppi. Eh già, gli ho risposto. Questo lo ho capito. Ma tu hai capito quanto sei stato ingenuo a presentare quei ricorsi? Alfredo è caduto dalle nuvole, e allora gli ho spiegato quello che ora spiego anche a voi. Dunque succede questo. C’è una gara Consip, chiamata “Luce”, nel 2016, alla quale partecipa la Romeo con ottime probabilità di vittoria in due lotti. In effetti li vince tutti e due (e due, per regolamento, era il limite dei lotti che si potevano vincere in questa gara) ma la Consip, prima di proclamare i vincitori, esclude la Romeo dalla gara perché – dice – uno dei partecipanti al consorzio non è in regola col Durc (pratica burocratica per accertare che le ditte abbiano pagato tutti i contributi). In realtà poi si scopre che non era vero: era in regola. Secondo la Consip questo “consorziato” era in debito di 600 euro. I due lotti perduti dalla Romeo assegnavano lavori per circa mezzo miliardo di euro. A questo punto la Consip proclama vittoriosa una società che si chiama Conversion&Lighting. La Romeo protesta, per due ragioni. La prima ragione è che questa Conversion&Lighting non aveva nemmeno partecipato alla gara. Si può – come insegna de Coubertin – partecipare senza vincere, ma si può anche vincere senza partecipare? Poi c’è una seconda ragione che impediva quella vittoria. Il fatto che – si scopre – la Conversion&Lighting è una società che risulta al 51 per cento di proprietà della Exitone e che la Exitone è una società a socio unico Sti e la Sti è una società di Enzo Bigotti. E si scopre che la Sti di Bigotti, direttamente o con società controllate, si è aggiudicata cinque degli otto lotti in gara. Mentre la legge prevedeva che non potesse aggiudicarsi più di due lotti. Dunque cosa è successo? Che Consip ha escluso con un pretesto la Romeo, che avrebbe vinto due lotti, e non si è accorta che la Sti di Bigotti aveva ottenuto molti più lotti di quelli che le spettavano. A questo punto la Romeo presenta un esposto all’Anac, a Consip e all’Antitrust. Anche per chiedere che si vigili sulle future gare in Consip, soprattutto sulle gare denominate Fm4 (e cioè quelle che poi saranno al centro dello scandalo Consip) che valgono alcuni miliardi. L’esposto viene passato alla Procura, per conoscenza? Questo noi non lo sappiamo. Sarebbe stato logico, visto che nell’esposto si segnalavano dei reati. Sappiamo comunque che Romeo non riceve nessuna risposta né dall’Anac né dall’antitrust, che le gare Fm 4 si svolgono normalmente, e che probabilmente, almeno in parte, sono truccate, sappiamo che a Romeo vengono tolti tutti gli appalti, e che per di più viene arrestato. Non ci credete? Capisco che voi non ci crediate. Ma le cose sono andate esattamente così. Romeo denuncia una turbativa d’asta, i presunti turbatori vengono lasciati indisturbati e continuano a vincere gare, e Romeo – direi per ripicca – viene arrestato. Cioè si mette in cella forse l’unico concorrente che è fuori dai giochi. Romeo non ha mai capito perché è stato arrestato. Ha sempre pensato di aver pagato per qualche ragione il sostegno che nel 2013 aveva dato a Matteo Renzi. Ora però viene a sapere – cadendo dalle nuvole – che Bigotti, cioè l’imprenditore contro il quale aveva firmato l’esposto, era in rapporti economici importanti con il fratello del Procuratore di Roma, che la procura di Roma dopo il suo esposto lo fa arrestare, e che la stessa Procura prima accantona e poi archivia il filmato dal quale risultano i rapporti tra Bigotti e il fratello del Procuratore. I Pm che archiviano sono gli stessi che oggi sostengono le accuse contro Romeo, che è ancora sotto processo.

P.S. Qualche mese fa le gare Consip che erano finite al centro dello scandalo, sono state tutte ripetute. Su otto lotti in palio (stavolta senza il limite dei due lotti) Romeo ne ha vinti otto. Come a dire: quando le aste si svolgono pulite… Beh insomma, mi fermo qui, le conseguenze traetele voi.

P.S. 2. Ho raccontato ad Alfredo una storia tragicissima che da vecchio cronista ricordo, e che avvenne, credo all’inizio degli anni ottanta. Un imprenditore del caffè, un certo Palombini, fui rapito. Credo dalla banda, allora famigerata, capeggiata da Laudovino de Santis. Lo portarono in una capanna in un bosco. Lui una sera riuscì a liberarsi. Fuggì, corse nel bosco per diversi minuti e poi trovò una casa abitata. Bussò. Gli aprì Laudovino…Che c’entra con la storia di Romeo? Non so, lui però quando gliel’ho raccontata ha fatto una smorfia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Lo strano intreccio tra indagini, amicizie, fratelli, appalti e arresti inspiegabili...Le mani di Pignatone e della Procura di Roma sugli appalti Consip: così fu fatto fuori Romeo? Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Luglio 2021. In questi giorni il nostro Paolo Comi sta raccontando la storia – interamente documentata – dei rapporti intrattenuti da un gruppo di imprenditori e consulenti con un avvocato che si chiama Roberto Pignatone ed è il fratello dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. L’interesse giornalistico per questa vicenda sta nel fatto che alcuni di questi imprenditori erano anche indagati, per vari motivi, dalla Procura di Roma, e che il Procuratore, all’epoca, era proprio Giuseppe Pignatone. Il quale effettivamente segnalò a un certo punto al Procuratore generale, cioè a Giovanni Salvi, la sua condizione di probabile incompatibilità: però la segnalò dopo aver svolto un bel numero di atti relativi a quella indagine. Salvi oltretutto respinse la segnalazione e decise che non c’era nessuna incompatibilità. Forse però, nel prendere questa decisione, violò un pochino le regole del buon senso: può un Procuratore occuparsi delle indagini a carico degli amici di suo fratello. Ora succede che, siccome questo giornale è edito da Alfredo Romeo, noi giornalisti del Riformista abbiamo una conoscenza particolarmente approfondita delle storie che riguardano uno di quegli imprenditori indagati dalla procura di Roma. Un certo Ezio Bigotti. Il quale si è trovato più volte ad essere il concorrente di Alfredo Romeo in alcune gare di Consip, per ottenere pubblici appalti. Bigotti, di solito, pur perdendo le gare otteneva gli appalti (con società delle quali era socio direttamente o con altre società di cui erano socie altre società, della quali erano socie altre società ancora eccetera eccetera, delle quali infine Bigotti era socio di maggioranza…). E come otteneva gli appalti? Grazie all’esclusione di Romeo (attraverso il contenzioso amministrativo al Tar ed al Consiglio di Stato, esclusione che Romeo considerava illegittima e che produceva un notevole aumento dei costi per lo Stato). Così, nel 2016, successe che Romeo fece un esposto per protestare contro le decisioni di Consip di escluderlo pretestuosamente da alcune gare e di assegnare gli appalti a una società riconducibile a Bigotti (che tra l’altro non aveva partecipato alla gara…). Nell’esposto si chiedeva anche che si facesse attenzione alle successive gare Consip (quelle che poi finirono al centro dello scandalo Consip) e si garantisse la loro regolarità. Romeo sosteneva che c’era il rischio che un cartello irregolare turbasse la correttezza delle aste. Non ebbe successo quell’esposto. Anzi, fu rovinoso. Nessuno diede retta a Romeo e la Procura di Roma addirittura lo fece arrestare: lui ancora non ha capito il perché. Dopodiché – è cosa di questi giorni – si scopre che esiste un filmato, tenuto in un cassetto per cinque anni dalla Procura di Roma e poi archiviato, dal quale risulta che Bigotti e Roberto Pignatone avevano rapporti di consulenza e quindi anche economici. E la cosa inquieta un pochino chi vuole guardare con distacco tutta la vicenda. Proviamo a riassumere in due battute: Romeo vince delle gare. La Consip lo esclude con un pretesto. Romeo protesta. La Procura di Roma lo arresta e avoca a sé l’inchiesta Consip che era all’epoca nelle mani della procura napoletana. Le gare Consip non vengono annullate – caso unico nella storia, di fronte allo scandalo di cui parlano tutti i giornali- ma vengono vinte tutte dalle aziende concorrenti di Romeo comprese quelle di questo Enzo Bigotti. Poi si scopre che Bigotti è amico del fratello del Procuratore. Infine, se vai a spulciare, trovi un passaggio dell’interrogatorio del giugno 17 (mentre Romeo era in carcere) dei magistrati romani all’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, che fa venire i brividi alla pelle. Lo trascrivo:

MARRONI (Amministratore di Consip): Comunque, dottore, non so se lo studio Severino che ci assiste gliel’ha detto, glielo dirà anche formalmente, che noi abbiamo preso con Romeo la decisione di escluderlo dalla gara Fm4 anche oltre la decisione del Tribunale di Roma dell’interdittiva (…).

PALAZZI (sostituto procuratore e Pm al processo Romeo): Sì, Sì.

MARRONI: Possiamo anche dare il verbale del consiglio di amministrazione. E questo è successo prima che uscisse la notizia del Tribunale di Roma… (…).

PIGNATONE: avete dato i chiarimenti richiesti.

MARRONI: sono stati dati i chiarimenti. Sono state apprezzate molto tutte le nuove procedure che ho messo in atto. Quindi conclude dicendo che a loro gli va bene e controlleranno che noi applichiamo le procedure. Così come abbiamo preso la decisione di escludere…

IELO (Procuratore aggiunto di Roma): Sono cose già formalizzate queste?

MARRONI: La decisione io l’ho proposta al consiglio di amministrazione che l’ha votata. Ora io sto dando gli atti, mando le lettere e quindi…

PIGNATONE: Però la decisione già c’è.

MARRONI: La decisione è già presa, su mia proposta perché sono parte del Consiglio, ma l’ho fatta io la proposta. Ho anche suggerito e caldeggiato un atteggiamento severo al consiglio di amministrazione.

Tutto chiaro? Marroni, nell’interrogatorio su Consip, si vanta di avere escluso Romeo da tutte le gare, di sua iniziativa, e di essersi impegnato, e di avere chiesto estrema severità. Occhei? E che c’entra questo con la necessità di scoprire se ci sono state irregolarità nelle gare? Niente: sembra che l’unica cosa che interessa è l’esclusione di Romeo. E perché a Pignatone interessa tanto sapere se Romeo è stato escluso? Chissà. Non dovrebbe cercare piuttosto eventuali reati? Chissà. E come mai tra i tanti inquisiti per il presunto scandalo Consip non c’è Marroni, cioè l’unico che si è salvato è Marroni che pure era l’amministratore delegato di Consip e aveva ampie possibilità di influenzare gli esiti delle gare? Chissà.

Poi un’ultima domanda: chi ha guadagnato dall’esclusione di Romeo (il quale poi, sia detto in una parentesi, quando cinque anni dopo le gare si sono ripetute stavolta in piena regolarità, in modo pulito, le ha vinte tutte…Sì: tutte)? Sicuramente tra chi ci ha guadagnato c’è anche e forse soprattutto questo Ezio Bigotti. (Oltre alla Team Service, che è la società per la quale si è scoperto che lavorava Marco Gasparri, cioè l’unico testimone che accusa Romeo).

Ultimissima domanda: c’è una relazione tra le prime domande e l’ultima risposta? Boh.

Domanda supplementare, che magari non c’entra niente o magari invece qualcosa c’entra: si hanno notizie di quella famosa Loggia Ungheria, che forse un tempo – o forse anche ora – dominava la Giustizia e in parte anche l’economia, e sulla quale indagava il dottor Storari, prontamente bloccato dalla procura di Milano e ora candidato alla rimozione?

Vedrete che non lo sapremo mai.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Le rivelazioni di Racanelli. La minaccia di Pignatone sulla richiesta di arresto di Amara: “Chi darà retta a Fava si farà male…” Paolo Comi su Il Riformista il 18 Giugno 2021. «Chi darà retta a questo esposto di Fava, chi seguirà questo esposto, si farà male, molto male». L’autore della “fatwa” è Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore di Roma. La frase è stata riportata dal procuratore aggiunto della Capitale Antonello Racanelli, ex segretario generale di Magistratura indipendente, durante la sua audizione il mese scorso davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. In Commissione era stata aperta nei suoi confronti una pratica per “incompatibilità ambientale” a seguito della pubblicazione dei colloqui che aveva avuto con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Durante l’audizione Racanelli ha toccato, oltre all’esposto del pm Stefano Rocco Fava, molti altri argomenti che forniscono un quadro esaustivo del clima che si respirava nella Procura di Roma fra i pm alla vigilia della nomina del successore di Pignatone. «Tenga presente che non rientravo nel cerchio magico del procuratore Pignatone e con il procuratore Pignatone non c’era circolazione di notizie», esordisce, però, Racanelli. Fava, come abbiamo raccontato in queste settimane, aveva presentato alla fine di marzo del 2019 al Csm un esposto circa mancate astensioni di Pignatone e del procuratore aggiunto Paolo Ielo in alcuni procedimenti penali. In particolare quello aperto nei confronti del celebre avvocato Piero Amara. A Fava era stato poi tolto il fascicolo. «Il procuratore mi dette l’impressione di essere una persona fortemente seccata per questo esposto, ma fortemente convinta di avere ragione», afferma Racanelli. «Ero andato a casa per pranzo, perché io abito vicino al palazzo di giustizia. Appena tornai la mia segretaria disse: “guardi, l’ha cercata il procuratore”». Racanelli, allora, corse da Pignatone. «Mi tiene ben trenta, quaranta minuti, in cui mi spiega per filo e per segno tutte le vicende dell’esposto di Fava», prosegue Racanelli. «Io sono stato mezz’ora – continua – mi ha spiegato tutto. Lì ho avuto l’impressione ancora una volta che lui era scocciato di questo esposto, però era convinto di essersi comportato correttamente». «Io non sono in grado di dire se avesse ragione lui o avesse ragione Fava», puntualizza il procuratore aggiunto. Racanelli sottolinea più volte di non aver letto all’epoca l’esposto e di aver saputo del suo contenuto in ambito ufficio: «Escludo Fava, non ricordo se l’ho saputo da Palamara». «A memoria d’uomo un caso unico di revoca di un fascicolo. Non mi risultano altri casi. Quindi un caso che faceva abbastanza scalpore e quindi se ne parlava», prosegue ancora. «Un magistrato che fa un esposto all’organo di autogoverno non si può ritenere a priori denigratorio nei confronti dei soggetti che vengono accusati nell’esposto», puntualizza Racanelli, stigmatizzando la decisione del Csm di bollarlo come “denigratorio”. Ed a proposito della fondatezza del suo contenuto, «non c’è stato ancora un accertamento su questo esposto a distanza di due anni». I consiglieri chiedono quindi a Racanelli notizie sulla nomina del successore di Pignatone. «I giornalisti erano i più informati e lo avevano da fonte consiliare certa», dice Racanelli. Il canale privilegiato in quel periodo, sembra, fosse il consigliere di Area, la corrente progressista della magistratura, Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma come Racanelli. Cascini, pare, avesse messo in moto un meccanismo informativo di tipo circolare: «Se Cascini diceva qualcosa a Bianconi (Giovanni, giornalista del Corriere della Sera, ndr), Bianconi veniva a piazzale Clodio e ce lo diceva». «Quindi avevamo una serie di informazioni molto chiare su questa vicenda», aggiunge Racanelli. «Il dottor Bianconi, che è molto più informato di me sapeva tutto quello che succedeva in Commissione (incarichi direttivi, ndr)». Racanelli racconta, poi, che venne “acchiappato” da Cascini la sera del saluto di commiato di Pignatone il 7 maggio 2019. «Cascini mi disse che loro non avevano assolutamente nessuna voglia di votare Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, ndr), volevano a tutti costi votare Lo Voi (Francesco, procuratore di Palermo, ndr)”. Cascini, aggiunge, «espose il problema di come appoggiare Ardituro (Antonello, pm a Napoli, ndr) per la Procura nazionale antimafia». Palamara, presente al saluto, notò la scena e, appena terminata la conversazione con Cascini, chiese a Racanelli cosa si fossero detti. Palamara, appresa la notizia, aveva poi avvisato delle future mosse di Cascini l’allora consigliere del Csm Luigi Spina, di Unicost. Racanelli racconta, infine, che si presentò da lui Francesco Lo Voi: «Fu portato da me dalla segretaria del procuratore Pignatone». «Guarda Franco, non devi parlare con me, devi andare a parlare con i consiglieri che stanno al Consiglio», gli disse secco. L’ufficio di Racanelli era un porto di mare in quel periodo. «Una mattina venne da me Palazzi (Mario, pm di Roma, esponente di Area, ndr) in ufficio mi tenne mezz’ora a volermi convincere della bontà della scelta di Lo Voi. Quello che poi accadde è noto. Nella serata di ieri è giunta da Perugia la notizia che le intercettazioni del procedimento a carico di Palamara saranno utilizzabili. Lo ha deciso il gup Piercarlo Frabotta che ha respinto anche la richiesta della difesa di Palamara di disporre una perizia sul server a Napoli di Rcs, la società che aveva fornito gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni con il trojan. Le indagini avevano evidenziato che si trattava di un server non “dichiarato”: per legge si sarebbe dovuto trovare a Roma, dove veniva effettuati gli ascolti. Sul punto la Procura di Firenze sta facendo accertamenti, dopo aver indagato i vertici di Rcs. Il gup di Perugia, però, ha deciso senza aspettare le conclusioni da Firenze. Alla perizia si erano opposti i pm di Perugia. L’8 luglio prossimo inizierà la discussione. Paolo Comi

Nuovo colpo di scena. L’accusa di Amara: “I Pm fecero sparire il video del fratello di Pignatone”. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Esiste un altro video, anche questo mai depositato al processo Eni-Nigeria, in cui l’avvocato Piero Amara, sempre nell’ufficio romano dell’imprenditore torinese Enzo Bigotti, discute di strategie per condizionare le attività del colosso petrolifero di San Donato e dei suoi vertici. La “prima” videoregistrazione, di cui si ebbe notizia in maniera assolutamente casuale all’udienza del 23 luglio 2019 grazie al difensore di un imputato che l’aveva rinvenuta in un altro procedimento, riguardava l’incontro del 28 luglio 2014 tra lo stesso Amara, l’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna ed alcuni faccendieri. Negli uffici di Bigotti, uno dei protagonisti del “Sistema Siracusa”, Armanna, fresco di licenziamento per falsi rimborsi spese, manifestava l’intenzione di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi. Ed infatti due giorni più tardi si presenterà in Procura a Milano per denunciare episodi corruttivi asseritamente commessi da Eni e dai suoi vertici, diventando il principale teste d’accusa nel processo imbastito dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Nella sentenza milanese, presidente Marco Tremolada, depositata il mese scorso e che ha assolto i vertici dell’Eni portati alla sbarra da De Pasquale per il reato di corruzione internazionale, la circostanza del video “nascosto” era stata duramente stigmatizzata. «Risulta incomprensibile – scrivono i giudici – la scelta del pubblico ministero di non depositare il video con il rischio di eliminare dal processo un dato di estrema rilevanza». La “nuova” videoregistrazione, invece, fatta il 18 dicembre 2014, sempre negli uffici di Bigotti, riguarda un incontro tra il manager, gli imprenditori Andrea Bacci e Giancarlo Cecchi, e il solito Amara. Nella conversazione si parla di Eni, del cittadino nigeriano chiamato KK, molte volte menzionato anche nell’incontro del 28 luglio, dell’amministratore delegato dell’azienda petrolifera Paolo Scaroni, poi imputato nel processo milanese, della gestione dei servizi in Eni-Congo e di una gara che vale venti milioni di euro e di una operazione, sempre riferita a Eni-Congo, che vale 250milioni di euro all’anno. Sennonché di questa videoregistrazione si sono perse le tracce. Per capire il motivo è necessario fare un passo indietro. Entrambe le registrazioni vennero acquisite durante una perquisizione effettuata dai carabinieri che nel 2015 stavano svolgendo accertamenti su Bigotti a proposito di un appalto per la linea ferroviaria Torino-Ceres. Titolare del fascicolo era il procuratore aggiunto del capoluogo piemontese Andrea Becconi. Le registrazioni per competenza territoriale vennero poi trasmesse da Torino a Roma. La Procura di Roma, visionati i nastri, decise di inviare a sua volta a Milano per competenza solo quella del 28 luglio 2014, mentre quella del 18 dicembre 2014 la inserirà in un fascicolo “atti non costituenti notizia di reato” assegnato dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone all’aggiunto Paolo Ielo. Quest’ultimo, poi, lo assegnerà al pm Mario Palazzi il quale, a fine 2020, lo archivierà “de plano”, senza passare dal gip, con la controfirma del neo procuratore della Capitale Michele Prestipino. Nella lunga conversazione, trascritta dai carabinieri e che il Riformista ha potuto leggere, Amara e soci parlano anche del fratello di Pignatone, il tributarista Roberto e degli incarichi che costoro gli hanno conferito nel corso degli anni. Una circostanza, quella degli incarichi, che verrà riportata nel celebre esposto che l’ex pm romano Stefano Rocco Fava depositerà nel 2019 al Csm e di cui si sono perse le tracce. Il video del 18 dicembre 2014, “oscurato” ai giudici milanesi, agli imputati ed ai loro difensori nella sua interezza, ha certamente impedito ogni possibile valutazione da parte dei soggetti interessati in un processo così importante come quello Eni-Nigeria. C’è solo da sperare a questo punto che la Prima commissione del Csm, svegliandosi dal torpore ora che sta facendo le audizioni proprio su questa vicenda, e la Procura di Brescia che ha indagato De Pasquale, si interessino alle ragioni che hanno indotto la Procura di Roma a non trasmettere a Milano il video del 18 dicembre 2014 e ad archiviarlo in un fascicolo che non è passato al vaglio di alcun giudice. Paolo Comi

Nuovi retroscena. Amara parlava del fratello di Pignatone, ma il procuratore non mollò il fascicolo…Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2021. L’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone assegnò il fascicolo ricevuto da Torino, contenente una videoregistrazione in cui, come emerse successivamente, veniva citato il fratello Roberto, tributarista di Palermo, all’aggiunto Paolo Ielo, senza astenersi e con l’indicazione “conferire”. Emergono nuovi particolari nella vicenda raccontata ieri dal Riformista relativa alla videoregistrazione effettuata il 18 dicembre 2014 nell’ufficio romano dell’imprenditore nel settore del facility management Ezio Bigotti. Tutto inizia a maggio del 2015 quando i carabinieri del capoluogo piemontese, svolgendo indagini sull’appalto da 130 milioni di euro per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Ceres, decidono di perquisire l’ufficio di Bigotti. Fra i vari documenti i militari trovano anche due filmati. Uno del 28 luglio 2014 in cui compare, oltre a Bigotti, l’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, l’avvocato Piero Amara ed alcuni faccendieri. E l’altro, appunto, del 18 dicembre successivo. Il primo filmato, dove Armanna, fresco di licenziamento per falsi rimborsi spese, manifestava l’intenzione di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi, venne trasmesso alla Procura di Milano che stava svolgendo indagini nei confronti del colosso petrolifero. Questo filmato, però, una volta arrivato nel capoluogo lombardo non verrà mai depositato dalla Procura nel processo Eni-Nigeria. Il secondo video, con una prima trascrizione, arrivò invece a Piazzale Clodio in quanto si faceva riferimento ad appalti Consip e Roma in quel periodo stava indagando sulla centrale acquisti della Pubblica amministrazione. Il 22 aprile 2017 Pignatone lo assegnò in un procedimento modello 45 (gli atti non costituenti notizie di reato) al numero 4637 di quell’anno, passandolo poi Ielo e scrivendo a penna “conferire”. Nella trascrizione dei carabinieri di Torino si poteva leggere questa frase di Amara: «Il professor – poi incomprensibile – è consulente del presidente Ezio Bigotti di tutte le società Exit One, lavora molto con il mio studio, lui è professore di diritto tributario a Palermo è persona splendida meravigliosa». Pignatone, pur essendo nominato il fratello, farà richiesta di astensione al procuratore Generale della Corte di Appello di Roma solo il mese successivo. Tornando al fascicolo, dopo due anni, per la precisione il 3 aprile del 2019, Ielo deciderà di riassegnarlo al pm Mario Palazzi. Passato un anno e mezzo e, da quanto risulta, senza aver fatto altri accertamenti, Palazzi a sua volta, il primo dicembre 2020, con il visto del procuratore Michele Prestipino, lo archivierà definitivamente. Trattandosi di un fascicolo iscritto a “modello 45” senza passare dal gip. Nell’esposto poi presentato dall’ex pm romano Stefano Fava su questa vicenda, verrà indicato che Pignatone non aveva mai riferito che Bigotti fosse cliente di Amara e che il fratello Roberto aveva rapporti con quest’ultimo. Per la comunicazione dei rapporti, ai fini dell’astensione, fra i due bisognerà attendere diversi mesi. Amara ieri, per la cronaca, si è costituto ad Orvieto essendo stata rigettata la domanda di affidamento che aveva presentato nelle scorse settimane. Riarrestato il mese scorso dalla Procura di Potenza con l’accusa di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione nell’ambito di una indagine in cui era coinvolto anche l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, Amara aveva iniziato una collaborazione con i pm. Essendosi guadagnato la fiducia dei magistrati – soprattutto del procuratore lucano Francesco Curcio – l’avvocato siciliano era stato scarcerato, ottenendo l’obbligo di dimora a Roma. Forte di questo provvedimento, Amara aveva presentato al Tribunale di Sorveglianza di Roma una istanza di affidamento in prova ai servizi sociali dal momento che per le medesime accuse di Potenza aveva patteggiato nel 2019 in un procedimento aperto dalla Procura della Capitale. Paolo Comi

Conflitti d'interesse in procura. Sul fratello di Pignatone e Amara le date non tornano…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Aumentano di ora in ora le firme dei magistrati milanesi a sostegno del pm Paolo Storari, finito nei scorsi giorni sotto la scure del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare. Storari, secondo Salvi, avrebbe gettato “discredito” sul procuratore di Milano Francesco Greco e sulla sua più stretta e fidata collaboratrice, l’aggiunto Laura Pedio, consegnando i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria a Piercamillo Davigo. Per questo motivo Salvi ha chiesto alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di trasferire Storari, cambiandogli anche le funzioni: da pm a giudice. Una richiesta durissima in quanto Storari ha sempre dichiarato di aver fatto solo il proprio dovere. Il pg della Cassazione, noto ai più per aver indetto lo scorso anno, prima volta nella storia, una conferenza stampa per annunciare azioni disciplinari per la vicenda dell’hotel Champagne e per essere l’autore della circolare che esclude la punibilità per i magistrati che si “autosponsorizzano” per un incarico, è colui che in passato aveva la “vigilanza”, quando era procuratore generale della Corte di Appello di Roma, su Giuseppe Pignatone, collocato da Luca Palamara al centro del “sistema”. La vigilanza di Salvi su Pignatone riguardava, in particolare, i rapporti professionali intrattenuti dal fratello di quest’ultimo, il tributarista Roberto, con l’avvocato Amara e l’imprenditore Ezio Bigotti che il Riformista ha raccontato la scorsa settimana. Per Salvi, come si legge nel suo provvedimento del 9 aprile 2019 che ha certificato la bontà dell’operato dell’ex procuratore di Roma, «va solo conclusivamente rilevato che il dr Giuseppe Pignatone rappresentò correttamente a questo ufficio tutti i profili di potenziale incompatibilità di sua iniziativa e non appena ne venne a conoscenza informandone peraltro i magistrati del suo ufficio». La realtà, però, è “leggermente” diversa. Il Riformista, infatti, ha avuto modo di visionare l’intera pratica. Per capire come andarono effettivamente le cose, è necessario però partire dalla fine.

Il 19 marzo 2019, 20 giorni prima della nota di Salvi, l’ex procuratore di Roma scrive all’allora pm Stefano Rocco Fava: «Ribadisco quanto affermato durante la riunione del 5 c.m. con i colleghi Prestipino (Michele), Sabelli (Rodolfo), Ielo (Paolo), Palazzi (Mario) e Tucci (Fabrizio) e cioè di essere sicuro di aver informato la S.V. a suo tempo, e cioè nella seconda metà del 2016 quando divennero oggetto di indagini l’Amara Pietro e il Bigotti Ezio, dell’esistenza di rapporti professionali peraltro già cessati tra il Bigotti e mio fratello avv. Roberto Pignatone».

Sempre nella stessa nota Pignatone scrive: «Di tutto era stato informato tempestivamente il procuratore generale (Salvi)».

Nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone aveva scritto a Salvi che del primo procedimento penale che ha visto indagato il faccendiere Fabrizio Centofanti per corruzione – il procedimento numero 7175/16 c/ RICUCCI ed altri – aveva avuto notizia prima dell’estate del 2016.

Scrive infatti: «In epoca di poco successiva (all’arresto del fratello di Centofanti avvenuto il 4 maggio 2016) sono emersi a carico del Centofanti Fabrizio indizi di reità in ordine al reato di cui agli artt. 319 ter e 321 cp nell’ambito di un procedimento iscritto originariamente a carico del noto imprenditore Ricucci Stefano e del dr Nicola Russo consigliere di Stato».

Sempre nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone scrive: «Subito dopo l’estate 2016 la figura del Centofanti è emersa in altro procedimento penale n. 44630/ 16 mod. 21 di cui sono titolari oltre che il dr G. Cascini anche i dottori Ielo, Tescaroli (Luca) e Fava».

Passano due anni e il 4 marzo 2019 Pignatone scrive a Fava: «Voglio invece ricordare che allorquando nel corso dell’anno 2016 questo ufficio ha iniziato, iscrivendoli nel registro degli indagati, indagini preliminari nei confronti di Amara Piero e Bigotti Ezio nell’ambito di più procedimenti penali ho subito informato la S.V. e tutti gli altri colleghi di volta in volta interessati (dr. G. Cascini, dr. Ielo, dr. Tescaroli, dr. Sabelli e dr. Palazzi), nonché gli ufficiali di p.g. delegati per le indagini, che sapevo – in modo del tutto vago – che essi avevano rapporti professionali con mio fratello avvocato Roberto Pignatone, professore associato di diritto tributario a Palermo e che esercita attività di avvocato e consulente in tale settore (e che non ha mai difeso in nessun procedimento penale a Roma)».

Nella stessa nota si legge: «Ho a suo tempo dettagliatamente informato il procuratore generale che con suo provvedimento del 3 luglio 2017 ha ritenuto che non ci fosse alcun elemento che rendesse opportuna, o tanto meno necessaria, la mia astensione». Paolo Comi

La seconda puntata della nostra inchiesta. Pignatone indagava su Amara e co. mentre lavoravano con suo fratello…Paolo Comi su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, dopo aver appreso, nella seconda metà del 2016 dei rapporti fra l’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Ezio Bigotti, entrambi indagati dal suo ufficio, con il fratello Roberto, tributarista a Palermo, il 17 maggio dell’anno successivo decise di inoltrare una richiesta di astensione. La richiesta venne depositata, però, soltanto dopo che Pignatone aveva adottato atti nei confronti di Amara, in particolare assegnando ad alcuni pm, fra cui Stefano Rocco Fava, un’informativa di reato che riguardava l’avvocato siciliano insieme a Bigotti, il 14 novembre 2016. Pignatone, quindi, fece passare molti mesi prima di fare richiesta di astensione, per poi affermare che questi rapporti erano “già cessati”. L’ex procuratore di Roma, come riportato ieri, affermò di aver immediatamente informato di questa situazione la guardia di finanza, senza però procedere altrettanto tempestivamente ad informare il procuratore generale dell’epoca Giovanni Salvi. Nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017 Pignatone scrive: «Nel settembre 2016 l’avv. Amara gli aveva chiesto (al fratello, ndr) una disponibilità a intensificare i rapporti professionali ed in particolare a garantire una presenza quindicinale presso il suo studio a Roma. Dopo alcuni contatti preliminari con possibili clienti, mio fratello nel novembre 2016 ha comunicato all’avv. Amara la sua intenzione per ragioni varie di non proseguire il suo impegno professionale a Roma e non ha più visto l’avv. Amara, con cui si erano creati rapporti cordiali, dal 28 novembre 2016». A tal proposito, nella missiva del 4 marzo 2019 indirizzata a Fava, Pignatone scrive: «Mio fratello mi ha detto di avere, per sue ragioni, interrotto i rapporti professionali con l’Amara nel novembre 2016». Risulterebbe dimostrato, quindi, che Pignatone abbia adottato atti del proprio ufficio pur in presenza di rapporti del fratello con un suo indagato e che tale circostanza non venne rilevata da Salvi. In un’altra richiesta di astensione, datata 26 marzo 2019 e diretta a Salvi, Pignatone scrive: «A questo proposito allegava un documento da cui risultava un progetto di parcella emesso da mio fratello nei confronti della NICO spa, che ritengo dato il contesto riconducibile al Bigotti, registrato il 18 luglio 2016». In realtà la NICO non era riconducibile a Bigotti bensì ad altro indagato del medesimo procedimento, Pietro Balistrieri altro cliente di Amara. La società di Bigotti era infatti la STI, società che aveva conferito incarichi al fratello di Pignatone e ciò risultava chiaramente dai documenti. Pignatone, in altre parole, non avrebbe mai comunicato al procuratore generale che un altro indagato, Balistrieri, cliente di Amara, aveva conferito incarichi al fratello. Pignatone, poi, non avrebbe comunicato il rapporto di amicizia che lo legava ad un altro indagato di quel procedimento, il magistrato Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato indagato per corruzione in atti giudiziari. Come risulta dalla missiva inviata a Pignatone il 5 marzo del 2019 da Fava, anche per Virgilio erano state fatte delle “comunicazioni” verbali dal procuratore di Roma nel 2016 circa una amicizia risalente a circa trenta anni tra egli e Virgilio. Ma di tale rapporto nulla risulta segnalato al procuratore generale. Sempre nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone scrive: «Quanto al Bigotti gli è stato presentato da un penalista catanese il prof Angelo Mangione e ha svolto per le sue società attività professionale in campo tributario dal 1/ 10/ 2014 al 30/ 6/ 2016». Non dice, però, che il professor Mangione era socio di studio di Amara (come risulta anche dalla carta intestata) e che Bigotti era cliente di Amara. Pignatone, infine, nella richiesta di astensione del 26 marzo 2019 scrive: «Anzi a questo proposito aggiungo per precisione che dai controlli eseguiti è risultato che la prima iscrizione nel registro degli indagati per Amara Pietro è avvenuta in data 16 /1 /17 e per Bigotti Ezio in data 19 /1/ 2017 mentre le operazioni di intercettazione nei loro confronti sono cominciate rispettivamente il 24 /11/ 2016 e il 30/ 1/ 2017». In realtà Amara venne iscritto il 18 novembre 2016. Come poteva infatti essere intercettato dal 24 novembre 2016 senza essere stato prima iscritto quale indagato? In conclusione Pignatone non ha mai comunicato al procuratore generale di avere adottato atti del proprio ufficio nei confronti di Amara pur in presenza dei rapporti che costui intratteneva con il fratello. Paolo Comi

Giacomo Amadori per “La Verità” il 19 giugno 2021. Giornata di fuochi d' artificio ieri all' udienza preliminare di Perugia nel filone sulla fuga di notizie relativa all' esposto dell'ex pm Stefano Fava contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. In questo procedimento il convitato di pietra è l'aggiunto capitolino Paolo Ielo che non si sta perdendo una sola udienza e che si è costituito parte civile contro i coimputati Luca Palamara e Fava, accusati dalla Procura di Perugia di aver ordito una sorta di complotto mediatico per screditare Ielo e Pignatone. Palamara ha alleggerito la sua posizione aggiustando la mira su alcune affermazioni riportate nel libro Il Sistema e riguardanti proprio Ielo. Dopo aver puntualizzato di non aver «mai voluto mettere in discussione la professionalità di Ielo» e aver precisato che questi mai gli aveva chiesto sostegno per la sua nomina, ha portato a casa un ottimo risultato: l'aggiunto ha ritirato la costituzione di parte civile contro di lui e ha annunciato anche il ritiro della denuncia penale presentata a Padova. Dopo otto ore e mezzo di dibattito Palamara ha reso una ventina di minuti di spontanee dichiarazioni. E visto che il pm Mario Formisano aveva chiesto a Fava perché questi non si fosse astenuto dal fascicolo su Fabrizio Centofanti, lobbista coimputato del suo amico Palamara, l'ex presidente dell'Anm ha ripreso «il tema della frequentazione con Centofanti» e ha puntualizzato che questa «crea problemi tanto a Roma quanto a Perugia». Il motivo? Centofanti aveva rapporti con i vecchi capi delle due procure, Pignatone e Luigi De Ficchy. «Il mio interlocutore sul tema della mia frequentazione con Centofanti» ha specificato Palamara «era il dottor Pignatone» ovvero «la persona che con me frequentava Centofanti». E perché ne ha parlato con lui? «Non per violare regole o segreti d' ufficio, ma per orientare e stabilire come dovesse essere svolto il mio rapporto di frequentazione con Centofanti. Stesso discorso fu affrontato nei medesimi termini con De Ficchy». Ieri è stato anche torchiato per quasi otto ore Fava, il pm che ha fatto arrestare il faccendiere Piero Amara e Centofanti. Amara è il presunto «pentito» che con le sue dichiarazioni a puntate, ha mandato in corto circuito le due Procure più importanti d' Italia, quelle di Milano e Roma. Ma dopo il suo arresto a Potenza, per l'ennesima accusa di corruzione non confessata, i riflettori sono passati su un altro presunto testimone chiave, Centofanti appunto, considerato il corruttore di Palamara a colpi di cene al ristorante. Nelle sue spontanee dichiarazioni Centofanti, dopo aver fatto i conti a braccio delle spese per quelle crapule, ha tirato in ballo anche Fava, che la Procura di Perugia da due anni sta cercando di incastrare con l'accusa di rivelazione di segreto, accesso abusivo e abuso d' ufficio. Per gli inquirenti l'ex pm, come detto, insieme con Palamara, avrebbe messo in atto un'attività di dossieraggio ai danni di Pignatone e di Ielo, colpevoli di non avergli fatto arrestare Amara. E allora ecco il soccorso ai pm del lobbista. Che ha affermato: «Palamara mi diceva che io ero stato coinvolto nelle indagini in quanto Fava si era messo in testa di voler colpire il procuratore Pignatone e che io ero una delle due strade per raggiungere il suo scopo». Ma secondo gli avvocati di Fava, Luigi Panella e Luigi Castaldi, «la circostanza è falsa nella sua oggettività documentale». Infatti a mettere sotto inchiesta Centofanti all'inizio non sarebbe stato Fava, bensì un buon numero di altri magistrati. Che i legali elencano. Nell' estate del 2016 il lobbista venne indagato per corruzione in atti giudiziari e perquisito nell'ambito di un'inchiesta assegnata all' allora pm Giuseppe Cascini. Nel settembre dello stesso anno è stato iscritto da Ielo per associazione per delinquere, riciclaggio, frode fiscale e appropriazione indebita. Successivamente, sempre Ielo, gli ha contestato l'appropriazione indebita e due episodi di corruzione. Il 29 ottobre 2016 Ielo, Cascini e Luca Tescaroli «avanzano richiesta di intercettazione per il delitto di associazione per delinquere e frode fiscale». Fava sarebbe diventato coassegnatario del fascicolo «per effetto del provvedimento adottato soltanto in data 19 dicembre 2016 dal dottor Pignatone che prima ha ordinato al dottor Fava di stralciare alcune posizioni» di un procedimento avviato nel 2013 «e poi ha riunito dette posizioni al procedimento 44630/16». Gli indagati di Fava erano alcuni membri del Consiglio di Stato, come Francesco Caringella, Roberto Garofoli e Riccardo Virgilio, ma anche Amara. Scrivono gli avvocati: «Non vi era quindi Fabrizio Centofanti, il quale è divenuto uno degli indagati del dottor Fava proprio per decisione del dottor Pignatone. La realtà documentale dimostra quindi l'esatto contrario di ciò che Centofanti ha incredibilmente riferito l' 1 giugno 2021». Inoltre il lobbista, nel luglio del 2018, aveva anche ricevuto un avviso di chiusura delle indagini. «Quindi» evidenziano i legali, «Centofanti dal luglio 2018 sa benissimo che a "coinvolgerlo" [] non è stato Fava, bensì altri pubblici ministeri e lo stesso dottor Pignatone che sarebbe, nella prospettazione accusatoria del presente procedimento, "vittima" di Fava». Centofanti ha anche riferito che Amara gli avrebbe mostrato delle informative della Finanza ricevute da una fonte dei servizi segreti, Antonio Sarcina, il quale gli aveva «riferito di poter influire anche su Fava». Una circostanza già smentita dallo stesso Sarcina quando è stato interrogato dall' aggiunto Ielo. Ma Centofanti avrebbe ricostruito in modo impreciso altre vicende, per esempio dichiarando che «Palamara gli disse che "un ufficiale della Guardia di Finanza del Valutario aveva riferito a Fava che a casa mia (ndr di Centofanti) era spesso ospite il procuratore Pignatone e che a una cena aveva partecipato con il ministro Pinotti"». In una relazione di servizio del 25 novembre 2016 Fava aveva sì informato Pignatone di quanto gli avesse riferito il capitano della Finanza Silvia Di Giamberardino, ma l'argomento non erano state le cene di Pignatone a casa di Centofanti, bensì una presunta segnalazione da parte del procuratore a favore del fratello del lobbista, un ufficiale della Guardia di finanza arrestato per concussione a Genova, «interessamento confermato dallo stesso dottor Pignatone» annotano gli avvocati. Che concludono: «Oggi Fava ha dimostrato documentalmente la non corrispondenza al vero dei fatti ipotizzati nei capi d' imputazione».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2021. L'avvocato Piero Amara, nella primavera del 2014, organizzò una maxi cena alla Casina Valadier all' interno di Villa Borghese a Roma, alla quale avrebbe partecipato anche l'allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone con il fratello Gianfranco, avvocato generale dello Stato. L'episodio è stato riferito nelle scorse settimane da Amara al giornalista Giacomo Amadori che lo ha raccontato, insieme ad altri particolari, sul numero di Panorama da ieri in edicola. Amara, ideatore del "Sistema Siracusa", il sodalizio finalizzato ad aggiustare i processi e pilotare le sentenze anche al Consiglio di Stato, si trova attualmente detenuto a Potenza. I pm lucani lo hanno sottoposto l'altra settimana alla custodia cautelare in carcere con l'accusa di abuso d' ufficio, favoreggiamento e corruzione. Reati che avrebbe commesso dal 2015 a luglio del 2019, quindi anche dopo aver patteggiato, per le medesime accuse, in un procedimento aperto anni fa dalla Procura di Roma. Prima di essere arrestato, Amara ha fatto in tempo a rilasciare alcune interviste, in particolare sulla super Loggia segreta "Ungheria". Tornando alla cena della primavera del 2014, fra gli organizzatori figurerebbero anche il faccendiere Fabrizio Centofanti, grande accusatore di Luca Palamara a Perugia, e Filippo Paradiso, un poliziotto distaccato presso la Presidenza del Consiglio. Alla cena alla Casina Valadier, secondo il racconto di Amara, parteciparono almeno 45 persone, molti i magistrati. Fra loro gli allora togati di Palazzo dei Marescialli Alessandro Pepe e Paolo Corder. Lo stesso Michele Vietti, all' epoca vice presidente del Csm, figurerebbe fra gli organizzatori del banchetto. Tutti i soggetti chiamati in causa da Amara hanno smentito. Solo Pepe e Corder hanno ammesso di essere stati invitati ma di aver abbandonato dopo poco il simposio. Per evitare l'accusa di calunnia Amara, però, avrebbe registrato in questi anni le persone con cui si interfacciava, quindi anche i magistrati che avevano partecipato a quella cena. Ad iniziare dal procuratore Pignatone. Va detto, comunque, che pur essendo stato Amara indagato, perquisito, arrestato più volte, nessuno ha mai trovato tali registrazioni. Non sappiamo se le abbia trovate la scorsa settimana la Procura di Potenza. O se Amara si sia deciso a consegnarle spontaneamente ai pm. Un elemento importante in questa vicenda è, dunque, la presenza di Pignatone. Amara, come detto, venne indagato dalla Procura di Roma e Pignatone non ha mai, ai fini dell'astensione, fatto presente tale circostanza. Gli incontri sarebbero, sempre secondo la ricostruzione, una "preanticamera" della Loggia Ungheria, l'associazione segreta composta da magistrati, alti ufficiali delle Forze di polizia, professionisti, che aveva lo scopo di pilotare le nomine al Csm e fra i vertici della Pubblica amministrazione. Amara aveva raccontato l'esistenza della Loggia Ungheria durante alcuni interrogatori a Milano. Sulla Loggia Ungheria sta svolgendo accertamenti la Procura di Perugia: il procuratore del capoluogo lombardo Francesco Greco ha mandato nei giorni scorsi i verbali di Amara al collega di Perugia Raffaele Cantone. Il procuratore umbro pare abbia trattenuto gli atti, senza trasmetterli a Firenze, pur avendo fatto parte della Loggia, sempre secondo Amara, il suo predecessore.

Il Csm “condanna” Lupacchini: l’ex pg aveva «denigrato» Gratteri. Il Dubbio il 16 giugno 2021. La sezione disciplinare del Csm infligge a Otello Lupacchini la sanzione della perdita di anzianità di 3 mesi, disponendo il trasferimento d’ufficio nella sede e nelle funzioni già disposte nel provvedimento cautelare. Condanna alla sanzione della perdita di anzianità di tre mesi e conferma del trasferimento d’ufficio a Torino. E quanto ha deciso la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, sotto processo con l’accusa, tra l’altro, di avere denigrato e delegittimato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, per alcune dichiarazioni, rilasciate durante un’intervista televisiva, sull’operazione anti ’ndrangheta "Rinascita-Scott". Il collegio, dopo due ore di camera di consiglio, ha inflitto a Lupacchini una sanzione superiore a quella sollecitata dalla procura generale della Cassazione, che aveva chiesto la censura. L’ex pg di Catanzaro è stato invece assolto l’altro capo di incolpazione, relativo al fatto di avere postato su Facebook una petizione a favore di Eugenio Facciolla, procuratore di Castrovillari, poi trasferito dal Csm a seguito di un’indagine della Procura di Salerno, che conteneva espressioni ritenute denigratorie nei confronti del Consiglio.

Parla l'ex pg di Catanzaro. “Vi racconto il mio calvario”, la verità di Lupacchini il procuratore condannato dal Csm per aver criticato Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2021. «Non avranno pace». Giornata particolare, quella di lunedì scorso, per Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, davanti alla commissione disciplinare del Csm. Impegnativa per lui, uno dei magistrati più competenti e colti d’Italia, per il quale parlano 40 anni di rispettabile e brillante carriera, costretto a giustificare quattro parole di un’intervista, in un mondo in cui tante toghe parlano e straparlano, garantendosi l’impunità. Ma giornata non di tutto risposo neppure per chi lo accusa e per chi lo giudica. Con una severità che rende il suo un caso unico. I magistrati possono picchiare la moglie, molestare le colleghe, essere incapaci e incompetenti, dimenticare documenti in cassaforte o tralasciare elementi di prova in favore degli imputati. Possono anche dire che rivolteranno l’Italia come un calzino o demoliranno la Calabria per ricostruirla come un Lego. Possono andare in trasmissioni televisive a lanciare sospetti di collusione mafiosa su nomine o mancate nomine di competenza del Ministro. E parlare, parlare, parlare. Solo al procuratore Lupacchini non è consentito. E soprattutto non è consentito se vieni preso di mira da un intoccabile. Allora sei colpevole di lesa maestà nei confronti dell’intoccabile e di conseguenza del prestigio dell’intera magistratura. Così, davanti alla prima commissione, lui parte deciso, con una domanda retorica ma efficace. «Sono io a vulnerare il prestigio e l’onore dell’Ordine giudiziario con i comportamenti dedotti in incolpazione, cioè denunciando pubblicamente le condotte anomale, già portate a conoscenza, oltre a tutto in epoca non sospetta, di codesto Consiglio e degli organi disciplinari poste in essere dalla mia asserita "vittima", il Procuratore distrettuale di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, o quell’onore e quel prestigio viene costantemente violato proprio da chi se ne atteggia da custode e vindice?». Certo, sono sotto gli occhi di tutti i passi falsi delle inchieste del Procuratore di Catanzaro e le bacchettate che ogni giorno ha ricevuto da giudici di diverso livello. Ed è umiliante per una magistratura oggi già in ginocchio che ne esca come “condannato” (il dottor Lupacchini in agosto compie 70 anni e andrà in pensione) chi ne ha tenuta sempre alta la reputazione osservando le regole, mentre altri sono addirittura intoccabili. Lui non ha neanche tanta voglia di continuare a nominarlo, il procuratore capo di Catanzaro. Preferisce considerare quella di lunedì solo “la prima di tante altre giornate”. Perché non molla. La commissione disciplinare del Csm lo ha ascoltato per due ore e mezza, e poi il suo difensore Ivano Iai, che ha ricordato, giurisprudenza alla mano, quanti magistrati sono stati assolti pur dopo aver criticato in modo feroce i provvedimenti di colleghi. E poi ancora quaranta minuti del magistrato incolpato, dopo che il procuratore generale aveva voluto replicare. Fatica un po’ sprecata, se non fosse che tutto rimane agli atti, perché forte è la sensazione che, quanto meno nella testa dei presenti, tutto fosse già chiaro e deciso. «Avevano una gran fretta di andare in camera di consiglio», non può che constatarlo l’ “imputato”. Che non si ferma, anche se constata davanti alla Commissione che «nella vita talvolta è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza», sine spe nec metu. Ma che cosa paga, dottor Lupacchini, in realtà? Non mi dica che aver definito un certo tipo di inchieste come alcune condotte dal procuratore Gratteri, "evanescenti come ombra lunatica", può comportare l’essere trasferito a mille chilometri di distanza e degradato a semplice sostituto dopo esser stato Procuratore generale? Pago il non esser stato “così”, risponde. Così come? Non essere uno dei tanti personaggi cui tutto è consentito, e non si sa bene perché. Lunedì mi hanno dimostrato che non potevano avere spazio persone che non frequentino spioni salvati dal segreto di Stato, persone che non frequentino giornalisti con profumo di ricatto o ufficiali felloni. Persone che non frequentino truogoli dove si muovono ambigui personaggi della finanza o della politica. Non c’è spazio per uno come me in un mondo di incapaci, ma capaci di tutto. Il ritratto è molto chiaro, con la ciliegina sulla torta: blatero de omnibus, ma senza capire nulla. Di che cosa per esempio blatera, questo personaggio virtuale, visto che quello vero non lo vogliamo nominare? Può minacciare giudici, dicendo che prima o poi si scopriranno le loro marachelle, può mandare messaggi traversi…. Certo, Otello Lupacchini appartiene a un altro mondo, a un’altra storia. Forse sono io ad aver sbagliato tutto, dice senza crederci. Sono entrato in magistratura quando i miei colleghi erano persone colte, persone per bene, alcune poi ammazzate come cani, come Galli e Alessandrini, o in strani incidenti d’auto, come capitato in Sicilia. Non mi ritrovo in questo clima di volontà di potenza, di politicanti che si parlano nella tromba delle scale…Un momento, dottor Lupacchini, di chi parla? Di un magistrato di grande spessore (ridacchia, ndr) che voleva garantirci la sua presenza fino a cento anni. Del resto dottor sottile vuol dire che è sottile, no? Beh, dottor Lupacchini, c’è chi fa incontri nella tromba delle scale e chi, come Luca Palamara, ha avuto il coraggio di scrivere con Alessandro Sallusti un libro in cui disvela il Sistema. Anche se ha “dimenticato” un certo episodio di cui è stato protagonista lui stesso con Nicola Gratteri e di riflesso anche lei. Parliamo del 2018, di quella volta in cui lei e Gratteri eravate tutti e due convocati presso la prima commissione del Csm, lei il giorno prima e il suo sottoposto in quello successivo. E i due si sono incontrati al bar “Il cigno”, su insistenza del procuratore di Catanzaro, alle otto del mattino, proprio prima della sua audizione. Certamente per parlare delle buche di Roma, sospira Lupacchini. Del resto, aggiunge, Palamara è astuto, sa con chi non ci si può scontrare. Anche se non faceva parte di quella commissione, era comunque un personaggio molto importante del Csm. Chissà che fretta aveva Gratteri di incontrarlo proprio dopo la mia deposizione e prima della sua. E chissà perché non se ne parla nel libro, possiamo aggiungere. Ed è anche strano -visto che della conoscenza tra i due comunque nel Sistema si accenna- che il procuratore di Catanzaro si sia affrettato, dopo l’esplosione del caso dell’ex presidente della Anm, a prenderne le distanze come se i due non si fossero mai visti. Altre storie, altre generazioni. Uno come Lupacchini non avrebbe mai definito se stesso, né nessun altro magistrato, come “il derattizzatore della Calabria”. Il Gratteri pensiero. Su cui Lupacchini ha le idee chiare. Parliamo di quello che scarica sempre su altri, non fa nomi ma getta sospetti su tutti, pur con “il suo eloquio involuto”, quello che si lamenta se i giornalisti non danno sufficiente risalto ai suoi blitz, quello che pubblica un libro ogni sei mesi per essere sempre sulla cresta dell’onda. In una terra dove qualcuno ha addirittura messo un cartello di benvenuto a Lamezia Terme con la pubblicità del processo “Rinascita Scott”, quello che ha già subìto una serie di contraccolpi da giudici di vario livello, ma che rimane il fiore all’occhiello del procuratore Gratteri, il processo con cui vuole diventare più famoso di Giovanni Falcone. Per Otello Lupacchini quel cartello fa semplicemente parte del culto della personalità: est modus in rebus, è il suo unico commento. L’opinione sconsolata di un magistrato decisamente diverso, altro stile. E anche successi. Come li ha raggiunti? Io mi sono limitato ad applicare le regole, dice. Perché il garantismo non è una malattia venerea, è solo applicazione delle regole. E dal 1974 e fino al 2020, con le leggi speciali prima sul terrorismo, poi sulla mafia e infine sulla corruzione, si mostra disprezzo nei confronti delle regole compatibili con il giusto processo, con diversi articoli della Costituzione (2, 3, 24, 25, 27) e anche della normativa europea. Certo, è responsabilità del legislatore. Ma la storia, anche quella di questi giorni, ci ha insegnato a conoscere anche quella dei magistrati. E purtroppo di quelli come Otello Lupacchini, ne sono rimasti ben pochi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Il monito dell'ex pg di Catanzaro. Storia di Lupacchini, magistrato con una carriera eccezionale finito in disgrazia dopo aver criticato Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Forse ci vorrebbe uno come Otello Lupacchini, invece di Nicola Gratteri, a Milano. Anche se il posto di Francesco Greco, che tra pochi mesi andrà in pensione, forse per lui sarebbe poca cosa, visto che, fino a che non è stato cacciato, occupava un ruolo di livello superiore, quello di procuratore generale a Catanzaro. Del resto, basta sentirlo parlare, come è accaduto nella seduta del 26 marzo davanti alla commissione disciplinare del Csm, per capire che, sul piano della competenza ma anche della cultura, di magistrati come Otello Lupacchini ormai non ce ne sono quasi più. Erano quelli che non dormivano la notte se dovevano chiedere o decidere di mandare qualcuno in cella o emettere una sentenza di condanna. Non c’era bisogno dell’uso del trojan per sapere che le toghe di quella tempra non passavano il tempo a brigare per la carriera o a chiedere privilegi vaccinatori. Per questo non c’è da stupirsi se, ascoltando a Radio radicale la seduta della commissione disciplinare del Csm sulle due “incolpazioni” di cui deve rispondere l’ex Pg di Catanzaro, si sente una certa insofferenza di coloro che sono chiamati a giudicarlo. Lui cerca di ricordare (senza bisogno di gridare “lei non sa chi sono io”, ma ci starebbe bene) di aver svolto il suo lavoro sempre con serietà ed equilibrio, mentre è stato trattato, solo per aver osato avanzare critiche nei confronti di certi comportamenti (in particolare quelli omissivi) del procuratore Gratteri, come una specie di “protettore dei masso-mafiosi”. Il tono mellifluo del consigliere Fulvio Gigliotti, membro laico in quota Cinque stelle del Csm, che presiede la commissione, lo interrompe continuamente, cerca di fargli perdere il filo, richiamandolo al tema. Le incolpazioni sono due, e non paiono così distanti dal problema dell’ immagine che del magistrato è stata data e che spetta a lui (o a chi altri?) riportare sul corretto binario. Otello Lupacchini è accusato di aver criticato l’inchiesta “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019 del procuratore Gratteri, quella messa in discussione prima di tutto da diversi giudici che avevano immediatamente ridimensionato i 334 arresti. In un’intervista al TGcom24 l’alto magistrato aveva osservato che “per quanto concerne l’operazione, sebbene questo possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato sulla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”. Parole gravi? Certo. Tanto più che il dottor Lupacchini era stato intervistato soprattutto come esperto di grande criminalità, sia come giudice che come pubblico ministero, e in tale veste non aveva potuto non notare l’”evanescenza” nell’impostazione di certe inchieste. Termine usato spesso, come ricordato nell’audizione, dalle sentenze di Cassazione quando si tirano le orecchie a certi provvedimenti. Parole che avrebbero dovuto allertare il ministro Bonafede e il procuratore generale Salvi a mettere gli occhi su quel che stava combinando il procuratore Gratteri. E’ accaduto il contrario. Hanno messo le manette a Lupacchini. Le manette a uno (ce ne fossero tanti di procuratori che parlano così!) che dice del proprio ruolo di inquirente, che non è quello di “derattizzatore” . Non è chiamato a fare pulizia, ma a fare giustizia. Ma non piace. Non piace che lui ricordi “superior stabat lupus” e dica che i lupi che nel passato amavano ululare oggi hanno mezzi più sofisticati per colpire. La maestra gli rimprovera di essere fuori tema. Come se nel corso del processo all’imputato venisse tagliata la lingua. Così tocca all’avvocato Ivano Iai fare il punto sulla seconda incolpazione di cui deve rispondere il suo assistito, quello di aver postato sul proprio profilo Facebook il testo di una petizione, sottoscritta da cinquemila persone, in favore del procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito dal Csm al tribunale civile di Potenza. Sono tanti i testimoni che andrebbero sentiti dalla commissione disciplinare per valutare se l’equilibrio di un magistrato si valuta dalla sua capacità di “derattizzare” o da ben altro. Il rappresentante della procura generale Marco Dall’Olio, esponente di Magistratura democratica, chiede che ogni richiesta dell’avvocato Iai venga respinta. La tenaglia sta per scattare. Dalla strage di testimoni si salva solo Paolo Liguori, il direttore di TGcom24, che verrà sentito nella seduta del prossimo 13 maggio.

Al Csm dicevano: “Gratteri è pazzo”, ora processano Lupacchini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. L’ex procuratore generale di Catanzaro ieri a Roma “processato” in sede disciplinare dal Csm, il procuratore capo due giorni fa a Lamezia incensato dalle telecamere al suo Maxi. Destini incrociati e opposti quelli di Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, e Nicola Gratteri, attuale capo della procura della stessa città. Si erano annusati e subito respinti come due poli incompatibili. Ieri uno davanti a quella commissione disciplinare del Csm che ai suoi occhi non è nulla di meno che un plotone d’esecuzione, l’altro il giorno prima con la ruota del pavone e l’elicottero della polizia a proteggerlo dall’alto, a inaugurare l’aula-bunker dove si celebra il maxi-processo che dovrà renderlo famoso. Ancora di più, sempre di più. Se c’è un destino ingiusto, è quello che sta vivendo il magistrato Otello Lupacchini, uomo colto e raffinato come pochi, procuratore equilibrato e lungimirante, che si ritrova a esser processato in sede disciplinare dal Csm, dopo esser entrato in conflitto con Nicola Gratteri, uno che accetta (con qualche ragione) di esser definito “ignorante”, ma che è molto attivo come “lottatore”. Come se quello di combattere i fenomeni sociali o criminali fosse compito di un pubblico ministero e non delle forze di polizia. Ma sono sottigliezze che non possono albergare nella vita super-impegnata del dottor Gratteri. Ci sono varie questioni da chiarire, nelle vite incrociate dei due alti magistrati. Prima di tutto il Csm come istituzione è in debito nei confronti del dottor Lupacchini, perché negli anni scorsi quando nella veste di procuratore generale segnalava all’organo di autogoverno della magistratura, così come al ministro di giustizia e al procuratore generale della cassazione i comportamenti omissivi ed autoreferenziali del dottor Gratteri, faceva orecchi da mercante. E non si è mosso fino a che lo stesso procuratore capo di Catanzaro non ha inoltrato analoga e opposta protesta nei confronti del proprio superiore gerarchico. Come se fosse normale il fatto che all’interno di un distretto giudiziario si facessero blitz, si aprissero inchieste con centinaia di indagati, si scrivessero quindicimila pagine di accuse, si andasse in televisione a dichiarare che si sta smontando la Calabria come una costruzione Lego, senza mai informare il procuratore generale. Cioè la massima autorità degli uffici dell’accusa. Ma come funzionava quel Consiglio superiore della magistratura degli anni scorsi? Ci si occupava solo ciascuno della propria e altrui carriera per gli avanzamenti o qualcuno sapeva anche valutare la differenza tra un magistrato che svolgeva con competenza il proprio lavoro e altri che usavano come metodo la pesca a strascico, salvo essere poi sconfessati dal tribunale del riesame piuttosto che dalla cassazione? Fatto sta che alla fine del 2019, dopo che aveva definito “evanescenze” certi blitz del procuratore Gratteri, il dottor Lupacchini subiva un trasferimento cautelare da Catanzaro a Torino, con degradazione da capo a semplice sostituto del procuratore generale. E questo accadeva mentre lo stesso Luca Palamara, che aveva votato quel trasferimento, definiva Gratteri “un pazzo” da fermare. Ma questo lo si saprà solo dopo che saranno rese pubbliche tutte le chat, captate dal trojan, che l’ex capo del sindacato dei magistrati scambiava con i suoi amici e colleghi. I giornali e i siti calabresi si sono sbizzarriti a lungo su queste conversazioni nei mesi scorsi, quando tutte le conversazioni sono diventate pubbliche. Si riportano le dichiarazioni di Gratteri che sostiene di sapere che ci sono in Calabria almeno 400 magistrati corrotti. E Palamara che chiacchierava con il suo collega del Csm Massimo Forciniti e diceva: «Purtroppo è un matto vero… Però va fermato, non può continuare così». E quando parla con il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, Palamara gli gira l’articolo con le dichiarazioni di Gratteri commentando: «Le solite cazzate, sta diventando patetico». Questo era il quadro che aveva portato Otello Lupacchini come incolpato davanti al Csm e a quella prima commissione che lo ha spedito a mille chilometri di distanza a prendere ordini da qualcuno che era stato suo pari fino a poco prima. Se il procuratore Gratteri era considerato dagli stessi componenti del Csm come un pazzo che andava fermato, perché imputare al dottor Lupacchini il fatto di aver definito “evanescenti” delle inchieste che spesso venivano poi sconfessate (come accaduto di recente con il processo “Nemea”) in sede giudicante? Certo l’ex procuratore generale aveva anche ospitato sulla propria pagina Facebook un appello perché un altro suo collega calabrese, trasferito dal Csm, fosse reintegrato al suo ruolo precedente, e qualche membro del Csm si era “offeso”. Ma siamo all’Asilo Mariuccia, come si dice a Milano? Cioè, i magistrati del Csm sono adulti o bambini che mettono il broncio? Ed è o no una provocazione il fatto di ritrovarsi poi giudicati, sia per il trasferimento che per l’azione disciplinare, davanti a quegli stessi colleghi che si erano offesi o ai loro compagni di banco con cui spesso si dividono vacanze e merende?

Per capire quel che è successo in seguito, basterebbe ricordare quei due giorni nuvolosi ma non troppo caldi del 2018, il 25 e il 26 luglio. Siamo a Roma, il Csm si è finalmente svegliato dal torpore e si è deciso a estrarre dal cassetto tutte le segnalazioni del dottor Lupacchini nei confronti del procuratore Gratteri. Sono fissate due audizioni riservate e separate. Il primo giorno Lupacchini dalle 14 alle 15, l’indomani Gratteri dalle 11,40 alle 12,35. Ci sono un po’ di ore di distanza tra l’una e l’altra, e il procuratore “più scortato d’Italia” pensa bene di farle fruttare. Cioè di cogliere l’occasione del viaggio a Roma per salutare un vecchio amico, anche lui calabrese. Casualmente il “vecchio amico” si chiama Luca Palamara, e casualmente è membro del Csm. Il procuratore lo cerca, l’altro in un primo momento non risponde. Poi, dopo uno scambio di messaggi, i due concordano di vedersi la mattina dopo, alle 8,10 al bar “Il Cigno” di viale Parioli. Cioè dopo l’audizione di Lupacchini, ma prima di quella di Gratteri. Tutto documentato, e tutto casuale, ovviamente. Non risulta che il dottor Palamara abbia mai chiesto al sindaco di Roma di provvedere con un Tso a far curare il “matto” e neanche che il Csm abbia aperto una pratica che lo riguardasse. Risulta solo che si sia invece solo infierito su un magistrato per bene come Otello Lupacchini, colpevole solo di essersi bruciato le dita, e la carriera, per aver detto piccole cose, rispetto a quelle più gravi che si scambiavano al telefono i membri dello stesso Csm che lo ha inquisito e scacciato. Ah, dottor Palamara, quando sono state rese pubbliche le sue opinioni su di lui, il procuratore Gratteri avrebbe detto, secondo il quotidiano calabrese online Iacchitè: «Io e Palamara non siamo mai stati amici». Quindi, quell’incontro del 26 luglio 2018 non era proprio una rimpatriata tra conterranei, giusto?

Giacomo Amadori per "la Verità" il 16 giugno 2021. Nei giorni scorsi il Tribunale di Potenza ha ordinato l'ennesimo arresto dell'avvocato Piero Amara, corruttore reo confesso e testimone di giustizia in diverse Procure. Prima di rifinire in carcere il legale ha raccontato a «Panorama» la sua verità sui suoi presunti «favori» ai magistrati, sulla loggia Ungheria e sui suoi rapporti con gli inquirenti della Procura di Milano, l'ufficio giudiziario che ha provato a utilizzare le sue dichiarazioni per dimostrare l'incompatibilità del giudice del processo Eni-Nigeria. Amara ha anche svelato quali sarebbero le prove che ha raccolto a sostegno delle proprie parole. Ecco un estratto dell'articolo. [] Pallino di Amara è pure un'altra toga di Magistratura democratica (Md), l'aggiunto di Roma, Lucia Lotti, che è stata procuratore di Gela, l'ufficio giudiziario che istruiva i procedimenti sulla raffineria dell'Eni, società di cui Amara era consulente legale. La Procura di Gela era per l'Eni quello che la Procura di Taranto era per l'Ilva. Racconta Amara: «È certo che lei si rivolge a me affinché andassi da Saverio Romano e Totò Cuffaro per farle avere il voto di Ugo Bergamo, laico dell'Udc al Csm. Adesso dice che a Gela non ci voleva andare nessuno, ma non è vero». In effetti il voto al Plenum finì 13 a 9 per la Lotti: la sostennero le correnti e i laici di sinistra, più Bergamo. []. Nelle chiacchiere con Amara escono altri nomi eclatanti tra i presunti appartenenti alla «loggia Ungheria». Come Antonello Montante, ex presidente dei confindustriali siciliani, condannato in primo grado a 14 anni di carcere per corruzione. I nomi sulle agende di Montante e Amara spesso si sovrapponevano []. Citiamo i membri del comitato scientifico di Opco (l'Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata ideato dall'ex magistrato Giovanni Tinebra) ad Amara e lui ci dice chi, ovviamente a suo insindacabile giudizio, facesse parte di Ungheria. Ci sono generali della Guardia di finanza, ex presidenti della commissione antimafia come Roberto Centaro («ma anche il fratello Alfonso faceva parte di Ungheria») e magistrati. Su Internet si trova ancora un manifesto di un evento dell'Opco. Tra i partecipanti pure Roberto Alfonso, ex Pg di Milano (oggi tra i probiviri dell'associazione nazionale magistrati che sta esaminando le chat di Palamara). Chiediamo ad Amara se anche questi facesse parte di Ungheria. Risposta: «Lì mi crea un problema grosso come una casa». Meno difficoltoso ammettere l'«affiliazione» del consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Che, però, ha sempre negato. «Con questo non voglio dire che Ardita abbia commesso reati, a mio avviso è un uomo davvero integerrimo. Sia io che lui che altri giudici eravamo componenti del comitato scientifico dell'Opco e questi magistrati, che io ho già sentito, confermeranno la mia presenza, la nostra conoscenza e una cena di rappacificazione fra Tinebra e Ardita alla presenza di altre tre toghe». E perché dovettero riconciliarsi? «Tinebra gli chiese una cortesia per un imprenditore e Ardita che è una persona seria non gliel' ha fatta, quindi Tinebra gli ha dichiarato guerra. Ma poi ci fu la cena di riconciliazione alla presenza di Paolo Giordano (ex procuratore di Siracusa, ndr), Alessandro Centonze (consigliere di Cassazione di origini siracusane, ndr) e Maurizio Musco (ex pm destituito dalla magistratura per i rapporti con Amara, ndr)». Giura che uno di questi, Centonze, lui lo avrebbe già registrato: «Indirettamente. Gli ho mandato una persona. Purtroppo sono costretto a registrare la gente». La colpa a suo giudizio è del pm Paolo Storari che lo avrebbe obbligato a fare dichiarazioni su cui non aveva riscontri. []. Ha accettato di mettere nero su bianco le accuse contro Marco Tremolada, il giudice che a marzo ha assolto i vertici Eni nella vicenda delle presunte tangenti nigeriane. Amara avrebbe sentito dire che presso Tremolada avevano porta aperta gli avvocati della compagnia petrolifera: «Ma era solo un chiacchiericcio... non capisco come i pm possano avere trasmesso gli atti a Brescia. Una notitia criminis deve avere un minimo di supporto probatorio, non si può basare su un chiacchiericcio...». Brusii di cui Amara avrebbe parlato in corridoio per poi essere richiamato da Storari: «Questa cosa la dobbiamo verbalizzare» mi disse. «Io una volta sono sbottato: "Lei non capisce un c... per me questo fascicolo lo potete anche archiviare". Successivamente ho capito che alcune cose interessavano anche a loro...». Amara passa poi a parlare delle sue famose «pistole fumanti» contro coloro che lo smentiscono. «Alcuni magistrati dicono che non mi conoscono. Le faccio un nome e un cognome: Francesco Saluzzo». Il riferimento è al procuratore generale di Torino che avrebbe partecipato a una cena con Amara a Roma insieme con l'ex direttore generale del Consiglio di Stato Antonio Serrao e con un altro commensale recentemente defunto.

Saluzzo gli avrebbe chiesto l'appoggio di tre componenti del Csm per diventare Pg a Torino: «Per fortuna ho registrato Serrao e gli ho detto: "Ti ricordi Saluzzo?".

E lui: "Ma chi, quello che dovevamo mandare alla Procura generale di Torino?". Io di rimando: "Tonino, non è che hai parlato della nostra associazione, dei cenacoli con Tullio Del Sette (ex comandante generale dei Carabinieri, ndr), se no mi esce fuori tutto il filone dei magistrati?". 

E lui mi risponde: "Ma stai scherzando? Io non ho parlato dell'associazione, di Del Sette e di Saluzzo con nessuno"» []. A proposito di registrazioni, Amara fa un altro esempio e cita il caso dei presunti maneggi da parte dell'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti per far superare il test di medicina al figlio. Mancinetti ha sempre negato e ha annunciato querele, salvo dimettersi all' improvviso dal parlamentino dei giudici nel settembre 2020.

Amara sembra molto divertito dalla sua presunta prova: «Immagini se ci fosse una registrazione in cui il rettore parlando con un'altra persona dicesse: "Ma ti rendi conto che mi hanno offerto soldi per avere i temi?". Non sarebbe grave questa cosa raccontata dal rettore che poi a Perugia ha negato sé stesso? C'è gente che non ha idea di quello che emergerà su alcuni profili» []. C' è una terza presunta «smoking gun» che riguarda il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi. Il motivo del contendere è l'assunzione di una presunta amica del giudice da parte di Amara: «Centofanti (Fabrizio, imprenditore oggi indagato per corruzione, ndr) venne da me e mi disse che dovevamo fare questa cortesia a Patroni Griffi. Quando poi decisi di mandarla via, perché la signorina era un po' arrogante, il presidente venne a trovare me e Calafiore. Ci incontrammo in un ristorante. Fu molto gentile e quando viene da te il presidente del Consiglio di Stato e ti chiede una cortesia non puoi dirgli di no». Ci sono registrazioni di quell' incontro? «No, solo testimonianze. Ma visto che lui dice che non conosce né me né Calafiore, per quello c'è un video inequivocabile di un incontro tra lui e Peppe, che era già stato sentito a Milano come testimone, ripreso con il telefonino dalla compagna del mio collega. È stato depositato in Procura. Calafiore, quando ha incontrato a Roma Patroni Griffi, aveva un look particolare, era in tuta. Tu magari puoi anche fermarti a salutare un avvocato, ma lì Peppe aveva una mise molto particolare il presidente si alza e lo saluta quasi con l'inchino».

Scandalo magistratura, a casa del corvo del Csm spuntano gli atti di Palamara. Giuliano Foschini e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 15 giugno 2021. Nell'abitazione di Marcella Contrafatto, la dirigente del Consiglio superiore della magistratura indagata per la diffusione dei verbali segreti di Piero Amara, trovati fascicoli di procedimenti disciplinari e documenti sull'ex capo dell'Anm. Le nuove accuse nel provvedimento del Riesame. A casa di Marcella Contrafatto, la dirigente del Csm indagata per la diffusione dei verbali segreti di Piero Amara, sono state trovate “rassegne stampa a cura del Consiglio superiore della magistratura con chiave di ricerca Palamara”, un “estratto del libri Il Sistema”, i fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare del dottor Palamara”, un “avviso di conclusione delle indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa”.

Corvo al Csm, il Riesame: «A casa di Contraffatto i verbali di Amara e documenti su Palamara». Le motivazioni con le quali il Riesame ha respinto il ricorso sul materiale sequestrato nel corso delle perquisizioni. Il Dubbio il 16 giugno 2021. L’ex impiegata del Csm Marcella Contrafatto, indagata per calunnia dai pm capitolini nell’ambito dell’inchiesta sulla diffusione di verbali secretati degli interrogatori resi da Piero Amara ai magistrati milanesi, aveva a casa «ben sei verbali di interrogatorio di Amara privi di sottoscrizioni». È quanto riportato nelle motivazioni del Tribunale del Riesame di Roma che a maggio ha respinto il ricorso presentato dal suo difensore, Alessia Angelini, sul materiale sequestrato nel corso delle perquisizioni disposte dai pm della Procura capitolina. Nel procedimento nei confronti della donna, che ha lavorato nella segreteria di Piercamillo Davigo, figura come parte offesa il procuratore capo di Milano Francesco Greco. In particolare si tratta di verbali «del 6 e 14 dicembre 2019, due verbali delle ore 12 e 14.15, rispettivamente di 3 e di 10 fogli dattiloscritti solo fronte, uno dei quali evidentemente è quello inviato a Di Matteo» verbali del «15 e 16 dicembre e dell’11 gennaio 2020, materiale da lei spontaneamente esibito e consegnato a seguito della notifica del decreto di perquisizione e sequestro, unitamente a tre trascrizioni di intercettazioni ambientali e di un notebook», si legge nel provvedimento. Nel corso della perquisizione sono state trovate, come riporta il Tribunale del Riesame nel provvedimento, «rassegne stampa a cura del Csm con chiave di ricerca “Palamara”, estratto del libro “Il Sistema”, fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare di Palamara, un avviso di conclusioni indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa, oltre a vari appunti, una rubrica, due pen drive e due memory card». Nell’ufficio al Csm «si sequestrava un appunto mentre per il pc e lo smartphone si effettuava copia forense». I giudici scrivono inoltre «che in sede di interrogatorio dinanzi al pm (nel quale si è avvalsa della facoltà di non rispondere)» non ha fornito nessuna giustificazione. «Il tenore complessivo della missiva di accompagnamento del verbale inviato a Di Matteo in atti – si legge nelle motivazioni – con uso in parte del maiuscolo, sottolineatura del procuratore di Milano, annotazione a penna, fa ritenere condivisibile la contestazione del delitto ipotizzato». Per i giudici dunque «palesi sono le esigenze probatorie che giustificano il sequestro al fine di una compiuta ricostruzione della vicenda in indagine».

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Una confessione sarebbe stata più controvertibile delle prove che la Procura di Roma ha trovato in casa di Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm, accusata di essere il «corvo» che ha mandato in giro, anonimamente ma soprattutto maldestramente, i verbali degli interrogatori dell'avvocato Piero Amara, precedentemente passati dal pm Storari a Davigo in polemica con l'inerzia investigativa della Procura di Milano. Oltre alle copie dei sei verbali incriminati (tra cui quello inviato al consigliere del Csm Di Matteo, con un biglietto insinuante in cui tra l' altro si affermava che il verbale era stato «tenuto ben nascosto dal procuratore di Milano Francesco Greco» chiosando «chissà perché»), «rassegne stampa a cura del Csm con chiave di ricerca Palamara, un estratto del libro di Palamara, fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare di Palamara, un avviso di conclusioni indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa».

L'indagine sul "corvo" del Csm. Loggia Ungheria, si complica la posizione della segretaria di Davigo: aveva sei verbali di Amara in casa. Angela Stella su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Appare complessa la posizione di Marcella Contrafatto, la dirigente del Consiglio superiore della magistratura indagata per calunnia dalla Procura di Roma per avere veicolato, con particolari messaggi, verbali di interrogatori coperti da segreto resi a Milano dall’avvocato Amara. Lo scandalo era partito dal plico fatto recapitare, oltre che a dei giornalisti, al consigliere del Csm Antonino Di Matteo, in cui vi erano due dei verbali di Amara e una missiva anonima. Impossibile dire al momento se sia lei il cosiddetto corvo del Csm, in quanto la situazione è ancora tutta da chiarire. Tuttavia, gli elementi emersi nelle motivazioni con cui i giudici del Tribunale del Riesame hanno respinto il ricorso, relativo al materiale sequestrato nel corso delle perquisizioni disposte dai pm della Procura capitolina, avanzato dall’avvocato Alessia Angelini, difensore della Contrafatto, disegnano uno scenario non limpido. La donna aveva a casa «ben sei verbali di interrogatorio di Amara privi di sottoscrizioni». In particolare si tratta di verbali «del 6 e 14 dicembre 2019, due verbali delle ore 12 e 14.15, rispettivamente di 3 e di 10 fogli dattiloscritti solo fronte, uno dei quali evidentemente è quello inviato a Di Matteo», verbali del «15 e 16 dicembre e dell’11 gennaio 2020, materiale da lei spontaneamente esibito e consegnato a seguito della notifica del decreto di perquisizione e sequestro, unitamente a tre trascrizioni di intercettazioni ambientali e di un notebook», si legge nel provvedimento. Durante la perquisizione sono state trovate anche «rassegne stampa a cura del Csm con chiave di ricerca “Palamara”, estratto del libro Il Sistema, fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare di Palamara, un avviso di conclusioni indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa, oltre a vari appunti, una rubrica, due pen drive e due memory card». Non è chiara l’attenzione della Contrafatto per l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara che sinteticamente commenta: «Io estraneo a vicenda Contrafatto, Davigo spieghi cosa è accaduto». Nel dispositivo dei giudici del Riesame si legge anche che nell’ufficio al Csm «si sequestrava un appunto mentre per il pc e lo smartphone si effettuava copia forense». I giudici scrivono inoltre «che in sede di interrogatorio dinanzi al pm (nel quale si è avvalsa della facoltà di non rispondere)» non ha fornito nessuna giustificazione. L’elemento più critico per la posizione della donna è forse il seguente: «Il tenore complessivo della missiva di accompagnamento del verbale inviato a Di Matteo infatti – si legge nelle motivazioni – con uso in parte del maiuscolo, sottolineatura del procuratore di Milano, annotazione a penna, fa ritenere condivisibile la contestazione del delitto ipotizzato». Per i giudici dunque «palesi sono le esigenze probatorie che giustificano il sequestro al fine di una compiuta ricostruzione della vicenda in indagine». Inoltre è emerso che il verbale di interrogatorio di Piero Amara inviato nel febbraio scorso al dottor Antonio Di Matteo era accompagnato da un «biglietto anonimo in cui, tra l’altro, si affermava che il verbale in questione era stato ben tenuto nascosto dal procuratore di Milano Francesco Greco» aggiungendo «chissà perché» e che in «“altri verbali c’è anche lui”(parte manoscritta volta verosimilmente a evidenziare che da alcuni verbali di interrogatorio risulta la presenza del dottor Greco)». Nelle motivazioni i giudici della Libertà hanno affermato che il messaggio «presenta indubbie similitudini con quello trasmesso» il 26 febbraio ad una giornalista «per contenuti, caratteri, utilizzo di caratteri maiuscoli per evidenziare alcune parti degli scritti, tanto da far ritenere la stessa provenienza». Nel procedimento nei confronti della donna, che ha lavorato nella segreteria di Piercamillo Davigo, il procuratore capo di Milano Francesco Greco figura come parte offesa. Invece nel procedimento romano in una prima fase si era proceduto all’iscrizione del registro degli indagati del pm di Milano Paolo Storari per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato, nell’aprile del 2020 a Milano, all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali. Il procedimento è stato poi inviato per competenza territoriale a Brescia. Sul contenuto di quanto affermato da Amara ha invece avviato un procedimento la Procura di Perugia che sta effettuando accertamenti sulla presunta loggia Ungheria tirata in ballo dall’avvocato siciliano. Angela Stella

Anna Maria Greco per "il Giornale" il 17 giugno 2021. Il giallo del «corvo» al Csm è quello della segretaria e del suo capo, Piercamillo Davigo. A casa di Marcella Contrafatto i pm romani hanno trovato i sei verbali secretati di interrogatori milanesi dell'avvocato-faccendiere Piero Amara, finiti a consiglieri di Palazzo de' Marescialli e alla stampa, fascicoli di due procedimenti disciplinari, copia della posizione disciplinare di Luca Palamara, un avviso di conclusioni indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa. Tutto materiale delicato, questo, sul quale l'allora consigliere del Csm Davigo ancora, a quanto sembra, non ha fornito la sua versione. È stato lui a darlo alla sua segretaria e per motivi d' ufficio e per altro? Se ne è impossessato lei, a insaputa del capo, senza che lui se ne accorgesse introducendosi nel suo computer? Oppure c' è stato un accordo tra i due? A questi interrogativi non risulta che gli inquirenti abbiamo cercato una risposta, necessaria a delineare il ruolo di Davigo che, da parte sua, ha scelto di non seguire le vie ufficiali quando il pm Paolo Storari si è rivolto a lui, verbali alla mano, per lamentarsi di come conducevano le indagini su Amara i suoi capi a Milano. Invece di consigliare un esposto il fondatore della corrente Autonomia & Indipendenza ha deciso di parlarne informalmente con i vertici dell'organo di autogoverno, con colleghi consiglieri e anche con politici, come il 5Stelle Nicola Morra. Quanto all' altro materiale sequestrato alla Contrafatto non sembra significativo per dimostrare che sia lei il «corvo». Nelle motivazioni del tribunale del Riesame di Roma, in risposta all' istanza della difesa della dipendente di Palazzo de' Marescialli dopo le perquisizioni, si parla di rassegne stampa a cura del Csm con chiave di ricerca «Palamara», e questo dimostrerebbe solo un interesse peraltro molto diffuso sullo scandalo del ras delle nomine e poi un estratto del libro Il Sistema, scritto dell'ex presidente dell' Anm con Alessandro Sallusti, oltre a vari appunti, una rubrica, due pen drive e due memory card. E qui bisogna sapere che la copia del volume circolava tra i magistrati su whatsapp, forse anche un modo per informarsi ma non comprarlo, e non alimentarne il successo. Insomma, per capire il ruolo della Contrafatto in questa clamorosa vicenda bisognerebbe partire dal suo capo e dalle sue spiegazioni su come la segretaria sia riuscita a mettere le mani sui documenti senza suscitare sospetti. Lo scandalo Amara e lo scandalo Palamara sono strettamente legati, come dimostra anche la vicenda del «corvo» e oggi a Perugia è fissato davanti al gup un confronto con la polizia postale, per arrivare ad una decisione dei magistrati sulla correttezza dell'uso del trojan, inoculato nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm per spiare tutte le manovre sue e dei colleghi in toga su nomine, traffici vari e anche utilizzo politico delle inchieste. La questione dell'utilizzabilità delle intercettazioni è cruciale. Sempre oggi potrebbe essere depositato a Perugia il patteggiamento richiesto dall' imprenditore romano Fabrizio Centofanti, accusato di corruzione con Palamara, che cerca la via più breve e indolore per uscire dai suoi guai giudiziari, collaborando con i pm. Ha infatti ammesso di essere stato lo «sponsor» di Palamara, di aver pagato molte cene e pranzi, oltre ad alcune vacanze. Centofanti avrebbe parlato con il procuratore Raffaele Cantone e i suoi anche del presunto «complotto» contro Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo (ex procuratore capo di Roma e aggiunto) organizzato, secondo l'accusa, da Palamara e dal pm Stefano Fava. E domani a Perugia i due saranno interrogati dal gup proprio su questa storia.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 17 giugno 2021. Lo storico greco Plutarco avrebbe certamente dedicato un capitolo delle sue Vite parallele ai pm Paolo Storari e Stefano Fava, due magistrati molto diversi, ma accomunati dall'essere diventati i più fieri avversari di Piero Amara, uno dei «collaboratori di giustizia» più controversi della storia repubblicana. Noi abbiamo comunicato via Whatsapp a lungo con l'avvocato di Augusta prima che venisse arrestato, l'8 giugno scorso, su richiesta della Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari e in quel dialogo a puntate era affiorato il risentimento di Amara nei riguardi di Fava e Storari, colpevoli di non essersi bevuti la favola del suo pentimento e di averne chiesto, senza successo, l'arresto. Il chiacchierato legale, nel suo percorso di presunta collaborazione, si è preoccupato di evitare il carcere e di mettere in salvo il tesoretto accumulato grazie agli affari della Napag Srl (a lui riconducibile) con l'Eni, business che gli sono costati una denuncia per truffa da parte della compagnia petrolifera. Per quasi due anni Amara non aveva concesso interviste alla Verità, mentre aveva accettato gli inviti di Piazza pulita («Corrado Formigli è stato un signore») e di Report. Il motivo di tanta diffidenza nei nostri confronti? Lo ha confessato lo stesso Amara al telefono: «Sa perché non le parlavo prima?» ci ha chiesto. «Per la posizione troppo pro Fava del vostro giornale». Poi ha aggiunto: «La vicenda Napag è una minchiata che non finisce mai». Tradotto: i soldi della Napag non sono i miei, al contrario di quanto sostiene Fava. Amara ha ripetutamente promesso di consegnarci materiale che confermasse le sue dichiarazioni, salvo poi cancellare tutti gli appuntamenti con diverse scuse. Il 3 giugno scorso, a un'ora dal rendez-vous, ha annullato il faccia a faccia con queste parole: «L'avvocato Mondello (Salvino, ndr) e l' avvocato Montali (Francesco, ndr) mi hanno vietato assolutamente di intrattenere rapporti con qualunque giornalista o commentatore sino alla decisione del Tribunale di sorveglianza. Non so ancora a cosa è dovuto questo improvviso ordine ma, per mia serenità, devo rispettare il diktat dei miei legali». I quali, dunque, preferiscono mandare il loro assistito allo sbaraglio in tv (come è accaduto il 27 maggio su La7), che dare il benestare a una chiacchierata informale con un giornalista sospettato di essere «pro Fava». Salvino Mondello sarebbe, come si legge nel libro Giustiziamara di Enzo Basso, ex compagno di liceo e testimone di nozze del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, la toga che aveva bocciato la richiesta di arresto per bancarotta presentata da Fava nei confronti di Amara. Il 31 gennaio 2019 Ielo aveva elencato le ragioni per cui, a suo giudizio, occorresse risparmiare le manette all' indagato: «Ricordiamoci che dobbiamo affrontare un dibattimento con Amara teste di accusa (). In questo contesto una misura cautelare per Amara mi sembra un atto che ci indebolirebbe». Una lezione di garantismo: i processi vanno vinti, anche a costo di utilizzare testi discutibili. Ielo diede anche un'altra motivazione: «Avevamo chiesto ad Amara () tutte le corruzioni giudiziarie onde evitare ulteriori richieste cautelari. Chiedere adesso la misura per bancarotta significa uscire dal perimetro dell' accordo originario». Purtroppo, nonostante questa grandissima apertura di credito, Amara non ha raccontato ai pm romani molte presunte corruzioni giudiziarie, che ha preferito denunciare in altre Procure. Avvalorando così i sospetti di Fava. Ma se Amara mal sopporta la toga di origini calabresi, è chiaro che non stimi neppure Storari, il quale è stato il bersaglio preferito del legale arrestato durante le conversazioni che abbiamo intrattenuto con lui: «Io penso che Storari sia una persona per bene, ma è un coglione» è sbottato. «L'indagine di Milano doveva andare a un magistrato meridionale perché tu non puoi convocare una persona e domandare: "Tu fai parte di una associazione?"». «Errore» che avrebbe commesso Storari mentre indagava sulla loggia Ungheria. Al contrario, Amara si è sperticato in complimenti per l'aggiunto di Milano Laura Pedio: «È proprio di un'intelligenza mostruosa» ha sentenziato. Ma torniamo alle vite parallele. Negli anni scorsi Fava e Storari si ritrovano a indagare su Amara, avvocato introdottissimo negli ambienti giudiziari: Fava a partire dal 2016, Storari dal 2019. Entrambi si convincono che Amara, seppur sostenga di aver avviato un percorso di collaborazione dopo il suo primo arresto (avvenuto nel febbraio del 2018), continui a mentire e a commettere reati. Entrambi predispongono quindi una richiesta cautelare contro Amara (per reati che vanno dalla bancarotta all'autoriciclaggio e alla calunnia) e Fava anche un'istanza di sequestro di un'ingente somma di denaro bonificata dall'Eni alla Napag. Entrambi registrano un atteggiamento critico verso le proprie iniziative da parte dei procuratori di Roma e Milano, Giuseppe Pignatone e Francesco Greco, e degli aggiunti Ielo, Rodolfo Sabelli, Fabio De Pasquale e Pedio poiché Amara era «teste di accusa». Entrambi inviano delle mail e delle note scritte formalizzando la propria ferma determinazione a procedere contro Amara. Entrambi si trovano a parlare delle vicende dell'avvocato siciliano con l'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo (Fava durante due pranzi al ristorante, Storari a casa dell'ex campione di Mani pulite), il quale avrebbe condiviso la loro valutazione sulla gravità della situazione esortandoli ad andare avanti. Entrambi sono stati esautorati dalla trattazione dei procedimenti che riguardano Amara. Entrambi sono stati indagati (a Perugia e Brescia) e sottoposti a procedimento disciplinare da parte del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che, invece, non ci risulta abbia deciso di agire nei confronti dei procuratori e degli aggiunti di Milano e Roma, nonostante Amara sia stato arrestato dalla Procura di Potenza proprio perché avrebbe continuato a delinquere anche dopo l'inattendibile collaborazione avviata con gli inquirenti capitolini, meneghini, ma anche perugini e messinesi. Chissà se adesso qualcuno si preoccuperà di restituire l'onore a Fava e Storari, essendo sempre più evidente che la loro unica colpa è stata quella di aver cercato di smascherare un probabile impostore con troppi sponsor dentro alla magistratura.

SCANDALI A “PALAZZO”. CONTINUANO LE FUGHE DI NOTIZIE DAL CSM: CHI E’ IL NUOVO “CORVO”? Il Corriere del Giorno il 18 Giugno 2021. Resta da chiedersi cosa aspettano a questo punto il ministro Guardasilli Cartabia ed il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Calvi ad intervenire anche disciplinarmente nei confronti di queste fughe di notizie che compromettono la dovuta riservatezza degli atti del CSM. Mentre vengano trovate nuove carte a casa di Marcella Contrafatto, l’ex segretaria del consigliere del Csm Piercamillo Davigo ora in pensione, indagata per la diffusione dei verbali segreti di Piero Amara, che ad onor del vero sono solo “rassegne stampa a cura del Consiglio superiore della magistratura con chiave di ricerca Palamara”, un “estratto del libro Il Sistema” scritto a quattro mani da Alessandro Sallusti e l’ex presidente dell’ ANM, Luca Palamara, ma anche “i fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare del dottor Palamara”, ed un “avviso di conclusione delle indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa”. Ma le fughe di notizie dal CSM continuano e questa volta la Contrafatto non c’entra nulla. E’ apparsa oggi infatti sull’edizione barese del quotidiano LA REPUBBLICA una dettagliata ricostruzione dei lavori (non ancora resi pubblici) della Va Commissione del Csm, che si occupa delle nomine e cariche direttive, riportando persino dei passaggi estratti dai verbali e documenti interni con valutazioni sull’operato di alcuni magistrati candidati a ricoprire posizioni direttive. Dall’ ufficio stampa del Consiglio Superiore della Magistratura, rendono noto di non aver diramato alcun comunicato stampa. Da dove sono uscite quindi queste notizie ? Forse dalla solita “Area” condizionata… ? Resta da chiedersi se le linee direttive del 2018 sui rapporti fra magistratura ed informazione elaborate dalla commissione presieduta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio (all’epoca dei fatti) siano ancora valide., che riportava quanto segue: “Il Consiglio superiore della magistratura ritiene necessario un intervento in materia di comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari e di rapporti tra magistrati e mass media, e non solo per ovviare alle serie criticità che si manifestano in quei rapporti” si legge nel documento che già in premessa ammette che il problema esiste: il pianeta giustizia va innanzitutto reso più trasparente e comprensibile per aumentare la fiducia dei cittadini nello Stato di diritto.” Ma c’è di più. Quel che fa discutere sono gli indirizzi che il Csm ha voluto impartire ai magistrati in più di un’occasione sono finiti nei guai, anche in sede disciplinare, proprio a causa dei rapporti con la stampa. La commissione evidenziò qualcosa di molto importante, e cioè che vanno evitate “la discriminazione tra giornalisti o testate”, ma soprattutto “la costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione”. Ma probabilmente qualche appartenente dell’ “Area Condizionata” del CSM ha interesse che vengano resi noti i lavori del CSM scavalcando i canali ufficiali, calpestando le linee guide elaborate da quel grande magistrato e galantuomo che è il presidente emerito Giovanni Canzio. Così come filtrano i verbali degli interrogatori delle inchieste sulla Procura di Trani diventata un colabrodo di disinformazione “pilotata”. E guarda caso tutto pubblicato dai soliti “noti” amici di una certa magistratura sin troppo vicina ad alcuni giornalisti. Resta da chiedersi cosa aspettano a questo punto il ministro Guardasilli Cartabia ed il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Calvi ad intervenire anche disciplinarmente nei confronti di queste fughe di notizie che compromettono la dovuta riservatezza degli atti del CSM.

Il pm indagato per rivelazione del segreto d’ufficio nel caso della loggia Ungheria. Stoccata di Storari alla Procura di Milano: “Non dovevo toccare Amara per il processo Eni Nigeria”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Giugno 2021. Piero Amara non andava toccato da indagini perché doveva essere convocato al processo Eni-Nigeria. Non andava compromesso, insomma, come testimone, con le dichiarazioni sulla cosiddetta loggia Ungheria. È quanto ha raccontato il pm di Milano Paolo Storari alla Procura di Brescia. Storari aveva interrogato con la collega Laura Pedio Amara e quindi aveva preso quei verbali – nei quali si raccontava della loggia segreta che avrebbe unito membri della magistratura, della politica, dell’imprenditoria e via dicendo – e li aveva consegnati all’allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo. Storari è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio. Quei documenti erano infatti trapelati alla stampa, ai quotidiani La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, e al membro del Csm Nino Di Matteo che, a differenza di Davigo che sulla vicenda aveva intrattenuto solo colloqui informali senza segnalare formalmente il caso alle autorità competenti, ha denunciato quei verbali allo stesso Consiglio difendendo il collega Sebastiano Ardita, coinvolto da quei verbali come membro della fantomatica loggia. Amara ha descritto in un’intervista alla trasmissione Piazza Pulita la loggia come “peggio di un’associazione, è un’associazione a delinquere per abuso d’ufficio, non in modo occasionale, ma come sistema”; e sul dottor Storari che “a mio avviso in questa vicenda pecca solo di una ingenuità cosmica rispetto a quello che è successo, per non qualificarlo altrimenti; sono io che mi sono posto il problema che domani c’è un’esigenza di riscontri”.

L’interrogatorio. Storari ha parlato alla Procura di Brescia – perché competente sulla Procura di Milano – dove Davigo avrebbe ricevuto i verbali dal pm, che aveva detto fin dal primo momento di aver trafficato quei verbali per l’“inerzia” con le quali la Procura stava trattando le dichiarazioni di Amara. Storari ha detto che per gli stessi motivi – gli accertamenti sui profili di calunnia – sarebbe stato preservato anche Vincenzo Armanna, ex manager Eni e grande accusatore al processo Eni-Nigeria.

Dicembre 2019. Raccolte le dichiarazioni di Amara sulla loggia, Storari ha detto di aver chiesto ai vertici dell’ufficio diretto da Francesco Greco di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. Non ci sarebbe stata nessuna risposta: ecco quindi l’“inerzia”. Gennaio 2020. Greco e l’aggiunto Pedio portano a Brescia un passaggio di un verbale di Amara nel quale quest’ultimo gettava ombre sul Presidente del collegio del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, e su presunte interferenze delle difese Eni sul giudice. Sul caso venne aperto un fascicolo che dai pm bresciani in seguito archiviato. L’aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro avrebbero quindi chiesto ai giudici di far entrare come testimone nel dibattimento Amara e pure su quelle presunte “interferenze” su Tremolada, mentre il collegio era all’oscuro di quelle dichiarazioni depositate a Brescia, come riporta e ricostruisce l’Ansa. De Pasquale e Spadaro sono attualmente indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio: ovvero un video registrato di nascosto in cui l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, imputato nel processo e testimone sulle cui dichiarazioni si era basato il processo Eni-Nigeria, diceva ad Amara, ex legale di Eni, di voler “ricattare i vertici della società petrolifera” annunciando l’intenzione di far arrivare ai pm “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti. 

Il processo Eni Nigeria. Il video sarebbe stato recuperato da un avvocato della difesa in un altro processo, in un’altra città. A marzo scorso il Tribunale di Milano ha quindi assolto in primo grado tutti gli imputati nel processo sulla presunta tangente pagata Eni alla Nigeria, per l’accusa la più grande – per l’acquisizione di Eni e Shell della licenza per esplorare un vasto tratto di mare al largo della Nigeria – mai pagata da un’azienda italiana. Il fatto non sussiste. A processo cinque tra ex ed attuali dirigenti tra cui Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex ed attuale amministratore delegato della società, e altri manager di Eni e Shell. 15 imputati in tutto. Anzi, nelle motivazioni dell’assoluzione, depositate dai giudici del Tribunale di Milano, si leggeva come “risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Il ministero della Giustizia guidato dalla ministra Marta Cartabia sul caso ha avviato un’inchiesta e chiesto all’ispettorato di svolgere accertamenti. Per Storari, dunque, come da lui messo a verbale, si voleva salvaguardare Amara – che comunque non fu ammesso al dibattimento – da possibili indagini per calunnia perché utile come testimone. E allo stesso modo, per non screditare l’accusatore, le prove raccolte sul manager Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, nel fascicolo cosiddetto “falso complotto Eni”, che non vennero prese in considerazione né depositate nel processo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Che fine ha fatto l'inchiesta sulla loggia Ungheria? Il conflitto d’interessi di Massimo Luciani: l’uomo della riforma del Csm e avvocato dell’abusivo Prestipino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Giugno 2021. Che fine ha fatto l’inchiesta sulla Loggia Ungheria, voi ne sapete niente? Ve lo dico io: è in un cassetto. E i giornali ne parleranno? No, non ne parleranno più, i cronisti di giudiziaria hanno giurato il silenzio ai loro magistrati di riferimento. E quindi – immagino, mi chiederete a questo punto – che succederà dell’avviso di garanzia a Davigo? Devo deludervi di nuovo: non c’è nessun avviso di garanzia per Davigo. Non è indagato. Ha ricevuto illegalmente il dossier di Storari, lo ha inguattato illegalmente, ne ha parlato, illegalmente, con varie persone tra le quali il presidente della commissione antimafia del Parlamento, si può persino sospettare che in qualche modo, illegalmente, lo abbia fatto avere a giornali amici; cioè, ha compiuto una serie di atti che se uno qualunque di noi ne avesse compiuti meno della metà, la custodia cautelare non gliela toglieva nessuno: ma lui non è indiziato. Come mai tutto questo movimento per seppellire gli scandali? Beh, forse per via del fatto che in magistratura sono aperte troppe battaglie. E che i magistrati in guerra combattono, ma stanno ben attenti a non farsi troppo male. In particolare sono aperte tre guerre mondiali: quella per ottenere la Procura di Milano (Greco è in scadenza, ed è anche coinvolto nell’affare Storari e ora nell’affare De Pasquale); quella per ottenere la procura di Roma; e forse anche quella per ottenere la procura di Napoli. Ma la battaglia più grossa è a Roma. Magistratura democratica non intende perdere Roma, e ha dalla propria parte Dio-Pignatone. Sarà difficile piegarla. La legge dice che l’attuale procuratore Prestipino (MD) è stato nominato illegalmente (così ha stabilito il Tar e poi il Consiglio di Stato). Ma la magistratura non è molto attenta alla legalità. Prestipino resta al suo posto, non intende lasciare a Marcello Viola, che ne ha diritto, e per condurre questa battaglia insensata si fa rappresentare dall’avvocato Luciani. Rispettabilissima persona. Ma perché l’avvocato Luciani presiede la commissione ministeriale che dovrebbe riformare il Csm? Vi ricordate di quando si diceva che Berlusconi avesse un conflitto di interesse? Già, era un dilettante…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caso e le anomalie processuali. Amara e la loggia dei Pm, tutti i misteri sul caso Ungheria. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Giugno 2021. Non si hanno più notizie dell’indagine nei confronti degli appartenenti alla loggia Ungheria, l’associazione segreta finalizzata a pilotare le nomine dei magistrati al Consiglio superiore della magistratura e nelle alte burocrazie ministeriali. L’avvocato Piero Amara, il pentito del terzo millennio e fra gli esponenti di punta di questa loggia, invitato da Corrado Formigli alla trasmissione Piazza Pulita su La7 la scorsa settimana, ha mandato qualche messaggio trasversale, affermando di aver registrato di nascosto i suoi colloqui con i componenti del sodalizio, mettendosi così al riparo da eventuali denunce per calunnia. Proviamo, allora, a ricostruire i fatti. Dagli atti depositati dal pubblico ministero il 20 febbraio 2021 nell’udienza preliminare a carico di Luca Palamara al Tribunale di Perugia, in particolare dagli interrogatori di Amara del 4 e del 17 febbraio 2021, risulta che sia la Procura di Perugia ad indagare, dopo aver delegato il solito Gico della guardia di finanza di Roma, sulla loggia Ungheria. I verbali delle deposizioni di Amara erano stati trasmessi al procuratore Raffaele Cantone dall’ufficio di Milano diretto da Francesco Greco. A che titolo, però, sta indagando Perugia? L’avvocato Amara, nell’interrogatorio del 6 dicembre 2019 aveva riferito che «l’allora procuratore della Repubblica di Perugia (Luigi) De Ficchy era una persona alla quale io potevo arrivare perché faceva parte dell’associazione Ungheria». L’art. 11 del codice di procedura penale, che il procuratore Greco e il procuratore Cantone frequentano quotidianamente, stabilisce che «i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge». Ed al momento del fatto, come riferisce lo stesso Amara, De Ficchy era procuratore della Repubblica di Perugia e quindi legge vuole che sia Firenze ad indagare sulla loggia Ungheria. Non si capisce, quindi, perché Greco abbia mandato i verbali a Cantone e perché quest’ultimo non trasmetta gli atti a Firenze visto che nella loggia sarebbero presenti magistrati in servizio a Roma e magistrati in servizio, al momento del fatto, a Perugia. Quanto riferito da Amara, ritenuto credibile tanto da diventare la principale prova d’accusa a carico di Palamara nel processo per corruzione ha tuttavia un ulteriore grottesco risvolto. De Ficchy farebbe parte di una loggia alla quale partecipavano lo stesso Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e l’imprenditore Fabrizio Centofanti, tutti coindagati di Palamara, che hanno subito tuttavia un trattamento diverso da quello riservato all’ex zar delle nomine al Csm nell’indagine di Perugia. Ad Amara e Calafiore non è stato inoculato il virus trojan ma è stato inviato “un mero preavviso di malfunzionamento” del cellulare mentre a Palamara è stato bloccato il traffico voce e il traffico dati tramite l’intervento diretto del gestore telefonico. Inoltre nei confronti di Amara e Calafiore non è stato richiesto il rinvio a giudizio ma sono stati stralciati per essere archiviati. Centofanti, poi, non solo non è mai stato intercettato ma nei suoi confronti non è stato compiuto alcun atto di indagine. Anzi il suo nome, pur essendo secondo i pm il corruttore di Palamara, è stato iscritto nel registro degli indagati il 27 maggio 2019 quando cioè l’indagine era finita e Palamara era a quella data intercettato da tre mesi. Non è che per caso c’entra la loggia Ungheria? Paolo Comi

Non è l'arena, Alessandro Sallusti e "l'anomalia Ciro Grillo": "Se al suo posto ci fosse stato il figlio di Berlusconi o della Meloni..." Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Sul caso di Ciro Grillo "c'è un'anomalia grande come una casa". Alessandro Sallusti, in collegamento con Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 punta il dito sulle implicazioni politiche dell'inchiesta per stupro che vede accusati il figlio di Beppe Grillo e tre suoi amici a Tempio Pausania, in Sardegna. "Il dottore Palamara mi ha raccontato che quando ci sono di mezzo dei politici, le inchieste possono essere accelerate, ritardate, imboscate, depistate in base alla convenienza che il sistema ha rispetto a quel politico. In questa vicenda c'è di mezzo il capo del partito che all'epoca dei fatti era l'azionista di maggioranza di governo e che esprimeva il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede". "Non credo sia stata una coincidenza - suggerisce il direttore di Libero - che finché il M5s era l'azionista di maggioranza e Bonafede ministro questa inchiesta sia rimasta nel cassetto della Procura sostanzialmente insabbiata. I verbali che oggi leggiamo sui giornali non sono di oggi, ma di anni fa. Io stesso - aggiunge Sallusti - ho mandato per due volte un mio bravissimo cronista, Luca Fazzo (del Giornale, ndr) alla Procura di Tempio Pausania e per due volte è tornato con le pive nel sacco dicendo da lì non esce nulla. Figuratevi se al posto del figlio di Beppe Grillo con Bonafede ministro ci fosse stato il figlio di Silvio Berlusconi o il figlio di Giorgia Meloni: dopo 2 minuti quei verbali sarebbero stati su tutti i giornali. Il sistema non è solo quello della giustizia, ma anche del giornalismo". Di fronte alle rimostranze di Luca Telese, Sallusti risponde con un esempio noto a tutti: "I verbali del caso Ruby uscivano in tempo reale. Finito l'interrogatorio un''ora dopo erano su tutti i giornali. I verbali del caso Grillo sono usciti dolo quando il Movimento 5 Stelle non era più azionista di maggioranza del governo". 

Magistratura, il penalista Giuseppe Fanfani mostra il marcio delle toghe: "Ecco come arrestano le persone". Giovanni M. Jacobazzi su Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. «Luca Palamara? Sono molto dispiaciuto per quello che gli è capitato. Luca, intendo essere chiaro, è un amico e resta tale». Giuseppe Fanfani, avvocato penalista e nipote del celebre Amintore, è un politico di razza. Eletto poco più che maggiorenne consigliere comunale nella Dc, è stato deputato dell'Ulivo e per dieci anni sindaco di Arezzo con circa il 60percento dei voti. Nominato componente laico del Csm in quota Pd dal 2014 al 2018, conosce molto bene le dinamiche della magistratura.

Onorevole, che giudizio ha della vicenda Palamara?

«Luca paga per gli errori del cosiddetto “sistema”. Diciamo che paga per tutti».

Un capro espiatorio?

«Guardi, Palamara al Csm ragionava con tutti. E riusciva a sintetizzare i desideri di tutti. È ovvio che non lavorava da solo. Interloquiva con i rappresentanti di tutte le correnti».

Sono così importanti le correnti per fare carriera in magistratura?

«Si. Un legame con le correnti lo devi avere per forza. Voglio raccontarle un episodio che non sa nessuno».

Prego.

«Appena nominato al Csm venne da me il vice presidente Giovanni Legnini (Pd) e mi chiese di fare il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi. Si tratta della Commissione più importante, la più ambita, quella che si occupa delle nomine dei magistrati (incarico poi ricoperto dal 2017 al 2018 da Palamara, ndr)».

E lei?

«Gli risposi di no. Ero appena arrivato al Csm e non mi sentivo sufficientemente preparato per un ruolo di tale responsabilità».

Cosa successe allora?

«Venne scelta la consigliera di Cassazione Maria Rosaria Sangiorgio (esponente di Unicost, la corrente di Palamara, ora giudice presso la Corte Costituzionale) ed io feci il vicepresidente. Dopo qualche mese, eravamo quindi nella primavera dell'anno successivo, decisi però che era giunto il momento di dimettermi e scrissi una lettera a Legnini».

Perché?

«Non stavo bene, provavo una grande sofferenza individuale per il metodo con cui venivano fatte le nomine».

Il 'sistema' raccontato da Palamara?

«Ecco, appunto». 

Cosa successe, quindi?

«Legnini mi pregò di aspettare. "Mi metti in grande difficoltà se ti dimetti adesso", mi disse, chiedendomi di attendere fino al rinnovo della composizione della Commissione. Cosa che feci ma con grande disagio».

Lei è stato anche giudice della sezione disciplinare del Csm, la sezione che ha radiato lo scorso ottobre Palamara dalla magistratura. Anche in quella sezione esiste la 'pressione' delle correnti?

«Non ho le prove e non posso essere cattivo, però ho visto da vicino il comportamento dei magistrati giudici».

Tipo?

«Ho avvertito quelle piccole cose, come dire, quelle sfumature. "Perché - ho sempre pensato - quel magistrato mette tutta quella foga nel difendere il collega?", cose così. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato ma si indovina spesso».

Si riuscirà a riformare il Csm? Lo ha chiesto anche il capo dello Stato.

«Lo spero ma sono scettico».

Si può uscire dall'esasperazione del correntismo e dalla lottizzazione delle nomine?

«La prima cosa da fare è cambiare immediatamente il sistema elettorale dei componenti togati del Csm. Serve il sorteggio. Ma solo fra i magistrati 'apicali' con una certa anzianità di servizio e che non abbiano più problemi di carriera. L'incarico di consigliere dovrà essere di fatto l'ultimo. Solo in questo modo si potrà garantire una loro maggiore autonomia. Il sorteggio fra tutti i magistrati non funzionerebbe».

Il disciplinare del Csm funziona? Chi sbaglia paga?

«No. Va necessariamente affidato all'esterno. Ad esempio alla Corte Costituzionale».

E le valutazioni di professionalità delle toghe?

«Idem. All'esterno. Come può funzionare un sistema di valutazione dove il 99 percento dei magistrati ha giudizi positivi?».

Concorso in magistratura: "esternalizzato" anche questo?

«Sicuro. Le influenze delle correnti sulle nomine dei commissari di concorso sono fortissime».

Lei, pochi lo ricordano, fu l'unico ad aver difeso cinque anni fa l'allora sindaco di Lodi Simone Uggetti (Pd).

«Non si possono mettere in galera le persone con quella leggerezza. Io ho fatto il sindaco per anni e conosco bene i limiti e la difficoltà del ruolo. Premesso che gli illeciti non vanno commessi, un conto è fare un reato nell'interesse della collettività, un altro se l'interesse è personale».

Nel caso di Uggetti la Corte d'Appello ha escluso anche la seconda ipotesi.

«Ai magistrati serve prudenza e capacità. Non è sufficiente vincere un concorso per diventare padroni del mondo».

Parole forti.

«Non voglio fare il maestro ma alla mia età sono sereno e distaccato quanto basta per giudicare bene. Oggi nessuno vuole più fare il sindaco. Bisogna essere dei matti. I sindaci dei paesi sotto i 5mila abitanti, che sono la maggioranza, svolgono ogni genere di attività per un migliaio di euro e rischiano tutti i giorni un procedimento penale».

Torniamo all'arresto di Uggetti.

«Mi sono sentito offeso come cittadino. Fu una reazione motivata: conoscevo la materia e avevo letto l'ordinanza di custodia cautelare, eccessiva a dir poco».

Lei voleva aprire una pratica per verificare l'operato dei magistrati di Lodi. Ma i togati del Csm e l'Anm l'attaccarono violentemente.

«E ci rimasi malissimo. Mi dissero che nel merito delle decisioni dei magistrati non può entrare nessuno».

L'incensurabilità di merito?

«Già».

Che fine ha fatto la loggia Ungheria? Cosa è il metodo ungherese: chi sbaglia la fa franca. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Sembra la descrizione di una cosca mafiosa, più che di una particolare loggia di massoni. Men che meno appare come la narrazione di quel che è successo, nell’arco di un anno e mezzo, tra dignitosissimi e insospettabili personaggi in toga. Lui lo chiama il “metodo ungherese”, ma sembra il resoconto di una conferenza stampa del procuratore Nicola Gratteri. Invece è l’editoriale del Corriere della sera di ieri, scritto da Paolo Mieli. Una cronaca perfetta, senza malizia né retropensieri, un racconto pulito di quel che è successo, e una sola domanda, non retorica: che fine ha fatto la “Loggia Ungheria”? Cui se ne potrebbe aggiungere un’altra, non secondaria: c’entrano qualcosa gli ungheresi? Domanda retorica, in questo caso. Perché, se una piccola osservazione può essere fatta al bravo cronista, è che nel suo resoconto manca l’indicazione del luogo in cui il “gruppo” (che non possiamo e non vogliamo chiamare loggia e men che meno cosca) si riuniva a tessere le sue trame. E che era, a quanto dice il Collaboratore di giustizia, piazza Ungheria, a Roma, nell’abitazione di un alto magistrato dall’impeccabile reputazione, il cui nome tutti conoscono, ma nessuno osa pronunciare. Forse anche il bravo cronista. Non stiamo scherzando. Se ai tempi di tangentopoli i fatti e le relazioni tra personaggi così come descritti da Mieli come “metodo ungherese” fossero capitati nelle mani degli uomini con le “Mani Pulite”, che cosa sarebbe successo? Nel carcere milanese di San Vittore, che già scoppiava, avrebbero dovuto aggiungere letti e strapuntini per far posto ai nuovi arrivati. Questo secondo la loro mentalità e le loro abitudini dei tempi, naturalmente. Il racconto di oggi, nello scritto del bravo cronista presenta il Collaboratore di giustizia che fa la grande rivelazione: esiste una loggia massonica di potere, composta di magistrati, ufficiali dell’esercito, politici e imprenditori in grado di manipolare a proprio piacimento la vita politica italiana, giustizia compresa. A Milano l’indagatore numero Tre ritiene la rivelazione attendibile e vorrebbe procedere con urgenza. Ma è ostacolato dall’inerzia degli indagatori Due e Uno. Fino a questo punto siamo dentro le regole. Ma poi, dice Paolo Mieli, ecco che subentra il “metodo ungherese”. Cioè qualcosa di strano, di poco regolare. Qualcosa che gli uomini con le “Mani Pulite” avrebbero considerato reato, e in seguito a cui, forse, avrebbero ritenuto necessaria l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Se non altro per il pericolo di inquinamento delle prove. Dunque secondo il “metodo ungherese” un sostituto procuratore in dissenso con il suo capo può scavalcarlo e andare a sfogarsi da un membro del Csm e consegnargli carte segrete senza firme né timbri ( che a noi lettori di gialli ricordano un po’ l’arma con la matricola abrasa), in modo che non ne sia identificabile la fonte. Poi il consigliere può informarne i vertici della magistratura, ma sempre in modo informale, e poi anche colleghi e parlamentari scelti con un suo personale criterio. Infine può andare in pensione, abbandonando non si sa bene dove (computer, scrivania? nelle mani della segretaria?) carte o chiavette con contenuti segreti. E quando la segretaria viene sospettata di essere la “postina” che distribuisce a un paio di giornali il documento supersegreto, lui non trova di meglio da dire che: tranquilli, se l’avessi fatto io, nessuno mi avrebbe mai scoperto…Finisce che, la storia è ormai conosciutissima, tra una consegna e l’altra, le carte planano nelle mani del magistrato Nino Di Matteo il quale, al grido di “Il re è nudo!” fa l’unica cosa giusta e spiffera all’intero Csm quel che sta succedendo. Che cosa c’è di regolare (possiamo dire di legale?) in tutto ciò? D’ora in avanti ciascuno di noi potrà avvalersi del “metodo ungherese” ritenendo, per usare il linguaggio del dottor Davigo, di farla franca? Noi cittadini siamo ogni giorno sottoposti a giudizio, e potenziali indagati. I magistrati no, come dimostrano i dati, di fonte Csm, pubblicati ieri da Giulia Merlo in un’inchiesta sul quotidiano Domani: tra il 2008 e il 2016 la percentuale media delle toghe promosse dai consigli giudiziari (i piccoli Csm locali) è del 98,2%. Tutti bravissimi, nessuno sbaglia mai. E pare che abbia destato grande allarme nel sindacato delle toghe un emendamento presentato dal Partito democratico che propone di inserire nella riforma dell’ordinamento giudiziario la previsione che nei consigli giudiziari che devono valutare la professionalità dei magistrati abbiano diritto di voto anche gli avvocati. Apriti cielo! L’Anm con il suo direttivo (unica eccezione dignitosa, quella di Md) ha immediatamente votato una mozione di sdegno, quasi fosse stata colpita al cuore l’autonomia della magistratura. O il “metodo ungherese”?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'avvocato-accusatore a Piazza Pulita. Amara accusa: “La loggia Ungheria era una vera e propria associazione a delinquere”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Non si muove un muscolo su un viso tondo un po’ gommoso e piuttosto anonimo, caratteristica perfetta per un agente, dicono i libri di spionaggio. Eccolo qui Piero Amara, ospite della trasmissione Piazza Pulita, a fingere di dare la propria versione dei fatti, a recitare la storia segreta della Loggia Ungheria. «Lei è un genio», la butta lì con un filo di sarcasmo Paolo Mieli, ospite in studio, dopo aver incalzato il Grande Pentito del mondo delle toghe con domande rimaste senza risposta. Intanto la loggia Ungheria non è più una loggia, è un’associazione in cui alcuni «condividevano l’ideale», ma altri, un gruppo ristretto, svolgevano attività criminale. Ma come, criminale? Si, erano un’associazione per delinquere finalizzata all’abuso d’ufficio. E in ogni caso l’avvocato siciliano non sa perché l’associazione si chiami “Ungheria” né se abbia una sede né dove. Ci riunivamo in vari luoghi dice, ma non sa spiegare dove né quando. La prima domanda è: si è comportato in questo modo sfuggente e furbo anche con i pubblici ministeri Laura Pedio e Paolo Storari? Aveva forse ragione il procuratore Francesco Greco a muoversi con cautela? Una notizia però la dà, nella trasmissione di giovedì sera, e forse più di una. Intanto il gruppo di magistrati e alti funzionari dello Stato che facevano parte della loggia-associazione non erano quaranta, ma molti di più. E poi lui a un certo punto, benché gli inquirenti non glielo avessero chiesto, ma per fornire riscontri alle proprie parole, ha cominciato a registrare incontri, riunioni, richieste. Non si sa però, non lo dice, se queste “prove” siano state consegnate ai pubblici ministeri. Ma in che cosa consistevano poi i favori che lui poteva fare a questi personaggi in toga o in divisa o comunque almeno in grisaglia? Facciamo un esempio, dice, se il figlio di uno di questi deve fare un esame alla facoltà di medicina, si poteva avere in anticipo il testo dei quesiti di esame e darglielo. Ma qui stiamo parlando di reati, allora. Certo, conferma il Grande Pentito, infatti in genere per questo tipo di cose si va in galera. Lui infatti in carcere ci è andato nel 2018, i magistrati e gli alti funzionari suoi complici, no. Sempre ammesso che ciò che lui dice sia accaduto, visto che non conosciamo un nome né una data o una circostanza. I pubblici ministeri Pedio e Storari gli danno credibilità, però. Tanto che, nel periodo tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, quando Amara, convocato a Milano per i processi Eni, aveva cominciato a parlare anche della loggia Ungheria, lo avevano messo nero su bianco (il documento è mostrato in trasmissione), certificando la sua “attendibilità”. Anche perché avevano sequestrato dal suo pc un file del 2015 indirizzato a L.L. con la segnalazione di una serie di richieste di raccomandazioni, sempre per magistrati. L.L. era il ministro Luca Lotti, dice l’avvocato siciliano senza esitazione. E si becca immediatamente, in diretta tv, una promessa di querela. Ma insomma, era davvero così importante questo avvocato Piero Amara, e così forte questa loggia Ungheria, che poi non era più faccenda massonica, ma un’associazione composta da idealisti mescolati a delinquenti? Non c’era già Luca Palamara con il suo Sistema e il suo sindacato, per sbrigare certe faccende? Se l’ex capo dell’associazione magistrati non era sufficiente per promozioni e trasferimenti, forse allora è vero che le raccomandazioni richieste a Piero Amara non erano semplicemente un po’ sopra o fuori le righe, ma che tracimavano nel terreno dell’illegalità. E allora, se tutto non è proprio una colossale bufala da far sgonfiare con una puntura di spillo, stiamo entrando in un’area molto pericolosa. Lui pare leggermente scocciato perché il pm Storari, un «ingenuo», preda di «furore investigativo», ha dato le famose carte riservate (un file, in realtà) al consigliere Piercamillo Davigo un anno fa, quando la deposizione del Grande Pentito era ancora in corso, era riservatissima, tanto che lo stesso teste non aveva disponibilità dei verbali. «Se un avvocato avesse fatto quello che ha fatto Storari sarebbe in carcere», dice. Come dargli torto? E torniamo al “metodo ungherese”, quello di un gruppo di persone che lo stesso Amara definisce «associazione per delinquere», anche se, scivolando come un’anguilla, non fornisce nessun elemento utile a dimostrazione della reale esistenza di questa struttura. C’è un elemento molto serio, quello della denominazione “Ungheria”. Per giorni e giorni è stata lasciata circolare la voce che si trattasse della famosa piazza di Roma e dell’abitazione di un famoso magistrato nella zona in cui si sarebbero tenute le riunioni della “Loggia”. Ora derubricata a semplice associazione, anche se vi si accedeva con tre tocchi dell’indice sul polso. Ora, dalle ultime dichiarazioni di Amara, una vera e propria sede non esisterebbe più: «esistevano luoghi in cui ci trovavamo». E anche l’intestazione “Ungheria” sarebbe casuale, sconosciuta al Grande Testimone di Giustizia. Anzi, tutto diventa casuale. L’indicazione dell’ex premier Giuseppe Conte come uno dei beneficiari della Loggia per una consulenza da 400.000 euro? Faceva parte di un elenco di avvocati, quindi il suo nome è uscito per caso. Ma nel 2019 era presidente del Consiglio! Spallucce. Ha sbagliato di qualche anno la data dell’amicizia (e complicità) tra l’ex procuratore (ormai defunto) Tinebra e il consigliere Ardita, due magistrati che in realtà all’epoca si detestavano? Che vogliamo sia l’errore di una data, visto che l’avvocato giura, con «prove granitiche», che i due si erano poi riappacificati durante una tavolata con molti magistrati? Poi, quando cerchi di separare il grano dal loglio, nel setaccio dei cattivi rimangono solo Storari e Davigo (che comunque hanno avuto verbali incompleti, come viene più volte sottolineato), essendo il consigliere Ardita «oggetto di dossieraggio». Quindi non solo collocato tra i buoni, ma addirittura vittima. Eccolo qui, Piero Amara. Una spia? Un mestatore furbino? No, giura lui, solo uno che collabora per “scelta morale”. E, dopo giovedì sera, potremmo finirla qui. Ma temiamo di no. Perché non è il solo attore in scena. E non conosciamo ancora le mosse degli altri personaggi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Amara ora parla in tv: "Ecco cosa faceva la loggia Ungheria". Federico Garau il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. L'avvocato intervistato a Piazzapulita: "Tra di noi ci riconoscevamo con tre tocchi dell'indice sul polso". Si torna ancora a parlare del caso Amara e della misteriosa loggia Ungheria. Ad affrontare stavolta la questione è Corrado Formigli, che nel corso di Piazzapulita ha intervistato in escusiva l'avvocato Piero Amara, arrestato nel 2018 per i depistaggi dell’inchiesta Eni ed alcuni episodi di corruzione.

La loggia Ungheria. Che cosè la loggia Ungheria? Esiste davvero? Raggiunto dall'inviata di Quarta Repubblica, Amara aveva dichiarato di avere tutta l'intenzione di dare delle spiegazioni in merito a questo fantomatico gruppo di potere. Più esplicito l'ex manager dell'Eni Vincenzo Armanna, che aveva fornito una descrizione precisa ed inquietante. "Non esiste nessuna loggia massonica chiamata Ungheria. Esiste un sistema che poteva essere travestito da loggia massonica? La risposta è sì. Ci sono appartenenti fissi a questo sistema? La risposta è sì. Sono sempre gli stessi? La risposta è sì", aveva dichiarato. Un gruppo di potere costituito da importanti personalità, come magistrati, imprenditori, avvocati, vertici della polizia e politici, che avrebbe addirittuta tentato di condizionare le nomine all'interno delle Procure.

Le rivelazioni di Amara. Per la prima volta in trasmissione Tv, Amara viene incalzato dalle domande del presentatore Formigli e degli ospiti in studio. "Comincio a parlare della Loggia Ungheria perché la Procura di Milano rinvenne un file in un mio computer, del 2015. Era un file indirizzato a una persona indicata come 'LL', era Luca Lotti. In questo documento si “raccomandava” la posizione di una serie o di magistrati o di altri funzionari dello Stato che avevano esigenza di varia natura", esordisce l'avvocato." Quando ho deciso di collaborare con la giustizia ho pensato che o era una scelta radicale o non aveva senso". Arrestato nel febbraio 2018, ad Amara furono contestate due ipotesi di corruzione. "Sono stato ristretto nel carcere di Regina Coeli circa 5 mesi, poi ho avuto un periodo di domiciliari", racconta l'avvocato. "Quello è stato per me un momento di grande riflessione personale e morale, che mi ha convinto e che ha rafforzato dentro di me la forte, reale, determinata e decisa convinzione di collaborare con l'autorità giudiziaria", spiega. "Cercavo di limitare le mie deposizioni ai fatti rispetto ai quali ero e sono assolutamente certo, che descrivono, a mio avviso, molto peggio che non un'associazione segreta. Almeno per un certo periodo è stato facile per me acquisire o delle registrazioni o degli audio. Io ho registrato alcune di queste persone che fanno parte dell'associazione Ungheria". Che rapporto ha Amara con la loggia Ungheria? Ne è forse il capo? Amara nega categoricamente. Il primo a parlargli del gruppo segreto, a suo dire, fu il dottor Giovanni Tinebra, magistrato italiano ex capo della Procura di Caltanissetta, deceduto nel 2017. "Nell'ambito di una certa parte della magistratura ho avuto l'invito da parte del dottor Tinebra", dichiara infatti. "Tinebra mi onorò della sua amicizia, mi rappresentò e mi onorò di partecipare ad un gruppo più ristretto che condivideva degli ideali che all'epoca venivano rappresentati come ideali nobili". Ed è qui che entra in gioco la loggia Ungheria. "Tra di noi ci riconoscevamo con tre tocchi dell'indice sul polso. Tra di noi, soltanto la prima volta o se c'erano dei dubbi, ci riconoscevamo così", racconta Amara. Perché il nome Ungheria? È riferito alla piazza romana? "Neppure io conosco il perché, è collegato probabilmente ad un fattore culturale". Ci sono dunque delle registrazioni effettuate dall'avvocato che riguardano i soggetti appartenenti alla loggia Ungheria. Paolo Storari, il pm di Milano, che consegna i verbali a Piercamillo Davigo? "Storari decise di consegnare i verbali a Davigo nei primi mesi del 2020", spiega Amara, "quando gli interrogatori nei miei confronti erano ancora in corso. Lo avesse fatto un avvocato, sarebbe in carcere".

Il rapporto con Lotti. Quanto a Luca Lotti, che ha negato ogni rapporto con Amara, l'avvocato spiega: "Non solo confermo quello che ho detto, il dottor Lotti l'ho incontrato più volte, esisteva una forma di comunicazione con il dottor Lotti alla presidenza del Consiglio, però bisogna distinguere fra Lotti e Renzi. Col dottor Lotti il sistema di comunicazione era molto spesso mediato da Andrea Bacci, imprenditore fiorentino. Ad un certo punto fu costruito anche un rapporto economico, quando vi erano dei problemi di finanziamento alla Leopolda, per cui si aiutò una società, Racing Horse, che sta in Svizzera e che ricevette dei bonifici da un'altra società che sta a Malta: una era di interesse mio, l'altra del dottor Bacci. È possibile che noi l'abbiamo fatto per beneficienza, come può essere possibile che gli accordi fossero di natura diversa". Comunque per quanto riguarda Lotti, "L'ho incontrato più volte alla presidenza del Consiglio, nel mio studio, con altri magistrati in bar e ristoranti". Da parte sua, Lotti ha inviato un comunicato a Piazzapulita: "Ho incontrato Amara in una circostanza assolutamente occasionale, peraltro già nota e in presenza di decine di persone, e soprattutto non ho mai ricevuto file da Amara. Di fronte a tali invenzioni diffamatorie mi riservo di valutare un'azione di querela verso l'avvocato Amara".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cron..

Piazzapulita, Paolo Mieli a Piero Amara: "Da quello che capisco lei è il capo della Loggia Ungheria”. Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Per la prima volta parla in televisione Piero Amara. L'avvocato che davanti ai magistrati di Milano ha parlato dell’esistenza della presunta Loggia ‘Ungheria’ e i cui verbali sono stati poi consegnati, in copia word, dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, è stato intervistato in studio da Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7. In studio c'è anche Paolo Mieli che ad un certo punto osserva: “Da quello che capisco lei è il capo della Loggia Ungheria”. La risposta dell’avvocato Amara è secco: “No affatto, io non solo non ero il capo, ma neppure ero tra le persone più importanti”. "Il primo a parlarmi della loggia Ungheria fu il dottor Giovanni Tinebra (che è morto,, ndr)", dice ancora l'avvocato, aggiungendo: "Nell’ambito di una certa parte della magistratura vi era un circolo più ristretto che condivideva degli ideali nobili rispetto al quale inizialmente ho avuto l’onore di partecipare grazie all’invito del dottor Tinebra. Fu lui il primo a pronunciarmi la parola Ungheria ma non so perché si chiama così, non ho chiesto più di tanto". Mieli insiste e Amara ribatte: "Non ho una chiara definizione sulla ragione di questo nome". "Nell’ambito di un contesto più generale - continua l'avvocato -, che vi sono poi anche altri momenti che magari se Sebastiano Ardita li avesse letti probabilmente questa levata di scudi non l’avrebbe avuta, ma ora sono costretto a rispondere, perché magari avrò sbagliato la data, ma prima non è affatto vero che i rapporti di Ardita con Tinebra si interrompono e poi rimangono interrotti nel tempo. E questi sono elementi su cui io ho prove granitiche, perché Ardita e Tinebra litigano per un fatto specifico di cui non voglio parlare, ma poi ci fu una cena di riappacificazione alla quale parteciparono diversi magistrati". "Ardita sa che non è vero quello che ha detto", attacca ancora Amara.

Federico Garau per ilgiornale.it il 28 maggio 2021. Si torna ancora a parlare del caso Amara e della misteriosa loggia Ungheria. Ad affrontare stavolta la questione è Corrado Formigli, che nel corso di Piazzapulita ha intervistato in esclusiva l'avvocato Piero Amara, arrestato nel 2018 per i depistaggi dell’inchiesta Eni ed alcuni episodi di corruzione.

La loggia Ungheria. Che cos’è la loggia Ungheria? Esiste davvero? Raggiunto dall'inviata di Quarta Repubblica, Amara aveva dichiarato di avere tutta l'intenzione di dare delle spiegazioni in merito a questo fantomatico gruppo di potere. Più esplicito l'ex manager dell'Eni Vincenzo Armanna, che aveva fornito una descrizione precisa ed inquietante. "Non esiste nessuna loggia massonica chiamata Ungheria. Esiste un sistema che poteva essere travestito da loggia massonica? La risposta è sì. Ci sono appartenenti fissi a questo sistema? La risposta è sì. Sono sempre gli stessi? La risposta è sì", aveva dichiarato. Un gruppo di potere costituito da importanti personalità, come magistrati, imprenditori, avvocati, vertici della polizia e politici, che avrebbe addirittura tentato di condizionare le nomine all'interno delle Procure.

Le rivelazioni di Amara. Per la prima volta in trasmissione Tv, Amara viene incalzato dalle domande del presentatore Formigli e degli ospiti in studio. "Comincio a parlare della Loggia Ungheria perché la Procura di Milano rinvenne un file in un mio computer, del 2015. Era un file indirizzato a una persona indicata come 'LL', era Luca Lotti. In questo documento si 'raccomandava' la posizione di una serie o di magistrati o di altri funzionari dello Stato che avevano esigenza di varia natura", esordisce l'avvocato." Quando ho deciso di collaborare con la giustizia ho pensato che o era una scelta radicale o non aveva senso". Arrestato nel febbraio 2018, ad Amara furono contestate due ipotesi di corruzione. "Sono stato ristretto nel carcere di Regina Coeli circa 5 mesi, poi ho avuto un periodo di domiciliari", racconta l'avvocato. "Quello è stato per me un momento di grande riflessione personale e morale, che mi ha convinto e che ha rafforzato dentro di me la forte, reale, determinata e decisa convinzione di collaborare con l'autorità giudiziaria", spiega. "Cercavo di limitare le mie deposizioni ai fatti rispetto ai quali ero e sono assolutamente certo, che descrivono, a mio avviso, molto peggio che non un'associazione segreta. Almeno per un certo periodo è stato facile per me acquisire o delle registrazioni o degli audio. Io ho registrato alcune di queste persone che fanno parte dell'associazione Ungheria". Che rapporto ha Amara con la loggia Ungheria? Ne è forse il capo? Amara nega categoricamente. Il primo a parlargli del gruppo segreto, a suo dire, fu il dottor Giovanni Tinebra, magistrato italiano ex capo della Procura di Caltanissetta, deceduto nel 2017 . "Nell'ambito di una certa parte della magistratura ho avuto l'invito da parte del dottor Tinebra", dichiara infatti. "Tinebra mi onorò della sua amicizia, mi rappresentò e mi onorò di partecipare ad un gruppo più ristretto che condivideva degli ideali che all'epoca venivano rappresentati come ideali nobili". Ed è qui che entra in gioco la loggia Ungheria. "Tra di noi ci riconoscevamo con tre tocchi dell'indice sul polso. Tra di noi, soltanto la prima volta o se c'erano dei dubbi, ci riconoscevamo così", racconta Amara. Perché il nome Ungheria? È riferito alla piazza romana? "Neppure io conosco il perché, è collegato probabilmente ad un fattore culturale".

I verbali e la tempesta sul Csm. Davigo nella bufera. Ci sono dunque delle registrazioni effettuate dall'avvocato che riguardano i soggetti appartenenti alla loggia Ungheria. Paolo Storari, il pm di Milano, che consegna i verbali a Piercamillo Davigo? "Storari decise di consegnare i verbali a Davigo nei primi mesi del 2020", spiega Amara, "quando gli interrogatori nei miei confronti erano ancora in corso. Lo avesse fatto un avvocato, sarebbe in carcere".

Il rapporto con Lotti. Quanto a Luca Lotti, che ha negato ogni rapporto con Amara, l'avvocato spiega: "Non solo confermo quello che ho detto, il dottor Lotti l'ho incontrato più volte, esisteva una forma di comunicazione con il dottor Lotti alla presidenza del Consiglio, però bisogna distinguere fra Lotti e Renzi. Col dottor Lotti il sistema di comunicazione era molto spesso mediato da Andrea Bacci, imprenditore fiorentino. Ad un certo punto fu costruito anche un rapporto economico, quando vi erano dei problemi di finanziamento alla Leopolda, per cui si aiutò una società, Racing Horse, che sta in Svizzera e che ricevette dei bonifici da un'altra società che sta a Malta: una era di interesse mio, l'altra del dottor Bacci. È possibile che noi l'abbiamo fatto per beneficienza, come può essere possibile che gli accordi fossero di natura diversa". Comunque per quanto riguarda Lotti, "L'ho incontrato più volte alla presidenza del Consiglio, nel mio studio, con altri magistrati in bar e ristoranti". Da parte sua, Lotti ha inviato un comunicato a Piazzapulita: "Ho incontrato Amara in una circostanza assolutamente occasionale, peraltro già nota e in presenza di decine di persone, e soprattutto non ho mai ricevuto file da Amara. Di fronte a tali invenzioni diffamatorie mi riservo di valutare un'azione di querela verso l'avvocato Amara".

Estratto dell’articolo da ilfattoquotidiano.it il 28 maggio 2021. […] Piero Amara, 52 anni, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha scatenato una nuova bufera nel mondo della magistratura con le sue dichiarazioni ai pubblici ministeri di Milano sulla fantomatica loggia massonica “Ungheria” […] parla per la prima volta in tv intervistato da Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7. “Ho riferito una serie di circostanze per le quali non ero nemmeno indagato“, spiega. “Avrei potuto limitarmi a confessare le ipotesi di reato che mi erano contestate, ma sono andato avanti. A chi dice che ho collaborato per avere uno sconto di pena, ricordo che avevo già patteggiato a Roma e Messina”.  “[…] Mi sono totalmente affidato al dottor Storari (Paolo Storari, il pubblico ministero ora indagato per aver diffuso i suoi verbali, ndr)”, spiega. “Storari in questa vicenda pecca solo di una ingenuità cosmica rispetto a quello che è successo, per non qualificarlo altrimenti. Conoscendo Storari, che è una persona certamente perbene, io penso che ne avrà parlato con il dottor Davigo… questo avviene nell’aprile nel 2020, quindi siamo in piena segretezza istruttoria. Era stato stabilito un percorso che prevedeva ancora diversi interrogatori. Se lo avesse fatto un avvocato, sarebbe in carcere probabilmente. Sono io – prosegue – che mi sono posto il problema dell’esigenza di riscontri. Per fortuna mia ho cercato, dopo aver reso queste dichiarazioni, di ricostruire attraverso colloqui e registrazioni dei fatti a mia tutela”. La cosiddetta loggia Ungheria, nella sua versione, “è molto peggio che non un’associazione segreta. Cioè, rispetto a certi fatti, per me c’è proprio un’associazione a delinquere finalizzata all’abuso d’ufficio. […]  

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per repubblica.it il 28 maggio 2021. Ci sono delle registrazioni che proverebbero alcuni dei fatti raccontati da Piero Amara […] E’ questa la circostanza principale raccontata ieri dallo stesso avvocato in un’intervista a Piazzapulita, su La 7. […] In un certo senso Amara ha anche ridimensionato alcune delle sue dichiarazioni: sulla loggia, per esempio, “la questione è che esisteva un’associazione a delinquere” ha detto, riferendosi però soltanto a un pezzo di persone da lui citate nei lunghi verbali con la procura di Milano ora all’attenzione del procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone. Ma anche sul ruolo di magistrati del Consiglio superiore della magistratura, primo tra tutti Sebastiano Ardita, citato nei verbali come vicino alla loggia, in quella che tutti (colleghi, investigatori) hanno definito essere una calunnia. E che invece ieri Amara si è affrettato a definire un galantuomo. "Tutto quello che ho raccontato posso provarlo" ha poi, però, detto. Svelando di essere in possesso di alcune registrazioni (verosimilmente messe già a disposizione dell'autorità giudiziaria) che lui stesso avrebbe fatto in conversazioni con alcuni membri della presunta loggia Ungheria. […] Amara ha poi raccontato una circostanza in più: ha sostenuto che, ad aprile, quando Storari consegna i verbali a Davigo, le sue deposizioni non fossero affatto terminate e che quindi non si poteva accusare la procura di inerzia. Storari ha però sempre spiegato che, in quel momento, lui aveva già bollato come inattendibile Amara tanto da volerlo arrestare per calunnia. […]

L'ex ministro Lotti minaccia querela dopo l'intervista a Piazza Pulita. Amara dice e non dice sulla Loggia Ungheria: “Ho registrato membri che sui giornali negano tutto”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Piero Amara a ruota libera o quasi. Dice e non dice l’avvocato siciliano che con le sue dichiarazioni ha fatto esplodere il caso della loggia Ungheria. È stato ospite della trasmissione su La7 Piazza Pulita per un’intervista esclusiva. Due ore di intervista. I verbali dei suoi interrogatori sono emersi dopo che l’aggiunto di Milano Paolo Storari ha preso quei documenti – a suo dire per “l’inerzia” della Procura sul caso – e li ha consegnati all’ex membro del Csm Piercamillo Davigo, che non ha denunciato la vicenda. “Lei è un genio, ha seminato esche”, ha osservato Paolo Mieli del Corriere della Sera in trasmissione. Amara si è detto sicuro dell’attività e dell’esistenza della Loggia almeno fino al suo arresto, nel 2018. E’ pronto a collaborare ancora. L’avvocato siciliano ha lavorato con l’Eni. Ha patteggiato una condanna a Catania, 11 mesi di carcere per rivelazione di segreto nel 2009. È stato arrestato nel febbraio 2018 perché ritenuto a capo di un’associazione a delinquere che metteva insieme magistrati, professionisti e grandi imprese. È stato condannato a 3 anni e 8 mesi per il “Sistema Siracusa” e per le sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Dai suoi interrogatori a Milano, a partire da fine 2019, emergono nomi di magistrati, industriali, professionisti, imprenditori, politici che farebbero parte di una fantomatica loggia Ungheria, sulla falsariga della P2. Amara ha raccontato di aver affrontato un momento di riflessione personale e morale dopo l’arresto nel 2018, la detenzione a Regina Coeli per cinque mesi, e quindi gli arresti domiciliari. Allora la decisione di collaborare con l’autorità giudiziaria. “Per fortuna mia ho cercato, dopo aver reso queste dichiarazioni, di ricostruire attraverso colloqui e registrazioni dei fatti a mia tutela. Ho registrato colloqui con persone che fanno parte dell’associazione Ungheria e che oggi negano di avermi mai conosciuto sui giornali. Non posso dire se le ho date alla Procura, ma non sono stati Storari e Pedio a dirmi di fare l’infiltrato, sarebbe stata una procedura irregolare”.

LA LOGGIA – Amara ha confermato di aver sentito parlare per la prima volta della loggia dal dottor Giovanni Tinebra – che è morto, e quindi non può confermare né smentire. Ha confermato anche il segno di riconoscimento: tre tocchi dell’indice sul polso. Nessun rito di iniziazione. Alcuni incontri alla sede della Opco in Sicilia, vaghezza su Roma. Sconosciuto il senso del nome, “forse collegato a un fattore culturale”, ha detto. Si è descritto come un pesce piccolo. “Comincio a parlare della loggia Ungheria perché in verità non so come la procura di Milano riuscì a rinvenire un file all’interno di un computer nella mia disponibilità, ed era un file, due file in realtà, in cui sostanzialmente si raccomandavano una serie di magistrati e alti funzionari dello Stato. Vado a Milano per parlare di Eni, non dell’associazione Ungheria. Ma i pm Storari e Pedio rinvengono due file e quindi si poneva l’esigenza di dare una spiegazione a una cosa singolare. Volevano capire il tessuto relazionale che c’era tra me e tutti quei nomi di spicco. Se “Ungheria” è una loggia massonica? E’ peggio di un’associazione, è un’associazione a delinquere per abuso d’ufficio, non in modo occasionale, ma come sistema”. E si dice disponibile a parlare ancora del presunto gruppo: “Certamente fino al mio arresto il gruppo di potere che si riconosceva in parte di questa associazione esiste ancora e io sono pronto a parlarne francamente con qualunque altro magistrato, non solo la procura di Milano“. STORARI – “Nel momento in cui io ho cominciato a rendere quelle dichiarazioni e anche ad affidarmi al Dottor Storari, il quale a mio avviso in questa vicenda pecca solo di una ingenuità cosmica rispetto a quello che è successo, per non qualificarlo altrimenti, sono io che mi sono posto il problema che domani c’è un’esigenza di riscontri”, ha detto Amara. E sulla consegna dei verbali dal pm di Milano a Davigo: “Se lo avesse fatto un avvocato sarebbe in carcere probabilmente – ha osservato – Conoscendo Storari, che è una persona certamente perbene, io penso che ne avrà parlato con il dottore Davigo … questo avviene nell’aprile nel 2020, quindi siamo in piena segretezza istruttoria. Era stato stabilito un percorso che prevedeva ancora diversi interrogatori”.

ARDITA – “Ardita è una persona che stimo e rispetto. Nell’ambito di un contesto più generale – ha aggiunto l’avvocato – che vi sono poi anche altri momenti che magari se Ardita li avesse letti probabilmente questa levata di scudi non l’avrebbe avuta, ma ora sono costretto a rispondere, perché magari avrò sbagliato la data, ma prima non è affatto vero che i rapporti di Ardita con Tinebra si interrompono e poi rimangono interrotti nel tempo. E questi sono elementi su cui io ho prove granitiche, perché Ardita e Tinebra litigano per un fatto specifico di cui non voglio parlare, ma poi ci fu una cena di riappacificazione alla quale parteciparono diversi magistrati“. Sebastiano Ardita, membro del Csm, ex sodale di Piercamillo Davigo nella corrente Autonomia e Indipendenza, era tra i nomi citati nei documenti. A denunciare quella descritta come una calunnia in sede di Consiglio il magistrato Nino Di Matteo. “Ardita sa che non è vero quello che ha detto – ha comunque osservato Amara – la levata di scudi è stata inutile per un verso. Sono stati lui e Di Matteo a ricavare qualcosa di calunnioso nelle mie parole, non era così, può capitare anche a Ardita di perdere la lucidità. Se stava o no nel gruppo Ungheria? Non ha fatto niente di illecito. Ardita è stato oggetto di dossieraggio e se me lo avessero chiesto io sarei stato il suo promo difensore”. Il commento di Paolo Mieli: “Mi può sconfiggere facendo una pappardella lunga di un’ora. Lei nel verbale è specifico sui fatti che riguardano Ardita, non può essersi confuso. Lei è un assoluto genio, ha messo delle esche a cui degli assoluti tontoloni hanno abboccato. Ci sono tanti tontoloni tra i magistrati e i giornalisti, lei dissemina  esche ed è più intelligente di noi e noi stiamo abboccando, ci porterà a un crollo ulteriore. E’ un genio”.

CONTE – “Da un esponente dell’associazione venne data un’indicazione rispetto ad un concordato, ma il focus non era sul presidente Conte”. L’ex premier Conte, aggiunge Amara, “viene citato non perché era lui l’oggetto di quella deposizione, in realtà Conte viene citato in relazione ai rapporti tra me e Michele Vietti”, ha raccontato ancora l’avvocato siciliano.

LOTTI – “La procura di Milano rinviene nel mio computer un file del 2015 ed era indirizzato ad una persona indicata come LL, che era Luca Lotti – ha aggiunto in un altro passaggio Amara. “In questo documento si, tra virgolette, raccomandava la posizione di una serie o di magistrati o di altri funzionari dello Stato che avevano esigenze di varia natura“. Immediata la replica dell’ex ministro Lotti in una nota a Piazza Pulita: “Le dichiarazioni sul mio conto rilasciate stasera dall’avvocato Piero Amara a Piazzapulita su La7 sono false e prive di fondamento. Non conosco le circostanze descritte. Ho incontrato Amara in una circostanza assolutamente occasionale, peraltro già nota e in presenza di decine di persone, e soprattutto non ho mai ricevuto file da Amara. Di fronte a tali invenzioni diffamatorie mi riservo di valutare un’azione di querela verso l’avvocato Amara”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 20 maggio 2021. La parola chiave è «modestia etica»: un po' il marchio dell'infamia in toga e della mediocrità al potere. «Una modestia etica, riversata nel correntismo più deteriore, che ha direttamente a che fare con la giurisdizione come potere. E che per contrasto risulta ancora più insopportabile se raffrontata con l'alta moralità dei magistrati che nei decenni passati hanno difeso lo Stato di diritto e la democrazia». Grande è lo spiazzamento dei cronisti, quando, con una certa solennità, il vicepresidente del Csm David Ermini pronuncia queste parole riferite ai magistrati d'oggi, proprio davanti agli studenti del corso della scuola superiore della magistratura su "Etica del magistrato". Lontanissimi i tempi in cui Piero Calamandrei si produceva nell'Elogio dei giudici scritto da un avvocato, l'avvocato Ermini - solitamente mite, non riservato ma mite- si appropria della materia della riforma della magistratura con inconsueta spietatezza. Dice agli allievi: «Sono più che convinto che il discredito che sta colpendo la magistratura non sia per nulla imputabile a scarsa professionalità. Investe piuttosto la dimensione dell'essere del magistrato». E si riferisce, appunto, alla «modestia etica» censurata un anno fa dal presidente Mattarella mentre commemorava al Quirinale l'anniversario dell'uccisione di Giacumbi, Minervini, Galli, Amato, Costa e Livatino, tutti giudici di spessore siderale. E aggiunge, Ermini: «È urgente che la magistratura nel suo insieme sappia cogliere questa triste congiuntura per rigenerarsi nel profondo». Eppoi parla di palcoscenico mediatico della decadenza delle toghe; di un rinnovamento culturale che stronchi carrierismi e metodi opachi delle correnti; dell'urgenza della riforma del Csm che recuperi legittimazione e che «rimuova il rischio di prassi distorsive nei meccanismi di nomina e valutazione ancorandole in modo definitivo al merito e alle capacità; e dall'altro lato promuova una partecipazione e una rappresentanza non condizionate da legami personali o logiche di schieramento». Bene. Benissimo. Grande è lo spiazzamento dei cronisti - si diceva - non perché Ermini dica cose sbagliate, tutt' altro. Ma perché le dice in ritardo, quando i bubboni del caso Palamara e, successivamente del caso Amara sono già scoppiati. Qualcuno nella libera stampa, inoltre, richiama maliziosamente le parole di Palamara a Libero: «Parlando di intrecci tra magistrati e politici, i protagonisti riuniti all'Hotel Champagne erano gli stessi che hanno partecipato all'elezione di Ermini». Oppure, «posso dimostrare che Gigliotti e Ermini stesso (entrambi Csm, ndr) mi contattarono per avere il sostegno per la nomina del vicepresidente del Csm». Ma, transeat. Senz' altro è encomiabile che il vicepresidente del Csm oggi spari a palle incatenate contro il "sistema" e spinga per far prevalere il primato della politica sulla resistenza delle toghe alla loro riforma. Una resistenza sempre carsica e tenace. Soltanto ieri l'altro, per dire, i magistrati del sud hanno redatto un appello per boicottare la commissione di studio sulla Giustizia nel Mezzogiorno istituita dalle ministre Cartabia e Carfagna. Ermini, Pd, ex renziano, sa che metter mano alla giustizia - specie su durata dei processi e automatismi di carriera - si gioca la partita del Recovery. Sicché il vicepresidente insiste sull'attesa che «il Parlamento porti a conclusione la riforma Csm». Frase che spinge sulla riforma della Giustizia, proprio mentre i 5 Stelle vogliono discutere con la Guardasigilli su «prescrizione, appelli delle sentenze, priorità dell'azione penale», punti per loro incompatibili della stessa riforma. Tutto questo mentre a Brescia veniva interrogato il pm di Milano Paolo Storari (che documentava le sue richieste al capo Greco) per rivelazione di segreto in riferimento alla loggia Ungheria. Il suo difensore, Paolo Della Sala ha chiesto di smettere «di gettare fango» e ha tirato in ballo la responsabilità di Davigo: «Rivolgersi alla persona che, assumendosene anche una responsabilità pubblica, ha detto che si sarebbe assunta la responsabilità di questo fatto. C'è un tema di giudizio etico che va inquadrato e compreso». Modestia etica, appunto.

Gli interventi del direttore del Riformista. Sansonetti: “Caselli ha invitato i colleghi all’omertà, solo il referendum può fermare strapotere della magistratura”. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti è intervenuto a Quarta Repubblica ospitato da Nicola Porro e ha parlato della cosiddetta loggia Ungheria: “Il problema è che si smette di gettare fango solo quando il fango può schizzare un magistrato. Ci sono giornali che hanno pubblicato senza verificare delle dichiarazioni di Graviano contro Berlusconi. Per tanti colleghi se parla Graviano è credibile, se parla Amara no. I giornali sono abituati a pubblicare solo se c’è fango“. Sansonetti poi si sofferma su Nicola Morra: “Avete sentito cosa ha detto? Che la politica giudiziaria del Movimento era guidata da Ardita e Davigo. Morra si è detto disperato per il litigio tra i due. Caselli poi ha invitato all’omertà i colleghi. Non c’è un avviso di garanzia tranne che nei confronti di Storari. Ma vi pare normale che Prestipino chiama per un colloquio? Perché non c’è un avviso di garanzia?”. Porro chiede poi a Sansonetti quale è la risposta che si dà e il direttore del Riformista sottolinea: “C’è uno strapotere e una forza di sopraffazione della magistratura sulla società italiana che non verrà mai rovesciata dalla politica. L’unica strada possibile è il referendum, rompere il giocattolo al di fuori del Parlamento che è formato per 2/3 da ricattati e 1/3 comandati dai magistrati stessi”.

Felice Manti per “il Giornale” l'11 maggio 2021. I Cinque stelle avevano in mano due consiglieri del Csm, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, autori del libro Giustizialisti (prefazione di Marco Travaglio, ndr) oggi ai ferri cortissimi. La rivelazione choc andata in onda l'altra sera conferma le rivelazioni di una fonte interna al Movimento cinque stelle al Giornale di qualche giorno fa: «Dietro lo scontro tra i due c'è la guerra tra governisti M5s e l'ala più barricadera». Ad ammettere tutto è stato il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. Che incautamente, davanti alle telecamere della trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena, prima ha confermato di aver avuto dallo stesso Davigo «sulla tromba delle scale del Palazzo de' Marescialli a Roma» (sede del Csm, ndr) notizie del dossier dell'avvocato siracusano Piero Amara su una fantomatica loggia Ungheria, della quale farebbe parte proprio Ardita, su cui il pm Paolo Storari avrebbe voluto indagare a dispetto - sostiene il pm - del suo capo Francesco Greco. «Mi è stato mostrato un faldone di carte e senza grafia manuale». Ma a che titolo? L'ha spiegato ieri lo stesso Morra: «A seguito della notizia della rottura all'interno del gruppo di Autonomia e Indipendenza (la corrente grillina che ha portato all'elezione di Ardita e Davigo nella vecchia consiliatura Csm, ndr) per mia iniziativa ho cercato di ragionare sia col dottor Davigo sia col dottore Ardita, al fine di ricomporre un quadro che politicamente parlando a me sembrava particolarmente convincente». Insomma, due pm litigano e Morra prova a fare da paciere «per motivi politici». Poi viene la parte divertente. Perché da sempre i grillini sono talmente convinti dell'indipendenza della magistratura da aver creato una corrente. «Autonomia e Indipendenza doveva eradicare il sistema correntizio che un tempo era ben rappresentato dal dottor Palamara - dice sorridendo Morra -, non è un segreto che ogni tanto per confrontarsi su questioni importanti ritenessi il dottor Davigo una figura di riferimento da cui ascoltare e apprendere». Apprendere che cosa? Informazioni su inchieste delicate? E cosa c'era in ballo? «La nomina a procuratore capo di Roma», su cui Ardita e Davigo non erano d'accordo. Quindi Davigo ipotizza che Ardita sia legato a una loggia massonica e Morra resta spiazzato, anzi «trasecolato». Poi spiega: «Si stava ragionando della possibilità di riavviare un dialogo fra Davigo e Ardita». E perché un politico dovrebbe mettersi in mezzo tra due consiglieri Csm che avevano legittimamente idee diverse su una nomina di loro competenza ed eventualmente influenzare uno dei due? Perché un politico evidentemente riteneva di poterlo fare. Tanto che Davigo gli dice di stare attento con Ardita, di essere «prudente», di non invitarlo se si presenta un libro. «Ma quale senso delle istituzioni hanno Davigo, Morra e company che trattano segretamente, e a che titolo chiedo, vicende che dovrebbero essere sottoposte a tempestive indagini?», si è chiesto il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri.

Loggia Ungheria e i retroscena. L’ammissione di Nicola Morra: “La politica giudiziaria del Movimento fatta da Davigo e Ardita”. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Sui giornali, in questi giorni, si leggono cose (dette da magistrati e affini) che noi umani mai avremmo potuto immaginare. A me per esempio è capitato qualche volta di scrivere che i Cinque Stelle sono la longa manus del partito dei Pm. Ok. Però la davo come mia ipotesi, anzi, come ipotesi polemica. Non avrei mai pensato che uno dei capi più illustri dei Cinque Stelle – sto parlando nientemeno che del presidente della commissione Antimafia – desse conferma ufficiale di questa ipotesi. E invece l’altro giorno il senatore Nicola Morra ha dichiarato che Davigo e Ardita (un Pm e un ex Pm, un consigliere e un ex consigliere del Csm) sono sempre stati “il punto di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Capite bene il significato di questa frase? Da una parte Morra ci informa che la politica sulla giustizia dei 5 Stelle (i quali sono un partito il cui core business è esattamente la politica della giustizia) non è decisa all’interno del partito ma è affidata ad alcuni magistrati esponenti di punta del partito dei Pm; dall’altra ci informa anche del fatto che l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati membri del Csm è pura invenzione. Ma Morra, non ancora contento di aver demolito in poche frasi la gran parte delle affermazioni, evidentemente del tutto ipocrite, del suo partito, è andato oltre. Ha spiegato, orgoglioso, di avere ricevuto anche lui le informazioni sulle accuse dell’avvocato Amara e sulla presunta Loggia Ungheria, proprio da Davigo e di averle ricevute nella tromba delle scale di palazzo dei Marescialli (sede del Csm). Perché nella tromba delle scale? Perché Davigo temeva di essere spiato. Ma tutta quella storia che dicono sempre a me: “Male non fare, paura non avere?”. Beh, evidentemente non riguarda Davigo. E poi, a questo proposito c’è da dire un’altra cosa. Ma Morra lo sa cos’è la tromba delle scale? Io credevo che fosse lo spazio vuoto attorno al quale salgono le scale. In genere chi salta sulla tromba delle scale si schianta al suolo e spesso muore. Possibile che il senatore Morra, che oltretutto è anche professore di liceo, non conosca bene neppure la lingua italiana? Vabbé, in fondo questa è la cosa meno grave. Cosa fa Morra, una volta messo al corrente da Davigo di questo dossier? Lui che è senatore e presidente della commissione Antimafia? Chiede consiglio a Di Matteo il quale gli dice: corri in Procura a denunciare. C’era bisogno di andare da Di Matteo? Forse ‘sto Morra anche prima di fare la spesa chiede a un magistrato cosa deve comprare. Non si fida molto di se stesso. Vuoi dargli torto? Dopo avere con stupore letto le dichiarazioni di Morra, prendo in mano La Stampa e leggo l’articolo di Gian Carlo Caselli. Il quale, da sempre, è un’icona dello schieramento dei Pm. Il suo articolo è pubblicato vicino a un articolo di cronaca nel quale si spiega che Ardita e Davigo, in Tv, si sono reciprocamente minacciati di dire tutto quello che sanno l’uno dell’altro. Non è bello, d’accordo, che due magistrati o ex magistrati si sfidino a duello. Però, una volta che si sono sfidati e che hanno reso pubblico il duello, anche noi vorremmo sapere quello che ciascuno dei due sa sull’altro. E invece Caselli scrive un articolo per dire che “la guerra tra i due rischia di causare danni irreversibili alla magistratura”. E propone una pace, un chiarimento, una sorta di tavolo di accomodamento. Diciamo pure che il suo è un invito all’omertà. Nel mio furore polemico non ero mai arrivato a immaginare qualcosa di simile. P.S. Poi c’è Travaglio (non magistrato ma affine) che scrive editoriali di fuoco contro chi vuole delegittimare la magistratura. Probabilmente senza rendersi conto che lui sta proprio nel cuore di questa bufera. Inutile che cerchi di giudicarla da fuori. È dentro. Il Fatto era stato informato di queste accuse di Amara, un suo giornalista aveva i verbali, il suo principale editorialista (Piercamillo Davigo) è al centro del centro dello scandalo. Vuole mettere la sordina allo scandalo? Faccia. Ma abbassi un po’ la cresta e il tono della polemica, perché finisce per suscitare ilarità…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Che altro aspetta il Parlamento? Palamaragate e loggia Ungheria, è tempo di aprire la Mani Pulite delle toghe. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Maggio 2021. L’intervista di ieri a Enrico Morando ha fra gli altri meriti quello di storicizzare la sciagura che si è abbattuta sulla giustizia italiana. Riassumo arbitrariamente: c’era una volta la guerra fredda quando la libertà era sotto tutela delle forze oscurantiste. Poi venne l’ 89 con la clamorosa caduta del muro di Berlino, e allora- come aveva gridato ai quattro venti Francesco Cossiga – tutto cambiò e sarebbe stato indispensabile correre ai ripari prima che fosse troppo tardi. Cossiga fu dichiarato pazzo, non accadde nulla, ma i magistrati cominciarono a fare il loro lavoro anticorruzione. È vero come dice Morando che Mani Pulite non fu la causa ma l’effetto, e tuttavia voglio ricordare che fu l’effetto di una decisione americana: per lunghi anni l’operazione Clean Hands era stata concepita e costruita da un pool di procuratori americani e italiani, con il progetto nobile di colpire e castigare una classe politica che aveva predato grazie alla propria insostituibilità, e abbatterla creando lo spazio che sarebbe stato occupato dalla classe dirigente di una parte del Partito comunista, cui era stato negato l’accesso al potere a causa della guerra fredda. A quel punto, dice Morando, la sinistra (che lui chiama genericamente il Parlamento) trovò molto comodo non fare nulla e lasciare che magistrati crociati si scatenassero contro la vecchia classe dirigente per aspettare il momento buono in cui sostituirla politicamente appunto. Ma i magistrati crociati e giustizieri non ci misero molto a capire che si era data una circostanza storica magnifica che permetteva loro di riconoscere a se stessi il ruolo di supplenti della politica mancante. Il re Montezuma si dice che abbia detto con tono sprezzante a Cortes: noi discendiamo dagli aztechi, voi da una barca. In Italia la legittimazione politica discende dall’unico potere riconosciuto che è quello del sovrano elettore. I magistrati non discendono da quella legittimazione ma da una barca che è stata la grande occasione per organizzare la supplenza della politica e anzi per castigarla e ridurla in stato di cattività attraverso la continua minaccia degli avvisi di garanzia che, opportunamente recapitati o resi accessibili, potevano determinare la pubblicazione sulla stampa che accompagnava questa gigantesca operazione e provocare svolte politiche radicali, tanto da cambiare il corso degli eventi. Così accadde con la pubblicazione dell’avviso di garanzia a Berlusconi che era al suo primo governo mentre presiedeva un summit mondiale a Napoli sulla criminalità, che fu costretto alle dimissioni per la rivolta dell’alleato leghista Bossi, il quale trovò indecente proseguire con lui il cammino iniziato a causa di quell’avviso di garanzia. Quell’avviso di garanzia non diventò mai un reato e tantomeno una condanna, perché fu riconosciuto infondato: il fatto non sussiste. Ma il governo della maggioranza cadde per essere sostituito da un governo di tecnici guidato da Lamberto Dini. In quel momento tutte le forze democratiche brindarono anziché sentire puzza di bruciato, perché il governo dell’odiato tiranno era a stato abbattuto. Fu uno dei tanti momenti in cui, dovendo scegliere fra vantaggio e democrazia, fu scelto il vantaggio, ma con l’accorgimento pilatesco di lasciare che fosse la magistratura a compiere il lavoro della politica. L’unico tiranno realmente abbattuto in quel momento fu la democrazia intesa come relazione univoca fra l’espressione del voto e l’espressione del governo. In Italia di queste relazioni univoche ne abbiamo avute molto poche, specialmente dopo la fine della guerra fredda. Abbiamo avuto e tuttora abbiamo dei sistemi legittimati e sostituitivi che rimpiazzano le espressioni della volontà popolare quale che essa sia. E appunto tutto ciò è avvenuto sotto gli occhi di tutti. Il massacro è stato compiuto in maniera visibile e visibile era il responsabile: basta vedere gli esiti finali della grande operazione Mani pulite che ha portato a una serie di morti ammazzati per suicidio. Suicidi misteriosi come quello di Raul Gardini, che prima si fa una doccia e una sauna e poi dopo aver preso un aperitivo distrattamente si spara una revolverata. Suicidi tecnicamente impossibili come quello di Cagliari che si uccide ficcando la testa in un sacchetto di plastica (provateci voi se ci riuscite) e una serie di condanne che però ebbero l’effetto di decapitare la famosa Prima repubblica, preparare la successione al trono attraverso un’azione politica di una magistratura consapevole di agire in senso politico per uno scopo politico priva di qualsiasi legittimazione democratica perché discendente da un concorso e non da una chiamata alle urne. Quel che accade oggi è la conseguenza di quel che è accaduto prima, con la differenza che ciò che è accaduto prima è stato giustificato e coperto in quanto strumento con cui raggiungere attraverso mezzi non politici, l’obiettivo politico. Karl von Clausewitz diceva che la guerra non è che la prosecuzione della politica ma con altri mezzi. E infatti noi abbiamo avuto la prosecuzione della politica con i mezzi offerti da una quota di magistrati autodichiarati supplenti della democrazia in aperta ribellione e disobbedienza, fra gli applausi e qualche rimbrotto, ma in genere applausi. Il che peraltro è anche discutibile. Ma le cose sono a questo punto: quel che sta accadendo è lo scoppio di una batteria di petardi che ormai mostrano le crepe di una fortezza priva di consistenza, in cui la supplenza della politica è diventata appropriazione indebita, mercimonio delle cariche, scambio di influenze e di favori, intimidazione attraverso querele cui è praticamente impossibile opporsi specialmente per i giornalisti coraggiosi dal momento che, per dirla con Palamara, cane non mangia cane. E, dunque si finge meraviglia se ora ci troviamo di fronte al caso curioso in cui un sostituto procuratore che, temendo l’insabbiamento di un dossier esplosivo, si rivolge a un magistrato di cui si fida ma compiendo atti irrituali. Così si leva il fitto mormorio sull’irritualità che sarebbe il dito nell’occhio che non vedrà mai la luna. La luna non è quella. La vera luna è la rinuncia del Parlamento a legiferare sulla magistratura. Che non è un potere. Purtroppo, questa sciocchezza dei tre poteri che ancora si recita compuntamente sillabando il nome di Charles-Louis de Secondat, Baron de la Brède et de Montesquieu, come se fossimo ancora dispersi con i cesti del picnic fra Versailles e la Pallacorda. E seguita ad essere ripetuta ritualmente mentre ci sembra che tutto il potere in democrazia sia quello legittimato dal popolo, mentre la magistratura esercita la funzione di applicare codici e regolamenti. Dovrebbe solo assicurare l’esercizio della funzione della giustizia che il popolo desidera garantirsi indipendente giusta e veloce. Per questo esiste anche il Csm. Che però non funziona più perché è diventato un mercato di influenze, carriere, favori, livori, vendette, promozioni, intrusioni, ribellioni e occupazione abusiva del suolo e del ruolo della politica, cioè del Parlamento che nel frattempo è stato sottoposto alla soluzione finale del grillismo. I forni del Vaffa. Ormai il cadavere con i pesi che lo tenevano sott’acqua affiora in uno spettacolo da film dell’orrore, che richiede il nastro giallo della “Scena del crimine” e l’autopsia. Che, poi, sarebbe una Commissione d’inchiesta capace di stabilire che cosa, come e per responsabilità di chi tutto ciò è accaduto. Ma il vero passo deve essere quello con cui il Parlamento – cioè la politica, unico sovrano – avoca a sé il privilegio di decidere e lo fa legiferando. Tutto ciò accadrà se e soltanto se sarà possibile non banalizzare i delitti nella casa dai vetri sporchi. E richiederebbe quella cosa oggi estinta che si chiama giornalismo. La prova la conosciamo già: viviamo in un’epoca vacua in cui un geniale signor Fedez può rubare la scena come il pifferaio magico attirando su di sé riflettori e l’apertura delle prime pagine, essendo le successive, dedicate all’insignificanza.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'Amara-Gate diventa farsa: Csm parte civile. Ma contro chi si costituisce? Contro se stesso? E intanto scoppia un altro scontro tra le procure di Roma e di Brescia su chi debba interrogare Paolo Storari, accusato di rivelazioni di segreto d’ufficio. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 7 maggio 2021. Quello che sto per raccontarvi non è una fake news. E’ tutto vero e confermato, anche se è naturale pensare che ci troviamo davanti a una storia che sembra essere tratta da una puntata di “Scherzi a parte”. Ma di scherzoso non c’è proprio nulla, visto quello che sta accadendo in Italia con le rivelazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Paolo Amara, dichiarazioni (vere o false non si sa ancora, per colpa di chi non ha indagato come doveva) verbalizzate dai pm di Milano e che stanno provocando un vero e proprio terremoto giudiziario, tant’è che ci sono quattro procure, quattro, che stanno indagando sul caso: la Procura di Milano, quella di Roma, quella di Perugia e quella di Brescia.

SORPRESE A RAFFICA. Le notizie di ieri sono davvero incredibili. La prima: si è scoperto che a indagare sulla fuga di notizie relative alle dichiarazioni di Paolo Amara, che ha rivelato tra le altre cose (tutte da verificare e mai verificate prima) l’esistenza di una loggia massonica chiamata “Ungheria” di cui farebbero parte (secondo Amara, magistrati, politici, imprenditori che decidevano nomine e promozioni nel mondo della giustizia delle istituzioni), è stato il pubblico ministero di Milano, Paolo Storari, proprio quello che aveva verbalizzato le dichiarazioni di Amara e che adesso è indagato per rivelazioni di segreto d’ ufficio perché avrebbe consegnato quei verbali al suo collega, allora componente del Csm, Piercamillo Davigo che l’altro ieri è stato interrogato dai pm di Roma come persona informata dei fatti, e non come indagato, per aver ricevuto quei verbali proprio da Storari. Verbali che poi, secondo l’inchiesta della Procura di Roma, sarebbero stati inviati a due giornali nazionali dall’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto indagata dalla procura di Roma e sospesa dalle sue funzioni al Csm dove lavorava, proprio nell’ufficio di Davigo. Vi sembra possibile? Uno penserebbe di no, invece è tutto vero. La seconda notizia, anch’essa davvero sorprendente, è quella che il Consiglio superiore della magistratura, si costituirà parte civile negli eventuali processi che si celebreranno. Ma parte civile contro chi? Contro se stessi? Contro gli stessi magistrati, alcuni componenti del Csm che a vario titolo sono coinvolti nella vicenda Amara? Come il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi? Contro Davide Ermini, vice presidente del Csm, altri componenti del Csm che da Davigo furono informati dell’esistenza di quei verbali devastanti rese alla Procura di Milano? Non ci potete credere, ma vi ripeto: è tutto vero, purtroppo. E vi immaginate la faccia del pubblico ministero Paolo Storari, che aveva raccolto le dichiarazioni di Paolo Amara, quando si è visto arrivare nel suo ufficio la denuncia del collega del Fatto Quotidiano, Antonio Massari, che aveva informato la Procura che lui aveva ricevuto quei verbali, in forma anonima, che erano gli stessi che il pm Storari e la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, avevano nei loro computer?

LE RICOSTRUZIONI. Direte “non ci posso credere”, ma vi giuro sulla vita dei miei cinque figli che è tutto incredibilmente vero. E il pm Astori ha indagato per alcune settimane sulla fuga di notizie secretate da lui stesso inconsapevolmente provocata consegnandole a Piercamillo Davigo e da lui alla sua segretaria, Marcella Contrafatto, che le avrebbe inviate a due giornali. Se ne è spogliato soltanto quando la Procura di Roma ha perquisito l’ufficio al Csm della Contrafatto dove hanno trovato i verbali originali che il pm Storari aveva raccolto da Amara. Sembra incredibile, ma ripeto: è tutto vero. È un altro degli intricati passaggi della vicenda che sta scuotendo non solo il Palazzo di giustizia di Milano ma anche il Consiglio superiore della magistratura. Da quanto si è potuto ricostruire, Storari, su richiesta del suo capo, il procuratore Greco, e dell’aggiunto Laura Pedio, si occupò delle indagini sulla fuga di notizie quando un cronista portò quei verbali ricevuti in forma anonima lo scorso ottobre, e dispose pure una consulenza per stabilire la provenienza di quelle carte. Quando poi venne a sapere che Roma indagava sull’ex segretaria di Davigo, che risponde di calunnia ed è accusata di aver divulgato quegli interrogatori secretati, l’8 aprile scorso Storari riferì a Greco che un anno prima aveva consegnato le carte a Davigo e decise di chiamarsi fuori da quell’indagine. Decisione presa per evitare gravi conseguenze, dato che i verbali che circolavano erano gli stessi da lui affidati all’ex toga di Mani Pulite.

L’inchiesta sulla fuga di notizie fu poi trasmessa nelle scorse settimane a Roma e in quel fascicolo ora Storari è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio, mentre anche i pm bresciani hanno da poco aperto un’indagine ipotizzando lo stesso reato, ma anche per accertamenti più ampi sull’operato dei pm milanesi. Davigo, sentito come teste ieri dai pm romani, nella sua ricostruzione ha detto di aver riferito anche al pg della Cassazione Giovanni Salvi dei contrasti interni alla Procura milanese su un’inchiesta che coinvolgeva Amara. Salvi, dal canto suo, ha negato di aver saputo dei verbali, ma ha detto di aver «immediatamente» informato Greco, il quale iscrisse i primi nomi della presunta loggia a maggio, dopo l’insabbiamento lamentato da Storari. Storari che era in contrasto con gli aggiunti Fabio De Pasquale e Pedio anche sulla gestione dell’inchiesta sul “falso complotto Eni”, nella quale è indagato Amara, assieme all’ex manager Eni Vincenzo Armanna, entrambi molto “valorizzati” da De Pasquale nel processo sul caso Eni-Nigeria, poi finito con assoluzioni. Il pm Storari, tra l’altro, voleva verificare anche eventuali profili di calunnia nelle affermazioni a verbale dell’ex legale esterno dell’Eni.

IL NUOVO SCONTRO DI COMPETENZE. E intanto scoppia un altro scontro tra le procure di Roma e quella di Brescia: chi deve interrogare Paolo Storari, accusato di rivelazioni di segreto d’ufficio? Roma lo ha convocato per sabato prossimo, ma nel frattempo la procura di Brescia ha aperto la stessa inchiesta per “competenza” perché quei verbali sarebbero stati consegnati da Astori a Davigo non a Roma, ma a Milano. E, quindi, la competenza sarebbe di Brescia. Immagino cosa penserebbe il giovane giudice Rosario Livatino, ucciso in un agguato mafioso il 21 settembre 1990 ad Agrigento e dichiarato beato e che ieri è stato commemorato alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella anche dal vice presidente del Csm David Ermini (informato da Davigo dei verbali al veleno di Paolo Amara). Ermini aggiunge: «C’è una frase del giovane Rosario (Livatino, ndr) che mi è rimasta impressa: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”». Sante parole.

C'era una volta la stampa indipendente...Fedez si prende la scena, giornali e Tv si scatenano dimenticando la loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Domenica pomeriggio si sono finalmente aperte le gabbie dove era rinchiusa la rabbia della sinistra – insieme a quella dei qualunquisti dei 5 stelle – ed è tornata la bella polemica politica di una volta. Mi ricordo che in passato ci furono battaglie epiche sulla riforma della Costituzione, sui salari degli operai, sui diritti a una riduzione dell’orario di lavoro, sul divorzio e l’aborto, sulla guerra, sul modo nel quale combattere la lotta armata e l’attacco mafioso. Su questi temi destra e sinistra spesso si divisero in modo anche molto aspro. Ieri, dopo lungo silenzio, la sinistra finalmente è tornata a dar battaglia. Su Fedez, stavolta. Sì: su Fedez. Fedez è un cantante, ma anche un influencer (per la verità non so benissimo cosa voglia dire questa parola, ma su Wikipedia si trovano diverse spiegazioni) e da qualche settimana, credo, un combattente per i diritti civili. Uomo puro, giovane, non avvezzo alle mediazioni. Le mediazioni, voi lo sapete bene, sono quelle cose orribili che in genere travolgono e immiseriscono la politica. Il compromesso storico, l’articolo 7 della Costituzione, il governo Draghi… Fedez ha deciso di battersi per i diritti degli omosessuali, e io penso che sia una causa nobilissima. Da secoli gli omosessuali sono discriminati e offesi. Fedez lotta con passione, anche sfruttando, giustamente, la posizione di forza che gli viene dall’essere un personaggio famoso nel mondo dello spettacolo e dei social media: mena fendenti e non si risparmia. Il primo maggio, per dare più forza al suo impegno a favore della legge Zan (la legge che disciplina i reati di offesa agli omosessuali, modifica la legge Mancino contro i reati di opinione fascista o razzista, e la amplia, e rifonda l’idea di identità di genere), ha scatenato una protesta furiosa contro la Rai. La protesta, si è scoperto poi, era infondata, perché Fedez sosteneva che la Rai aveva tentato di censurarlo, e per dimostrare questa accusa ha messo in rete un video della sua telefonata con una dirigente Rai che però era tagliato, mentre dal video integrale si capisce che la malcapitata dirigente Rai tutto aveva fatto meno che censurare). Però la polemica è rimasta in piedi. Un po’ perché comunque sul tema della difesa dei diritti degli omosessuali il mondo politico e l’opinione pubblica si dividono. C’è una maggioranza che difende questi diritti ma c’è anche una minoranza omofobica, in modo palese o occulto. E quindi la rivolta di Fedez contro la presunta omofobia della Rai ha sobillato gli animi politici e ha permesso, dopo tanti anni, anche alla sinistra di gettarsi nell’arena e picchiare duro. Letta è sceso in campo e si è fatto spalleggiare anche da Conte. Conte si è scagliato contro la lottizzazione della Rai (che oggi è in mano a leghisti e grillini) che lui stesso aveva realizzato in modo sistematico negli anni scorsi. (Probabilmente Conte non sempre viene informato delle cose che fa, e alle volte, giustamente, queste cose, quando viene a saperle, lo indignano…). La polemica, come succede in questi casi, è stata largamente guidata dai giornali, nei loro siti e nell’edizione cartacea. Soprattutto dai grandi giornali. In particolare dal Corriere della Sera, da Repubblica e dalla Stampa. Questi tre incrociatori dell’informazione italiana, tutti e tre, ieri, dedicavano titoli di scatola, in apertura di prima pagina, a Fedez. “Ciclone Fedez sulla Rai”, titolava Repubblica con una grafica modificata rispetto al solito per dare più rilievo all’avvenimento clamoroso. Anche il Corriere ha modificato la sua grafica e ha titolato: “Il caso Fedez agita i partiti. Rai sotto accusa”. La Stampa a seguire: “Fedez: questa Rai è vergognosa”. Tutti gli altri argomenti sono passati in secondo piano. Tutti? Sì, soprattutto uno: Magistratopoli. Vi abbiamo parlato di questo scandalo sull’ultimo numero del Riformista. Credo che lo conosciate. In sintesi, è successo che un magistrato milanese, interrogando un avvocato che negli ultimi tempi è spesso stato considerato molto attendibile dai Pm – tanto da avere lui, con le sue accuse, scatenato il processo a Palamara – ha messo a verbale notizie molto scottanti e clamorose. Che riguardavano l’avvocato Conte e soprattutto una presunta Loggia segreta, situata a Roma a piazza Ungheria, che – pare – teneva in pugno il governo della magistratura italiana. Nomine, equilibri, designazione di procuratori, vice, aggiunti, presidenti dei tribunali e tutto il resto. Loggia segreta e illegale, ovviamente. E se le accuse di questo avvocato, che si chiama Piero Amara, fossero veritiere, ci sarebbe da tirar giù in quattro e quattr’otto tutto l’establishment e il gruppo di potere della magistratura, e da cancellare lo stesso Csm, incapace di fare il suo lavoro. Il problema è che questo magistrato che aveva raccolto le rivelazioni del pentito Amara aveva provato ad andare avanti nell’inchiesta, ma era stato bloccato dal suo superiore. E allora era corso a Roma e – illegalmente – aveva consegnato tutto a Piercamillo Davigo, membro del Csm, che – illegalmente – aveva ricevuto il malloppo e l’aveva – illegalmente – tenuto segreto per molti mesi. O forse – peggio ancora – ne aveva parlato, più o meno sommariamente – al vicepresidente del Csm, Ermini, e addirittura al presidente della Repubblica. Se fosse vero, sarebbe uno scandalo di proporzioni mai viste. Se invece non fosse vero che il presidente della Repubblica sia stato informato, resta sempre forse lo scandalo più clamoroso del dopoguerra, perché rende evidente che gran parte della struttura dirigente della magistratura italiana, nella sostanza, è illegale e priva di qualunque credibilità. E che anche le inchieste e le sentenze, di conseguenza, sono in gran parte illegali e – di fatto – corrotte. Ma lo scandalo non finisce qui. In ottobre Davigo lascia il Csm per ragioni di età e miracolosamente il malloppo insabbiato ricompare nelle redazioni di due giornali: Repubblica e il Fatto. Cioè i due giornali che, insieme al Corriere, sono sempre stati alla testa del partito delle procure. Chi li ha dati ai giornalisti? La segretaria di Davigo. Cosa fanno i giornalisti, abituati a pubblicare qualunque intercettazione o documento segreto o velina gli venga passato da una Procura? Stavolta insabbiano tutto. Pensano: non è il caso di mettere in cattiva luce i magistrati. Mica son politici! Mica son Renzi o Berlusconi! E così oggi succede che i nomi dei partecipanti a questa misteriosa Loggia, se esiste, li conoscono alcuni magistrati, pochi, alcuni giornalisti e basta. E li usano a loro piacimento. Voi, a questo punto, vi stupite se i grandi giornali non hanno nessuna voglia di occuparsi di magistratopoli, dentro la quale sono infognati anche loro fino al collo? Già, neanche voi vi stupite. Però stavolta – diciamolo – è grossa grossa: come si fa a tacere? Fedez. Ecco che, in modo del tutto involontario, Fedez corre in soccorso. E apriti cielo. Per oggi lasciamo stare lo scandalo, dicono i grandi giornali, perché Fedez picchia alla porta. Al Fatto Quotidiano, però, sta storia di Fedez non piace. Anche perché al suo direttore piace la canzone italiana, ma solo Renato Zero, credo, che spesso imita quando gioca a fare il karaoke e lo ha fatto anche sulla Rai, stonando solo un po’. Il rap di Fedez invece non lo entusiasma affatto. E allora trova un altro scoop che gli permette di sfuggire alla questione magistratopoli. Indovinate? Sì, lui: Renzi. Lo scoop glielo offre su un piatto d’argento il programma Rai Report. Travaglio lo sbatte in prima pagina, come gli capita non di rado, stavolta perché Renzi è stato beccato a chiacchierare in un autogrill con un certo dottor Mancini che è uno 007. È proibito parlare con Mancini? No, però… ma chi è Mancini? È l’uomo che Conte – l’unico premier amato da Travaglio – voleva alla guida dei servizi segreti. Poi non se ne fece niente perché cadde il governo. È molto grave incontrare il candidato alla guida dei servizi segreti? Pare di sì. Parola di un direttore che una volta, a sua insaputa, se ne andò in vacanza con un poliziotto che poi fu condannato per favoreggiamento di un imprenditore a sua volta condannato per mafia…. Ciliegina sulla torta di questa inaudita commedia è il documento della corrente della magistratura guidata da Davigo, cioè dall’uomo che è al centro dello scandalo. Il comunicato giunge a paragonare Davigo a Falcone. Dico sul serio, eh. Uno come può commentare un delirio così? Infermieraaaa!!!!

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il terremoto della magistratura. Loggia Ungheria, i media complici restano tutti zitti sperando di farla franca…Angela Azzaro su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Corrado Formigli, durante la puntata di giovedì di Piazza Pulita, incalza Luca Palamara sul Sistema ma quando si parla del ruolo dell’informazione fa finta di nulla. I giornalisti, secondo lui, devono per forza di cose pubblicare le carte che arrivano dalle procure, la fuga di notizie riguarda esclusivamente i pm. A parte che questa volta ci devono spiegare bene perché il Fatto quotidiano e Repubblica hanno deciso di non dare notizia delle carte spedite dal Csm, il problema ancora maggiore è capire come – dopo anni e anni di circo mediatico giudiziario – nessuno sia capace di fare un minimo di autocritica. Non si tratta di una questione moralistica, ma democratica. Se anche l’informazione non si mette in discussione, il terremoto che sta scuotendo la magistratura italiana non serve proprio a nulla. Zero. Eppure il Sistema dell’informazione non viene toccato. Osserva le liti tra magistrati con estremo gusto e legge il bestseller di Palamara come se parlasse di qualcosa che non lo riguarda. Ma se la questione giustizia è diventata un’emergenza di questo Paese è perché giornali e tv sono stati complici. Certo, per Formigli c’è in gioco la libertà d’espressione, un valore indiscutibile. Ma che cosa c’entra la libertà d’espressione quando le carte passate dalle procure alle redazioni violando il segreto istruttorio contengono i nomi di indagati che neanche sanno di esserlo? E cosa c’entra con la libertà d’espressione il fatto che questi nomi vengano sbattuti in prima pagina a caratteri cubitali? E cosa c’entra con il fatto che quelle persone e spesso i loro cari vengano marchiati con il fuoco della colpa, ancora prima del rinvio a giudizio o comunque della condanna definitiva? La risposta è facile, la soluzione lontana. Perché il Sistema dell’informazione continua a far finta di nulla. Ieri ha goduto della caduta di Palamara, come oggi gode della caduta del suo (ex) mito Davigo. Continua nella stessa direzione di marcia pensando di farla franca, di potere continuare come se niente fosse. Ma la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia dovrebbe far venire qualche dubbio, far capire che prendere per buone le notizie che arrivano dalle procure senza fare verifiche, senza ricordarsi il valore della presunzione di innocenza ha minato anche la credibilità dei giornali. L’intreccio tra questi due mondi è sempre più visibile. Prendiamo un altro caso che in questi giorni sta occupando le pagine dei giornali: il presunto scoop di Report contro Renzi, beccato nell’autogrill di Fiano Romano da una fantomatica signora, la cui versione traballa ogni ora di più. Un servizio montato ad arte per incutere dubbi, ma senza nessun dato che possa avvalorare alcunché, men che mai che dietro la caduta del governo Conte ci sia l’ennesimo complotto. Quale credibilità può avere un’informazione che si fa lotta politica e che pensa di screditare l’avversario usando questi metodi? Se l’obiettivo è gettare fango, ogni mezzo è lecito. Come quello usato da Report quando realizza lunghe interviste e le taglia stravolgendole completamente. È un metodo collaudato. Si fa credere all’intervistato che la sua versione possa essere usata in maniera da non distorcerne il pensiero, poi si prendono alcune frasi qua e là e si montano a piacimento. Lo scorso lunedì è stato fatto sia con Renzi che con il direttore di questo giornale. Si chiama spazzatura, non certo giornalismo. Ma anche in questo caso nessuno dice niente. O meglio qualcuno prova a dirlo. Ha fatto bene Davide Faraone di Italia Viva a ricordare al direttore di Raitre Franco Di Mare che qualora viale Mazzini querelasse Fedez per avere tagliato (e secondo loro stravolto) la telefonata in cui gli si facevano pressioni per non usare il testo a favore della legge Zan sul palco del Primo Maggio, allora dovrebbe allo stesso tempo procedere contro la trasmissione di Report che ha fatto anche di peggio con altri intervistati. Se il valore è la libertà di espressione, esiste anche quella dei cittadini, non solo dei giornalisti di fare come accidenti pare a loro. Tagliare le frasi, montarle liberamente è un metodo violento, autoritario, che niente ha a che fare con la democrazia e che fa il paio con chi in questi anni ha alimentato l’onda populista e complottista. La campana suona per la magistratura, ma anche per noi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Giustizia da commedia. Così giornali e magistratura stanno affossando l’inchiesta sulla loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Diciamo la verità: se non fosse stato per Nino Di Matteo che ha rotto il gioco, tutta questa vicenda delle logge segrete, dei pasticci dentro la magistratura, dei veleni, degli imbrogli, e parallelamente le storie strane dell’ex premier Conte, tutto queste cose qui non le avremmo mai sapute. I migliori campioni della Magistratura Intransigente, e i grandi giornalisti, e i grandi giornali di inchiesta, avevano seppellito tutto sotto la sabbia. Shhh, avevano sibilato. Shhh: omertà. Non è così? Figuratevi se a me, che di Di Matteo ho sempre parlato, scritto e pensato tutto il male possibile, non costa molto questa ammissione: però è il vero. Non cancello neanche una frazione delle critiche che da anni rivolgo a Di Matteo, e tuttavia bisogna riconoscergli che ha dimostrato di essere una persona onesta e che rispetta la legge e che non guarda in faccia a nessuno. È strano? Non dovrebbe essere strano. Nel senso che magari una persona normale dai magistrati si aspetta sempre un comportamento come quello di Di Matteo. Ma chi invece conosce un po’ di cose della magistratura, e ha visto come si comporta di solito il partito dei Pm, sa che non è così, lo sa già da prima di aver letto il libro di Palamara. Di Matteo è un’eccezione, e forse nessuno si aspettava che potessero finire nelle sue mani i verbali degli interrogatori segreti dell’avvocato Amara e che quindi tutta questa storia loschissima potesse diventare cosa pubblica. È andata così. Con rabbia, penso, da parte di molti. Innanzitutto di Davigo (ex pm, ex capo dell’Anm, ex magistrato di Cassazione, ex membro del Csm, attualmente editorialista del Fatto Quotidiano) che pare sia furioso; ma poi anche da parte del procuratore di Milano Greco e di vari altri magistrati dei quali al momento non conosciamo i nomi, e di un bel numero di giornalisti del Fatto Quotidiano e della Repubblica che hanno fatto parte del gruppetto che ha tenute segrete le accuse di Amara, dopo aver pubblicato, negli anni, chilometri di documenti segreti e illegali e sputtanato la vita pubblica e privata di centinaia di persone. Ora però restano alcune domande che sono molto inquietanti. La prima è questa. Come mai ieri Piercamillo Davigo è stato ascoltato dal procuratore di Roma come teste e non come persona iscritta nel registro degli indagati? Seconda domanda: cosa si sono detti Prestipino e Davigo? Terza domanda: perché si è avviata un’indagine ipotizzando il reato di associazione segreta e non associazione a delinquere? Provo a rispondere, seguendo la logica formale. La prima domanda può avere solo una risposta: Davigo non è ancora indagato perché Davigo non è una persona normale: è un esponente, seppure in pensione, della Grande Casta. E quindi ha diritto a grandi privilegi. Chiunque altro, nella sua condizione, sarebbe stato inquisito per almeno tre reati: favoreggiamento, per aver “favoreggiato” il Pm milanese che gli diede i verbali. Falso per occultamento, per aver occultato i verbali. Omessa denuncia, per non aver denunciato il reato del quale era a conoscenza. Mi sono tenuto stretto stretto, perché sono un garantista. Certo che se qualcosa di appena somigliante a quello che ha fatto Davigo l’avesse fatto un esponente della politica, magari senza immunità parlamentare, finiva dritto dritto in gattabuia. Alla seconda domanda si può rispondere con un po’ di fantasia. Prestipino, procuratore di Roma la cui nomina è stata dichiarata illegittima dal Tar, avrà innanzitutto ringraziato il dottor Davigo visto che il suo voto a favore in Csm (che contraddisse tutte le dichiarazioni contro Prestipino dei mesi precedenti e costituì una svolta improvvisa e mai spiegata del davighismo) fu quello che permise la nomina di Prestipino sebbene i suoi titoli fossero decisamente inferiori a quelli degli altri concorrenti all’incarico. Chissà se dopo averlo ringraziato gli avrà poi rivolto domande imbarazzanti. Tutto è possibile, naturalmente, però, siamo sinceri: se davvero l’indagine su Davigo la dovesse svolgere la Procura di Roma la credibilità dell’inchiesta sarebbe parecchio sotto lo zero. Per fortuna sembra che, per ragioni formali, l’inchiesta si sposterà a Brescia. La terza domanda è la più drammatica. Noi naturalmente non sappiamo se questa Loggia di piazza Ungheria esistesse, o esista, oppure se sia una invenzione. Tantomeno conosciamo i nomi dei partecipanti, se c’erano dei partecipanti. Però sappiamo una cosa: se questa Loggia esisteva ed era quello che l’avvocato Amara sostiene, il reato da ipotizzare non è quello di associazione segreta -come hanno stabilito i magistrati che indagano- ma è quello di associazione a delinquere finalizzata a corruzione di atti giudiziari, corruzione, traffico di influenze, turbativa d’asta. Perché invece si è scelto il reato di associazione segreta? Provo a indovinare. Il reato di associazione segreta prevede una pena massima di tre anni. E quindi esclude la possibilità di indagare con le intercettazioni. E anche, ora, con l’esame dei tabulati telefonici. Siccome chiunque conosca un po’ i fatti della magistratura sa che da molti anni le indagini si fondano esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche e sui pentiti, e siccome la parola dei pentiti può essere usata a completa discrezionalità del Pm, che la giudica credibile o non credibile senza dover renderne conto a nessuno, e siccome non sarà difficile giudicare non credibili le accuse di Amara, in questo modo l’indagine sulla Loggia è già affossata. Cioè, non ci sarà. Finirà sotto la sabbia, come volevano Greco e Davigo. Se invece si indagasse per associazione a delinquere si potrebbero usare i tabulati, si potrebbe intercettare e tutto sarebbe più pericoloso. Ipotesi subito scartata. Pagherà solo il povero Storari, che certo di sciocchezze ne ha fatte parecchie, però, è chiaro, era mosso dalla volontà di scoprire la verità. Oggi, ai vertici della magistratura, chi vuole scoprire la verità non è visto di buon occhio. Va stroncato. Così come è stato stroncato il Pm Fava, che aveva commesso la somma sciocchezza di entrare in conflitto con Ielo e Pignatone.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Gli scandali all’interno della magistratura. Errori giudiziari e logge sono intollerabili, ma ancor di più lo è il silenzio delle toghe. Eduardo Savarese su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Nel libro dell’Antico Testamento intitolato Siracide, il capitolo 4 contiene alcuni versetti illuminanti per una riflessione su giustizia e magistratura: «Non arrossire di confessare i tuoi peccati, non opporti alla corrente di un fiume (26). Non sottometterti a un uomo stolto, e non essere parziale a favore di un potente (27). Lotta sino alla morte per la verità e il Signore Dio combatterà per te (28)». La magistratura si trova effettivamente dentro la corrente di un fiume, che è il fiume della Storia, la quale impietosamente, com’è suo costume, va portando alla luce il profondo inquinamento politico che attanaglia i gangli costituzionali dell’ordine giudiziario. Inquinamento che si è avvalso delle correnti dell’associazionismo giudiziario, ma che pare andare ben oltre le manifestazioni patologiche di esso. La magistratura può riacquistare credibilità solo a partire dalla confessione franca e coraggiosa dei suoi “peccati”. Non deve arrossire nel cessare di tacere. Ma se continua a tacere, non può non arrossire. L’espressione istituzionale e associativa della magistratura oggi tende invece a trincerarsi dietro diverse sfumature di ciò che resta in sostanza un silenzio per me insopportabile. Ho già scritto su queste pagine che il libro, opinabile quanto si voglia, a firma di Luca Palamara e Alessandro Sallusti costituisce uno spartiacque rispetto alla comunicazione pubblica dell’immagine dell’organismo giudiziario in Italia, e che su quel libro doveva aprirsi un confronto totalmente aperto con la società civile. Il confronto, invece, non si è aperto neppure dentro la magistratura, e oggi andiamo apprendendo scenari angoscianti sulle modalità di raccolta delle intercettazioni poste a base dell’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. E non si tratta evidentemente di far dettare l’agenda della vita della magistratura da un espulso: questa è una obiezione tanto debole quanto arrogante. Ora che si è aperta la nuova slavina della loggia Ungheria, assistiamo a nuove forme di sostanziale silenzio (al netto dell’avvio delle doverose attività di indagine penale). A mio avviso appartiene a questo atteggiamento di incapacità di raccontarsi, e dire alla società civile la verità, anche il rifiuto sdegnosamente dogmatico della sola idea (quindi a prescindere dalla sue possibili, e molteplici, concretizzazioni) di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Noi abbiamo bisogno di ricostruire la storia recente della magistratura italiana secondo canoni di rigore che, se non devono soggiacere alle strumentalizzazioni politiche, neppure possono chinare il capo alle formule note dell’associazionismo, inidonee a un discorso di verità. Ma il libro del Siracide prosegue, facendo divieto di sottomettersi a un uomo stolto e di essere parziale col potente. La magistratura deve sollevare la testa – una testa che, oggi come non mai, dovrebbe coincidere col corpo sano di essa, nella riappropriazione della parola capace di contestare, comunicare e anche pretendere – e smetterla di affidare la propria rappresentanza a formule vetuste che hanno compiuto, nel bene e purtroppo più di recente nel male, la loro missione. Deve chiedere la modifica strutturale dell’ordinamento giudiziario in modo che non si favorisca nessun potente di turno, fuori e dentro l’ordine giudiziario. E deve anche vigilare a che, in questo processo di confessione senza rossori e di progetto di un nuovo ordinamento giudiziario, non si assoggetti alla “stoltezza” di nuovi poteri esterni. La magistratura, insomma, deve affrontare la presenza inquinante del Potere al suo interno e trovare i modi, forse non di debellarlo, ché sarebbe illusorio, ma di arginarlo. Il tema del sorteggio dei componenti del Csm attiene evidentemente a questo profilo. Ma sono la gerarchizzazione e la riduzione burocratica del ruolo del magistrato che vanno del pari combattute e contro le quali va ridisegnato l’ordinamento giudiziario. L’ultimo versetto del Siracide invita a lottare fino alla morte per la verità. E tantissimi magistrati, nella storia di questo Paese, hanno inverato questo precetto e hanno inteso la loro vita nella magistratura come servizio. Questo attiene alle virtù morali degli individui e della società, e forse oggi queste virtù sono ridotte o smarrite. Ma dare la vita non significa solo morire per la verità. Significa improntare le azioni e i pensieri a un modus vivendi il più possibile trasparente e funzionale a esercitare in modo imparziale la funzione giudiziaria. Nel dibattito mosso dall’indignazione per le logge e le spartizioni di potere, non vedo all’orizzonte un discorso di verità sullo stato della giustizia. È vero che, come Il Riformista evidenzia, molti sono gli errori giudiziari, molte le ingiuste detenzioni, sempre troppo lunghe le durate dei processi civili e penali, e che a fronte di ciò le valutazioni di professionalità dei magistrati, quasi tutte sempre positive, sembrano un’offesa all’intelligenza. Tuttavia, il nodo drammatico dell’eccesso di domanda di giustizia, e la totale assenza di analisi sulle ragioni di questa domanda, continuerà a consentirci di eludere i problemi strutturali, a illuderci che la produttività sia tutto, a rassicurarci che un ritocco meritocratico aiuti il sistema. Si tratta di falsificazioni perfettamente compiute. Soltanto una magistratura che sappia confessare i propri peccati senza arrossire, che non si assoggetti allo stolto e non insegua il potente, potrà dettare l’agenda delle vere riforme necessarie. Quelle che il 99% dei magistrati attende, con frustrazione e disillusione crescenti che tanto la politica, quanto le proprie rappresentanze potranno realizzare quelle riforme. Di certo, due passi concreti e immediati potrebbero essere intrapresi: delineare un meccanismo di voto per il Csm in tempi rapidissimi quanto più vicino possibile al meccanismo del sorteggio e sciogliere quanto prima l’attuale Csm. Eduardo Savarese

Quarta repubblica, Piero Sansonetti e le toghe: "Loggia Ungheria, roba da colpo di Stato". su Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. "Se è vero, è roba da colpo di stato". Piero Sansonetti, direttore del Riformista e aggueritissimo nemico di giustizialismo e malagiustizia, non usa mezzi termini in studio da Nicola Porro. A Quarta Repubblica, su Rete 4, si parla del clamoroso terremoto alla Procura di Milano, con verbali secretati che il pm Storari nel maggio 2020 ha consegnato all'allora membro del Csm Piercamillo Davigo perché non si fidava dei suoi capi, tra cui il procuratore capo Francesco Greco, che a suo dire non avevano intenzione di indagare sulle testimonianze, molto pesanti, dell'avvocato Amara. Dichiarazioni, fornite alla stessa Procura di Milano qualche mese prima, in cui si riferiva tra le altre cose di una loggia segreta "Ungheria", potentissima e formata da toghe e ufficiali della Guardia di Finanza. Quei verbali secretati Davigo non li avrebbe consegnati ai vertici del Csm, ma avrebbe avvertito il vicepresidente David Ermini solo per sommi capi. "Una doppia anomalia", secondo il magistrato Carlo Nordio: "Sono diffidente sul contenuto di questo verbale, ma c'è un tale intreccio di interessi che vi è la necessità di fare chiarezza". Nordio si definisce "incredulo": "Un sostituto procuratore non può inviare un atto secretato ad un membro del Csm, se poi questo membro del Csm lo riceve, non può tenerselo". "Non sappiamo se questa loggia sia vera, se è vera è da colpo di Stato! - le parole di Sansonetti - Il sistema Palamara diventa davanti a questo un sottosistema". Il sistema Palamara su cui il direttore del Giornale Alessandro Sallusti ha realizzato un libro a 4 mani proprio con l'ex presidente dell'Anm, radiato dalla magistratura per una bruttissima storia di nomine pilotate in cambio di favori economici. Quanto rivelato da Palamara negli scorsi mesi sta assumendo ora nuove, inquietanti sfumature. "Queste anomalie procedurali fossero state fatte in un sistema politico, già sarebbero scattati gli avvisi di garanzia, se non le manette. Sono due metri diversi all'esterno e all'interno", accusa Sallusti. "Sta succedendo che è stato scoperchiato il bidone del sistema e comincia ad uscire del fango. Palamara con il suo racconto ha scardinato il sistema. Ed è la prima volta che i giornali hanno in mano dei verbali e non li pubblicano". Il riferimento è alla seconda parte dello scandalo milanese. Il fatto che un corvo al Csm, secondo gli inquirenti una segretaria di Davigo, abbia poi passato quei verbali a varie redazioni dei giornali. Sicuramente quella del Fatto quotidiano, che li ha rispediti alla Procura di Milano, così come ha fatto Repubblica. "Questo verbale è stato inviato ad una giornalista di Repubblica che si è correttamente rivolta alla Procura, perché il verbale è stato trafugato", è la difesa (d'ufficio) di Stefano Cappellini, anche lui ospite di Porro. 

Mattarella tace su corvi e dossier: non interferisco con le inchieste. Massimiliano Scafi il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Il presidente, presente al documentario sul giudice Livatino, non deroga dalla linea del silenzio. La sua versione resta la stessa: "Non spetta al Quirinale sciogliere il Csm". E no, il presidente non parla, «non è da programma», non intende «sconfinare», non vuole interferire sulle quattro indagini in corso e forse, di fronte al caso Amara-Davigo-loggia Ungheria prova pure un po' di ribrezzo. Parla invece David Ermini, vicepresidente del Csm. Un intervento concordato con il Colle, tutto centrato sul «prestigio e l'indipendenza del giudice», che offre una lettura istituzionale della vicenda. E mentre scorrono le immagini del documentario su Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 dalla «stidda» mafiosa di Agrigento, Ermini ricorda «quella fulgida figura di magistrato», assai diversa da alcune di oggi, e dà in qualche modo la linea al Consiglio superiore. «La credibilità esterna della magistratura, nel suo insieme e in ciascuno dei suoi componenti, è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri». Sergio Mattarella dunque non parla, dice tutto Ermini. Quindi «nessuna inerzia» del Quirinale ma semplice rispetto dei ruoli. E del resto il suo pensiero sulla millesima bufera che sommerge l'ordine giudiziario lo ha già espresso mercoledì, per i cinquant'anni di uno dei primi omicidii eccellenti, l'agguato al procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione e al suo agente di scorta Antonino Lorusso: «Il ricordo dell'impegno civile dimostrato da questi servitori dello Stato», sostiene il presidente, serve per riaffermare «come bisogna impegnarsi per difendere le istituzioni». Il messaggio è preciso, il sottotesto è chiaro: non se ne può più di corvi, dossier, rivelazioni, depistaggi, minacce, verbali finti e veri, allusioni. L'elenco è lungo: la guerra per bande, i Pm che accusano i capi di insabbiare le indagini, i traffici orditi dal cote politico allegato, lo spargimento generale di veleno rischiano di bloccare la funzione giudiziaria. Che fine hanno fatto la trasparenza e il senso del dovere? No, non è un bello spettacolo ma in questa fase, spiegano dal Quirinale, non spetta al capo dello Stato fermare la giostra, come stanno chiedendo alcuni giornali militanti. Sicuramente la proiezione di un filmato su Livatino, il giudice ragazzino che diventerà beato, non può essere l'occasione. Certo, Sergio Mattarella è il vertice della magistratura e, come indica la Costituzione, e anche il presidente del Csm, però il suo ruolo non è operativo. Non è pensabile che, da un giorno all'altro, mandi a casa il Consiglio superiore: lo scioglimento non è un atto discrezionale ma eccezionale, fortemente politico e dalla complessa procedura, possibile soltanto di fronte a una manifesta impossibilità dell'organo di autogoverno di assicurare la sua funzionalità. E nemmeno è ipotizzabile che il capo dello Stato, questo capo dello Stato, si infili in inchieste aperte, si tratterebbe di uno sconfinamento clamoroso delle sue prerogative. Della vicenda, dicono al Quirinale, si occupano da tempo ben quattro procure: non una, quattro. «Ci mancherebbe solo un nostro intervento». Qualunque iniziativa sarebbe presa come un'indebita interferenza. Da qui la consegna del silenzio e il sommesso invito alle toghe al «rispetto assoluto» delle regole. Quanto a Davigo, nessuna reazione, solo una presa d'atto: mentre qualcuno chiede a Mattarella di difenderlo, altri vogliono che lo riprenda pubblicamente. Insomma, prima si domanda alla politica di restare fuori dal Csm, poi si reclama un intervento politico...L'unica cosa certa è che il presidente non ha gradito affatto il tentativo di coinvolgerlo in questa storiaccia sostenendo che fosse al corrente della presunta loggia segreta, né gli è piaciuta la manovra per mettersi al riparo sotto l'ampio ombrello del Colle. E infine, la sgradevole sensazione che, come nella legge di Murphy, le cose che possono peggiorare peggioreranno, che gli scontri saranno più aspri e le manovre più losche, soprattutto ora che sia avvicina l'ora delle riforme previste dal Recovery Plan, che vuole ammodernare la giustizia italiana. Sarà una battaglia dura contro una corporazione potentissima. Ma, come ha detto Mattarella a marzo, «sono necessari importanti interventi riformatori». Non possiamo perdere il treno dell'Europa.

CSM ED I VERBALI DI AMARA: I SEGRETI DELLA NUOVA STAGIONE DI VELENI. Il Corriere del Giorno l'1 Maggio 2021. Questo nuovo scandalo calato sul Palazzo dei Marescialli, ha contorni ben poco definiti e si abbatte sulla credibilità del Consiglio Superiore della Magistratura, che adesso viene chiamato a ricostruire gli eventuali profili disciplinari di questa storia sperando capire e portare alla luce cosa sia realmente accaduto. “Ho ricevuto un plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell’ interrogatorio di un indagato reso nel dicembre 2019 dinanzi all’autorità giudiziaria. Nella lettera anonima quel verbale veniva indicato come segreto e l’indagato menzionava in forma diffamatoria se non calunniosa , circostanze relative a un consigliere di questo organo”. con queste parole del consigliere del Csm Nino Di Matteo, emerge una vicenda che aleggiava dietro le quinte della magistratura italiana da tempo, ma che era rimasta occultata fino all’ultimo plenum di due giorni fa del Csm . Una storia di atti destinati a restare segreti ma successivamente diffusi, prima a consiglieri del Csm e poi ad alcuni giornalisti abituati ad utilizzare documenti anonimi. L’ennesima storia di veleni tra toghe che sferra un nuovo colpo alla magistratura italiana che faticosamente provava a rigenerarsi dopo lo “scandalo Palamara”. Nino Di Matteo ha riferito di aver consegnato quegli atti alla procura di Perugia, competente sui magistrati che lavorano a Roma. Una vicenda intricata, con due inchieste sulle quali due procure stanno cercano di fare luce. Una vicenda da ricostruire per fare chiarezza su una serie di interrogativi che restano aperti al momento. I documenti che arrivano segretamente nella primavera del 2020 al Csm, contengono un interrogatorio a Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che compare in innumerevoli inchieste della Magistratura di mezza Italia – a partire dal “sistema Siracusa” ed i processi che riguardano l’ Eni, che da qualche tempo ha iniziato a parlare ( o sparlare ?) con varie procure raccontando fatti e circostanze che non trovano quasi mai riscontri oggettivi. Gli ultimi documenti arrivano da Milano al Csm ma non riportano alcuna firma. Il contenuto delle dichiarazioni rilasciate da Amara alla fine del 2019, fa venire i brividi tirando in ballo molti uomini delle istituzioni, tra i quali l’allora presidente del consiglio “grillino”  Giuseppe Conte. Si parla di una presunta loggia massonica deviata, denominata “Ungheria”, della quale questi soggetti farebbero parte. Sono le dichiarazioni di una persona come Amara, con delle sentenze di patteggiamento alle spalle per corruzione, che parla con la procura di Milano. L’anomalia, o meglio lo scandalo è che questi documenti restano per mesi chiusi nei cassetti senza che il suo contenuto sia verificato ed accertato, per capire se contiene qualche verità riscontrabile o si tratta ancora una volta delle farneticazioni e calunnie di Amara. A consegnarglieli irritualmente nelle mani di Piercamillo Davigo, fino a pochi mesi fa consigliere del Csm da cui non voleva decadere nonostante fosse andato in pensione, è um pm della Procura di Milano Paolo Storari, il quale seguiva, ma adesso non più, l’inchiesta sul presunto complotto ai danni dell’Eni. Legittimo chiedersi perché il pm Storari si rivolge e consegna “privatamente” questi documenti a Davigo.  Il magistrato milanese sostiene di averlo fatto per “autotutela”, perché avrebbe chiesto per sei mesi delle indagini per approfondire il contenuto delle dichiarazioni di Amara. Ma non avendole ottenute, a suo dire, si è rivolto all’ex pm di Mani Pulite perché si conoscevano. Un comportamento anomale considerato che quegli atti erano riservati. Anche se, si giustifica Davigo, “il segreto non è opponibile al Csm” dimenticandosi che lui era solo uno dei membri “togati” del Consiglio Superiore della Magistratura. Fra le pagine dei verbali di Amara compaiono anche dei riferimenti al consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che aveva fondato la corrente “Autonomia&Indipendenza” insieme a Piercamillo Davigo, con il quale negli ultimi tempi, i rapporti tra i due non erano più buoni ma a Palazzo dei marescialli sede del Csm, nessuno vuole spiegare il perché. Secondo alcune dichiarazioni di Amara, al momento prive di alcun riscontro, anche Ardita sarebbe un componente di questa fantomatica “loggia Ungheria“, di cui nessuno sembra conoscere l’esistenza. Secondo il noto autorevole magistrato antimafia Nino Di Matteo consigliere indipendente del Csm, queste dichiarazioni di Amara altro non sono che delle “palesi calunnie”. sostenendo che “La loro falsità è facilmente riscontrabile. L’illecita diffusione di quei verbali anche all’ interno del Consiglio superiore rappresenta un vero e proprio dossieraggio volto a screditare il consigliere Ardita e a condizionare l’attività del Csm”. Incredibilmente siamo di fronte ad un pm (Storari) che vorrebbe approfondire delle dichiarazioni di un’indagine avviando una nuova indagine. A suo dire nessuno lo ascolta in Procura di Milano, e quindi si rivolge ad un “amico”, membro togato dell’organo di autogoverno (sulla carta…) delle toghe, per renderlo informato di quanto accaduto. Se un pm si sente legittimato a consegnare del materiale riservato e scottante ad un “consigliere del Csm che conosceva”, è normale chiedersi se qualcosa nel Palazzo di Giustizia di Milano o meglio nella procura di Milano, in questo caso non funziona. Possibile che un procuratore del calibro di Greco non voleva approfondire il contenuto dei verbali di Amara e quindi non dava risposte al pm Storari ? A questo punto dovrà essere il Csm ad accertare e ricostruire i fatti, ed il pm Storari che ha consegnato il plico a Davigo si è dichiarato pronto a riferire nel merito. L’ennesima tempesta che si abbatte sulla procura ambrosiana guidata da Francesco Greco, dopo il caos del processo Eni-Nigeria nel quale gli indagati sono stati assolti. L ’Ansa scrive che tra i magistrati milanesi c’è chi sostiene che l’indagine che il pm Storari voleva portare avanti sarebbe stata bloccata per non inficiare il processo in corso sulla vicenda Eni-Shell/Nigeria. Ma nello stesso momento, altri magistrati sotto rigido anonimato sostengono nei corridoi della Procura di Milano che l ‘autotutela’ invocata dal pm prevede, invece, dei precisi passaggi formali che in questo caso sarebbero stati calpestati con la diffusione di interrogatori secretati. Ma dopo che Davigo entra in possesso di questi verbali accade qualcosa di imbarazzante . L’ex pm di Mani Pulite oggi in pensione, si limita a dichiarare che aveva “informato chi di dovere” a suo tempo aggiungendo: “Cosa deve fare un pm (riferendosi a Storari, ndr) se non gli fanno fare ciò che deve, cioè iscrivere la notizia di reato e fare indagini per sapere se è fondata?”. Contattato dai cronisti giudiziari milanesi, il capo della Procura milanese Francesco Greco si affretta a buttare acqua sul fuoco. “Ma quale spaccatura?”, replica a chi gli chiede che aria si respira in questi giorni nelle stanze della procura. Davigo difende il sostituto milanese sostenendo che non ci sia alcuna irregolarità. A smentirlo, però, è proprio il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, al quale aveva riferito solo in merito ai contrasti interni alla procura di Milano. E così dopo un incontro con Greco nell’ufficio dello stesso procuratore generale, i verbali di Amara erano stati trasmessi a Perugia, titolare delle inchieste che riguardano l’avvocato (perché coinvolgono toghe romane). Adesso a condurre le indagini sulla presunta “loggia Ungheria” è il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone. Nel frattempo però il procuratore di Brescia Francesco Prete, che ha competenza sui comportamenti dei magistrati milanesi, sta visionando gli atti per valutare l’apertura di un fascicolo conoscitivo in merito alla vicenda valutando l’iscrizione di Storari sul registro degli indagati per la rivelazione del segreto d’ufficio. Il pm milanese Paolo Storari si è detto pronto a essere sentito. Nel frattempo la vicenda trapela fuori dal Csm. Infatti quelle carte che a Palazzo dei Marescialli sarebbero dovute arrivare mediante canali ufficiali venendo consegnate prime ad una procura e non consegnate “brevi manu” a Davigo sarebbero dovute rimanere ben custodite ben protette, finiscono in maniera anonima nelle mani di alcuni giornalisti che notando l’assenza di qualsiasi firma in calce ai verbali, si insospettiscono sentono puzza di bruciato e con esperienza e saggezza decidono di non pubblicare il contenuto degli atti. Il comportamento di Davigo che da ottobre non siede più al Csm  per via del pensionamento, dopo aver tentato di rimanere al suo posto e proponendo ricorso ai Tribunali contro l’esclusione è una delle “ombre oscure” di questa triste ed inquietante vicenda. Come mai Davigo non disse a Storari di depositare un regolare esposto al Csm, come invece aveva fatto un anno prima il pm di Roma Stefano Fava, entrato in contrasto con il procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo proprio su questioni inerenti le indagini su Amara? Davigo si difende negando violazioni di segreti rivendicando la correttezza delle proprie azioni si giustifica utilizzando un altro argomento: “Dovevo mandare quel materiale alla Prima commissione del Csm, dove credo sedesse un membro che era citato nelle carte?” Il riferimento è a Sebastiano Ardita, l’altro consigliere di Autonomia e Indipendenza, con cui si erano lacerati i rapporti. Ma Davigo guarda caso non dice una sola parola sul coinvolgimento ed operato della sua assistente indagata in relazione alle telefonate anonime e successive “spedizionì” dei documenti arrivato ai giornalisti dei quotidiani La Repubblica e de Il Fatto, Liana Milella ed Antonio Massari.. Strano, vero? I documenti arrivati via posta ai giornalisti . Ad aver mandato i plichi ad alcuni giornalisti è stata Marcella Contrafatto, funzionaria del Csm e assistente di Davigo, fino a quando, prima del pensionamento, è rimasto consigliere, la quale è attualmente indagata. Attualmente lavora nell’ufficio del consigliere “laico” del Csm Fulvio Gigliotti in quota M5. Il Consiglio Superiore della Magistratura l’ha sospesa dopo aver appreso dalla stampa dell’inchiesta. La funzionaria, che anche lei sarebbe prossima alla pensione era già assente dal lavoro da qualche tempo , e consigliata da suo marito Fabio Gallo, magistrato del lavoro del Tribunale di Roma ora in pensione, la quale si è avvalsa della facoltà di non rispondere davanti ai pm. Ha fatto tutto di sua iniziativa? Difficile crederlo. Una traccia potrebbe arrivare dall’antica frequentazione (“fino alla primavera, estate 2017“, dice lei) tra la segretaria Contrafatto e Fabrizio Centofanti, il faccendiere-lobbista amico dell’avvocato Amara, attualmente imputato di corruzione a Perugia insieme con l’ex magistrato Luca Palamara.  Ma con una nota del suo legale in merito ai rapporti con Centofanti ha chiarito: “Interrotti dal 2017“. La funzionaria del Csm è stata perquisita dalla Guardia di Finanza, dopo essere stata individuata, attraverso i controlli sui tabulati dei giornalisti, come mittente delle telefonate che annunciavano a Liana Milella (La Repubblica) ed a Antonio Massari (Il Fatto Quotidiano) l’invio dei plichi anonimi. Davanti a Paolo Ielo procuratore aggiunto della Procura di Roma, la Contrafatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Il suo avvocato Alessia Angelini ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame di Roma contro il sequestro del materiale informatico e dei documenti, anche di altre indagini, che le è stato fatto nel corso della perquisizione delle Fiamme Gialle. C’è una lettera che accompagna i verbali racconta in suo articolo su La Repubblica la collega Liana Milella. “Poco meno di una pagina. Il contenuto è simile a quello della telefonata. Mi si dice che leggendo “scoprirò un nuovo mondo che ci tengono a mantenere segreto, anche ad ALTI e ALTISSIMI LIVELLI”. Il maiuscolo non è casuale. “CANE NON MORDE CANE (come dice Palamara) CHE FORSE, E ANZI TOLGO FORSE, HA RAGIONE”. Chi invia le carte lamenta che siano state tenute “in un cassetto chiuso a chiave già da più di un anno”. Si cita il procuratore di Milano Greco. E anche il Pg della Cassazione Salvi che sarebbe “a conoscenza”. Segue la promessa di altri verbali e una sorta di sfida: “Immagino che non potrà pubblicare questa roba scottante”. Lo chiariranno le procure che stanno indagando, ma certamente questo nuovo scandalo calato sul Palazzo dei Marescialli, ha contorni ben poco definiti e si abbatte sulla credibilità del Consiglio Superiore della Magistratura, che adesso viene chiamato a ricostruire gli eventuali profili disciplinari di questa storia sperando capire e portare alla luce cosa sia realmente accaduto. A metà pomeriggio il vicepresidente del Csm, David Ermini, è intervenuto a tutela dell’organo di autogoverno delle toghe, dichiarando con una nota alle agenzie di stampa che  il Consiglio superiore della magistratura “è del tutto estraneo” alle vicende riferite oggi da diversi quotidiani puntualizzando che il Csm, “non solo è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un’opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare, in un momento particolarmente grave per il Paese, la sfiducia dei cittadini verso la magistratura. Auspico la più ferma e risoluta attività d’indagine da parte dell’autorità giudiziaria – dice Ermini – al fine di accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione”. Anche il procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi ha preso posizione: “In relazione a notizie di stampa circa la diffusione dei verbali di un’indagine della Procura di Milano, comunico quanto segue. Nella tarda primavera dell’anno passato, il Cons. Piercamillo Davigo mi disse che vi erano contrasti nella Procura di Milano circa un fascicolo molto delicato, che riguardava anche altre procure e che – a dire di un sostituto – rimaneva fermo; nessun riferimento fu fatto a copie di atti. Informai immediatamente il Procuratore della Repubblica di Milano. In un colloquio avvenuto nei giorni successivi nel mio ufficio, il 16 giugno, il dr. Greco mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo”. “Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza – continua il pg Salvi – della disponibilità da parte del Cons. Davigo o di altri di copie di verbali di interrogatorio resi da Piero Amara alla Procura di Milano. Di ciò ho appreso solo a seguito delle indagini delle Procure interessate e della conseguente perquisizione nell’ufficio di una funzionaria amministrativa. Si tratta di per sé di una grave violazione dei doveri del magistrato, ancor più grave se la diffusione anonima dei verbali fosse da ascriversi alla medesima provenienza. Non appena pervenuti gli atti necessari da parte delle Procure competenti, la Procura generale valuterà le iniziative disciplinari conseguenti alla violazione del segreto, per la parte di sua spettanza“.

Polveriera giustizia. Loggia Ungheria, la lista di nomi fa tremare il sistema giudiziario. Alberto Cisterna su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Non è facile comprendere quanto sia accaduto e cosa possa accadere ancora nella nuova stagione dei veleni che rischia di ammorbare in modo irrimediabile la magistratura italiana. Chi afferma che siamo in presenza di un secondo smottamento dell’unica frana iniziata – ormai due anni or sono – con la divulgazione illecita delle conversazioni captate a Palamara dice una cosa in parte sbagliata e in parte corretta. Sarebbe ingiusto negare che, questa volta, le correnti dell’Anm non ci azzeccano un ben nulla, che non si tratta di spartizioni e che non sono in gioco le bramosie di carriera di singole toghe. Lungo questa traiettoria le due vicende sembrano avere poco o nulla in comune. Anzi si ha l’impressione che Palamara sia stato fin troppo ambizioso nel titolare il suo libro Il Sistema laddove può darsi che si trattasse di un più modesto “Sottosistema”, se non di un affluente secondario. È vero, invece, che l’avvocato Amara, ora come allora, è al centro di uno scontro durissimo entro le mura delle due più importanti procure della Repubblica del paese. Roma e Milano sono finite sulle prime pagine dei giornali perché due magistrati di quegli uffici si sono convinti che l’azione investigativa avesse sonnecchiato e hanno avuto il sospetto che nessuno volesse metter mano al turbolento e melmoso calderone scoperchiato dalle dichiarazioni del legale siciliano. È vero, ancora, che entrambi i pm si siano rivolti al medesimo componente del Csm per far valere le proprie ragioni e per dare evidenza ai propri sospetti. È vero che, in entrambi i casi, non è dato francamente ben comprendere quale sia stato il comportamento del dottor Davigo e in che modo abbia dato corso ai propri doveri e, quel che più conta, come li abbia formalmente documentati. L’avrà fatto certamente, ma tra dichiarazioni rese alla procura di Perugia in parte sotto l’ombrello del segreto d’ufficio, mezze frasi rilasciate alla stampa e anticipazioni indirizzate ad altri soggetti istituzionali (il procuratore generale della Cassazione e la presidenza del Csm) non si capisce molto di quanto è accaduto. Il dottor Davigo ha fatto della sua tagliente franchezza la cifra del proprio successo elettorale e mediatico e sarebbe bene, per lui come per tutti, che prosegua su quella strada per non dissipare un cospicuo patrimonio di credibilità. Ha in mano, praticamente da solo, un pezzo importante della partitura di questo secondo atto della tragedia vissuta dalle toghe e dall’opinione pubblica e si deve essere certi che renderà tutto di pubblico dominio oltre che interamente comprensibile. Per intanto la sorte disciplinare, e non solo, dei due magistrati (Storari e Fava) che avevano immaginato di poter mettere mano alle dichiarazioni dell’avvocato Amara sembra pesantemente compromessa e questo, sia chiaro, non è di per sé un bene. Si vedrà se hanno sbagliato o meno tempi e modi della loro azione, se hanno agito o meno con correttezza, ma resta sgradevole e ingiusta la sensazione che – come ha detto appropriatamente il dottor Davigo – in queste giornate agitate si guardi al dito e non alla luna con quel che è venuto fuori. Il punto vero è stabilire, e con una certa rapidità, se esista o meno un gruppo di potere illegale che, attraverso le nomine dei vertici giudiziari, intendeva condizionare la vita della Repubblica oppure se quella odierna è l’ennesima bufala che – al pari di altre (i vari sequel della P2) – ciclicamente trascolora le ambizioni smisurate di qualcuno in oscuri progetti eversivi. Da questo punto di vista siamo ancora all’anno zero e nessuno è in grado di sapere se quel gruppo, quella Loggia Ungheria, esista o meno. Certamente sono in corso delle indagini, ma è innegabile che sia giunto il momento di saperne qualcosa di più anche a tutela delle persone perbene che possono essere state ingiustamente coinvolte. La reazione, forse scomposta, di due toghe ritenute serie e stimate, come Storari e Fava, ha lasciato molti attoniti e sarebbe bene ascoltarne fino in fondo le ragioni per comprendere dal loro racconto – e al di là dell’affaire Amara – se sia giunta l’ora di riscrivere in modo radicale e definitivo l’assetto degli uffici di procura che, dopo la riforma del 2006, sono divenuti la principale meta carrieristica di tanti e, a volte, luoghi per feroci regolamenti di conti. Comunque vada, sia chiaro, l’avvocato Amara un risultato l’ha raggiunto in ogni caso: se la Loggia dovesse esistere avrebbe l’innegabile merito di averla scoperchiata a dispetto di tanti. Se la Loggia, invece, non esiste ha disvelato quanto fragile sia la governance della magistratura italiana, saltata per aria in gangli e assetti vitali al solo profilarsi di un approfondimento delle sue dichiarazioni. In mezzo ci stanno quei componenti del Csm e quelle toghe che anche questa volta – i cittadini ne siano persuasi – hanno mostrato di avere la schiena dritta e di non indietreggiare al cospetto dei propri doveri. Alberto Cisterna

Il terremoto nella magistratura. Come funziona la Loggia Ungheria: gli “sverginati”, le parole in codice, la rete di potere. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Maggio 2021. È ancora da provare e da indagare a fondo il caso della loggia Ungheria ma è già un terremoto per la magistratura. La fuga di notizie, i dissidi all’interno e tra le Procure, le comunicazioni informali e i passaggi dei verbali ai quotidiani. A scoperchiare quello che è stato definito come un sistema di potere occulto tra magistratura, imprenditoria e politica gli interrogatori di Piero Amara, avvocato siciliano di 51 anni, arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per corruzione di giudici, condannato a 2 anni e 8 mesi dopo un patteggiamento. Amara ha detto di farne parte da oltre tre lustri, di questa lobby. A quanto ricostruisce il quotidiano Domani la loggia ha radici in Sicilia con rami che si intrecciano al cosiddetto “Sistema Siracusa”, un gruppo di faccendieri, imprenditori e giudici del quale faceva parte lo stesso Amara, smantellato dalle inchieste della Procura di Messina. I vertici del gruppo vengono definiti “i vecchi”. Chi viene affiliato è stato “fatto” o “sverginato”. L’obiettivo? Piazzare i sodali nelle stanze dei bottoni e nei palazzi del potere. Non si risponderebbe a un’obbedienza gerarchica ma a un sentimento di solidarietà. Ci si rende disponibili insomma. La loggia à detta Ungheria perché si riuniva a Roma in piazza Ungheria, nell’abitazione di un importante magistrato. E ci si riconosce con dei codici e dei comportamenti in codice. “Sei mai stato in Ungheria?”, l’adagio di riconoscimento. Se il sodale non risponde alla domanda è un affiliato. Altro segno di riconoscimento: premere tre volte l’indice sul polso stringendo la mano. Amara dice di essere entrato frequentando l’Osservatorio Permanente della Criminalità Organizzata, Ocpo. A introdurlo Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) e vicepresidente della corrente Magistratura Indipendente, di sinistra. Tinebra non può confermare né smentire perché è morto nel 2017. L’affiliazione per contrastare il “giustizialismo dilagante della magistratura italiana” e “fondamentalmente a pilotare le nomine del Consiglio Superiore della Magistratura e delle Procure più importanti”. Amara ai magistrati ha raccontato anche cenacoli, incontri segreti, codici di comportamento. Una quarantina le persone nella lista, nascosta all’estero, con giudici, giudici istituzionali e capi delle forze dell’ordine. La Guardia di Finanza ha perquisito la casa di Amara. Le dichiarazioni sono per gli investigatori in molte parti fumose. La Verità scrive che il primo dei nove di cui si parla si è tenuto il 6 dicembre 2019, con il procuratore aggiunto Laura Pedio e al sostituto Paolo Storari. Quest’ultimo avrebbe quindi portato i verbali all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo – per replicare all’attendismo del Procuratore Capo di Milano Francesco Greco – che avrebbe a sua volta informalmente informato il vice-presidente del Csm David Ermini e il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi. L’ex segretaria dell’ex leader di Autonomia&Indipendenza Marcella Contrafatto è indagata per aver inviato copie dei verbali secretati ai quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Repubblica. La Verità riporta quindi alcuni nomi, emersi dagli interrogatori all’avvocato siciliano, di questa loggia. Tutti i personaggi citati dalla testimonianza hanno seccamente smentito dopo essere stati contattati dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Smentiscono l’ex ministra e Presidente dell’Eni Emma Marcegaglia, il giornalista Luigi Bisignani, l’ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Michele Vietti, l’avvocato ed ex ministra Paola Severino tra gli altri.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Cos’è la Loggia Ungheria. I nomi nella «lista segreta», il racconto dell’avvocato inquisito Amara, e il rapporto tra l’ex magistrato di Mani Pulite Davigo con il pm Storari: i misteri dell’inchiesta. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2021. Esiste davvero una loggia massonica chiamata Ungheria oppure i verbali dell’avvocato Piero Amara sono un insieme di fatti veri, verosimili e falsi utili a consumare vendette oppure generare ricatti? È il nodo che dovrà sciogliere la procura di Perugia titolare dell’inchiesta avviata dopo le dichiarazioni dell’avvocato già condannato per corruzione in atti giudiziari e inquisito in numerose inchieste, compresa quella riguardante un depistaggio ai danni dell’Eni. Ecco dunque che cosa è accaduto negli ultimi due anni, tutte le tappe di una vicenda che coinvolge il Consiglio superiore della magistratura e rischia di travolgere la magistratura, già minata dal caso Palamara.

II primo interrogatorio. Il 9 dicembre 2019 l’avvocato Piero Amara viene interrogato a Milano alla presenza del suo legale Savino Mondello. Per la prima volta, parla di una loggia «denominata Ungheria di cui faccio parte». Elenca nomi e circostanze, racconta incontri e colloqui. Con la giustizia — come accennato poco sopra — Amara ha numerosi conti aperti: le sue dichiarazioni devono essere prese con cautela. Due giorni dopo il pm Paolo Storari scrisse una mail al procuratore Francesco Greco «per evidenziare la necessità di effettuare iscrizioni per fare accertamenti». Amara continua a parlare, riempie altri verbali. Poi l’Italia va in lockdown e l’inchiesta rallenta.

La lista della loggia Ungheria. «Nella loggia Ungheria — racconta Amara — ci sono vertici delle forze dell’ordine, politici, magistrati, imprenditori, avvocati. Ho una lista di 40 nomi ma quella ufficiale l’ha portata all’estero Calafiore» — ovvero il suo socio, l’avvocato Giuseppe Calafiore. Amara parla di un favore fatto all’allora presidente Giuseppe Conte «quando ancora faceva l’avvocato». Fa altri nomi, ma non consegna la lista.

L’incontro con Davigo. Secondo il pm Storari c’è resistenza dei vertici dell’ufficio a svolgere accertamenti: così, ad aprile, decide di muoversi autonomamente. Contatta il consigliere del Csm Piercamillo Davigo e a lui consegna le copie dei verbali di Amara. Ma sceglie una procedura anomala: non presenta un esposto, non chiede la tutela del Csm. A Davigo dice di essere ostacolato e lascia copie estratte dal suo computer senza firma e dunque «di lavoro». Lo fa nonostante sappia — visto che è lui uno dei titolari del fascicolo — che i verbali sono stati secretati.

Gli indagati. Il 9 maggio 2020 la procura di Milano iscrive nel registro degli indagati lo stesso Amara, il suo socio, Calafiore, e il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro. Durante l’estate vengono raccolte numerose testimonianze.

Davigo, Ermini e Salvi. Poco dopo aver parlato con Storari, e nonostante la procedura anomala descritta sopra, Davigo decide però di procedere, sia pur in maniera informale. Parla con il vicepresidente del Csm David Ermini e gli rivela di avere copia dei verbali. Ne informa — ma sempre con colloqui personali e senza formalizzare nulla — altri consiglieri del Csm: i togati Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, il laico Fulvio Gigliotti, forse altri. Poi va dal procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi. A lui dice che ci sono contrasti interni alla procura di Milano su un’inchiesta delicata che coinvolge Amara. Salvi nega che gli abbia mai parlato di verbali.

Salvi e il procuratore Greco. In una nota ufficiale, diramata domenica 2 maggio 2021, Salvi dichiara: «Informai immediatamente il Procuratore della Repubblica di Milano. In un colloquio avvenuto nei giorni successivi nel mio ufficio, il 16 giugno, il dottor Greco mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo».

Inchiesta a Perugia. Amara cita numerosi magistrati in servizio a Roma e in altre città. Si decide che la competenza sia della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone che si occupa proprio dei giudici in servizio nella capitale. Il fascicolo viene trasferito dunque nel capoluogo umbro che convoca Amara per un nuovo interrogatorio.

La fuga di notizie. A ottobre 2020 Davigo va in pensione e lascia il Csm. Qualche giorno dopo un giornalista del Fatto Quotidiano riceve un plico con una lettera anonima. Dentro ci sono le copie dei verbali di Amara e uno scritto che accusa i magistrati di Milano di non aver indagato. Il cronista presenta una denuncia a Milano. Mentre vanno avanti gli accertamenti a Perugia, anche una giornalista di Repubblica riceve lo stesso plico. E anche lei decide di presentare una denuncia, si rivolge alla Procura di Roma.

I tabulati della segreteria. Le verifiche svolte dai magistrati romani sui tabulati telefonici della giornalista (che ha denunciato di essere stata contatta da una donna che le preannunciava l’invio del dossier), consentono di individuare Marcella Contrafatto, dipendente del Csm. Si scopre che è la segretaria di Davigo. Un altro plico sempre anonimo viene inviato al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Poiché si tratta di un pubblico ufficiale per Contrafatto scatta l’accusa di calunnia nei confronti dei magistrati milanesi accusati di non voler indagare.

La confessione di Storari. I magistrati romani informano i colleghi milanesi. A quel punto Storari informa Greco di essere stato lui a consegnare i verbali a Davigo. La segretaria viene perquisita e quando le viene chiesto chi le abbia dato i verbali decide di non rispondere ai pubblici ministeri. La procura di Roma avvia verifiche sull’operato di Storari e sui rapporti con Davigo che sarà interrogato nei prossimi giorni. A lui si chiederà di spiegare dove ha custodito i verbali e come sia possibile che sono finiti nella mani della sua segretaria.

I procedimenti disciplinari. La ministra della Giustizia Marta Cartabia e il procuratore Salvi hanno avuto un colloquio e Salvi ha confermato che si sta valutando l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del pubblico ministero Storari. Stessa valutazione dovrà farla anche il Csm.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 3 magio 2021. I pasticci della giustizia, ormai quotidiani, non sono comprensibili alla maggioranza dei cittadini, i quali comunque ne sono infastiditi, forse disgustati, avendo perso quasi completamente la fiducia nelle toghe, divise come sono da contrasti stupefacenti. Oggi pubblichiamo una intervista a Nordio, ex procuratore di Venezia, uomo probo, adesso - purtroppo - in pensione. Egli spiega con calma e senza astio tutto il marcio che rende la magistratura una categoria inaffidabile, quindi poco meritevole di stima. Le sue considerazioni disinteressate sono da leggere, invitano a riflettere sui motivi che fanno apparire poco seria l'attività dei tribunali. La gente avverte sulla propria pelle il peso di certi scandali e si domanda perché la politica non provveda a dare una ripulita all'ambiente chiacchierato dei giudici, da troppo tempo travolti da sospetti. La vicenda di Palamara è emblematica. Il libro di Alessandro Sallusti che la narra per filo e per segno ha fatto un buco nell'acqua. Il volume ha venduto una montagna di copie, prova che il popolo non è indifferente al tema giudiziario. Nonostante ciò non c'è stata una sola autorità che sia intervenuta per compiere un minimo di chiarezza. Nemmeno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, pur essendo il numero uno della magistratura, ha fatto sentire la propria voce in materia, come se il marasma denunciato dal suddetto Palamara non lo sfiorasse affatto. In quale maniera si motiva codesta noncuranza riguardo a una questione tanto delicata quanto burrascosa? Non abbiamo parole, ma solamente parolacce. L'importante è che a nessuno venga in mente di istituire una commissione parlamentare di inchiesta, l'ennesima inutile da quando esiste la Repubblica. Siamo tutti consapevoli che deputati e senatori sono capaci soltanto di parlare a vuoto. Intanto attendiamo un segnale dal Quirinale che non può sopportare ancora a lungo di assistere allo sfacelo in atto. Non ritengo debba intervenire in chiave poliziesca per porre ordine in un settore a dir poco allo sbando, tuttavia non è lecito neppure che esso taccia come corpo morto tace.

Maurizio Belpietro per la Verità il 3 magio 2021. Una bomba pronta a esplodere si aggira per i Palazzi di Giustizia. Si chiama Piero Amara, è un legale siciliano che per qualche anno ha collaborato con l'Eni, nel collegio di difesa del colosso pubblico in alcuni procedimenti legati ai petrolchimici di Siracusa e Gela. Tuttavia, più che come avvocato, è noto come pentito, perché da qualche anno spunta in ogni inchiesta, citato come testimone dell'accusa in diversi processi. È stato lui il teste principale usato dalla Procura di Milano per trascinare sul banco degli imputati Claudio Descalzi, amministratore delegato del cane a sei zampe, nell' inchiesta flop per una presunta tangente miliardaria in Nigeria. Sempre lui a insinuare che il giudice Marco Tremolada, presidente della Corte che ha assolto Descalzi e demolito l'inchiesta per corruzione internazionale, fosse stato «avvicinato» (tesi che la Procura di Brescia, competente per giurisdizione, ha ritenuto infondata). Amara rispunta in altre vicende che riguardano l'Eni per nuovi e al momento mai dimostrati reati. Ma l'avvocato di Augusta è anche colui che ha chiamato in causa il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, per una presunta induzione indebita, accusandolo - proprio mentre all'organo della giustizia amministrativa spetta decidere sul ricorso per il posto di procuratore capo - di avergli «raccomandato» un'amica e per questo Patroni Griffi è finito indagato dalla stessa Procura di cui avrebbe dovuto decidere il numero uno. Tuttavia, oltre ad aver tirato in ballo il presidente del Consiglio di Stato, ed ex ministro della Funzione pubblica ai tempi di Mario Monti, Amara se l'è presa pure con l'ex Guardasigilli, Paola Severino, che guarda caso era l'avvocato difensore di Descalzi nel processo di Milano. Infine, oltre a ministri e amministratori delegati, giudici e procuratori generali (quello di Messina che si era opposto al patteggiamento di Giuseppe Calafiore, sodale di Amara), poteva mancare il padre e la madre di tutti gli intrighi giudiziari, ovvero Luca Palamara? Ovvio che no e infatti Amara ne ha avuto anche per lui. Un pm di Roma, Stefano Fava, a un certo punto del disinvolto avvocato siciliano chiese l'arresto, convinto che l'ex legale dell'Eni fosse un inquinatore di pozzi e spargesse notizie a suo uso e consumo. Ma i vertici della Procura della Capitale, in particolare Paolo Ielo, si opposero, ritenendo che Amara fosse fondamentale per l'accusa. Così il pentito itinerante è finito in una quantità di procedimenti, che quasi sempre si reggono solo sulle sue testimonianze. Da Roma a Milano, da Brescia a Perugia: una infinità di rivelazioni in gran parte già smentite da sentenze, alcune anche definitive. Tuttavia, invece di essere indagato per calunnia, il superteste passa da un tribunale all' altro, con sempre nuove «notizie». Ora la bomba a orologeria rischia di esplodere dentro la Procura di Milano, che l'ha usata anche nel processo per la presunta corruzione dell'Eni, ma anche dentro il Csm, dove alcune delle sue rivelazioni sono state portate da un procuratore. Così come è accaduto a Roma, dove un pm richiese l'arresto di Amara, un pubblico ministero di nome Paolo Storari, in servizio nel capoluogo lombardo, ha voluto andare fino in fondo alle accuse di Amara. Come Fava, che a Roma si scontrò con i vertici e finì indagato e trasferito a fare il giudice in periferia, Storari si è scontrato con i suoi capi. Forse voleva capire che cosa ci fosse di vero in accuse che coinvolgono perfino l'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, forse pensava che Amara continuasse a inquinare i pozzi, sta di fatto che a quanto pare non ha voluto lasciare che i verbali finissero in fondo a un cassetto e quella bomba forse radiocomandata scoppiasse fra le sue mani o tra quelle di qualcun altro. Risultato, il dossier con i ricordi a rate del pentito con la toga è stato consegnato nelle mani di Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ma soprattutto capo di una corrente dei giudici ed esponente del Consiglio superiore della magistratura. Ovviamente, Davigo non aveva nessun titolo per ricevere quei verbali e Storari non aveva né obblighi né diritti di consegnarli al collega, ma semmai l'obbligo di garantire il segreto istruttorio. Ma così è andata e quel dossier ha cominciato a girare, perché, pare, una segretaria che lavorava con Piercavillo (era questo il suo nome ai tempi del pool di Tangentopoli), avrebbe cominciato a spedirlo alle redazioni. Non alla nostra, che ovviamente avrebbe pubblicato ciò che sta scritto in quelle carte, facendo emergere il falso o il marcio, ma a quelle di Repubblica e del Fatto Quotidiano. E qui alcuni colleghi, invece di verificare le notizie e scriverne, si sono incaricati di portare il malloppo in Procura. Così adesso, un altro ordigno sta per esplodere e per travolgere i vertici della magistratura. Perché, ancora una volta, si dimostra che l'obbligatorietà dell'azione penale è una presa in giro. Se Amara con le sue accuse dice il vero, il verbale non può finire in fondo al cassetto, magari per essere tirato fuori a tempo debito, quando serve. Se dice il falso, al contrario, va indagato e arrestato e il suo patrimonio sequestrato. Invece, in tutto questo tempo, nonostante il collaboratore di giustizia sia stato smentito dalle sentenze, non è accaduto nulla di ciò e qualcuno dovrà spiegare perché. Amara è un mentitore seriale oppure no? Se lo è c' è da chiedersi perché sia ancora a piede libero, pronto a infangare altre persone. Ma se non lo è, se non è un bugiardo conclamato, serve interrogarsi sul perché le sue accuse non abbiano ancora avuto seguito. A chi conviene un pentito a orologeria? Per inciso, Davigo si dice che abbia portato il dossier segreto al Quirinale, oppure che lo abbia consegnato ai vertici del Csm. Nell' uno o nell' altro caso, anche questo passaggio riservato di carte scottanti ha un che di poco chiaro. Perché il Colle (che smentisce)? Perché il Consiglio superiore della magistratura (senza che vi fosse una denuncia contro un giudice)? No, comunque la si guardi, con l'aggiunta poi della partecipazione di Amara a una misteriosa struttura segreta, denominata Ungheria, cioè a una sorta di loggia massonica, la faccenda si rivela losca, anzi loschissima. Una sola cosa ci è chiara ed è che il Consiglio superiore della magistratura, travolto dal caso Palamara, avrebbe dovuto essere mandato a casa, per nominarne uno che non avesse legami con le correnti e gli intrighi del passato. Invece, si è preferito far finta di niente, far dimettere qualche magistrato, nella speranza di mettere a tacere le troppe relazioni pericolose fiorite all' interno dei tribunali. Il risultato è un nuovo scandalo, che rischia di compromettere ancora di più l'autorevolezza della magistratura e di minare alla base il principio di terzietà di chi è chiamato a indagare e giudicare. C' è stato un tempo in cui i pm indagarono sulla classe politica. Ora chi indagherà su quella in toga? Pensate davvero che lo possano fare altre toghe?

Fabio Amendolara per “La Verità” il 3 magio 2021. La loggia Ungheria, della quale farebbero parte magistrati, politici e alti esponenti delle istituzioni, con obiettivi che vanno ben oltre quelli della Propaganda due di Licio Gelli, ovvero il condizionamento delle nomine dei magistrati, stando alle propalazioni di Piero Amara, avvocato passato anche dai servizi sociali, aveva sede proprio in piazza Ungheria a Roma. E si sarebbe riunita, coincidenza, nella residenza di un potentissimo magistrato. Amara, tra contraddizioni, smentite e misteri, ha costruito la sua collaborazione con la giustizia dopo il suo arresto, nel 2018, insieme all’avvocato Giuseppe Calafiore, con contestazioni pesantissime come la corruzione in atti giudiziari e l’associazione per delinquere finalizzata ai reati tributari. Da allora Amara passa da un tribunale all'altro (Milano e Perugia), accusando di volta in volta i manager dell'Eni e Luca Palamara e svelando segreti del calibro della super loggia. Sparando nomi come quello di Filippo Patroni Griffi o dell'ex premier Giuseppe Conte. Oltre a quelli di un giudice della sezione fallimentare e di una pm della Procura di Roma. In nomination anche l'ex capo del Dap Sebastiano Ardita, ora al Csm, e il suo predecessore Gianni Tinebra, deceduto. Il filo conduttore, stando ai racconti del leguleio, non si sa ancora come, sarebbe la loggia Ungheria. Una loggia coperta, a dire di Amara, che proprio per questa caratteristica ha portato la Procura guidata da Raffaele Cantone a ipotizzare la violazione della legge Anselmi, con sei persone, i cui nomi non sono ancora noti, iscritte sul registro degli indagati. Le dichiarazioni rese nel 2019 sono state consegnate nell'aprile del 2020, nonostante fossero coperte da segreto, dal pm milanese Paolo Storari al consigliere del Csm Piercamillo Davigo per ragioni di autotutela dopo che, a dire del pm, aveva invano chiesto per sei mesi al procuratore Francesco Greco di procedere all'iscrizione degli indagati. La vicenda, già particolarmente ingarbugliata, si è arricchita di un altro dettaglio, anche questo tutto da chiarire. Uno dei verbali di Amara, sarebbe uscito dalla Procura di Milano già nel febbraio del 2020. Sarebbe stato uno degli indagati nell'inchiesta sul falso complotto Eni, l'ex manager Vincenzo Armanna a dire ai pm di avere quel verbale in cui si parlava della loggia. Amara sarà anche un massone, come dice, e la fantomatica loggia ungherese sarà anche vera, ma da superteste coccolato da più di una toga l'avvocato si è già ritrovato presunto calunniatore in almeno tre occasioni. Nel primo caso la vittima è il giudice Stefano Fava (autore dell'esposto contro il suo capo Giuseppe Pignatone quando lavorava in Procura a Roma), l'unico che lo voleva arrestare. Interrogato dalla Procura di Roma il 17 luglio 2018 sulle fonti che gli consentivano di avere notizie sulle indagini a suo carico, Amara fece il nome di un carabiniere distaccato all'Aise, Antonio Loreto Sarcina. Ma il carabiniere non era tra coloro che indagavano. E a quel punto Amara, posto che Fava non l'aveva mai conosciuto, disse che Sarcina otteneva le notizie da Fava. Ma Amara era in possesso dei file delle informative prima che arrivassero ai pm. La sua fonte, quindi, non poteva che essere tra gli investigatori delegati alle indagini e che, però, non ha mai accusato. Sarcina, a sua volta, interrogato dopo il suo arresto, ha dichiarato di aver ottenuto le notizie che aveva rivenduto ad Amara per 30.000 euro da un dipendente della Procura generale di Roma, tirando in ballo il pm che lo stava interrogando, Paolo Ielo, e finanzieri. La seconda vittima di Amara è il giudice milanese Marco Tremolada. Questa calunnia ha innescato un procedimento penale a Brescia proprio alla vigilia della sentenza del processo Eni, che doveva emettere proprio Tremolada. In questo caso Amara si è esibito coinvolgendo l'ex ministro della giustizia Paola Severino. Il terzo bersaglio è il procuratore generale di Messina Vincenzo Barbaro che, interrogato l'11 marzo 2021 da Cantone a Perugia, ha dichiarato senza mezzi termini di «considerare calunniose le dichiarazioni di Amara» su asseriti incontri con Palamara dopo le riunioni di coordinamento in Procura a Roma.

"Palamara? È solo l'inizio". Nordio terremota magistrati e politici: nomi e inchieste, altro scandalo in arrivo. Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. "Se è vero, è roba da colpo di stato". Piero Sansonetti, direttore del Riformista e aggueritissimo nemico di giustizialismo e malagiustizia, non usa mezzi termini in studio da Nicola Porro. A Quarta Repubblica, su Rete 4, si parla del clamoroso terremoto alla Procura di Milano, con verbali secretati che il pm Storari nel maggio 2020 ha consegnato all'allora membro del Csm Piercamillo Davigo perché non si fidava dei suoi capi, tra cui il procuratore capo Francesco Greco, che a suo dire non avevano intenzione di indagare sulle testimonianze, molto pesanti, dell'avvocato Amara. Dichiarazioni, fornite alla stessa Procura di Milano qualche mese prima, in cui si riferiva tra le altre cose di una loggia segreta "Ungheria", potentissima e formata da toghe e ufficiali della Guardia di Finanza. Quei verbali secretati Davigo non li avrebbe consegnati ai vertici del Csm, ma avrebbe avvertito il vicepresidente David Ermini solo per sommi capi. "Una doppia anomalia", secondo il magistrato Carlo Nordio: "Sono diffidente sul contenuto di questo verbale, ma c'è un tale intreccio di interessi che vi è la necessità di fare chiarezza". Nordio si definisce "incredulo": "Un sostituto procuratore non può inviare un atto secretato ad un membro del Csm, se poi questo membro del Csm lo riceve, non può tenerselo". "Non sappiamo se questa loggia sia vera, se è vera è da colpo di Stato! - le parole di Sansonetti - Il sistema Palamara diventa davanti a questo un sottosistema". Il sistema Palamara su cui il direttore del Giornale Alessandro Sallusti ha realizzato un libro a 4 mani proprio con l'ex presidente dell'Anm, radiato dalla magistratura per una bruttissima storia di nomine pilotate in cambio di favori economici. Quanto rivelato da Palamara negli scorsi mesi sta assumendo ora nuove, inquietanti sfumature. "Queste anomalie procedurali fossero state fatte in un sistema politico, già sarebbero scattati gli avvisi di garanzia, se non le manette. Sono due metri diversi all'esterno e all'interno", accusa Sallusti. "Sta succedendo che è stato scoperchiato il bidone del sistema e comincia ad uscire del fango. Palamara con il suo racconto ha scardinato il sistema. Ed è la prima volta che i giornali hanno in mano dei verbali e non li pubblicano". Il riferimento è alla seconda parte dello scandalo milanese. Il fatto che un corvo al Csm, secondo gli inquirenti una segretaria di Davigo, abbia poi passato quei verbali a varie redazioni dei giornali. Sicuramente quella del Fatto quotidiano, che li ha rispediti alla Procura di Milano, così come ha fatto Repubblica. "Questo verbale è stato inviato ad una giornalista di Repubblica che si è correttamente rivolta alla Procura, perché il verbale è stato trafugato", è la difesa (d'ufficio) di Stefano Cappellini, anche lui ospite di Porro. 

Carlo Nordio terremota la magistratura: "Palamara? È solo l'inizio". In arrivo un altro scandalo. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. Tanto per cambiare è scoppiato un altro scandalo nella giustizia. L'avvocato Pietro Amara, già indagato per depistaggio e arrestato e condannato per corruzione in atti giudiziari, ha denunciato alla Procura di Milano l'esistenza di una struttura di sottopotere all'interno della magistratura denominata "Ungheria", la cui ragione sociale sarebbe promuovere le carriere degli adepti e influenzare la politica. Tra le altre cose, Amara è una delle gole profonde dell'inchiesta che ha tenuto alla sbarra per anni l'amministratore dell'Eni Claudio Descalzi e la moglie con l'accusa di loschi affari e corruzione internazionale; un processo che ha minato la credibilità della multinazionale italiana, azienda strategia per il Paese, e che si è poi risolto in nulla. Il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ha ignorato le accuse di Amara. Non così un suo subalterno, il pm Paolo Storari, che ha istruito un fascicolo ma non ha aperto un processo, preferendo girare il malloppo a Piercamillo Davigo, ai tempi membro del Csm. L'ex eroe di Mani Pulite, a sua volta, non ha denunciato alcunché, limitandosi a informare in via ufficiosa il Quirinale e in via più diretta il Consiglio superiore della magistratura. Nel frattempo, la sua ex assistente, Marcella Contrafatto (notare il cognome), ha girato il dossier al Fatto Quotidiano e a Repubblica, che però non lo hanno pubblicato. La notizia è emersa, la signora è stata sospesa e indagata e lo scandalo è esploso. Per districarsi nel ginepraio, Libero ha chiesto un aiuto all'ex procuratore Carlo Nordio, garantista, liberale, innamorato non corrisposto della giustizia, eminenza giuridica al di sopra delle parti. La nostra sensazione è che la Procura abbia ben agito nel non dare credito a un testimone poco affidabile. Resta l'amarezza nel constatare che il garantismo delle toghe nei confronti dei colleghi quando c'è qualcuno che li infanga non venga applicato allorché oggetto delle accuse sono politici, imprenditori, giornalisti, che vengono tenuti per anni senza nessun riguardo ostaggio delle accuse di inaffidabili baldrascani.

Cosa sta succedendo oggi nella magistratura italiana?

«Chiediamoci cosa sta accadendo ai suoi vertici, perché la gran parte dei magistrati continua a fare quello che ha sempre fatto: lavorare sodo e, mediamente, molto bene. I vertici stanno pagando per le piaghe endemiche: la competizione correntizia, la contiguità e la concorrenza con la politica, l'ambizione nelle cariche e, come ora si vede, anche le invidie e le lotte all'interno degli uffici».

Lei ha dichiarato che la vicenda Palamara era solo l'inizio: che altro deve emergere?

«Quello che sta emergendo: il sospetto che alcune inchieste siano state gestite in modo politico, o comunque in modo opaco e ambiguo. Inoltre Palamara ha fatto, pare, molti nomi, ed ha promesso una seconda puntata. Il Csm ha creduto di cavarsela radiandolo e mettendoci una pietra tombale. Ma temo che abbia sepolto delle creature ancora vive che si faranno sentire».

Cambierebbe qualcosa se fosse sciolta l'Anm?

«Sciogliere un'associazione lecita come l'Anm sarebbe impossibile e non avrebbe senso. Il problema non sta nell'Anm, ma nei suoi rapporti con il Csm, che ne rappresenta l'aspetto istituzionale, come il Parlamento rappresenta i partiti. Bisogna interrompere questo vincolo. E come predico da 25 anni l'unico modo è il sorteggio. Al tempo ero considerato un eretico. Ora vedo che molti, anche a sinistra, ci stanno riflettendo seriamente».

È in atto un minimo tentativo di riorganizzare la magistratura secondo criteri più meritocratici e meno politici dopo lo scandalo Palamara?

«No. Qualche tentativo stenterello, ma finché non si passerà alla riforma radicale del Csm non cambierà nulla».

Lei pensa che esista la struttura Ungheria?

«A occhio, non avendo letto gli atti, mi pare una grande bufala. Ma certo ci sono intrecci di potere tra correnti della magistratura, politica e anche mass media che andrebbero chiariti. Per questo serve una commissione parlamentare».

Lei avrebbe fatto come il Procuratore Greco, che non ha dato seguito alle denunce di un testimone già risultato poco affidabile?

«Non conosco gli atti, ma per quanto ho letto sui giornali secondo me ha fatto bene. Ormai le procure sono assediate da mitomani e personaggi strani che cercano di inquinare anche le inchieste fatte bene. Certo mi piacerebbe che questa cautela nel procedere fosse adottata in modo omogeneo, e valesse per tutti».

Se la magistratura (giustamente) si protegge da testimoni inattendibili, perché non ha lo stesso riguardo quando vengono denunciati politici, imprenditori, giornalisti o privati cittadini?

«Appunto. Ogni procura va per conto suo, e alcuni pm si creano inchieste anche sulla base di elementi opinabili. Per questo ripeto da sempre che è interessante vedere non solo come i processi finiscono, ma anche come nascono. Il rimedio sarebbe molto semplice: come nel sistema britannico, il pm dovrebbe procedere solo sulla base di notize di reato qualificate, trasmesse dalla polizia giudiziaria. Invece da noi fa quello che vuole, e in base al principio, male applicato, dell'obbligatorietà dell'azione penale, estrae dal cassetto un fascicolo latente, o ascolta un testimone, diciamo, fantasioso, e sulla base di quello iscrive un cittadino nel registro, chiede e ottiene intercettazioni che poi finiscono sui giornali. È un sistema ormai inadeguato, per usare un eufemismo, che va completamente riveduto».

Non è un comportamento pilatesco quello di Davigo, che informa della denuncia il Csm e il Quirinale, i quali non hanno competenza per agire, anziché sporgere denuncia in Procura?

«Anche qui, non conoscendo le carte, posso esprimermi solo in termini generali. Ebbene, un sostituto non può assolutamente trasmettere atti secretati a un membro del Csm. Se dissente dalla scelta del procuratore capo deve comunicarglielo, e magari chiedere di essere esonerato dall'inchiesta. Se ritiene di assistere alla commissione di un reato deve fare una denuncia formale. Se comunica con il Csm deve farlo attraverso le vie gerarchiche, che investiranno il comitato di presidenza. L'idea che possa trasmettere atti secretati a un membro del Csm «per cautelarsi», come ho letto, è semplicemente ridicola, e stento a credere che questa giustificazione sia stata addotta da un magistrato in servizio».

Abbiamo una funzionaria sospesa e indagata per avere passato delle carte ai giornali, che non le hanno pubblicate; e nessuno indagato quando le carte sono pubblicate: non lo trova curioso?

«Se la divulgazione di atti secretati è reato, anche la loro ricezione lo è. Quindi è inevitabile che ne consegua un'indagine penale a tutto campo, certamente non limitata a un'impiegata subalterna».

Che idea si è fatto della vicenda dei terroristi arrestati in Francia dopo vent' anni: che cosa è cambiato, dopo tutto questo tempo, che ha reso possibile il loro fermo?

«La Francia si è comportata male nei nostri riguardi, ha trattato l'Italia come se il nostro sistema fosse autoritario, mentre tutti i terroristi hanno goduto, nei rispettivi processi, delle più ampie garanzie. Peggio ancora si sono comportati i cosiddetti intellettuali che hanno avallato questa complicità del governo francese. L'avvio della procedura di estradizione è quindi una buona notizia, anche se dopo 40 anni una giustizia così tardiva è sempre un fallimento. Comunque speriamo che vengano estradati e incarcerati. Se poi si vorrà essere indulgenti, questa è un'altra cosa. Ma ricordo che il perdono, anche per la Chiesa, non è mai gratuito: occorre la confessione, l'espiazione e il ravvedimento».

La ministra Cartabia riuscirà a riformare la giustizia, non essendo un ministro politico ed essendo espressione del governo di tutti?

«La riforma della giustizia può, e deve, avvenire su impulso del governo, ma viene decisa dal Parlamento. Ho dei forti dubbi che questo Parlamento intenda procedere alla necessaria riforma radicale».

Istituire delle commissioni secondo materia per impostare una riforma generale è una buona idea, ma non si rischia poi di non arrivare a nulla, come con la Bicamerale?

«Bisogna intenderci su che riforme. Quella più urgente, perché impatta sull'economia, è quella della giustizia civile, per accelerare i processi. Qui basta copiare dai sistemi che funzionano, a cominciare da quello tedesco, e non dovrebbero esserci elementi divisivi. Per quella penale è un'altra cosa. Bisogna rivedere totalmente il codice Vassalli, che è stato snaturato, e imprimergli un carattere più garantista e pragmatico. Occorre eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale, separare le carriere, insomma fare un codice davvero liberale. Quindi un vasto programma, che questo Parlamento non può e non intende fare. Aspettiamo il prossimo».

La sensazione è che si fermerà solo l'abolizione della prescrizione: lei cosa ne pensa?

«Prima si elimina questo mostro voluto dal ministro Bonafede meglio è».

L'avvocato Coppi sostiene che sia la politica in realtà a non voler riformare la magistratura, perché una giustizia alla deriva ormai è funzionale al Palazzo: lei cosa pensa?

«Sono più pessimista del prof Coppi. La politica non fa le riforme perché ha paura delle reazioni della magistratura, e visti i precedenti direi che è un timore fondato. Inoltre spera sempre di servirsene per eliminare l'avversario. I casi di Berlusconi, Salvini e anche di Boschi e Renzi insegnano. Purtroppo Renzi, autorizzando il procedimento a Salvini per i processi in Sicilia, è caduto nella stessa trappola. È stato deludente».

Che idea si è fatto dell'inchiesta su Ciro Grillo: perché è rimasta in sonno per due anni?

«La sortita di Grillo è un'esaltazione coribantica che ci dovevamo aspettare. Semmai dobbiamo chiederci come mai milioni di italiani si siano lasciati affascinare da un personaggio del genere. Per il resto è una nemesi nei confronti di un giustizialista che ha sempre sputato veleno sugli indagati, ma la sua reazione è così squallida che, di fronte ai gravi problemi di cui stiamo parlando, non merita altri commenti».

La credibilità della magistratura presso gli italiani è crollata al 30%: come si spiega questo e il successo del libro-confessione di Palamara?

«Mi stupisco che sia ancora così alta».

Carlo Nordio: "Loggia Ungheria, mi sembrano strane le parole di Piercamillo Davigo. Ci vuole una commissione d'inchiesta". Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. L'ex magistrato Carlo Nordio entra nel merito del caso Amara e della cosiddetta loggia Ungheria. Ospite ad Omnibus, su La7, nella puntata di oggi 3 maggio dice: "Non ho letto gli atti e credo che le cose non siano andate così. Quello che dico adesso è ipotetico. La stessa giustificazione della cautela che avrebbe giustificato l'uscita dei verbali è ridicola. Se però così fosse non è vero quello che avrebbe detto Piercamillo Davigo che non sono opponibili i segreti istruttori al Csm. Anzi". "Piercamillo Davigo dice di avere informato ‘chi di dovere’. Bisogna chiedere a lui. Solo attraverso un procedimento formale il magistrato che si ritenga oggetto di doverosa cautela può chiedere di trasmettere gli atti". "È lecito sapere con chi ha parlato?", si chiede Nordio. "Mi sembrano strane le parole di Davigo". Quindi ecco la proposta di Carlo Nordio dopo gli ultimi scandali che hanno coinvolto le toghe: "Propongo una commissione parlamentare d'inchiesta sulla magistratura. Se non vogliamo che tutto resti fermo qualcuno deve indagare. Su questi rapporti ambigui tra magistrati e politica la magistratura non indagherà mai per due ragioni. Primo perché non c'è reato anche se c'è mercimonio di cariche che sono politicamente molto rilevanti. Secondo perché c'è un conflitto d'interessi interno alla stessa magistratura". Il caso dei verbali secretati dalla Procura di Milano, consegnati all'ex pm Davigo e poi finiti nelle redazioni dei giornali sfiora, inevitabilmente, anche Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica giovedì torna al Csm che presiede di diritto, lo stesso Csm di cui era membro Davigo all'epoca dei fatti, inizio 2020. Una storia pesantissima, come le dichiarazioni dell'avvocato d'affari Piero Amara che in quei verbali tirava in ballo una potentissima loggia segreta "Ungheria" composta da toghe e ufficiali della guardia di finanza, e ancora di raccomandazioni all'allora avvocato Giuseppe Conte per una consulenza molto ben retribuita.

La Loggia Ungheria. Loggia Ungheria, tutti chiedono commissione d’inchiesta tranne il M5S. Angela Stella su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Il nuovo terremoto che si è abbattuto sulla magistratura e che chiama in causa la Procura di Milano, l’ex Consigliere del Csm Piercamillo Davigo, "corvi" e logge segrete ha scosso naturalmente anche i palazzi della politica. L’onorevole di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ex laico del Csm dichiara al Riformista: «Pur se in attesa di definire i contorni, si tratta comunque di una vicenda torbida: all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura c’è un corvo. In più traspare poca linearità da parte di diversi protagonisti sia dentro che fuori il Csm. Su tutto questo dovrà indagare la magistratura. In generale si tratta di un ulteriore gravissimo scandalo che getta discredito sulla magistratura.  Al posto del dossieraggio, i magistrati hanno tutti gli strumenti per fare gli accertamenti». Sulla via alternativa a quella di consegnare i fascicoli a Davigo, Zanettin ci precisa: «Credo che Storari avesse il dovere di trasferirli al Procuratore Greco per poi farli transitare, come previsto dalla legge, al Comitato di Presidenza del Csm che poi li avrebbe passati alla commissione di interesse o anche alla Procura generale di Cassazione che svolge gli accertamenti disciplinari nei confronti dei magistrati. La strada da lui intrapresa mi pare irrituale». Duro anche il commento del leader IV Matteo Renzi: «Incredibile. Per due anni ci hanno fatto credere che il problema fosse un singolo magistrato, Luca Palamara. Ogni giorno che passa scopriamo qualcosa di nuovo. Trovarsi un comodo capro espiatorio non è la soluzione, mai. E, infatti, i problemi nascosti sotto il tappeto continuano a venire fuori. Sono certo che il giudice Davigo – che da anni ci fa la morale in tutte le trasmissioni TV cui partecipa e dalle colonne de il Fatto Quotidiano – saprà spiegare questa strana vicenda». Per l’onorevole Gennaro Migliore di IV, «ci sono degli elementi da chiarire con grande precisione da parte dell’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo: lui ha ricevuto materiale riservato e anche la sua ex segretaria, da quello che si apprende da fonti di stampa, lo avrebbe diffuso ad altre persone». Gli chiediamo se tale vicenda possa rafforzare la necessità di una commissione di inchiesta sulla magistratura: «Essendo un caso specifico, credo che dovrebbe essere il Csm a prendere le distanze da quanto accaduto e a pretendere chiarezza». Mentre il deputato di Azione, Enrico Costa, ci aggiunge: «Non potendo intervenire su procedimenti in corso, posso però dire due cose. La prima è che è evidente che la vicenda accrescerà il distacco tra magistratura e cittadini e crea un certo disorientamento. La seconda è che gli atti giudiziari stanno da tutte le parti tranne dove dovrebbero stare». Per Walter Verini, deputato Pd della Commissione Giustizia, «la magistratura vive una crisi di credibilità. La stragrande maggioranza dei magistrati svolgono il loro lavoro al servizio della Giustizia. Gli stessi nuovi vertici dell’Anm sono impegnati in un’opera di rinnovamento. La politica deve chiedere chiarezza e accompagnare questa fase senza ingerenze improprie, ma con un’azione di riforma in grado di tutelare pienamente le istituzioni, di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura». Per le deputate e i deputati della commissione Giustizia del Movimento 5 Stelle « è una vicenda su cui è necessario fare la massima chiarezza. È sempre più urgente l’approvazione del disegno di legge di riforma del Csm. Ai rappresentanti di alcune forze politiche che ne approfittano per ribadire la presunta necessità di una commissione di inchiesta sulla magistratura, ribadiamo che non è nemmeno ipotizzabile che il Parlamento indaghi su un altro potere dello Stato». Di parere opposto l’onorevole di FI, Matilde Siracusano: «Forza Italia continua a ritenere indispensabile l’istituzione di una Commissione di inchiesta sulla magistratura. Serve una riforma, ma prima occorre avere tutti gli elementi di verità per poter operare al meglio». Angela Stella

Giuseppe Marino per il Giornale il 2 maggio 2021. Conversazioni intercettate illecitamente, frammenti di parole rubate, verbali trafugati, traballanti dichiarazioni di pentiti. Da anni è il materiale che alimenta l'informazione e il dibattito politico. Ogni spiffero, se è diretto contro all'avversario politico, diventa ciclone. E i magistrati non si limitano a spedire avvisi di garanzia, ma commentano nei talk show. Ora invece c'è una guerra nella magistratura combattuta con lettere anonime di corvi di palazzo, oscure trame, verbali insabbiati, toghe che si scambiano come figurine verbali coperti da segreto istruttorio. E improvvisamente scende il silenzio. Cronisti giudiziari d'assalto sempre pronti a invocare dimissioni di politici al primo sospetto, si ritrovano in mano rivelazioni contro i magistrati e si rivelano improvvisamente cauti, si muovono felpati, attendono coscienziosamente a pubblicare anche una sola riga per non turbare le indagini. E i politici invece di dire la propria, non fosse altro per prendersi una rivincita, si inabissano. Sono pochissimi i coraggiosi a far sentire la propria voce. «Storia tratta dal manuale del buon magistrato, voce segreto istruttorio», ironizza Enrico Costa, deputato di Azione. «Mi chiedo - dice Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Montecitorio - se dopo questo susseguirsi di scandali che ne compromettono ogni giorno di più la credibilità, c'è ancora qualcuno che si oppone alla commissione parlamentare di inchiesta sulla magistratura e al sorteggio per la nomina della componente togata del Csm». «Il Parlamento - gli fa eco la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini- non può stare a guardare: a questo punto la commissione d'inchiesta sulla giustizia diventa un passo obbligato, insieme alla riforma del Csm». Tra i leader dei partiti si fa sentire il solo Matteo Renzi, che va giù duro: «Sono certo che il giudice Davigo - che da anni ci fa la morale in tutte le trasmissioni Tv cui partecipa e dalle colonne de il Fatto Quotidiano - saprà spiegare questa strana vicenda». La magistratura, al solito, fa scudo a se stessa. Il vicepresidente del Csm Davide Ermini ventila il complotto, il Consiglio superiore della magistratura, dice, «non solo è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un'opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare, in un momento particolarmente grave per il Paese, la sfiducia dei cittadini verso la magistratura». Glissa sul fatto che i protagonisti della delegittimazione sono proprio magistrati. «Ormai - attacca Renzi - è evidente che il Csm è in difficoltà. E quando un'istituzione soffre, è un problema per tutti». In realtà non proprio per tutti. Il Pd si sveglia solo in serata e presenta una interrogazione alla Cartabia per fare chiarezza sulla vicenda. Il M5s, sempre pronto a invocare dimissioni preventive rispetto a qualunque accertamento della verità giudiziaria, in questo caso si accucciano comodamente in un placido garantismo: «Siamo certi che i pm romani che si occupano del caso faranno piena luce su questa grave vicenda». I pentastellati invocano perfino Montesquieu: «Ai rappresentanti di alcune forze politiche che ne approfittano per ribadire la presunta necessità di una commissione di inchiesta sulla magistratura, ribadiamo che non è nemmeno ipotizzabile che il Parlamento indaghi su un altro potere dello Stato». La separazione dei poteri marci.

Altro che P2. Cosa è la loggia Ungheria, l’organizzazione sovversiva che condizionava nomine in magistratura e negli incarichi pubblici. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Maggio 2021.

Il cosiddetto Sistema Siracusa. «Una delle più gravi, estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate», dichiarazione in udienza del sostituto procuratore generale di Messina Felice Lima. L’avvocato siciliano Piero Amara viene arrestato a febbraio del 2018 con l’accusa di aver creato una struttura, composta da professionisti e magistrati, finalizzata ad aggiustare i processi e a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato. Gli danno manforte il collega Giuseppe Calafiore e il pm della Procura di Siracusa Giancarlo Longo. Amara professionalmente aveva consolidato un ottimo rapporto con Eni, divenendone uno dei principali legali esterni. Ad arrestarlo, in una operazione congiunta, sono le Procure di Roma e Messina. Associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale e alla corruzione in atti giudiziari, alcuni dei reati contestati. Insieme ad Amara, Calafiore e Longo viene arrestato il giudice Riccardo Virgilio, presidente di sezione a Palazzo Spada.

La collaborazione. Amara rimane molto poco agli arresti, iniziando subito una collaborazione con gli inquirenti che lo porterà a patteggiare una pena sotto i quattro anni, evitando così il carcere. Chi non è convinto della bontà del “pentimento” di Amara è il pm romano Stefano Rocco Fava che, agli inizi del 2019, in un procedimento si imbatte nell’avvocato siciliano. Fava chiede l’arresto per Amara. Dai riscontri in possesso del magistrato, pur in pendenza dei procedimenti penali, Amara avrebbe ricevuto la cifra di 25 milioni di euro da Eni, poi diventati 80. Il motivo di questa corposa dazione, che avrebbe reso ricattabili i vertici Eni, sarebbe legata proprio alla corruzione di Longo per procedimenti a tutela dell’amministratore delegato del colosso petrolifero Claudio Descalzi presso le Procure di Trani e Siracusa. Amara, secondo Fava, non aveva poi detto tutto quello di cui era a conoscenza sulle corruzioni.

Il depistaggio. Amara, tramite false denunce, aveva orchestrato un complotto per depistare i pm di Milano che stavano indagando i vertici dell’Eni per corruzione internazionale. Ad essere coinvolti nella macchinazione, l’amministratore delegato di Saipem Umberto Vergine e il consigliere indipendente del colosso petrolifero Luigi Zingales. Il fascicolo arriva a Milano ed è assegnato al pm Paolo Storari e all’aggiunto Laura Pedio. Storari interroga a maggio del 2019 Salvatore Carollo, un manager di Eni, che racconta di aver saputo da Amara che esisteva un “blocco di potere con i servizi segreti” di cui l’avvocato siciliano faceva parte. Nel frattempo a Roma l’aggiunto Paolo Ielo respinge la richiesta di Fava di arrestare Amara. Il procuratore Giuseppe Pignatone toglierà al magistrato il fascicolo. Fava, allora, presenterà un esposto al Csm segnalando mancate astensioni in alcuni procedimenti da parte di Ielo e Pignatone.

Il Palamaragate e il ritorno a Milano. A cominciare dall’estate del 2019, dopo lo scoppio del Palamaragate, Amara avvia una collaborazione con la Procura di Perugia, divenendo uno dei principali accusatori dell’ex zar delle nomine al Csm, indagato per corruzione. Amara, a fine 2019, torna nuovamente alla Procura di Milano e rende ben quattro interrogatori in meno di un mese davanti all’aggiunto Pedio e al sostituto Storari nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. Pedio è uno degli aggiunti maggiormente legati al procuratore Greco. Nei verbali si fa riferimento ad una loggia segreta denominata “Ungheria”.

Il viaggio a Roma e le indagini. Storari, percependo una inerzia (smentita invece dai diretti interessati) da parte dei suoi capi in questa vicenda, non propensi ad indagare i soggetti chiamati in causa da Amara, a marzo del 2020 consegna i verbali con le testimonianze di Amara a Piercamillo Davigo al Csm. Storari lascia i verbali in formato word, non firmati. Davigo, che trattiene i verbali, avrebbe (il condizionale è d’obbligo, ndr) informato allora i vertici del Csm, il capo dello Stato Sergio Mattarella e il vice presidente David Ermini. A marzo del 2020 il Csm nomina Michele Prestipino nuovo procuratore di Roma. E proprio in quel mese Davigo cessarà di aver rapporti con il togato Sebastiano Ardita, suo fedelissimo. La chiusura delle indagini a Perugia a carico di Palamara avviene ad aprile, con il deposito delle terribili chat. Il 17 giugno dello stesso anno Raffaele Cantone diventa procuratore di Perugia nonostante il voto contrario di Davigo e di Nino Di Matteo. Il processo a Palamara inizierà a luglio e, dopo la sospensione feriale, si concluderà il 9 ottobre con la radiazione del magistrato. Il 19 ottobre è l’ultimo giorno di servizio di Davigo. Contro la sua permanenza voterà Di Matteo.

L’invio dei verbali ai giornali. A fine ottobre la funzionaria del Csm Marcella Contrafatto, legata al magistrato romano Fabio Gallo – uno degli esponenti di punta della corrente di Davigo Autonomia&indipendenza a piazzale Clodio – e segretaria dell’ex pm di Mani Pulite, dopo aver lavorato con il togato Aldo Morgigni (A&i), invia questi verbali in busta anonima al Fatto Quotidiano e a Repubblica. I giornalisti che ricevono le carte decidono di non pubblicarle per rispetto della “giustizia” e fanno denuncia in Procura. Andrea Massari del Fatto, in particolare, si reca a Milano, la Procura che, secondo Storari, sarebbe rimasta inerte su queste carte. I verbali arrivano anche a Di Matteo che le manda a Perugia e ne dà notizia questa settimana in Plenum. Nelle carte compare il nome di Ardita. «Una palese calunnia da parte di Amara», ha puntualizzato il pm antimafia. Il pg della Cassazione Giovanni Salvi ha negato di aver mai saputo nulla del contenuto di questi verbali: «Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte del Consigliere Davigo o di altri di copie di verbali di interrogatorio resi da Piero Amara alla Procura di Milano – ha dichiarato ieri una nota – Di ciò ho appreso solo a seguito delle indagini delle Procure interessate e della conseguente perquisizione nell’ufficio di una funzionaria amministrativa. Si tratta di per sé di una grave violazione dei doveri del magistrato, ancor più grave se la diffusione anonima dei verbali fosse da ascriversi alla medesima provenienza. Non appena pervenuti gli atti necessari da parte delle Procure competenti, la Procura generale valuterà le iniziative disciplinari conseguenti alla violazione del segreto, per la parte di sua spettanza». Ermini si è dichiarato “estraneo” a quanto sta accadendo, ricordando di aver subito sospeso dal servizio la dottoressa Contrafatto. Storari, infine, ha dichiarato di essere pronto ad essere sentito dal Csm.

Cosa c’è nei verbali? Una loggia super segreta composta da magistrati, alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri e della guardia di finanza, professionisti ed imprenditori per condizionare nomine in magistratura e negli incarichi pubblici. Perché Ungheria? Escludendo il richiamo al Paese dell’est Europa, il riferimento potrebbe essere alla piazza dei Parioli. Una piazza importante: è alle spalle del Comando generale dell’Arma e vi ha l’abitazione un importantissimo magistrato, ora in pensione.

La pubblicazione. La pubblicazione del contenuto è iniziata la settimana scorsa da parte del Domani. Il primo ad essere tirato in ballo è stato il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi che avrebbe indotto Amara a non licenziare l’esperta di relazioni istituzionali e sua amica Giada Giraldi, assunta in una delle società dell’avvocato siciliano, con un contratto di circa 4-5mila euro al mese, a seguito di una raccomandazione del faccendiere laziale Fabrizio Centofanti. Amara avrebbe detto di aver assunto nel 2017 Giada Giraldi per fare un piacere all’allora influente presidente della Quarta sezione del Consiglio di Stato. Patroni Griffi, però, sarebbe stato il presidente del collegio che doveva decidere in un contenzioso tra due società e il titolare di una di queste era assistito dallo stesso Amara. Poi è stato il turno dell’ex premier Giuseppe Conte, segnalato da Amara per una consulenza per la società Acqua marcia, controllata da Francesco Bellavista Caltagirone, da 400 mila euro. A fare il nome di Conte sarebbe stato Michele Vietti, ex presidente del Csm. Dopo aver lavorato come consulente in Acqua Marcia, finita in concordato, Conte aveva svolto una attività per un imprenditore pugliese, Leonardo Marseglia, nella compravendita del Molino Stucky, stupenda struttura extralusso che sorge sull’isola della Giudecca, e nel portafoglio della società di Caltagirone. Sulla carta un potenziale conflitto d’interessi, dal momento che Conte aveva lavorato prima come consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato) poi con Marseglia, che di quel concordato aveva beneficiato.

Le reazioni. «Non ho mai ricevuto verbali da alcuno, forse perché non avevo pubblici ministeri amici: su questa vicenda si è inteso fare del Csm una sorta di organo di giustizia domestica», è la sintesi dell’ex laico del Csm Antonio Leone. «Insomma – aggiunge Leone – secondo le prime ricostruzioni, un pm di Milano che non riesce a farsi autorizzare ad iscrivere una notizia di reato si rivolge per tutelarsi dai suoi capi ad un consigliere del Csm e gli consegna le carte. Il consigliere non informa tutto il Consiglio ma in maniera molto informale i vertici. Non si capisce chi abbiano allora informato i vertici, forse il Padreterno. A parte la battuta una cosa è certa: fra autotutele e non opponibilità del segreto d’ufficio ai consiglieri (mi sembra per violazione del segreto alcuni consiglieri del Csm siano stati indagati) c’è sempre più confusione», ha concluso Leone. Sulla vicenda è intervenuto anche Luca Palamara. Interpellato dall’Adnkronos, l’ex zar delle nomine ha dichiarato: «Sono sicuro che con l’impegno delle istituzioni tutta la verità verrà fuori. Questo Paese merita trasparenza e il coraggio delle opinioni libere. Una volta che la verità non verrà più mistificata». Paolo Comi

Era peggio di come diceva Il Riformista. Loggia Ungheria, lo scandalo che travolge la magistratura nascosto dai giornali e svelato da Di Matteo. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Maggio 2021. Pensavo che piovesse. Invece grandina. Questo giornale da un anno e mezzo, cioè da quando è tornato in edicola, parla tutti i giorni del degrado che sta travolgendo il vertice della magistratura italiana. E dell’asservimento del giornalismo giudiziario alle Procure. Ci siamo beccati anche un sacco di querele, e di polemiche, per la nostra denuncia quotidiana. Però neanche noi potevamo immaginare che si fosse arrivati a questo punto. Quello che sta emergendo a proposito della Loggia Ungheria che aveva sostituito il Csm (all’insaputa di una parte del Csm), a proposito dei verbali segreti che venivano smerciati in vario modo, e degli occultamenti, e del silenzio dei giornali, e del coinvolgimento di Davigo, e della denuncia di Di Matteo, e dei tentativi di travolgere anche il presidente della Repubblica, e dei guai di Conte, e delle riunioni incappucciate… beh tutto questo ci dice che, in fondo, siamo anche noi dentro quel “pensiero unico” che non riesce ad avvicinare la realtà e resta sempre basso basso, affidandosi a una modesta immaginazione. Avevamo, sì, accostato la cupola della magistratura (come è stata definita da diversi magistrati anche abbastanza moderati) al ricordo della P2. Ma eravamo molto ottimisti. La P2 – come hanno ricordato recentemente sulle nostre pagine Paolo Guzzanti e David Romoli – era una associazione segreta di modesta potenza, che non commise grandi crimini e che alla fin fine riuscì solo ad appropriarsi del controllo sul Corriere della Sera. Qui parliamo invece di una organizzazione assai più potente. Micidiale. Che sostituisce le istituzioni e non controlla semplicemente un giornale ma tutta la macchina della giustizia. E che orienta la giustizia, decide le nomine, i poteri e soprattutto le inchieste e le sentenze. Abbattendosi come una schiacciante dittatura sulla politica, che la conosce e ne è terrorizzata, e sulla vita personale di centinaia di migliaia di cittadini che finiscono nel tritacarne, immaginano di trovarsi di fronte a una macchina imparziale e ad alto contenuto morale, e invece si trovano di fronte a una combriccola che non si occupa minimamente di diritto ma solo di potere. Ed è capace di spaventose vessazioni. Processi infiniti, carcere, gogna, condanne. Avete capito? Provo a ricapitolare la storia in modo ultra-sintetico. Dunque, un Pm milanese di grande prestigio (l’erede, dicono, della Boccassini) interroga l’avvocato Amara, che è anche il teste chiave sul quale è stato costruito il processo a Palamara. Immagino quindi che sia un teste considerato attendibile. Questo teste dice una quantità enorme di cose che gettano un’ombra cupa su molti magistrati, inguaia anche l’ex premier Conte, e – pare – denuncia l’esistenza di questa Loggia Ungheria, che probabilmente prende il nome da piazza Ungheria a Roma. Per qualche ragione che noi non conosciamo, e che non viene chiarita, il Pm (che si chiama Storari) trova intralci alle sue indagini, e allora prende il fascicolo con tutte le dichiarazioni dell’avvocato Amara – che evidentemente non considera un pallonaro, altrimenti avrebbe dovuto indagarlo per calunnia – va a Roma e lo consegna a un mostro sacro della magistratura (e del partito dei Pm) come Piercamillo Davigo, che in quel momento è consigliere del Csm e la cui corrente fa parte della maggioranza rosso-bruna (estrema destra più estrema sinistra) che all’epoca governa il Consiglio superiore. Davigo, ricevuto il plico, che fa? Lui ha dichiarato: “avverto chi di dovere”. E chi sarebbe? E che vuol dire “avverto”? Boh. Il giornale del quale è editorialista e consigliere numero uno del direttore, cioè il Fatto (al quale gli scandali piacciono moltissimo, ma non tutti, questo per esempio piace pochissimo…) cerca di difenderlo chiamando in causa Mattarella. Dice: Piercamillo lo ha detto a Mattarella, lo ha detto a Mattarella… Sarà vero? Speriamo di no. Altrimenti lo scandalo supererebbe in gravità tutti gli scandali precedenti, da quello della banca Romana di 130 anni fa in poi. Comunque, a quanto pare, Davigo (che avrebbe ricevuto questi documenti sconvolgenti un anno fa), non consegna il plico al Csm. Tace. In quei giorni lui sta combattendo la sua battaglia personale (aiutato anche dalla politica e da alcuni gruppi parlamentari) per restare in Csm, illegittimamente, dopo la pensione. Ma questa battaglia la perde. A ottobre deve lasciare. E cosa succede a ottobre? A quanto pare la sua segretaria consegna il plico prima a Repubblica poi al Fatto Quotidiano. È un reato. I due giornali, che hanno sempre pubblicato vagonate di intercettazioni coperte dal segreto sostenendo la tesi che il diritto di cronaca è diritto di cronaca, stavolta diventano serissimi. Dicono: no, non possiamo pubblicare perché c’è il segreto. E così la cosa resta incappucciata. Ma alla fine, dice la storia, c’è sempre il rischio che esca fuori qualcuno che si accorge che il re è nudo e, ingenuamente, lo fa notare. Chi é? È Nino Di Matteo. Anche lui, recentemente, ha ricevuto il plico. Dice di non sapere da chi. Che è stata una spedizione anonima. Proviamo a indovinare: o dal sostituto milanese o da Davigo, o dal suo entourage, a occhio. Comunque Di Matteo ci pensa qualche giorno e poi denuncia. Come è suo dovere. “Ho un plico. È pieno di calunnie”. Già, ma chi l’ha detto che sono calunnie? Neanche Di Matteo, forse, ci crede molto. È solo che deve mantenere quel minimo minimo di diplomazia. A questo punto lo sputtanamento è generale. Repubblica reagisce denunciando tutto in modo gridato: con un titolo di apertura in prima pagina. Giusto. Un po’ tardi? Beh, sì, un po’ tardi. Il Fatto invece inguatta la notizia a pagina 6. Il povero Antonio Massari è lasciato solo a firmare tutti i pezzi. Gli dicono: veditela tu, non tirarci in mezzo. Almeno un editorialino di Travaglio? Implora Massari. Lascia stare, Travaglio è preso da Pietrostefani, non ha tempo… E in prima pagina il Fatto continua a scagliarsi contro Renzi che ha scritto un articolo filo-arabo e a denunciare il fallimento della campagna vaccinale proprio nel giorno in cui si raggiungono i 500 mila vaccini. So’ pure sfortunati. Succede. E ora? Beh, a noi non è mai piaciuto l’eccesso di inchieste della magistratura. Ma qui è impossibile fingere di non vedere i reati. Vorremmo sapere innanzitutto chi era in questa Loggia, e poi capire in che modo si procederà, dal punto di vista giudiziario, nei confronti dei magistrati coinvolti. Soprattutto il Pm milanese Storari (che ha dato i documenti a Davigo) e Davigo che non li ha dati al Csm. Qui ci vorrebbe un Pm per capire quali possano essere i reati da contestare. Faccio io, a occhio: rivelazioni di segreto d’ufficio (articolo 326 del codice penale, pena massima 3 anni), omessa denuncia (art. 361, pena massima 1 anno), abuso d’ufficio (art. 323, pena massima 4 anni), favoreggiamento ( art. 378, pena massima 4 anni)…Tranquilli, sto scherzando: io spero che nessuno indaghi Davigo né nessun giustizialista amico suo. Certo, se le parti fossero invertite, e se fossimo noi del Riformista i sospettati e Davigo l’inquisitore, sarebbero guai seri: probabilmente ci troveremmo addosso anche l’accusa di ricettazione (art. 648, pena fino a 8 anni) e peculato (art. 314, pena fino a dieci anni) e a quel punto, vista l’alta probabilità di inquinamento delle prove, ci sarebbe anche l’arresto! Per fortuna che le parti non sono invertite…

P.S. Niente paura. Su tutto questo casino indagherà la Procura di Roma. Il procuratore è stato nominato con il contributo decisivo di Davigo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Dalle carte di Amara altra bomba sulla giustizia: c’era pure la P2 dei magistrati e Davigo sapeva…Adele Sirocchi sabato 1 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Dopo Tangentopoli arriva Giustiziopoli. Così titola oggi in prima pagina il Giornale a proposito dell’ulteriore scandalo che travolge il sistema giustizia. E che prende le mosse dagli atti dell’interrogatorio del faccendiere Piero Amara, avvocato esterno dell’Eni.

Un’incredibile storia di veleni che porta alla P2 dei magistrati. Alessandro Sallusti riassume così la storia di veleni che ha portato a galla una “P2 dei magistrati”. “Quello che è successo negli ultimi mesi – scrive Sallusti – ha dell’incredibile: verbali segreti con pesanti accuse all’ex presidente del Consiglio Conte, ad importanti magistrati e uomini di Stato prima insabbiati, poi consegnati, non si capisce a che titolo, nelle mani di Piercamillo Davigo che invece di fare pubblica denuncia ne parla con il presidente Mattarella e tutto viene messo a tacere; giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica che ricevono informazioni a tal riguardo e che invece di indagare, verificare ed eventualmente scrivere (che sarebbe il loro mestiere) questa volta decidono di rivolgersi alla Procura della Repubblica e per mesi fanno finta di niente; una procura, quella di Perugia, che ipotizza l’esistenza di una loggia segreta di magistrati, politici e professionisti sul tipo della P2, la «loggia Ungheria».

Cosa c’è nei verbali di Amara. Cosa c’è nelle rivelazioni di Piero Amara (che parla a fine 2019)? Si parla di uomini delle istituzioni, tra cui Giuseppe Conte, e si parla di una loggia cui questi soggetti facevano capo. Sono tre i gruppi di cui parla il faccendiere Piero Amara ai pm di Milano come iscritti ad una loggia massonica chiamata «Ungheria»: magistrati romani del tribunale fallimentare, magistrati catanesi come il togato del Csm Sebastiano Ardita e alti ufficiali della Guardia di Finanza.

Le carte finiscono nelle mani di Davigo. Che succede a questo punto? Il pm Paolo Storari consegna queste carte a Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite e fino a pochi mesi fa consigliere del Csm. E lo fa perché la Procura di Milano non vuole aprire un’indagine sulle rivelazioni di Piero Amara. Storari, in conflitto con il procuratore capo Francesco Greco, si rivolge dunque a Davigo.

L’imbarazzante nome fatto da Amara: quello del magistrato Ardita. Davigo, a sua volta, non informa il plenum, ma parla dei contrasti sorti a Milano, proprio sui verbali di Amara, con il vicepresidente del Csm Davide Ermini e, più nel dettaglio, con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi cui però non consegna le carte. Ma c’è un dettaglio: nelle carte di Amara, si fa riferimento anche a Sebastiano Ardita, che insieme con Piercamillo Davigo ha fondato – per dirla con Augusto Minzolini – la “corrente più giacobina del sindacato togato”.

L’impiegata del Csm manda i verbali ai giornali. Che insabbiano. Le carte arrivano però anche ai giornali: a mandargliele è una funzionaria del Csm e assistente di Davigo, Marcella Contrafatto, vicina alla pensione. Ora è indagata dalla Procura di Roma (mentre a Perugia si indaga sulla presunta loggia Ungheria) e si è rifiutata di per ora di rispondere sul perché ha spedito quelle carte a Repubblica e al Fatto quotidiano. I quali insabbiano. Se – commenta ancora Minzolini – in quei verbali ci fossero stati i nomi di Berlusconi, Renzi o Salvini, avremmo avuto le prime pagine dei giornali e le conferenze stampa. Invece…

Il Quirinale irritato dalle rivelazioni. Intanto il vicepresidente del Csm Ermini dice che l’organo di autogoverno della magistratura è del tutto estraneo a questa a queste “manovre opache e destabilizzanti”. Il Quirinale non commenta anche se la sibillina frase di Davigo: “Ho informato chi di dovere” sembra tirare in ballo proprio il Colle più alto. Il fango sulla magistratura italiana ormai non si può più ignorare.

Carte per un anno in mano a Davigo. Lui ora si difende e spara su Greco. Stefano Zurlo l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. L'ex pm contro il procuratore capo di Milano. Ma parlò del fascicolo anche con il pg Salvi, che spiega: "Non disse che aveva i verbali". Lanzi (Csm): "Nessuno si fida più di nessuno". Accade mercoledì scorso al Csm. Nino Di Matteo si alza e comunica al plenum: «Ho ricevuto un verbale con notizie diffamatorie se non calunniose nei confronti di un consigliere. Ho trasmesso questo verbale già un mese fa alla procura di Perugia». Ma quel verbale, anzi tutti i verbali dell'avvocato Piero Amara, anche se coperti da segreto, erano già da un anno nelle mani di un altro autorevole membro del Csm, Piercamillo Davigo, oggi fuori per limiti anagrafici. E Davigo sceglie un altro percorso, ancora non del tutto chiaro. Non informa il plenum, ma parla dei contrasti sorti a Milano, proprio sui verbali di Amara, con il vicepresidente del Csm David Ermini e, più nel dettaglio, con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi cui però non consegna le carte. Pagine e pagine di deposizioni assai traballanti della gola profonda che sembra raccontare troppi particolari fantastici e che il pm di Milano Paolo Storari ha deciso di consegnare all'inizio di tutta questa storia in modo altrettanto irrituale a Davigo. Come si vede, siamo dentro un intrigo dai contorni poco edificanti e in cui molti passaggi risultano a dir poco sconcertanti. La procura di Milano, alle prese con un personaggio così ambiguo e scivoloso, rallenta o ritarda l'iscrizione della notizia di reato e allora Storari, pm universalmente stimato, si rivolge a Davigo, quasi per autotutelarsi. Davigo segue una sua strada: certo non dice mezza parola a Sebastiano Ardita, uno dei bersagli di Amara che con lui ha creato il gruppo di Autonomia e indipendenza condividendo l'esperienza al Csm, prima di rompere però nell'ultimo anno ogni rapporto. «Siamo in un contesto in cui sembra che nessuno si fidi più di nessuno», spiega al Giornale Alessio Lanzi, consigliere laico di Palazzo dei Marescialli. Certo, siamo dentro una geografia terremotata, al crocevia di corvi, che mandano in busta anonima ai giornali le dichiarazioni di Amara, veleni e manovre che si fatica a comprendere. Storari dunque non si intende con il capo dell'ufficio Francesco Greco e va da Davigo. E l'ex pm di Mani pulite? «Ho informato chi di dovere», è la sua risposta laconica prima di puntare il dito, se le parole hanno un senso, proprio contro la procura di Milano e Greco, che, combinazione, con Davigo condivise Mani pulite: «Ritengo inusuale quello che era accaduto a monte, cioè che un sostituto procuratore lamentasse che non gli consentivano di iscrivere una notizia di reato. Non posso parlare del contenuto dei verbali - spiega Davigo al Tg2 - posso solo dire che per fare le indagini bisogna iscrivere una notizia di reato, che siano vere o false le cose dette, e non è pensabile di ritardarle ingiustificatamente. Quindi Storari per tutelarsi ha informato una persona che conosceva e io ho ritenuto di informare chi di dovere». «Non c'è stato nulla di irrituale - insiste Davigo - perché il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm». Ma forse non è così. Anzi, le cose si ingarbugliano di nuovo. «Il consigliere Davigo - afferma Salvi - disse che vi erano contrasti a Milano circa un fascicolo molto delicato e che, a dire di un sostituto, rimaneva fermo». Tutto bene? No, per niente: «Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte di Davigo di atti o copie dei verbali di interrogatorio di Piero Amara. Si tratta di per sé di una grave violazione dei doveri del magistrato». Tutti i segmenti di questa vicenda appaiono anomali e meritevoli di approfondimento, se non di ulteriori indagini almeno sul versante disciplinare. Salvi conferma almeno i frutti del colloquio con Davigo: «Informai immediatamente Greco. Si convenne sull'opportunità di coordinamento con le procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo». E Greco? «Spaccatura in procura a Milano? - è la sua replica - ma quale spaccatura».

Veleni tra pm, Davigo: «Indagini su Amara tardive». Verbali di interrogatori “sconvolgenti” dati ai giornali da un’ex segretaria di Davigo. Le logge segrete. E le nuove accuse fra toghe. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'1 maggio 2021. La loggia “Ungheria” rischia di affossare ancora di più la credibilità della magistratura. I verbali delle testimonianze rese dall’avvocato Piero Amara, il principale accusatore a Perugia dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, stanno infatti terremotando in queste ore il Csm. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e dal pm Paolo Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni- Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta, composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare al togato del Csm Piercamillo Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela.

Davigo avrebbe informato il vertici del Csm. Davigo, a propria volta, pare avesse informato i vertici del Csm. Ad iniziare dal Capo dello Stato. Lo scorso ottobre, andato in pensione l’ex pm di Mani pulite, la sua segretaria al Csm, Marcella Contrafatto, aveva provveduto a inoltrarli alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. I due giornali, ricevuto il materiale, avevano però deciso di non pubblicarlo e di denunciare in Procura l’accaduto. Contrafatto era quindi stata sospesa dal servizio e indagata dalla Procura di Roma. Davigo ieri ha difeso il proprio operato sul punto, sottolineando che «c’è stato un ritardo non conforme alle disposizioni normative nell’iscrizione della notizia di reato, e un ritardo conseguente nell’avvio delle indagini: non è questione di lotte interne, è questione che c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità; che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo».

Il pg della Cassazione Giovanni Salvi: «È una grave violazione dei doveri del magistrato». «Ma quale spaccatura?», è stato invece il commento del procuratore di Milano, Francesco Greco, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse uno scontro all’interno della Procura milanese in relazione alla decisione di Storari di consegnare i verbali a Davigo per inerzia nelle iscrizioni. «Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte di Davigo o di altri di copie di verbali di interrogatorio resi da Amara alla Procura di Milano. Di ciò ho appreso solo a seguito delle indagini delle Procure interessate e della conseguente perquisizione nell’ufficio di una funzionaria amministrativa». Così il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: «Si tratta di per sé di una grave violazione dei doveri del magistrato, ancor più grave se la diffusione anonima dei verbali fosse da ascriversi alla medesima provenienza. Non appena pervenuti gli atti necessari da parte delle Procure competenti, la Procura generale spiega Salvi – valuterà le iniziative disciplinari conseguenti alla violazione del segreto, per la parte di sua spettanza». Salvi ha confermato di aver avuto con Davigo una interlocuzione: «Nella tarda primavera dell’anno passato mi disse che vi erano contrasti nella Procura di Milano circa un fascicolo molto delicato che riguardava anche altre Procure e che, a dire di un sostituto, rimaneva fermo; nessun riferimento fu fatto a copie di atti. Informai immediatamente – aggiunge infine Salvi – il procuratore della Repubblica di Milano. In un colloquio avvenuto nei giorni successivi nel mio ufficio, il 16 giugno, Greco mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne – spiega ancora – sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo».

Ermini: «Csm obiettivo di un’opera di delegittimazione e condizionamento». Da parte di Storari, verosimilmente indagato a Brescia per rivelazione del segreto, ci sarebbe la disponibilità ad essere ascoltato dal Csm. Il vicepresidente David Ermini, chiamato in causa, ha dichiarato che il Consiglio superiore «non solo è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un’opera di delegittimazione e condizionamento» . Fra i componenti della loggia, secondo i verbali avvelenati, vi sarebbe un togato Csm, e magistrato apprezzatissimo per le proprie indagini sulla mafia, come Sebastiano Ardita, ex davighiano. «Una calunnia», ha subito affermato un altro togato Nino Di Matteo, dopo aver ricevuto anch’egli i verbali di Amara. Interrogata dai pm, Contrafatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Non si escludono colpi di scena. Qualche toga starebbe valutando la possibilità di denunciare i consiglieri del Csm che hanno utilizzato le chat di Palamara e le dichiarazioni di Amara per i procedimenti disciplinari e di incompatibilità ambientale.

Sergio Mattarella, la "forte irritazione" con Piercamillo Davigo: nessun dossier al Colle. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. A Sergio Mattarella non è arrivato nulla da parte di Piercamillo Davigo né da altri. Non c'è stata nessuna telefonata, nessuna segnalazione sul caso Amara, sui verbali segreti o sulla loggia Ungheria. Anzi, il presidente della Repubblica, rivela Il Giornale, è fortemente irritato per il tentativo di coinvolgerlo in questa bufera. Mattarella vuole restarne fuori, quindi non smentirà nulla, non dirà niente. Niente sui politici coinvolti, sui dossier mandati ai giornali, sulle "rivelazioni" di Amara, sugli scontri all'interno del Csm. Nulla dirà il presidente sul pm di Milano, Paolo Storari, che preoccupato smista il faldone a Davigo perché faccia qualcosa e Davigo che allora è nel Csm che dice di aver riferito tutto al Quirinale. Ma come, non erano atti riservati? Ma davvero, dopo il caso Palamara, funziona ancora così?, si chiede il Giornale. "Nulla di irrituale è stato commesso - si difende adesso l'ex leader di Autonomia e Indipendenza - Ho informato chi di dovere, di che cosa dovrei pentirmi?". Ma "a chi di dovere" non risulta nulla. Quindi al Colle ci si chiede che cosa ci sia dietro, quale sia la regia. Perché si vuole tirare in mezzo il presidente? Perché si deve insinuare che Mattarella sapeva della loggia Ungheria o dei problemi dell'inchiesta e non è intervenuto? Il tutto peraltro dopo le ferite aperte dal caso Palamara. Tant'è, il tentativo di coinvolgere il capo dello Stato sembra destinato a spegnersi sul nascere. "Il problema non si pone neanche", non serve nemmeno una precisazione ufficiale. Niente di niente. Del resto è vero che Mattarella è il capo del Csm ma non ha alcun potere operativo. Forse qualcun altro deve intervenire al suo posto. Come Davide Ermini, vicepresidente dell'organo di autogoverno della magistratura.

Salvi furioso: “Grave violazione dei doveri del magistrato”. Magistratura governata da loggia segreta: Davigo sapeva, verrà indagato? Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Maggio 2021. Probabilmente negli ultimi anni la magistratura italiana è stata governata da una loggia segreta. Si chiamava “Loggia Ungheria”, e da quello che si capisce aveva preso il posto del Csm (all’insaputa di una parte del Csm). Neppure noi del Riformista, sempre molto critici e sospettosi nei confronti delle toghe, in particolare dei Pm, saremmo mai arrivati a immaginare una cosa del genere. Se è vero, altro che P2! Una vera e propria azione sovversiva. Fantasia? E invece l’ipotesi è stata presa seriamente in considerazione da un importante magistrato milanese, Paolo Storari, che ha ricevuto l’informazione dall’interrogatorio dell’avvocato Piero Amara. Storari ha tentato di indagare, ma dice di essere stato fermato. Da qualcosa, da qualcuno. Allora ha chiesto aiuto a un suo amico: Piercamillo Davigo, che all’epoca (siamo nel marzo del 2020) era consigliere del Csm. Davigo cosa avrebbe dovuto fare, a quel punto, e cosa ha fatto? Avrebbe dovuto denunciare e informare il Csm. Non lo ha fatto. Il Fatto Quotidiano, che accorre sempre a difesa del suo magistrato preferito, sostiene che avrebbe avvertito Mattarella. Speriamo che non sia vero, altrimenti esploderebbe una crisi istituzionale inimmaginabile. Comunque, silenzio per mesi: fino a ottobre. Poi Davigo, costretto a lasciare il Csm suo malgrado, e per questo furioso, molla il plico avuto da Storari, e il plico arriva a due giornali: la Repubblica e Il Fatto. Non si sa se abbia preso personalmente l’iniziativa o se l’iniziativa sia della sua segretaria. Comunque i giornali che hanno ricevuto i plichi li inguattano. Per la prima volta dopo tanti anni decidono che il materiale coperto da segreto non si può pubblicare. Fino a ottobre l’avevano sempre fatto. A rompere l’omertà è Nino Di Matteo, il quale qualche giorno fa riceve anche lui il plico e fa quello che si deve fare: informa il Csm e l’autorità giudiziaria. Scoppia il casino. Ieri la reazione più aspra è stata quella di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione. Ha detto: “Verbali recapitati a Davigo? Grave violazione dei doveri del magistrato”. Ermini invece (vicepresidente del Csm) ha dichiarato: “Vogliono delegittimare la magistratura”. Oddio, Ermini, possibile che non ti sei accorto che la magistratura ormai di legittimo non ha neppure la toga? Intanto Roma ha aperto un’inchiesta. Davigo sarà indagato? Difficile evitarlo. Sarà indagato dal Procuratore che gli deve la nomina a Procuratore. Così è la vita.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ha ragione Davigo. I veri colpevoli la faranno franca. Alessandro Sallusti l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Il "sistema", mandato sotto pressione dalle rivelazioni di Luca Palamara, va in tilt ed è ora a un passo dall'implosione. Il «sistema», mandato sotto pressione dalle rivelazioni di Luca Palamara, va in tilt ed è ora a un passo dall'implosione. L'intreccio tra magistratura, politica e informazione che ha condizionato la vita democratica al riparo da occhi indiscreti, una volta smascherato non regge più il gioco (sporco), dopo vent'anni di successi, se tali si possono definire le decapitazioni per via giudiziaria della classe politica avversa alla sinistra. Quello che è successo negli ultimi mesi ha dell'incredibile: verbali segreti con pesanti accuse all'ex presidente del Consiglio Conte, ad importanti magistrati e uomini di Stato prima insabbiati, poi consegnati, non si capisce a che titolo, nelle mani di Piercamillo Davigo che invece di fare pubblica denuncia ne parla con il presidente Mattarella e tutto viene messo a tacere; giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica che ricevono informazioni a tal riguardo e che invece di indagare, verificare ed eventualmente scrivere (che sarebbe il loro mestiere) questa volta decidono di rivolgersi alla Procura della Repubblica e per mesi fanno finta di niente; una procura, quella di Perugia, che ipotizza l'esistenza di una loggia segreta di magistrati, politici e professionisti sul tipo della P2, la «loggia Ungheria». Mi fermo qui, il resto lo trovate all'interno. È il capitolo mancante del libro Il Sistema, non per omissione degli autori, ma perché parliamo di questioni successive alla sua pubblicazione. Ma è un capitolo assolutamente in linea con i precedenti in quanto a dinamiche, logiche, intrighi e illegalità compiute al riparo dell'ombrello della giustizia. Se questa volta il giochino è stato scoperto è solo perché il «sistema», scardinato dalla valanga Palamara, non ha più la stessa tenuta di prima. Ormai è un tutti contro tutti, e anche il puro Davigo (il suo tentativo di coinvolgere Mattarella per salvarsi è ridicolo) non può sfuggire alla regola che «se fai il puro, arriverà qualcuno più puro di te e ti epurerà». Qui non basta una commissione parlamentare d'inchiesta, servirebbe una retata (niente carcere, per carità, ma tutti a casa sì). O almeno un commissario che prenda in mano il Csm degli inganni e dei furbetti. Sì, perché il Csm è come una azienda decotta e fallita, come lo sono state la Parmalat, l'Ilva, l'Alitalia. Nella migliore delle ipotesi, volendo usare la celebre frase di Davigo, parliamo di «colpevoli che la faranno franca».

Veleni e corvi al Csm. Così il "pentito" Amara travolge i tribunali. E ora Cantone indaga sulla loggia Ungheria. Luca Fazzo l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo l'interrogatorio, il pm milanese Storari si scontra con il capo Greco: non riesce ad aprire un'indagine. Ed è così che il dossier prima finisce nelle mani di Davigo, del "Fatto" e di "Repubblica". Che però insabbiano tutto. Il pm milanese Paolo Storari tace (anche se, come vedremo tra poco, ha già parlato a sufficienza). Ma è attraverso questo magistrato solitario, arruffato e sgobbone, cresciuto alla scuola di Ilda Boccassini, che passa la storia che scuote la magistratura italiana. Perché è dai suoi verbali di interrogatorio che emerge la storia - a tratti inquietante, a tratti inverosimile - della loggia Ungheria, l'associazione segreta di cui da ieri si occupa ufficialmente la Procura di Perugia. È l'inchiesta che prima o poi dovrà dire se Pietro Amara, l'avvocato siciliano che Storari ha interrogato per quattro volte tra il novembre e il dicembre 2019, è solo un millantatore, un avvelenatore di pozzi che architetta trame per salvarsi la pelle. O se davvero una rete di magistrati, avvocati, ufficiali e quant'altri tiri le fila di una loggia di potere occulto, ennesima riedizione della P2 e dei suoi epigoni. L'inchiesta per associazione segreta avviata dalla Procura di Perugia è il secondo, forse terzo filone su cui si muove il «caso Amara». E già questa proliferazione di indagini che vanno ognuna per i fatti propri non sembra una garanzia di accertare presto e bene i fatti. Perugia ha il filone principale, la presunta loggia: di cui Amara indica come membri anche giudici della sezione fallimentare della Capitale, e questo porta la competenza in Umbria. Intanto Roma indaga sul Corvo, anzi sulla Corva - trattandosi per ora di una signora, l'impiegata del Csm Marcella Contrafatto - che ha spedito i verbali di Amara al Fatto e a Repubblica, perché li pubblicassero: e ottenendo invece solo che i giornalisti di entrambe le testate consegnassero ai giudici i plichi anonimi recapitati ai loro domicili. Il comune denominatore di queste due indagini è Storari: perché è lui a raccogliere le rivelazioni di Amara sulla loggia Ungheria, ed è lui, quando si rende conto che il suo capo Francesco Greco non intende aprire un'inchiesta sulla loggia, a consegnare la brutta copia dei verbali di Amara a Piercamillo Davigo. Cioè al capo della Contrafatto. Quando Davigo, obtorto collo, va in pensione, la sua impiegata si dedica anima e corpo a volantinare i verbali di Amara. Uno dei giornalisti destinatari del malloppo fornisce alla Procura cui si rivolge indizi sufficienti per individuare la Contrafatto come mittente del papello. Il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, manda la Finanza a perquisire casa della signora: ed ecco le copie dei verbali. Bingo. La donna viene incriminata, quando la interrogano si avvale della facoltà di non rispondere. Da questo momento in avanti, l'inchiesta si trova davanti a un interrogativo cruciale: perché l'esperta, fidata impiegata del Csm si è trasformata in Corvo? È stata ispirata, guidata, o preda di un accesso di follia che l'ha portata a immolarsi per la Verità, o per ciò che credeva che lo fosse? In queste ore, la Procura romana scava nel suo passato recente e remoto: non c'è contatto, chat, post sui social network che non venga frugato alla ricerca di un movente o di un mandante. Poi c'è Storari, quello senza cui tutto ciò non sarebbe accaduto. Se avesse gestito la pratica Amara con burocratico aplomb, quando arrivò sul suo tavolo proveniente da Roma - dove era stata tolta a un altro maverick come lui, il pm Stefano Fava - le dichiarazioni del torbido avvocato messinese sarebbero ancora lì a sonnecchiare negli armadi. Invece Storari prende la cosa di petto. Se Amara mente va incriminato, con buona pace delle Procure che lo hanno coccolato finora; se c'è del vero non si può fare finta di niente. Questa è la linea di Storari, che lo mette in rotta di collisione con i suoi capi. E che lo porta alla fine a fare un gesto inconsulto, come consegnare a Davigo la copia di lavoro dei verbali. Non è la prima volta in carriera che Storari si mette nei guai per un accesso di ribellione. Ma stavolta si brucia i ponti alle spalle. Lo fa poco dopo la metà di marzo, quando le avvisaglie della tempesta sono ancora flebili. Si è venuto a sapere che la Procura di Milano vuole usare i verbali di Amara (quegli stessi verbali che quando toccano il premier Conte, magistrati importanti e membri del Csm si vorrebbe tenere nel cassetto) per affossare il giudice del processo Eni. Storari si ribella pubblicamente e lo fa nella chat ufficiale della Procura milanese. È lui ad attaccare il capo Francesco Greco con una asprezza senza precedenti, «a volte non si può stare zitti a costo di perdere la propria dignità. Ma di cosa state parlando? Francesco per favore non prenderci in giro, io so quello che è successo e un giorno andrà detto. Fino in fondo». Da quel momento in poi, Storari è solo. Davigo lo scarica, indicandolo esplicitamente come fonte dei verbali. Ma la slavina innescata dal pm milanese ormai è una valanga inarrestabile. Alla fine, ieri la Procura di Perugia fa quello che Storari voleva, apre l'indagine per capire se Amara mente o apre scenari, se rivela o se calunnia. È la vittoria di Storari. Oppure una presa in giro.

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 30 aprile 2021. A Perugia il procuratore Raffaele Cantone ha aperto un procedimento che farà molto discutere. Il fascicolo sarebbe, a quanto risulta alla Verità, contro noti e quindi avrebbe già uno o più nomi iscritti sul registro degli indagati. Verosimilmente dei magistrati. Il tutto nasce da alcune dichiarazioni rilasciate lo scorso 26 gennaio dall' ex pm Luca Palamara di fronte alla Procura generale della Cassazione. Quel giorno l'ex presidente dell'Anm venne chiamato a rispondere del presunto aiutino dato a un suo vecchio amico in sede di sezione disciplinare al Csm e lui, alla fine dell'esame, rilasciò spontanee dichiarazioni sui procedimenti disciplinari che avevano riguardato il pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, ma anche un big di Magistratura democratica come Gilberto Ganassi. Quest' ultimo è stato procuratore aggiunto di Cagliari e nel 2016 il suo caso fece un certo scalpore perché venne accusato di aver svolto indagini su un collega con cui era in corsa per il posto di procuratore. Nell' estate del 2018 i procedimenti di Ganassi e Woodcock, incolpato per «grave violazione di legge» e per «grave scorrettezza» nella conduzione dell'inchiesta Consip, slittarono e vennero rinviati al Csm successivo, dove Ganassi e Woodcock sono stati entrambi assolti. Dietro a quel primo rinvio dell'estate del 2018 ci sarebbe, però, una storia di ricatti incrociati e in particolare di un'intercettazione coperta da segreto, mai resa pubblica, in cui l'allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, uno dei «giudici» di Woodcock, avrebbe rilasciato giudizi poco lusinghieri sul pm sotto inchiesta durante una conversazione con l'ex ministro Paolo Cirino Pomicino. Quest' ultimo avrebbe poi riferito gli apprezzamenti all' imprenditore Alfredo Romeo, in quel momento intercettato proprio da Woodcock. Quindi la conversazione, che avrebbe potuto mettere in imbarazzo Legnini, era nella disponibilità della Procura di Napoli, ma anche di quella di Roma a cui erano stati trasmessi gli atti dell'inchiesta Consip. Quell' intercettazione sarebbe stata svelata il 4 luglio del 2018 a Palamara dal collega Giuseppe Cascini, all' epoca pm della Procura di Roma e oggi consigliere del Csm, dove è capogruppo di Area, la corrente delle toghe progressiste. Cascini ha sempre negato tale ricostruzione e ha anche recentemente querelato l'ex collega per questa e altre asserzioni. Il 26 gennaio Palamara ha riaperto la ferita, che sembrava destinata a rimanere circoscritta a pochi articoli di giornale: «Con riferimento al procedimento disciplinare a carico di Woodcock [] di cui vi è traccio nella rassegna stampa odierna [], che riporta anche le dichiarazioni del consigliere Cascini, secondo cui mi sarei inventato tutto, sono disponibile a un confronto in questa sede, nonché a indicare tutti i testimoni che sono a conoscenza di tale vicenda e della correlazione con il procedimento disciplinare del dottor Gilberto Ganassi». Dopo aver letto questo verbale il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha deciso di trasmettere l'atto al collega Cantone, competente per i reati dei magistrati di Roma. Così Palamara, il 9 aprile, è stato sentito anche in Umbria, dove era accompagnato dai suoi avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, essendo indagato in un procedimento collegato. Nell' occasione, Cantone, affiancato dall' aggiunto Giuseppe Petrazzini, esordisce così: «Il Procuratore richiede al dottor Palamara chiarimenti in ordine a quanto dichiarato al Procuratore generale della Corte di Cassazione in data 26 gennaio 2021, in particolare in ordine al procedimento a carico del dottor Woodcock». Ovviamente l'ex pm non si è tirato indietro e ha spiegato che la vicenda Woodcock gli «è sembrata emblematica di come vengono gestiti i procedimenti disciplinari e soprattutto di come le correnti interferiscono nei procedimenti disciplinari più rilevanti e in genere nella vita del Consiglio superiore». Durante l'audizione Palamara racconta: «A proposito del processo Woodcock che sapeva in corso, Cascini mi disse che quel procedimento non l'avremmo fatto e che se ne sarebbe occupato il prossimo Consiglio di cui lui avrebbe fatto parte» e che «quindi "sarebbe andata a loro la rogna"». Il verbale prosegue: «Mi riferì che Legnini si era lasciato andare a considerazioni negative su Woodcock che avrebbero potuto minare l'immagine della sua imparzialità []. Non mi disse espressamente che Woodcock avrebbe sollevato la questione, ma capii che l'avrebbe fatto []». Allora Palamara si sarebbe precipitato dal vicepresidente del Csm e questi avrebbe confermato l'incontro con Pomicino e riferito di temere, pur non essendo «preoccupato nel merito», che «questa vicenda potesse creargli problemi di immagine», a causa di eventuali «strumentalizzazioni». L'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, a cui i due avrebbero deciso di rivolgersi, «confermò la portata dell'intercettazione». Saputa la notizia Legnini sarebbe rimasto «ancora più turbato» e con Palamara avrebbe stabilito «di prendere tempo e di disporre ulteriore attività istruttoria che già di fatto era in piedi». I due informarono anche l'allora Pg della Cassazione Riccardo Fuzio e tentarono di avvicinare il procuratore di Napoli Giovanni Melillo, il quale però non si fece scucire alcuna notizia sull' intercettazione. Dal Colle fecero sapere che «il Quirinale non dava un'indicazione specifica e lasciava la scelta alla sezione disciplinare» su un'eventuale posticipazione delle decisioni. Palamara ricorda come andò a finire: «Arrivati all' ultima udienza si decise di rinviare il processo Woodcock, ma in Camera di Consiglio si stabilì di comune accordo altresì di rinviare anche il processo Ganassi per il quale pure vi erano forti pressioni esterne perché non venisse deciso dal nostro Consiglio». L'argomento accende la curiosità degli inquirenti di Perugia, come si evince da alcuni passaggi del verbale. Palamara ribadisce: «C' era il problema che questo processo (quello di Woodcock, ndr), come ho detto, era legato all' altro, a quello era legato in senso non di connessione, ma che contestualmente si doveva tenere pure quello lì, Ganassi». A questo punto Cantone chiede se ci «fu una sorta di scambio». Palamara replica: «...lo scambio è correntizio. [] non è solo a Cascini che interessava Ganassi, eh Ganassi pure in Camera di Consiglio interessava». Petrazzini: «Cioè do ut des, era ehm?». Palamara: «Woodcock poteva essere condannato [], Il problema vero è che poteva essere condannato anche Ganassi. Quindi, anche il processo Woodcock, per Legnini viene rinviato [] viene rinviato per evitare che venga condannato Ganassi. Cioè, chiaro? [] Cioè, per dire, non mettiamo in difficoltà Legnini». Petrazzini: «Però al contempo». Palamara: «però non rompete le scatole su Ganassi». Nella ricostruzione dell'ex emerge, però, chiaramente che l'allora consigliere del Csm e Legnini non avevano condiviso con gli altri membri della sezione disciplinare la storia della conversazione con Pomicino. Cantone pone il problema: «Sì, ma diciamo, se gli altri non sapevano dell'intercettazione, come si faceva a dire []». Palamara: «E vabbè! [] erano tutte e due vicende che - come dire? - ognuno si dava una mano sull' altra cosa: non tocchiamo [] e se la vedono loro. Questo è un po' il concetto []. Allora, si decise di rinviare il processo Woodcock, ma in Camera di Consiglio si decide altresì di rinviare anche il processo Ganassi». Un presunto «scambio di prigionieri» su cui adesso indaga la Procura di Perugia.

(askanews il 28 aprile 2021) - Una lettera anonima contenente la copia informatica, priva di sottoscrizione, dell'interrogatorio di un indagato avvenuto nel dicembre 2019. E' quanto ricevuto dal consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ne ha dato notizia in apertura di plenum. "Ho ricevuto un plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell'interrogatorio di un indagato, reso nel dicembre 2019 dinanzi all'autorità giudiziaria. Nella lettera anonima quel verbale veniva indicato come segreto e l'indagato menzionava in forma diffamatoria se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo", ha detto il togato indipendente. Di Matteo ha spiegato di aver contattato l'autorità giudiziaria di Perugia e riferito il fatto "nel timore che tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo potessero collegarsi a un tentativo di condizionamento dell'attività del Csm" e ha auspicato che si faccia luce sugli autori e sulla diffusione, in forma anonima, all'interno di questo Consiglio, di questi atti".

Da affaritaliani.it il 29 aprile 2021. Il caso Palamara ha provocato uno tsunami all'interno del Csm. Scoppia un nuovo caos relativo alla presunta circolazione di un plico anonimo con verbali riservati. La bomba - si legge sul Fatto Quotidiano - è esplosa al Csm qualche settimana fa. Un manipolo di finanzieri spedito dalla Procura di Roma si è presentato a Palazzo dei Marescialli e ha chiesto con garbo di entrare nell’ufficio della funzionaria Marcella Contrafatto. L’ipotesi dei pm romani è che la signora abbia avuto un ruolo nella diffusione dei verbali di Pietro Amara, uno dei quali contenente dichiarazioni anche sul premier Giuseppe Conte. La signora Contrafatto - prosegue il Fatto - lavora da tanti anni al Csm ed è stata fino a ottobre scorso la segretaria di Piercamillo Davigo. Sentita dal Fatto, non ha voluto fornire la sua versione perché, come ci ha spiegato il suo avvocato, Alessia Angelici: “C’è un’indagine in corso”. Anche Davigo ha rifiutato ogni commento: “è un argomento coperto dal segreto perché c’è un’indagine in corso”. Nei verbali si fa riferimento ad una fantomatica loggia simil-massonica denominata ‘Ungheria". Ma per i pm: "Non c'è nessun riscontro".

Estratto dall'articolo di Antonio Massari per "Il Fatto Quotidiano" il 29 aprile 2021. Il 27 ottobre 2020 nella redazione del Fatto Quotidiano viene recapitata una busta anonima che contiene dei verbali d'interrogatorio. L'interrogato è Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione in atti giudiziari e al centro di molte manovre torbide degli ultimi anni. A interrogarlo sono il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari. Amara è un personaggio conosciuto tra i "giudiziaristi" e il direttore decide di affidarmi questi "atti", poiché ne scrivo da un quinquennio, in modo da valutare il da farsi. I verbali non sono firmati e davanti a me ho solo due ipotesi: o qualcuno li ha "rubati" agli inquirenti, oppure sono sfuggiti al loro controllo in qualche passaggio di mano. Ipotesi ancora più inquietanti leggendo il contenuto delle dichiarazioni di Amara: descrive una loggia massonica denominata "Ungheria" in perfetto stile P2. Vi parteciperebbero altissimi funzionari dello Stato e del Vaticano ma, soprattutto, il sodalizio avrebbe condizionato il Csm attraverso un considerevole numero di altissimi magistrati. (...) Un fatto è certo: qualcuno vuole utilizzare il Fatto per portare a termine questa operazione. E il Fatto non ci sta. Avverto il direttore e in accordo con lui mi presento a Milano: denuncio tutto in procura affinché indaghi e individui chi vuole renderci strumento di una simile operazione. Parte l'indagine. Ed è vitale, dato l'inquinamento in corso, scoprire il movente di questa storia. Torno in procura quando l'anonimo ci recapita altri verbali minacciando di inviare lo stesso materiale ad altri giornali. Per sei mesi il Fatto decide di non scrivere una riga del contenuto di questi verbali. (...)

DAGONOTA il 30 aprile 2021. La fuga di notizie dei verbali del faccendiere pentito Piero Amara, grande accusatore di Palamara, getta nell'inferno la magistratura italiana. Sottratti dal pm di Milano Storari, consegnati a Davigo e inviati ai giornali da “Marcella Contrafatto, funzionaria storica del CSM, compagna di un importante magistrato romano e fino a qualche giorno prima nella segreteria del consigliere Davigo" (La Repubblica). Ma anche i giornalisti ci fanno una pessima figura. ‘’Il Fatto’’ e ‘’la Repubblica’’ ammettono di aver avuto le carte da mesi, ma invece di fare il loro lavoro riscontrando la veridicità dei pazzeschi racconti dell'ex avvocato dell'Eni, hanno ammesso di aver restituito "per amore di giustizia" tutte le carte segrete. A chi?  Agli stessi magistrati da cui sembra partita la fuga di notizie! Solo dopo che ‘’Domani’’ - che ha trovato i documenti che confermavano le consulenze dell'ex premier ottenute da Centofanti e il gruppo Marseglia - sgancia la bomba su Conte i media hanno trovato il coraggio di raccontare la storia della fantomatica loggia segreta Ungheria. Fingendo di parlare dell'inchiesta sui corvi, i nostri polli hanno dato informazioni ancora segretate. Ma allora non potevano darle prima?

Altre 10 domande facili facili:

1) Se i verbali sono veri, come è ormai assodato, perché i giornali parlano di "dossieraggio"? Per far guardare il dito ai lettori (la fuga di notizie riservate) e non la luna (chi fa parte della Loggia? Che affari e circostanze ha raccontato Amara oltre alle consulenze di Conte? Chi vuole colpire Amara e perché?)

2) Se Amara mente su tutto, come mai dopo un anno e mezzo dalle dichiarazioni bomba è ancora a piede libero e non è stato arrestato per calunnia aggravata?

3) Quali verifiche ha fatto la procura di Milano in questi 18 lunghi mesi? Il pm Storari ha passato le carte a Davigo perché temeva l'insabbiamento del suo capo Francesco Greco? 

4) Se Amara è un sicuro calunniatore come fa intendere qualche giornale, come mai le procure di mezza Italia (Roma e Perugia) hanno recentemente indagato magistrati (Palamara e Patroni Griffi) e mandato a processo giudici amministrativi grazie alle sue confessioni?

5) Se Storari ha "confessato" la fuga di notizie e la segretaria di Davigo è stata presa con le mani nella marmellata, che conseguenze ci saranno? Punizioni o tarallucci e vino?

6) Ma soprattutto, come ha fatto un oscuro avvocato di Siracusa a mettere da solo a soqquadro la più importante procura d'Italia, che ha un certo punto ha mollato la patata bollente ai colleghi di Perugia e Roma lavandosene le mani?

7) Può darsi anche che Amara menta sapendo di mentire, ma c'è una lettera del 2012 dove Fabrizio Centofanti (l'imprenditore accusato di aver corrotto Palamara e che nel 2012 era a capo delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia) scrive al professor Conte per chiedergli formalmente il «conferimento di un incarico professionale per la società dell'Acqua Pia Antica Marcia Spa».

8) Ancora. Conte agevolerà anche l'acquisizione dell' hotel Molino Stucky di Venezia, controllato da Acqua Marcia, da parte dell’imprenditore pugliese Leonardo Marseglia, che sbaragliò la concorrenza dei più importanti fondi immobiliari al mondo. Qualcuno potrebbe insinuare il conflitto d' interessi dato che Conte era stato prima consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato) e poi di Marseglia, che di quel concordato ha beneficiato.

9) Come mai i giornali che pubblicano la qualunque sui soldi di Renzi, della Lega ora fanno gli schizzinosi sulla storia della mega consulenze di Conte ottenute da Centofanti amico di Amara, visto che ‘’Domani’’ ha già spiattellato contratti e fatture dell'ex premier?

10) Ci saranno magistrati e giornalisti con la schiena dritta capaci di distinguere le cazzate dalla verità nelle dichiarazioni bomba di Amara, o tutto - come vuole qualche potente citato nelle carte - finirà in vacca?

Le deposizioni passata a magistrati e giornali. Nuovo terremoto sul Csm, i verbali segreti di Amara consegnati a Davigo: inchiesta tra "corvi" e logge segrete. Carmine Di Niro su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Ci sono tutti gli ingredienti di una spy story nella nuova inchiesta che rischia di provocare l’ennesimo terremoto all’interno della magistratura e in particolare del Csm, già travolto dalle vicende giudiziarie riguardanti il "sistema Palamara". Un caso che nasce dai quattro interrogatori ai quali era stato sottoposto a fine 2019 Piero Amara, l’avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici, 2 anni e 8 mesi di patteggiamento, coinvolto anche nelle vicende che vedono indagato l’ex pm di Roma Luca Palamara. Amara viene sentito nel dicembre 2019 dall’aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. In quei verbali Amara parla dei suoi rapporti con politici, imprenditori e magistrati, che avrebbero chiesto aiuto per ottenere promozioni: nei verbali “secretati”, cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, c’è anche il nome dell’ex premier Giuseppe Conte, con Amara che rivela di essere membro di una presunta loggia massonica, chiamata ‘Ungheria’, di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, membro della ‘corrente’ davighiana Autonomia & Indipendenza. Quei verbali finiscono a giornali e ad altri magistrati. In particolare il plico contenente le parole di Amara finisce nell’ottobre 2020 a giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica: entrambi i quotidiani informano della vicenda rispettivamente la Procura di Milano e di Roma, pensando di essere finiti al centro di una attività di dossieraggio in quanto i verbali non erano firmati dai magistrati che avevano raccolto le deposizioni di Amara, e questo li rendeva non ufficiali e sospetti. Liana Milella e Antonio Massari, i giornalisti che ricevono il plico anonimo, non sanno ancora che nell’aprile 2020 quegli stessi verbali sono finiti nelle mani di Piercamillo Davigo, ormai ex consigliere del Csm (andato in pensione ad ottobre del 2020 tra mille polemiche e ricorsi), consegnati dal sostituto Paolo Storari, che lo avrebbe fatto come atto di “autotutela” da possibili conseguenze disciplinari per comportamenti che, nel trattamento di quei verbali, riteneva non corretti da parte dei vertici della Procura di Milano. Un gesto che rientra nella divergenza di vedute tra Storari e gli altri magistrati milanesi, col primo che spingeva per iscrizioni nel registro degli indagati e Greco, De Pasquale e Pedio che non lo ritenevano opportuno. Storari, secondo quanto saputo dall’Ansa tramite fonti giudiziarie milanesi, sarebbe pronto a riferire la sua versione dei fatti al Csm se l’organo di autogoverno della magistratura lo riterrà necessario. Quanto a Davigo, l’ex membro del Csm al Corriere della Sera ha confermato di aver ricevuto quei verbali e di non aver violato il segreto perché “non opponibile ai componenti del Csm. E io ho subito informato chi di dovere”, pur non spiegando chi sia la persona informata. Al Tg2 quindi Davigo ha spiegato di ritenere “inusuale” quanto accaduto a Milano, “cioè un sostituto procuratore della Repubblica lamentasse che non gli consentivano di iscrivere una notizia di reato”. A spedire invece i verbali ai giornali, secondo quanto scoperto dalla Procura di Roma, sarebbe stata Marcella Contrafatto, impiegata del Csm nella segreteria dell’allora consigliere Davigo e poi assegnata al consigliere Fulvio Gigliotti, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. La funzionaria si è avvalsa della facoltà di non rispondere quando è stata interrogata dalla procura di Roma sulla diffusione dei verbali degli interrogatori resi a suo tempo ai pm di Milano dall’avvocato Amara, è stata quindi sospesa dalle sue funzioni dal Csm. Verbale che è finito anche ad un secondo membro del Csm, il togato Nino Di Matteo. A dirlo è stato lo stesso ex pm di Palermo nel Plenum del Csm del 28 aprile, annunciando che nei mesi scorsi aveva ricevuto un “plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell’interrogatorio di un indagato risalente al dicembre 2019 dinanzi a un’Autorità giudiziaria”. Nella lettera che accompagnava il faldone, ha spiegato Di Matteo, “quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto”. “Nel contesto dell’interrogatorio – aggiungeva Di Matteo – l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria, se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo” (ovvero Ardita, ndr). L’ex pm aveva quindi spiegato di aver subito contattato la Procura competente, cioè quella di Perugia, per riferire i fatti. Il suo timore, infatti, era che “tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo” potessero “collegarsi a un tentativo di condizionamento” dell’attività di Palazzo dei Marescialli. E sull’intricata vicenda sta effettivamente indagando la procura guidata da Raffaele Cantone. L’ipotesi, tutta da verificare, è inquietante: l’esistenza di una loggia, la già citata ‘Ungheria’, che col coinvolgimento di alcuni pezzi del Paese avesse l’obiettivo di condizionare le nomine non solo nella magistratura ma anche in altri settori.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Meglio Graviano che Amara. Travaglio non pubblica i verbali sulla loggia Ungheria: “Non sono firmati, forse non sono autentici…” Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Maggio 2021. L’avvocato siciliano Piero Amara, arrestato per corruzione di giudici, ha patteggiato 2 anni e 8 mesi dopo essere stato a lungo sentito dai magistrati. Viene interrogato nel dicembre 2019 nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. In quei verbali Amara parla di relazioni opache all’ombra della politica, che includono richieste di favori da parte di imprenditori e di promozioni da parte di magistrati. Nei verbali “segretati”, cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, c’è anche il nome dell’ex premier Giuseppe Conte, con Amara che rivela di essere membro di una presunta loggia massonica, chiamata ‘Ungheria’, di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, membro della ‘corrente’ davighiana Autonomia & Indipendenza. Quei verbali finiscono a fine febbraio scorso a giornali e ad altri magistrati. Nello specifico a due testate che l’anonimo mittente individua come quelle evidentemente più sensibili: al Fatto Quotidiano e a Repubblica. Le direzioni di entrambi i quotidiani si mostrano però tutt’altro che interessate e non pubblicano neanche un cenno al materiale – pur incandescente – che si trovano per le mani. Temono la polpetta avvelenata. Rimettono le carte nel plico e lo consegnano alla Procura, decidendo che della cosa è meglio non parlare. Le indagini poi andranno avanti, si risalirà al mittente, che peraltro alberga nella segreteria del Csm: le carte sono uscite per mano di Marcella Contrafatto, funzionaria del Csm impiegata nella segreteria dell’allora consigliere Davigo e poi assegnata al consigliere Fulvio Gigliotti, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. Contrafatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere quando è stata interrogata dalla procura di Roma sulla diffusione dei verbali degli interrogatori resi a suo tempo ai pm di Milano dall’avvocato Amara, ed è stata sospesa dalle sue funzioni dal Csm. A Repubblica, cui abbiamo chiesto il motivo della decisione auto-censoria, bocche cucite. Il direttore Molinari non ci risponde. Lo fa il suo vice, Dario Cresto-Dina, per rimandare a Liana Milella che del plico dei veleni era diretta destinataria. “Ha già scritto tutto Milella”. Lei parla in pagina: «In quarant’anni di lavoro – scrive Milella – non mi era mai capitato che una fonte, per di più anonima, mi ‘regalasse’ dei verbali. Chiedendomi prima al telefono se volevo riceverli, per scoprire poi le sorprese che contenevano. Per questo, quel 24 febbraio intorno alle 11, quando sul mio cellulare compare uno ‘sconosciuto’, resto sorpresa. È una voce di donna. Ne intuisco un vago accento nordico. Non esito. Sì, rispondo dando il mio indirizzo di casa, "mi mandi pure il materiale, lo leggerò con interesse, e valuterò". La fonte è prodiga, mi garantisce che il primo sarà solo un invio parziale. Perché di ‘carte da far tremare il Paese’ ce ne potranno essere altre». Ma ricevuto il materiale, decide di non farne niente. «Mi stringo nelle spalle, e vado in procura. Racconto i fatti. Dopo essermi convinta che c’è un solo modo per garantire un’indagine, tenerla riservata. Chi ha inviato i verbali, promettendo di inviarne ancora, non ha lavorato per la giustizia, ma contro la giustizia». Carlo Bonini, altra firma di punta di Repubblica, di cui è vice direttore, argomenta: «Abbiamo deciso di non pubblicarli per l’evidente opacità della provenienza, per l’assenza di firme su quei verbali e perché facendo questo mestiere da trent’anni, qualche antenna ce l’ho». Anche al Fatto, per una volta, ha regnato la prudenza. Il materiale è stato giudicato inattendibile, ci viene detto. Le accuse che conteneva – il nome di Giuseppe Conte legato ad accordi di potere in salsa massonica – hanno tenuto a freno la tentazione di dare la notizia anche solo riferendo dell’insolito regalo. Marco Travaglio risponde al Riformista: «Ti pare che pubblico verbali senza firme, senza nemmeno sapere se sono autentici, per giunta pieni di nomi di persone additate come affiliate a una fantomatica loggia criminale, perché qualcuno me li mette nella buca del giornale? Tra l’altro opera di uno che ha già patteggiato per corruzione giudiziaria ed è noto come un depistatore?», controdomanda. E articola: «Non avevamo alcuno strumento nemmeno per sapere se il verbale fosse autentico o un falso a tavolino. Siccome è un reato grave quello di cui ci saremmo resi complici, l’abbiamo denunciato».

Cautele che lo stesso Fatto Quotidiano, a onor del vero, non adotta quando parla Graviano, le cui sparate vengono pubblicate senza troppi timori; e forse Amara è più attendibile di un boss come Graviano.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Se i giustizialisti adesso insabbiano. Augusto Minzolini l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Alla fine anche il meccanismo più perfetto, oliato, letale, come il circuito mediatico-giudiziario che in Italia ha fatto fuori intere Repubbliche e nomi eccellenti, può andare in corto circuito. Alla fine anche il meccanismo più perfetto, oliato, letale, come il circuito mediatico-giudiziario che in Italia ha fatto fuori intere Repubbliche e nomi eccellenti, può andare in corto circuito, basta un granellino di sabbia che inceppa una rotella o un contatto che fa saltare un fusibile. È successo sui verbali secretati di quel personaggio «oscuro» che è l'avvocato Amara, che per quasi un anno sono andati in giro tra le Procure, i Palazzi che contano fino all'ermo Colle, le Redazioni del Belpaese mentre l'epidemia mieteva vittime. In questa zuppa di parole, una sorta di «gulash», visto che il soggetto principale è un'organizzazione para-massonica denominata «Ungheria», ci sono gli ingredienti di sempre: nomi eccellenti della politica, della magistratura, delle istituzioni. Solo che mancano quelli che metterebbero d'accordo l'intero mondo del giustizialismo nostrano, cioè i vari Berlusconi, Salvini o Renzi. Se ci fossero stati in quei verbali probabilmente avremmo avuto conferenze stampa di magistrati e le prime pagine dei giornali: il Cav si sarebbe beccato tre edizioni straordinarie sul cartaceo e sui siti, una a colazione, una a pranzo e una a cena come le pillole per la gastrite; mentre i due Matteo solo due, la mattina e la sera. E, invece, ci trovi, apposta o a ragione, nomi che imbarazzano l'intero pianeta del giustizialismo italiano: quello dell'ex premier Giuseppe Conte, descritto in quei fogli come un collezionista di consulenze (del resto un avvocato di affari in soldoni che fa?), che mentre il verbale faceva l'intero giro della penisola era ancora in carica; e un nome «sacro» della magistratura interventista, quel Sebastiano Ardita, che insieme con Piercamillo Davigo ha fondato la corrente più giacobina del sindacato togato. Imprevisto che manda in tilt il meccanismo mediatico-giudiziario e - al di là di ogni dichiarazione sdegnata, di solidarietà, versione di comodo o strumentale, insomma, al di là di ogni ipocrisia lo divide: al punto che un pezzo paradossalmente si riscopre garantista; un altro, invece, suo malgrado, finisce per vestire i panni del «Corvo», cioè di quel personaggio mitico che agisce nell'ombra con i dossier o i verbali. Il nuovo «fenomeno» garantista è Travaglik, il direttore del Fatto, uno che su Berlusconi, Salvini o Renzi pubblicherebbe anche le barzellette spacciandole per fatti di cronaca, e che, invece, su Giuseppe Conte si comporta come quella vecchia pubblicità di gatto Silvestro che dà la caccia alla piccola Titti fino a quando non si posa su un barattolo dei pomodori De Rica ed esclama: «Su De Rica non si può!». Ecco, appunto, Travaglik, che ancora oggi come una prèfica piange la fine del Conte due, non poteva che seguire l'esempio di gatto Silvestro: «su Giuseppi non si può!». Probabilmente sul piano formale è stato giustamente prudente, mancavano i timbri su quei verbali, dice, ma al di là del fatto che la versione dell'avvocato Amara è tutta da verificare, quel verbale è risultato d.o.c.. Senza contare che il Robespierre de' noantri, che nell'occasione ha vestito i panni di Cesare Beccaria, in passato ha pubblicato sul suo giornale anche «i peti», tutti da verificare, di un qualsiasi pentito, e «non», di mafia. Tant'è che uno dei suoi pupilli, finito a dirigere il Domani, restando fedele all'insegnamento del maestro, ha pubblicato il verbo di Amara in prima pagina. Resta solo da decidere, ma non è compito dei garantisti, se nel «credo» giustizialista a questo punto l'eretico sia il discepolo o il maestro. In questo ennesimo capitolo di quel filone della Storia che racconta la Caduta degli Dei, c'è poi il Corvo, cioè l'entità che ha messo in circolazione il verbale secretato. Sugli articoli di questi giorni nessuno ne fa nome. Al massimo lo si fa intendere, o mettendo i fatti uno dietro l'altro, lo si suggerisce al lettore: il Pm Storari, deluso dalla procura di Milano che non vuol procedere sulla base dei verbali della discordia, li consegna a quel mostro sacro che fino a ieri nella iconografia del giustizialismo nostrano sedeva alla destra della Dea Bendata, cioè Piercamillo Davigo, all'epoca membro del Csm. La Guardia di Finanza il corpo preferito dal pool di Milano durante Tangentopoli avrebbe scoperto che i plichi anonimi spediti nelle redazioni dei giornali, sarebbero stati imbucati proprio dalla segretaria del dott. Davigo al Csm, che per puro caso porta un nome che è tutto un programma, la dott.ssa Contrafatto («nomen omen» dicevano i latini). Resta da scoprire a questo punto solo se il «Corvo» è la dipendente o il capoufficio. Quest'ultimo, però, ricordandosi di essere un mezzo Dio ha fatto sapere ieri che «il segreto non è opponibile ai componenti il Csm». Solo che ora a posteriori, venuto allo scoperto il segreto di Pulcinella, che tutti sapevano ma nessuno scriveva, si arguisce perché mesi fa Davigo abbia rotto con il suo alleato di corrente, Sebastiano Ardita, il cui nome compariva in quei verbali. E in fondo non ci fa una bella figura neppure un altro Dioscuro dell'Olimpo giustizialista, quel Nino Di Matteo, che di quei verbali parla proprio con Ardita, suo nuovo alleato: con tutto il rispetto si comporta, più o meno, come l'inquirente che disserta di un'inchiesta con l'indagato. Insomma, siamo al crollo di un mondo: faide tra magistrati, relazioni speciali tra toghe, giornalisti e, magari, politici. E visti i personaggi, l'«affaire Amara» rispetto ai racconti di Palamara è come paragonare il libro Cuore al Decamerone o ai Racconti di Canterbury. Tutte storie con un'unica morale: davanti alla Dea bendata non siamo tutti uguali. E spesso quelle «carte», che per i pm e i giornalisti giudiziari, a seconda dei nomi che contengono, sono le Sacre Scritture o dossier da denunciare, alla fine dalle nostre parti servono, soprattutto, per disfare la Storia, per cadenzare le stagioni politiche o sfrattare questo o quell'inquilino del Palazzo. E forse non sarà un caso che la giornata del «contrappasso» del giustizialismo, cada esattamente 28 anni dopo quell'atto di violenza contro le garanzie e lo Stato di diritto che fu il lancio di monetine contro Craxi all'Hotel Raphael. Data di nascita di un populismo che in diverse forme è arrivato fino ad oggi, figlio diretto di quella perversione, di quell'offesa sia all'informazione, sia alla giustizia, che è il meccanismo mediatico-giudiziario.

Il nuovo terremoto sul Csm. Loggia Ungheria, nomi e magistrati indagati: Palamara resta a guardare. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Un terremoto, uno tsunami, un nuovo scandalo che si abbatte sui magistrati e sul Consiglio Superiore della Magistratura. Non è stato ancora smaltito il caso Palamara che esplode il caso della Loggia Ungheria, raccontata come una grande loggia segreta che condizionerebbe, e quindi gestirebbe, nomine e affari. È stata descritta in oltre dieci verbali dall’avvocato Piero Amara, già condannato e inquisito per i depistaggi contro l’Eni e diversi episodi di corruzione in atti giudiziari. La Procura titolare dell’inchiesta è quella di Perugia. Ha iscritto l’avvocato nel registro degli indagati per associazione segreta. Amara è stato interrogato diverse volte dai magistrati di Milano, due volte da quelli di Perugia. Ulteriori colloqui nei prossimi giorni. Altro avvocato che ha annunciato di voler collaborare è Giuseppe Calafiore, ex socio di Amara, anche lui già condannato. Della loggia Ungheria farebbero parte politici, magistrati, vertici delle forze di polizia, avvocati e imprenditori. Sarebbero “40 nomi”, ha raccontato l’avvocato. Nessun riscontro, al momento. Le indagini sono partite su alcuni nomi fatti da Amara. Si indaga anche sulla fuga di notizie: i verbali portati a Roma dal pubblico ministero Paolo Storari all’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo e quindi, a quanto pare, inviati ai giornali – Il Fatto Quotidiano e Repubblica – dalla segretaria del Csm e dell’allora consigliere Davigo Marcella Contrafatto. Indagata per calunnia. Perquisita, nella sua abitazione sono stati trovati copie di quei verbali. Chi e perché ha diffuso quei documenti? Storari avrebbe fatto trapelare quei documenti “a mia tutela, perché i capi non vogliono andare avanti”. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo ha parlato di un dossieraggio volto a screditare il suo collega Sebastiano Ardita. Ha detto in sede del Consiglio di aver ricevuto anche lui stesso quei documenti, denunciando tutto. “La lista completa potete trovarla a casa di un giudice, oppure chiederla a Calafiore che la custodisce all’estero”, ha insistito, negli interrogatori a cavallo tra 2019 e 2020, comunque Amara come riporta Il Corriere della Sera. Riferimenti alla loggia sono stati trovati nel suo computer. I documenti fatti circolare erano però privi di firma, niente timbro, motivo per cui Repubblica e Fatto Quotidiano avrebbero deciso di non pubblicare quei testi. E per i trascorsi di Amara che lo renderebbero poco attendibile. “Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi”, avrebbe aggiunto l’avvocato. Contrafatto intanto si avvale della facoltà di non rispondere. Davigo sarà chiamato nei prossimi giorni a spiegare perché la sua segretaria fosse in possesso di quei documenti. Potrebbe essere interrogato anche Storari: il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi ha annunciato nei suoi confronti accertamenti ipotizzando “gravi violazioni dei doveri di un magistrato”. L’ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm Luca Palamara, ex leader della corrente di centro Unità per la Costituzione, espulso dall’ANM e rimosso dalla magistratura, per lo scandalo esploso sul “Sistema”, per il momento resta a guardare. “In questo momento preferisco essere spettatore, almeno in questi primi giorni”, ha detto a Radio Radicale, osservando che la vicenda dimostra come la stampa sul suo caso “più che un racconto” ha compiuto “una mistificazione dei fatti”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Davigo ha rispettato o no le regole sul segreto sulla loggia Ungheria? Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 2 Maggio 2021. Il clamore della vicenda relativa alle dichiarazioni di Amara ai pm di Milano, rese note malgrado il segreto istruttorio, ad alcuni membri del Csm e poi alla stampa, rappresenta l’ennesimo sintomo dei mali che affliggono la giustizia e le istituzioni che dovrebbero presidiarne il buon funzionamento. Ma saremmo in contraddizione con quell’idea di civiltà giuridica, che impone di non inseguire la spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie, se ci lasciassimo andare a considerazioni tratte dalla propalazione di notizie tutt’ora oggetto di accertamento e indagine. Sono cose che non dovrebbero essere conosciute da chi è estraneo ai vari procedimenti. E il principio vale anche quando quei procedimenti riguardino magistrati o alte cariche. Semmai si può evidenziare l’effetto di “contrappasso” di questo caso rispetto alle prassi, invalse ormai da decenni, di trasferire procedimenti e processi penali nelle piazze e sui mezzi di informazione. Una nemesi, è stato detto, che si abbatte adesso anche su magistrati e procure, mentre solitamente riguarda, prevalentemente, colletti bianchi e politici. Ma, appunto, di questo non vogliamo parlare, per non rinnegare principi che devono valere per tutti, anche nei confronti di coloro che, invece, interpretando un malinteso dovere di informazione, ritengono rientri tra i compiti dei magistrati rendere conto del proprio operato direttamente al popolo attraverso dichiarazioni e conferenze stampa. Quello di cui invece si può e si deve parlare sono i fatti avvenuti al di fuori dei procedimenti. E in particolare l’atteggiamento assunto da alcuni protagonisti della vicenda e segnatamente da alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Sorprende in particolare, e suggerisce domande alle quali sarebbe interessante ricevere risposta, l’ammissione, e nello stesso tempo una certa reticenza, del Dott. Davigo, campione della difesa della massima trasparenza e pubblicità delle azioni giudiziarie, soprattutto nella lotta alla corruzione pubblica e alle malversazioni di ogni genere. L’ammissione che sorprende è quella secondo la quale effettivamente verbali di interrogatorio sottoposti a segreto gli sarebbero stati trasmessi, ma che, nella fattispecie, non vi sarebbe nulla di illecito, perché il segreto “non è opponibile” ai membri del Csm. «La forma è il nemico giurato dell’arbitrio», diceva una grande giurista del XIX secolo (Rudolf von Jhering). E allora sarebbe forse il caso che, a quell’opinione pubblica cui viene riconosciuto il diritto a essere informata, si spiegasse in base a quali norme e procedure (quali “forme”) un componente del Csm può ricevere informazioni sottoposte a segreto ed essere esonerato da qualsiasi responsabilità. Perché anche noi conosciamo le circolari che prevedono il potere del Consiglio di superare il segreto istruttorio, ma, se non andiamo errati, questo potere riguarda specifiche “forme” e specifici procedimenti. E riguarda soprattutto l’attività del Csm come organo (o nelle sue articolazioni collegiali), non il potere di singoli componenti, al di fuori di qualsiasi procedura, di acquisire notizie sottoposte a segreto. Perché se così fosse, se, cioè, per il solo fatto di essere componente del Csm, qualunque suo membro potesse andare in giro per procure a richiedere di esaminare tutti i fascicoli di indagine, non ci sarebbero dubbi che tale norma sia “abnorme”, illegittima, irragionevole, sproporzionata rispetto ai principi che presiedono ai processi. Essere smentiti su questo punto sarebbe un elemento di grande conforto.

Ugualmente, sorprendono le dichiarazioni di Davigo quanto al seguito che egli avrebbe dato all’acquisizioni di tali informazioni. Perché l’aver informato “chi di dovere” appare un’affermazione quantomeno reticente… E non tanto per il fatto che ci interessi sapere quali siano le persone fisiche che da lui siano state informate, ma perché interessa, e molto – proprio per evitare che i comportamenti si risolvano in arbitrio – sapere attraverso quali “forme”, seguendo quali “procedure”, in base a quali norme, egli abbia identificato “chi di dovere” e soprattutto a quali fini. Si tratta di procedure disciplinari? Di esposti davanti all’autorità penale? Di richieste di apertura di pratiche a tutela ? Di iniziative per propiziare un dibattito del Plenum? Drammaticamente, questo è un periodo in cui la Giustizia e le sue istituzioni se la passano particolarmente male. E il rischio, agli occhi dei cittadini, ma anche agli occhi del mondo (tra cui l’Unione europea che ha appena ricevuto, dal governo Italiano, le proposte di riforma della giustizia del Pnrr) è che la sua credibilità sia definitivamente compromessa. Coloro che ne sono stati, e ne sono ancora, protagonisti, fino a farsi araldi di un ruolo quasi messianico della magistratura, dovrebbero forse fare uno sforzo maggiore per non alimentare, anche con reticenze, le ombre che si addensano sulla stessa. Sarebbe utile, innanzitutto, per la giustizia e, poi, per evitare che si concretizzino quei fantasmi temuti dalla maggioranza dei Costituenti. I quali, se pur avessero molto a cuore la sua indipendenza erano (ad esempio, Piero Calamandrei) preoccupati che «con le norme previste, si avrebbe un corpo di magistrati completamente indipendente, il quale deciderebbe delle nomine, provvederebbe alla designazione ai vari uffici, autoeserciterebbe la disciplina e delibererebbe delle spese. Con una magistratura così chiusa e appartata, si potrebbero verificare conflitti con il potere legislativo o con quello esecutivo, in quanto la magistratura potrebbe, per esempio, rifiutarsi all’applicazione di una legge o attribuirsi il potere di stabilire criteri generali di interpretazione delle leggi». Ed era il 1946, non il 2021. Giovanni Guzzetta

Scandalo Csm, magistrati indagati e lista dei nomi. Le verifiche sulla «loggia Ungheria». Le parole di Amara. I magistrati verificheranno se c’è un’associazione segreta o è calunnia. Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 2 maggio 2021. Un’associazione segreta in grado di condizionare nomine e affari oppure una gigantesca macchina del fango alimentata da dossier e file audio. È questo il nodo che dovrà sciogliere la Procura di Perugia titolare dell’inchiesta sulla loggia «Ungheria», descritta in oltre dieci verbali dall’avvocato Piero Amara, condannato e inquisito per i depistaggi contro l’Eni e svariati episodi di corruzione in atti giudiziari. Una presunta consorteria della quale - sostiene il legale che prova a trasformarsi in una sorta di «pentito» - farebbero parte politici, magistrati, vertici delle forze di polizia, avvocati e imprenditori. Ma sulla quale mancano ancora riscontri, a partire dalla lista degli affiliati, l’eventuale sede degli incontri, gli accordi illeciti tra gli iscritti. Amara è stato interrogato a più riprese dai magistrati di Milano e già due volte da quelli di Perugia guidati dal procuratore Raffaele Cantone. Tornerà nei prossimi giorni e sarà richiamato anche il suo socio Giuseppe Calafiore (altro avvocato già condannato) che ha annunciato la volontà di collaborare.

Magistrati indagati. Amara è stato iscritto nel registro degli indagati di Perugia per associazione segreta. L’inchiesta riguarda anche alcuni magistrati di cui ha fatto i nomi, nei confronti dei quali sono state avviate verifiche. Accertamenti che si intrecciano con quelli avviati a Roma per scoprire chi e perché, sei mesi fa, abbia cominciato a diffondere con spedizioni anonime quei verbali che il pubblico ministero milanese Paolo Storari (uno degli assegnatari del fascicolo su Amara) aveva consegnato all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Tra questi quello recapitato al componente del Csm Nino Di Matteo, con le accuse nei confronti del suo collega Sebastiano Ardita, che l’ex pm antimafia ha già bollato come «palesemente calunniose, perché la loro falsità è facilmente riscontrabile; si tratta di un vero e proprio dossieraggio volto a screditare Ardita e a condizionare l’attività del Csm».

La lista con i nomi. L’intrigo comincia nel 2019 quando Amara, assistito dall’avvocato Salvino Mondello, comincia a parlare con i magistrati milanesi e dichiara di avere «una lista di 40 nomi che fanno parte della loggia “Ungheria”». Subito dopo precisa però: «La lista completa potete trovarla a casa di un giudice, oppure chiederla a Calafiore che la custodisce all’estero». Il giudice, inquisito per un’altra vicenda, subisce una perquisizione ma della lista non si trova traccia. Riferimenti alla loggia «Ungheria» vengono invece trovati nel computer di Amara, appunti scritti da lui che sono alla base degli interrogatori milanesi. L’avvocato dichiara che sono annotazioni sugli accordi per le nomine negli uffici giudiziari e per la conclusione di alcuni affari in cui avrebbe fatto da mediatore: fatti veri o dossier preconfezionati ad uso futuro?

I colloqui registrati. Ai magistrati Amara consegna pure alcuni files audio con la registrazione di colloqui «che — spiega — io stesso ho avuto e che provano l’esistenza della loggia». E per dimostrare la propria attendibilità aggiunge: «Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi». Mentre tramava con i presunti complici, insomma, registrava e filmava quelle stesse trame. I pm della Procura di Milano si dividono sull’opportunità di procedere con deleghe d’indagine per verificare ciò che l’avvocato racconta, e così Storari decide di muoversi in maniera autonoma.

Il ruolo di Davigo. Siamo ormai tra la fine di marzo e gli inizi di aprile 2020. Il magistrato contatta Davigo e gli consegna le copie di lavoro estratte dal proprio computer. «Lo faccio a mia tutela, perché i capi non vogliono andare avanti», si giustifica. Davigo ne parla informalmente con il vicepresidente del Csm David Ermini e con il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, ma né lui né Storari compiono alcun passo ufficiale. Non ci sono esposti, nessuna pratica può essere aperta. Salvi chiede però conto al procuratore di Milano Francesco Greco di eventuali dissidi. Le carte rimangono nell’ufficio di Davigo. E pochi giorni dopo il suo pensionamento quei verbali vengono spediti in forma anonima ad alcuni giornali. Non sono firmati, non ci sono timbri (a conferma che escono direttamente da un computer di uno degli inquirenti). I giornalisti che li ricevono si insospettiscono e denunciano la ricezione del plico. La Procura di Roma avvia un’inchiesta e accusa la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto di essere la «postina». La donna viene perquisita, nella sua abitazione vengono trovate copie di quei verbali. Chi l’ha incaricata di diffonderli? Lei si avvale della facoltà di non rispondere. Per questo nei prossimi giorni Davigo sarà chiamato a spiegare come mai li avesse la sua segretaria. Per un interrogatorio potrebbe essere convocato pure Storari, nei confronti del quale il procuratore generale Salvi ha già annunciato accertamenti ipotizzando «gravi violazioni dei doveri di un magistrato».

UN’ALTRA "AMARA" RIVELAZIONE SULLE SUPERTOGHE. NUOVA BUFERA SUL CSM Dai verbali di interrogatorio dell’avvocato Pietro Amara viene fuori una loggia massonica in grado di poter condizionare anche le nomine dei magistrati. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 2 maggio 2021. Prima Luca Palamara, adesso Pietro Amara. Il primo da alcuni mesi ex magistrato ed ex presidente dell’associazione Nazionale magistrati ed ex consigliere del cosiddetto Consiglio Superiore della Magistratura, il secondo avvocato noto e potente nelle alte sfere dell’imprenditoria, ex avvocato esterno dell’Eni, indagato e condannato a 2 anni e 8 mesi. Un avvocato che è al centro di intrighi ancora non chiariti e che hanno, hanno fatto diventare “Maramaldo” (che uccise il condottiero Fiorentino già morente Francesco Ferruccio intorno al 1500) l’organo supremo della magistratura italiana già ferita a morte dalle rivelazioni di Luca Palamara ai magistrati di Perugia e nel libro “Il Sistema” (scritto con Alessandro Sallusti) e adesso agonizzante con la diffusione dei verbali con le dichiarazioni di Pietro Amara  dichiarazioni rese ai pm di Milano. Dichiarazioni (vere o false ancora non è stato chiarito) che hanno provocato un altro terremoto nella già agonizzante magistratura italiana e, soprattutto dentro il Csm che ancora una volta viene travolta da scandali e che fino ad ora scandalosamente è sopravvissuto alle bufere che l’hanno investito. Al centro di questo ennesimo tsunami che ha colpito il consiglio superiore della magistratura sono i verbali di interrogatorio che tra la fine del 2019 ed i primi mesi del 2020 Pietro Amara ha reso ai magistrati di Milano. Verbali e dichiarazioni esplosive ancora al vaglio di chi indaga e coperte dal cosiddetto segreto istruttorio che tra la l’ottobre del 2020 e i primi mesi del 2021 sono stati recapitati anonimamente a tre giornali, ad Antonio Massari de il Fatto Quotidiano, ad Emiliano Fittipaldi de il Domani, a Liliana Milella di Repubblica.  Il Fatto Quotidiano e Repubblica hanno ritenuto, con varie motivazioni (condivisibili o meno) di non pubblicare nulla, informando le procure di Milano e Roma mentre il Domani, nei giorni scorsi ha pubblicato alcuni stralci che tirano in ballo l’ex premier Giuseppe Conte. Ma non solo ai giornali. I verbali “secretati” sono finiti anche nelle mani di due magistrati del Csm, Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo (adesso in pensione). Quest’ultimo ha anche informato il Quirinale quindi anche Mattarella conosce i verbali devastanti di Pietro Amara. Nino Di Matteo ha invece informato ufficialmente mercoledì scorso il Consiglio Superiore della magistratura dopo che aveva informato anche il procuratore di Perugia Raffaele Cantone che ha giurisdizione sulla posizione dei magistrati romani coinvolti a vario titolo in inchieste. Di Matteo ha anche aggiunto che nei verbali di Amara ci sono “riferimenti calunniosi” ad un membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Il riferimento è al componente del Csm Sebastiano Ardita che secondo Amara farebbe parte di una loggia massonica “Ungheria”. Ardita ha già parlato con i colleghi di Perugia e con dati di fatto ha smentito le affermazioni di Piero Amara. Tra gli obiettivi della “Ungheria”, sulla quale ora sta indagando la procura di Perugia, anche quella di condizionare le nomine in magistratura. Una loggia che coinvolgerebbe secondo Amara personaggi più importanti di molti settori della vita pubblica. Si va dai vertici di alcune forze dell’ordine di oggi e ieri ad altissimi prelati in carica e usciti di scena, dai livelli apicali della magistratura amministrativa e ordinaria a quelli della politica recente. Ma chi e perché ha fatto uscire e circolare quei verbali secretati? Due procure indagano, una è quella di Roma l’altra è quella di Perugia. E qua viene il bello che fa diventare questa vicenda ancora più ingarbugliata, quasi una spy store. A spedirli, secondo la procura di Roma, è stata Marcella Contrafatto impiegata del Csm nella segreteria dell’allora consigliere Davigo, ora indagata per calunnia. Nei giorni scorsi la casa e l’ufficio della “Postina” Marcella Contrafatto è stata perquisita dalla Guardia di Finanza. Nel suo computer sono state trovate copie degli atti spediti. Palazzo dei Marescialli ha sospeso l’impiegata, che dopo il pensionamento di Davigo lavorava nella segreteria del consigliere laico Fulvio Gigliotti. Ma perché l’ex segretaria di Piercamillo Davigo recapitava ai giornali i verbali di Amara? Per conto di chi faceva da postina? Interrogata dai pm, Contraffatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Amara, come Palamara, ha fatto i nomi di alcuni magistrati che si sarebbero rivolti a lui per ottenere promozioni. Vero falso? Quel che è certo è che i verbali con le esplosive dichiarazioni di Piero Amara, ancora tutte da verificare, sono usciti dagli uffici del Consiglio Superiore della Magistratura dove erano stati portati dal pm di Milano Paolo Storari che li aveva consegnati a Pier Camillo Davigo, una consegna che era anche un atto d’accusa nei confronti dei vertici della Procura di Milano che, secondo Storari, non sarebbero stati molto interessati alla sua inchiesta. Insomma dentro questa ingarbugliata storia che coinvolge Amara ci sono anche intrighi interni alle procure. E, sia pure tardivamente, sulla vicenda interviene anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (citato nel libro di Palamara con il quale si era incontrato chiedendo anche lui un favore) e che nei mesi scorsi ha fatto una circolare sostenendo che “autopromorsi”, cioè chiedendo un intervento di Palamara in suo favore, non è illecito né reato. Non solo non ha mai risposto agli oltre cento magistrati che gli hanno chiesto conto e ragione del suo comportamento chiedendone anche le sue dimissioni se non avesse “chiarito”. Adesso l’autorevole magistrato Giovanni Salvi interviene sulla vicenda di Piero Amara affermando: “Nella tarda primavera dell’anno passato, il consigliere Piercamillo Davigo mi disse che vi erano contrasti nella Procura di Milano circa un fascicolo molto delicato (i verbali di Amara appunto, ndr), che riguardava anche altre procure e che – a dire di un sostituto – rimaneva fermo; nessun riferimento fu fatto a copie di atti. Informai immediatamente il Procuratore della Repubblica di Milano. In un colloquio avvenuto nei giorni successivi nel mio ufficio, il 16 giugno, il dr. Greco (capo della Procura di Milano, ndr) mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo. Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte del Consigliere Davigo o di altri di copie di verbali di interrogatorio resi da Piero Amara alla Procura di Milano. Di ciò ho appreso solo a seguito delle indagini delle Procure interessate e della conseguente perquisizione nell’ufficio di una funzionaria amministrativa. Si tratta di per sé di una grave violazione dei doveri del magistrato, ancor più grave se la diffusione anonima dei verbali fosse da ascriversi alla medesima provenienza. Non appena pervenuti gli atti necessari da parte delle Procure competenti, la Procura generale valuterà le iniziative disciplinari conseguenti alla violazione del segreto, per la parte di sua spettanza”. Il finale del comunicato di Giovanni Salvi è un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di suoi colleghi che gettano benzina sul fuoco e che alimenteranno se ce n’era bisogno, altre polemiche. Insomma il caso è tutt’altro che concluso. Le dichiarazioni di Amara hanno scatenato e scateneranno un ennesimo putiferio giudiziario. Chissà come finirà.

Corsi e ricorsi. Loggia Ungheria: chi c’è dietro lo scandalo che scuote la magistratura. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Maggio 2021. Che bella sorpresa, chi si rivede: i corvi. Non le bestie vere, ma la figura retorica, il bestiario datato. Che vuol dire corvo? La memoria riporta ad antiche tragedie siciliane ai tempi di Falcone e dell’Addaura, se non ci sbagliamo. I Corvi sono brutte bestie: si nutrono di verità e cagano menzogne e zizzania che investono i piani alti, il cielo della Terra italica, – qua rovino tutti, adesso io parlo e vedrete che fine farete – sant’Iddio ma chi ci sta dentro? Chi è coinvolto? Chi sta fuori? Il dio giornalismo all’italiana, così accomodante, ci perdoni, ma qui si tratta dell’intero sistema giustizia, il seguito, e si intravede la lievitazione, il nuovo soufflé del Sistema Palamara, come dire il Palamara-Due, la vendetta, certamente non il dessert. Ma perché ci troviamo il dottor Davigo? Ma non era in pensione? Che ci fa? Glielo chiedono quelli del Tiggì che lo vanno a trovare: “Scusi, consigliere, anzi ex, ma come mai un giudice anziché rivolgersi ai suoi superiori e dargli le carte, ha viceversa preso il grosso dossier e se lo è portato a Roma e per recapitarlo nelle sue mani al palazzo dei Marescialli, sede del Csm, dove si trovava lei? Ma le pare normale?” Lui sta seduto un po’ sul pizzo del divano e risponde che la cosa si spiega: il procuratore (che sarebbe il p.m. Storari che nel 2020 è venuto a Roma per consegnargli il dossier) non era tanto sicuro che la pratica facesse il suo corso”. E allora, lei? “Io ho trasmesso tutto a chi di dovere”. Vuol dire al dottor Greco, capo della Procura? “Ho detto chi di dovere e tanto basta”. Peccato che abbiano dimenticato di chiedergli quando avrebbe avvertito “chi di dovere”, perché sembra che da quando ha ricevuto l’incartamento a quando ha avvertito chi di dovere sia passato un sacco di tempo. È una cosa strana: chi di dovere, osserva la giornalista di Repubblica Liana Milella che è uno dei due giornalisti che hanno ricevuto il plico, dovrebbe essere il dottor Greco, capo della Procura della Repubblica di Milano. Ma non era proprio a lui che il dottor Storari non ha voluto dare l’incartamento perché temeva che restasse incagliati nelle nebbie? E il dottor Davigo lo avrebbe lui messo al corrente, chiamandolo “chi di dovere”. Ma che è? un rebus? Un paradosso logico tipo Zenone come la freccia scoccata che non vola e Achille che non raggiunge la tartaruga? Che cosa ci stiamo perdendo nella logica? Qui ci vorrebbe il dottor Davigo a spiegarcelo perché non ci arriviamo. Intanto due giornali e due giornalisti ricevono posta. Una è la cronista giudiziaria di Repubblica Liana Milella e l’altro un suo collega del Fatto Quotidiano. “Drin-drin”, c’è posta anonima per lei. Non elettronica. Di carta. Apri il plico e che ci trovi? Oh, madonna santissima, cristoggesùemmaria? Ma qui c’è tutto l’iperuranio della politica e giustizia italiana. Ma quanta roba è? Una tonnellata? Davvero sono tutte le deposizioni nascoste sotto il tappeto, rilasciate dall’avvocato Amara che era quello che aveva tirato in ballo proprio Palamara? E sant’Iddio, tutta sta roba? Un malloppo da far tremare le vene e i polsi, si dice così? Ma perché proprio a me l’hanno mandato? E chi l’ha mandato? Fanno un po’ di indagini interne al Csm e dicono di essere arrivati dritti alla moglie di un magistrato che fino a poco fa era anche la segretaria del dottor Davigo, quando lui era ancora al Palazzo dei Marescialli. Dunque, l’ignara e intrepida signora del Palazzo dei Marescialli sarebbe andata alla posta per conto di… Di chi? È lei la Postina della Valgardena? Ma non giocavano a Corvo Nero non avrai il mio scalpo? Basta: stiamo girando in tondo come polli decapitati: questa è una storia che entra a lama di coltello nell’intera giustizia italiana e l’unico che potrebbe salvarci e darci a noi e al Paese la dritta giusta è il dottor Davigo che è un giovane pensionato, ma sempre in gamba? Davvero ci sono logge di piazza Ungheria? Venga a prendere un caffè da noi? No, quello era l’Ucciardone. Chi le ha detto di mandare i plichi? Povera donna, che ne sa? Ma santo cielo, qualcuno sarà pur stato! Dottor Davigo, ci aiuti lei che è come la divina provvidenza: ne sa niente lei? Davigo – l’ha detto, è stato chiaro, perché tormentarlo, pover’uomo – ha inviato solo a chi di dovere. E poi sta loggia. Un’altra? Ma che è, massonica? E che cos’altro? Una loggia che si chiama “Ungheria” come la piazza dei Parioli? Altro che matassa dai bandoli: sono matrioske in Kamasutra reciproco che contengono quel che è uscito dall’interrogatorio fiume dell’ex avvocato siciliano Piero Amara, che avrebbe nesso in mezzo un sacco di gente fra cui l’avvocato Giuseppi Conte quando non era presidente del Consiglio ma interessato e una faccenda da quattrocentomila euro, tutta roba super-professionale, s’intende. Pulita. Intanto, però, era sotto il tappeto. Ore di deposizione. Anche la sperimentata e tosta cronista di Repubblica, scrive una lunga nota per il minimo sindacale di scetticismo d’ordinanza, ed è giustamente sorpresa, anzi scandalizzata perché chi fa queste brutte cose non aiuta davvero la giustizia. Ma aggiunge, avendo un naso sperimentato, che le cose contenute nel dossier anonimo possono essere divise in tre categorie: vere, verosimili e vattelappesca. E chi siamo noi per decidere? Noi siamo cronisti. Ma chi l’avrà mandata, la busta? Indovinala grillo. Non quello. Il modo di dire. Però, attenzione, le carte non hanno firma – come giustamente annota la giornalista di Repubblica – e dunque non dimostrano niente, anzi si sparge altra puzza di bruciato. Ma c’è una lettera di accompagnamento che, a caratteri cubitali, avverte che sono coinvolti i massimi livelli e cita come password il modo di dire caro a Palamara: “cane non mangia cane”, è come una firma digitale. Se trovi “cane non mangia cane”, allora fochetto-fochetto, siamo nella zona del Sistema. Ma il dottor Davigo, ecco il nostro tormento, come la mette? Come la spiega? Siamo di fronte al panorama fantastico come dipinto da Salvador Dalì, orologi molli e specchi di cartone. E poi la loggia in piazza Ungheria? Siamo confusi, vorremmo che la Repubblica ne uscisse. C’è per caso un drago o bestia del genere in grado di incenerire? O almeno, qualcuno può chiamare la Zucchet, con i suoi pesticidi?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Giuseppe Salvaggiulo per la Stampa il 2 maggio 2021. «Si guarda il dito e non la luna». Piercamillo Davigo è solo. Scaricato dagli ex colleghi del Csm, che gli imputano di aver infangato l’organo costituzionale di cui ha fatto parte fino a sei mesi fa. Messo nell’angolo dalle tre Procure più importanti d’Italia (Roma, Milano, Perugia), che hanno stanato la sua ex segretaria. Sconfessato dalle istituzioni più rappresentative dell’ordine giudiziario. Additato dai suoi avversari politici, Renzi in testa, «giustizialista che deve rendere conto». Ma il dottor Sottile di Mani Pulite non arretra. Fa scudo fino in fondo all’ormai spacciato pm milanese Paolo Storari. Difende sé stesso. E contrattacca. Nei colloqui privati con colleghi e amici, in attesa di farlo davanti all’autorità giudiziaria. Cita dunque il proverbio orientale. Fuor di metafora, il dito è il suo intervento in soccorso del pm Storari, che conosce da tempo, per evitare che rimanesse «con il cerino in mano». La luna è il sopruso, se non l’illecito, compiuto dal vertice della Procura di Milano dove lavorò vent’anni e che ora considera «irriconoscibile», capace di comportamenti «impensabili ai tempi di Borrelli», al punto da suggerirgli paragoni «nebulosi» con Procure di altri tempi e altre latitudini. Delle propalazioni di Amara, leggendo i verbali si era fatta l’idea di «un mix di cose vere e false, perché non credo possa essersi inventato tutto». Comunque «da verificare con la tempestività che noi di Mani Pulite riservavamo alle chiamate in correità». Sostiene dunque che «irrituale» non dovrebbe considerarsi il comportamento di Storari, ma quello di chi, contrastandolo in Procura, «ha perso mesi preziosi» a causa di «un ingiustificato ritardo nell’avvio dell’indagine» sulla presunta loggia segreta. Al punto che considera il reato di violazione del segreto istruttorio commesso dal pm milanese consegnandogli i verbali «in ogni caso» sanato dal codice penale che «esclude la punibilità» per «adempimento di un dovere». Quanto alla forma (irregolare) della consegna a mano di documenti segreti da un pm (Storari) a un amico consigliere (egli stesso), senza una formale segnalazione al Csm, Davigo se ne prende in pieno la responsabilità. Spiegherà, quando convocato in Procura, di essere stato lui a proporre al collega «preoccupato» di farsi carico della vicenda. D’altro canto «che cosa avrebbe dovuto fare Storari - si sfogava ieri con alcuni magistrati perplessi - chiedere a Greco di autodenunciarsi al Csm?». Per non dire dell’opzione di rivolgersi, per competenza, alla Procura di Brescia che dai tempi dei processi subiti dal pool Mani Pulite considera «un castigo del Signore». Si vedrà se Davigo dovrà giustificarsi in sede giudiziaria per il suo comportamento. Se reggerà l’opinabile tesi sulla ricezione di documenti giudiziari segretati: «Non è possibile opporre il segreto a un membro del Csm com’ero io». Di certo, ieri, non c’era un consigliere (in carica o no) pronto a sostenerla. Anche la successiva gestione dei verbali di Amara è controversa. Nessuna nota scritta: Davigo dice di aver «informato chi di dovere», ovvero «presidenza della Repubblica e vicepresidente del Csm David Ermini», sia pure «molto molto informalmente». Il Quirinale non si sente minimamente sfiorato dalla vicenda. Con Ermini in effetti Davigo parlò, ma in modo generico sull’esistenza di un’inchiesta che coinvolgeva «molte persone importanti». Nessuna parola sul conflitto tra pm a Milano, tantomeno sui verbali di Amara. Ermini non diede seguito e non riferì a nessuno. Davigo parlò anche con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, membro di diritto del Csm oltre che vertice di tutte le Procure. Davigo oggi «non ricorda», ma Salvi sì, e pure bene. Colloquio sommario: nessun riferimento ai verbali di Amara, cenni a «casini nella Procura di Milano». E infatti fu Salvi a «istituzionalizzare» il caso, attivandosi per le sue prerogative con le Procure (Milano, Roma e Perugia). Quanto alla protezione dei verbali, Davigo non nega di aver informato la sua segretaria al Csm, Marcella Contrafatto, che aveva la disponibilità della sua agenda e della sua posta elettronica, nonché libero accesso al suo ufficio. Ma lo fece, obietta, a tutela della segretezza del dossier, non certo per violarla. Essendo la stanza dove teneva i verbali (non in cassaforte) adiacente a quello di Sebastiano Ardita, uno dei nomi citati da Amara nei verbali sulla «loggia segreta», spiegò alla segretaria che da quel momento avrebbe cessato ogni rapporto con il suo collega (di pianerottolo, nonché di corrente), imponendole anche la consegna del silenzio con l’assistente di Ardita. Quanto al dossieraggio successivamente ordito dalla Contrafatto, mandando in giro i verbali dentro e fuori il Csm in forma anonima, Davigo si dice «attonito» e liquida i sospetti con una battuta: «Certo se l’avessi fatto io non l’avrebbero mai scoperto». Viceversa lei è stata così «goffa» da farlo propendere per un’iniziativa autonoma. Resta lo scenario di fondo, i due anni orribili dallo scoppio del caso Palamara con le domande sugli utilizzatori finali di questi nuovi flussi di veleni. «Mi rendo conto che la magistratura subisce un danno grave», ha detto Davigo. Ma senza sotterrare l’ascia di guerra. Da tempo ripete: «Chi ci attacca ha la coda di paglia. Noi abbiamo cacciato le mele marce, Lotti e Ferri sono ancora al loro posto». E le punture «del simpatico cialtrone» Renzi, con cui si è reciprocamente querelato con richiesta danni per 100mila euro, «mi fanno ridere». Come la paventata commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura. Dove, se nascerà, sfida i politici «a convocarmi, così li metto tutti a posto». Prima, però, dovrà farlo con gli ex colleghi magistrati. Più difficile, a naso. 

Alessandro Sallusti per il Giornale il 2 maggio 2021. L'intreccio tra magistratura, politica e informazione che ha condizionato la vita democratica al riparo da occhi indiscreti, una volta smascherato non regge più il gioco (sporco), dopo vent'anni di successi, se tali si possono definire le decapitazioni per via giudiziaria della classe politica avversa alla sinistra. Quello che è successo negli ultimi mesi ha dell' incredibile: verbali segreti con pesanti accuse all' ex presidente del Consiglio Conte, ad importanti magistrati e uomini di Stato prima insabbiati, poi consegnati, non si capisce a che titolo, nelle mani di Piercamillo Davigo che invece di fare pubblica denuncia ne parla con il presidente Mattarella e tutto viene messo a tacere; giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica che ricevono informazioni a tal riguardo e che invece di indagare, verificare ed eventualmente scrivere (che sarebbe il loro mestiere) questa volta decidono di rivolgersi alla Procura della Repubblica e per mesi fanno finta di niente; una procura, quella di Perugia, che ipotizza l' esistenza di una loggia segreta di magistrati, politici e professionisti sul tipo della P2, la «loggia Ungheria». Mi fermo qui, il resto lo trovate all' interno. È il capitolo mancante del libro Il Sistema, non per omissione degli autori, ma perché parliamo di questioni successive alla sua pubblicazione. Ma è un capitolo assolutamente in linea con i precedenti in quanto a dinamiche, logiche, intrighi e illegalità compiute al riparo dell' ombrello della giustizia. Se questa volta il giochino è stato scoperto è solo perché il «sistema», scardinato dalla valanga Palamara, non ha più la stessa tenuta di prima. Ormai è un tutti contro tutti, e anche il puro Davigo (il suo tentativo di coinvolgere Mattarella per salvarsi è ridicolo) non può sfuggire alla regola che «se fai il puro, arriverà qualcuno più puro di te e ti epurerà». Qui non basta una commissione parlamentare d' inchiesta, servirebbe una retata (niente carcere, per carità, ma tutti a casa sì). O almeno un commissario che prenda in mano il Csm degli inganni e dei furbetti. Sì, perché il Csm è come una azienda decotta e fallita, come lo sono state la Parmalat, l' Ilva, l' Alitalia. Nella migliore delle ipotesi, volendo usare la celebre frase di Davigo, parliamo di «colpevoli che la faranno franca».

Anna Maria Greco per "il Giornale" il 2 maggio 2021. E come in tutti i momenti più bui del mondo giudiziario, compare «il corvo». Un dossier anonimo, con la copia dell'interrogatorio nel 2019 di un indagato, arriva per posta al consigliere del Csm Nino Di Matteo e lui fa scoppiare il caso in plenum. «Nella lettera anonima - dice pubblicamente - quel verbale veniva indicato come segreto e l'indagato menzionava in forma diffamatoria, se non calunniosa, circostanze relative ad un consigliere di questo organo». L' ultimo atto dello scandalo Palamara, che ha terremotato l'organo di autogoverno e tutta la magistratura, riporta indietro nel tempo, ad un meccanismo di sospetti e ricatti, incastri e convenienze, che abbiamo già visto. Pare proprio che l'indagato di cui parla Di Matteo sia quell' avvocato-faccendiere Piero Amara, grande accusatore dell'ex presidente dell'Anm e leader Unicost, che ha da poco messo nei guai il presidente del Consiglio di Stato Giuseppe Patroni Griffi e ora, come scrive Domani, l'ex premier Giuseppe Conte, coinvolgendo anche Michele Vietti, ex Udc e già vicepresidente del Csm. La questione è anche degli intrecci tra magistratura e politica e il 5 maggio le commissioni riunite prima e seconda della Camera iniziano l'esame della proposta di legge per una commissione d' inchiesta. Dicono che il plico con la copia informatica dell'interrogatorio circolasse da settimane, fosse arrivato ad altri membri del Csm e anche a giornalisti, ma è solo Di Matteo a rompere il silenzio. Il togato indipendente, eletto con l'appoggio della corrente di Piercamillo Davigo, Autonomia &Indipendenza, spiega di aver contattato i pm di Perugia e riferito il fatto «nel timore che tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo potessero collegarsi a un tentativo di condizionamento dell'attività del Csm». Poi chiede che «si faccia luce sugli autori e sulla diffusione, in forma anonima, all' interno di questo Consiglio, di questi atti». Di Matteo non fa il nome del collega del Csm che sarebbe citato dall' interrogato, ma sarebbe Sebastiano Ardita di A&I, che con Davigo ha rotto proprio per una vicenda legata alle indagini su Palamara. È l'esposto al Csm del l’ex pm Stefano Fava nei confronti dell'allora suo capo alla procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che non si sarebbe astenuto in casi connessi ad alcuni indagati eccellenti, compreso lo stesso Amara, per i quali suo fratello avrebbe lavorato come consulente. Ardita disse ai pm di Perugia che l'iter dell'esposto sulle difficoltà nell' ufficio di piazzale Clodio era stato rallentato dal vertice del Csm, fino al pensionamento di Pignatone, e che Davigo sapeva delle accuse, smentendo la sua diversa versione. Amara, ex avvocato esterno di Eni, coinvolto in vari procedimenti penali per il «sistema Siracusa» e le tangenti Eni-Nigeria, sta collaborando con i pm di almeno tre procure e spara a zero su molti personaggi noti. Con il contagocce e forse secondo il disegno utile a qualcuno, filtrano le notizie dei suoi interrogatori, come quelli a Milano davanti ai sostituti Paolo Storari e Laura Pedio. Non sempre è credibile, come sostenne proprio Fava, poi estromesso dalle indagini. Non è stato il solo a dubitare della serietà del faccendiere siciliano, ritenuto il regista di molte corruzioni. Nel documento anonimo inviato al consigliere del Csm non ci sarebbe solo il nome di Ardita, ma anche di altri magistrati e si parlerebbe pure di logge massoniche. Sembra partita una caccia alle streghe in cui è difficile distinguere tra verità e menzogna. Anche perché la menzogna, comunque, sporca. Di Matteo, con il suo atto in plenum, sembra deciso a puntare il riflettore su un teste che potrebbe essere manovrato, questo è il pericolo, utilizzato nella lotta intestina tra correnti e procure. Pone delle domande precise e avverte che non si possono ammettere intimidazioni. Questo Amara è credibile? O viene utilizzato da qualcuno? Perché non rendere pubbliche le sue dichiarazioni ai pm ed evitare strumentalizzazioni? Insomma, fa saltare il banco e obbliga gli altri ad affrontare il problema alla luce del sole e non nelle stanze chiuse del Csm. Sulle quali aleggia un «corvo» o forse più d' uno.

 Fiorenza Sarzanini e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 2 maggio 2021. Atti giudiziari coperti da segreto, lettere anonime, calunnie: c' è un nuovo scandalo che rischia di investire il Consiglio superiore della magistratura. E di avvelenare ulteriormente il clima già rovente in alcune Procure, prima fra tutte Milano. Perché è stato proprio un pm di questo ufficio, Paolo Storari, a consegnare i verbali ancora segreti all' allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Un anno fa. Senza informare i propri capi, a partire dal procuratore Francesco Greco, e anzi allo scopo di tutelarsi da essi. I verbali, tuttora segretati, sono quelli resi in cinque occasioni nel 2019 da Piero Amara, l'avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell'inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici, 2 anni e 8 mesi di patteggiamento, e coinvolto anche nelle vicende dell'ex pm romano Luca Palamara, radiato dalla magistratura e accusato d' aver pilotato nomine in cambio di regali e favori. Pochi mesi dopo che i verbali erano stati consegnati da Storari a Davigo, e mentre le indagini erano in corso, alcuni giornali iniziarono a riceverli con una missiva anonima che ne sollecitava la pubblicazione. A spedirli - scopre ora la Procura di Roma - fu Marcella Contrafatto, impiegata del Csm nella segreteria dell'allora consigliere Davigo, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. Per conto di chi si è mossa? Qual è il reale obiettivo del corvo? Tutto comincia nel dicembre 2019 quando Amara viene interrogato a Milano sui suoi rapporti con giudici, funzionari di Stato, politici, alti prelati, alti ufficiali delle forze dell'ordine, imprenditori. L'avvocato fa i nomi di magistrati che gli avrebbero chiesto aiuto per ottenere promozioni. Poi sostiene di aver "raccomandato" l'avvocato Giuseppe Conte per fargli ottenere nel 2012 e 2013 consulenze dal Gruppo Acqua Marcia Spa per 400mila euro. E soprattutto racconta di essere membro di una fantomatica loggia "Ungheria" di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui l'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Amara è un teste controverso, i pm procedono con circospezione, anche se storicamente nelle stesse settimane i vertici ne utilizzano un de-relato (su vaghi commenti di legali Eni circa il presidente del processo Eni-Nigeria poi conclusosi con assoluzione) e lo trasmettono alla Procura di Brescia (che archivia a ignoti), mentre i pm del processo Nigeria provano (senza esito) a chiedere Amara come teste in extremis. Nell' ottobre 2020 nelle redazioni di alcuni giornali arriva un plico con la copia dei verbali e una lettera: «Milano fa finta di niente». La ricevono anche i giornalisti de Il Fatto quotidiano che, convinti di essere finiti al centro di ricatti incrociati, decidono di informare proprio la Procura milanese. Non sanno che già dall' aprile del 2020 quei verbali "segretati", cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, sono al Csm nell' ufficio di Davigo. Cosa era accaduto? Secondo quanto il Corriere ha potuto ricostruire ieri tra più fonti, Davigo nell' aprile 2020 ha ricevuto i verbali segretati di Amara proprio da uno dei pm milanesi, Paolo Storari, che con il procuratore aggiunto Laura Pedio (una dei vice di Greco con l'allora dirigente del pool di cui faceva parte Storari, Fabio De Pasquale) avevano interrogato Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020. E Storari glieli ha portati proprio per tutelarsi da possibili conseguenze disciplinari di comportamenti che, nel trattamento di quei verbali, riteneva non corretti nei vertici della Procura. Il punto di frizione sembra essere stata, nei primi mesi del 2020, la necessità o meno di avviare accertamenti formali sulle gravi accuse che Amara rivolgeva ai componenti di quel gruppo di formidabile pressione denominato "Ungheria". Storari premeva perché si procedesse a iscrizioni formali, ravvisando che gravissimi potessero essere i fatti se veri, e gravissima la calunnia se si fossero rivelati falsi; Greco, De Pasquale e Pedio ritenevano invece più opportuno attendere o non procedere ad iscrizioni formali. E per questo, passati alcuni mesi, Storari (che in seguito avrà dai capi l'ok all' avvio di accertamenti, poi trasmessi per competenza a Perugia e Roma), avrebbe scelto di confidarsi con una figura istituzionale come il consigliere Csm Davigo. Il Corriere ha chiesto a Davigo se dunque sia vero che Storari gli abbia confidato le divergenze in Procura e portato i verbali con la motivazione di volersi tutelare dai colleghi: «Sì, è vero», risponde asciutto Davigo. Ma non è una violazione del segreto su quei verbali? «Il segreto non è opponibile ai componenti il Csm. E io ho subito informato chi di dovere». Cioè il vicepresidente Ermini o l'ufficio di presidenza del Csm? «Ho informato chi di dovere». Greco, interpellato, non commenta.

Antonio Massari per Il Fattoquotidiano.it il 2 maggio 2021. Quando a fine ottobre l’ex segretaria al Csm di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, secondo la procura di Roma, decise di inviare il plico con al Fatto Quotidiano, lo fece per una iniziativa spontanea o perché qualcuno la indusse a farlo? È una dei filoni d’indagine che la procura di Roma potrebbe decidere di avviare nelle prossime ore. Il punto è che Contrafatto è moglie del magistrato Fabio Massimo Gallo con il quale Luca Palamara iniziò il suo percorso in magistratura da uditore, vicino prima a Mi e poi ad Aei, le correnti di Cosimo Ferri e Piercamillo Davigo. Non solo Contraffato e suo marito vantano una conoscenza datata nel con Fabrizio Centofanti che, da un lato è coinvolto in alcune indagini con Amara, l’uomo che ha parlato della presunta loggia massonica in stile p2, e dall’altro con Palamara, con il quale è indagato per corruzione a Perugia. Una pista investigativa che in questo momento è al vaglio della procura di Roma. L’avvocato di Contraffato, Alessia Angelini, ieri non solo ha smentito le condotte attribuite alla sua assistita e precisa che è da anni legata sentimentalmente ad un ex magistrato, ha conosciuto il signor Centofanti in occasione di convegni e nell’arco di dieci anni, in sole due o tre occasioni la signora è stata ospite di eventi organizzati dal signor Centofanti, aperti a numerosi magistrati, avvocati e professori. Il rapporto tra Contrafatto e la famiglia del signor Centofanti si è interrotto dalla primavera-estate del 2017. “Non vedo e non ho contatti di alcun genere con Marcella Contrafatto e il compagno Gallo dall’aprile 2017” dice al Fatto Centofanti “data in cui ho subìto una pesante perquisizione da parte della Gdf che ebbe grande eco sui giornali. Chiunque voglia anche in modo sibillino accostarmi a questa vicenda sarà perseguito dai miei legali in tutte le sedi giudiziarie nessuna esclusa”. Il punto è che la pubblicazione di questi verbali, ritenuti in parte inattendibili, avrebbe potuto innescare una valanga mediatica in grado di produrre, tra i tanti, un effetto: rendere Amara, agli occhi dell’opinione pubblica, un soggetto totalmente inattendibile. Un dato, questo, che potrebbe incidere sulla sua credibilità (che resta sempre da valutare) dinanzi alla procura di Perugia dove Centofanti è indagato con Palamara. Uno scenario che gli inquirenti stanno per il momento soltanto valutando e che per ora non è sfociato in alcuna delega d’indagine.

Claudia Guasco per il Messaggero il 2 maggio 2021. «Ma quale spaccatura?». Francesco Greco, capo della Procura di Milano, liquida in tre parole la crisi nella quale è piombato il suo ufficio. Dal 17 marzo, con la assoluzioni dei vertici di Eni e Shell perché «il fatto non sussiste», un movimento carsico è venuto alla luce: il pm Paolo Storari che consegna a Piercamillo Davigo i verbali dell' ex avvocato esterno dell' Eni «per autotutelarsi» dalle lungaggini del suo capo, cioè Greco, la chat infuocata in cui molti magistrati milanesi, all' indomani del verdetto, criticavano l' ostinazione del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale nel perseguire Eni a fronte della fragilità delle prove di cui disponeva.

IL FASCICOLO. All'origine di tutto c' è l'inchiesta sul falso complotto Eni, fascicolo di cui Storari era titolare con l' aggiunto Laura Pedio. Nel decreto di perquisizione del 23 febbraio 2020, si legge, «è emerso che nelle Procure di Trani e Siracusa» dal «gennaio 2015 sono stati incardinati procedimenti penali nei quali si accreditava la tesi (falsa) di un complotto organizzato ai danni di Claudio Descalzi da vari soggetti italiani e stranieri». Questi procedimenti, rilevano i pm, «sono stati avviati e coltivati da Piero Amara» e dai «suoi complici», tutti «interessati a vario titolo a proteggere Descalzi», indagato e poi imputato nel processo Eni-Shell Nigeria. Negli ultimi mesi il lavoro dei magistrati è andato avanti e si è consumata la frattura tra Storari e Greco: il primo avrebbe voluto accelerare con le iscrizioni al registrato degli indagati - approfondendo eventuali profili di calunnia - mentre il capo della Procura procedeva con cautela. Appoggiato dai suoi vice Laura Pedio e Fabio De Pasquale, allora capo del dipartimento reati finanziari di cui faceva parte Storari, poi passato ai reati contro la pubblica amministrazione guidato da Maurizio Romanelli. Ma De Pasquale era titolare dell'inchiesta Eni-Nigeria e tra gli indagati nel falso complotto, oltre ad Amara, c' era l'ex manager Eni Vincenzo Armanna, imputato e grande accusatore nel processo sulle presunte tangenti nel Paese africano. Ciò avrebbe generato tensioni sulla gestione parallela delle due inchieste e la decisione di Storari di consegnare i verbali con le dichiarazioni di Amara a Davigo, prima di decidere di non seguire più le indagini. Uno strappo che, afferma il magistrato Eugenio Albamonte, già presidente dell'Anm e attuale segretario di Area, fa riflettere: «Se è confermata la ricostruzione, e cioè che il collega avrebbe dato i verbali a un consigliere superiore, la cosa che mi lascia molto perplesso è il clima di sfiducia che c' è rispetto all' ambiente dell' ufficio in cui lavora. Se io ho un problema simile mi rivolgo al procuratore e al procuratore aggiunto, e se il problema è nei loro confronti, mi ci rivolgo formalmente, e se non va bene quello, mi rivolgo al procuratore generale. E se devo mandare gli atti al Consiglio superiore, li mando in modo ufficiale, assumendomi la responsabilità di quello che dico. Questo aspetto mi lascia sorpreso». Ma le procedure sono saltate e dopo la sentenza Eni-Nigeria la situazione è precipitata: nella chat interna montano le critiche, tanto che Greco dichiara il suo pubblico appoggio ai magistrati del processo. «Il procuratore della Repubblica è al fianco dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i quali, nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza», scrive. Una nota congiunta con il presidente del Tribunale Roberto Bichi ha ridimensionato lo scontro, ma è la tregua è durata poco.

Caos Csm, l'accusa di Autonomia&Indipendenza: chi ha spinto il "corvo" a rendere pubblici i verbali?. Simona Musco su Il Dubbio il 4 maggio 2021. Un atto «illegale» e «vile». Il coordinamento di Autonomia&Indipendenza, la corrente di magistrati creata da Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, etichetta così il dossieraggio interno al Csm, che ha portato nei giorni scorsi ad un’indagine a carico di un’impiegata (ora sospesa) del Csm, Marcella Contrafatto, prima membro della segreteria dell’allora consigliere Davigo e fino a qualche giorno fa in forza alla squadra del laico M5S Fulvio Gigliotti. Un complotto, secondo A&I, che avrebbe come obiettivo proprio Ardita. Una sorta di regolamento di conti, con lo scopo di «confinare finalmente il potere giudiziario in un angolo inoffensivo». La vicenda, si legge in una nota dai toni tutt’altro che sobri, riporta indietro nel tempo, ad un passato «durante il quale i migliori uomini di questa istituzione venivano calunniati, fatti oggetto di oscuri dossieraggi, isolati e purtroppo anche uccisi. Si trattava – ricordano le toghe – di condotte atte a garantire a poteri oscuri, annidati nei gangli delle istituzioni di questo paese, di agire indisturbati per condizionarne le scelte e i destini». Ad indicare nome e cognome della vittima è Alessandra Tasciotti, esponente del gruppo di Coordinamento e membro del direttivo dell’Anm. «È indubbio che vittima di questo dossieraggio è, tra gli altri, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita – ha dichiarato -. La sua storia professionale parla per lui». Il fatto ormai è noto: il pm Paolo Storari, sostituto procuratore di Milano, ha consegnato all’allora consigliere del Csm Davigo alcuni verbali in formato word, contenenti le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, ascoltato nell’inchiesta sul presunto depistaggio ai danni del processo a carico di Eni sul giacimento nigeriano Opl245, conclusosi qualche settimana fa con l’assoluzione dei vertici della società. Verbali segreti, redatti a fine 2019, nei quali Amara racconta dell’esistenza di una presunta loggia segreta, denominata “Ungheria”, della quale farebbero parte magistrati, politici, ufficiali delle forze dell’ordine e vertici delle istituzioni. Centinaia di persone, unite dagli stessi interessi e, soprattutto, intenzionate a gestire le nomine a proprio piacimento. Tra queste, dunque, anche Ardita, che però avrebbe già smentito tutto davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Il punto, ora, è capire chi e perché abbia voluto colpire Ardita. I verbali, infatti, sono stati inviati anonimamente a Repubblica e Fatto Quotidiano, con lo scopo di rendere pubbliche le informazioni contenute in esse. E se è vero, come ipotizza la procura di Roma, che a spedirli è stata Contrafatto, rimane da chiarire a nome e per conto di chi ha inviato quegli atti, violando il segreto istruttorio. Ma c’è anche un altro interrogativo: poteva Storari consegnare quei documenti a Davigo? Sembrerebbe di no: il Consiglio superiore della magistratura, infatti, «opera soltanto sulla base di atti formali e secondo procedure codificate, essendo qualsiasi suo intervento inibito a fronte di atti non identificabili come la sommaria comunicazione verbale da parte dell’allora consigliere Piercamillo Davigo in merito a indagini della procura di Milano», riferiscono fonti del Csm, secondo le quali, «in presenza di notizie in sé irricevibili perché estranee ai canali formali e istituzionali, ogni iniziativa del Csm sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili».

I fatti. La vicenda inizia a dicembre 2019. Storari, che raccoglie le dichiarazioni di Amara assieme alla collega Laura Pedio, non è contento di come la procura di Milano gestisce la vicenda. Convinto di un eccessivo lassismo e intenzionato ad iscrivere i primi nomi sul registro degli indagati, incalza il procuratore Francesco Greco per velocizzare l’indagine e accertare se quanto dichiarato da Amara sia vero o falso. Tra fine 2019 e inizio 2020, dunque, Storari invia una decina di mail ai vertici dell’ufficio, sostenendo la necessità di fare in fretta e iniziare ad indagare. Richieste che rimangono inevase, stando al racconto di Storari. Che in primavera decide, così, di consegnare tutto in mano a Davigo, con lo scopo di informare il comitato di presidenza e tutelarsi in caso di azioni disciplinari. Si tratta, dunque, dell’anteprima di quegli scontri registrati all’interno del Palazzo di Giustizia a marzo scorso, al termine del processo contro Eni.

La consegna a Davigo. Secondo quanto sostenuto ieri dal Corriere della Sera, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe consegnato quei verbali anche al vicepresidente del Csm, David Ermini. «Quello che ho da dire lo dirò, prima, nelle sedi istituzionali in cui verrò ascoltato», ha sottolineato Davigo, che nei prossimi giorni verrà sentito dalla Procura per chiarire come mai quei file fossero nel computer della sua segretaria. Ermini, dopo aver affermato di essere stato solo «marginalmente» informato da Davigo, ha poi affermato che lo stesso gli parlò della vicenda in più colloqui. Solo ad un certo punto, dunque, avrebbe compreso che Davigo era in possesso dei verbali secretati. L’ex pm di Mani Pulite informa anche il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, titolato a interloquire con le Procure su indagini in corso, e a maggio 2020 ne parla con il presidente della Cassazione Pietro Curzio. Nessuno dei due, però, sarebbe stato a conoscenza del fatto che Davigo avesse i verbali. Quel che è certo, dunque, è che da dicembre 2019 a maggio 2020 nessuno ha svolto alcuna indagine a riscontro di quanto affermato da Amara sulla loggia “Ungheria”.

Tutto regolare, secondo l’ex pm. Sul passaggio di verbali segreti dalla Procura al Csm, Davigo è chiaro: «Il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm». E dà ragione a Storari: «Cosa deve fare un pm se non gli fanno fare ciò che deve, cioè iscrivere la notizia di reato e fare le indagini per sapere se è fondata?». Il ritardo della Procura di Milano è infatti, secondo l’ex pm, «non conforme alle disposizioni normative». Storari sostiene di aver seguito la procedura prevista da una circolare del Csm risalente al 1994, secondo la quale «il pubblico ministero che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al Comitato di Presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio». La regola, spiega un membro del Consiglio, prevede però che per investire il Csm di qualsiasi comunicazione o richiesta la stessa vada trasmessa al Comitato di presidenza. Una vicenda parallela a quella che riguarda il caso Palamara-Fava: all’epoca Stefano Fava, in forza alla procura di Roma, aveva presentato un esposto contro il procuratore Giuseppe Pignatone, sostenendo la necessità di approfondire le dichiarazioni di Amara. Interpellato da Fava, Palamara suggerì al collega di presentare un esposto in prima commissione, che ha il compito di esaminare gli esposti contro i magistrati. Ma quell’esposto rimase senza risposta. Tornando ai verbali di Amara, della questione viene investito anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il fascicolo d’indagine, intanto, viene aperto a maggio 2020, quando la Procura dispone l’iscrizione di tre persone sul registro degli indagati per l’ipotesi di associazione segreta. Ovvero poco dopo che Salvi informa il procuratore di Milano, il quale «il 16 giugno» riferisce «per grandi linee le iniziative assunte».

L’indagine a Milano. Il 9 maggio 2020, dunque, la Procura di Milano iscrive per associazione segreta Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore. Il fascicolo, a dicembre scorso, viene poi trasmesso per competenza alla Procura di Perugia, dopo una riunione dopo l’estate con Raffaele Cantone. Greco, intanto, sta preparando una relazione per riscostruire la vicenda, relazione che potrebbe arrivare anche al Csm in vista di eventuale procedimento sulla vicenda. Secondo quanto sostiene la Procura, dopo i verbali di Amara sarebbero stati fatti diversi accertamenti, coordinati dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal procuratore Francesco Greco, per verificare le dichiarazioni dell’avvocato siciliano. Un’altra indagine sarebbe stata poi avviata per comprendere come l’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, indagato e grande accusatore nel processo Eni Nigeria, sia entrato in possesso di alcune pagine dei verbali secretati, dei quali ha chiesto conto ai pm Storari e Pedio nel corso di un interrogatorio. L’indagine sulla loggia “Ungheria” è ora in mano a Cantone, che a settembre, assieme a Greco, ha interrogato Amara a Perugia, prima del passaggio, a gennaio 2021, dell’intero fascicolo a Perugia.

Le carte finiscono ai giornali. Ad ottobre del 2020, intanto, Davigo va in pensione. Ed esattamente due mesi dopo, a dicembre, i verbali consegnati da Storari vengono inviati a Repubblica e Fatto quotidiano, che decidono, però, di informare le procure di Roma e Milano per evitare strumentalizzazioni. Un terzo plico viene inviato al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ne parla con Ardita e consegna tutto alla Procura di Perugia, titolare del caso Palamara e competente per le indagini sui magistrati di Roma. E la bomba scoppia quando, nel corso del plenum della scorsa settimana, Di Matteo svela tutto ai colleghi, parlando di vere e proprie «calunnie» ai danni di un collega (Ardita) e denunciando un possibile «tentativo di condizionamento dell’attività del consiglio». Così come Ermini parla di «opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare la sfiducia dei cittadini nei confronti della magistratura» e ribadendo l’estraneità del Csm ai fatti in questione. Intanto la Procura di Brescia sta acquisendo notizie e informazioni su quanto avvenuto a Milano. Il fascicolo conoscitivo, spiega il procuratore Francesco Prete, non è ancora formalmente aperto, ma è questione di giorni.

Articolo 101: «Sciogliamo il Csm». I componenti della corrente ribelle, Articolo 101, chiedono intanto lo scioglimento del Csm, «per ridare credibilità alla giustizia». E ciò perché il Csm ormai sarebbe «un ambiente da tempo inquinato dall’acquisizione privata di atti giudiziari segreti relativi a fosche vicende e dalla circolazione irrituale e de-formalizzata di notizie relative a tali vicende, aggravano ulteriormente la situazione. È così ancor più evidente che sono venute meno le condizioni minime del normale funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura nella sua attuale composizione. Riteniamo, dunque, che lo scioglimento di questo Csm sia la via obbligata per il ripristino della normale funzionalità dell’organo e, al contempo, la condizione indispensabile per ridare un minimo di credibilità e autorevolezza al complesso delle istituzioni giudiziarie».

L’avvocato di Amara: «Il mio assistito è credibile». Interpellato dal Dubbio, Salvino Mondello, difensore di Amara, ribadisce la credibilità del suo assistito. «I soggetti accusati da Amara sono sempre stati condannati e quindi la sua attendibilità è sempre stata riscontrata – spiega -. Chi dice oggi che non è un soggetto credibile è mosso da una volontà di screditare che non aderisce al vero». Mondello non è attualmente in possesso dei verbali incriminati. Ma la sua impressione è che la procedura seguita da Storari non sia del tutto corretta, a livello formale. «La circolazione dei verbali – dice con riferimento alle pubblicazioni di stampa – è illecita, in quanto secretati. Al punto che nemmeno io ne avevo copia come difensore. Se quanto spiegato dai giornali sulla consegna dei verbali a Davigo risponde al vero, è un comportamento che mi pare al di fuori di qualunque norma ordinamentale». Secondo Mondello, i tempi della Procura per accertare se la vicenda Ungheria abbia abbia i connotati previsti dalla legge Anselmi non sarebbero anomali. «Ma in caso, sarebbe stato doveroso fare un esposto formale», sottolinea. Per quanto riguarda le dichiarazioni di Amara, «ha riferito un insieme di fatti che vanno necessariamente verificati. Io ritengo che dica la verità, nei limiti di quel che conosce, e qualche riscontro c’è già». Per quanto riguarda la cosiddetta loggia Ungheria – della quale il Gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi disconosce l’esistenza -, «si tratta di cose che ha appreso direttamente. Si tratta di legami e relazioni indiscutibili, se poi queste hanno i connotati dell’associazione segreta sarà compito della Procura accertarlo. L’unica cosa che però voglio ribadire è che, finora, è sempre stato ritenuto credibile».

La corrente di Davigo infuriata. Loggia Ungheria, volano stracci in magistratura e Davigo si paragona a Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Maggio 2021. È un coro. Mentre volano schiaffoni tra toghe, i magistrati se la prendono ancora una volta con i politici. «Ci stanno delegittimando», dicono ex pubblici ministeri famosi come Giancarlo Caselli e Armando Spataro, e subito fa eco la magistratura associata. Si sono tirati la zappa sui piedi da soli, con i loro intrighi e le lotte di corrente e fanno la recita degli indiani assediati dalle carovane dei cowboy. L’ ex pm Armando Spataro dice che «è peggio che ai tempi di Mani Pulite». Dimenticando quali furono, ai tempi, i ruoli di vittime e quelli di carnefici. La corrente fondata da Piercamillo Davigo, “Autonomia e Indipendenza”, dice addirittura che qualcuno vuole ammazzarli tutti, i magistrati, dopo averli delegittimati, come accaduto a Giovanni Falcone. Con un po’ di confusione, perché quello che loro chiamano “dossieraggio” è un malloppo di carte processuali secretate, passate di mano in mano non tra politici ma tra magistrati, fino ad arrivare alla Postina della val Gardena, quella che bacia solo con la luna piena (copy Guzzanti) e poi ai giornali. Quindi non si capisce chi voglia assassinare chi. Il comunicato usa un linguaggio da guerra tra bande, mentre lancia il sospetto che la difficoltà che sta vivendo, sotto gli occhi di tutti, il mondo delle toghe, possa «ingenerare, in uomini che mai hanno tollerato il controllo di legalità, l’idea che sia giunto il momento di regolare i conti e confinare finalmente il potere giudiziario in un angolo inoffensivo». Strano modo di vedere la divisione tra i poteri dello Stato. Pare quasi una visione da mezzogiorno di fuoco. Come se ci fosse la banda dei politici che sta appostata in attesa di vendicarsi, di “regolare i conti”. Quali conti, quelli del cosiddetto controllo di legalità di cui non parla nessun codice, o invece quelli di processi senza regole e custodie cautelari finalizzate a confessioni e chiamate in correità, in violazione delle norme del codice di procedura? Stiamo parlando di Mani Pulite, o davvero dei tempi in cui volavano i corvi in Sicilia, e Giovanni Falcone prima di essere ucciso era stato isolato e calunniato? Ma da chi? E chi sarebbero oggi i “migliori uomini” calunniati e “fatti oggetto di oscuro dossieraggio”? Alle cronache risulta che un pubblico ministero di Milano, Paolo Storari, ritenendo che il suo capo Francesco Greco stia sottovalutando le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sull’esistenza di una loggia massonica di nome Ungheria composta tra gli altri anche da magistrati, abbia privatamente consegnato carte secretate all’ex collega Davigo, membro del Csm, e che questi, guardandosi bene dal protocollare e consegnare i verbali in via formale al direttivo del Consiglio, abbia lasciato le carte in ufficio dove una segretaria, trasformatasi in Postina, le avrebbe inviate ai giornali. Questo dice la cronaca dei fatti. Si può anche aggiungere che i quotidiani cui si era rivolta la Postina non avevano pubblicato, che poi le carte erano arrivate anche al consigliere Nino Di Matteo, il quale aveva denunciato il fatto, e che il procuratore di Roma Prestipino, con una sagace intuizione, aveva fatto perquisire non la casa di Davigo, ma quella della sua ex segretaria, la quale opportunamente aveva lasciato tracce del “malloppo” cartaceo e interrogata, si era avvalsa della facoltà di non rispondere. Fine della cronaca. Ma volendo anche cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe andare con la memoria a tempi non lontani, quelli del processo Eni i cui vertici erano accusati di aver versato una tangente milionaria a un ministro nigeriano e che è finito con una clamorosa assoluzione. Anche in quel processo ci fu a un certo punto un po’ di pasticcio tra pubblici ministeri e giudici milanesi. Perché il pm d’aula Fabio De Pasquale aveva cercato di far entrare nel dibattimento alcuni verbali dell’avvocato Amara (sempre quelli delle deposizioni davanti al pm Storari), che il Presidente Marco Tremolada non aveva accolto, peraltro senza sapere che in quelle pagine si parlava anche di lui. In seguito il procuratore Francesco Greco aveva inviato per competenza gli atti a Brescia, che aveva subito archiviato. Bella storia, eh? Anche in quel caso qualcuno aveva fatto “dossieraggio”? Chi sono dunque, tra tutti questi, i magistrati che stanno rischiando di essere uccisi come Falcone, dopo esser stati calunniati come ai tempi di Mani Pulite? E chi sono davvero i corvi? Siamo alla follia. Mentre il Sistema che governa il mondo dei togati sta implodendo, pare che di nuovo, come trent’anni fa, la colpa sia tutta del mondo politico. Ci stanno delegittimando, continuano a gridare in coro. Ma basterebbe si guardassero allo specchio, è tutta lì l’origine del loro fallimento. Verbali trafugati e postine di cui non si sa se siano state fedeli o infedeli al capo, pubblici ministeri ribelli e membri (o ex) del Csm che riferiscono “a chi di dovere” mentre il signor chididovere immediatamente si smarca, e intanto si aprono inchieste più o meno misteriose in tre diverse procure. E poi un signore che accusa mezza alta magistratura italiana di aver complottato in modo masso-mafioso forse in piazza Ungheria a Roma, dove forse abitano famosi magistrati che forse sono vivi o forse morti. E altri magistrati che si scambiano carte a Milano perché sono vicini di casa e poiché portano la toga possono uscire anche durante il lockdown. Tutto questo è opera di Berlusconi, o di Renzi o di Salvini? Se questo è il Sistema dei togati, viva la Casta dei politici, vien da dire. Dalla Casta al Sistema. È stato facile, trent’anni fa, per quelli che avevano vinto un concorso far fuori quelli che erano stati eletti dal popolo, chiamandoli casta, corrotti e comprati e venduti. È altrettanto facile oggi, mentre i magistrati si stanno azzannando tra loro, scambiandosi carteggi secretati, pugnalando alle spalle i propri colleghi, trafficando con corvi e postine e cronisti d’improvviso rispettosi del segreto investigativo, prendere di mira di nuovo i partiti. Sempre loro, i più deboli, quelli sempre pronti a dire “ho grande fiducia nella magistratura” mentre il pm sta loro mordendo il collo. Ancora una volta.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Le incongruenze e il doppiopesismo. Corvi e dossieraggio, cosa non torna sulla loggia Ungheria: l’Amara verità è l’opacità. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Una altissima cortina fumogena si sta alzando in queste ore a protezione di tutti i soggetti coinvolti, a vario titolo, nella loggia “Ungheria”, l’associazione super segreta composta da magistrati, alti ufficiali delle Forze di polizia, imprenditori e professionisti, finalizzata a pilotare le nomine in magistratura e ad aggiustare i processi. A fare il nome di questa loggia coperta, non riconosciuta da Stefano Bisi, il gran maestro del Grande oriente d’Italia, era stato alla fine del 2019 Piero Amara, l’avvocato siciliano ideatore del Sistema Siracusa, in ben quattro interrogatori davanti all’aggiunto di Milano Laura Pedio e al sostituto Paolo Storari, che lo avevano sentito a proposito dei depistaggi nel processo Eni-Nigeria. Ma ecco tutto quello che non torna in questa torbida vicenda. I media prendono conoscenza della loggia segreta mercoledì scorso grazie al togato Nino Di Matteo. Il pm antimafia, intervenendo in apertura di Plenum al Consiglio superiore della magistratura per un “fatto personale”, comunica di aver ricevuto «con un plico anonimo la copia informatica e priva di sottoscrizione dell’interrogatorio di un indagato risalente al dicembre 2019 dinanzi a un’Autorità giudiziaria». Nella lettera di accompagnamento, aggiunge Di Matteo, «quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto». Senza entrare nello specifico, il pm del processo Trattativa, afferma che «nel contesto dell’interrogatorio l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria, se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo». Di Matteo, poi, aveva spiegato di aver contattato la Procura competente, cioè quella di Perugia, per riferire i fatti. Il suo timore, infatti, è che «tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo» possano «collegarsi a un tentativo di condizionamento» dell’attività di Palazzo dei Marescialli. Tali affermazioni, che avrebbe dovuto far saltare sulla sedia tutti i consiglieri presenti, cadono nel silenzio dell’Aula Vittorio Bachelet e il vice presidente David Ermini decide di procedere spedito con l’ordine del giorno. In serata si diffonde la voce che il togato in questione potrebbe essere Sebastiano Ardita, pm di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo. Il giorno dopo Repubblica e Fatto danno la notizia di aver ricevuto nelle settimane passate questi verbali ma di non averli pubblicati. E forniscono particolari su chi possa essere stata la “postina”: una funzionaria del Csm. Le Procure di Milano e Perugia, in tarda mattinata, comunicano di aver individuato con certezza chi ha passato i verbali ai giornali. Si tratta di Marcella Contrafatto, la segretaria di Davigo. E, a questo punto, entra in gioco lui, l’ex pm di Mani pulite, ora fra gli editorialisti del Fatto Quotidiano, il giornale che aveva ricevuto e non aveva pubblicato i verbali. Davigo dichiara senza tanti giri di parole di aver ricevuto le copie degli atti con le dichiarazioni di Amara dalle mani di Storari. L’ex consigliere, ricevuti i verbali nei primi mesi del 2020, afferma poi di averne riferito il contenuto, genericamente e confidenzialmente, a due componenti del Consiglio di Presidenza del Csm: il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e il vice presidente Ermini. Un sistema alquanto “irrituale”, dal momento che per il regolamento del Csm Davigo avvrebbe dovuto trasmettere formalmente gli atti medesimi al Consiglio di Presidenza e questo, a sua volta, alla prima Commissione, competente per tutto ciò che attiene i comportamenti dei magistrati. Davigo, in una intervista, ha ricordato che «c’è stato un ritardo non conforme alle disposizioni normative nell’iscrizione della notizia di reato, e un ritardo conseguente nell’avvio delle indagini: non è questione di lotte interne, è questione che c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». In tal modo giustificando il suo operato. Ma se quello di Davigo, detto il dottor Sottile per la sua precisione, è un modo di agire che lascia perplessi, anche la reazione di Ermini e Salvi non è da meno. Sentendosi riferire tali notizie da Davigo, come mai non hanno preteso da costui che fossero formalizzate con una relazione scritta? Ma torniamo a Milano e a Storari. Per quale motivo il pm di Milano che ha raccolto quelle dichiarazioni ha ritenuto di doverne dare copia a un consigliere del Csm bypassando il suo capo, il procuratore Francesco Greco? Se avesse avuto il sospetto che Greco era intenzionato a insabbiare tutto perché non ha informato la scala gerarchica, ad iniziare dal procuratore generale presso la Corte d’Appello che per legge ha il potere di avocazione dei fascicoli? L’agire di Storari legittima ogni singolo magistrato che ha un problema con il proprio dirigente a rivolgersi direttamente al consigliere del Csm amico. Greco ha detto che non c’è mai stato alcun contrasto. Ma come mai, allora, non ha proceduto con le iscrizioni per verificare se quanto riportato da Amara fosse vero o meno, evitando che Storari pensasse a un insabbiamento? Amara, che adesso tutti puntano a descrivere come inattendibile, è fra i testimoni chiave dell’indagine di Perugia nei confronti dell’ex zar delle nomine. Il particolare, spesso, sfugge. Secondo l’accusa, Palamara sarebbe stato per anni a disposizione di Amara tramite il faccendiere Fabrizio Centofanti. In cambio di viaggi, cene e alberghi pagati, gli avrebbe dato informazioni su procedimenti penali aperti a suo carico, gli avrebbe promesso la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e avrebbe interferito nel procedimento disciplinare contro Marco Bisogni, pm di Siracusa, in quel momento di ostacolo per le attività criminali dello stesso Amara in Sicilia. In conclusione un accenno al Fatto e a Repubblica, sempre in prima linea nel pubblicare stralci di verbali senza attendere se gli stessi fossero regolarmente depositati. I due quotidiani, appigliandosi alla deontologia professionale del giornalista, per spirito di verità e giustizia, hanno deciso di non scrivere un rigo di questa storia. Perché? Nell’elenco di Amara ci sono persone che non si possono assolutamente citare? In tutto questo caos, spicca il silenzio tombale del ministro della Giustizia Marta Cartabia e, soprattutto, del capo dello Stato. Quando esplose il Palamaragate nell’estate del 2019, Sergio Mattarella parlò di “modestia etica” a proposito dei magistrati coinvolti, invocando un rinnovamento. Adesso, davanti ad una nuova P2, non ha proprio nulla da aggiungere? Paolo Comi

La lettera. L’Eni precisa: mai dati soldi all’avvocato Amara. Erika Mandraffino su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Gentile Direttore, in merito all’articolo pubblicato dal Riformista dal titolo “La loggia segreta, i dardi a Conte, i silenzi di Davigo, i giornali al giogo”, a firma di Paolo Comi, facciamo riferimento all’ipotesi riportata in base alla quale Eni avrebbe pagato Amara in cambio di azioni corruttive volte a favorire l’azienda e il suo vertice. A questo proposito, Eni, oltre a ribadire il proprio ruolo di parte lesa nell’ambito delle indagini sul cosiddetto depistaggio, smentisce categoricamente di avere mai versato somme di denaro a Piero Amara al fine di ottenere favori giudiziari a protezione della società e dei suoi vertici. Cogliamo l’occasione per ricordare che Piero Amara è stato citato in giudizio da Eni per il risarcimento dei danni causati dal suo comportamento, ed è stato altresì querelato e denunciato da vari manager della società in relazione a svariate false affermazioni e false dichiarazioni da lui rese in vari procedimenti. Infine, ricordiamo che Eni ha denunciato alla magistratura per truffa la società Napag, in cui Amara ha significative cointeressenze economiche, frutto anche dell’attività criminale della stessa in danno di Eni. Erika Mandraffino

La precisazione. “Amara e Domenico Ielo non si conoscevano”, ma entrambi erano avvocati dell’Eni…Paolo Comi su Il Riformista il 7 Maggio 2021. Spettabile Direttore, in nome e per conto del mio assistito, avvocato Domenico Ielo, scrivo per contestare la pubblicazione di notizie false e gravemente lesive della reputazione del mio assistito e richiedere una immediata rettifica, al fine di contenere i gravissimi danni arrecati al mio assistito. 1. Ci si riferisce all’articolo a firma di Paolo Comi dal titolo “Amara e quei legami con Pignatone e Ielo ‘scoperti’ da Fava”. Nell’articolo si riportano le seguenti parole “Fava arriva ad evidenziare in una nota i legami di Amara con i fratelli di Pignatone e di Ielo, entrambi avvocati”. Tale informazione fornisce contenuto al titolo “Amara e quei legami con Pignatone e Ielo …”. Vi sono due informazioni oggettivamente, indiscutibilmente, irrefragabilmente, univocamente, palesemente e gravemente false di cui si chiede l’immediata rettifica. 2. Prima informazione falsa: che siano mai esistiti rapporti tra il mio assistito e l’avvocato Amara. Il mio assistito in tutta la sua attività professionale non ha mai ricevuto incarichi, non ha mai avuto contatti – diretti o indiretti – e non ha mai conosciuto l’avv. Amara. Prima di averne letto sui giornali, non sapeva neanche dell’esistenza di questo signore. 3. Seconda informazione falsa: che l’esposto del dott. Fava evidenziasse “i legami di Amara con i fratelli di Pignatone e di Ielo, entrambi avvocati”. Anche questo è falso. L’esposto non contiene alcuna evidenza di tali legami. E non poteva essere diversamente, posto che legami del genere non esistono e non sono mai esistiti. Queste due false informazioni assumono una connotazione fortemente lesiva per la dignità e la reputazione del mio assistito, soprattutto per il contesto in cui sono collocate. Cordiali saluti, avv. Paola Iatì

Cara Avvocata, prendiamo volentieri atto delle sue precisazioni. Solo qualche aggiunta che può essere utile portare a conoscenza sua e anche dei lettori. In una nota datata 25 marzo 2019 ed indirizzata al Consiglio superiore della magistratura che il Riformista ha potuto leggere, il pm romano Stefano Rocco Fava scrive che “Eni spa, società cliente dell’avvocato Piero Amara, ha conferito incarichi professionali al fratello del dottor Ielo, avvocato”. Secondo Fava si tratterebbe di una “coincidenza degna di nota considerati i noti pregressi giudiziari dell’Amara, il forte condizionamento esercitato da Amara nei confronti dei propri clienti e considerato altresì che Amara ha nominato come difensore l’avvocato Salvino Mondello, in rapporti di amicizia con il dott. Ielo che ha dovuto, anche per tale ragione, avanzare istanza di astensione rigettata dal procuratore della Repubblica per come riferito dallo stesso dott. Ielo”. Il sostantivo plurale “legami” era, dunque, riferito al fatto che l’avvocato Domenico Ielo, fratello del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, e l’avvocato Piero Amara erano entrambi avvocati esterni dell’Eni. Giova ricordare, sul punto, che il dottor Ielo si è poi occupato dell’indagine nei confronti di Amara, indagato in coordinamento investigativo con la Procura di Messina, per la corruzione del pm di Siracusa Giancarlo Longo, commessa nell’interesse dei dirigenti di Eni imputati a Milano. Paolo Comi

Simone Di Meo per “La Verità” il 4 maggio 2021. I presunti «server occulti» del caso Palamara diventano ben più di una suggestione difensiva. Il gup del Tribunale di Firenze, Piercarlo Frabotta, ha deciso infatti di sentire, nel corso della prossima udienza del 17 maggio, gli agenti della polizia postale che, per conto delle Procure di Firenze e di Napoli, stanno indagando sul traffico dati proveniente dal trojan inoculato nel cellulare dell'ex pm. Come rivelato dalla Verità nelle scorse settimane, anche l'ufficio giudiziario del capoluogo campano ha deciso infatti di approfondire alcuni aspetti della denuncia presentata dal deputato Cosimo Ferri sulle modalità di gestione dei flussi digitali. Denuncia che poi ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati del manager Rcs, Duilio Bianchi, a Firenze per frode in forniture. Bianchi è stato sentito come indagato in procedimento connesso proprio ieri in Umbria nel corso dell'udienza preliminare a carico di Luca Palamara, Fabrizio Centofanti e Adele Attisani. Tema del contendere tra accusa e difesa sono le regole d'ingaggio per ritenere legittime le intercettazioni tramite virus informatico. A cominciare dal luogo fisico in cui esse passano o si fermano. «Bianchi ha confermato che il server era a Napoli presso il loro ufficio e che poi sarebbe stato trasferito alla procura partenopea e già questo per noi mette una pietra tombale sulle intercettazioni», ha detto uno dei difensori di Palamara, l'avvocato Benedetto Buratti. Secondo la società Rcs, invece, la tappa napoletana dei flussi di traffico del trojan avrebbe rappresentato solo un «attraversamento» intermedio verso la centrale di ascolto e stoccaggio delle informazioni allestita presso la Procura di Roma. «Questo secondo noi è in palese violazione della norma sulle intercettazioni mediante captatore informatico e lo sarebbe anche per quanto riguarda anche quelle tradizionali», ha aggiunto Buratti. «Bianchi ha concluso definendo dal punto di vista tecnico il server di Napoli "di transito", per noi non lo è e lo spiegheranno i nostri consulenti». Nelle prossime settimane, emerge dalle attività d'inchiesta dei pm napoletani e fiorentini, i server di Rcs saranno comunque ispezionati dagli esperti del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche. Tra le chiacchierate catturate dal trojan, c'è anche quella ormai famosa dell'hotel Champagne a cui parteciparono cinque ex consiglieri del Csm oltre ai deputati Ferri e Luca Lotti. Uno dei capisaldi del Palamara-gate sulle presunte manovre per scegliere il nuovo procuratore di Roma.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 4 maggio 2021. Secondo Piero Amara, l’ex avvocato dell’Eni che ha patteggiato 4 anni e tre mesi di carcere per aver corrotto giudici da cui comprava sentenze, era questo il segno principale di riconoscimento tra i “fratelli”. Se la persona non rispondeva alla domanda, significava che l’interlocutore – a cui si doveva pure premere per tre volte l’indice sul polso – era effettivamente un affiliato alla loggia coperta chiamata appunto “Ungheria”. Un gruppo – dicono a Domani fonti vicine all’inchiesta – di cui Amara ha ammesso di fare parte da oltre tre lustri.   L’ex lobbista ha raccontato un anno e mezzo fa ai magistrati di Milano e a quelli di Perugia (ora titolari del fascicolo) anche questi dettagli: cenacoli, incontri carbonari, segni di riconoscimento dei membri della sconosciuta massoneria. Aggiungendo che avrebbe conosciuto i primi cappucci frequentando l’Osservatorio permanente della criminalità organizzata (la Ocpo).  

Contro il giustizialismo. Un organo siciliano di cui fu animatore e presidente Giovanni Tinebra, ex potente procuratore a Caltanissetta che puntò, tra i primi, sul falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino, che con le sue false dichiarazioni depistò le indagini sull’attentato a Paolo Borsellino. Tinebra divenne nel 2001 potente capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) e vicepresidente della corrente Magistratura indipendente. Amara ha detto ai pm milanesi e perugini che sarebbe stato cooptato nella fantomatica “Ungheria” da Tinebra in persona (il magistrato non può smentire, perché deceduto nel 2017, ma dal suo entourage spiegano che è «un’assoluta falsità»), e che il gruppo – di cui farebbero parte molti magistrati di Mi, la corrente “moderata” già travolta dallo scandalo Palamara – si era imposto una missione sacra: quella di difendere lo stato di diritto, in modo da contrastare il giustizialismo dilagante nella magistratura italiana. Sia vera o meno l’esistenza stessa dell’associazione, quello che il lobbista riporta sembra una consorteria basata su interessi plurimi, dedita fondamentalmente a pilotare le nomine nel Consiglio superiore della magistratura e delle procure più importanti d’Italia (Amara parla pure di manovre su quelle di Milano e Roma), per poi fare affari e scambi di favori tra soci e simpatizzanti. Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore (anche lui sarebbe dentro “Ungheria”) non hanno ancora consegnato una lista di confratelli che sostengono di nascondere all’estero (ci sarebbero una quarantina di nomi, tra giudici, vertici istituzionali e capi delle forze dell’ordine), e dicono di averne sbirciati altri sfogliando una copia custodita da un altro magistrato presunto massone. La Guardia di finanza, titolare delle indagini, ha perquisito la sua casa qualche mese fa, ma senza la stessa fortuna di coloro che trovarono l’elenco della P2 a Castiglion Fibocchi.

L’affiliazione. La coppia hanno detto che chi veniva affiliato alla loggia (in gergo, era stato “fatto” o “sverginato”) doveva lavorare a piazzare gli adepti di Ungheria nelle stanze dei bottoni dei palazzi del potere. Gli “sverginati” erano legati tra di loro non da un vincolo di obbedienza gerarchico, come si usa nelle conventicole old style, ma a quello di “solidarietà”: in pratica, se qualche fratello ti chiedeva favori, c’era l’obbligo – dice Amara – di essere disponibili. Inizialmente, tra cene in hotel all’Excelsior di Catania e incontri nei bar e convegni di associazioni culturali, l’avvocato (pure indagato per calunnia a Milano dopo gli esposti dei vertici dell’Eni) disegna un’associazione con radici sicule, i cui contorni sembrano intrecciarsi – almeno come modus operandi – al cosiddetto “Sistema Siracusa”, quel gruppo di faccendieri, imprenditori e giudici corrotti di cui faceva parte lo stesso Amara e recentemente smantellato dalle inchieste della procura di Messina. Ma poi la storia si complica. L’ex legale dell’Eni ammette di avere contribuito a nominare, su richiesta di confratelli, politici e amici nelle istituzioni regionali, elargito consulenze a destra e a manca, ottenuto finanziamenti pubblici per la Opco cara a Tinebra.  Con l’obiettivo principale, da “soldato semplice” della loggia, di far fare business ai più alti in grado, e crescere nei ranghi dell’ordine misterioso che sarebbe nato venti anni fa. Ai pm spiega di aver “svoltato” nel 2014 quando, una volta trasferitosi a Roma, scopre non solo che “Ungheria” era più diffusa di quanto potesse immaginare. Ma che vantava affiliati all’interno del Csm, nelle procure, tra gli studi legali più noti del paese, nel mondo imprenditoriale. Addirittura nel Consiglio di stato, terremotato da un’indagine penale sull’attuale presidente Filippo Patroni Griffi, partita proprio da alcune dichiarazioni di Amara. Davanti ai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari (quest’ultimo finito nella bufera per aver consegnato lo scorso aprile i verbali segreti a Piercamillo Davigo) il “facilitatore” indagato e usato da varie procure italiane cita decine di nomi di presunti associati, di magistrati impegnati in lotte correntizie, elenca complotti per colpire o affondare pm considerati scomodi (come Paolo Ielo, già “dossierato” durante la vicenda Palamara). Amara, dicono da tempo gli investigatori, sembra mischiare elementi autentici, altri inverosimili e molti difficilmente riscontrabili. Ma le dichiarazioni sono ancora più fumose, dice chi ha letto i verbali, quando il “pentito” dice che Ungheria non avrebbe mai avuto una sede stabile: i vertici (chiamati «i vecchi») si sarebbero riuniti di tanto in tanto a casa di un politico e un lobbista a Roma, mentre alcuni incontri venivano fatti addirittura in alcune chiese del centro di Roma. «Amara e Calafiore o sono depistatori professionisti e allora devono essere accusati di calunnia aggravata, o il paese è davvero in mano a logge che ricordano da vicino la P2», dice una fonte vicina ai dossier. Sarà Perugia a dover sciogliere l’enigma.

Caos Csm, la doppia versione di Davigo ed Ermini sui verbali di Amara. Il vicepresidente del Csm avrebbe ricevuto da Davigo i file secretati con le dichiarazioni di Amara sulla loggia "Ungheria". L'ex pm di Mani Pulite non smentisce: nei prossimi giorni verrà sentito in Procura. Il Dubbio il 3 maggio 2021. I verbali spediti dal “corvo” del Csm ai giornali sarebbero passati anche per le mani di David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, nel maggio 2020. A farglieli avere, secondo quanto sostiene il Corriere della Sera, sarebbe stato l’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, che li aveva ricevuti dal pm milanese Paolo Storari, come forma di autotutela contro la lentezza della procura nel verificare quanto affermato dall’avvocato Piero Amara, che ha riferito, nel dicembre 2019, dell’esistenza di una lobby giudiziaria denominata “Ungheria”. Non si sarebbe trattato, dunque, di una semplice confidenza da parte di Davigo a Ermini: il vicepresidente avrebbe avuto materialmente in mano quegli atti secretati, senza firma né timbri, e l’informazione, fornita da Davigo, che la Procura di Milano tardasse a scandagliarle. I verbali erano stati consegnati da Storari a Davigo un mese prima: lo scopo del pm milanese era quello di allertare il Csm tramite Davigo e, contemporaneamente, tutelarsi «dalla stasi investigativa ascritta ai colleghi, a suo dire non pari all’urgenza di discernerne verità o calunnia». Ermini, riporta ancora il Corriere, nega di aver mai avuto per le mani quei documenti per meglio rappresentare al Presidente della Repubblica, non ché capo del Csm, Sergio Mattarella, la questione. Davigo, invece, non conforta la smentita di Ermini, sostenendo che «quello che ho da dire lo dirò, prima, nelle sedi istituzionali in cui verrò ascoltato». L’ex pm di Mani Pulite, nei prossimi giorni, verrà sentito dalla Procura per chiarire come mai quei file fossero nel computer della sua segretaria – Marcella Contrafatto, ora sospesa. Ermini, dopo aver affermato di essere stato solo «marginalmente» informato da Davigo, afferma adesso che lo stesso gli parlò della vicenda in più colloqui. Solo ad un certo punto, afferma, avrebbe compreso che Davigo aveva in mano i verbali secretati. Davigo informò anche il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, titolato (a differenza del vicepresidente Csm) a interloquire con le Procure su indagini in corso. E non solo: a maggio 2020 venne informato anche il presidente della Cassazione Pietro Curzio. Nessuno dei due, però, era a conoscenza del fatto che Davigo avesse i verbali. Quel che è certo, dunque, è che da dicembre 2019 a maggio 2020 nessuno abbia svolto alcuna indagine a riscontro di quanto affermato da Amara sulla loggia “Ungheria”. Le cose cambiano soltanto a maggio 2020, quando fu disposta l’iscrizione di due indagati per l’ipotesi di associazione segreta (Amara e forse un suo collaboratore), ovvero a ridosso di quando il pg Salvi «informò immediatamente il procuratore di Milano», il quale «il 16 giugno» gli riferì «per grandi linee le iniziative assunte». In realtà, ci si sarebbe limitati a sentire a sommarie informazioni alcuni testi, per saggiare la credibilità teorica di Amara. Ma poi stop: nessun tabulato venne acquisito, a causa di un supplemento di riflessione voluto dai vertici della Procura, che rischiava di veder smentire clamorosamente il principale testimone dei procedimenti Eni.

SCANDALO CSM, LA PROCURA DI MILANO : “CI SIAMO MOSSI SUBITO”. Il Corriere del Giorno il 4 Maggio 2021. Il capo della procura di Milano Greco depositerà una propria relazione al Csm per ricostruire le varie fasi della gestione del fascicolo aperto sulla base delle dichiarazioni del controverso e poco affidabile avvocato Amara. Il pm Storari a sua volta si è già dichiarato pronto a ricostruire la vicenda in caso di convocazione al Consiglio Superiore della Magistratura. La prima verbalizzazione dell’avvocato Piero Amara interrogato a Milano porta la data del 9 dicembre 2019, assistito dall’avvocato Salvino Mondello, parla con i magistrati milanesi e accenna a una lista di “40 nomi” appartenenti a questa famigerata “Loggia Ungheria” descritta in oltre 10 verbali, dichiarando che ne farebbero parte magistrati, politici, avvocati, vertici delle forze dell’ordine e imprenditori, persino l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte  al quale, a dire di Amara , avrebbe fatto ottenere tra il 2012 e il 2013 consulenze dal gruppo Acqua Marcia Spa per circa 400 mila euro. L’ avvocato-faccendiere siciliano ha anche consegnato dei file audio con dei colloqui registrati che proverebbero “l’esistenza della loggia”: “Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi”. Due giorni dopo, il pm Paolo Storari già pubblico ministero della Dda e stretto collaboratore dell’ex aggiunta Ilda Boccassini, inviò la prima di una lunga serie di mail al procuratore capo Francesco Greco evidenziando la necessità di effettuare delle iscrizioni nel registro degli indagati per svolgere i primi necessari accertamenti. L’unico modo, è la tesi del magistrato, per discernere tra la loro attendibilità e la possibile natura diffamatoria di quanto messo a verbale. Ma le iscrizioni vennero effettuate soltanto dopo 5 mesi, e cioè il 9 maggio 2020. Dopo una prima analisi delle dichiarazioni, la procura di Milano aveva iscritto nel maggio 2020 lo stesso Piero Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore, per associazione segreta. Amara è stato interrogato congiuntamente dai magistrati della procura di Milano e di quella di Perugia, quest’ultima competente per i reati dei magistrati romani. Poi concordemente le due procure hanno deciso lo stralcio degli atti e quindi l’invio del fascicolo nel capoluogo umbro. La Procura di Perugia indaga per “associazione segreta”, ovvero per violazione della “legge Anselmi” che venne approvata dopo la scoperta della P2. La norma riguarda la creazione di “associazioni segrete, come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione” .Un’ipotesi di reato ereditata dalla Procura di Milano e mantenuta per valutare se possa riguardare magistrati della Procura di Roma. Il pm Storari raccolse tra i successivi giugno e luglio 2020 diverse testimonianze in varie città d’Italia ed i vertici della Procura decisero di inviare a settembre gli atti alla Procura di Perugia, trasmessi quindi dopo oltre un anno da quel primo verbale. Di fronte a quella che per il magistrato era una mancanza di decisioni investigative, Storari si decise per l’inoltro al Csm della documentazione in suo possesso, effettuata senza una trasmissione formale ed ufficiale. Una decisione maturata “per autotutela”, per difendersi da eventuali rilievi in futuro sul mancato svolgimento di indagini. I dossier di Amara, ex avvocato esterno di Eni al centro dell’inchiesta della procura di Milano sulle presunte attività di depistaggio per condizionare le indagini sul caso Eni-Nigeria, circolano da diverso tempo. Il legale siciliano è stato arrestato l’ultima volta nel febbraio del 2020 perché doveva scontare un cumulo pena di 3 anni e 8 mesi per le condanne inflittegli nei procedimenti relativi alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato e al “Sistema Siracusa“, indagine che aveva svelato una sorta di accordo tra magistrati e avvocati per pilotare indagini e fascicoli. L’ avvocato Amara  viene considerato il “regista” di diversi episodi di corruzione per aggiustare sentenze anche davanti ai giudici amministrativi, per le quali è stato già condannato in un recente passato per corruzione in atti giudiziari. Con lui venne arrestato il giudice Riccardo Virgilio, presidente di sezione a Palazzo Spada. Le dichiarazioni di Amara alla Procura di Milano, vanno prese con molta attenzione: il testimone è stato considerato credibile solo su una piccola parte della sua dichiarazioni. Per esempio la procura di Perugia ritiene attendibile Amara nelle dichiarazioni su Palamara e, infatti, intende portare l’ex presidente dell’Anm a processo con l’accusa di corruzione.  I primi contrasti all’interno della procura milanese sui presunti ritardi nelle indagini e nelle iscrizioni degli indagati erano quindi iniziati nei primi mesi del 2020 . Contrasti che indussero il pm Storari a consegnare nell’aprile 2020 in maniera anomala ed illegittima i verbali dell’avvocato Piero Amara nelle mani dell’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, andato in pensione lasciandosi alle spalle una coda di polemiche e ricorsi tutti respinti. Una decisione attuata “per autotutela”, cioè per difendersi cioè da eventuali rilievi in futuro sul mancato svolgimento di indagini. Storari ritiene di aver seguito nella sostanza le indicazioni previste da una circolare del Cms del ’94: “Il pubblico ministero che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al Comitato di Presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio”. “Trovo molto singolare quanto avvenuto sia nel comportamento di Storari, sia in quello di Davigo” ha dichiarato Armando Spataro già procuratore aggiunto a Milano, consigliere del Csm e successivamente procuratore capo a Torino,  intervistato da Lucia Annunziata a “Mezz’ora in più” su Rai3. Una vicenda che Spataro, ora in pensione, che è stato tra i protagonisti degli uffici giudiziari milanesi con inchieste delicate su criminalità organizzata e terrorismo, definisce “una fase delicata della magistratura” ritenendo nel comportamento di Storari ed in quelli di Davigo “molto singolare la mancanza di un atto formale con cui trasmettere verbali ad una autorità superiore; non è accettabile perché se un magistrato lamenta delle scorrettezze, ad esempio sulla decisione di un procuratore o di un presidente di tribunale ha una strada molto chiara, scrive al procuratore generale della corte d’appello e chiede avocazione e al Consiglio Superiore. Per autotutela poteva adottare una strada formale … e invece non è stato accettabile presentarsi a un componente del Csm e consegnare a mano verbali o via mail senza neppure firma”. I verbali consegnati da Storari a Davigo erano privi di firma e di fatto apocrifi, benché usciti da un pc della procura di Milano. Da parte di Davigo, “è altrettanto anomalo il suo comportamento: ci sta la consegna formale di un atto, ma se una consegna è confidenziale toccava comunque a lui protocollare e consegnare al comitato di presidenza. Qui non c’entra il segreto“. Armando Spataro inoltre aggiunge che non c’è un obbligo di iscrizione nel registro degli indagati se non c’è fondamento per farlo. Secondo il giurista così si lascia “spazio alla teoria dei complotti” senza considerare le reali “dimensioni e scopi dei corvi” e senza “enfatizzare perché è tutto da vedere”. Per Spataro in realtà più che un attacco a tutto il Csm c’è un attacco verso “alcuni”. Il Consiglio superiore della magistratura opera soltanto sulla base di atti formali e secondo procedure codificate, essendo qualsiasi suo intervento inibito a fronte di atti non identificabili come la sommaria comunicazione verbale da parte dell’allora consigliere Piercamillo Davigo in merito a indagini della procura di Milano. E’ quanto spiegano fonti del Csm, secondo le quali, in presenza di notizie in sé irricevibili perché estranee ai canali formali e istituzionali, ogni iniziativa del Csm sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili. Il capo della procura di Milano Greco depositerà una propria relazione al Csm per ricostruire le varie fasi della gestione del fascicolo aperto sulla base delle dichiarazioni del controverso e poco affidabile avvocato Amara. Il pm Storari a sua volta si è già dichiarato pronto a ricostruire la vicenda in caso di convocazione al Consiglio Superiore della Magistratura. E Palazzo dei Marescialli continua ad essere protagonista degli scandali delle toghe italiane.

La Loggia Ungheria. Loggia Ungheria, il Procuratore di Milano mette la polvere sotto il tappeto: “Nessuna spaccatura…” Frank Cimini su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Era prevedibile che la procura di Milano facesse muro e negasse tutto. “Spaccatura? Ma quale spaccatura?”. Il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco risponde con queste parole secche a chi gli chiede se ci siano tensioni e divergenze tra i pm del capoluogo lombardo all’origine della consegna dei verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara da parte del pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo al fine di autotutelarsi di fonte a quelle che lui considerava inerzie dei colleghi dell’ufficio. Una vicenda su cui il procuratore di Brescia Francesco Prete sta valutando l’apertura di un fascicolo conoscitivo. È la logica della polvere sotto il tappeto che Francesco Greco sembra aver scelto prima di andarsene in pensione tra pochi mesi. Basta ricordare che recentemente era stata scatenata la guerra sulla sentenza di assoluzione nel caso Eni Nigeria tra la mitica procura e il Tribunale. Se ne erano dette da tutti i colori, prima di elaborare e pubblicare un comunicato congiunto a doppia firma, il procuratore Francesco Greco e il presidente del Tribunale Roberto Bichi. «La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce» si leggeva nella nota diffusa alla stampa. Il comunicato puntava a far credere che non era successo niente. Era l’urlo del mitico Everardo Della Noce durante la trasmissione “Quelli che il calcio”. Per ridere. Qui invece c’è davvero poco da ridere. In realtà la procura aveva spedito ai colleghi di Brescia competenti a indagare su quelli di Milano le parole del testimone largamente inattendibile, sempre lui Piero Amara, secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni Nerio Diodà e Paola Severino, ex ministro della Giustizia, avrebbero avuto “accesso” al presidente del collegio giudicante di Eni Nigeria Marco Tremolada. A Brescia il gip, su richiesta conforme della locale procura, archiviava senza che vi fossero iscrizioni nel registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata gravissima. Tanto che il presidente Roberto Bichi aveva preso una posizione molto netta mettendo nero su bianco il termine “insinuazioni”. Poi sono arrivati i tarallucci e vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in cristalleria. Nonostante il pubblico ministero Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà intellettuale avesse affermato «qui sia chiaro non c’è la pistola fumante». La richiesta di condanna dei vertici Eni poggiava su una sorta di prova logica di tipo deduttivo nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Mani pulite. Insomma la sentenza di assoluzione non sarebbe arrivata come un fulmine a ciel sereno. Era nelle cose più che possibili. La procura aveva tentato il giochino per forzare la mano. Aveva tirato la pietra. Poi vista la “mala parata” faceva marcia indietro ricucendo con il Tribunale. Nessun giornale nessuna agenzia di stampa disse “ba”. Tutti si limitarono a prendere atto del comunicato “riparatore”. Adesso purtroppo il pm Storari rischia di fare la fine del vaso di terracotta tra vasi di ferro. Nella storia milanese i pm “isolati” in procura non hanno mai avuto una buona sorte. Tiziana Parenti. Alfredo Robledo. Frank Cimini

Caso Csm, la procura di Milano: "Ci siamo mossi subito". Amara ai pm 2 anni fa: "Appartengo alla loggia Ungheria". Sandro De Riccardis su La Repubblica il 3/5/2021. Il capo della procura di Milano Francesco Greco consegnerà una propria relazione al Csm per ricostruire le varie fasi della gestione del fascicolo aperto sulla base delle dichiarazioni del controverso avvocato Piero Amara, già condannato per corruzione in atti giudiziari. Tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, il legale aveva messo a verbale informazioni su una presunta "loggia Ungheria", di cui farebbero parte magistrati, politici, avvocati, vertici delle forze dell'ordine e imprenditori. E' del 9 dicembre 2019, infatti, il primo verbale in cui l'avvocato Amara, interrogato a Milano, disse di appartenere alla loggia segreta Ungheria. Già due giorni dopo, il pm Paolo Storari scrisse la prima delle tante mail al procuratore Francesco Greco per evidenziare la necessità di effettuare iscrizioni per fare accertamenti. Prime iscrizioni che vennero effettuate solo 5 mesi dopo, il 9 maggio 2020. Tra giugno e luglio il pm raccolse diverse testimonianze in varie città d'Italia e a settembre i vertici della Procura decisero di inviare gli atti a Perugia, poi trasmessi dopo oltre un anno da quel primo verbale.

La spaccatura in Procura nei primi mesi 2020. La spaccatura in procura si consuma nei primi mesi del 2020 sui presunti ritardi nelle indagini e nelle iscrizioni degli indagati. E porta il pm di Milano Paolo Storari a consegnare - nell'aprile 2020 - i verbali dell'avvocato Piero Amara nelle mani dell'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo. Nei mesi precedenti il pm scrive una decina di email ai vertici della procura per chiedere di procedere alle prime iscrizioni nel registro degli indagati e far partire le prime verifiche sulle dirompenti dichiarazioni di Amara. L'unico modo, è la tesi del magistrato, per discernere tra la loro attendibilità e la possibile natura diffamatoria di quanto messo a verbale. Di fronte a quella che per il magistrato era una mancanza di decisioni investigative, Storari si decide per l'invio al Csm, anche se senza una trasmissione formale del materiale. Una scelta maturata "per autotutela", per difendersi cioè da eventuali rilievi in futuro sul mancato svolgimento di indagini. Il magistrato sarebbe pronto a ricostruire la vicenda in caso di convocazione al Csm. Dopo una prima analisi delle dichiarazioni, la procura di Milano aveva iscritto per associazione segreta già un anno fa, nel maggio 2020,  lo stesso Piero Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore. Amara è stato interrogato congiuntamente dai magistrati della procura di Milano e di quella di Perugia, competente per i reati dei magistrati romani. Poi si è deciso concordemente lo stralcio degli atti e l'invio del fascicolo nel capoluogo umbro.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 3 magio 2021. Il vento di bufera che scuote la Procura di Milano e da lì investe il Consiglio superiore della magistratura, arroventandone l'aria già avvelenata dal caso Palamara, non sarebbe mai partito se il pm Paolo Storari si fosse fatto i fatti suoi, e avesse badato come fanno in molti a non avere guai. Ma Storari è uno che i guai se li va a cercare. Per capire quanto in questa storia di intrighi e di potere il fattore umano abbia avuto un ruolo decisivo bisogna fare un salto indietro di vent' anni. Siamo nel 2001, Storari è un giovane pm della Procura di Torino, chiamato a far parte del pool che indaga su uno dei misteri di quegli anni: lo scandalo Telekom Serbia, la storia di presunte tangenti che avrebbero accompagnato l'acquisto da parte di Telecom Italia di una quota della compagnia telefonica del regime di Belgrado. Storari sente puzza di insabbiamento. E cosa fa? Invita a casa sua un paio di giornalisti che stanno seguendo il caso. Cosa accada a cena non si sa, l'unica certezza è che il terzetto cena frugalmente con delle pizze ordinate a domicilio (come accerterà l'inchiesta). Poco dopo, i giornalisti escono con uno scoop sull'affare Telekom, parte l'indagine sulla fuga di notizie, si risale a una mail partita proprio dal computer di Storari. La Procura di Milano chiede che il giovane pm sia processato per rivelazione di segreti d'ufficio. Sarebbe una carriera distrutta. Ma il giudice lo proscioglie: qualcuno può avere usato il computer all'insaputa del magistrato. Il suo capo Bruno Tinti, che in pensione diventerà collaboratore del Fatto Quotidiano, festeggia: «Storari è un magistrato da portare come esempio per chiunque». Chissà quanti ora, in Procura a Milano, rimpiangono che la carriera di Storari non si sia davvero fermata lì. Perché vent' anni dopo il pm ha risentito puzza di insabbiamento e ha ripetuto pari pari lo stesso schema. Unica differenza, invece di rivolgersi ai giornalisti è andato direttamente da uno che considerava un referente fidato: Piercamillo Davigo, il Dottor Sottile del pool Mani Pulite, icona di una generazione di magistrati. Errore clamoroso. Perché prima Davigo non fa l'unica cosa sensata, e cioè cacciare Storari dalla stanza per il suo stesso bene, invitandolo a riprendersi le brutte copie dei verbali del pentito e/o calunniatore Pietro Amara sulla fantomatica Loggia Ungheria. Poi ne fa una peggio, permettendo che le carte di Storari finiscano in mano alla sua segretaria Marcella Contraffatto. Che si trasforma in Corvo e le distribuisce ai giornali. Fin qui, tutto conferma la sintesi che un addetto a sbrogliare la matassa fa della vicenda: «Siamo davanti a una serie di atti di follia». Scomposto il comportamento di Storari, inspiegabile quello di Davigo, dissennato il gesto della Contraffatto. Peccato che a monte ci sia un fatto, un episodio specifico che non ha nulla a che fare con la follia ma con una piaga dei tempi moderni: la trasformazione delle inchieste e dei processi in crociate politiche, talchè eventuali assoluzioni non sono più dimostrazione dell'indipendenza del giudice ma tradimenti davanti al nemico. Il processo ai vertici dell'Eni per le presunte tangenti in Nigeria viene vissuto così dalla Procura di Milano. E il 5 febbraio 2020 in quell'aula avviene l'incredibile, il pm Fabio De Pasquale cerca di convincere il giudice Marco Tremolada a fare entrare nel processo un verbale di Amara pieno di omissis. Ma De Pasquale non dice al giudice che il bersaglio di quei verbali è proprio lui, Tremolada. É quello il gesto che scatenerà la lucida follia di Storari. Ma chi lo ha dato, a De Pasquale, il verbale di Amara? La lettera di trasmissione porta la data del 29 gennaio 2020, appena cinque giorni prima dell'udienza in cui De Pasquale parte all'attacco. In fondo alla lettera ci sono i nomi di Storari e del suo capo. Ma la firma di Storari non c'è.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 3 magio 2021. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, nel maggio 2020 avrebbe ricevuto dall'allora consigliere togato Csm Piercamillo Davigo anche i verbali segretati delle delicate dichiarazioni fatte ai pm di Milano nel dicembre 2019 dal controverso avvocato esterno Eni Piero Amara sulla lobby giudiziaria «Ungheria», e non soltanto invece la confidenza di Davigo sull'esistenza di quelle dichiarazioni e sul fatto che la Procura di Milano tardasse a scandagliarle. I verbali sono quelli che l'ex pm di Mani Pulite un mese prima aveva ricevuto in formato word e non firmati dal pm milanese Paolo Storari, convinto di allertare così l'istituzione tramite Davigo e nel contempo di tutelarsi dalla stasi investigativa ascritta ai colleghi, a suo dire non pari all'urgenza di discernerne verità o calunnia. Ma sul tema si intuisce già che Ermini e Davigo si troveranno su versioni opposte. Ermini, infatti, nega che Davigo glieli abbia consegnati per poter meglio esporre il delicato argomento al presidente della Repubblica e presidente del Csm Sergio Mattarella. Ma Davigo, interpellato ieri per chiarire se sia vero che abbia dato i verbali al vicepresidente Csm, il quale gli avrebbe poi riportato il ringraziamento istituzionale del Quirinale, non conforta la smentita di Ermini ma risponde che «quello che ho da dire lo dirò, prima, nelle sedi istituzionali in cui verrò ascoltato». Ermini, che sul Quirinale non intende rispondere, e che nei giorni scorsi aveva accennato all'essere stato solo «marginalmente» informato da Davigo, ora però dice che Davigo gli parlò della vicenda in più colloqui progressivi, e arriva sino a confermare solo di aver a un certo punto compreso che alcune carte in mano a Davigo fossero proprio i verbali di Amara: ai quali però, in assenza di una formalizzazione da Davigo, avrebbe smesso di pensare quando una volta che l'allora consigliere Csm gli disse di averne parlato anche con il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, titolato (a differenza del vicepresidente Csm) a interloquire con le Procure su indagini in corso. Nel maggio 2020, peraltro, anche il terzo componente del comitato di presidenza Csm, il presidente della Cassazione Pietro Curzio, fu informato da Davigo: anche lui solo a voce, in breve e (come Salvi) senza cenni di Davigo ai verbali Amara. Al netto del derby tra la caricatura di «capi insabbiatori» e la macchietta di «un pm schizzato», il fascicolo da mesi passato alla Procura di Perugia mostra come da dicembre 2019 a maggio 2020 la prudenziale opzione dei vertici della Procura di Milano sia stata di non svolgere alcun atto di indagine a riscontro delle verità o a disvelamento della calunnia di Amara su «Ungheria». Solo a maggio 2020 fu disposta l'iscrizione di due indagati per l'ipotesi di associazione segreta (Amara e forse un suo collaboratore): quindi a ridosso di quando il pg Salvi, informato appunto da Davigo di «un fascicolo delicato che a dire di un pm restava fermo», ne «informò immediatamente il procuratore di Milano», il quale «il 16 giugno» gli riferì «per grandi linee le iniziative assunte». Non molte: risultano essere state fatte quasi solo le «sommarie informazioni» di testi di contorno interrogati da Storari per saggiare un minimo la plausibilità teorica di Amara. Anche l'unica piccola delega data alla Gdf per l'identificazione anagrafica solo di un piccolo gruppo delle tante persone citate da Amara - funzionale poi ad acquisire i tabulati dei loro telefoni per verificare se almeno avessero avuto i contatti accreditati da Amara - si arrestò prima, e senza i tabulati, di fronte al supplemento di riflessione predicato dai vertici della Procura. Stretti all'epoca tra lo scrupolo professionale di non esporre inutilmente le istituzioni alla prova di verità o falsità di Amara su «Ungheria», e la prospettiva di dover gestire, in caso invece di radicale sbugiardamento di Amara, le potenziali ricadute sulla sua attendibilità nei procedimenti Eni.

Paolo Colonnello e Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 3 magio 2021. Mentre il capo dello Stato Sergio Mattarella si appresta a tornare al Csm di cui è presidente di diritto, a poco più un mese di distanza dall'ultima visita, lo scandalo della diffusione illecita dei verbali e del dossieraggio anonimo intorno alla presunta loggia segreta Ungheria «rivelata» dall'avvocato d'affari Piero Amara registra la discesa in campo di un'altra Procura. Dopo Milano, Roma e Perugia, anche Brescia si appresta, entro questa settimana, ad aprire un'inchiesta «a largo raggio», ricostruendo sia i motivi e le eventuali responsabilità dei conflitti nella Procura di Milano, sia l'intera filiera della circolazione sotterranea dei verbali lungo un asse che coinvolge diverse istituzioni «da Milano a Roma».  In primo luogo, dunque, l'inchiesta di Brescia (competente sui magistrati milanesi) ricostruirà l'uso che il pm Paolo Storari fece, nella primavera 2020, dei verbali (segretati) di Amara, portandoli all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Ma non trascurerà le molteplici interlocuzioni (anche scritte) tra lo stesso Storari e il procuratore di Milano Francesco Greco, a proposito delle dichiarazioni di Amara su cui il pm voleva immediatamente aprire un fascicolo per verificarne l'attendibilità. La Procura di Brescia dovrà valutare se nel comportamento di Greco, supportato dai due aggiunti Pedio e Romanelli, si possa configurare un'inerzia colpevole a danno della tempestività delle indagini sulla presunta loggia. È questa la tesi ancora oggi proclamata da Storari («Per sei mesi non si è fatto nulla») e che allora lo indusse a rivolgersi all'amico Davigo per concordare una strategia di «autotutela» e una mossa utile a smuovere la situazione. Così nacque l'idea di consegnargli i verbali di Amara, per investire della questione il Csm, sia pure in modo informale se non irregolare. Gli incontri Storari-Davigo furono almeno due. Uno sicuramente a Milano. Non è escluso che l'altro si sia svolto a Roma, dopo il lockdown. In ogni caso i verbali di Amara, sotto forma apocrifa di file word in bozza, nel maggio 2020 erano a Roma nella stanza di Davigo. Si capisce, quindi, che l'inchiesta bresciana potrebbe arrivare a bussare al Csm. Per capire, anche sulla base delle dichiarazioni di Storari e Davigo, quanti altri membri ne avessero conoscenza (disponibilità?) e in che termini. E quali comportamenti abbiano posto in essere. Il procuratore generale della Cassazione e membro del Csm Giovanni Salvi ha già spiegato di aver ricevuto da Davigo «nella tarda primavera dell'anno scorso» informazioni sommarie sui «contrasti nella Procura di Milano», senza alcun cenno ai verbali. Fu proprio Salvi a parlarne con il procuratore di Milano Greco, a convocarlo in Cassazione, a promuovere un'accelerazione investigativa coordinandola con le Procure di Roma (dove la presunta loggia avrebbe sede) e Perugia (competente sui magistrati romani citati da Amara in quanto associati). Più eterea, e potenzialmente pericolosa, la questione dei colloqui tra Davigo e il vicepresidente del Csm, David Ermini. Sul punto Davigo ha negato dettagli, riservandoseli per quando sarà convocato in Procura. Fatto sta che Storari, tra maggio e giugno 2020, si sentiva rassicurato dalla «certezza» che Davigo, ottenendone un riscontro, avesse portato la sua doglianza all'attenzione del vicepresidente del Csm e per suo tramite al Quirinale. Senza che ciò, all'epoca, avesse comportato a suo carico procedimenti per illeciti disciplinari né per incompatibilità ambientale (entrambi adesso inevitabili). I colloqui tra Ermini e Davigo sul caso Amara furono almeno due, tra aprile e giugno 2020. Ermini li sta ricostruendo in queste ore. Non li nega, ma nega di aver mai avuto in mano i verbali di Amara che pure Davigo portava con sé, anche fuori dalla sua stanza. Ermini ricorda che il nome di Amara gli fu fatto nel primo colloquio, preannunciato da Davigo per informarlo di una «questione della massima importanza» relativa a un'inchiesta «che coinvolge molte persone importanti». Ermini si inquietò al solo sentire il nome dell'avvocato-faccendiere. Ma nega di aver saputo, in quella prima fase, di un conflitto in Procura su quei verbali. Il secondo colloquio avvenne a distanza di due o tre settimane. Davigo aggiunse dettagli (anche sui verbali?), riferì dei contrasti in Procura e di averli portati a conoscenza anche di Salvi. Ermini chiese conferma al procuratore generale e fu informato delle iniziative di coordinamento intraprese. Già intenzionato a non prendere iniziative in assenza di una nota scritta da Davigo, a quel punto si tranquillizzò. La corrente Autonomia e Indipendenza parla di «ignobile sciacallaggio» e chiede «l'attivazione di tutte le istituzioni interessate» ma senza una decisa presa di posizione in difesa del suo fondatore Davigo (mai nominato nel comunicato). Nei nuovi veleni, Ermini intravede «manovre di destabilizzazione» per ridare fiato a campagne per lo scioglimento del Csm, già rintuzzate due anni fa e ieri rilanciate dal centrodestra. Il Quirinale ha da subito manifestato distanza da una vicenda sui cui sono in corso indagini e in cui il Csm, a differenza del caso Palamara, è al momento parte lesa. Nessun membro è accusato di alcunché. Davigo è decaduto sei mesi fa dopo un duro scontro, con i decisivi voti di tutti i consiglieri coinvolti a vario titolo in questa storia: Ermini, Salvi, Di Matteo e Ardita. Giovedì Mattarella sarà di nuovo al Csm, per un documentario sul «giudice ragazzino» Rosario Livatino ucciso dalla mafia nel 1990 e che domenica sarà - lui, sì - beato.

Loggia Ungheria, così trascorsero tredici mesi senza acquisire i tabulati telefonici. Luigi Ferrarella il 3/5/2021 su Il Corriere della Sera. «Ogni lasciata è persa», proverbio di solito pertinente agli affari di cuori, a volte s’attaglia pure alle inchieste: ad esempio ai tabulati telefonici mai acquisiti dall’indagine milanese sulle affermazioni rese nel dicembre 2019 al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari dal controverso dichiarante Piero Amara circa l’esistenza di una lobby giudiziaria «Ungheria» condizionante alti livelli dello Stato. Quasi 13 dei 24 mesi di tempo, a ritroso dei quali l’autorità giudiziaria può per legge chiedere i tabulati telefonici (mostranti in questo caso se e chi tra i «congiurati» additati da Amara avesse chiamato chi, quando e trovandosi in che luogo), si sono infatti persi senza che potessero servire a iniziare a verificare almeno se alcuni dei supposti componenti l’evocata lobby di Amara avessero quantomeno avuto quei contatti tra loro e quelle riunioni che Amara accreditava. A consumare quei 13 mesi (sui 24 di «vita» giuridica dei tabulati) fu la scelta dei vertici della Procura di non svolgere, ad eccezione della raccolta di sommarie informazioni di testimoni ascoltati dal pm Storari in Piemonte-Lazio-Sicilia, alcun altro atto di indagine (compresa appunto neanche l’acquisizione di tabulati) a riscontro o a smentita delle accuse di Amara.

Associazione segreta. Questa opzione attendista fu praticata sia nei 5 mesi tra il 9 dicembre 2019 e il 9 maggio 2020, cioè sino al giorno dell’iscrizione nel registro degli indagati per l’ipotesi di associazione segreta di Amara (autodenunciatosi come «ungherese» già nel dicembre 2019), di Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro (due suoi notori sodali già indagati con Amara a Milano da quasi 4 anni nel fascicolo-madre sul contestato «complotto» per interferire sui processi Eni); sia nei 7 mesi successivi alle iscrizioni dei tre indagati, e cioè anche tra maggio 2020 e gennaio 2021, epoca in cui a Perugia perviene lo stralcio trasmesso da Milano in ragione di una competenza funzionale che le due Procure avevano concordato nel settembre 2020 in un incontro tra il procuratore Francesco Greco e il collega Raffaele Cantone. Greco, in ricostruzioni attribuite ieri dalle agenzie di stampa («Preferisco non parlarne, è una storia che mi rattrista, c’è una vicenda ben precisa e poi ci sono tante narrazioni, tanti storytelling»), con Pedio rivendica invece che fossero stati compiuti molti accertamenti; e aggiunge che le carte furono fatte leggere e vagliare anche all’altro suo vice Maurizio Romanelli, capo dell’anticorruzione, che Pedio proponeva a Greco di affiancare a lei e a Storari. Ma la prospettiva non si è mai concretizzata e Romanelli non ha mai avuta alcuna delega sul fascicolo.

Le frasi di Amara archiviate. Proprio nel periodo tra dicembre 2019 e maggio 2020 nel quale in Procura veniva ritenuto non ancora maturo svolgere atti di indagine sui verbali di Amara su «Ungheria», la prudente circospezione dei vertici della Procura, nel maneggiare con le molle i mezzi investigativi che potessero riscontrare o sbugiardare le dichiarazioni di Amara, coincise storicamente con la scelta invece di Greco e Pedio di portare al procuratore bresciano Francesco Prete, competente sulle toghe milanesi, uno stralcio di poche disvelate righe tra tutti gli omissis di Amara: de relato interni a Eni sul fatto che i legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà avessero fatto riferimento al presidente del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, come a un giudice al quale potevano «avere accesso». E coincise anche con la scelta il 5 febbraio 2020 del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, a fine istruttoria del processo Eni-Nigeria, di prospettare proprio al Tribunale presieduto da Tremolada l’asserita novità e indispensabilità che Amara deponesse in aula su «interferenze di Eni su magistrati milanesi in relazione al processo». La richiesta non fu ritenuta pertinente all’accusa di corruzione internazionale (poi caduta con l’assoluzione di tutti gli imputati Eni e Shell il 17 marzo 2021). Le frasi di Amara su Tremolada vennero archiviate da Brescia, senza mai determinare alcun indagato, nel dicembre 2020.

Fiorenza Sarzanini e Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 4 maggio 2021. Non solo il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini e il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi. Nella primavera-estate del 2020 l'ex componente dello stesso Csm Piercamillo Davigo confidò ad altri componenti dell'organo di autogoverno dei giudici l'esistenza di un'indagine giudiziaria su una loggia massonica coperta nella quale erano coinvolti nomi importanti e alcuni magistrati, che a suo giudizio non procedeva come avrebbe dovuto. In maniera generica e con qualche dettaglio in più o in meno a seconda dell' interlocutore, ma rivelando a tutti il nome di uno dei magistrati tirati in ballo: Sebastiano Ardita, altro «togato» del Csm suo ex amico e compagno di corrente, con il quale ha interrotto ogni rapporto dal marzo 2020. Subito dopo questa data il pm milanese Paolo Storari gli aveva consegnato i verbali segreti di Piero Amara, l'avvocato inquisito e già condannato per corruzione in atti giudiziari che ha parlato della presunta loggia «Ungheria». Lamentando l'inerzia del procuratore Francesco Greco. È come se avvisando i colleghi (i togati Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, il laico Fulvio Gigliotti, ma probabilmente anche altri), Davigo avesse proseguito la sua partita contro l'ex amico, mentre a Milano il pm Storari ingaggiava quella contro il suo capo, accusandolo di non svolgere i dovuti accertamenti sulle rivelazioni di Amara. Una sfida che adesso potrebbe tradursi in un procedimento disciplinare e di trasferimento per incompatibilità ambientale. Finora al Csm non s'era mosso nulla perché, hanno ribadito ancora ieri «fonti» interne all' istituzione, «il Consiglio opera solo sulla base di atti formali e secondo procedure codificate; in presenza di notizie in sé irricevibili perché estranee ai canali formali e istituzionali, ogni iniziativa sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili». Senza un atto ufficiale di Storari o di Davigo, insomma, non si poteva procedere. Tutto era rimasto confinato nei corridoi del palazzo fino all'autunno del 2020 (dopo che Davigo ha lasciato il Csm con la pensione), quando gli stessi verbali portati da Storari sono stati recapitati in forma anonima prima a un quotidiano e poi a un altro. Secondo la Procura di Roma a spedirli è stata l'ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto. Lei per ora si è rifiutata (com' è suo diritto) di spiegare come li abbia avuti, e dunque sarà chi amato a farlo lo stesso Davigo. È probabile che in seguito i pm di Roma ascoltino i consiglieri ai quali l'ex togato ha raccontato per sommi capi ciò che aveva saputo da Storari, per capire chi e perché avesse visto o avuto in mano quelle carte segrete. Di possedere anche i verbali (tutti formalmente secretati) Davigo avrebbe parlato soltanto a Ermini. Ma a lui come agli altri è bastato sapere che Davigo avesse informato il pg Salvi. Lui sì titolato a chiedere informazioni alla Procura di Milano e agli altri uffici giudiziari coinvolti, come ha fatto. Le perplessità sul comportamento dell' ex collega che non ha formalizzato alcuna denuncia (né ha invitato a farlo il pm Storari), o sulla fondatezza delle accuse ad Ardita, non hanno prodotto altro. Solo qualche giorno fa è arrivata la pubblica denuncia del consigliere Nino Di Matteo, pure lui destinatario di un plico anonimo con l' interrogatorio di Amara nei passaggi su Ardita e una lettera di accompagnamento dal tono ammonitorio, del genere: «Guarda qui con chi ti accompagni». Ma l' ex pm antimafia, che ne ha parlato con l' interessato, ha ritenuto di poter verificare subito la «palese calunnia» nei confronti del collega. Perché, ad esempio, Amara racconta che Ardita gli fu presentato come un componente della loggia dall' ex direttore delle carceri Giovanni Tinebra nel 2006, in qualità di pm a Catania; ma Ardita aveva smesso di lavorare nella città etnea da almeno 6 anni e - soprattutto - nel 2006 aveva rotto da tempo ogni rapporto con Tinebra. Di Matteo e Ardita sono già stati ascoltati a Perugia, dove il procuratore Raffaele Cantone ha aperto l' indagine per verificare l' esistenza della consorteria massonica che - a detta di Amara - arruolava magistrati, avvocati, politici professionisti e alti ufficiali delle forze di polizia. Il legale sostiene di avere una lista di 40 nomi, ma non l' ha mai consegnata. L' ennesimo mistero di questa intricata e tossica vicenda che sembra alimentare ricatti e vendette.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 4 maggio 2021. «Il Consiglio opera soltanto sulla base di atti formali». Gioca in difesa il vicepresidente del Csm David Ermini, cerca di evitare un'altra crisi istituzionale, ma conferma che la scorsa primavera, a Palazzo dei Marescialli, la notizia dei verbali, nei quali l'avvocato siciliano Piero Amara rivelava alla procura di Milano l'esistenza della presunta loggia segreta Ungheria, con magistrati ed esponenti delle istituzioni che si scambiavano favori, circolava già. E che, nel valzer delle versioni contrastanti, davvero, anche se informalmente, Piercamillo Davigo, allora componente del Consiglio, ne aveva parlato con lui. Ma anche con altri consiglieri. Aveva detto che quella loggia era qualcosa di simile alla P2, mostrando a Ermini anche quei documenti che l'ex pm di mani pulite aveva ricevuto, senza alcun titolo, dal titolare del fascicolo, il sostituto milanese Paolo Storari, che voleva andare avanti su indagini che rischiavano di essere insabbiate. Atti secretati, senza firma, e oggetto di un'inchiesta. Il cui possesso rappresentava già un reato. Ma né Davigo, né Ermini, né altri decisero di ufficializzare la circostanza. Da Palazzo dei Marescialli si ribadisce che non c' è stata alcuna inerzia, perché non si poteva procedere. Così mentre il procuratore di Milano Francesco Greco fornisce la sua versione dei fatti su quell' indagine e prepara una relazione, che sarà trasmessa al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al Csm, per l'avvio del procedimento disciplinare nei confronti di Storari, il clima, a Palazzo dei Marescialli, si fa ancora più pesante. E per Storari si prospetta anche un trasferimento per incompatibilità ambientale. «Il Csm - si legge nella nota diffusa ieri sera - opera soltanto sulla base di atti formali e secondo procedure codificate, essendo qualsiasi suo intervento inibito a fronte di atti non identificabili come la sommaria comunicazione verbale da parte dell'allora consigliere Piercamillo Davigo in merito a indagini della procura di Milano». Le notizie dell'allora consigliere risultavano dunque «irricevibili, perché estranee ai canali formali e istituzionali». Anzi, nella nota si puntualizza: «Ogni iniziativa del Csm sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili». C'è anche un profilo penale, che non riguarda solo Storari. Davigo potrebbe essere sentito nei prossimi giorni dalla procura di Roma o di Brescia. La sua segretaria, Marcella Contraffatto, ritenuta responsabile di avere inviato anonimamente quei verbali ai giornalisti, è indagata dai pm della Capitale per calunnia. La donna, interrogata, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, ma al consigliere laico Fulvio Gigliotti, per il quale lavorava dopo il pensionamento di Davigo, all' indomani della perquisizione disposta anche a Palazzo dei Marescialli, ha detto di avere ricevuto quegli atti anonimamente. Circostanza smentita dallo stesso Davigo, che ha ammesso invece di avere messo nella disponibilità della segretaria quei verbali. La donna, che aveva accesso all' agenda elettronica e al suo ufficio sarebbe stata informata proprio per tutelare la segretezza di quegli atti che non erano custoditi in cassaforte, visto che nella stanza attigua a quella occupata da Davigo in Consiglio, c' era l'ex amico Sebastiano Ardita (che ha già smentito ogni coinvolgimento) tirato in ballo da Amara. E sul punto dovrà rispondere ai pm. Greco intanto smentisce la tesi dell'inerzia del suo ufficio nell' inchiesta sulla loggia, che avrebbe spinto Storari a rivolgersi a Davigo. Il procuratore di Milano spiega che già a maggio 2020 Amara, il suo socio, Giuseppe Calafiore, e il collaboratore Alessandro Ferraro erano indagati. Di certo puntualizzerà anche che Storari, dopo la perquisizione della Contraffato, gli ha rivelato di avere consegnato i verbali a Davigo. Dal canto suo il pm avrebbe più volte indirizzato mail al suo capo per sollecitare le indagini.

Giuseppe Salvaggiulo Monica Serra per "la Stampa" il 4 maggio 2021. Nella guerra sui verbali sulla presunta loggia segreta Ungheria, il Consiglio superiore della magistratura fa blocco contro il suo ex componente Piercamillo Davigo. Lo accusa di aver violato le regole con comportamenti opachi quali la «sommaria comunicazione» dei contrasti interni alla Procura di Milano. Trattandosi di «atti non identificabili» e fuori dalle «procedure codificate», furono valutate come «notizie irricevibili» dai vertici del Csm, informati tra maggio e luglio 2020: in ordine cronologico e di dettaglio conoscitivo il vicepresidente Ermini, il procuratore generale Salvi, il presidente della Cassazione Curzio (a fine luglio, molto sommariamente). Il Csm non può nulla contro Davigo, magistrato in pensione (e nulla avrebbe potuto nemmeno se fosse rimasto in carica dopo il pensionamento, nell' ottobre 2020). Ma può aprire una procedura per trasferimento d' ufficio del pm milanese Paolo Storari, che consegnò informalmente a Davigo i verbali nell' aprile 2020. Questa mattina il comitato di presidenza se ne occuperà per la prima volta. Nei prossimi giorni, il fascicolo sarà completato dalla relazione del procuratore di Milano Francesco Greco, che ieri ha commentato: «Vicenda che mi rattrista, ci sono tanti storytelling». Poi la prima commissione del Csm, competente sulle incompatibilità ambientali, convocherà Storari. Forse anche Davigo. Parallelamente, Storari sarà sottoposto a un procedimento disciplinare. Quanto all' inchiesta penale sul successivo invio dei verbali ai giornali, la Procura di Roma potrebbe convocare Davigo a breve, visto che la sospettata è la sua ex segretaria Marcella Contrafatto. Genesi e ragioni del conflitto nella Procura di Milano saranno ricostruiti dalla Procura di Brescia, che ha confermato l'imminente apertura di un'indagine anticipata ieri da «La Stampa». L'avvocato Amara comincia a verbalizzare le rivelazioni sulla presunta loggia segreta il 9 dicembre 2019. Due giorni dopo Storari chiede per la prima volta ai vertici della Procura di aprire un'inchiesta per verificarle. Amara rende almeno cinque interrogatori fino a gennaio. E Storari manda mail a Greco - una decina - invocando investigazioni. Invano. All'inizio di aprile, Storari va a trovare Davigo. Gli chiede un consiglio. Fa un ultimo tentativo in Procura, avviando formalmente la procedura per l'iscrizione del procedimento con indagati Amara e altre cinque persone. Niente. A quel punto, «per autotutelarsi», dà a Davigo il via libera per portare la questione al Csm. Cosa che Davigo fa con Ermini nel primo giorno in cui torna a Roma dopo il lockdown, il 4 maggio 2020. E con Salvi, qualche giorno dopo. E con Curzio, due mesi dopo. «Senza che nessuno mi abbia chiesto di verbalizzare alcunché», ha spiegato a chi lamentava l'irritualità della procedura: una formalizzazione della segnalazione avrebbe messo a rischio la riservatezza dell'indagine. Passano pochi giorni e il 9 maggio l'indagine a Milano viene formalmente aperta, come Storari chiedeva da cinque mesi. Possibile che la svolta sia stata determinata proprio dalla telefonata di Salvi a Greco, dopo il colloquio con Davigo. La Procura iscrive tre persone nel registro degli indagati: Amara e i sodali Calafiore e Ferraro. Ma poco cambia: nemmeno nei mesi successivi risultano atti investigativi sia pure iniziali (tabulati telefonici), salvo una generica ricognizione anagrafica dei soggetti citati nei verbali e una serie di testimonianze raccolte da Storari in giro per l'Italia. A settembre, dopo una riunione di coordinamento, Milano decide di mandare i verbali di Amara a Perugia. Dove arrivano a dicembre. A un anno di distanza dagli interrogatori, il procuratore Cantone avvia l'inchiesta per davvero. Ieri, proprio a Perugia, Palamara ha annunciato di voler acquisire tutti i verbali di Amara nel suo processo, «per capire fino in fondo». Nel frattempo la «Lista 101» dei magistrati chiedeva lo scioglimento del Csm.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2021. Ha fatto parte del Csm, è stato presidente dell'Anm, Edmondo Bruti Liberati ha guidato la Procura di Milano dal 2010 al 2015, quando è andato in pensione lasciando il posto a Francesco Greco.

Cosa ne pensa della vicenda del pm Storari che dà verbali al consigliere del Csm Davigo, sostenendo che a Milano frenano l'inchiesta?

«Per me è una vicenda incomprensibile. Su quali debbano essere i rapporti tra il Csm e le indagini e i processi c'è una circolare del 1994».

Davigo ha detto di essersi attenuto alle regole.

«La circolare va letta interamente. Il principio generale è netto: al Csm è precluso ogni intervento sul merito di indagini e processi, ma può e deve acquisire notizie su procedimenti penali in corso, anche se coperti dal segreto investigativo, quando riguardano profili disciplinari, trasferimento di magistrati per incompatibilità ambientale e criteri di organizzazione degli uffici. Dice che spetta all'ufficio del pm valutare le ragioni che possono rendere inopportuna, in una determinata fase, la comunicazione di notizie che possano compromettere lo sviluppo delle indagini. È accaduto che, anche senza richiesta, i procuratori abbiano comunicato immediatamente le notizie o abbiano ritardato. In altri casi, a richiesta del Csm, hanno subito adempiuto o si sono riservati di farlo appena cessate le esigenze investigative. Le notizie che il Consiglio acquisisce sono coperte dal segreto al quale è vincolato di conseguenza ogni componente. La circolare, ovviamente, non prevede un'eventuale irrituale acquisizione diretta di notizie da parte di un singolo consigliere».

Le è mai capitato quando era al Csm che qualcuno glielo proponesse?

«No. Non avrei mai ricevuto informalmente atti e se qualcuno me li avesse sbattuti sul tavolo li avrei immediatamente consegnati all' istituzione Consiglio».

Questa vicenda le ricorda quella tra lei e l'allora aggiunto Alfredo Robledo?

«Non c' è nessun collegamento. Qui il tema sembra quello della ritardata iscrizione nel registro delle notizie di reato di alcuni soggetti. Questa, però, è un'insindacabile scelta del pm che non è valutabile neanche in sede processuale. Robledo, invece, riteneva che fossero stati violati i criteri di organizzazione dell'ufficio nell' assegnazione di procedimenti, e il Csm ha detto che non era accaduto».

Però è previsto che contro l'inerzia del pm intervenga la Procura generale.

«È l'unico caso, ma ci sono regole formali per questo».

È finita l'era di un ufficio che appariva compatto o era solo un'immagine distorta?

«In un ufficio di un centinaio di persone è evidente che ci siano anime diverse.

Credo, però, che nella Procura di Milano ci sia sempre stata una linea costante. È quella del rispetto delle garanzie. Diciamolo pure: le indagini polverone non sono nello stile della Procura di Milano».

Cosa intende?

«Indagini a tutto campo sull' universo mondo, iscrizioni precipitose e intercettazioni a strascico che poi si sgonfiano nel nulla. Non dimentichiamo che Milano significa Borsa, significa sede delle più grandi imprese, ma non dimentichiamo anche che qui sono state fatte una lunga serie di indagini importanti che hanno avuto significativi riscontri giudiziari, e anche qualcuna che non è andata a buon fine, come è nella normale dialettica processuale».

Cosa prova per ciò che sta accadendo nell' ufficio che ha diretto per 5 anni?

«Sono molto dispiaciuto per Storari. È un magistrato perbene e di grande professionalità, ma l'individualismo è una brutta bestia».

Greco deve affrontare tutto questo a pochi mesi dalla pensione.

«Greco lascia una Procura di livello elevato ed indiscusso. I sei sostituti che sono stati chiamati alla Procura europea sono un riconoscimento per la professionalità altissima di ieri e oggi dell'ufficio».

Tempesta sulla procura di Milano: "Indagato il pm Storari". Federico Giuliani il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Storari è stato convocato dalla procura di Roma e sarebbe formalmente indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. Sarà interrogato nella mattinata di sabato. Il pm milanese Paolo Storari è finito nell'occhio del ciclone nell'ambito dell'inchiesta sulla "fuga di notizie". Nel mirino troviamo i verbali secretati di Piero Amara, i quali sarebbero finiti alle redazioni di varie testate giornalistiche complice Marcella Contraffatto, impiegata del Csm e adesso sospesa. Secondo quanto riportato da La Stampa, Storari è stato convocato dalla procura di Roma ed è formalmente indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. Sarà interrogato nella mattinata di sabato, accompagnato dall'avvocato Paolo Della Sala. Nel frattempo, il procuratore di Brescia, Francesco Prete, ha formalmente aperto un fascicolo sulla vicenda dei verbali secretati degli interrogatori resi dallo stesso Amara tra fine 2019 e l'inizio del 2020. Al momento non sappiamo se ci siano degli indagati. L'indagine servirà per fare luce su come siano andate le cose tra il procuratore di Milano, Francesco Greco, e il suddetto Storari, che dopo aver riscontrato inerzie da parte dei vertici della Procura nell'avviare le indagini sulle rivelazioni del legale, tra cui l'esistenza della Loggia Ungheria, si è rivolto all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Anche il Procuratore Generale di Milano, Francesca Nanni, ha chiesto al procuratore Francesco Greco di stilare una relazione per fare luce su cosa sia accaduto in merito ai verbali secretati degli interrogatori dell'avvocato Amara. Verbali che, dopo quella che aveva ritenuto una lentezza eccessiva nelle indagini, il pm Storari ha deciso di consegnare, come vedremo, all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Il Pg Nanni, spiega Lapresse, da quanto si è saputo, ha iniziato a raccogliere tutte le informazioni sulla voce che sta dividendo la procura, nell'esercizio delle sue funzioni di sorveglianza. Se dovessero emergere delle irregolarità, trasmetterà le sue osservazioni e i suoi rilievi al Pg della Cassazione Giovanni Salvi che valuterà insieme al ministero della Giustizia se avviare un'azione disciplinare. A quanto pare, nell'aprile 2020, Storari ha consegnato i verbali secretati a Piercamillo Davigo, all'epoca dei fatti consigliere del Csm. Lo avrebbe fatto per "autotutelarsi". Il motivo? La procura di Milano non aveva aperto un fascicolo d'inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. Della quale Amara aveva autodenunciato di far parte. Tutto questo non avrebbe rispettato le procedure formali. Nei prossimi giorni, precisamente mercoledì mattina, anche Davigo sarà sentito dalla procura di Roma come persona informata sui fatti. Quest'ultimo avrebbe parlato dei verbali ricevuti da Storari con Davide Ermini, vicepresidente del Csm, e con Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione.

La bufera del caso "Amara-Gate" su un Csm che si delegittima da solo. L’ex pm di Mani pulite Davigo, il numero due del Csm Ermini e il pg della Cassazione Salvi si smentiscono a vicenda sui verbali di Piero Amara. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. L’ “Amara-Gate” sembra essere più dirompente del “Palamara-Gate”, preannunciando scenari devastanti per il Consiglio superiore della magistratura (massimo organo di autogoverno – per modo di dire – dei magistrati) da tempo delegittimato. Ed è quest’ultimo termine che da tempo ripete ossessivamente il numero due del Csm, David Ermini (coinvolto mani e piedi nell’“Amara Gate”), che non sa che pesci prendere nel duello che ha ingaggiato con un altro noto ex magistrato ed ex componente del Csm, Piercamillo Davigo. Entrambi si accusano e si sbugiardano a vicenda sull’inchiesta Amara e Davide Ermini, ancora una volta, sostiene che tutto questo viene fuori per “delegittimare” e “screditare” il Consiglio superiore della magistratura e gli stessi magistrati, cioè la Giustizia.

LA DELEGITTIMAZIONE. Ma dice sul serio il vicepresidente del Csm David Ermini? Nessuno vi ha screditato o delegittimato: lo state facendo da soli (voi magistrati coinvolti), dando un indegno spettacolo agli italiani, molti dei quali credono ancora nella giustizia e che hanno ancora la speranza che ci sia sempre “Un giudice a Berlino”. Ma c’è anche un altro tema che mi spiace affrontare ma che deve essere affrontato (questa la mi opinione): quello del ruolo dei giornalisti, in questo caso quelli che hanno ricevuto anonimamente i verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara (indagato e condannato per vari reati) che ha reso ai pm di Milano, svelando tra l’altro che in Italia «esiste un’associazione segreta in grado di condizionare nomine e affari ad altissimo livello» che coinvolgerebbe magistrati, politici, imprenditori, alti gradi delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Bene, i due colleghi che conosco personalmente e che stimo (Antonio Massari e Liliana Milella), hanno deciso che quei verbali anonimi non andavano utilizzati e pubblicati. Hanno fatto di più: hanno avvertito (condivisibile o meno) due procure, quelle di Milano e di Roma. Bene, non hanno utilizzato quei verbali perché erano anonimi e non sapevano se fosse una polpetta avvelenata oppure no. Comprensibile prudenza. Questo fino a qualche giorno fa, ma adesso che è acclarato che quei verbali con le dichiarazioni di Piero Amara (al di là del fatto che quelle dichiarazioni siano vere o inventate) sono veri e resi davanti a dei pubblici ministeri di Milano, cosa aspettate (perdonatemi l’interferenza, ma sono stato condannato per aver pubblicato verbali veri e quindi ho il dente avvelenato) a pubblicarli? Tanto prima o poi verranno fuori. Detto questo, torniamo da dove siamo partiti, dai continui sviluppi dell’“Amara-Palamara gate”) che ogni giorno che passa si arricchisce di continui colpi di scena. L’ultimo è quello che vede contrapposti l’ex pm di “Mani pulite” Piercamillo Davigo, il vice presidente del Csm, David Ermini e quel “prestigioso” magistrato che è Giovanni Salvi, il capo dei capi della magistratura italiana, essendo procuratore generale della Cassazione e componente di diritto del Consiglio superiore della magistratura. Secondo Davigo tutti sapevano, soprattutto il procuratore generale Giovanni Salvi e David Ermini, da lui stesso informati che stava per accadere un gran casino in un’inchiesta che aveva in mano la Procura di Milano. Appunto le dichiarazioni di Paolo Amara, che ha svelato tra le altre cose l’esistenza di questa organizzazione massonica segreta “Ungheria”, dove tra gli iscritti ci sarebbe il gotha della magistratura, della politica dell’imprenditoria, e delle istituzioni.

VERBALI E MISTERI. Il vice presidente del Csm David Ermini smentisce, poi fa qualche piccola ammissione e dice che Davigo lo informò sommariamente ma più volte. Stessa versione quella fornita dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi: sì, Davigo mi disse ma non mi disse che aveva i verbali con le dichiarazioni esplosive di Piero Amara che erano stati consegnati a Davigo dal suo collega milanese, Paolo Storari, il pm che aveva raccolto le dichiarazioni di Piero Amara e che insisteva con i suoi capi milanesi per andare avanti nell’inchiesta. Cosa che non ottenne e fu per questa ragione che, per tutelarsi, informò Piercamillo Davigo, anzi non lo informò: gli consegno addirittura i verbali di Amara. Verbali e dichiarazioni che sono stati trovati nei giorni scorsi nel computer di Marcella Contraffatto negli uffici del Csm dove la donna aveva lavorato proprio con Piercamillo Davigo e che adesso è accusata di avere inviato anonimamente quei verbali ai giornalisti Massari e Milella. Non solo: adesso si scopre che le dichiarazioni di Piero Amara erano state trasferite per competenza (vi erano citati magistrati romani di cui è competente la procura perugina) alla procura di Perugia soltanto un anno dopo. Perché? Ennesimo mistero. In quelle dichiarazioni l’avvocato Amara andava giù duro, raccontando tra l’altro di essere in possesso di una lista di 40 nomi che fanno parte della loggia “Ungheria”, aggiungendo che «la lista completa potete trovarla a casa di un giudice, oppure chiederla a Calafiore (suo coimputato nel processo Eni Nigeria) che la custodisce all’estero». Non solo, ma ai magistrati milanesi Piero Amara consegna anche dei file audio a conferma delle sue dichiarazioni, vere o false che siano. Si tratta di registrazioni audio «che – dice Amara ai pm milanesi – io stesso ho avuto e che provano l’esistenza della loggia… Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi».

Amara è stato interrogato a più riprese  dai magistrati di Milano e già due volte da quelli di Perugia, guidati dal procuratore Raffaele Cantone. Tornerà nei prossimi giorni e sarà richiamato anche il suo socio Giuseppe Calafiore (altro avvocato già indagato che ha annunciato la volontà di collaborare). Se così fosse e portasse la lista completa della loggia “Ungheria” che Amara sostiene di possedere, ne vedremo delle belle.

L’INTERVENTO DI PALAMARA. C’è da sottolineare che Amara, finora, non è indagato in questa inchiesta della Procura di Perugia per “calunnia” ma per appartenenza a una loggia segreta e con lui anche alcuni magistrati. E questo la dice lunga sulla sua attendibilità. E naturalmente nella vicenda Amara interviene anche Luca Palamara, che è stato “vittima” delle accuse di Amara, quindi sarebbe escluso un “complotto” che qualcuno potrebbe ipotizzare.  La difesa di Luca Palamara, infatti, chiederà l’acquisizione di tutti i verbali resi da Piero Amara. È quanto ha annunciato ieri l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende l’ex pm Luca Palamara, all’uscita dell’’udienza preliminare che si è svolta ieri a Perugia. «Voglio capire fino in fondo quello che è successo», ha detto Palamara lasciando l’udienza. Insomma, egregio dottor Ermini ed egregio Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, non continuate a sostenere che vi vogliono “screditare” e “deligittamare”: lo state facendo da soli. Auguri.

I CORVI DEL CSM. L’ EX MAGISTRATO DAVIGO ASCOLTATO OGGI COME TESTE DALLA PROCURA DI ROMA. Il Corriere del Giorno il 5 Maggio 2021. Nel frattempo quasi tutti i gruppi parlamentari sia della maggioranza che dell’opposizione della Camera dei Deputati, hanno chiesto che il ministro della Giustizia Marta Cartabia “riferisca con urgenza in Aula sulla vicenda relativa ai verbali di Amara e i dossier al Csm”. Piercamillo Davigo, ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, verrà ascoltato questa mattina a Roma come teste dai magistrati inquirenti della Procura di Roma nell’ambito dell’indagine a carico dalla sua segretaria Marcella Contrafatto, sino a quando non è andato in pensione, accusata di aver diffuso in forma anonima ad alcuni giornali i verbali secretati degli interrogatori resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 dall’avvocato Piero Amara ai pm di Milano sulla presunta “loggia Ungheria“. Davigo per il momento viene ascoltato a Roma come persona informata sui fatti. Il quotidiano La Stampa ha rivelato che, il pm milanese Paolo Storari è stato convocato dalla procura di Roma ed è formalmente indagato per rivelazione del segreto d’ufficio. Sarà interrogato nella mattinata di sabato, accompagnato dall’avvocato Paolo Della Sala. Secondo quanto ha sostenuto Storari vi sarebbe resistenza dei vertici della Procura milanese a svolgere accertamenti e quindi decidse di muoversi autonomamente contatta il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm del pool “Mani Pulite” e gli consegna le copie dei verbali di Amara che però sarebbero privi di firme quindi di lavoro. Ma nel consegnarli adotta una procedura irregolare e quindi illegittima, infatti non presenta un esposto, e tantomeno chiede la tutela del Csm. Storari riferisce a Davigo dice di essere ostacolato e lascia copie estratte dal suo computer , ben sapendo considerato che egli stesso lui uno dei titolari del fascicolo d’indagine che quei verbali erano stati secretati.

Storari si rivolge Davigo procedendo però in maniera informale ed il consigliere del Csm (ora in pensione n.d.r.) ne parla con il vicepresidente David Ermini a cui avrebbe rivelato di avere copia dei verbali. Non contento e sempre con colloqui personali, senza formalizzare alcun atto, ne parla con altri consiglieri togati del Csm: Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, il laico nominato dal M5S  Fulvio Gigliotti, e probabilmente anche con altri altri. Dopodichè Davigo, sempre senza formalizzare parla anche con Giovanni Salvi procuratore generale presso la Corte di Cassazione al quale riferisce che ci sono contrasti interni alla procura di Milano, e come sostiene Davigo, gli avrebbe parlato dell’ un’inchiesta delicata che coinvolge Amara. Ma il procuratore generale Salvi smentisce e nega che Davigo gli abbia mai parlato di verbali. “Informai immediatamente il Procuratore della Repubblica di Milano. – dice Giovanni Salvi – In un colloquio avvenuto nei giorni successivi nel mio ufficio, il 16 giugno, il dottor Greco mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo”. L’impiegata Marcella Contrafatto che è stata sospesa dalle sue funzioni dal Csm, è indagata per calunnia i quanti i verbali da lei spediti a La Repubblica ed il Fatto Quotidiano erano accompagnati da una lettera in cui il “corvo” di Palazzo dei Marescialli tacciava di inerzia i vertici della Procura milanese. Un altro plico sempre anonimo viene inviato al consigliere del Csm Nino Di Matteo il quale lo rende noto nel corso di una riunione del plenum del Consiglio Superiore dela Magistratura, scoperchiando e rivelando l’accaduto. Ad ottobre 2020 Davigo va in pensione e lascia il Csm, e la sua segretaria Marcella Contrafatto, passa a lavorare con il consigliere laico Fulvio Gigliotti nominato dal M5S. Qualche giorno dopo il giornalista Antonio Massari del Fatto Quotidiano riceve un plico con e copie dei verbali di Amara ed una lettera anonima che accusa i magistrati di Milano di non aver indagato. Il cronista molto correttamente, rispettando la Legge, non pubblica nulla e presenta una denuncia a Milano. Analoga circostanza accade anche con Liana Milella giornalista di La Repubblica che prima riceve una telefonata da un numero anonimo e poi riceve presso la propria abitazione lo stesso plico, ma anche lei non pubblica nulla si rivolge alla Procura di Roma presentando una denuncia. Sono proprio le indagini su quella telefonata anonima, infatti che hanno consentito alla Procura romana di arrivare alla segretaria di Davigo che viene perquisita ma decide di non rispondere al procuratore capo Prestipino ed all’ aggiunto Ielo quando le viene chiesto chi le abbia dato i verbali, e la Contrafatto che nel suo lavoro ha funzioni di un pubblico ufficiale viene accusata anche di aver calunniato con la sua lettera anonima i magistrati milanesi accusandoli di non voler indagare. Quello che adesso va chiarito è quale interesse avrebbe avuto la segretaria di Davigo a far circolare quei verbali, da chi li ha avuti. E’ molto grave infatti che in una situazione così delicata, con documenti “secretati” arrivati al un membro del Csm, che se li tiene sulla scrivania senza formalizzare alcunchè contrariamente ai suoi doveri d’ufficio. Motivo questo per cui Davigo potrebbe vedere la sua posizione cambiare nel corso dell’interrogatorio di oggi e da “persona informata sui fatti” ad essere iscritto nel registro degli indagati. La rivelazione dei verbali e del passaggio di carte fra il pm Storari della Procura di Milano e Piercamillo Davigo, ha acceso forti dissapori e scontri al quarto piano del Palazzo di Giustizia milanese, creando un vero e proprio terremoto tra le correnti della magistratura arrivando sino nella Capitale a Palazzo dei Marescialli . Anche la Procuratrice Generale di Milano Francesca Nanni,  esercitando i suoi poteri di sorveglianza, ha richiesto all’ufficio del Procuratore capo Francesco Greco i necessari chiarimenti ed informazioni sulla vicenda per determinare cosa sia accaduto per poter successivamente riferire al Procuratore Generale della Cassazione in vista di una probabile, pressochè certa azione disciplinare. Della vicenda si sta occupando anche la procura di Perugia, alla quale si era rivolto il consigliere del Csm Nino Di Matteo che è stato il primo e unico componente del Csm che ha denunciato pubblicamente la vicenda, quando gli erano arrivati in via anonima i verbali in questione. Nel frattempo quasi tutti i gruppi parlamentari sia della maggioranza che dell’opposizione della Camera dei Deputati, hanno chiesto che il ministro della Giustizia Marta Cartabia “riferisca con urgenza in Aula sulla vicenda relativa ai verbali di Amara e i dossier al Csm“. La Guardasigilli ed il procuratore generale della Cassazione hanno avuto un colloquio e Salvi ha confermato che si sta valutando l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del pubblico ministero Storari. Ed analoga valutazione dovrà farla anche il Csm. Sarà interessante vedere anche cosa farà e dirà il grillino Gigliotti finora silente e taciturno, nella cui segreteria lavora la Contrafatto dopo il pensionamento di Davigo, che è membro della commissione disciplinare.

Estratto dell'articolo di Gianluca Di Feo per "la Repubblica" il 6 maggio 2021. Sarebbe stato formidabile assistere a un paradosso e vederlo interrogare se stesso. Chissà come il pm Davigo, che da decenni predica una teoria molto somigliante alla presunzione di colpevolezza, avrebbe incalzato il testimone Davigo per far emergere le contraddizioni sulla storiaccia dei verbali segretissimi consegnati nelle sue mani e successivamente dossierati a giornali e giudici dalla sua ex segretaria. […] Tutto ruota intorno a Davigo, terminale di fogli coperti dal segreto istruttorio seppur in copia non firmata, cosa che offre alla sua fama di "PierCavillo" la possibilità di sottrarsi alla macchia di venire indagato, rivendicando di avere agito sempre e solo per giustizia. […] […] Dagli anni Ottanta […] ha gestito istruttorie clamorose, dalle tangenti delle "Carceri d'oro" al pentimento del boss Angelo Epaminonda. L'ingresso nel pool voluto da Francesco Saverio Borrelli è una consacrazione: diversissimo da Antonio Di Pietro, insieme ne diventano il "braccio" e "la mente". Distante da Gherardo Colombo, tanto da confrontarsi poi in un dialogo intitolato "La tua giustizia non è la mia". E pure da Francesco Greco, l'attuale procuratore noto per l'indole cauta e la tradizione garantista […] […] Rispetto a quei colleghi, Davigo ha una concezione […] poco positiva nei confronti dei cittadini italiani. […] Entrato nel Csm ha cercato di imprimere una svolta all' intera magistratura. […] Crea una sua corrente […] promettendo una rifondazione dura e pura. Ma qualsiasi governo e soprattutto quello delle toghe implica […] mediazione e compromesso, mentre la forza di Davigo è tutta nel suo essere un'eccezione rigorosa […] Avendo contestato la norma renziana che mandava in pensione i giudici a 70 anni, allo scadere del termine ha impugnato ogni strumento legale per restare almeno al Csm. Una scelta […] in cui si è ritrovato totalmente solo, trattato alla pari del più bieco burocrate attaccato alla poltrona. Neppure la corrente che aveva fondato lo ha sostenuto; nemmeno Sebastiano Ardita che pareva l'ultimo pupillo tanto da firmare insieme proprio il libro-manifesto "Giustizialisti" e che nei verbali di Amara viene bollato come affiliato dell'incredibile loggia dei massoni in toga e cappuccio. […]

Davigo, da Mani pulite ai dossier misteriosi: ascesa e caduta del «duro» delle toghe. Goffredo Buccini il 6/5/2021 su Il Corriere della Sera. Ora è l’ex pm che siede sul banco dei testimoni. Una volta confessò di non poter essere davvero certo della propria virtù, non essendo mai stato indotto in tentazione da nessuno nella sua carriera da inquisitore. Ovvio: con quella faccia un po’ così, da Javert padano, quell’espressione un po’ così, da trangugiatore di Maalox, solo un pazzo avrebbe potuto immaginare di corromperlo. Piercamillo Davigo più che un magistrato (in pensione, senza requie) è una metafora: della giustizia periclitante, delle umane contraddizioni, delle nostre ipocrisie. E ha la dannazione di parlare per metafore e iperboli venendo preso quasi sempre alla lettera, spesso per stupidità o malafede. Il suo famoso siparietto su quanto fosse più conveniente, tra sconti e abbuoni di pena, uccidere la moglie piuttosto che divorziarne, apologo iperbolico su storture e lentezze di un sistema, venne chiosato da autorevoli garantisti come «l’uxoricidio delle garanzie» o «l’infernale paradosso». Forse più per bulimia provocatoria che per eccesso di custodia cautelare, Davigo è diventato così uno dei magistrati più detestati, pur vantando meriti non comuni. Per lungo tempo se n’è quasi dilettato: deve essere stata una seduzione irresistibile épater le bourgeois, stupire i borghesi, per un borghese piccolo piccolo venuto dalla natia Candia Lomellina, minuscola provincia Pavese, rigidità militaresca e perbenismo familiare. «Non esistono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti» può apparire l’odioso manifesto di uno sgherro dello Spielberg o l’ammissione quasi evangelica della nostra umanissima debolezza, dipende dal cuore di chi ascolta, ma in entrambi i casi scandalizza (ed è bene che gli scandali avvengano, si sa). «Rivolteremo l’Italia come un calzino» pare sia invece un apocrifo, oggetto di contestazioni anche nelle aule giudiziarie: perché, se il dipietrese si nutre di sbuffi e strafalcioni, il davighese è fatto di finezze giuridiche ma anche di ferocie non sempre autentiche. Poi la ruota gira e i capelli già radi e impomatati diventano zucchero filato: il resto è oggi. Oggi, che il «Dottor Sottile» è chiamato a sedere sullo scomodo scranno del testimone, molti nei social esultano manco lo avessero colto a fare una rapina («godo», «se lo merita», «chi la fa…»). Lui per primo, del resto, sa benissimo quanto sia scomoda quella posizione, nella quale (a differenza dell’indagato) la persona informata sui fatti non ha facoltà di mentire, avendo fatto arrestare proprio per questo, un 4 marzo di 28 anni fa, il portavoce di Forlani, Enzo Carra, che nicchiava sulla maxitangente Enimont non volendo inguaiare il suo capo e fu poi sottoposto (non per volontà di Davigo) all’umiliazione di un passaggio in manette tra fotografi e telecamere. Mani pulite è stata un’esperienza così potente da far quasi scolorire il prima e il dopo di molti. Eppure, il prima di Davigo ne spiega l’approdo. Ecco il maestro di prima elementare — giustizialista ante litteram — che mette alla gogna un lungagnone pluriripetente, ammonendo: «In Italia l’istruzione è obbligatoria per almeno otto anni, questo significa che potete fare otto volte la prima elementare: come accade a lui». Ecco gli Anni di piombo che gli portano lo stigma ingiusto del fascista, derivato dall’occuparsi di sindacato dalla parte degli imprenditori, con le scritte «Davigo fascista sei il primo della lista» per le quali lui non si scompone finché quelli cambiano scritta: «Davigo abbiamo perso la lista ma tu sei sempre il primo» («pensai che nessuno con quel senso dell’umorismo poteva davvero spararmi», ha poi raccontato lui a Silvia Truzzi de Il Fatto quotidiano). In quegli anni, da giovane magistrato, il primo incontro con Borrelli, rientrato in servizio con una gamba ingessata per condannare il terrorista Alunni mentre tanti colleghi se la squagliavano. L’inchiesta più famosa nascerà con quel procuratore («coraggioso e con il senso delle istituzioni»), ispirata dall’idea forse crudele che la corruzione sia «un reato seriale» (una volta corrotto, sempre corrotto) e che l’unico modo per spezzare il circolo sia la confessione, perché rende inaffidabili per i complici. Decisivo nel dissuadere Di Pietro dall’accettare il Viminale offertogli da Berlusconi neopremier (avendo a sua volta rifiutato la poltrona da Guardasigilli), Davigo è forse il più magistrato dei magistrati del vecchio pool (Tonino ha avuto mille identità, Borrelli si sognava pianista, Colombo divulgatore di cultura). Ma proprio questa immedesimazione nel ruolo è diventata il punto di frattura, ciò che spiega il dopo: quando si trattava di alzarsi dal tavolo con grazia.

La guerra dei verbali: gli approfondimenti. Di colpo, alcune ovvietà che scandalizzavano («la politica dovrebbe riformarsi prima delle sentenze per non ripetere la propria legittimazione dai magistrati») diventano bandiere del neogiustizialismo. Quando a prenderlo alla lettera sono i grillini, lui non se ne rammarica, anzi finisce per farsene acclamare padre nobile, catapultato al Csm dall’onda lunga del 2018. Seguono polemiche sempre più feroci, la battaglia infelice per non lasciarsi pensionare, la voglia di stupire che diventa sovraesposizione nei talk dove tutto è frullato e banalizzato: Davigo mette in scena Davigo. E siamo al triste epilogo, all’intruglio di liquami sgorgato da una fonte che ha il destino nel nome (Amara) e all’incapacità del nostro di tenersene lontano, di godersi una panchina, un ricordo, persino un rimpianto. In questo gracchiar di corvi, Davigo si ritrova teste su una poltrona di spine, per via del fuorisacco di un collega incontinente e di una ex segretaria sospettata di aver fatto da postina di atti secretati. L’augurio, per chi lo ha conosciuto quando il bene e il male sembravano ancora entità separate, è che gli venga risparmiato almeno il noto broccardo «non poteva non sapere»: che tanta fortuna portò alla sua indagine più famosa e tanta angoscia ai suoi più famosi indagati.

Il ritratto del pm. PierCavillo Davigo, chi è il Pm coinvolto nello scandalo loggia Ungheria. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Più che “Dottor sottile” a Milano veniva chiamato “Piercavillo”, e non sappiamo con certezza se quello fosse proprio un complimento. Secondo il vocabolario, non tanto. Chi usa il cavillo è uno che fa un po’ il furbo. Tanto che proprio magistrati come Piercamillo Davigo gettano addosso il termine come un insulto agli avvocati. Ma lui non ha reputazione di “furbetto”, perlomeno era così fino a pochi giorni fa. Fino a quando l’ennesimo scandalo che sta travolgendo le toghe non ha fatto svolazzare corvi e uccellacci vari da Milano a Roma, passando per Brescia e infine deviando verso Perugia. Insieme ai corvi c’erano atti giudiziari secretati che passavano di mano in mano tra pubblici ministeri e membri del Csm. Davigo c’è dentro, ieri sentito come testimone dal procuratore di Roma, e non può cavarsela con le “barzellette”, questa volta. In quel gruppetto di pubblici ministeri che palesò un tale narcisismo da definire se stesso quello degli uomini con le Mani Pulite, il dottor “Piercavillo” era il numero tre. Non perché fosse il meno importante, o il meno stimato, ma perché era entrato nel pool come aggregato agli altri due, Tonino Di Pietro e Gherardo Colombo. E poi divenne “Dottor sottile” o “Piercavillo” perché, mentre gli altri due sfilavano davanti alle telecamere, dopo aver sottoposto gli indagati a interrogatori in cui quel che contava era la confessione per evitare il carcere, lui passava il tempo a studiare gli atti e a trovare soluzioni. Astuzie? Anche. Proprio come fanno gli avvocati, quando scoprono che per esempio un pm o un gip hanno lasciato scadere alcuni termini perentori e il loro assistito deve essere scarcerato. Certo, se il cavillo è avvocatesco è una mascalzonata perpetrata alle spalle della giustizia, se lo fa il magistrato è un ganzo. Gli altri del pool interrogavano, arrestavano, magari guardavano dall’altra parte mentre le carte volavano via dai loro uffici (ne volavano tante, visto che a volte erano i cronisti giudiziari a telefonare a casa dell’”arrestando” e “arrestaturo” per intervistarli sul loro immediato futuro) e poi andavano in tv. Piercavillo spulciava e studiava. Potremmo definirlo sobrio, in quei giorni, quasi come Monti con il loden e Draghi con la casa di campagna. Anche se, nel giro di un anno, era già lì a dire che si doveva “rivoltare l’Italia come un calzino” e, in riferimento a un’inchiesta milanese, che non c’erano innocenti, ma solo colpevoli e colpevoli che l’avevano fatta franca. Le svolte furono due. La prima con il decreto Biondi, un provvedimento sacrosanto per ridurre la custodia cautelare, ucciso in culla dai ministri Bossi e Fini e che poco dopo contribuì a determinare, dopo uno sciopero generale per le pensioni, la caduta del primo governo Berlusconi. In quell’occasione il dottor Davigo fu insieme ai suoi colleghi protagonista di un’indimenticabile immagine in bianco e nero dei rappresentanti del Bene contro il Male, gli eroi che senza manette non potevano più svolgere il proprio lavoro. Ma la vera svolta, l’inizio della seconda vita del riservato pubblico ministero arrivato a Milano dalle brume del pavese, fu la sua elezione, nel 2016, alla presidenza dell’Associazione nazionale dei magistrati, il combattivo sindacato delle toghe. Quel giorno, forse memore di quella foto, di quel successo assaporato quando gli uomini del Pool avevano minacciato le dimissioni contro il decreto di un governo (sempre nel nome della separazione dei poteri, off course), Piercamillo Davigo si trasformò in personaggio. Se prima aveva riservato a qualche colloquio privato nel suo ufficio con colleghi e qualche cronista milanese amico le sue battute sparate con la faccina furba e le sue barzellette giudiziarie, da quel momento tutto diventerà pubblica esibizione. La sua forza? L’ignoranza degli altri, la subalternità dei giornalisti che non gli hanno mai fatto le domande giuste né le contestazioni giuste. Qualche esempio. Si è divertito per anni a raccontare che un imputato di uxoricidio, tra attenuanti generiche e rito abbreviato può essere condannato a cinque anni di carcere invece che a trenta. Quindi la conclusione paradossale: conviene di più ammazzare la consorte piuttosto che divorziare, perché si fa più in fretta. A questa “barzelletta” nessuno ha mai osato obiettare, sempre pensando “se lo dice lui che è il dottor sottile sarà vero”, finché l’astuto Piercavillo non ha incontrato nel cammino di una trasmissione tv l’avvocato Giandomenico Caiazza, il quale gli ha posto una semplice domanda: quanti casi del genere conosce? Uno, ha dovuto rispondere, e ha chinato il capo. Il Presidente dell’Unione Camere Penali ha messo in buca diverse volte gli argomenti dell’ex magistrato, forse domandandosi in che cosa fosse mai stato così “sottile”. Come quella volta che, avendo Davigo citato a ripetizione l’ipotetico vicino di casa che, alternativamente, scendeva le scale con addosso l’argenteria forse rubata (e quindi non sarebbe stato più da lui invitato), oppure era sospettato di pedofilia quindi non gli si doveva affidare la nipotina, fu costretto a soccombere sotto le contestazioni. Siamo sicuri che l’argenteria fosse rubata? E proprio a casa sua? E dove sono le prove della pedofilia? Eccetera. La verità è che da quelle “barzellette” emergeva il suo convincimento dell’inutilità del processo. «L’errore italiano – ha detto più volte – è quello di aspettare le sentenze». Gli piace molto citare gli Stati Uniti, dove solo il 4% delle inchieste va al dibattimento. Se nessuno gli replica, nessuno saprà mai che in Usa non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e che il patteggiamento non è riservato, come invece è in Italia, a reati la cui pena prevista è sotto i cinque anni. Certo, nessuno gli replica, soprattutto dopo che il dottor Davigo è sbarcato, prima come il Grande Intervistato e poi come editorialista, sui lidi amici del Fatto quotidiano. Ne è diventato il reuccio. È la sua terza vita. Il vero scoop l’ha fatto Marco Travaglio quando con tono incalzante e domande da levare la pelle, ha realizzato la Grande Intervista. Era più o meno un anno fa, tempi duri, la pensione e l’esclusione dal Csm non avevano certo messo di buon umore l’ex magistrato. Pure lui si era assoggettato con coraggio al giornalista più caustico di tutti, quello che non le manda a dire. Infatti, ogni volta in cui il direttore del Fatto lo incalzava con frasi roventi del tipo “ma davvero”, “e poi” o “e alla fine”, lui poteva dire in fila cose non vere, come per esempio che le norme sulla prescrizione esistevano solo in Italia e in Grecia e che i giudici italiani sono i più produttivi d’Europa. Tanto, chi poteva contraddirlo? Giocava in casa. Ma la vera ciliegina sulla torta erano stati i suoi attacchi, precisi e mirati ai diritti della difesa e alla stessa categoria degli avvocati. Auspicando l’abolizione dell’appello e magari anche della cassazione. Fingendo di ignorare che in Italia ogni 100 indagati ben 75 sono scagionati già nel corso delle indagini preliminari e che circa il 40% degli arrestati risulterà innocente al processo. Tanto è abituato al fatto che nessuno gli replica. Forse non immaginava che pochi mesi dopo sarebbe crollato in quei due round televisivi sotto i colpi dell’avvocato Caiazza. Che gli ha demolito le sue “barzellette”. Le partite di andata e ritorno di un brevissimo campionato che non si è più ripetuto. Ma il dottor Piercavillo ha risolto brillantemente, come sempre il problema, diventando editorialista del Fatto quotidiano ed evitando le domande e il contraddittorio. Peccato che fin dal suo primo commento, sull’affollamento delle carceri, ha già detto cose non vere, sul numero dei detenuti e anche sugli spazi vitali cui ha diritto il prigioniero in ogni istituto di pena. Tranquillo? Difficile, perché la nemesi storica è sempre in agguato. E il passaggio di carte e gli svolazzamenti di corvi e uccellacci vari paiono poco consoni al “dottor sottile”. E al dottor “Piercavillo”?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Dagospia il 5 maggio 2021. Da Un Giorno da Pecora. Cosa avrei fatto se avessi ricevuto i verbali di Amara? “Mi sono arrivate una parte delle cose e le ho lasciate cadere, mi era arrivata una parte che riguardava Conte.  Io però sono contro quelle cose lì, quei veleni anonimi, mi spiace ma non è il mio film...” Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il giornalista e direttore del Tgla7 Enrico Mentana. Quando le arrivarono questi documenti? “A febbraio mi arrivarono elementi per questa storia Acqua Marcia, Amara, Conte e non gli diedi alcun seguito”. 

(ANSA il 5 maggio 2021) - Il pm milanese Paolo Storari nell'aprile 2020 avrebbe consegnato a Milano a Piercamillo Davigo, allora al Csm, i verbali degli interrogatori resi tra dicembre e gennaio precedenti dall'avvocato Piero Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. Un gesto dettato dalla necessità di autotutelarsi poiché i vertici della Procura non avrebbero dato seguito alle sue ripetute richieste di indagare immediatamente sul caso. La consegna nel capoluogo lombardo potrebbe incidere sulla competenza territoriale e portare i pm di Roma, che hanno convocato Storari da indagato per sabato, a trasmettere gli atti relativi alla sua posizione a Brescia.

Loggia Ungheria, indagato il pm Paolo Storari che consegnò i verbali secretati di Amara a Piercamillo Davigo. Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Quei verbali con le rivelazioni di Piero Amara sulla Loggia Ungheria erano secretati e non potevano uscire dalla Procura di Milano. Per questo il pm Paolo Storari, tra i titolari dell'inchiesta, è ora indagato per rivelazione di segreto d'ufficio, secondo quanto riporta il Corriere della Sera. Il pm ha infatti consegnato quei verbali nell'aprile 2020 al consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo, e appunto non avrebbe potuto farlo. Storari sarà quindi interrogato nei prossimi giorni, ma prima di lui, oggi 5 maggio, il procuratore di Roma Michele Prestipino ascolterà come testimone lo stesso Davigo. L'ex magistrato di Mani pulito dovrà spiegare perché decise di prendere quei verbali riservatissimi, e perché in un secondo momento decise di trattare la vicenda in modo solo informale all'interno del Csm parlandone con il vicepresidente Ermini, con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e poi con altri consiglieri. E non solo. Davigo dovrà chiarire in che modo decise di custodirli, visto che a partire da ottobre, dopo aver lasciato il Csm per via del pensionamento, copie di quegli atti furono spediti a due quotidiani e al consigliere Nino Di Matteo, accompagnate da lettere che accusavano gli inquirenti milanesi di non voler svolgere indagini. Anche perché il sospetto è che a veicolarli sia stata la sua segretaria Marcella Contrafatto, indagata dai pm di Roma per calunnia. Sulla vicenda ci sono tre fascicolo. La Procura di Brescia ha deciso di avviare accertamenti su ciò che è accaduto tra Storari e il suo capo, il procuratore di Milano Francesco Greco, mentre Perugia indaga su quanto raccontato dall'avvocato Piero Amara e sui componenti di questa loggia massonica. Le sue dichiarazioni infatti vanno prese con le pinze: Amara ha raccontato di avere una lista di 40 nomi di appartenenti alla congregazione massonica, ma pur essendo stato interrogato oltre dieci volte, non l'ha mai consegnata agli inquirenti.

Il primo interrogatorio di Amara a Milano risale al 9 dicembre 2019. In quell'occasione decide di parlare della Loggia Ungheria. Fa un elenco di nomi importanti: politici, magistrati, avvocati, imprenditori, vertici delle forze dell'ordine, "tutti ne fanno parte". Quindi Storari chiede a Greco di iscrivere nel registro degli indagati Amara e le persone chiamate in causa. Ma questo non accade e Storari di conseguenza decide di rivolgersi a Davigo. Sostiene che non vogliono approfondire e gli consegna i verbali di Amara nonostante siano secretati. Una delle tante domande è: Davigo parlò con la sua segretaria dell'esistenza di quei verbali? Oppure fu lei a trovarli nell'ufficio? E soprattutto, perché pochi giorni dopo il pensionamento di Davigo decise di mandarle ai giornali? Qualcuno la spinse a farlo? E poi, perché il plico fu recapitato anche a Nino Di Matteo? È vero, come sostiene Di Matteo, che l'obiettivo era rendere pubblico il fatto che nell'elenco dei presunti affiliati alla loggia ci fosse, secondo Amara, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, con cui Davigo aveva interrotto i rapporti?  

Estratto dell'articolo di Valeria Pacelli per “il Fatto Quotidiano” il 5 maggio 2021. Sono due gli aspetti che la Procura di Roma intende verificare nell'ambito dell'indagine sulla diffusione di verbali secretati degli interrogatori resi da Piero Amara […] arrivati nei mesi scorsi ad alcune testate giornalistiche e al Csm. […] i magistrati vogliono capire se altri consiglieri del Csm […] siano venuti in possesso di quegli interrogatori […] Dall'altra procedono anche le indagini su Marcella Contrafatto, ex funzionaria del Csm, perquisita nelle scorse settimane e sospettata di aver avuto un ruolo nella fase finale del dossieraggio […]. I pm stanno cercando di risalire la filiera per capire due cose: chi le ha dato le carte e perché le ha diffuse ai giornali. Non solo. C'è un altro elemento finora inedito: durante le perquisizioni, secondo indiscrezioni, è stata trovata nella disponibilità della donna anche una busta con all'interno circa 4 mila euro. Sulla busta è riportata una data, di poco precedente - secondo gli investigatori - a uno degli invii dei plichi. È una circostanza che potrebbe non avere alcun peso nell'indagine, ma gli inquirenti stanno cercando capire la provenienza di quel denaro […] La donna - indagata a Roma - lavora da tanti anni al Csm (è stata ora sospesa) ed è stata fino a ottobre scorso la segreteria di Piercamillo Davigo. […] Davigo sostiene di aver spiegato la situazione al vicepresidente del Csm David Ermini, con quest' ultimo che a sua volta informò il Quirinale e poi incontrò nuovamente l'ex pm […] porgendogli i ringraziamenti del Colle e il messaggio che a quel punto non era necessario intraprendere ulteriori iniziative. Ermini […] ha confermato solo la prima parte della versione di Davigo: "Confermo solo che me ne parlò". Quei verbali […] arrivano […] in un plico anonimo, anche a Nino Di Matteo, il quale è andato in Procura a Perugia per denunciare il dossieraggio ai danni del collega. Anche il Fatto, a fine ottobre 2020 (come Repubblica seppur in un momento diverso), ha ricevuto quei verbali in forma anonima. Non erano firmati e sospettando una manovra di dossieraggio, Il Fatto ha scelto di non pubblicare. […] Antonio Massari li ha portati in Procura a Milano per gli accertamenti del caso sulla fuga di notizie.

Fiorenza Sarzanini e Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. I verbali con le rivelazioni sulla loggia massonica Ungheria erano stati esplicitamente secretati, e dunque non potevano uscire dalla Procura di Milano. Per questo motivo il pubblico ministero Paolo Storari, uno dei titolari dell' inchiesta, che invece li consegnò nell' aprile 2020 al consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo, è adesso indagato per rivelazione di segreto d' ufficio. Storari sarà interrogato nei prossimi giorni, ma prima di lui, oggi, il procuratore di Roma Michele Prestipino ascolterà come testimone lo stesso Davigo. Sarà lui a dover chiarire perché decise di prendere quei verbali riservatissimi, e perché - successivamente - decise di trattare la vicenda soltanto informalmente all' interno del Csm, parlandone con il vicepresidente David Ermini, con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e poi con altri consiglieri dell'organo di autogoverno. Soprattutto dovrà spiegare in che modo decise di custodirli, visto che a partire da ottobre, dopo che Davigo aveva lasciato il Csm per via del pensionamento, copie di quegli atti, dopo furono spediti a due quotidiani e al consigliere Nino Di Matteo, accompagnate da lettere che accusavano gli inquirenti milanesi di non voler svolgere indagini. Anche perché il sospetto è che a veicolarli sia stata la sua segretaria Marcella Contrafatto, indagata dai pm di Roma per calunnia. Sono tre i fascicoli avviati su una vicenda che sta avvelenando il clima all' interno delle Procure e alimentando scontri tra magistrati. Anche Brescia ha deciso di avviare accertamenti su ciò che è accaduto tra Storari e il suo capo, il procuratore di Milano Francesco Greco, mentre a Perugia si indaga su quanto raccontato dall' avvocato Piero Amara - inquisito e già condannato per vicende di corruzione in atti giudiziari - e sui componenti di questa fantomatica loggia. Proprio ieri si è saputo che gli stessi pm di Perugia accusano Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore di millantato credito e traffico di influenze illecite per un versamento da 30 mila euro a un funzionario dei servizi segreti. Un episodio che nulla ha a che fare con la loggia Ungheria, ma dimostra come le sue rivelazioni vengano prese con estrema cautela, e che la sua attendibilità non risulti affatto scontata. Anche perché Amara ha raccontato di avere una lista di 40 nomi di appartenenti alla congregazione massonica, ma pur essendo stato interrogato oltre dieci volte, non l' ha mai consegnata agli inquirenti, né ha fornito riscontri su luoghi e date riguardanti gli appartenenti alla loggia. Il primo interrogatorio di Amara di fronte ai magistrati di Milano risale al 9 dicembre 2019. In quell' occasione il legale, assistito dal difensore Salvino Mondello, decide di parlare di Ungheria. Snocciola un lungo elenco di nomi altisonanti: politici, magistrati, avvocati, imprenditori, vertici delle forze dell' ordine. «Tutti - assicura - ne fanno parte». Poco dopo Storari chiede a Greco di procedere subito alle iscrizioni nel registro degli indagati di Amara e delle persone chiamate in causa. Gli interrogatori proseguono senza che ciò avvenga, e allora Storari decide di rivolgersi a Davigo. Lamenta una diversità di vedute con i colleghi, sostiene che non vogliono approfondire, consegna i verbali di Amara nonostante siano coperti da segreto. A Davigo affida copie estratte dal proprio computer. Una delle circostanze da accertare è il luogo dove è avvenuta la consegna dei documenti. Potrebbe apparire un dettaglio, invece è un elemento fondamentale per stabilire chi debba indagare. Se Storari li diede a Davigo a Roma la competenza è infatti dei pm della capitale; se invece tutto avvenne a Milano il fascicolo dovrà essere trasmesso a Brescia, che già ha avviato verifiche proprio sui rapporti interni al palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. In questo caso a Roma rimarrebbe soltanto l' indagine sulla fuga di notizie e sull' operato della signora Contrafatto. Gli interrogativi sul suo ruolo sono ancora numerosi. Davigo le parlò dell' esistenza di quei verbali? Oppure fu lei a trovarli nell' ufficio? E soprattutto, perché pochi giorni dopo il pensionamento di Davigo decise di mandarle ai giornali? Qualcuno la spinse a farlo? Anche sulle modalità di spedizioni ci sono ancora numerosi dubbi da chiarire. Oltre ai giornalisti, che decisero di non pubblicare e anzi denunciarono di aver ricevuto il plico, una busta uguale fu recapitata a Di Matteo. Qual era lo scopo? È vero, come sostiene proprio di Matteo, che l' obiettivo era rendere pubblico il fatto che nell' elenco dei presunti affiliati alla loggia ci fosse, secondo Amara, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, con cui Davigo aveva interrotto i rapporti? Anche il procuratore generale Giovanni Salvi, che sta valutando l' avvio di un procedimento disciplinare nei confronti di Storari, sta cercando risposte a questi interrogativi. Se il pm milanese riteneva di non essere stato ascoltato dai suoi capi, o comunque che ci fossero irregolarità nella gestione del «collaboratore Amara», perché non presentò un esposto formale al Csm? Che cosa sperava di ottenere consegnando i verbali segreti a Davigo? A maggio 2020 Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore furono indagati proprio nell' ambito dell' inchiesta milanese. Storari informò anche di questo Davigo? Salvi ne ha parlato ieri con la ministra della Giustizia Marta Cartabia e non è escluso che anche il Csm decida di valutare eventuali incompatibilità tra Storari e i colleghi della procura di Milano. La vicenda viene seguita con la massima attenzione anche dal Quirinale. Il capo dello Stato è anche presidente del Csm, ma proprio al Colle viene ricordato che qualsiasi intervento potrebbe apparire come un' interferenza sulle indagini in corso, visto che sono già tre le Procure che si stanno occupando della vicenda.

Stefano Zurlo per "il Giornale" il 5 maggio 2021. Cercherà di spiegare quel che ancora non si è capito: come mai la sua segretaria Marcella Contrafatto si è trasformata in Corvo e ha spedito ai giornali i verbali dell' avvocato Piero Amara? Un mistero, uno dei tanti rebus di una vicenda sempre oiù ingarbugliata e sconcertante sull' asse Milano-Roma-Perugia. Questo solo segmento di una storia molto più complicata è al momento nelle mani dei pm di Roma che oggi ascolteranno in qualità di teste Piercamillo Davigo. Fino ad ottobre scorso, Davigo era al Csm e la sua segretaria era appunto Marcella Contrafatto, ora indagata con l' accusa di calunnia per aver aggiunto ai verbali una lettera di accompagnamento in cui rincarava la dose. Come mai la signora, ora sospesa dal servizio, è stata conquistata a un passo dalla pensione dal demone del giustizialismo più feroce e ha messo in circolo quelle carte così scivolose? A Milano Paolo Storari e Francesco Greco avevano litigato sulle presunte rivelazioni del discusso avvocato che aveva tratteggiato l'esistenza di una loggia segreta, la loggia Ungheria, con 40 nomi altisonanti di magistrati, politici, militari. Una specie di nuova P2, se il paragone non risultasse stucchevole. Fatto sta che Storari premeva per verificare quelle notizie, vere o false che fossero, mentre i vertici della procura temporeggiavano. Qui comincia la serie di mosse «irrituali» compiute dai protagonisti di questa vicenda. L'anno scorso Storari rompe gli indugi e porta di nascosto i verbali a Davigo che è autorevole consigliere del Csm. Davigo, a quanto risulta, parla del contenuto di quei documenti con diverse persone e li affida a Contrafatto. Lei, la cui abitazione è stata perquisita, viene colta da furia iconoclasta e diffonde quei veleni. Ora la procura di Roma chiederà spiegazioni a Davigo. Non è l' unico modo da sciogliere in una sequenza di episodi ora sotto la lente d' ingrandimento di tre procure. Sì, perché all' inerzia dei lunghi mesi in cui quelle deposizioni sono rimaste - salvo nuove rivelazioni - nelle mani del trio Storari-Davigo-Contrafatto, ora da Nord a Sud altri pm vogliono capire. Brescia, competente sull' azione dei colleghi di rito ambrosiano, ha appena aperto un fascicolo che si somma a quello di Roma, chiamata ad esplorare e decifrare la fuga di notizie, e al terzo di Perugia. Milano nei mesi scorsi, grazie anche all' intervento del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi a sua volta sollecitato proprio da Davigo, si è liberata dell'assai improbabile loggia segreta accennata da Amara e ha trasmesso i faldoni all' ufficio guidato da Raffaele Cantone. C'è il rischio naturalmente di accavallamenti e sovrapposizioni ma è anche il momento per chiarire una volta per tutte le affermazioni di Amara e di sgombrare il campo da equivoci imbarazzanti, in un cortocircuito che toglie il fiato. Il Corvo aveva spedito quei verbali velenosi anche a un altro consigliere del Csm, Nino Di Matteo, e Di Matteo nei giorni scorsi ci ha messo un attimo a definire «calunnie e diffamazioni» i passaggi di Amara che infangavano un altro consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, compagno di Davigo nella corrente Autonomia e indipendenza prima di rompere, maligna coincidenza, ogni rapporto. Davigo invece ha tenuto un' altra linea e ora si attendono chiarimenti. Qualcuno ritiene che per connessione il procedimento romano possa finire a Perugia, ma la questione è controversa. E intanto, nel groviglio di indagini e controlli, il pg di Milano Francesca Nanni chiede una relazione a Greco.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 6 maggio 2021. Per Piercamillo Davigo è stato tutto regolare: prendere i verbali secretati, averne parlato con i consiglieri del Csm e persino lasciare quei documenti riservati nella disponibilità delle mani della sua segretaria, che poi li ha mandati in giro in forma anonima. Ha risposto per più di quattro ore da remoto, l'ex pm di Mani pulite e fino allo scorso ottobre consigliere del Csm. Da Roma, a fare domande, il procuratore Michele Prestipino e il pm Rosalia Affinito, da Milano. Alcuni consiglieri del Csm hanno già ammesso di essere stati informati da Davigo sulle circostanze contenute nei verbali segreti. Un fatto che configurerebbe un'altra violazione del segreto d'ufficio. Eppure, nell'insolita veste di testimone, nell'inchiesta per rivelazione che vede indagato il sostituto milanese Paolo Storari, Davigo ha fatto riferimento a una circolare del Csm del 94, per spiegare perché prese in consegna da Storari i documenti, nei quali l'avvocato siciliano Piero Amara riferiva di una presunta loggia della quale facevano parte magistrati ed esponenti delle istituzioni. Atti consegnati informalmente e senza un esposto al consiglio di Presidenza di Palazzo dei Marescialli a Milano, nell' aprile del 2020, come prevederebbe la circolare. L' audizione è stata secretata e sabato toccherà al pm indagato rispondere alle domande di Prestipino e chiarire cosa l'abbia spinto a non inoltrare un esposto al Consiglio, ma a rivolgersi direttamente a Davigo, in autotutela rispetto al procuratore Francesco Greco che non aveva avviato le indagini. Sulla stessa vicenda, e per lo stesso reato, indaga anche la procura di Brescia, ma probabilmente tra l'ufficio giudiziario della Capitale e quello lombardo, competente a indagare sulle toghe milanesi, non ci sarà alcun conflitto. Roma ipotizza, infatti, anche un reato più grave, ossia la calunnia, per questo il fascicolo potrebbe rimanere a Prestipino. In attesa che una relazione formale venga trasmessa al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il Quirinale ha replicato alle polemiche politiche e non solo, spiegando perché non è intervenuto né interverrà: sarebbe un'indebita interferenza nei procedimenti di cui si stanno occupando quattro procure. Oggi Mattarella sarà comunque al Csm, per una cerimonia ufficiale, alla quale parteciperà anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ma non è previsto alcun intervento. Anche perché non c' è nulla da aggiungere rispetto a una linea da cui non ci si può discostare. Sempre, e soprattutto nelle situazioni più critiche, trapela dal Quirinale, è essenziale il rispetto delle regole da parte di tutti, nessuno escluso. Fulvio Gigliotti, componente non togato del Consiglio, in quota Cinquestelle, ha ammesso che Davigo gli aveva parlato di quei verbali in cui veniva accusato di far parte di una loggia Ardita. «Disse che esistevano queste dichiarazioni in cui si indicavano una serie di nominativi, personalità fra cui anche quella di Sebastiano Ardita», consigliere del Csm ed ex amico di Davigo ndr. Anche David Ermini, al quale l'ex pm di Mani pulite aveva anche mostrato uno di quei verbali, sapeva, ma senza un formale esposto, decise di non procedere. In tanti, insomma, erano stati informati. Giuseppe Cascini, altro componente del Csm non commenta, così come Giuseppe Marra, ma anche a loro l'ex pm di Mani pulite avrebbe raccontato il contenuto dei verbali. Secondo le indiscrezioni trapelate in un primo momento, la consegna dei verbali era avvenuta a Roma, ma adesso Storari e Davigo sostengono di avere consegnato i verbali a Milano. In teoria l'inchiesta potrebbe finire a Brescia, ma Roma ha già ipotizzato la calunnia nei confronti di Marcella Contrafato, la segretaria di Davigo, che ha inviato i documenti segreti in forma anonima, al consigliere del Csm Nino Di Matteo, accompagnandoli con una lettera nella quale accusava Ardita (che ha già smentito ogni circostanza) di far parte della loggia, come sostenuto da Amara. Secondo la procedura il reato più grave determina la competenza, per questo è probabile che l'inchiesta rimanga a Roma.

"Mai incontrato Amara. Non avevo atti originali, ma delle copie". Francesca Galici il 6 Maggio 2021 su Il Giornale.  Piercamillo Davigo è stato intervistato a Piazzapulita sul caso dei verbali di Pietro Amara, dichiarando di aver ricevuto solo delle copie Word degli stessi. Piercamillo Davigo ha parlato per la prima volta in tv ospite di Piazzapulita, il programma di approfondimento politico e di attualità in onda su La7. Intervistato da Corrado Formigli, l'ex pm ed ex componente del Csm ha parlato dei verbali secretati della procura di Milano che sono stati, invece, resi pubblici. Il magistrato ci ha tenuto a specifare: "Non erano verbali, erano copie Word di atti di supporto alla memoria. Io gli atti originali non li ho mai visti". I verbali dell'avvocato Pietro Amara gli furono consegnati dal sostituto procuratore di Milano Paolo Storari. Davigo, durante l'intervista, ha affermato che Storari "mi ha segnalato una situazione critica e mi ha dato materiale necessario per farne una opinione dopo essersi accertato che fosse lecito. Io ho spiegato che il segreto investigativo, per espressa circolare del Consiglio superiore, non è opponibile al Consiglio superiore". Sull'ipotesi che possa essere stata la sua segretaria a consegnare i documenti ai giornalisti, Davigo si mantiene sul vago: "Nel caso sia stata lei mi ha sorpreso non poco, perché l'ho sempre considerata una persona totalmente affidabile". A tal proposito, nega che nel caso in cui venga accalarato questo fatto, sia stata sua l'iniziativa: "Che senso avrebbe avuto mantenere tutte le cautele per tenere segrete le indagini per poi diffonderle?". L'ex pm ha dichiarato di non temere l'iscrizione nel registro degli indagati, richiamando le questioni giudiziarie durante il periodo di Mani pulite, quando veniva "denunciato una volta a settimana". Quindi, ha sottolineato di non aver mai incontrato l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, colui che ha rivelato l'esistenza di una ipotetica Loggia Ungheria. Sottolineando che "non compete a me dare valutazioni del genere", Piercamillo Davigo, rispondendo alla domanda sul caso Csm e il procuratore di Milano Francesco Greco, ha quindi sottolineato: "Il problema è che quando uno ha delle dichiarazioni che riguardano persone che occupano posti istituzionali importanti, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo. Quindi in un caso e nell'altro bisogna fare le indagini tempestivamente per vedere se sono vere o se non lo sono. Per fare le indagini bisogna iscrivere e bisogna aprire un procedimento, non si possono tenere per mesi le cose ferme". Sempre in merito ai verbali di Pietro Amara, Piercamillo Davigo ha esposto la situazione di quel momento in merito a quei verbali: "Qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda e quindi c'era la necessità di informare i componenti del comitato di presidenza, perché questo dicono le circolari, in maniera diretta e sicura". Da Corrado Formigli, il magistrato ha, quindi, ammesso: "Quando ho ricevuto gli atti, pensai, mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione". Un dubbio sorto in quanto, come spiegato dallo stesso Davigo, "non si possono fare atti di indagine se non si fa l'iscrizione. Quelle cose richiedevano indagini tempestive". Per il magistrato, infatti, nel caso specifico "bisognava fare le indagini tempestivamente. Nel caso di specie non si potevano seguire le vie formali, la via formale più semplice era rivolgersi al procuratore generale. Il problema è che il procuratore generale non c'era, la sede era vacante". Piercamillo Davigo ha glissato su uno dei punti fondamentali della vicenda, ossia il coinvolgimento di Sergio Mattarella, dichiarando di non volersi esprimere in merito a quel fatto specifico. Non si è tirato indietro, invece, quando il discorso si è spostato su Fulvio Gigliotti: "C'era un problema di spiegare per quale ragione io avevo interrotto ogni rapporto con una persona, c'erano una serie di cose che imponevano cautela. E io posso anche essere convinto che qualcuno sia estraneo, ma sei in un verbale viene accusato di qualcosa io non glielo posso dire". Sull'allontanamento dal Csm, Davigo ha sottolineato che, secondo la sua interpretazione, "la norma imponesse la mia permanenza". Pensionato forzatamente, ora Davigo dichiara: "Hanno ritenuto diversamente e ho anche scoperto che si sta molto meglio in pensione che là". Incalzato dal conduttore, Davigo non si sbilancia sulla percezione di un suo 'scaricamento' da parte del Csm e si affida alla diplomazia: "Si dice che avrei dovuto formalizzare: io ho ritenuto che formalizzando avrei fatto guai, però se mi fosse stato chiesto espressamente di farlo, lo avrei fatto". L'ex pm, definito spesso 'giustizialista', ha spiegato che la parola "non significa un bel niente: io ho sempre cercato di fare il mio dovere in conformità alla legge. Ho sempre detto che le regole di questo Paese non sono sempre le più adatte per ricostruire la verità storica. Finché lo fanno manifestando delle opinioni, è lecito. Se lo fanno attribuendo mi fatti non veri ne risponderanno davanti alla legge".

Piazzapulita, Piercamillo Davigo smentito in diretta dal pm Ardita: "Basito dalle sue parole, è falso". Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. "Non si poteva seguire le vie formali". Piercamillo Davigo, ex membro del Csm, intervistato a Piazzapulita da La7 dà la sua versione dei fatti dello "scandalo Amara" e dei verbali secretati ricevuti dal pm di Milano Storari. "Amara io non l'ho mai incontrato. Ma per quello che dice nei verbali meritava di essere aperta una indagine". Tuttavia, precisa ancora l'ex pm di Mani Pulite, "qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda". Ecco perché la vicenda è stata tenuta all'oscuro di tutti da maggio 2020 a oggi, nonostante qualche "confidenza" ufficiosa fatta da Davigo anche al vicepresidente del Csm David Ermini, che nega di aver mai visto quei verbali, le cui copie sono finite poi nelle redazioni del Fatto quotidiano e di Repubblica per mano, è l'accusa dei pm, della segretaria di Davigo. In ballo ci sono dichiarazioni di Amara pesantissime, a partire dalla famigerata "loggia Ungheria" che raggrupperebbe esponenti di primissimo p iano di magistratura, politica e Guardia di finanza. Quei verbali, sottolinea Davigo, sarebbero stati sufficienti per aprire una inchiesta a Milano e capire se fossero verità o diffamazione, ma una volta ricevute le copie da Storari (che si è rivolto a Davigo proprio perché insoddisfatto della scelta dei suoi superiori di tergiversare) non si poteva informare gli altri membri del Csm. Ascoltata l'intervista di Davigo, il magistrato Sebastiano Ardita, membro del Csm, telefona in diretta a Corrado Formigli per controbattere punto per punto alla tesi dell'illustre collega: "Al netto della storia della loggia Ungheria, che è una bufala clamorosa, io sono basito dalle parole di Davigo: è un fatto di gravità inaudita dire che non è possibile seguire le vie formali. Un confronto con Davigo? Sono disponibile". Nei verbali di Amara, in cui è più volte citato, Ardita sottolinea come ci siano "solo errori e falsità". Da qualsiasi parte la si guardi, una bruttissima vicenda per la giustizia italiana.

Toghe nel caos. Ardita interviene in diretta: "Davigo dice bufale". Francesca Galici il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel dibattito sul caso Davigo a Piazzapulita è intervenuto telefonicamente il giudice Sebastiano Ardita, che ha smentito quanto dichiarato dall'ex pm. Anche Luca Palamara è stato ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita per parlare del caso dell'ex avvocato Pietro Amara e la Loggia Ungheria. Il magistrato ha ribadito: "Non ho mai avuto rapporti con lui, l'ho visto una sola volta in vita mia". Della Loggia Ungheria, Luca Palamara non è informato, è totalmente esterno alla questione di merito e come ex presidente dell'Anm non ha mai avuto notizie in merito: "Sono uno spettatore della vicenda, vorrei capire se c'è un doppiopesismo". Il riferimento è al clamore suscitato dal suo caso, finito al centro dello scandalo intercettazioni. Luca Palamara ha una certezza sulla sua posizione: "Ho scelto di fare il magistrato per una forte spinta ideale legata anche a mio padre che è stato un grande magistrato. Mi sono sempre battuto per quegli ideali, io quegli ideali sento di non averli mai traditi". Il caso dei verbali relativi alla Procura di Milano resi noti ai giornalisti è un altro elemento che dimostra i problemi taciuti della magistratura italiana, che si limitano al solo caso Palamara. Ed è lo stesso magistrato a evidenziare questo aspetto: "È stato individuato in me l'unico responsabile di un sistema che non funzionava. Tutti mali concentrati in una cena dove si discuteva quali votazioni fare". Palamara è diventato per tutti il capro espiatorio di un sistema imperfetto: "Oggi al Csm si giudicano le carriere dei magistrati a seconda che abbiano interloquito con me nelle chat o meno". Una considerazione che già aveva fatto nei mesi precedenti ma che con i nuovi fatti sembra rafforzarsi nello scenario attuale del Csm.

La versione di Davigo. Prima della discussione Piercamillo Davigo è intervenuto a Piazzapulita per esporre la sua verità in merito ai verbali di Pietro Amara consegnati al Csm. "Qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda e quindi c'era la necessità di informare i componenti del comitato di presidenza, perché questo dicono le circolari, in maniera diretta e sicura", ha detto l'ex pm. Alfredo Robledo, ex procuratore aggiunto di Milano, dopo l'intervento di Piercamillo Davigo a Piazzapulita, ha sostenuto: "La ricostruizione di Davigo non mi convince per niente. Non è vero che se Davigo avesse seguito le linee formali avrebbe disvelato il caso". Nel suo intervento ha proseguito: "Amara è un avvelenatore di pozzi, la Loggia Ungheria è una farsa".

L'intervento di Ardita. La discussione in studio sul ruolo di Piercamillo Davigo sul caso specifico è intervenuto il giudice Sebastiano Ardita, il cui nome è presente nelle carte della Loggia Ungheria, con una chiamata effettuata direttamente in diretta. "Al netto della bufala clamorosa, io sono basito da quanto sentito oggi. Devo sentir dire che non si possono seguire le linee formali? È gravissimo" , ha dichiarato il giudice in collegamento telefonico. Ardita, inoltre, ha dichiarato di non aver mai conosciuto l'avvocato Pietro Ardita in privata sede ma di averlo interrogato una volta nel 2018.

Giuseppe Salvaggiulo Monica Serra per "la Stampa" il 6 maggio 2021. Da una parte il procuratore di Roma Michele Prestipino; dall' altra, a Milano, l' ex membro del Csm Piercamillo Davigo. Sentito in videoconferenza per alcune ore, nel tardo pomeriggio, come testimone nell' inchiesta sul dossieraggio dei verbali dell' avvocato Piero Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. Verbali che, benché segretati, nella primavera dell' anno scorso il pm Paolo Storari consegnò a Davigo a Milano. Gli stessi che dopo il pensionamento di Davigo, arrivarono anonimamente a diversi giornalisti e al giudice Nino Di Matteo. A mandarli, un «corvo»: per la Procura di Roma Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm. Davigo sostiene, e così avrebbe detto anche ieri davanti al procuratore Prestipino che lo sentiva come testimone, di essersi adoperato per far cessare l' inerzia investigativa della Procura di Milano su una «vicenda delicatissima» che toccava le istituzioni ai livelli più alti e per tutelare l' ormai isolato pm Paolo Storari, che conosce e stima da anni. Se avesse voluto sollevare polveroni, avrebbe sostenuto, si sarebbe mosso subito. Invece prima ricevette i verbali via mail; poi incontrò Storari a Milano, suggerendogli di «mettere qualcosa per iscritto» nell' interlocuzione con i superiori. Solo un mese dopo portò la questione al Csm. Certo, in casi come questo i conflitti in Procura vanno sollevati in prima battuta al Procuratore generale, ma in quella fase a Milano il posto era vacante. Quanto alla consegna dei verbali segretati, Davigo sostiene che in realtà si trattava di bozze word ricevute alla stregua di «appunti a supporto della memoria» per meglio relazionare sulla vicenda ai suoi interlocutori: il pg della Cassazione Giovanni Salvi, l'unico a poter chiedere informazioni a Greco e a poter «smuovere» l' inchiesta; e il vicepresidente del Csm David Ermini, affinché riferisse al presidente della Repubblica. «Non informare il Quirinale sarebbe stato un tradimento», è la tesi di Davigo. In realtà ne parlò anche con altri consiglieri del Csm, come il presidente della Cassazione Pietro Curzio e il laico Fulvio Gigliotti. Quanto all' oralità delle comunicazioni, Davigo si appella a una serie di circolari (la prima del' 94, l' ultima del 2019). Ma soprattutto spiega che la formalizzazione in una relazione scritta avrebbe avuto l' effetto opposto a quello voluto, «bruciando» l' indagine. Tra l' altro, il comitato di presidenza avrebbe dovuto mandare gli atti alla prima commissione, che all' epoca era presieduta da Sebastiano Ardita, uno dei magistrati citati da Amara come aderenti alla loggia segreta "Ungheria". E, proprio per chiederle di interrompere i rapporti con Ardita, Davigo ne avrebbe parlato anche alla segretaria Contrafatto. Sabato verrà interrogato Storari, sempre a Roma, ma come indagato per rivelazione di segreto d' ufficio. Solo dopo, il verbale potrebbe essere trasmesso a Brescia (competente sui magistrati milanesi) che intanto indaga contro ignoti per lo stesso reato.

(ANSA il 6 maggio 2021) - Il Csm si costituirà parte offesa nei procedimenti in corso davanti alle procure che si stanno occupando del caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara. Lo ha deciso- a quanto si è appreso- il Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, accogliendo la richiesta che era stata avanzata dal gruppo dei togati di Magistratura Indipendente. Con questo passo il Csm potrà esercitare una serie di prerogative , a partire dalla richiesta di atti alle procure che stanno indagando. il gruppo di Mi aveva motivato la sua richiesta con l'esigenza di tutelare il Csm, oggetto "di dossieraggio e delegittimazione".

(ANSA il 6 maggio 2021) - Al pm di Milano Paolo Storari, al centro dello scontro nella Procura milanese per il caso dagli interrogatori resi dall'avvocato Piero Amara, venne assegnata dai vertici dell'ufficio l'inchiesta sulla fuga di notizie, quando un cronista lo scorso autunno denunciò di aver ricevuto quei verbali. Indagine di cui lo stesso magistrato 'si spogliò' lo scorso aprile non appena venne a conoscenza del fatto che nell'indagine aperta a Roma era coinvolta l'ex segretaria di Piercamillo Davigo, all'epoca consigliere del Csm e al quale lo stesso pm aveva dato quelle carte per autotutelarsi dall'inerzia nell'indagine sulla presunta "loggia Ungheria". E' un altro degli intricati passaggi della vicenda che sta scuotendo non solo il Palagiustizia milanese, ma anche il Csm. Da quanto si è potuto ricostruire, Storari, su richiesta di Greco e dell'aggiunto Laura Pedio, si occupò delle indagini sulla fuga di notizie, quando un cronista porto quei verbali ricevuti in forma anonima lo scorso ottobre, e dispose pure una consulenza per stabilire la provenienza di quelle carte. Quando poi venne a sapere che Roma indagava sull'ex segretaria di Davigo, che risponde di calunnia e accusata di aver divulgato quegli interrogatori segretati, l'8 aprile scorso Storari riferì a Greco che un anno prima aveva consegnato le carte a Davigo e decise di chiamarsi fuori da quell'indagine. Decisione presa per evitare gravi conseguenze, dato che i verbali che circolavano erano gli stessi da lui affidati all'ex toga di Mani Pulite. L'inchiesta sulla fuga di notizie nelle scorse settimane fu, poi, trasmessa a Roma e in quel fascicolo ora Storari è indagato per rivelazione di segreto d'ufficio, mentre anche i pm bresciani hanno da poco aperto un'indagine ipotizzando lo stesso reato, ma anche per accertamenti più ampi sull'operato dei pm milanesi. Davigo, sentito come teste ieri dai pm romani, nella sua ricostruzione ha detto di aver riferito anche al pg della Cassazione Giovanni Salvi dei contrasti interni alla Procura milanese su un'inchiesta che coinvolgeva Amara. Salvi, dal canto suo, ha negato di aver saputo dei verbali, ma ha detto di aver "immediatamente" informato Greco, il quale iscrisse i primi nomi della presunta loggia a maggio, dopo l'insabbiamento lamentato da Storari. Storari che era in contrasto con gli aggiunti Fabio De Pasquale e Pedio anche sulla gestione dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni', nella quale è indagato Amara, assieme all'ex manager Eni Vincenzo Armanna, entrambi molto 'valorizzati' da De Pasquale nel processo sul caso Eni-Nigeria, poi finito con assoluzioni. Il pm Storari, tra l'altro, voleva verificare anche eventuali profili di calunnia nelle affermazioni a verbale dell'ex legale esterno dell'Eni.

Giovanni Bianconi e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2021. Quando esattamente un anno fa, ai primi di maggio 2020, l'allora componente del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo decise di portare dentro il Csm i segreti dell'indagine sulla presunta loggia massonica coperta «Ungheria», non formalizzò la comunicazione per salvaguardare, a suo avviso, la riservatezza di un'inchiesta molto delicata che secondo il pubblico ministero milanese Paolo Storari era bloccata dall' inerzia del procuratore Francesco Greco. Ma c'era pure un altro problema, interno all' organo di autogoverno dei giudici: nei verbali dell' avvocato Piero Amara (tutti da verificare), tra i componenti dell' ipotetico gruppo in grado di condizionare i poteri dello Stato compariva non solo il consigliere Sebastiano Ardita (ex amico e compagno di corrente di Davigo, con il quale s' era interrotto ogni rapporto), ma pure il consigliere Marco Mancinetti, in quel momento ancora in carica; si dimetterà nel settembre successivo, in seguito all' azione disciplinare avviata nei suoi confronti per un' altra vicenda legata al caso Palamara. Per questi motivi, ha spiegato Davigo al procuratore di Roma Michele Prestipino nella testimonianza resa mercoledì, non ritenne di presentare una relazione o un regolare esposto al Csm, ma di investire il comitato di presidenza solo informalmente. Tuttavia in maniera piuttosto dettagliata, secondo i ricordi affidati ai pm di Roma. Il primo colloquio con il vicepresidente del Csm David Ermini avvenne il 4 maggio, giorno in cui il Csm riaprì i battenti dopo il lockdown anti Covid. Ma poi tornò a parlargli dell'argomento facendo esplicito riferimento ai verbali segreti con gli interrogatori di Amara ricevuti da Storari, e che forse nei giorni successivi gli consegnò. Davigo racconta anche di avere chiesto a Ermini di avvertire il Quirinale, cosa che il vicepresidente gli confermò in seguito di avere fatto. Negli stessi giorni l'ex consigliere parlò anche con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e con il primo presidente Pietro Curzio, successivamente con altri colleghi. A Salvi non disse di avere le carte segrete; si limitò a raccontare le lamentale di Storari nei confronti di Greco e dei procuratori aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, che non solo da dicembre 2019 ad aprile 2020 non avevano avviato i necessari accertamenti sulla presunta loggia, ma nemmeno proceduto a inquisire Amara per un'eventuale calunnia. Solo in seguito ai contatti di Davigo con il Csm, e probabilmente dopo che Salvi avvertì Greco, la Procura di Milano ha proceduto a iscrivere Amara e due suoi amici per il reato di associazione segreta. Nonostante in una relazione di Greco sia scritto che Storari abbia detto di recente di aver consegnato i verbali a Davigo a Roma (circostanza da lui negata ieri), l'ex consigliere del Csm ha confermato di aver ricevuto i file con gli interrogatori a Milano, e dunque l' indagine per violazione di segreto potrebbe spostarsi per competenza a Brescia. La Procura di Roma indaga anche sull' ex segretaria di Davigo al Csm Marcella Contrafatto, accusata delle spedizioni anonime degli stessi verbali segreti a due giornalisti e al componente del Csm Nino Di Matteo (con allegata lettera di accuse di immobilismo a Greco; di qui l'accusa di calunnia). Davigo ha detto ai pm di essere rimasto molto sorpreso dal comportamento della donna, se davvero è lei il «corvo». Le era sempre sembrata una collaboratrice affidabile, sebbene nell' ultimo periodo «un po' sopra le righe». L' ex consigliere sostiene di non aver condiviso con lei i segreti sulla loggia «Ungheria»; l' aveva però avvisata di non fare più entrare nella sua stanza il collega Ardita, e in ogni caso Contrafatto aveva accesso al suo computer e alla sua posta elettronica. Quando poi, il 20 ottobre, ha dovuto lasciare il Csm per via della pensione, le indicò il fascicolo con i verbali spiegandole che se fosse stato necessario farlo avere al comitato di presidenza avrebbe dovuto mettersi in contatto con un altro consigliere, indicandole il nome.

Verbali, Davigo e Storari non seguirono le procedure indicate dal Csm. I due magistrati tirano in ballo una circolare del 1994 del Csm. Ma il documento non elimina l’obbligo di investire tramite procedure formali il Consiglio. Simona Musco su Il Dubbio il 7 maggio 2021. Il pm Paolo Storari e l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo non avrebbero seguito la procedura prevista dalla famosa circolare del 1994 tirata in ballo dai due per giustificare il passaggio di verbali secretati dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara dalle mani del primo a quelle del secondo. A dirlo un’autorevolissima voce della magistratura, che preferisce rimanere anonima, ma che non si sottrae dall’analisi di una vicenda che, nelle ultime settimane, sta terremotando nuovamente il Csm. Da un lato, spiega la fonte, l’idea di un’inerzia volontaria da parte della procura, che secondo quanto affermato da Storari avrebbe ritardato l’iscrizione sul registro degli indagati degli appartenenti alla presunta loggia “Ungheria”, non sarebbe convincente. I verbali, ricordiamo, sono stati redatti a fine 2019, mentre l’iscrizione dei primi tre nomi è arrivata a maggio 2020, dopo il colloquio tra il procuratore generale Giovanni Salvi – informato da Davigo delle lamentele di Storari – e il procuratore di Milano Francesco Greco. Cinque mesi, dunque. Ma la procedura di iscrizione delle notizie di reato, spiega la fonte, non è automatica. Serve, infatti, che gli elementi raccolti presentino un minimo di credibilità, che non tutti accordano ad Amara. Servivano, dunque, accertamenti preliminari. Ma al di là della presunta inerzia – che verrà eventualmente accertata dalla procura di Brescia -, «non può esistere l’idea che un sostituto, il quale ritenga che ci siano comportamenti riprovevoli di un procuratore, possa prendere delle copie, nemmeno autenticate, e portarle confidenzialmente a mano ad un componente del Csm». Non c’è solo un problema di segretezza degli atti, infatti, ma c’è un «dovere di formalizzare la procedura – prosegue -. Innanzitutto il sostituto avrebbe dovuto rivolgersi al procuratore generale affinché lo stesso potesse valutare se avocare a sé il procedimento». E qui c’è una strana giustificazione da parte dei protagonisti della vicenda: il posto in procura generale era vacante. «Un sciocchezza prosegue la fonte – perché il facente funzione era comunque presente». In alternativa, o cumulativamente, il pm avrebbe potuto rivolgersi sì al Csm, ma sempre attraverso un atto formale. «La consegna a mano in via confidenziale non è contemplata». E una volta ricevuti quei verbali, Davigo avrebbe dovuto investire ufficialmente il Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, attraverso un’annotazione.

La circolare del 1994. Davigo e Storari si appellano ad una circolare del 1994, che riguarda i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Consiglio superiore della magistratura e che affronta il tema dell’acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Secondo la circolare, «può ritenersi consentito il superamento del segreto investigativo ogni qualvolta questo possa rallentare od impedire l’esercizio della funzione di tutela e controllo da parte del Csm, che comunque resta soggetto alla disciplina del segreto d’ufficio». Ma tale circolare non elimina l’obbligo di procedere formalmente, limitandosi all’aspetto della segretezza. Secondo Davigo, Storari avrebbe agito nell’adempimento di un dovere, «ma il rispetto delle procedure rimane centrale», continua la fonte. E sbagliato sarebbe anche il parallelismo con il precedente di Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che nel 1981 consegnarono gli elenchi della loggia P2 al presidente della Repubblica, Sandro Pertini. I due, infatti, lo fecero tramite un’ordinanza, allegando gli atti. E, dunque, sempre formalmente.

Storari indagò sulla fuga di notizie. Prima di arrivare alle tre indagini che ora interessano le procure di Perugia, Roma e Brescia, al sostituto Paolo Storari venne assegnato il fascicolo sulla fuga di notizie, nata allorquando un cronista del Fatto quotidiano si presentò in procura con i verbali secretati di Amara, denunciando di aver ricevuto un plico anonimo. Storari, all’epoca, dispose una consulenza per stabilire la provenienza di quelle carte. E una volta compreso che si trattava proprio di quei documenti, venendo a conoscenza dell’inchiesta a Roma su Marcella Contrafatto, l’ex segretaria di Piercamillo Davigo, indagata per calunnia per aver inviato quei verbali ai giornali, riferì a Greco che un anno prima aveva consegnato le carte a Davigo, decidendo di rinunciare alle indagini. L’inchiesta venne quindi trasferita a Roma, che ora indaga su Storari per rivelazione di segreto d’ufficio. I pm di Brescia, intanto, stanno indagando sullo stesso reato e, in generale, su quanto avvenuto nella procura meneghina con le dichiarazioni rilasciate da Amara. Secondo la ricostruzione di Davigo, sentito mercoledì dai pm romani, il pg della Cassazione Giovanni Salvi sarebbe stato informato da lui stesso sui contrasti interni alla procura milanese. Salvi, che ha negato di aver saputo dei verbali, avrebbe informato «immediatamente» Greco.

Csm parte offesa. Il Csm, intanto, ha deciso di costituirsi parte offesa nei procedimenti sul caso, rispondendo positivamente alla proposta avanzata dal gruppo dei togati di Magistratura Indipendente. Per fare ciò, il comitato chiederà informazioni alle autorità giudiziarie interessate tramite l’Avvocatura dello Stato per le opportune valutazioni. La vicenda giudiziaria è in divenire. Il Riesame di Roma si è riservato di decidere sul ricorso presentato da Alessia Angelini, difensore dell’impiegata del Csm ora sospesa. La difesa aveva chiesto la restituzione del materiale sequestrato nel corso di perquisizioni. «Abbiamo fatto ricorso al tribunale del Riesame sostenendo che a nostro avviso manca il presupposto per la configurabilità del reato calunnia – ha spiegato Angelini -. Inoltre non ci sono stati messi a disposizione i sei verbali di Amara. La procura non ha aggiunto atti nuovi, invece noi abbiamo depositato una memoria difensiva. Ci sono alcuni accertamenti in corso e la mia cliente è intenzionata a collaborare alle indagini».

Giuseppe Salvaggiulo Monica Serra per “la Stampa” il 7 maggio 2021. Da giorni Francesco Greco, procuratore di Milano, se ne sta chiuso in ufficio. Non esce nemmeno per pranzo. «Non si può disturbare», dicono. Sta ricostruendo lo scontro con il pm Paolo Storari sui verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. La sua versione dei fatti sarà nella relazione con numerosi allegati da inviare a Roma (Csm e procura generale della Cassazione, per trasferimenti e azioni disciplinari) e al piano di sotto, alla procuratrice generale Francesca Nanni. Storari, che lo accusa di inerzia investigativa, sarà interrogato domani a Roma come indagato per rivelazione di segreto d' ufficio, per aver consegnato i verbali all' allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, in funzione di «autotutela». Greco proverà a ribaltare la tesi, confortato dai più fidati procuratori aggiunti. A partire da Laura Pedio (con Storari interrogava Amara), che ieri gli ha consegnato una sua relazione. La tesi dei vertici della Procura è che Storari, facendo circolare i verbali fuori dalla Procura, ha commesso un grave reato che poteva provocare solo due conseguenze: sabotaggio dell'indagine o gigantesca diffamazione delle persone citate da Amara. Un elemento valorizzato contro Storari è la tempistica della consegna dei verbali a Davigo tra marzo e aprile. Amara aveva finito di parlare a gennaio, l'attività investigativa era stata fin da subito «incessante». I capi della Procura non negano «divergenze»: Storari intendeva fare subito iscrizioni nel registro degli indagati, invece si svolsero solo «attività preliminari» (scelta che Davigo definisce «incomprensibile»). Ma Pedio le derubrica a «dialettica fisiologica» in una Procura. Che non sfociò in una formale dissociazione di Storari. Nemmeno con un esposto al Csm, a cui «non si sarebbe potuto opporre alcun segreto». Sul punto saranno decisivi gli scambi di mail che Storari intende depositare fin da domani ai pm romani, per accreditare la versione di un dissenso manifesto e reiterato. Dunque Greco accusa Storari di non aver rispettato le regole, e così indirettamente instrada non solo un'azione disciplinare, ma anche un trasferimento immediato. Il Csm si prepara a costituirsi parte civile nei processi che scaturiranno. Scivolosa la questione della competenza. Finora nessun contatto tra le Procure di Roma e Brescia. Roma colloca la consumazione del reato nel momento in cui i verbali escono dal Csm. Brescia nel momento in cui Storari li passa a Davigo, a Milano, e pertanto si aspetta una divisione dell'inchiesta in due parti. Possibile un coordinamento la prossima settimana, per evitare altri spargimenti di sangue. «Per guadagnarsi la fiducia dei cittadini», il vicepresidente del Csm David Ermini invita le toghe a ispirarsi al «giudice ragazzino» Rosario Livatino, ucciso dalla mafia e ieri onorato anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Vasto programma.

Loggia Ungheria, lo scandalo arriva fino ai renziani: Pietro Amara, dettagli (e nomi) pesantissimi. Libero Quotidiano il 06 maggio 2021. I verbali segreti dell'avvocato Pietro Amara colpiscono prima la Procura di Milano e poi il Consiglio superiore della magistratura. Messaggi in codice, allusioni. E di storie come quella che riguarda Luca Lotti, il deputato (ex renziano) si sarebbe dedicato a una attività di intenso dossieraggio nei confronti del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, responsabile di indagare troppo sul caso Consip. "Lotti mi disse che stava vivisezionando Ielo e famiglia, mi disse che aveva ricevuto da Claudio Granata (ufficio legale di Eni, ndr) copia del cassetto fiscale di Domenico Ielo (fratello del magistrato, ndr) dal quale risultava che questi aveva avuto un incarico professionale dalla società Siram", spiega Amara. "Scrissi subito a Granata che mi confermò che la documentazione di Ielo a Lotti l'avevano data loro e che se l'erano procurata attraverso un informatico della security". Un'accusa grave, scrive il Giornale. I verbali di Amara sono però pieni di nomi importanti, indicati come membri della fantomatica Loggia Ungheria. "Luca Lotti insieme a Claudio Granata stava setacciando la famiglia Ielo, l'interesse era soprattutto di Lotti e Granata era contento di aiutarlo", spiega ancora Amara. Parla anche della nomina nel 2016 del procuratore capo di Milano. "La Loggia Ungheria fu utilizzata per condizionare la nomina del procuratore di Milano. Si sollecitarono candidature di persone amiche o alle quali si poteva in qualche modo accedere". Sono tanti i veleni che getta Amara. Contro il comandante della Finanza Toschi, l'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, l'ex giudice Livia Pomodoro, tutti indicati tra i quaranta membri di «Ungheria», o l'ex premier Giuseppe Conte e i suoi incarichi professionali. Amara però quasi mai indica la fonte delle sue notizie, o lo fa in modo vago. Ma a seguoto delle sue parole non parte né l'inchiesta sulla Loggia e nemmeno viene arrestato per calunnia. L'unico reato contestatogli è blando, "induzione a non rendere dichiarazioni".

Amara, Davigo e Csm, interviene Marta Cartabia: la telefonata al procuratore generale Salvi. Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. Ora interviene Marta Cartabia. Ieri sera 3 maggio il ministro della Giustizia ha telefonato al procuratore generale della Cassazione per confrontarsi sulla nuova bufera che ha interessato il Consiglio superiore della magistratura. La Guardasigilli e Giovanni Salvi, secondo quanto riferiscono fonti di via Arenula, hanno fatto il punto della situazione e convenuto che sia la Procura generale a valutare ora iniziative disciplinari, già preannunciate. La Cartabia segue con attenzione gli sviluppi della vicenda dei verbali di Piero Amara, che ha investito il Csm e su cui sono al lavoro anche più Procure, si apprende inoltre da fonti del ministero. Intanto, il procuratore di Milano Francesco Greco sta preparando una relazione dettagliata da inviare al Csm per ricostruire tutte le fasi della gestione dei verbali degli interrogatori dell'avvocato siciliano Amara, già condannato per corruzione in atti giudiziari e indagato per il “falso complotto” all'interno dell'Eni. Le informazioni, con ogni probabilità, saranno condivise anche con la Procura di Brescia che a breve potrebbe aprire un fascicolo per capire come siano andate le cose tra Greco e il pm Paolo Storari. Tra i titolari dell'inchiesta su Amara, il magistrato di fronte a quelle che percepisce come inerzie ingiustificate dei vertici della Procura a fare accertamenti formali sulle dichiarazioni dirompenti dell'avvocato siciliano, decide di “autotutelarsi”. E nell'aprile 2020 invia i verbali degli interrogatori, secretati, all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Uno strappo che si sarebbe consumato dopo almeno 4 mesi di richieste e sollecitazioni da parte del pm Storari ad approfondire le affermazioni e gli scenari – definiti in ambienti giudiziari simili “all'inferno” - tracciati da Amara. Tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, il legale aveva parlato davanti all'aggiunto Laura Pedio e al pm Storari, titolari delle indagini con l'aggiunto Fabio De Pasquale, della loggia Ungheria. Un'organizzazione segreta di cui farebbero parte magistrati, alti ufficiali delle forze dell'ordine, avvocati e imprenditori e che sarebbe in grado di condizionare nomine e affari. Tra le rivelazioni di Amara, anche dettagli su una importante consulenza legale affidata all'ex premier Giuseppe Conte dalla società Acqua Marcia grazie ad una “segnalazione”. L'unico modo per fare luce su quelle dichiarazioni dirompenti, è la tesi del pm Storari, è indagare in maniera tempestiva e approfondita con l'obiettivo di capire nel più breve tempo possibile se abbiano una qualche fondatezza. O se al contrario sei verbali contengano affermazioni diffamatorie. Di fronte a quella che ritiene essere una lentezza nell'effettuare iscrizioni nel registro degli indagati da parte dei vertici della Procura - sollecitati anche con numerose email inviate al procuratore Greco - il pm decide di investire della vicenda il Csm. Una procedura indicata dallo stesso organo di autogoverno della magistratura con una circolare del 2014, che Storari, da quanto si è saputo, avrebbe seguito anche se senza fare un invio formale di tutto il materiale raccolto. Ricostruzione, questa, che il magistrato è pronto a ripetere anche davanti al Csm o alla procura di Brescia, se dovesse avviare un'inchiesta. In ambienti giudiziari milanesi, però, è circolata anche un'altra ricostruzione della complessa vicenda che sta spaccando la Procura. Il fascicolo relativo al caso Amara è stato effettivamente trasmesso alla Procura di Perugia, competente per i reati commessi dai magistrati romani, nel gennaio del 2021, ma nell'anno trascorso dagli interrogatori del magistrato e l'invio degli atti ai pm umbri a Milano sono state fatte diverse attività e sono state indagate tre persone. Già a maggio 2020 i nomi dello stesso Amara, del suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e del suo ex socio di studio, l'avvocato Giuseppe Calafiore comparivano nel registro degli indagati. Se di lentezza nelle indagini si può parlare, spiegano altre fonti, si tratta di rallentamenti al massimo di un paio di mesi che coinciderebbero con il periodo più critico della pandemia di Covid. Non solo. Tutti gli atti relativi alla vicenda Amara sono anche stati esaminati dall'aggiunto Maurizio Romanelli, a capo del dipartimento anticorruzione della procura milanese, nell'ipotesi di un possibile allargamento del pool che investigava sulla vicenda. Dopo un incontro tra Greco e il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, i magistrati milanesi e quelli perugini nel settembre scorso hanno interrogato insieme Amara, prima che gli atti venissero stralciati e il fascicolo fosse inviato nel capoluogo umbro.

Marta Cartabia invita la Cassazione a sanzionare i magistrati: l'intreccio con la "Loggia Ungheria". Filippo Facci Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Stai a vedere che a pagare per lo schifo, alla fine, sarà chi ha denunciato lo schifo: ossia il pubblico ministero milanese Paolo Storari. La notizia di oggi, infatti, è che la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi hanno fatto il punto sull'ennesima bufera che ha investito il Csm (si sono telefonati lunedì sera) e avrebbero convenuto sull'opportunità d'impartire sanzioni disciplinari, quindi già preannunciate. Già, ma contro chi? Forse è un po' presto per muoversi. Nel caso probabilissimo che non stiate capendo niente, comunque, ecco un non semplice riassunto: un pubblico ministero di Milano, nel 2019, assieme alla collega Laura Pedio, mette a verbale i racconti del tal avvocato Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, che gli parla dell'esistenza di una loggia massonica segreta denominata «Ungheria» e di cui avrebbero fatto parte anche dei magistrati. Anche se questo Amara è un pregiudicato (condannato per aver corrotto giudici: uno che se ne intende) la cosa a Storari sembra ovviamente degna di nota anche perché Amara è sì un personaggio ambiguo, ma ha anche già fatto rivelazioni decisive che in passato hanno permesso di accertare determinati reati. Storari, perciò, pensa che ci sia quantomeno da iscrivere alcuni nomi nel registro degli indagati per poi cercare dei riscontri, oppure ci sia da procedere per calunnia contro questo Piero Amara. Il quale ha dichiarato di aver fatto parte di questa loggia per almeno 15 anni e ha descritto cenacoli, incontri carbonari e segni di riconoscimento; a introdurlo nella loggia sarebbe stato Giovanni Tinebra (morto cinque anni fa, ex procuratore a Caltanissetta che nel 2001 divenne capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap) assieme a molti esponenti della corrente di Magistratura Indipendente.

UN CALUNNIATORE? Amara, in due parole, nei verbali descrive una consorteria dedita a pilotare nomine e fare affari e scambi di favori. Una vera e propria lista di aderenti a questa loggia Ungheria, però, non è stata ancora trovata, anche se conterebbe almeno una quarantina tra giudici, vertici istituzionali e capi delle forze dell'ordine. Lo stesso Amara dichiara di aver contribuito a nominare vari confratelli nelle istituzioni regionali ed elargito consulenze a destra e a manca, così da far ottenere affari ai più alti in grado e crescere nei ranghi della Loggia. Ungheria, a suo dire, vantava affiliati nel Csm, nelle procure, nei più noti studi legali, nel mondo imprenditoriale e addirittura nel Consiglio di Stato. Però questa loggia non ha una sede: i vertici si riuniscono (o riunivano) a casa di personaggi diversi o addirittura in alcune chiese del centro di Roma. Insomma, il quadro dipinto da Amara è gravissimo oppure lui è un calunniatore di alto rango: c'è comunque da indagare. Ecco perché il pm Paolo Storari fa quello che deve: informa il suo capo, che è il procuratore capo Francesco Greco, e tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020 gli invia una decina di email ma ottenendone nulla. Quello non gli risponde. A quel punto Storari teme che quei verbali gli scoppino in mano, e nell'aprile 2010 ne parla con l'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo e invia al suo ufficio anche i famosi verbali di Amara (Davigo riferirà solo del colloquio, ma non di aver visto i verbali) e Storari fa questo come forma di «autotutela» di fronte all'inerzia del suo capo milanese, prevista dai regolamenti del Csm.

IL DOSSIER NELLE REDAZIONI. Ma anche qui, per quanto può vedere Storari, per almeno sei mesi all'apparenza non succede niente. In realtà succede: il suo capo, Greco, intanto ha discretamente iscritto nel registro degli indagati l'autore dei verbali, Piero Amara (colui che aveva denunciato la loggia) e due suoi collaboratori; il fascicolo, per competenza, è stato spedito alla procura di Perugia: ma in sostanza gli indagati (per calunnia, presumiamo) sono solo tre. Questo mentre a Roma, invece, la segretaria di Davigo Marcella Contrafatto ha inviato quei verbali al Fatto Quotidiano ea Repubblica (per questo sarà indagata) ma nessuno dei due giornali farà mai approfondimenti. Zero. Bel giornalismo. Sinché un altro quotidiano, Domani, un giorno pubblica tutto, assieme a dei documenti che peraltro confermano l'esistenza di consulenze poco trasparenti ottenute da Giuseppe Conte quand'era premier. Dopodiché i quotidiani silenti, dopo aver imboscato i verbali per mesi, raccontano anche loro la storia della loggia Ungheria ma con certa sufficienza, parlando di «dossieraggio» e descrivendo questo Piero Amara come un personaggio inaffidabile. Poi si potrebbero aggiungere molte cose. Che un gruppo legato al comitato direttivo dell'Associazione nazionale magistrati (si chiama Articolo 101) ha chiesto lo scioglimento dell'intero Csm, e questo «per ridare credibilità alla giustizia». Che il procuratore Francesco Greco sta preparando una relazione per ricostruire la gestione del fascicolo «Ungheria» poi trasmesso a Perugia (sul comportamento di Greco dovrebbe indagare la procura di Brescia, tanto per semplificare le cose, ma si è mossa anche la procura generale di Milano) e poi che l'autorità giudiziaria invece romana dovrà verificare il racconto di Davigo. Poi, ancora, che sarà il procuratore Raffaele Cantone, pare, a indagare sulla loggia «Ungheria» intesa come associazione segreta fuori legge. Che sono parecchi gli attestati di solidarietà che in queste ore sta ricevendo il pm di Milano Paolo Storari, il magistrato da cui è nato tutto ma che ha ricevuto solamente porte in faccia. E che ora, paradossalmente, essendo prematuri i tempi, rischia anche di entrare nelle mire delle eventuali sanzioni disciplinari preannunciate dalla Guardasigilli Marta Cartabia e dal procuratore della Cassazione Giovanni Salvi. Se non avete capito niente, se avete un giramento di capo, sappiate che è giusto. Non siete voi. È la giustizia italiana. Il malato è lei.

“Così volevano condizionare la nomina del procuratore di Milano”. "La rete relazionale di "Ungheria" fu utilizzata per condizionare la nomina del procuratore di Milano". Sono le parole - senza riscontro - utilizzate da Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, in un verbale reso negli uffici della procura meneghina. Il Dubbio il 6 maggio 2021. “La rete relazionale di ‘Ungheria’ fu utilizzata per condizionare la nomina del procuratore di Milano”. Sono le parole – senza riscontro – utilizzate da Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, in un verbale reso negli uffici della procura meneghina – davanti ai sostituti procuratori Laura Pedio e Paolo Storari – in un interrogatorio del 6 dicembre 2019. Affermazioni, insieme alle altre rivelazioni rese tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, ora al centro di più indagini. Da un lato la procura di Perugia che indaga sulla presunta lista segreta con 40 nomi di magistrati, politici, imprenditori, forze dell’ordine e vertici delle istituzioni, dall’altra quella di Roma che vede indagato Storari per rivelazione di segreto d’ufficio avendo dato quei verbali secretati all’allora componente del Csm Piercamillo Davigo affinché denunciasse il presunto immobilismo della procura di Milano di fronte ad affermazioni ritenute scottanti. Alla richiesta di chiarire il ruolo di ‘Ungheria’ nella nomina del procuratore di Milano, la replica di Amara è chiara. “Si sollecitarono candidature di persone amiche – si legge nel documento visionato dall’Adnkronos – o alle quali si poteva in qualche modo accedere”, e si fa riferimento a un altro magistrato. Per tre ore, davanti ai pm milanesi, Amara – nelle vesti di indagato e già noto alla procura per altre inchieste – precisa il contenuto di alcuni atti trovati nel suo computer durante una perquisizione in cui si fa riferimento ai suoi rapporti con alcuni magistrati, cita alcune delle persone che farebbero parte della loggia segreta e riferisce di pressioni e correnti che sarebbero intervenute su nomine o persone sgradite.  

Verbali consegnati a Milano. Loggia Ungheria, inchiesta su Davigo strappata a Prestipino (che ottenne posizione grazie al Dottor Sottile…) Angela Stella su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Se la questione della presunta loggia Ungheria e del corvo all’interno del Csm è ancora tutta da chiarire, si complicano anche le posizioni di chi dovrebbe fare luce sulla vicenda. Il pm milanese Paolo Storari nell’aprile 2020 avrebbe consegnato a Milano a Piercamillo Davigo, allora consigliere al Csm, i verbali degli interrogatori resi tra dicembre e gennaio precedenti dall’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia segreta. La consegna nel capoluogo lombardo potrebbe incidere sulla competenza territoriale e portare dunque i pm di Roma, che hanno convocato Storari da indagato per sabato, a trasmettere gli atti relativi alla sua posizione a Brescia. Questo significherebbe che l’indagine verrebbe tolta dalle mani del Procuratore Prestipino (che ottenne la posizione grazie proprio a Davigo) a cui rimarrebbe solo l’inchiesta sulla funzionaria del Csm Marcella Contraffatto. Comunque, secondo quanto appreso dall’Ansa, la Procura di Brescia avrebbe però aperto già due giorni fa un fascicolo d’indagine contro ignoti per rivelazioni del segreto d’ufficio. Intanto ieri l’avvocato di Storari, Paolo Della Sala, ha scelto di non sbilanciarsi sulle ultime novità: «Sabato sarà la sede per ogni opportuna considerazione con l’interrogatorio davanti all’autorità che lo ha convocato. Visto il massimo rispetto per le istituzioni non è opportuno dire altro». Ieri durante il plenum del Csm il vice presidente Ermini ha fatto un breve accenno al nuovo scandalo: questo è «un momento difficile per la magistratura che ha voglia di un grande riscatto, come pure il Csm. In momenti come questi, Pietro Scaglione e Rosario Livatino sono le figure a cui fare riferimento», annunciando l’iniziativa di oggi al Csm durante la quale, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della ministra Marta Cartabia, verrà trasmesso un documentario prodotto da Tv 2000. Sempre ieri i consiglieri togati del Csm, Tiziana Balduini, Paola Braggion, Antonio D’Amato e Loredana Miccichè (di Magistratura Indipendente) hanno depositato al Comitato di Presidenza una richiesta per valutare «un intervento del Csm, in qualità di persona offesa, nei procedimenti penali in corso presso Roma, Milano e Perugia. Riteniamo che il Csm sia stato attaccato nelle sue prerogative istituzionali e che sia necessario fare immediata chiarezza, allo scopo di tutelare e salvaguardare l’istituzione consiliare da indebite interferenze esterne e difenderne così l’autonomia in ogni sede». Angela Stella

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 6 maggio 2021. «Devo fare una premessa: io facevo parte di una loggia massonica coperta denominata Ungheria». Poche parole, alle 15 del 6 dicembre 2019 in una stanza del palazzo di giustizia di Milano, per terremotare la magistratura italiana. Il controverso avvocato siciliano Piero Amara, già condannato a Roma per corruzione, viene interrogato dai pm Laura Pedio e Paolo Storari. Parla da uomo libero, ma sa che in un paio di mesi il pronunciamento definitivo della Cassazione potrebbe, come in effetti accadrà, riportarlo in carcere. Lo spunto dell'interrogatorio è un appunto trovato sul suo computer nell' ultima perquisizione, in cui si fa riferimento a rapporti con alcuni magistrati. Amara è tutt' altro che sorpreso o reticente. Al contrario, premette che «era mia intenzione rendere dichiarazioni in merito agli stessi fatti alla Procura di Perugia», dov' è già stato sentito «e so che è pendente un procedimento su fatti analoghi che riguardano il Csm». Si riferisce al processo Palamara, che nasce dai mille rivoli dell'inchiesta madre per cui Amara fu arrestato nel 2018. «Guidati» dall' appunto, i pm gli chiedono conto dei nomi citati e degli episodi a cui si riferiscono. Per lo più si tratta di nomine giudiziarie decise dal Csm tra il 2008 e il 2017. Ma il perimetro delle «rivelazioni» è variabile, gelatinoso. Amara sguazza nelle guerre intestine nell' Eni per cui ha lavorato fino all' arresto, come nei retrobottega giudiziari e correntizi. Posto che tutte le persone citate hanno già smentito, negando di aver mai conosciuto Amara e tantomeno di far parte della loggia Ungheria, l'esegesi dei verbali è necessaria non solo per l'indispensabile scrutinio di attendibilità (da gennaio affidato alla Procura di Perugia, a cui è stata trasferita l'indagine) ma anche per provare a dare un senso a questo storia. Sin dalla prima risposta compaiono le nomine giudiziarie, le correnti del Csm, la politica. Amara racconta di aver garantito la sua intercessione a Carlo Maria Capristo, nel 2015 aspirante procuratore di Taranto, per superare «il veto nei suoi confronti ricollegabile a Luca Lotti». Amara spiega ai pm milanesi come funzionava: «Avere il placet di Lotti a quell' epoca significava avere la maggioranza al Csm in quanto Lotti aveva rapporti sia con Ferri che con Palamara che con la componente laica del Pd». Capristo fu nominato dal Csm procuratore di Taranto il 23 marzo 2016. Nel maggio 2020 è stato arrestato, attualmente è sotto processo. Amara accenna e passa oltre. Altre nomine, altre intercessioni. Nel 2008, dice, per garantire l'appoggio dell'Udc a Lucia Lotti, candidata alla Procura di Gela (dal 2016 è aggiunto a Roma). E qui spunta la «cellula messinese, particolarmente forte», della loggia Ungheria, capeggiata dall' ex P2 Giancarlo Elia Valori e nella quale Amara racconta di essere stato «introdotto» dal potente magistrato Gianni Tinebra (morto nel 2017, già citato 30 anni fa nella maxi inchiesta di Palmi sulla massoneria). I pm gli chiedono i nomi dei magistrati «ungheresi» e Amara rivela di avere «un elenco delle persone che aderiscono», elenco però mai consegnato. Dietro l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti spuntano le consulenze dell'allora premier Conte. Con l'amico magistrato Maurizio Musco, pm siracusano specializzato in reati ambientali e poi radiato proprio per i suoi rapporti con Amara, si entra nel territorio vischioso dell'Eni, con annessi dossieraggi contro altri magistrati. Alla fine Amara spiega che «la rete relazionale di Ungheria fu utilizzata per condizionare la nomina del procuratore di Milano, sollecitando candidature di persone amiche o alle quali si poteva in qualche modo accedere». Protagonisti dell'operazione: Ferri e Palamara. Quaranta nomi in tre ore, quando l'interrogatorio viene sospeso. Riprenderà dopo pochi giorni. Altri nove ne seguiranno. In segreto ma, tutto sommato, non troppo.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 6 maggio 2021. L'avvocato e faccendiere Piero Amara dal 2018 riempie di chiamate in correità le cancellerie delle Procure di mezza Italia. Nei mesi scorsi ha patteggiato a Messina e Roma pene per corruzione in atti giudiziari e frode fiscale, ma non riesce a liberarsi del giogo da imputato. Sperava di farlo vestendo i panni del pentito professionista, ma il piano sembra definitivamente naufragato da quando è esploso il caso da lui sollevato della fantomatica loggia Ungheria, un presunto centro di potere deviato. Probabilmente il nostro si immaginava già sotto l'ombrellone a Dubai a godersi i milioni di euro guadagnati in operazioni spericolate, che le Procure di Roma e Milano non gli hanno mai sequestrato, forse pensando di preservare in questo modo il loro testimone dalle dichiarazioni d' oro. Amara nel 2019 era finito nel mirino del pm Stefano Fava, il quale, nel febbraio di quell' anno, aveva deciso di chiederne nuovamente l'arresto e il sequestro di 25 milioni di euro arrivati a una società, la Napag Srl, riconducibile ad Amara, mentre lui era in prigione. Nella richiesta di misure cautelari, poi bocciate dal procuratore Giuseppe Pignatone, erano inseriti anche l'amministratore della Napag, Francesco Mazzagatti e una dipendente della società (già impiegata di Amara), nipote di un dirigente dell'Eni. L' aggiunto Paolo Ielo spiegò così la bocciatura della richiesta: «Ricordiamoci che dobbiamo affrontare un dibattimento con Amara teste di accusa []. In questo contesto una misura cautelare per Amara mi sembra un atto che ci indebolirebbe». Il 18 marzo Pignatone, Ielo e l'aggiunto Rodolfo Sabelli tolgono il fascicolo a Fava e lo trasferiscono per competenza territoriale a Milano, dove viene assegnato all' aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari. Ma anche qui aggiunti e sostituto arrivano a determinazioni opposte: Storari, dopo qualche tempo, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, sarebbe giunto alle stesse conclusioni cui era pervenuto Fava, vale a dire che Amara andava arrestato, quanto meno per calunnia. I dirigenti del suo ufficio, Francesco Greco, Pedio e Fabio De Pasquale, invece, decidono di utilizzare Amara contro il giudice del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, e questo segna la rottura con Storari. Il quale, nell' aprile del 2020, prende i verbali di Amara e li consegna al consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Intanto il tesoro di Amara resta al sicuro, molto probabilmente a Dubai, perché nessuno, pare, ne avrebbe mai chiesto il sequestro. Per Fava e la Procura di Milano (per lo meno questo si evince da un decreto di perquisizione emesso nel maggio del 2019) Amara sarebbe, come detto, socio occulto della Napag, una piccola ditta calabrese, fondata nel 2012 a Gioia Tauro per commerciare in succhi di frutta, ma passata improvvisamente, nel 2017, agli affari petroliferi. Il consulente che la porta nel magico mondo dell'oro nero è l'allora avvocato esterno dell'Eni Amara. Da quel momento la Napag guadagna soldi a palate grazie agli affari con la Eni trading & shipping (Ets), una controllata del Cane a sei zampe. Il contatto di Amara & c. era il responsabile «products trading» Alessandro Des Dorides, successivamente licenziato e denunciato per truffa dalla compagnia petrolifera. Il 2 febbraio 2018, quattro giorni prima di essere arrestato, Amara conclude un contratto di locazione per un appartamento romano, piano attico, dove viene trasferita la sede legale della Napag, sino a quel momento ospitata nel suo studio. A partire dall' aprile di quell' anno, la società calabrese incassa dall' Eni quasi 95 milioni di euro, suddivisi in otto bonifici per tre forniture di greggio e derivati del petrolio come il polietilene ad alta densità (25 milioni di euro), operazione che avrebbe consentito alla Napag di acquistare un impianto di produzione di polietilene in Iran, due carichi di Virgin nafta (29 milioni di euro), un ulteriore carico di greggio (42 milioni), di cui parleremo tra poco. Successivamente l'Eni scopre e denuncia che questa merce, ufficialmente irachena, avrebbe avuto in gran parte «qualità e provenienza diversa rispetto a quella contrattualizzata, anche con la produzione di documenti rivelatisi falsi». Infatti, come si scoprirà successivamente, giungeva dall' Iran, Paese sottoposto a embargo statunitense. Ma vediamo nel dettaglio i bonifici che arrivano dopo che Amara è già finito in carcere. Il 24 aprile, perviene alla Napag un «prepagamento» di oltre 25 milioni, soldi accreditati sul conto della banca Mediolanum, filiale di Basiglio (Milano). Da luglio a dicembre partono altri sette bonifici per un importo complessivo di quasi 70 milioni di euro, quasi tutti inviati su un conto di Dubai (a parte 1,3 milioni destinati a Bruxelles). Ma i dirigenti dell'Eni scoprono, anche grazie a indagini difensive, l'esistenza di un conto persino a Ras Al Kaimah, altro piccolo emirato. Alla fine, la Napag incassa 94.295.682,62 in tutto. Denaro, secondo gli inquirenti, destinato non solo al titolare, Mazzagatti, ma anche ad Amara. Se però i conti non risultano essere stati bloccati, non sembra sia mai stato sequestrato neanche il carico della petroliera White moon. Con la denuncia depositata alla Procura di Milano il 13 giugno 2019, l'Eni ha segnalato all' aggiunto Pedio che la nave giunta «in prossimità del porto di Milazzo» non aveva a bordo greggio di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice nigeriana Oando, ma di «qualità superiore e più pregiata». L' Eni segnalava inoltre che il petrolio doveva «considerarsi in deposito stoccato presso la motonave White moon». Quasi un assist per ordinarne il sequestro. Nella denuncia si leggeva anche che era stata accertata la falsificazione della documentazione di accompagnamento del carico e che, attraverso una schermatura, la reale procacciatrice del prodotto era la Napag, che nel febbraio dello stesso anno era stata estromessa dall' elenco dei fornitori dell'Eni a causa degli affari opachi con Ets. L' Eni segnalava anche la reticenza della Oando a dichiarare la vera provenienza del greggio e depositava in Procura la fattura da oltre 41 milioni di euro pagati dalla Oando alla Napag. Il 15 luglio la compagnia petrolifera denunciava espressamente Amara e Mazzagatti quali titolari della Napag, fornitrice di un petrolio diverso da quello pattuito. Infine l'Eni, il 26 luglio 2019, presentava un'ulteriore denuncia, allegando la documentazione contraffatta, fornita a riprova della provenienza irachena del greggio. Già a partire dal 13 giugno 2019, i giornali avevano svelato l'origine provenienza iraniana del petrolio. Nonostante tutte queste sollecitazioni, la Procura di Milano non ha fatto sequestrare la nave e ha lasciato che tornasse indietro con a bordo il petrolio iraniano commerciato da Amara. Il quale, da lì a qualche settimana, avrebbe cominciato a riempire nove verbali di confessioni, come nemmeno Sant' Agostino. Nell' interrogatorio del 31 luglio 2018, Giuseppe Calafiore aveva detto ai pm quali fossero le «scatole» estere aperte da Amara per i suoi affari: oltre alla Dagi Middle East, l'avvocato siracusano aveva fondato, insieme con Mazzagatti, la Napag Dubai, dove secondo il faccendiere avrebbero dovuto transitare anche le mazzette destinate ad alcuni dirigenti corrotti dell'Eni (oggi tutti allontanati). Nei verbali depositati al Riesame, Amara parla di ogni genere di business, compreso l'olio di palma, ma non dei soldi guadagnati con la Napag. E se lo ha fatto, quelle parti sono state omissate. Nelle carte giudiziarie compare anche un estratto conto del faccendiere risalente ai tempi in cui truccava i processi. Un elenco di spese che la dice sulla lunga sul tenore di vita di questo avvocato. Nel mese di maggio del 2016 ha speso 18.500 euro strisciando 700 euro al ristorante milanese La Langosteria, specializzato in prelibati crudi di pesce, 414 nel negozio d' abbigliamento Boggi, 650, 530 e 260 nella tipica osteria chic romana da Tullio, 357, 320 e 212 alla pescheria Rossini, 471 all' hotel Bulgari, 535 al Majestic, 403 al Parco dei Principi, 2.400 nella boutique Celine, 596 alla Rinascente, 316 da Luisa Spagnoli e 299 da Max & co. e persino 700 per un taxi. Adesso il «massone» pentito, che con la sua loggia Ungheria sta facendo fibrillare il mondo della magistratura italiana, è in attesa di tornare a vivere alla grande con i soldi guadagnati con corruzione e petrolio, denaro che nessuno gli ha mai portato via. A meno che qualche magistrato, finalmente, non decida di cercare e sequestrare il tesoretto della Napag. Se non è già troppo tardi.

Accusato di dossieraggio. Amara e quei legami con Pignatone e Ielo "scoperti" da Fava, ma il Pm fu indagato e trasferito. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Maggio 2021. È una procedura “irrituale”. Il Consiglio superiore della magistratura si muove “solo con atti formali” e “procedure codificate”. Ogni notizia estranea ai canali “istituzionali” è “irricevibile”. In caso contrario, la procedura “scorretta” potrebbe “amplificare voci non riscontrabili”. L’inoltro dei verbali dell’interrogatorio di Piero Amara da parte del pm di Milano Paolo Storari a Piercamillo Davigo è stato accompagnato da una serie infinita di critiche. Tutti a dare addosso all’operato del pm milanese che ha voluto portare in questo modo a conoscenza Davigo dell’inerzia dei vertici della sua Procura, restii ad approfondire le dichiarazioni di Amara, l’avvocato siciliano ideatore del Sistema Siracusa, sull’esistenza della loggia super segreta denominata Ungheria. Su quanto accaduto alla procura di Milano, il procuratore di Brescia Francesco Prete ha formalmente aperto un fascicolo. Mentre oggi Davigo è atteso dai pm a Roma come teste nell’ambito dell’indagine a carico della sua ex segretaria Marcella Contrafatto, accusata di aver diffuso in forma anonima ad alcuni giornali i verbali secretati degli interrogatori di Amara. Ma cosa succede ad un magistrato quando decide di segnalare in modo “rituale” che qualcosa nel proprio ufficio non funziona? L’esperienza del pm Stefano Rocco Fava è molto esaustiva al riguardo. Fava, di origini calabresi come l’ex zar delle nomine Luca Palamara, lavorava al dipartimento reati contro la Pubblica amministrazione della Procura di Roma. Uno degli uffici inquirenti più importanti del Paese. A dirigerlo è l’aggiunto Paolo Ielo, magistrato molto noto per essersi sempre occupato, fin dai tempi di Mani pulite a Milano, di indagini sui colletti bianchi. In uno dei fascicoli che ha in carico, Fava si imbatte in Amara. Siamo nel 2018 e Amara, dopo essere stato arrestato agli inizi di febbraio in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma, è tornato in libertà ed ha iniziato una “collaborazione” con i magistrati. Fava non crede che Amara stia dicendo tutto ciò di cui è a conoscenza. E, pertanto chiede il suo arresto per l’ipotesi di bancarotta. Ielo, e l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, la pensano in modo diverso e non danno il loro assenso. Seguono giorni di grande tensione e Fava arriva ad evidenziare in una nota i legami di Amara con i fratelli di Pignatone e di Ielo, entrambi avvocati. Ci sarebbero, insomma, mancate astensioni in questi fascicoli. Amara, poi, era assistito da Salvino Mondello in rapporti di amicizia con Ielo, che aveva avanzato a tal riguardo istanza di astensione, rigettata da Pignatone. Il 5 marzo il fascicolo a carico di Amara viene tolto a Fava. Il magistrato, allora, decide di segnalare al Csm quanto sta accadendo. E a quel punto succede il caos. Totale. L’esposto a Palazzo dei Marescialli finisce per essere il frutto di una campagna di delegittimazione di Pignatone e Ielo. In pratica, Fava agirebbe per conto di Palamara che aveva intenzione di vendicarsi nei confronti dei due magistrati. Il pm calabrese si trova indagato a Perugia con l’accusa di aver posto in essere un dossieraggio. Viene chiamato in causa per degli articoli usciti il 29 maggio 2019 sul Fatto e sulla Verità in cui si faceva riferimento a Ielo e Pignatone per tali vicende. I giornalisti, sentiti dai pm, negheranno di aver avuto notizie da Fava. Ma tant’è. Nel procedimento di Perugia Ielo e Pignatone sono parti offese. Poi scatta, ovviamente, il disciplinare al Csm e, per non farsi mancare nulla, il trasferimento d’ufficio. Dopo aver fatto sempre il pm, Fava si ritrova dalla sera alla mattina giudice civile a Latina. E su questi cambi di funzioni senza un minimo di affiancamento e formazione ci sarebbe da discutere a lungo. Forse, quindi, il “sistema Storari” non è poi così malvagio. Paolo Comi

Filippo Facci, Davigo e Amara: "Csm da sciogliere", è una guerra interna alle toghe. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. Sopra una certa altitudine il corpo comincia nutrirsi delle proprie riserve di grasso: anche se resta immobile. È una legge della montagna ma anche del potere, laddove a una certa altitudine, in Italia, è rimasto il solo potere irriformato della Seconda Repubblica: la Magistratura. Che non avendo più vincoli o bilanciamenti è ormai un peso senza contrappeso che sta divorando se stesso: dopo l'infinito caso Palamara (che ha evidenziato corruzioni, discrezionalità assolute, lotte tra toghe, nomine puramente correntizie, un clima da spionaggio, nessuna meritocrazia e soprattutto nessuna dinamica democratica) ora si è aggiunto il surreale caso della loggia massonica «Ungheria», sorto dopo che la Guardia di finanza ha bussato all'interno del Csm nell'ufficio di Marcella Contrafatto che è l'ex segretaria di Piercamillo Davigo al Csm. Si cercavano dei verbali che paradossalmente erano già stati recapitati a due quotidiani, Il Fatto e Repubblica: in essi Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, interrogato a Milano, racconta di questa loggia «Ungheria» in perfetto stile P2 comprendente alti funzionari dello Stato, del Vaticano ma soprattutto della magistratura. Il Fatto ovviamente dapprima non ha scritto una riga (la magistratura è il suo core business) ma poi la dinamica si è schiarita. Quei verbali sono stati sottratti dal pm milanese Paolo Storari e consegnati a Piercamillo Davigo e infine inviati ai giornali da Marcella Contrafatto, che il Fatto Quotidiano, in imbarazzo, ha definito una «funzionaria». In concreto né il Fatto né Repubblica hanno fatto approfondimenti, cioè il loro lavoro. Sinché un altro quotidiano, Domani, ha scoperto l'arcano e ha pubblicato tutto assieme a dei documenti che confermavano alcune consulenze poco trasparenti di Giuseppe Conte da premier. «Un poco di buono» - Dopodiché gli stessi quotidiani silenti - quelli che in genere pubblicano qualsiasi cazzata riguardi denari riconducibili a Renzi o alla Lega - hanno fatto gli schizzinosi sulle consulenze ottenute da Conte (di cui Domani aveva già spiattellato contratti e fatture) ma perlomeno trovato il «coraggio» di raccontare la storia della fantomatica loggia «Ungheria», ovviamente con prudenza: hanno parlato di «dossieraggio» e descritto questo avvocato Piero Amara come un poco di buono. Potremmo continuare, ma intanto subentra anche la notizia che un gruppo legato al comitato direttivo dell'Associazione nazionale magistrati (si chiama Articolo 101) ha chiesto lo scioglimento dell'intero Csm, e questo «per ridare credibilità alla giustizia». Come se bastasse questo. «La gravità della vicenda e della situazione avrebbe richiesto l'urgente convocazione del Comitato Direttivo Centrale», dicono. Altre «correnti» dell'Associazione (ci sono correnti dappertutto) però non sono d'accordo, ma quelli di Articolo 101 insistono: «Da due anni le istituzioni giudiziarie scontano un gravissimo deficit di credibilità. Causa principale di tale insostenibile condizione è l'emersione del pervasivo condizionamento del correntismo nel sistema dell'autogoverno e, in particolare, nelle determinazioni del Consiglio Superiore della Magistratura». Da qui la richiesta di un rinnovamento generale. «Sono venute meno le condizioni minime del normale funzionamento del Csm nella sua attuale composizione. Riteniamo che lo scioglimento sia la via obbligata». Mentre accadeva questo, le cose erano soltanto peggiorate. Il pm Paolo Storari, quello che aveva inviato i verbali a Davigo, sostiene che tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020 aveva inviato una decina di email al procuratore Francesco Greco, ottenendone nulla, e che solo allora si era deciso a inviare i verbali all'allora consigliere Csm Davigo. Storari dice che non avrà problemi a riferire al Csm per spiegare le sue decisioni a suo dire di «autotutela» di fronte all'inerzia del procuratore Greco: non voleva che quei verbali-bomba gli scoppiassero in mano. «Autotutela» - Perché è appunto sin dal 2019 che l'avvocato Amara aveva parlato dell'esistenza di questa loggia segreta «Ungheria» di cui avrebbero fatto parte anche magistrati: quindi, secondo Storari, c'era quantomeno da iscrivere alcuni nomi nel registro degli indagati per cercare dei riscontri, oppure c'era da procedere per calunnia. Un iter, questo, formalmente corretto secondo il quale un pm che non ottenga risposta dal suo capo (Greco) può rivolgersi al comitato di presidenza del Csm. Ma, anche qui, Storari ebbe modo di rilevare la sostanziale inerzia dei vertici per almeno sei mesi. Sinché, altra notizia recente, circa un anno fa a Milano, è risultato che hanno iscritto nel registro degli indagati perlomeno lo stesso avvocato Piero Amara (proprio colui che aveva denunciato tutto) oltre al suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e al suo ex socio Giuseppe Calafiore. E il fascicolo, per competenza, è stato spedito alla procura di Perugia. Ma le persone coinvolte nella loggia erano 74, non 3. Che dice Greco? «Preferisco non parlarne, c'è una vicenda ben precisa e poi ci sono tante narrazioni». Chiaro come nebbia. Tuttavia Greco dice che sta preparando una relazione per riscostruire la gestione del fascicolo «Ungheria» poi trasmesso a Perugia. Piercamillo Davigo intanto ha ammesso di aver «informato chi di dovere» di quei verbali ricevuti nella primavera del 2020. Ma di certo, in definitiva, c'è veramente poco. È certo che sarà l'autorità giudiziaria romana a dover verificare il racconto di Davigo, così come sarà l'autorità giudiziaria perugina a occuparsi di alcune toghe romane. E, pure, che sarà un procedimento del procuratore Raffaele Cantone a indagare sulla loggia «Ungheria», intesa come associazione segreta fuori legge di cui sarebbe gravissimo se avessero fatto parte addirittura dei magistrati. Le quote insabbiamento, in ogni caso, sono date per vincenti.

Loggia Ungheria, ecco i pesantissimi nomi coinvolti da Amara: "Tra una barzelletta e una mascalzonata". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. "Una via di mezzo tra una barzelletta e una mascalzonata". Michele Vietti, ex vicepresidente Csm, definisce così le rivelazioni dell'avvocato Piero Amara. Coinvolti nella Loggia Ungheria infatti ci sono l'ex pm antimafia Sebastiano Ardita e l'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, la ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, l'ex Guardasigilli Paola Severino. Tutti, in larga maggioranza, smentiscono. "È un'accusa talmente grottesca che fa ridere, ma è anche molto grave. Perché inverte l'onere della prova. Come faccio a dimostrare di non far parte di un'associazione segreta che non si sa nemmeno se esiste? Mi ricorda i pentiti di mafia degli anni '90. Per fuggire alle loro responsabilità dicevano quello che i pm volevano sentire e si sa come finì. Il problema è chi gli dà corda con quell'ampiezza di verbali. Di motivi per instillare veleni e vendette personali Amara ne ha molti", spiega Vietti. Paola Severino è citata nell'elenco dei presunti affiliati. Assieme a un nome che fa scalpore: quello dell'ex dirigente del Dap, Ardita. Una vendetta contro il pm? "È possibilissimo. Perché un collega, Stefano Fava, mi rappresentò la volontà di fare un esposto al Csm per i contrasti avuti in procura su un'indagine importante: proprio quella su Amara, che lui voleva far arrestare e gli chiesi di ricomporre, se possibile, il contrasto nell'ufficio, o di presentare un esposto formale assicurandogli che gli avrei dato appoggio. Per l'accertamento fino in fondo della verità". Anche Livia Pomodoro smentisce: "È un equivoco. E non ho mai fatto parte né di questa né di alcun consorzio. Sono lontana dall'amministrazione dal 2015. E ora sono presidente dell'accademia di Brera, mi occupo di cose serie". E anche l'ex procuratore di Trani Capristo, smentisce la versione di Amara. "Mi sarei dovuto raccomandare a lui per andare nell'inferno di Taranto? Ma io ero stato proposto come procuratore generale a Bari, siccome mandarono una collega mi dettero un "contentino". Lo vidi 4 volte. A Trani mi chiese un appuntamento per conto dell'ufficio legale Eni. A Taranto venne con i garanti Ilva come esperto ambientale. E poi da don Bonaiuto in occasione di un incontro con moltissime persone in favore delle ragazze abusate. Mai scambiati numeri e messaggi. Se non fosse drammatico sembrerebbe un film di Salemme", conclude.

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. «Una via di mezzo tra una barzelletta e una mascalzonata». Michele Vietti, ex vicepresidente Csm, definisce così le rivelazioni dell'avvocato Piero Amara. In sintonia con gran parte dei personaggi tirati in ballo, come amici o nemici della «Loggia Ungheria», nell' interrogatorio con i pm Pedio e Storari, pubblicato dalla Verità. Tra i citati ci sono l'ex pm antimafia Sebastiano Ardita e l'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, la ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, l'ex Guardasigilli Paola Severino, giudici, generali, avvocati. Alcuni sono deceduti, come l'ex capo del Dap Tinebra, o Giancarlo Elia Valori. Gli altri, in larga maggioranza, smentiscono. Spiega Vietti: «È un'accusa talmente grottesca che fa ridere, ma è anche molto grave. Perché inverte l'onere della prova. Come faccio a dimostrare di non far parte di un'associazione segreta che non si sa nemmeno se esiste? Mi ricorda i pentiti di mafia degli anni '90. Per fuggire alle loro responsabilità dicevano quello che i pm volevano sentire e si sa come finì. Il problema è chi gli dà corda con quell'ampiezza di verbali. Di motivi per instillare veleni e vendette personali Amara ne ha molti». «Perché sarei stata chiamata in causa? Non saprei. Non ho mai frequentato e men che meno fatto parte di logge o "circoli" di qualsivoglia natura. Né ho mai conosciuto o incontrato l'avvocato Amara in vita mia», risponde Emma Marcegaglia. E aggiunge: «Anzi, fui proprio io come presidente dell'Eni, a decretare assieme agli organismi di controllo della società la sua cacciata». All' epoca della sua defenestrazione l'ex ministro della Giustizia, Paola Severino, era capo del pool di legali dell'azienda. È citata nell'elenco dei presunti affiliati. Assieme a un nome che fa scalpore: quello dell'ex dirigente del Dap, Ardita. Fu lui da pm, prima del 2006, a chiedere e ottenere l'arresto di sette fra deputati ed ex deputati, un sottosegretario in carica e oltre duecento mafiosi. E di recente stava per provocare quello di Amara. Una vendetta? «È possibilissimo. Perché un collega, Stefano Fava, mi rappresentò la volontà di fare un esposto al Csm per i contrasti avuti in procura su un'indagine importante: proprio quella su Amara, che lui voleva far arrestare». Ardita gli chiese «di ricomporre, se possibile, il contrasto nell' ufficio, o di presentare un esposto formale». Assicurandogli che «gli avrebbe dato appoggio. Per l' accertamento fino in fondo della verità». Ma non ci fu. Di lì a poco si scatenò la bufera Palamara. Ricorda Ardita: «Non fu possibile sentire Fava perché dopo lo scandalo dell'hotel Champagne fu sottoposto a un procedimento penale dalla procura di Perugia che lo accusava di tentare di screditare il procuratore. Quindi il contenuto stesso dell'audizione, il contrasto con il procuratore, era già considerato parte del reato e diventò per noi impossibile convocarlo». Ma sui giornali la sua intenzione di appoggiare l'arresto di Amara filtrò. E ora Amara lo cita, ma come «pm di Catania». Ardita sorride: «Immagino che in quei contesti è importante sapere che lavoro si faccia. Io non ero più pm a Catania da 7 anni». Affiliata secondo Amara anche Livia Pomodoro. «È un equivoco - dice lei - non lo conosco. E non ho mai fatto parte né di questa né di alcun consorzio. Sono lontana dall'amministrazione dal 2015. E ora sono presidente dell'accademia di Brera, mi occupo di cose serie». Pure l'ex procuratore di Trani Capristo, smentisce la versione di Amara. «Mi sarei dovuto raccomandare a lui per andare nell' inferno di Taranto? Ma io ero stato proposto come procuratore generale a Bari, siccome mandarono una collega mi dettero un "contentino". Lo vidi 4 volte. A Trani mi chiese un appuntamento per conto dell'ufficio legale Eni. A Taranto venne con i garanti Ilva come esperto ambientale. E poi da don Bonaiuto in occasione di un incontro con moltissime persone in favore delle ragazze abusate. Mai scambiati numeri e messaggi. Se non fosse drammatico sembrerebbe un film di Salemme».

Verbali e Csm, Greco in procura a Roma. E sull'inchiesta Amara dice: nessuna inerzia nell'indagine. La Repubblica il 7 maggio 2021. Il procuratore capo di Milano incontra il collega Prestipino. In mattinata ha inviato una relazione sulla vicenda alla Procura generale milanese dove dice: gli accertamenti su quelle dichiarazioni vennero fatti, ma con prudenza e cautela. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco ha incontrato a Roma il collega romano Michele Prestipino. Il magistrato milanese è entrato nell'ufficio di Prestipino insieme ai pm romani Roberto Tucci e Rosalia Affinito che indagano per calunnia Marcella Contrafatto, l'impiegata del Csm (ora sospesa) che avrebbe diffuso verbali secretati di interrogatori resi ai pm di Milano dall'avvocato Piero Amara. In una altra tranche di indagine è indagato per rivelazione del segreto d'ufficio il pm Paolo Storari il cui interrogatorio è fissato per domani. Il colloquio romano arriva subito dopo che la Procura di Milano ha dichiarato di non essere stata inerte sulle indagini innescate dalle rivelazioni di Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. Lo ha scritto lo stesso Greco nella relazione che stamattina ha inviato al procuratore generale milanese Francesca Nanni sul caso dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 dall'avvocato siciliano. L'inerzia è invece la tesi che sostiene il pm Storari, il quale per "autotutelarsi", consegnò nell'aprile 2020 i verbali all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. La relazione dovrà essere ora valutata dalla pg Nanni che si è limitata a dire che "ci sono accertamenti da fare".  "E' più segreta di una indagine", ha spiegato la pg che adesso deve valutare quella che è la versione dei fatti del Procuratore della Repubblica Greco per poi eventualmente svolgere accertamenti. Compresa la richiesta di una relazione anche al pm Storari. Dopo di che la documentazione dovrebbe essere trasmessa al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che, come ha annunciato nei giorni scorsi, dovrebbe avviare un'istruttoria disciplinare. Greco spiegherebbe che gli accertamenti sulle dichiarazioni di Amara vennero fatti, ma con prudenza e cautela. I primi tre nomi, Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore, vennero iscritti per associazione segreta nel maggio 2020. Mentre Storari avrebbe voluto iscrivere subito almeno 6 persone per fare tabulati e intercettazioni. Ma, secondo la ricostruzione di Greco, fu il pm stesso a danneggiare le indagini facendo uscire la notizia, mettendole in mano a Davigo, quelle carte segretate, all'insaputa dei vertici dell'ufficio. Storari, che era titolare, assieme all'aggiunto Laura Pedio, dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni in cui Amara è indagato e nella quale vennero raccolti quei verbali, l'8 aprile scorso informò Greco del fatto che aveva consegnato le carte a Davigo un anno prima. E ciò perché il pm solo in quel periodo seppe che la Procura romana stava indagando sull'ex segretaria di Davigo per la diffusione di quelle carte segretate. Storari si spogliò dei fascicoli sul "falso complotto" e di quello sulla rivelazione del segreto d'ufficio, che poi andò a Roma. Nel frattempo, Greco e Storari nelle scorse settimane erano stati anche protagonisti di un diverbio nella chat interna della Procura, dopo che nel processo sul caso Eni-Nigeria, su cui la Procura puntava molto, erano arrivate tutte assoluzioni, a metà marzo. Sia Amara che l'ex manager Eni e imputato Vincenzo Armanna sono stati molto "valorizzati" dai pm del caso Nigeria, tra cui l'aggiunto Fabio De Pasquale, mentre Storari aveva una diversa linea nelle indagini e valutò anche profili di calunnia nelle loro dichiarazioni. Ed entrò in contrasto nella conduzione dell'inchiesta pure con l'aggiunto Pedio, oltre che con Greco. Dopo le tre iscrizioni, il procuratore Greco aveva coinvolto anche l'aggiunto e responsabile dell'anticorruzione Maurizio Romanelli: gli ha girato le carte, verbali della "discordia" compresi, affinché li leggesse in quanto l'intenzione era potenziare il pool di pm che si occupava del caso. Poi, in una riunione a settembre si decise di trasmettere gli atti alla Procura di Perugia (dove arrivarono materialmente a gennaio scorso), perché l'ex legale esterno dell'Eni tirava in ballo diversi magistrati romani. In quel periodo ci fu anche un interrogatorio congiunto di Amara da parte dei pm milanesi e perugini.

Caos a Milano, il procuratore Greco pronto a lasciare? Dopo lo scandalo verbali che ha terremotato la procura voci interne al Tribunale riferiscono di un possibile addio del capo dell’ufficio prima della pensione. Simona Musco su Il Dubbio il 6 maggio 2021. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, starebbe valutando di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato, a novembre prossimo. È quanto emerso da fonti del Tribunale di Milano, dove ieri è stata organizzata una raccolta firme tra i pm per chiedere un’assemblea per affrontare i problemi organizzativi dell’ufficio, in particolare dopo che sei sostituti procuratori dal primo giugno lasceranno le funzioni per andare a lavorare per la Procura europea. La tensione, dunque, è alta dopo lo scandalo dei verbali secretati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, caso che ora apre una “guerra” tra procure: oltre all’apertura di un fascicolo a Roma, che indaga su Storari per rivelazione di segreto d’ufficio e che ieri ha sentito Davigo come persona informata sui fatti, anche la procura di Brescia indaga per lo stesso reato, con un fascicolo attualmente aperto carico di ignoti. Parallelamente, è Perugia ad indagare sui contenuti di quei verbali, nei quali l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara ha parlato di una fantomatica loggia, la cosiddetta “Ungheria”, composta da magistrati, avvocati, alti funzionari e politici in grado di controllare il Paese. Sarebbero circa 40 i nomi in lista – lista mai consegnata da Amara ai pm -, ma attualmente tutte le persone tirate in ballo hanno smentito categoricamente la loro partecipazione a qualsiasi associazione segreta, reato contestato dal procuratore Raffaele Cantone. Già prima del caos verbali si vociferava della possibilità che Greco lasciasse la procura in estate. L’ultima frattura interna alla procura – la precedente si era manifestata dopo le assoluzioni nel processo a Eni – potrebbe averlo portato dunque ad accelerare ulteriormente i tempi. E secondo una fonte che conosce bene le dinamiche interne alla magistratura, «le dimissioni sono assolutamente possibili».

Il Csm sorvola la questione. «È un momento difficile per la magistratura», ha detto David Ermini in apertura del primo plenum dopo il nuovo caos che ha terremotato il Csm. Poche parole, quelle del vicepresidente, che sfiora appena la questione. La novità, ora, è che dalle dichiarazioni di Davigo è emerso che la consegna dei verbali è avvenuta a Milano. E ciò sposterebbe la competenza delle indagini nelle mani dei magistrati di Brescia, titolata a indagare sui colleghi milanesi. In attesa delle mosse del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che valuterà un possibile procedimento disciplinare, concordato con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il plenum di ieri ha evitato di affrontare l’argomento. Gli unici accenni sono stati quelli di Ermini, che ha evidenziato come la magistratura, così come il Csm, abbiano «voglia di grande riscatto, sente l’orgoglio di riscatto».

L’indagine a Brescia. L’indagine avviata a Brescia servirà a fare luce su come siano andate le cose tra il procuratore di Milano Francesco Greco e il sostituto Storari, che si è rivolto a Davigo a causa «dell’inerzia» da parte dei vertici della Procura nell’avviare le indagini sulle rivelazioni di Amara, a suo dire come forma di autotutela in caso di provvedimenti disciplinari. Ma come chiarito dal Csm, l’unica strada che il pm avrebbe potuto seguire è quella della segnalazione ufficiale alla procura generale, che avrebbe poi dovuto girare il “fascicolo” al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, per poi spedire il tutto, eventualmente, alla Prima Commissione, responsabile dei procedimenti disciplinari. Il pm milanese verrà ascoltato sabato prossimo alle 11. «Prendo atto della convocazione, alla quale noi ovviamente parteciperemo – ha dichiarato al Dubbio il suo legale, Paolo Della Sala -, dopodiché la questione deve risolversi all’interno del contesto istituzionale. Di più non possiamo dire».

Tensioni a Milano. Secondo quanto affermato da Storari, la scelta di consegnare i verbali aveva lo scopo di far arrivare la questione, tramite Davigo, al Csm, affinché intervenisse per chiarire la situazione. Il pm ha dichiarato nei giorni scorsi di aver inviato almeno dieci mail a Greco per chiedere l’avvio di indagini sulle dichiarazioni di Amara. Ma tra fine 2019 e i primi mesi del 2020 non arrivò mai alcuna comunicazione alla Procura Generale milanese, che svolge funzioni di sorveglianza, né al Consiglio giudiziario del capoluogo lombardo. Storari, dunque, non segnalò i contrasti con Greco e la collega Laura Pedio, che ha raccolto insieme a lui le dichiarazioni di Amara. E ora la procuratrice generale Francesca Nanni, che ha preso funzione a fine gennaio, ha chiesto all’ufficio di Greco una relazione sulla vicenda per capire cosa sia successo, per poi eventualmente riferire al Procuratore generale Salvi. La relazione dovrebbe essere pronta nei prossimi giorni. Tra le possibili conseguenze anche quella che la procura generali avochi a sé il fascicolo sul cosiddetto “’falso complotto Eni”, nell’ambito del quale si svolsero gli interrogatori di Amara.

MI: il Csm sia parte civile. A intervenire nel dibattito è anche la corrente Magistratura Indipendente, secondo cui il Csm è «oggetto di una inquietante e oscura attività di dossieraggio e delegittimazione, volta, da un lato, ad influenzare l’organo, indebitamente e dall’esterno, nell’esercizio delle proprie prerogative costituzionali e, dall’altro, a screditarne l’autorevolezza e il prestigio presso l’opinione pubblica e la cittadinanza», sostengono i consiglieri Loredana Miccichè, Paola Braggion, Antonio D’Amato e Tiziana Balduini. I quattro hanno proposto al comitato di presidenza di costituire il Csm come parte offesa per «tutelare e salvaguardare l’istituzione consiliare da indebite interferenze esterne e difenderne così l’autonomia in ogni sede».

Gigliotti sapeva dei verbali. Intanto anche il consigliere laico Fulvio Gigliotti – la cui segretaria, Marcella Contrafatto, prima al fianco di Davigo, ha consegnato i documenti alla stampa ed è ora indagata per calunnia – ha ammesso di aver saputo dall’ex pm di Mani Pulite di quei verbali. Davigo gliene avrebbe parlato in termini «molto generici», ha riferito all’AdnKronos, «nella primavera-estate del 2020». E in quell’occasione fece il nome del consigliere e suo ex amico Sebastiano Ardita, indicato erroneamente come componente della loggia – in realtà Amara parla di una sua presunta partecipazione ad un incontro. «Disse che esistevano queste dichiarazioni in cui si indicavano una serie di nominativi, personalità fra cui anche quella di Ardita – ha dichiarato -. Lo registro come dato puramente oggettivo».

Da repubblica.it il 7 maggio 2021. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco sta incontrando a Roma il collega romano Michele Prestipino. Il magistrato milanese è entrato nell'ufficio di Prestipino  insieme ai pm romani Roberto Tucci e Rosalia Affinito che indagano per calunnia Marcella Contrafatto, l'impiegata del Csm (ora sospesa)  che avrebbe diffuso verbali secretati di interrogatori resi ai pm di Milano dall'avvocato Piero Amara. In una altra tranche di indagine è indagato per rivelazione del segreto d'ufficio il pm Paolo Storari il cui interrogatorio è fissato per domani. Il colloquio romano arriva subito dopo che la Procura di Milano ha dichiarato di non essere stata inerte sulle indagini innescate dalle rivelazioni di Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. Lo ha scritto lo stesso Greco nella relazione che stamattina ha inviato al procuratore generale milanese Francesca Nanni sul caso dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 dall'avvocato siciliano. L'inerzia è invece la tesi  che sostiene il pm Storari, il quale per "autotutelarsi",  consegnò nell'aprile 2020  i verbali all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. La relazione dovrà essere ora valutata dalla pg Nanni che si è limitata a dire che "ci sono accertamenti da fare".  "E' più segreta di una indagine", ha spiegato la pg che adesso deve valutare quella che è la versione dei fatti del Procuratore della Repubblica Greco per poi eventualmente svolgere accertamenti. Compresa la richiesta di una relazione anche al pm Storari. Dopo di che la documentazione dovrebbe essere trasmessa al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che, come ha annunciato nei giorni scorsi, dovrebbe avviare un'istruttoria disciplinare. Greco spiegherebbe che gli accertamenti sulle dichiarazioni di Amara vennero fatti, ma con prudenza e cautela. I primi tre nomi, Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore, vennero iscritti per associazione segreta nel maggio 2020. Mentre Storari avrebbe voluto iscrivere subito almeno 6 persone per fare tabulati e intercettazioni. Ma, secondo la ricostruzione di Greco, fu il pm stesso a danneggiare le indagini facendo uscire la notizia, mettendole in mano a Davigo, quelle carte segretate, all'insaputa dei vertici dell'ufficio. Storari, che era titolare, assieme all'aggiunto Laura Pedio, dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni in cui Amara è indagato e nella quale vennero raccolti quei verbali, l'8 aprile scorso informò Greco del fatto che aveva consegnato le carte a Davigo un anno prima. E ciò perché il pm solo in quel periodo seppe che la Procura romana stava indagando sull'ex segretaria di Davigo per la diffusione di quelle carte segretate. Storari si spogliò dei fascicoli sul "falso complotto" e di quello sulla rivelazione del segreto d'ufficio, che poi andò a Roma. Nel frattempo, Greco e Storari nelle scorse settimane erano stati anche protagonisti di un diverbio nella chat interna della Procura, dopo che nel processo sul caso Eni-Nigeria, su cui la Procura puntava molto, erano arrivate tutte assoluzioni, a metà marzo. Sia Amara che l'ex manager Eni e imputato Vincenzo Armanna sono stati molto "valorizzati" dai pm del caso Nigeria, tra cui l'aggiunto Fabio De Pasquale, mentre Storari aveva una diversa linea nelle indagini e valutò anche profili di calunnia nelle loro dichiarazioni. Ed entrò in contrasto nella conduzione dell'inchiesta pure con l'aggiunto Pedio, oltre che con Greco. Dopo le tre iscrizioni, il procuratore Greco aveva coinvolto anche l'aggiunto e responsabile dell'anticorruzione Maurizio Romanelli: gli ha girato le carte, verbali della "discordia" compresi, affinché li leggesse in quanto l'intenzione era potenziare il pool di pm che si occupava del caso. Poi, in una riunione a settembre si decise di trasmettere gli atti alla Procura di Perugia (dove arrivarono materialmente a gennaio scorso), perché l'ex legale esterno dell'Eni tirava in ballo diversi magistrati romani. In quel periodo ci fu anche un interrogatorio congiunto di Amara da parte dei pm milanesi e perugini.

Indagini al palo. Caso Amara, il procuratore Greco va a "colloquio" da Prestipino. Redazione su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Il Procuratore di Milano Francesco Greco ieri pomeriggio è andato a Roma per incontrare il procuratore di Roma Prestipino. Greco è sospettato di avere ostacolato l’inchiesta del suo sostituto, Storari, sull’ipotetica Loggia Ungheria. Però non è venuto a Roma per subire un interrogatorio (oltretutto non toccherebbe a Roma il compito di indagare su un magistrato milanese, ma a Brescia) è venuto per un colloquio. Ha garantito a Prestipino di non aver fatto niente di male. Cerchiamo di vedere se ci viene in mente qualche altro cittadino, famoso o no, che invece di essere interrogato viene invitato a colloquio. È uno sforzo inutile. Del resto ci sono tante cose in questa inchiesta che non sono molto chiare. A partire dal recente interrogatorio, ma solo come testimone, di Piercamillo Davigo, da parte dello stesso Prestipino, che è il procuratore nominato procuratore con il voto decisivo di Davigo ed è stato dichiarato poi illegittimo dal Tar. Prestipino è anche andato al Csm a guidare le perquisizioni, e a una persona normale viene da pensare: ma come mai quando un politico finisce nei guai gli si impone di dimettersi subito, di lasciare il suo ufficio, di accettare la “pre-condanna” e poi, casomai, di riprendere la sua carriera dopo una decina d’anni in caso di assoluzione definitiva, e invece se un organismo ufficiale come il Tar destituisce un magistrato, anzi un Procuratore, lui può continuare tranquillo ad esercitare, basta che faccia ricorso? Nessuno sa rispondere alla domanda di questa persona normale. Né saprebbe dirgli la ragione per la quale a dieci giorni abbondanti dall’esplosione di uno scandalo clamoroso, come questo Csm-Davigo-Ungheria, non ci sia ancora un solo indagato tranne quel poveretto di Storari. Eppure lo scandalo è grosso e coinvolge magistrati, funzionari del Csm, grandi firme del giornalismo, probabilmente anche direttori, membri del Csm. Pensate voi cosa sarebbe successo se qualche magistrato avesse sospettato un bel traffico di influenze, poniamo, al Comune di Lamezia o di Buccinasco! Manette, manette a volontà…

Verbali e Csm, Greco in procura a Roma. Loggia Ungheria, Greco scarica Storari: nessuna inerzia nelle indagini. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2021. Non ci fu alcuna inerzia nelle indagini, tutto è stato fatto nel rispetto delle regole. Così il procuratore capo di Milano Francesco Greco si difende nella relazione inviata alla procura generale meneghina dove il nome del pm Paolo Storari, che gli punta il dito nel fascicolo che riguarda le rivelazioni dell’avvocato Piero Amara sul falso complotto Eni e sulla presunta loggia Ungheria, comparirebbe più volte. Greco ha lavorato al documento negli ultimi giorni con una ricostruzione minuziosa dei fatti dal punto di vista temporale e documentale con atti e mail che dimostrerebbero le azioni intraprese dalla procura rispetto all’inchiesta, nonostante i fatti siano avvenuti in pieno lockdown quando alcune attività erano più complicate. Storari per “autotutelarsi”, a suo dire, li consegnò nell’aprile 2020 all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Greco sostiene che gli accertamenti su quelle dichiarazioni, che facevano riferimento alla presunta loggia segreta Ungheria, vennero fatti, ma con prudenza e cautela. I primi tre nomi, Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore, vennero iscritti per associazione segreta nel maggio 2020. Mentre Storari avrebbe voluto iscrivere subito, nei mesi precedenti, almeno 6 persone per fare tabulati e intercettazioni. Secondo la ricostruzione di Greco, fu dunque il pm a danneggiare le indagini facendo uscire, mettendole in mano a Davigo, quelle carte segretate, all’insaputa dei vertici dell’ufficio. Greco nel tardo pomeriggio di venerdì 7 maggio è arrivato negli uffici della procura di Roma dove ha incontrato il procuratore Michele Prestipino e i pm Fabrizio Tucci e Rosalia Affinito, titolari dell’inchiesta che vede indagata per calunnia l’impiegata del Csm (attualmente sospesa) Marcella Contrafatto, segretaria dell’ex consigliere Piercamillo Davigo che avrebbe veicolato ad alcuni giornali i verbali di interrogatorio coperti da segreto resi lo scorso anno al pm Paolo Storari dall’avvocato Piero Amara. Storari, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, sarà invece interrogato domani, sabato 8 maggio. Greco nell’inchiesta è invece parte offesa.

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2021.  "Non si poteva seguire le vie formali". Piercamillo Davigo, ex membro del Csm, intervistato a Piazzapulita da La7 dà la sua versione dei fatti dello "scandalo Amara" e dei verbali secretati ricevuti dal pm di Milano Storari. "Amara io non l'ho mai incontrato. Ma per quello che dice nei verbali meritava di essere aperta una indagine". Tuttavia, precisa ancora l'ex pm di Mani Pulite, "qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda". Ecco perché la vicenda è stata tenuta all'oscuro di tutti da maggio 2020 a oggi, nonostante qualche "confidenza" ufficiosa fatta da Davigo anche al vicepresidente del Csm David Ermini, che nega di aver mai visto quei verbali, le cui copie sono finite poi nelle redazioni del Fatto quotidiano e di Repubblica per mano, è l'accusa dei pm, della segretaria di Davigo. In ballo ci sono dichiarazioni di Amara pesantissime, a partire dalla famigerata "loggia Ungheria" che raggrupperebbe esponenti di primissimo p iano di magistratura, politica e Guardia di finanza. Quei verbali, sottolinea Davigo, sarebbero stati sufficienti per aprire una inchiesta a Milano e capire se fossero verità o diffamazione, ma una volta ricevute le copie da Storari (che si è rivolto a Davigo proprio perché insoddisfatto della scelta dei suoi superiori di tergiversare) non si poteva informare gli altri membri del Csm. Ascoltata l'intervista di Davigo, il magistrato Sebastiano Ardita, membro del Csm, telefona in diretta a Corrado Formigli per controbattere punto per punto alla tesi dell'illustre collega: "Al netto della storia della loggia Ungheria, che è una bufala clamorosa, io sono basito dalle parole di Davigo: è un fatto di gravità inaudita dire che non è possibile seguire le vie formali. Un confronto con Davigo? Sono disponibile". Nei verbali di Amara, in cui è più volte citato, Ardita sottolinea come ci siano "solo errori e falsità". Da qualsiasi parte la si guardi, una bruttissima vicenda per la giustizia italiana.

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2021.  Scontro tra Alfredo Robledo e Luca Palamara in studio da Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7 nella puntata del 6 maggio. Si parla della magistratura e della Loggia Ungheria. In tutta questa vicenda, "l'unico comportamento veramente serio e trasparente è stato tenuto da Nino Di Matteo (capo della procura di Palermo, ndr). Che nulla ha da spartire con il palamaravirus". commenta Robledo. ex magistrato. "Il palamaravirus è stata un'infezione della magistratura", attacca Robledo. "Devo correggere l'espressione di Palamara quando dice 'così fanno tutti'. Non è così, così fan tanti ma non tutti". E ancora, sempre riferendosi a Palamara: "Il mediatore, il mediatore dell'accidente. Lei è stato un boia per quello che mi riguarda". Poi l'ex magistrato entra nel merito della presunta Loggia Ungheria. "Nel momento in cui è stato individuata la bugia su Sebastiano Ardita (che secondo quanto rivelato da Piero Amara ne farebbe parte, ndr) è chiaro che Amara diventa un calunniatore". Quindi, prosegue Robledo, "bisogna processarlo immediatamente per calunnia. Poi, una volta processato vediamo cosa ha detto di falso e cosa di vero", ragiona l'ex magistrato. "Perché è chiaro che qualcosa di vero lo ha detto, Amara è un avvocato di esperienza. Conosce intrighi e situazioni antipatiche". Avrà quindi detto "cose false, cose verosimili e qualcosa di vero". Poi Robledo, che all'inizio del collegamento aveva premesso che "la Loggia Ungheria è una farsa: semplicemente c'è un faccendiere (Piero Amara appunto, ndr) che cerca di trarre un profitto personale. Perché non sono mai stati sequestrati a questo signore i milioni di euro che ha", fa una deduzione sconcertante "Secondo me c'è una parte dei servizi che ha degli interessi che attraverso di lui cerca di realizzare". 

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2021. Alfredo Robledo, ex magistrato, in collegamento con Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7, nella puntata del 6 maggio, in cui si parla della presunta Loggia Ungheria, è scatenato. Dopo aver sentito le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, Robledo commenta: "Non mi convince per niente. Dopo questa intervista lo chiamerei 'Pieranguillo', perché sfugge ai problemi veri". E, attacca ancora: "Non è vero affatto che se avesse seguito le vie formali avrebbe svelato", dice riferendosi al fatto che quando il pm Paolo Storari si è rivolto a Davigo e gli ha dato i verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria, Davigo non ha seguito la procedura prevista. Quindi Alfredo Robledo legge un documento con il quale rafforza la tesi secondo la quale proprio "Davigo avrebbe dovuto consigliare a Storari, ragazzo intelligente ma forse un po' ingenuo, di non darglieli nemmeno quei verbali ma di metterli in una busta, salire di un piano e consegnarli al Consiglio di presidenza" del Csm. Davigo però non ha fatto nulla di quanto previsto. In tutta questa vicenda, "l'unico comportamento veramente serio e trasparente è stato tenuto da Nino Di Matteo (capo della procura di Palermo, ndr). Che nulla ha da spartire con il palamaravirus". commenta Robledo. "Il palamaravirus è stata un'infezione della magistratura", attacca l'ex magistrato. "Devo correggere l'espressione di Palamara quando dice 'così fanno tutti'. Non è così, così fan tanti ma non tutti". E ancora, sempre riferendosi a Palamara: "Il mediatore, il mediatore dell'accidente. Lei è stato un boia per quello che mi riguarda". "Nel momento in cui è stato individuata la bugia su Sebastiano Ardita (che secondo quanto rivelato da Piero Amara ne farebbe parte, ndr) è chiaro che Amara diventa un calunniatore". Quindi, prosegue Robledo, "bisogna processarlo immediatamente per calunnia. Poi, una volta processato vediamo cosa ha detto di falso e cosa di vero", ragiona l'ex magistrato. "Perché è chiaro che qualcosa di vero lo ha detto, Amara è un avvocato di esperienza. Conosce intrighi e situazioni antipatiche". Avrà quindi detto "cose false, cose verosimili e qualcosa di vero".

Anna Maria Greco per ilgiornale.it il 7 maggio 2021.  Altri guai in arrivo per Davigo. L'ex segretaria cambia idea: sono pronta a collaborare. Roma. Sei giorni fa Marcella Contrafatto si era avvalsa della facoltà di non rispondere, ma ora di fronte ai pm di Roma cambia linea e dice: «Sono pronta a collaborare». L'ex segretaria di Piercamillo Davigo al Csm, sospettata di essere il «corvo» che ha diffuso i verbali di Piero Amara a giornali e consiglieri di Palazzo de' Marescialli, è indagata per calunnia dagli inquirenti capitolini ma la sua difesa ha fatto ricorso al tribunale del Riesame, sostenendo che «manca il presupposto per la configurabilità del reato». La Contrafatto, sospesa dalle funzioni al Csm, avrà dunque un confronto con i pm di tenore diverso dall'ultimo, in cui non ha detto una parola. Se ora collabora potrebbe aggiungere tasselli determinanti per capire il ruolo avuto da Davigo, che ricevette i verbali secretati dal sostituto di Milano Paolo Storari (indagato a Roma, che domani sarà interrogato), in conflitto con i vertici della procura per la gestione delle dichiarazioni dell'ex avvocato esterno di Eni sulla loggia massonica Ungheria. La funzionaria dovrà raccontare com'è entrata in possesso del materiale riservato, se è stata sua e solo sua la decisione di inviare plichi anonimi a giornalisti e consiglieri, come Nino Di Matteo. E dovrà anche spiegare se ha a che fare qualcosa con questa storia la busta di 4mila euro, scoperta durante le perquisizioni, con una data scritta sopra di poco antecedente al primo invio dei dossier. «Aspettiamo la decisione del tribunale del riesame - spiega il suo difensore, l'avvocato Alessia Angelini -. La Procura non ha depositato atti nuovi mentre noi abbiamo presentato una memoria difensiva. Ci sono accertamenti in corso e la mia assistita è pronta a collaborare con le indagini». L'istanza chiede la restituzione del materiale sequestrato nelle perquisizioni disposte dai pm di Roma. Una questione aperta è quella della competenza, perché Davigo ha confermato che i documenti secretati gli sono stati consegnati da Storari a Milano e non a Roma, dunque la procura di Brescia che si occupa dei magistrati milanesi potrebbe reclamare l'inchiesta. Ma mentre quest'ultima procede per rivelazione di segreto, per ora senza indagati, i pm romani contestano il reato più grave di calunnia (nei riguardi in particolare del consigliere del Csm Sebastiano Ardita, ex amico di Davigo con il quale ha poi rotto i ponti) e questo potrebbe mantenere il fascicolo nella Capitale. Intanto il Csm decide di costituirsi come parte offesa nei procedimenti pendenti davanti a varie procure sul caso, dopo la richiesta al comitato di presidenza del gruppo dei togati di Magistratura Indipendente. Si chiederanno informazioni alle autorità giudiziarie, attraverso l'Avvocatura dello Stato, per valutare il coinvolgimento di magistrati nella presunta loggia. C'è una strana atmosfera a Palazzo de' Marescialli, investito dopo il caso Palamara da questa seconda bufera. Non si parla d'altro, ma ufficialmente si tace. Davigo avrebbe detto di aver informato Ermini degli attriti nella procura di Milano e che questi avrebbe avuto dal Colle indicazioni perché non si procedesse per via formale, con un esposto al Csm. Se sia vera questa ricostruzione è tutto da chiarire. Davigo ha parlato in tv, con Formigli a Piazza Pulita: «Se temo di essere indagato? Assolutamente no». Poi aggiunge: La via formale più semplice era rivolgersi al procuratore generale ma la sede era vacante. Qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda». Qui interviene Sebastiano Ardita, consigliere del Csm. È un attacco frontale al suo ex amico: «Quello che dice è gravissimo».

Davigo, così la vecchia volpe di Mani Pulite si difende dalle accuse: mai avuto i verbali e comunque…Paolo Lami il venerdì 7 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Non erano verbali, erano copie Word di atti di supporto alla memoria. Io gli atti originali non li ho mai visti”: si difende così, intervistato dalla trasmissione Piazza Pulita, l’ex-pm ed ex-componente del Csm, Piercamillo Davigo, parlando dei verbali dell’ex-consulente legale dell’Eni, l’avvocato Pietro Amara, che gli sarebbero stati consegnati, dal sostituto procuratore di Milano, Paolo Storari, ora indagato, non a Roma come si pensava. Ma a Milano. E questo rimette in discussione anche la competenza territoriale che si dovrebbe, a questo punto, spostare su Brescia. Davigo ieri è stato ascoltato come persona informata sui fatti dalla Procura di Roma, uno dei quattro uffici giudiziari, assieme a Milano, Perugia e Brescia, che stanno indagando sulla vicenda. E, in serata, l’ex-pm di Mani Pulite ha risposto, appunto, alle domande di Corrado Formigli.

Davigo è una vecchia volpe. E dalla sua ricostruzione si capisce che si è mosso con estrema cautela badando bene a come e dove mettere i piedi. Storari “mi ha segnalato una situazione critica – ha spiegato Davigo a Formigli. – E mi ha dato materiale necessario per farne una opinione dopo essersi accertato che fosse lecito. Io ho spiegato che il segreto investigativo, per espressa circolare del Consiglio superiore, non è opponibile al Consiglio superiore”. “Qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda – chiarisce Davigo giustificando così il fatto di essersi mosso in maniera informale. – E, quindi c’era la necessità di informare i componenti del Comitato di presidenza, perché questo dicono le circolari, in maniera diretta e sicura”. Quanto al fatto che la Procura di Milano, guidata dal suo ex-amico ed ex-collega di Mani Pulite, Francesco Greco, non avesse fatto partire gli accertamenti, Davigo dice: “Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione”. E aggiunge: “Non si possono fare atti di indagine se non si fa l’iscrizione. Quelle cose richiedevano indagini tempestive”. Per Davigo sul caso “bisognava fare le indagini tempestivamente. Nel caso di specie non si potevano seguire le vie formali, la via formale più semplice era rivolgersi al procuratore generale. Il problema è che il procuratore generale non c’era, la sede era vacante”. Detto questo, Davigo sta molto attento a non farsi trascinare nella polemica contro Francesco Greco e se il suo ex-collega ha sbagliato a non fare l’iscrizione sul registro degli indagati. “Non compete a me dare valutazioni del genere”, taglia corto l’ex-componente del Csm. “Il problema è che quando uno ha delle dichiarazioni che riguardano persone che occupano posti istituzionali importanti… se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo. – sottolinea Davigo ragionando su come avrebbe proceduto lui. – Quindi in un caso e nell’altro bisogna fare le indagini tempestivamente per vedere se sono vere o se non lo sono. Per fare le indagini bisogna iscrivere e bisogna aprire un procedimento, non si possono tenere per mesi le cose ferme”. Altro aspetto è quello che riguarda il fatto che Davigo ha informato l’ex-vicepresidente del Csm, il renziano David Ermini il quale, a sua volta, ha parlato della vicenda con Mattarella che del Csm è il presidente. Ma qui Davigo si è chiuso a riccio. E ha detto di non volersi esprimere su una sua eventuale informazione del caso al presidente della Repubblica. E la scena muta di Mattarella che non affronta la questione pubblicamente non fa che ingenerare ulteriori sospetti anziché allontanarli. Quello che si sa è che Mattarella ha ringraziato Davigo per il tramite di Ermini. A Piazza Pulita, naturalmente, si arriva anche a parlare dell’ex segretaria di Davigo che avrebbe fatto pervenire copie dei documenti di Amara ai giornalisti di Repubblica e del Fatto Quotidiano. L’ex pm ha detto di potere “solo dire che, nel caso sia stata lei, mi ha sorpreso non poco, perché l’ho sempre considerata una persona totalmente affidabile”. Ed “è ovvio” che l‘ex-segretaria non l’abbia fatto su sua spinta. “Che senso avrebbe avuto mantenere tutte le cautele per tenere segrete le indagini per poi diffonderle?”. La ricostruzione di Davigo non “convince per niente” Alfredo Robledo, ex-procuratore aggiunto di Milano, intervenuto, anche lui, a Piazza Pulita: “Piercamillo Davigo ha sempre avuto qualche soprannome, naturalmente in modo scherzoso, come Piercavillo, a me stasera sembra di poterlo chiamare Pieranguillo, perché sfugge ai problemi veri. Non è vero affatto che se avesse seguito le linee formali avrebbe disvelato” il caso. Davigo, aggiunge Robledo, “avrebbe dovuto consigliare” al pm Paolo Storari “di non dargli i documenti ma di andare all’ufficio di presidenza del Csm”. Invece, osserva Robledo, facendo come ha fatto, Davigo a fatto da “divulgatore”. Ma, aggiunge, “mi meraviglio anche che lui abbia avuto tutta questa preoccupazione, perché obiettivamente, per chi ha un po’ di mestiere”, l’avvocato Piero Amara “è un avvelenatore di pozzi”. E la vicenda della loggia Ungheria? “E’ ridicola, è una farsa. Qui c’è semplicemente un faccendiere che cerca di recuperare ricatti e denunce per trarne un profitto personale”, sintetizza Robledo. Che coglie l’occasione per togliersi un sassolino dalla scarpa rinvangando la vecchia ruggine che c’è fra lui e l’ex-boss di Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra della magistratura, Bruti Liberati: “Che il problema sia la Procura di Milano è pacifico. Direi che Greco è il continuatore esatto di Bruti Liberati in tutto e per tutto”. 

Toghe promosse e bocciate: le pagelle del dossier Amara. Luca Fazzo il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Di Matteo ha scoperchiato il caso che Davigo aveva "gestito" in altro modo. Greco non ne sta uscendo bene. Arrivato al decimo giorno senza accennare a placarsi, il ciclone che ha investito la magistratura intorno ai verbali dell'avvocato Pietro Amara e alle sue inquietanti rivelazioni sulla presunta «Loggia Ungheria» consente di tirare un primo bilancio sulle performance dei principali protagonisti.

ANTONINO DI MATTEO. Il pm antimafia di Palermo, entrato nel Csm come seguace di Piercamillo Davigo e della sua neonata corrente, se ne smarca per tempo. Il 28 aprile è lui, rivelando al plenum del Csm di avere ricevuto in busta anonima copia dei verbali, a portare alla luce per la prima volta il gigantesco pasticcio. VOTO 7,5

PIERCAMILLO DAVIGO. Ne fa di tutti i colori: accetta di incontrare il pm milanese Paolo Storari, che evidentemente si fida di lui, accetta di ricevere le brutte copie dei verbali segretati, ma appena possibile scarica il giovane collega. Lascia i verbali da qualche parte dove la sua segretaria può farne copia. E quando salta fuori la vicenda dice che i verbali lui poteva riceverli. Per strada e in copia non firmata? VOTO 4

PAOLO STORARI. Solo una sorta di raptus può spiegare la mossa di portare i verbali a Davigo, commettendo un reato e un illecito che potrebbero costargli la carriera. Ma il movente è limpido: Storari si indigna perché vede che l'indagine sui verbali di Amara viene tenuta a mollo dai suoi capi, e non vede altra strada per sbloccare la situazione. È brutto dirlo, ma ha funzionato. VOTO 7

FRANCESCO GRECO. «Sono rattristato»: il capo della Procura di Milano confida così il suo stato d'animo dopo quattro giorni di tempesta sul suo ufficio. Dopo 44 anni di carriera, non era questa la conclusione che aveva sognato: comunque vada, a novembre lascerà una procura divisa al suo interno e con una immagine esterna devastata. Prima o poi forse spiegherà i motivi del lungo sonno dell'indagine su Amara. Per ora l'unica attenuante che gli va riconosciuta è avere cercato di evitare che i veleni del «pentito» investissero persone per bene. Ma allora ci voleva più polso. VOTO 6-

SEBASTIANO ARDITA. Anche lui, come Di Matteo, entra al Consiglio superiore nella corrente di Davigo: ma ancora prima del collega palermitano entra in rotta di collisione con il leader. I due si tolgono il saluto quando il caso Palamara investe il Csm. E quando entrambi vengono interrogati nel processo contro Palamara, Ardita smentisce platealmente Davigo: anche lui, dice, sapeva che il pm romano Stefano Fava intendeva presentare l'esposto al Csm contro il procuratore Pignatone. Va a finire che casualmente nei suoi verbali Amara se la prende anche con lui, indicandolo come iscritto alla «Ungheria». Ma è così inverosimile che non ci crede nessuno. VOTO 7

FABIO DE PASQUALE. È il convitato di pietra di questa vicenda: è lui a condurre il processo Eni, è lui a ricevere i verbali di Amara che infangano il giudice che lo sta celebrando, è lui a cercare invano di farli entrare nel processo. Da lì inizia l'ira funesta di Storari. Ma De Pasquale ottiene che Greco lo difenda pubblicamente, quando l'assoluzione degli imputati lo fa finire nel mirino delle critiche. E adesso che volano gli stracci, se ne sta saggiamente defilato. VOTO 8

PIETRO AMARA. Un fuoriclasse: scoperto a corrompere giudici e a pilotare sentenze, riesce a non finire in carcere trasformandosi in gola profonda. Sparge veleni con oculatezza, secondo un disegno che solo lui conosce. Ma che gli riesce in pieno. VOTO 10

Quell'inchiesta su Amara persa nella nebbia di Milano. A Roma volevano arrestarlo. Luca Fazzo il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Quattro anni di indagini per partorire un topolino e parcheggiarlo in frigorifero. Milano. Quattro anni di indagini per partorire un topolino e parcheggiarlo in frigorifero. Adesso che saltano fuori le carte, si può dire che è stata questa l'indagine condotta dalla Procura di Milano intorno alle rivelazioni di Pietro Amara, l'avvocato siciliano che ha parlato - insieme a molte altre cose - della fantomatica «Loggia Ungheria». A quattro anni dall'apertura del fascicolo e a un anno e mezzo dagli interrogatori di Amara, i termini di durata delle indagini preliminari sono ormai scaduti, non c'è traccia né di richiesta di archiviazione né di rinvio a giudizio. E ad Amara anziché l'accusa di calunnia viene contestato l'assai più blando reato di «induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria», pena dai due anni in su. Il fascicolo porta il numero 12333 del 2017 ed è assegnato al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari. È in questo fascicolo che approdano le dichiarazioni che Amara rilascia ai due pm nel corso di quattro interrogatori resi tra il 18 novembre e il 16 dicembre del 2019. Il terzo verbale, 6 dicembre, è quello in cui si snocciolano i nomi dei soci di «Ungheria». Ma poi che cosa succede? La Procura chiede per due volte la proroga delle indagini preliminari per «la complessità della vicenda processuale per la quale sono necessari collegamenti investigativi con numerose attività estere». L'ultima volta lo fa l'8 luglio scorso, rivolgendosi al giudice preliminare Anna Magelli. Termine ultimo di indagini, l'11 febbraio 2021. Da quel documento, si apprende chi sono gli indagati: ci sono tre indagati del circuito di Amara, accusati di avere fatto la cresta sulle tangenti Eni; un altro collaboratore di Amara, indagato per reimpiego di capitali illeciti; e lo stesso Amara, per quella accusa di induzione a mentire di cui si è detto. Nient'altro. La domanda cui ora andrebbe trovata risposta è: passati oltre due mesi dalla fine delle indagini preliminari, che fine ha fatto il fascicolo bollente che porta il numero 12333? Non risulta che siano stati fatti degli stralci con nuovi indagati. E nemmeno risulta che sia stato tolto a Storari, il pm che si è ribellato a quello che viveva come un tentativo di insabbiamento. Eppure, visto il putiferio che si è scatenato intorno al fascicolo, qualche notizia sarebbe importante averla. Anche perché così la Procura generale di Milano potrebbe decidere se sia il caso di avocare l'inchiesta, sottraendola ai torpori e alle polemiche. Invece il silenzio. Eppure il fascicolo era arrivato a Milano con tutte le premesse per diventare un caso eclatante. Si tratta infatti dell'inchiesta che il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, sottrae nel marzo 2019 al pm Stefano Fava, che aveva già individuato in Amara un diffusore di calunnie, avanzando la richiesta di spedirlo in carcere. Pignatone blocca tutto, prende il fascicolo e lo trasmette per competenza alla Procura milanese. E qui, sei mesi dopo, quell'Amara che per Fava era un diffusore di veleni viene interrogato e messo in condizione di spargere ulteriori, inquietanti messaggi. L'inchiesta di Storari esce allo scoperto solo in un'occasione, quando la Finanza esegue su delega del pm una serie di perquisizioni: ma il bersaglio sono un solo segmento delle dichiarazioni di Amara, quello sul complotto che in ambienti Eni sarebbe stato ordito ai danni del pm milanese Fabio De Pasquale. Per legge, già allora il fascicolo avrebbe dovuto essere spedito a Brescia. Invece la Procura di Milano, chissà perché, se lo tiene. E da lì iniziano i guai.

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 7 maggio 2021.  Per capire come Piero Amara e Vincenzo Armanna si muovessero in coppia per truffare Eni e sfruttare il processo Opl 245 per «far fuori» i vertici del colosso petrolifero, bisogna fare un salto indietro di quasi 7 anni. Si arriva così al luglio 2014, mese in cui ha inizio la valanga arrivata in questi giorni al Csm, dopo il caso dei verbali sulla loggia Ungheria consegnati da Paolo Storari a Piercamillo Davigo. Da maggio 2014 Claudio Descalzi è il nuovo numero uno di San Donato. Tra le sue prime decisioni c' è quella di riconvertire la raffineria di Gela, in Sicilia. Rischia però di rovinare gli affari che Amara porta avanti da anni in quelle zone. Allo stesso tempo Armanna è stato licenziato nel 2013 proprio da Eni. Ha fatto la cresta sui rimborsi spese (180.000 euro) e avrebbe firmato contratti irregolari nel Golfo Persico: a cacciarlo è la gestione Scaroni. Nel frattempo, ai primi di luglio 2014, dopo l' arrivo di un esposto in Procura, partono i primi avvisi di garanzia per la presunta megatangente da 1,1 miliardo di dollari per il giacimento petrolifero nigeriano. A fine mese, il 28 luglio, Amara e Armanna vengono filmati dalla Guardia di finanza nell' ufficio di Enzo Bigotti. Si parla del progetto di acquistare il blocco onshore dell' Eni in Nigeria (Naoc). Sono i giacimenti a terra, difficili da gestire, perché vengono distrutti e sfruttati dalle bande criminali. Amara e Armanna vogliono comprarli, con l' aiuto di un imprenditore nigeriano di nome Kola Karim. L' idea è quella di acquistare i blocchi senza però passare da una gara ufficiale. Ad aiutarli, dentro l' azienda, ci sarebbe il numero 2, Antonio Vella. È difficile però che l' operazione vada in porto. In Nigeria ci sono Ciro Pagano e Roberto Casula, referenti dell' azienda di San Donato. Durante quell' incontro negli uffici di Bigotti, quindi, Amara e Armanna discutono di come sfruttare il processo nigeriano per eliminarli. Il manager lo dice chiaramente all' avvocato siciliano. «[] sono coinvolti sulla 245 e non escluderei che arrivi un avviso di garanzia Mi adopero perché gli arrivi». Caso vuole che due giorni dopo, il 30 luglio, Armanna si rechi in Procura di Milano da Fabio De Pasquale, il titolare dell' inchiesta nigeriana. Così nei giorni seguenti sul registro degli indagati finiranno Descalzi, Scaroni, Casula, Pagano e tutti gli altri. A settembre la notizia è sui giornali. Con l' azienda sotto indagine Amara e Armanna cercano di portare avanti il loro affare su Naoc, ma falliscono. San Donato, infatti, decide comunque di avviare una gara per la cessione del blocco. Spiazzati, i due si rimettono in carreggiata. Nel 2015 Amara contatta Salvatore Carollo, esperto di trading petrolifero. C' è da avviare la Napag dell' amico Francesco Mazzagatti. È un' azienda nata per i succhi di frutta, che presto cambierà il suo business nel commercio di prodotti petroliferi. Napag riesce ad accreditarsi presso Versalis, ma trova resistenze in Eni trading & shipping dove comanda Umberto Vergine. Come si fa a eliminarlo? La tecnica è sempre la stessa. Da un po' di mesi circolano denunce anonime tra le procure di Trani e Siracusa. La prima archivia, la seconda (dove c' è il pm Giancarlo Longo, amico di Amara) apre un' indagine. Anche qui il teste principale, guarda caso, è Armanna. A un certo punto c' è persino il rischio che il processo su Opl 245 finisca in Sicilia. Nei plichi ci sono anche accuse ai consiglieri indipendenti Karina Litvack e a Luigi Zingales, invisi a Massimo Mantovani che, poi si scoprirà, avrebbe scritto di suo pugno quelle accuse. Vergine sarà fatto fuori. Al suo posto arriva Mantovani, permettendo così a Napag di avviare con successo le operazioni con il petrolio iraniano sotto embargo. La dimostrazione è il caso della nave White Moon del 2019. Nasce così il tesoro da 100 milioni di dollari di Amara, Armanna e Mazzagatti a Dubai. A cosa servissero tutti quei soldi non è dato sapere. Mazzagatti in un suo profilo su Facebook aveva detto di lavorare anche con la Nato. Il problema è che Eni aveva denunciato tutto questo già 3 anni fa. Peccato che la Procura non abbia mai deciso di approfondire. Ha continuato invece su Opl 245. Dove sono stati tutti assolti.

Ci vuole il giusto intruglio...Logge e loggette, con il giusto mix ti puoi fottere il Parlamento, il governo, il padreterno. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Ma vi ricordate per quanti anni ci hanno rotto i coglioni con le logge? Erano tutte massoniche, segrete, misto-servizi deviati, logge con accesso mafia (anch’essa deviata, sottomessa a logiche e logge occulte) un po’ di Cia, con mascalzoni al primo sale, tutto fa brodo anzi tutto fa loggia purché sia intrigo, purché faccia il giusto sugo. Ma non un intrigo di quelli nella realtà, come magari in una serie di deposizioni. No, le logge che ci piacciono, quelle brevettate e meravigliose che appaiono e disappaiono o dispariscono, scompaiono a comando se e quando lo dice un determinato aristocratico circolo di giornalismo di finta sinistra. Come dice il vecchio Palamara? Ci vuole il giusto intruglio: un procuratore che sia del giro, due sostituti che abbiano le palle, uno dei servizi coi controcazzi, e un giornalista d’allevamento. Quando hai il giusto mix, ti puoi fottere il Parlamento, il governo, il padreterno, con rispetto della tavola. Ma la condizione è che a garantire il prodotto, siamo noi. Mica adesso uno da fuori può venire e tirare fuori la loggia. O la loggiata. Non è come la costa e la costata. Quando, se e come è loggia, per cominciare, lo diciamo noi. E che abbiamo detto forse qualcosa? Lo diciamo noi quando è loggia. Chi li ha creati i pidduisti? Devi avere la formula. Ci vuole il mix. Lo dico io. Adesso che cos’è questa loggia? È come l’antica canzone: ma cos’è questa crisi? Trallallallallà. Capito? E dài, che se sei furbo lo capisci, no? Non è che siamo nati ieri, vero? No, dico: adesso che è uscita fuori questa loggia, ma come fate a dire loggia se a noi non hanno detto niente? Mo’ siete voi che dite loggia? Mo’ allora, facciamo tutti come cazzo ci pare e diciamo loggia quando lo dite pure voi? E che c’avete il diritto di loggia, mo’? Ma che ci siamo impazziti? Dunque, quale loggia? Non fare il cretino. La loggia Ungheria che racconta questo avvocato, come si chiama? Ma l’abbiamo autorizzato noi? Siamo noi che autorizziamo: no che adesso il primo che passa dice loggia e sposta i quadretti. Qui si tratta dei fondamenti dello Stato di diritto e dello Stato di rovescio: punto a croce e punto a capo. Non è che tu puoi dire la qualsiasi, dico bene dottore? Non lo so: che vuoi dire tu? Guarda che sei tu che hai detto loggia. Io stavo zitto: anzi ho legato l’incartamento per precauzione e ho fatto un file di riserva, per caso mai. Di questi tempi. Come si dice, dottò: fessi, sì, ma proprio fessi-fessi, no. E che cazzo, mi scusi dottoressa. Lui fa: ma dove vai? E io: al cinema. Che vai a vedere? Quo vadis. E che vuol dire? E vuol dire dove vai, no? Non la sai la barzelletta di Quo vadis? Vuol dire dove vai e poi si rovescia la dialettica, questo è Hegel, mica stiamo a Torpignattara. Te l’ho detto dove vado: al cinema. Adesso, ci minacciano pure: ce l’hanno lì, la denuncia con nome e cognome della loggia dal nome volendo anche geografico. Si chiama loggia Ungheria, ma è la piazza ai Parioli o metà impero asburgico? Per ora, zona magiara. Noi optiamo per caffè sulla piazza, perché la gente è lì che va se deve intingere il cornetto. Ma quanto alla composizione, statuto ed elenchi, non lo sappiamo punto e non si sa nulla punto e benché al mattino ci svegliamo prestissimo per frugare nel nostro tablet tra i giornali appena usciti per avere nuove notizie, lo vedi da te che sulla stampa per decenni specializzata nel concetto e nella pratica della loggia virgola (e dico virgola) non troviamo nulla punto, che desolazione. Si parla di quel tizio, Chillo Puniz, Diaz, ut Dez, cum grano salis, pigliate ‘sto rap. Te piace ‘o rap? E allora. Come si chiama quello tatuato che da solo mette in crisi la Rai, occupa i giornali, ha milioni di like e sta incoronato e parente aum-aum di quell’altro che si fa chiamare l’illuminato o l’eletto o l’ assunto in cielo, Grillo Vergine Maria, quello con lo scafandro e quello nobbile: ‘o conte di vattel’amminchia, Puglia piglia e port’accasa. Loggia, dunque. Lo diciamo noi e soltanto noi che siamo autorizzati quando è e quando nunnè loggia. Ci vuole la certificazione energetica e la riconversione ecologica e qua manca di certificazione, ‘sta minchia di loggia dell’Ungheria. Però voglio sapere chi è sto strunzo che ha parlato, mo’ qui scattano le querele, mica cazzi. Noi siamo lo Stato. Siamo di un participio del passato, ma siamo anche participio attivo e presente. Quelli che siamo noi la loggia giusta. Dobbiamo prima confondere e chiarire se Conte sta organizzando il firmamento con sole 5 Stelle o se ha vinto lo scudetto causando involontariamente un’esplosione virale a piazza del Duomo. Cioè veramente molto disordine sotto il nostro cielo. Ma più che altro prevale un oblio accuratissimo, quello di tutti quei colleghi e colleghesse giornalisti e giornaliste che hanno dedicato tutte le loro vite inventate e laboriosissime, accanite e scrupolose alloggiate nel censire le logge. Roba che solo loro hanno il catalogo preciso. Non è che adesso te ne esci coll’Ungheria e ti dobbiamo pure fare spazio. Perché noi di Potere Assoluto facimmo tacitare i giornali, li insufflettiamo col conte Diaz col collo a tacchino tatuato, che prima dava del culattone a tutti, Maronna che genio che è, È lui mo’ che detta la linea. U’ grillo fa video, ma si schiatta colla storia di quello figlio suo che s’è messo inguaiato a giocapisello, qua siamo rovinati tutti, dobbiamo parlare di più di diritti civili, ci siamo capiti? O no? Diciamo noi chi fa minoranza e ha i diritti, vedi che poi ti mando una mail con la nuova etica, va applicata anche ai bambini e quella la mettiamo in goppa a tutta la carta stampata. Voi fate il comunicato, siamo indignati, siamo moralissimi, siamo tutto noi e non c’è spazio per nessuno. Hai capito Pasquale? Hai parlato col dottore? Il consigliere? Sei andato all’Ungheria? Attento che mo’ stiamo un fiantìn sputtanati, ma come si dice: chinati junco, che passa la china. Passa la fiumana della torrenta che prende tutto e se ne va. E tutto torna come prima. Mo’ fanno sto casino e se credono che ci fanno paura, ma noi siamo stati lo Stato e quel che sia stato lo diciamo noi, e se non c’è diritto di loggia è questione nostra. Ricordiamoci: siamo una casa di vetro sporco, ma è casa di tutti noi. Voi, chiudete la porta, chiudete gli spifferi, parlate d’altro, fate casino, guardate il rap. Guardate là che si vede Milano co’ la gente fori che fa virus e fa notizia, guardate altrove, fate passate la buriana, in caso di fuga sapete come funziona la maschera. E adesso passo e chiudo. Over, e salutame a chi sai.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Da liberoquotidiano.it il 7 maggio 2021. Si parla della Loggia Ungheria da Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7 ed Emiliano Fittipaldi parla della questione di Giuseppe Conte: "Ci sono cinque righe su Conte" nei verbali di Piero Amara. "Ma Amara dice un'altra cosa, probabilmente indimostrabile e falsa", dice il giornalista. "Lui ha avuto una richiesta da parte di Michele Vietti ex vicepresidente del Csm, di raccomandare alcuni nomi tra cui Conte per il concordato di Acqua Marcia così questo concordato sarebbe passato più facilmente", prosegue Fittipaldi. "Lì c'è la possibile calunnia. Non che effettivamente Conte queste consulenze le ha avute. Ho trovato le fatture di Conte, probabilmente del tutto legittime, ho trovato quindi altre fatture e altre consulenze da un imprenditore pugliese che ha beneficiato di quel concordato perché ha ottenuto un famoso albergo di Venezia. E per questa operazione", sottolinea Fittipaldi, "Conte ha lavorato con una persona che era stato condannato a 17 anni per bancarotta fraudolenta". A quel punto Corrado Formigli precisa che non si tratta di reati. Quindi Fittipaldi conferma ma osserva: "Possono essere calunnie ma di tutti i presidenti del Consiglio sappiamo tutto, cosa hanno fatto, cosa hanno detto, con chi hanno lavorato. Perché di Conte non è interessante sapere che da avvocato ha lavorato a stretto contatto con dei pregiudicati? Si racconta come avvocato del popolo, è legittimo. Il Movimento 5 stelle dice che lavorano solo con i migliori", conclude il giornalista. "E Conte è stato un avvocato di sistema". Stando al suo racconto, Amara avrebbe fatto ottenere all’ex presidente del Consiglio - tra il 2012 e il 2013 - consulenze dal gruppo Acqua Marcia Spa per circa 400mila euro. Il quotidiano Domani, in un articolo a firma del vicedirettore Fittipaldi, appunto, ha pubblicato nei giorni scorsi il verbale con le accuse a Conte. L'avvocato siciliano ha raccontato di una presunta “segnalazione” che avrebbe permesso a Conte di ricevere contratti e conferimenti di incarico per circa 400mila euro, non tutti incassati. Il leader dei 5 Stelle però accusa Amara di calunnia, confermando di aver lavorato per il gruppo Caltagirone ma respingendo qualsiasi ipotesi riguardo un conflitto di interessi e la raccomandazione.

LA STAGIONE DEI VELENI DELLA MAGISTRATURA ITALIANA. Il Corriere del Giorno l'8 Maggio 2021. Ieri sera in tv a Piazza Pulita su La7 quattro magistrati Ardita, Davigo, Palamara e Robledo si prendono a pesci in faccia. Una magistratura in crisi, veleni, esposti, denunce, scambi di accuse, attacchi fra magistrati neanche troppo nascosti. Ed è solo l’inizio…APiazzaPulita su La7, è andato in onda l’ennesimo atto di una squallida guerra interna alla magistratura che di mese in mese si allarga con nuovi protagonisti. L’ennesima dimostrazione che c’è una magistratura in crisi, veleni, esposti, denunce, scambi di accuse, attacchi neanche troppo nascosti. Una crisi che a tratti sembra irrisolvibile con un potere dello stato, quello delle toghe, in una crisi che di ora in ora sembra sempre più irreversibile. I magistrati presenti in trasmissione o nominati son o quattro. Il primo è Piercamillo Davigo in passato pm del pool Mani Pulite della procura di Milano, fino a pochi mesi fa consigliere del Csm. Il secondo è Paolo Storari, sostituto procuratore di Milano, che si rivolge a Davigo consegnandogli degli atti giudiziari coperti da segreto istruttori, che contenevano delle dichiarazioni (o farneticazioni?) dell’avvocato Piero Amara che è stato consulente esterno dell’Eni, il cui nome è legato anche al “caso Palamara” e al “sistema Siracusa” . Amara ha dei patteggiamenti alle spalle, privo di alcuna credibilità, ha iniziato a parlare da qualche tempo con le procure. Storari consegna questi atti a Davigo, a suo dire, in “autotutela” questo perché la sua procura non voleva approfondire le dichiarazioni dell’avvocato siciliano. Ma cose sosteneva questo avvocato-facilitatore, che compare sistematicamente nei procedimenti più importanti che riguardano magistratura e politica? L’esistenza di una loggia, definita Ungheria, della quale farebbero parte alti magistrati e uomini delle istituzioni. Tra i quali Sebastiano Ardita – il quale ha telefonato alla trasmissione per controbattere all’intervista del Davigo. L’ex-consigliere del CSM attualmente in pensione, ha infatti riaffermato che dopo aver ricevuto questi verbali dal pm milanese Storari, sostenendo di non aver rispettato le vie formali soltanto perché “non si poteva”. Affermazione questa secondo Ardita, del tutto falsa e contraria al vero. Fra i magistrati ospiti della trasmissione anche Luca Palamara, l’ex-magistrato radiato dal CSM, protagonista dell’inchiesta sulle nomine nella magistratura, e l’ex- procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, ma ad un certo punto fra questi i due è avvenuto uno scambio di battute leggermente acceso. Questi alcuni passaggi delle rispettive affermazioni polemiche.

Intervista a Davigo: “Non era possibile agire per vie formali”. Viene trasmessa in onda un’intervista del giornalista Salvatore Gulisano a Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, il quale si sofferma a parlare sulla vicenda dei verbali e, nonostante le solite banali affermazioni di comodo come “di questo preferisco non parlare” e “non si poteva agire per vie formali” ha dato la sua versione dei fatti: Il giornalista Gulisano gli domanda se non si senta sul banco degli imputati. Davigo risponde: “Sono assolutamente abituato. Quando mi occupavo dell’indagine cosiddetta Mani Pulite venivo denunciato una volta a settimana. Ero arrivato ad avere 36 procedimenti a mio carico aperti in simultanea davanti alla procura di Brescia, quindi non mi fa nessuna impressione”. Quando l’intervistatore gli chiede dei verbali. Davigo risponde: “non erano verbali, erano copie Word di atti per supporto alla memoria. Io gli atti originali non li ho mai visti. Storari mi ha segnalato una situazione critica e mi ha dato gli il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io ho già spiegato che il segreto investigativo non è opponibile al Csm”. aggiungendo “…. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione (…) quelle cose (cioè le dichiarazioni di Piero Amara, ndr) richiedevano indagini tempestive”. E su Amara dice: “Mai incontrato, non ho idea”. sostenendo “quale che sia l’ipotesi bisognava investigare”. Poi Davigo parla della sua procedura inusuale utilizzata in relazione agli atti. alla domanda perché non siano state seguite le vie formali, risponde: “Nel caso di specie non si potevano seguire le vie formali. La via più semplice sarebbe stata rivolgersi al procuratore generale (di Milano, ndr) ma la sede era vacante.  Seguire vie formali avrebbe portato al disvelamento di tutta la vicenda. (…) C’era necessità di informare il comitato di precedenza in maniera diretta e sicura”. Il giornalista gli chiede se sapeva se fosse stata informata anche la presidenza della Repubblica. E Davigo risponde: “Di questo preferisco non parlare” e quando gli viene chiesto se avesse parlato della vicenda con qualche suo collega al Csm risponde allo stesso modo: “Preferisco non rispondere” e aggiunge: “Ho fatto cenno a qualcuno per esigenze connesse alle indicazioni che derivavano dai quei fatti. C’era un problema di spiegare per quale ragione io avevo interrotto i rapporti con una persona”. Il riferimento di Davigo è chiaramente al consigliere Sebastiano Ardita, un tempo a lui molto vicino. Ed a domanda specifica del giornalista risponde: “Preferisco non fare nomi. Io posso anche essere convinto che sia estraneo, ma se in un verbale viene accusato di qualcosa, io non glielo posso dire. (…)” dimenticando di non essere più in magistrato e tantomeno un consigliere del CSM. Davigo parlando della sua segretaria Marcella Contrafatto, che è indagata per calunnia per aver inviato quei verbali ai giornali dice: “Posso solo dire che nel caso sia stata lei mi ha sorpreso non poco perché l’avevo sempre considerata una persona affidabile”. Il giornalista di Piazza Pulita a quel punto gli chiede: “Teme di poter essere indagato?” e Davigo risponde: “Assolutamente no”. Sulla sua procedura anomala utilizzata per informare l’ufficio di presidenza del Csm, l’ex-magistrato cerca di auto-assolversi: “Non capisco cosa avrei dovuto fare. Io ho ritenuto che formalizzando avrei fatto guai, ma se mi fosse stato chiesto l’avrei fatto” e conclude l’intervista facendo un riferimento a sè stesso ed a quello che si è sempre detto di lui: “La parola giustizialista non significa un bel niente, ho sempre cercato di fare il mio dovere conformemente alla legge. Ho sempre detto che le regole di questo Paese non sono sempre le più adatte a ricostruire la verità storica”.

Robledo: “La ricostruzione non mi convince”. Davigo? “Pieranguillo”. Dopo l’intervista a Davigo interviene l’ex- procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo. Questi i passaggi salienti del suo intervento: ″(La ricostruzione di Davigo) non mi convince per niente in realtà. Piercamillo Davigo ha sempre avuto qualche soprannome scherzosamente, da Piercavillo ad altri. A me sembra di poterlo chiamare Pieranguillo, perché sfugge ai problemi veri. Non è vero affatto che se avesse seguito le vie formali avrebbe disvelato (gli atti, ndr). (…) La questione era semplicissima (Robledo legge una circolare del Csm, ndr): Davigo avrebbe dovuto consigliare a Storari (io l’ho avuto come uditore, è un ragazzo molto intelligente, preparatissimo, grandissimo lavoratore, un po’ ingenuo): “Caro Storari – è quello che secondo Robledo avrebbe dovuto dire Davigo – non me li dare questi documenti, mettili in una busta, sali un piano (del palazzo del Csm, ndr) e dalli all’ufficio di presidenza. Non avrebbe avuto nessun disvelamento, perché il plico era riservato”. A questo punto Corrado Formigli fa un riferimento alla procura di Milano. E Robledo, che anni fa fu protagonista di un aspro scontro con l’allora suo capo Edmondo Bruti Liberati, risponde: “Che il problema sia la procura di Milano è pacifico, Greco è il continuatore esatto di Bruti Liberati, in tutto e per tutto. (…) (In questa vicenda) Davigo fa il divulgatore, di fatto. Mi meraviglio che abbia avuto tutta questa preoccupazione (leggendo il contenuto dei verbali di Amara, ndr).  Avendo un po’ di mestiere, io sono d’accordo con Massari (giornalista del Fatto Quotidiano a cui questi verbali sono arrivati da un anonimo) che Amara è un avvelenatore di pozzi. Mi lasci dire una roba avventata: la storia della loggia Ungheria è ridicola. La prima volta è tragedia, ma la seconda è una farsa, questa è una farsa. Ma quale Ungheria e Ungheria, per carità. Qui c’è un faccendiere che cerca di trarre un profitto personale”.

Ardita: “Basito da quello che ho sentito. Invito Davigo a un confronto”. Subito dopo l’intervento di Davigo, arriva in studio una telefonata. È Sebastiano Ardita che in sostanza, cosa ha detto: “Al netto di quella che è una bufala clamorosa, davvero una cosa che non si può sentire, sono veramente basito da quello che ho sentito in questa trasmissione. Ho sentito dire che non si potevano seguire le vie formali, è una cosa gravissima. Stiamo parlando di un organo di autogoverno (il Csm, ndr) che svolge un ruolo fondamentale perché la giustizia funzioni in modo regolare e dobbiamo sentirci dire che non si possono seguire vie formali. Davigo riceve delle carte da un collega di Milano, che conosce e che svolge delle indagini in cui compare il nome di un consigliere con cui non si parla, addirittura c’è grave inimicizia (si riferisce a se stesso, poiché ha da tempo troncato i rapporti con Davigo). Lui prende queste carte e ne parla con i vertici (del Csm) che ovviamente nulla possono fare, in assenza di qualunque tipo di interlocuzione formale e in presenza di atti che provengono da un reato, vale a dire rivelazione di segreto per cui è indagato Storari (che domani dovrebbe comparire davanti alla procura di Roma, ndr). Si fa un utilizzo informale di un atto che riguarda una persona con cui c’è grave inimicizia che siede nello stesso organo di autogoverno. È un fatto di gravità inaudita”. Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita, a questo punto gli dice che Davigo ha fatto intendere che quando negli atti ha letto il suo nome si è preoccupato. Questa la risposta di Ardita: “Io non so se ridere o piangere (….) Davigo aveva tutti gli elementi per capire che questa era una bufala. Quindi di cosa doveva preoccuparsi? Questa cosa mi lascia di stucco”. Poi l’invito al confronto: “Sarei molto disponibile a guardarlo negli occhi e a dirgli moltissime cose (,.) visto che lui da quei giorni immotivatamente non mi parla più. (…)”

Palamaravirus: botta e risposta tra l’ex pm romano e Robledo. Alla fine il botta e risposta tra Palamara e Robledo. Quest’ultimo ha coniato un nuovo termine, che però al diretto interessato non piace.

Robledo: “Io penso che l’unico comportamento veramente trasparente, serio, è stato tenuto ancora una volta da Nino Di Matteo, che non ha niente da spartire con il Palamaravirus, come lo chiamo io”. 

Palamara: “Io parlerei di virus senza Palamara, visto che c’erano tutti. Diciamola tutta, forse è meglio parlare del virus delle correnti”.

Robledo: “Il Palamaravirus è stata un’infezione della magistratura. E devo correggere l’espressione che ha usato Palamara. ‘Così fan tutti’, mica vero, io non l’ho fatto così come tanti altri. Lo fanno tanti, non tutti”.

Palamara: “Ma io l’ho detto”.

Robledo: “No, non l’ha detto. Vada a raccontarle a un altro, le racconti a un altro. Il mediatore, il mediatore dell’accidente, andiamo avanti”.

Palamara: “Sa che non posso entrare nella vicenda che la riguarda”

Dopo questo diverbio fra Palamara e Robledo si torna a parlare di Amara e dopo pochi minuti la trasmissione cambia argomento. Sul teatrino della malagiustizia per il momento cala il sipario. Ma è solo la prima parte di questo scandalo.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” l'8 maggio 2021. Sfidarsi in un dibattito televisivo all'ultimo sangue. Come Burt Lancaster e Kirk Douglas. Come Salvini e Fedez. Ma tra giudici. Di più: tra due alti magistrati che sono stati amici, fondatori di una corrente, eletti insieme al Csm, vicini di stanza, coautori di libri-manifesto. Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, protagonisti del caso che sta destabilizzando il terzo potere, dopo un anno e mezzo da estranei nel Csm, l'altra sera si sono scazzottati a distanza sul ring tv di Piazzapulita. Dandosi appuntamento a un'alba televisiva da western, quando «ne resterà solo uno». Sullo sfondo della fantomatica loggia segreta Ungheria, lo spettacolo, persi i freni inibitori e corporativi, è stato notevole. Prima l'intervista in video registrata da Davigo nella sua casa di Milano. Poi, mentre in studio commentavano gli ex magistrati Luca Palamara e Alfredo Robledo (spumeggiante con i neologismi Palamaravirus e Pieranguilla su Davigo), ecco l'epifania telefonica di Ardita. Dopo un breve stacco pubblicitario per aumentare lasuspense, il consigliere del Csm accusato nei verbali dell'avvocato Amara di essere uno dei «magiari», come a Roma vengono già sbeffeggiati i presunti affiliati alla loggia, si sfoga contro «il dottor Davigo». Dicendosi «basito dalle sua affermazioni gravissime» e accusandolo di aver veicolato «atti giudiziari provenienti da reato» contro una persona, Ardita stesso, «verso cui nutriva grave inimicizia». Ciò «ben sapendo» che la loggia era «una bufala», perché i passaggi su Ardita sono pieni di elementi falsi e «facilmente verificabili», non ultimo il paradosso per cui Ungheria sarebbe «una conventicola di garantisti» mentre Ardita ha scritto nel 2017 un libro orgogliosamente intitolato «Giustizialisti», pubblicato - ça va sans dire - da PaperFirst, casa editrice del Fatto Quotidiano, con la prefazione di Marco Travaglio. Coautore proprio Piercamillo Davigo. Altra epoca, in cui i due magistrati, uscendo da Magistratura Indipendente, fondavano la corsara Autonomia&Indipendenza, per scardinare il sistema correntizio. Nel 2018 furono eletti al Csm e occuparono nell'ala nobile due uffici adiacenti, separati dal cosiddetto e invidiato «salottino», su cui affacciava anche la stanza delle due segretarie. Quella di Davigo, devota al punto da piangere nel giorno in cui lui fu cacciato dal Csm, ora è indagata a Roma come «corvo» dei verbali segreti. Il rapporto tra Davigo e Ardita si incrinò dopo l'uscita delle intercettazioni di Palamara e si ruppe sulla scelta del procuratore di Roma. Ciascuno ha molte cose da dire all'altro e sull'altro. Motivo per cui Ardita, chiudendo la telefonata, lo sfida «a vedersi per un confronto», così «ce le diciamo tutte guardandoci negli occhi». Davigo non ha assistito alla telefonata di Ardita in diretta. Era quasi mezzanotte. Ieri mattina gliel'hanno segnalata via messaggio. Ma non ha potuto guardare subito la trasmissione sul web, perché aveva in casa l'idraulico. «In ogni caso - dice prima ancora di averlo congedato - accetto il dibattito. Parlerò di quello che accadde dopo l'uscita delle intercettazioni dell'hotel Champagne. Gli ricorderò che per due volte mi disse che voleva dimettersi dal Csm. E gli ripeterò la domanda che gli feci quando lo presi in disparte: c'è qualcosa che non so?». Nel frattempo procede l'inchiesta su fughe di notizie e dossieraggi. In attesa, oggi, dell'interrogatorio del pm milanese Paolo Storari, indagato per aver consegnato i verbali a Davigo, ieri a sorpresa il procuratore di Milano Francesco Greco s' è presentato dal collega di Roma, Michele Prestipino. Greco, che si è fermato un'ora (ma non si è trattato di un interrogatorio), è considerato parte offesa perché il «corvo», nelle lettere anonime, lo accusa di aver insabbiato l'indagine sulla loggia Ungheria. Anche il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (ex M5S) è andato in Procura per raccontare di essere stato informato della vicenda dallo stesso Davigo, rallegrandosi del fatto che «Ardita sia uscito bene da questa vicenda».

Fiorenza Sarzanini e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2021. La guerra tra magistrati milanesi sulla gestione dell'inchiesta sulla loggia «Ungheria» va in scena in Procura a Roma. Alla vigilia dell'interrogatorio del pubblico ministero Paolo Storari, indagato per rivelazione di segreto, il suo capo, il procuratore Francesco Greco, consegna agli inquirenti romani la relazione che ricostruisce le tappe degli interrogatori dell'avvocato Piero Amara da dicembre 2019. E accusa proprio Storari di aver commesso un grave reato foriero di un duplice obiettivo: danneggiare gli accertamenti oppure rendere noti i nomi dei personaggi pubblici che Amara accusava di essere componenti della congregazione massonica. Tesi che Storari respinge, sostenendo che la stasi investigativa dei capi avrebbe in realtà danneggiato proprio lui: il quale, sia prima dell'iscrizione di Amara solo a maggio 2020, sia dopo e fino al passaggio di competenza a Perugia, sarebbe riuscito (nell' impossibilità di svolgere alcun incisivo atto di indagine richiedente il via libera dei vertici) unicamente ad ascoltare in estate una quindicina di testi da solo (salvo tre casi in presenza anche di Pedio). Mentre Perugia ora punta a verificare se esista davvero «Ungheria» e soprattutto se abbia pilotato nomine e affari, tra Milano e Roma si consuma la resa dei conti tra i pm che dal 6 dicembre 2019 interrogavano il legale già condannato altrove per episodi di corruzione di giudici. Amara prospettava l'esistenza di un gruppo di politici, giudici, avvocati, vertici di forze dell'ordine e imprenditori che avrebbe condizionato poteri dello Stato e orientato la scelta dei capi di Procure. Storari sostiene di avere sin dal primo interrogatorio espresso l'urgenza di concreti accertamenti per discernere in Amara l'eventuale vero (da coltivare per accertare se integrasse anche qualche reato a carico di qualcuno) dall' eventuale falso (da imputargli come calunnia). E motiva così l'aver deciso nell' aprile 2020 di consegnare all' allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo copia dei verbali pur coperti da segreto. Atti che proprio l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, è ora sospettata di aver mesi dopo spedito a due giornali e al consigliere Csm Nino Di Matteo con una lettera anonima che tacciava i pm milanesi di non voler indagare. Perciò le viene addebitata l'ipotesi di calunnia, di cui sarebbe dunque parte offesa Greco. Che rivendica la scelta della Procura - condivisa dall' aggiunto Laura Pedio titolare del fascicolo con Storari - di aver svolto accertamenti preliminari con prudenza e cautela. Greco rimarca che Storari si rivolse a Davigo «senza presentare un esposto formale», e lo accusa perciò di «grave scorrettezza». La relazione di Greco, tramite il pg milanese Francesca Nanni, è andata al procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare, che ha già avviato un procedimento nei confronti di Storari; e può aprire di fatto la strada a una valutazione di incompatibilità ambientale a Milano. Storari ha abbandonato un mese fa - dopo aver rivelato a Greco di aver veicolato i verbali segreti - tutte le indagini su Amara, compresa quella sui «depistaggi» dei processi Eni. La sua uscita non è l'unico cambio in corsa attorno all' intricato incastro di puzzle giudiziari. A Roma oggi anche Storari, come già Davigo mercoledì, verrà interrogato dal procuratore Michele Prestipino e dal pm Fabrizio Tucci: non dall' aggiunto Paolo Ielo, che prima di mercoledì risulta essersi astenuto dal fascicolo, probabilmente in ragione dei trascorsi professionali e amicali dai tempi di Mani pulite sia con Davigo sia con Greco. Oggi Storari dovrà chiarire anche dove avvenne la consegna dei verbali di Amara. Se ribadirà (come mercoledì già Davigo) di averglieli dati a Milano, entrerà in contrasto con quanto invece attestato dalla relazione inviata in aprile da Greco, secondo cui Storari gli disse di averli consegnati a Roma, salvo poi per Greco forse accennargli qualcosa su Milano. Dettaglio tutt' altro che superfluo per decidere chi sia titolato a indagare tra i pm Roma o di Brescia. Fu infatti fu l'elemento «Roma» a fondare la trasmissione dell'inchiesta da Milano a Roma, divulgata il 29 aprile dal congiunto comunicato di Greco e di Raffaele Cantone (procuratore di Perugia che aveva intanto inviato nella Capitale gli atti sulla segretaria di Davigo al Csm). Sicché oggi i pm romani potrebbero trovarsi di fronte a questa alternativa: un capo di Procura che scrive una cosa non vera con l'effetto di radicare una competenza a Roma anziché a Brescia, o un sostituto procuratore che mette a verbale una cosa non vera con l'effetto di radicare una competenza a Brescia anziché a Roma.

L'interrogatorio al pm milanese a Roma. Loggia Ungheria, la versione di Storari: “Verbali di Amara dati a Davigo per tatto istituzionale”. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Il pm Paolo Storari è stato interrogato a Roma nell’ambito del caso della cosiddetta Loggia Ungheria. Il confronto è durato circa due ore. Storari è il giudice della Procura di Milano che ha consegnato i verbali degli interrogatori di Piero Amara, l’avvocato siciliano che aveva raccontato della presunta organizzazione segreta, una sorta di lobby massonica con dentro magistrati, imprenditori e politici capace di influenzare nomine e affari tra Procure e politica. Storari è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato i verbali, senza timbro, documenti word, all’ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo. Documenti poi trapelati – sospettata e indagata per le spedizioni è l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto – a due giornali, che non hanno pubblicato ma riferito alla Procura, e al consigliere Nino Di Matteo che ha segnalato la vicenda suggerendo un’ipotesi di calunnia. Storari avrebbe consegnato i verbali a Davigo “per tatto istituzionale. Tenuto conto della delicatezza delle dichiarazioni che si ritiene siano oggetto di questa indagine”, ha detto l’avvocato Paolo della Sala, difensore del pm Storari, a margine dell’interrogatorio a Roma. “Riteniamo perfettamente legittimo e conforme a legge quanto accaduto. Tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari”, riporta Lapresse. Il legale ha inoltre aggiunto che il pm “si sente sereno. Il dottor Storari è un magistrato, come ce ne sono moltissimi, la cui luce resta accesa fino a tardi la sera e tutti lo sanno, molto amato all’interno del foro e considerato anche dai colleghi, perché ha sempre saputo lavorare, anche con assoluta apertura, in condivisione con gli altri. Quindi è tutto meno che un soggetto portato all’individualismo”. L’avvocato ha specificato che “risponderemo ogni volta che verremo convocati davanti all’autorità giudiziaria”. Nessuna precisazione sul merito dell’interrogatorio “che è di assoluta pertinenza dell’autorità giudiziaria”. Non è stato quindi riferito un dettaglio al momento rilevante: Davigo nell’interrogatorio ha detto di aver ricevuto i verbali a Milano, Storari aveva invece fatto sapere che Storari consegnò i documenti al “dottor Sottile” a Roma. A seconda della verità la competenza sull’indagine dovrà essere assegnata a Brescia o a Roma. Il pm milanese avrebbe consegnato i verbali a Davigo per “l’inerzia” con la quale la Procura stava trattando il caso. Davigo non ha comunicato formalmente la vicenda al Csm perché ne “avrebbe comportato il disvelamento”. Su questo punto è stato attaccato direttamente da Sebastiano Ardita, ex sodale, collega della corrente Autonomia&Magistratura, prima di una rottura mai sanata e segnalato dai verbali come affiliato alla Loggia. Ardita in diretta alla trasmissione Piazzapulita su La7 ha stigmatizzato il comportamento dell’ex amico, evidenziando la gravità del suo comportamento, e lo ha invitato a un confronto pubblico, anche in televisione. L’ultimo a rivelare di aver saputo dei verbali da Davigo è stato il Presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco si sente parte offesa per il comportamento di Storari e ha respinto le accuse distasi investigativa sulla vicenda. A indagare sulla per il momento presunta loggia Ungheria è la Procura di Perugia.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Valentina Errante Claudia Guasco per "il Messaggero" l'11 maggio 2021. Sarà la procura di Brescia a indagare sulla violazione del segreto d'ufficio che ha portato fuori dal palazzo di Giustizia di Milano i verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Ma anche a stabilire se le preoccupazioni che avrebbero spinto il pm Paolo Storari, al momento unico indagato in questa vicenda, a consegnare gli atti secretati al collega Piercamillo Davigo, fossero fondate e se Davigo, all'epoca componente del Csm, abbia concorso nella violazione. Il procuratore Francesco Prete ripartirà da zero, dal momento che la procura di Roma, con gli interrogatori a Storari e Davigo, si è di fatto limitata a stabilire di chi fosse la competenza territoriale. L'incontro di ieri tra Prete e il procuratore di Roma Michele Prestipino ha così portato alla già annunciata trasmissione del fascicolo, dal momento che la consegna degli atti riservati è avvenuta a Milano. Mentre rimarrà a Roma l'inchiesta per calunnia a carico di Marcella Contrafatto, la segretaria dell'ex pm di Mani pulite, che ha mandato quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo, con una lettera nella quale metteva in evidenza l'inerzia del procuratore di Milano Francesco Greco rispetto a indagini così delicate. Prete riconvocherà sia Storari che Davigo. Il pm milanese, interrogato sabato, ha consegnato a Prestipino le dieci email che, tra gennaio e aprile 2020, aveva inviato a Greco per sollecitarlo ad aprire un fascicolo sulle dichiarazioni di Amara e sulla presunta loggia che vedeva affiliati magistrati ed esponenti delle istituzioni. Ma ha anche aggiunto che lo stesso Davigo, da consigliere del Csm, lo aveva spinto a consegnargli gli atti, qualificandosi «come tecnicamente autorizzato a riceverli». Un passaggio non da poco. Ed è proprio l'eventuale azione persuasiva svolta da Davigo, che potrebbe cambiare la posizione dell'ex pm di Mani pulite, finora teste nel procedimento. Secondo la circolare del 94, alla quale fanno riferimento entrambi i protagonisti di questa vicenda, in caso di problemi interni a un ufficio giudiziario, gli atti riservati, possono essere trasmessi al Csm, in deroga al segreto delle indagini, ma con un esposto formale. Prete potrebbe quindi ipotizzare un concorso nella violazione del segreto d'ufficio nei confronti del magistrato, oramai in pensione, secondo il quale il tatto istituzionale e il timore di un disvelamento delle accuse rivolte da Amara al consigliere del Csm Sebastiano Ardita, avevano impedito di seguire le vie ufficiali. Ma c'è anche un altro passaggio, dopo avere preso quei verbali senza firma, informalmente, in una chiavetta usb, Davigo ha veicolato le informazioni su Ardita, suo ex amico e compagno di corrente, che ha già smentito ogni circostanza, non soltanto ad altri colleghi del Consiglio superiore della magistratura, ma anche con politici, come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, che ha presentato due giorni fa una relazione sui fatti ai pm di Roma. Anche questa finita nel fascicolo che ora è a Brescia. Intanto il procuratore generale di Milano Francesca Nanni, dopo avere ricevuto la relazione di Greco, invierà le proprie osservazioni sul caso al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha già anticipato l'avvio di un'azione disciplinare nei confronti di Storari. Il pm continua a lavorare e si dice tranquillo. Ma è probabile che le conclusioni di Nanni e la stessa relazione di Greco, che il procuratore di Milano ha già consegnato a Salvi, vengano acquisite anche da Prete. Perché le verifiche sono a tutto campo e la procura di Brescia vuole stabilire se l'intera vicenda sia stata generata davvero dall'inerzia denunciata da Storari. Per questo potrebbero essere presto sentiti anche Greco e l'aggiunto Laura Pedio, che coordinava il fascicolo su Amara affidato a Storari.

I VERBALI SULLA FANTOMATICA “LOGGIA UNGHERIA”. PER IL PM STORARI , DAVIGO ERA AUTORIZZATO A RICEVERE I VERBALI (SENZA FIRMA…) Il Corriere del Giorno l'8 Maggio 2021. L’interrogatorio del pm milanese Storari indagato dalla Procura di Roma, costituisce un passaggio importante, poichè è proprio dalla valutazione di tutti gli elementi offerti dall’indagato si deciderà sul versante della rivelazione di segreto anche l’eventuale trasferimento della competenza, dalla procura di piazzale Clodio a Roma, alla procura di Brescia, che si occupa per legge di eventuali reati commessi dai magistrati degli uffici giudiziari di Milano. “Storari non ha provocato assolutamente niente. Quello che è tecnicamente accaduto, è che delle informazioni, perché i verbali non sono che il supporto di informazioni, sono state comunicate ad una persona autorizzata a riceverle. A sua volta questa persona le ha veicolate ad un organo istituzionalmente competente”. è quanto ha sostenuto l’avvocato Paolo Della Sala, difensore del pm di Milano Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, parlando con i giornalisti al termine dell’interrogatorio svoltosi davanti al procuratore capo di Roma Michele Prestipino Giarritta affiancato dai pm Rosalia Affinito e Fabrizio Tucci, durato circa due ore. “Tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti” ha aggiunto l’avvocato Della Sala “tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari. Alla domanda “Perché non ci fu trasmissione formale di quegli atti al Csm?” il difensore di Storari sconfina nel ridicolo: “Per questione di tatto istituzionale direi, data la delicatezza di quelle indagini” dimenticando che esistono delle norme di Legge molto chiare e delineate che non contemplano il “tatto istituzionale”. La difesa di Storari ha dimenticato che circa sette mesi dopo quella consegna “incriminata”, la funzionaria del Csm  Marcella Contrafatto, che era la segretaria di Davigo, secondo la procura romana, sulla base degli accertamenti tecnici della Guardia di Finanza sui tabulati telefonici, si era resa responsabile della diffusione dei verbali secretati di Amara ai colleghi Antonio Massari del Fatto Quotidiano e Liana Milella de La Repubblica e del consigliere Csm Nino Di Matteo, sulla presunta calunnia nei confronti del procuratore capo di Milano Francesco Greco, e del magistrato Sebastiano Ardita attuale consigliere togato del Csm. L’interrogatorio di Storari indagato dalla Procura di Roma, costituisce un passaggio importante, in quanto è proprio dalla valutazione di tutti gli elementi offerti dall’indagato si deciderà sul versante della rivelazione di segreto anche l’eventuale trasferimento della competenza, dalla procura di piazzale Clodio a Roma, città dove operava il “corvo” del Csm, alla Procura di Brescia, che si occupa per legge di eventuali reati commessi dai magistrati degli uffici giudiziari di Milano. Venerdì scorso è stato il procuratore capo di Milano Francesco Greco in persona a incontrare in due differenti tappe, come ha raccontato il quotidiano La Repubblica, sia il procuratore capo di Roma Michele Prestipino Giarritta, che il Procuratore Generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi al quale ha consegnato anche una lunga relazione firmata con il procuratore aggiunto di Milano, Laura Pedio. relazione che di fatto è una vera e propria ricostruzione ancorata a fatti e documenti, secondo quanto trapela, che intende sconfessare in maniera analitica la tesi del pm Storari su presunte inerzie dei vertici milanesi, riguardo alle indagini che in cinque mesi, secondo le accuse di Storari, non erano ancora partite sulla presunta loggia segreta “Ungheria”. Una vera e propria guerra interna alla procura di Milano che ha scatenato una vera e propria catena di presunti abusi e indagini, che oggi sono in gestione di almeno quattro Procure italiane. A complicare ulteriormente la vicenda arriva la rivelazione del senatore Nicola Morra (ex M5S) presidente della commissione parlamentare Antimafia, che in una relazione depositata alla Procura di Roma, ha dichiarato di essere stato informato esattamente un anno fa da Davigo, di quelle dichiarazioni segrete sulla “loggia Ungheria” contenente delle accuse contro il collega Ardita. Incredibilmente, secondo quanto sostenuto da Morra, L’ex consigliere del Csm Davigo, ora in pensione, gli mostrò persino alcuni atti. Sarebbe curioso capire se Davigo era autorizzato a fare anche questo… ! “Ricordo semplicemente che era molto caldo quando incontrai il dottor Davigo, può essere certamente giugno dell’anno scorso, ma non ricordo esattamente il giorno. – sostiene il sen. Morra che ieri ha riferito formalmente alla procura di Roma fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza. “Ci incontrammo nello studio di Davigo al Csm. Davigo mi disse semplicemente che sul dottor Ardita si stava adombrando un sospetto assai grave, e cioè che fosse in qualche modo organico a una loggia massonica segreta, occulta, in base alle dichiarazioni, io ricordo questo poi magari ricordo male, di un collaboratore di giustizia” . “Anche perché avessi memorizzato avvocato Amara, per quanto io sia scherzosamente affetto da Alzheimer, potevo immediatamente associarlo alla vicenda Siracusa, Amara-Calafiore e tutto il resto. – aggiunge Morra – Ma io non ricordo di aver avuto indicato o pronunciato il nome del dichiarante, non ricordo di aver letto eventualmente questo cognome. Se l’ho fatto non ho afferrato, però mi ricordo che si trattava di una procura del Nord che stava vagliando l’attendibilità delle dichiarazioni di questo collaboratore che mi è stato presentato come un collaboratore di giustizia. Ricordo che rimasi basito, esterrefatto dalle dichiarazioni in questione”. Poi Morra ribadisce: ”Non ricordo se ho visto cognomi o meno, perché mi è stata aperta questa cartellina, questo foglio, se non ricordo male un foglio a righe che conteneva questi stampati, e quindi l’attenzione si è soffermata sull’adesione di Sebastiano Ardita alla loggia massonica, cosa che poi puntualmente mi sembra sia stata smentita nei fatti perché le affermazioni di Amara sono state riscontrate in maniera negativa, per cui sono state confutate, e io di questo non posso che essere contento. Anche perché ci tengo a ribadire che io avevo ed ho grande stima nei confronti sia di Davigo che di Ardita, quindi spero che tutto si chiarisca. Poi non so se qualcuno ha operato degli errori, non ho le competenze per poter asserire se è stato alfa o è stata beta, ma io lavoravo affinché il gruppo di Autonomia e Indipendenza recuperasse uno spirito di dialogo interno che li rendesse nuovamente punti di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Morra sottolinea qualcos’altro: “Quando sentii il nome di Ardita associato alla loggia massonica rimasi così, trasecolato, tant’è che poi ho ricordato di essere uscito dallo studio e di aver incrociato lo stesso dottor Ardita che entrava nel suo studio, perché al Csm Ardita e Davigo avevano lo studio uno di fronte all’altro. Insomma, ho visto Ardita e credo di averlo salutato non con la solita familiarità, con la solita affabilità con cui lo salutavo, perché a distanza di pochi minuti ero rimasto proprio così. Poi nel tempo, comunque, c’ho pensato, e siccome non arrivavano ulteriori sviluppi né in un senso né nell’altro, ho inteso comunque partecipare ad eventi con il dottor Ardita, eventi pubblici relativi a questioni antimafia, per esempio la presentazione del suo libro insieme al dottor Gratteri e al dottor Di Matteo a Catania, forse nel luglio del 2020. Poi ho partecipato con lui a webinar e altri incontri online”. Il presidente della commissione Antimafia aggiunge: “Ricordo perfettamente che Davigo mi portò nella tromba delle scale, questo atteggiamento mi insospettì, era quasi a far pensare che non ci si fidasse neanche del luogo in cui ci si trovava perché magari si poteva essere sottoposte a controllo”. Morra così conclude: “Una volta appreso tutto questo, ho riferito al dottor Ardita, perché mi sembrava corretto, e anche al dottor Di Matteo che è stato colui che pubblicamente e denunciato il tutto. Già avevo preso la decisione di riferire alla procura di Roma, ma sono stato anche suggerito in tal senso sia dal dottor Di Matteo che dal dottor Ardita, perché non c’è cosa più pulita che segnalare a chi di dovere’‘. Come si può non essere d’accordo con i colleghi del quotidiano il Riformista quando scrivono: “Del resto ci sono tante cose in questa inchiesta che non sono molto chiare. A partire dal recente interrogatorio, ma solo come testimone, di Piercamillo Davigo, da parte dello stesso Prestipino, che è il procuratore nominato procuratore con il voto decisivo di Davigo ed è stato dichiarato poi illegittimo dal Tar. Prestipino è anche andato al Csm a guidare le perquisizioni, e a una persona normale viene da pensare: ma come mai quando un politico finisce nei guai gli si impone di dimettersi subito, di lasciare il suo ufficio, di accettare la “pre-condanna” e poi, casomai, di riprendere la sua carriera dopo una decina d’anni in caso di assoluzione definitiva, e invece se un organismo ufficiale come il Tar destituisce un magistrato, anzi un Procuratore, lui può continuare tranquillo ad esercitare, basta che faccia ricorso? Nessuno sa rispondere alla domanda di questa persona normale”. Secondo quanto riferito dal Corriere della Sera, Piercamillo Davigo nel maggio 2020, avrebbe consegnato i documenti secretati con le dichiarazioni di Amara sulla “lobby Ungheria” al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. Quindi non si sarebbe trattato, dunque, di una semplice confidenza. Alla richiesta di chiarimenti, Davigo ha risposto: “Quello che ho da dire lo dirò, prima, nelle sedi istituzionali in cui verrò ascoltato”. Peccato che il vicepresidente del Csm David Ermini, nega l’avvenuta consegna dei documenti, limitandosi a dichiarare di avere ricevuto alcune confidenze da parte dell’ex consigliere del Csm, ed avere ad un certo punto compreso che questi potesse essere in possesso di alcune carte. Adesso che cosa farà il Csm? Come mai nessuno ha attivato il procedimento disciplinare pur essendovi una notizia di illecito a quanto pare conosciuta da non poche persone titolate a farlo? “Beh, adesso vedremo” dice al quotidiano Il Giornale una fonte giudiziaria, che ricorda come in un passato recentissimo per un illecito come la mancata iscrizione del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato “la Procura Generale della Cassazione è stata inflessibile nell’azione disciplinare e il Csm particolarmente sicuro nel premere il grilletto della condanna, anche di recente, sui magistrati incorsi nella sfortunata dimenticanza”. Condanne peraltro affidate a un autorevole relatore della sentenza: Piercamillo Davigo.

Da repubblica.it l'8 maggio 2021. Si è concluso, in ufficio diverso dalla sede della Procura di Roma di piazzale Clodio, l'interrogatorio del pm di Milano Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d'ufficio per avere consegnato all'ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali secretati resi dall'avvocato Piero Amara. L'atto istruttorio si è svolto alla presenza del procuratore capo Michele Prestipino e dei sostituti Rosalia Affinito e Fabrizio Tucci. I magistrati questa mattina hanno lasciato gli uffici di Clodio.

La difesa di Storari. "Storari non ha provocato assolutamente niente. Quello che è tecnicamente avvenuto è che delle informazioni, perché i verbali non sono che il supporto di informazioni, sono state comunicate ad una persona autorizzata a riceverle. A sua volta questa persona le ha veicolate ad un organo istituzionalmente competente". Lo ha detto l'avvocato Paolo Della Sala, difensore del pm di Milano Storari, al termine dell'interrogatorio svolto con i magistrati di Roma.

Le rivelazioni di Morra. ''Ricordo semplicemente che era molto caldo quando incontrai il dottor Davigo, può essere certamente giugno dell'anno scorso, ma non ricordo esattamente il giorno. Ci incontrammo nello studio di Davigo al Csm. Davigo mi disse semplicemente che sul dottor Ardita si stava adombrando un sospetto assai grave, e cioè che fosse in qualche modo organico a una loggia massonica segreta, occulta, in base alle dichiarazioni, io ricordo questo poi magari ricordo male, di un collaboratore di giustizia''. A dirlo è il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, che ieri ha riferito formalmente alla procura di Roma fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza. ''Anche perché - aggiunge Morra -, avessi memorizzato avvocato Amara, per quanto io sia scherzosamente affetto da Alzheimer, potevo immediatamente associarlo alla vicenda Siracusa, Amara-Calafiore e tutto il resto. Ma io non ricordo di aver avuto indicato o pronunciato il nome del dichiarante, non ricordo di aver letto eventualmente questo cognome. Se l'ho fatto non ho afferrato, però mi ricordo che si trattava di una procura del Nord che stava vagliando l'attendibilità delle dichiarazioni di questo collaboratore che mi è stato presentato come un collaboratore di giustizia. Ricordo che rimasi basito, esterrefatto dalle dichiarazioni in questione''. Poi Morra ribadisce: ''Non ricordo se ho visto cognomi o meno, perché mi è stata aperta questa cartellina, questo foglio, se non ricordo male un foglio a righe che conteneva questi stampati, e quindi l'attenzione si è soffermata sull'adesione di Sebastiano Ardita alla loggia massonica, cosa che poi puntualmente mi sembra sia stata smentita nei fatti perché le affermazioni di Amara sono state riscontrate in maniera negativa, per cui sono state confutate, e io di questo non posso che essere contento. Anche perché ci tengo a ribadire che io avevo ed ho grande stima nei confronti sia di Davigo che di Ardita, quindi spero che tutto si chiarisca. Poi non so se qualcuno ha operato degli errori, non ho le competenze per poter asserire se è stato alfa o è stata beta, ma io lavoravo affinché il gruppo di Autonomia e Indipendenza recuperasse uno spirito di dialogo interno che li rendesse nuovamente punti di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria''. Morra quindi sottolinea: ''Quando sentii il nome di Ardita associato alla loggia massonica rimasi così, trasecolato, tant'è che poi ho ricordato di essere uscito dallo studio e di aver incrociato lo stesso dottor Ardita che entrava nel suo studio, perché al Csm Ardita e Davigo avevano lo studio uno di fronte all'altro. Insomma, ho visto Ardita e credo di averlo salutato non con la solita familiarità, con la solita affabilità con cui lo salutavo, perché a distanza di pochi minuti ero rimasto proprio così. Poi nel tempo, comunque, c'ho pensato, e siccome non arrivavano ulteriori sviluppi né in un senso né nell'altro, ho inteso comunque partecipare ad eventi con il dottor Ardita, eventi pubblici relativi a questioni antimafia, per esempio la presentazione del suo libro insieme al dottor Gratteri e al dottor Di Matteo a Catania, forse nel luglio del 2020. Poi ho partecipato con lui a webinar e altri incontri online''. Il presidente della commissione Antimafia subito dopo aggiunge: ''Ricordo perfettamente che Davigo mi portò nella tromba delle scale, questo atteggiamento mi insospettì, era quasi a far pensare che non ci si fidasse neanche del luogo in cui ci si trovava perché magari si poteva essere sottoposte a controllo''. Infine, Morra conclude: ''Una volta appreso tutto questo, ho riferito al dottor Ardita, perché mi sembrava corretto, e anche al dottor di Matteo che è stato colui che pubblicamente e denunciato il tutto. Già avevo preso la decisione di riferire alla procura di Roma, ma sono stato anche suggerito in tal senso sia dal dottor Di Matteo che dal dottor Ardita, perché non c'è cosa più pulita che segnalare a chi di dovere''.

Morra: «Incontrai Davigo e mi disse dei sospetti su Ardita». Il Quotidiano del Sud l'8 maggio 2021. “Ricordo semplicemente che era molto caldo quando incontrai il dottor Davigo, può essere certamente giugno dell’anno scorso, ma non ricordo esattamente il giorno. Ci incontrammo nello studio di Davigo al Csm. Davigo mi disse semplicemente che sul dottor Ardita si stava adombrando un sospetto assai grave, e cioè che fosse in qualche modo organico a una loggia massonica segreta, occulta, in base alle dichiarazioni, io ricordo questo poi magari ricordo male, di un collaboratore di giustizia”. A dirlo all’AdnKronos è il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, che ieri ha riferito formalmente alla procura di Roma fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza. “Anche perché – aggiunge Morra -, avessi memorizzato avvocato Amara, per quanto io sia scherzosamente affetto da Alzheimer, potevo immediatamente associarlo alla vicenda Siracusa, Amara-Calafiore e tutto il resto. Ma io non ricordo di aver avuto indicato o pronunciato il nome del dichiarante, non ricordo di aver letto eventualmente questo cognome. Se l’ho fatto non ho afferrato, però mi ricordo che si trattava di una procura del Nord che stava vagliando l’attendibilità delle dichiarazioni di questo collaboratore che mi è stato presentato come un collaboratore di giustizia. Ricordo che rimasi basito, esterrefatto dalle dichiarazioni in questione”. Poi Morra ribadisce: “Non ricordo se ho visto cognomi o meno, perché mi è stata aperta questa cartellina, questo foglio, se non ricordo male un foglio a righe che conteneva questi stampati, e quindi l’attenzione si è soffermata sull’adesione di Sebastiano Ardita alla loggia massonica, cosa che poi puntualmente mi sembra sia stata smentita nei fatti perché le affermazioni di Amara sono state riscontrate in maniera negativa, per cui sono state confutate, e io di questo non posso che essere contento. Anche perché ci tengo a ribadire che io avevo ed ho grande stima nei confronti sia di Davigo che di Ardita, quindi spero che tutto si chiarisca. Poi non so se qualcuno ha operato degli errori, non ho le competenze per poter asserire se è stato alfa o è stata beta, ma io lavoravo affinché il gruppo di Autonomia e Indipendenza recuperasse uno spirito di dialogo interno che li rendesse nuovamente punti di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Morra quindi sottolinea: “Quando sentii il nome di Ardita associato alla loggia massonica rimasi così, trasecolato, tant’è che poi ho ricordato di essere uscito dallo studio e di aver incrociato lo stesso dottor Ardita che entrava nel suo studio, perché al Csm Ardita e Davigo avevano lo studio uno di fronte all’altro. Insomma, ho visto Ardita e credo di averlo salutato non con la solita familiarità, con la solita affabilità con cui lo salutavo, perché a distanza di pochi minuti ero rimasto proprio così. Poi nel tempo, comunque, c’ho pensato, e siccome non arrivavano ulteriori sviluppi né in un senso né nell’altro, ho inteso comunque partecipare ad eventi con il dottor Ardita, eventi pubblici relativi a questioni antimafia, per esempio la presentazione del suo libro insieme al dottor Gratteri e al dottor di Matteo a Catania, forse nel luglio del 2020. Poi ho partecipato con lui a webinar e altri incontri online”. Il presidente della Commissione Antimafia subito dopo aggiunge: ”Ricordo perfettamente che Davigo mi portò nella tromba delle scale, questo atteggiamento mi insospettì, era quasi a far pensare che non ci si fidasse neanche del luogo in cui ci si trovava perché magari si poteva essere sottoposte a controllo”. Infine, Morra conclude: “Una volta appreso tutto questo, ho riferito al dottor Ardita, perché mi sembrava corretto, e anche al dottor di Matteo che è stato colui che pubblicamente e denunciato il tutto. Già avevo preso la decisione di riferire alla procura di Roma, ma sono stato anche suggerito in tal senso sia dal dottor di Matteo che dal dottor Ardita, perché non c’è cosa più pulita che segnalare a chi di dovere”.

Caso verbali, Morra confessa: «Davigo mi parlò di Amara». L'ex pm di Mani Pulite fece "uscire" la questione fuori dal Csm. E spiega la rottura con Ardita in relazione ai verbali. Ma fonti autorevoli smentiscono: «Avvenne prima». Simona Musco su Il Dubbio l'8 maggio 2021. «Sapevo anche io della questione perché informato da Piercamillo Davigo. Sono contento che Sebastiano Ardita sia uscito bene da questa vicenda». Sono parole che potrebbero pesare come macigni quelle pronunciate dal presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Parole che certificano che la vicenda relativa ai famosi verbali di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata Ungheria, non è rimasta circoscritta al Csm, ma è stata portata anche all’esterno, dove forse non era legittimo che andasse. Anche perché attualmente la procura di Roma e quella di Brescia indagano per rivelazione di segreto d’ufficio, reato per il quale i pm capitolini hanno iscritto il pm milanese Paolo Storari, ovvero colui che ha consegnato quei verbali all’ex pm di Mani Pulite. Morra, nei giorni scorsi, «ha, per le vie formali, messo a conoscenza della procura di Roma i fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza». Ma dalla sua dichiarazione ciò che emerge è che fosse consapevole della presenza, in quei verbali, del nome di Ardita, erroneamente indicato come appartenente alla fantomatica loggia “Ungheria”, composta, secondo quanto dichiarato da Amara, da magistrati, membri delle forze dell’ordine, politici e avvocati e in grado di pilotare nomine e funzioni. Ma nei verbali di Amara il ruolo di Ardita sarebbe molto più sfumato: l’ex avvocato, infatti, lo colloca ad un incontro, indicandolo come pm di Catania nel 2006, periodo in cui era già al Dap. Insomma, quanto affermato circa il consigliere del Csm non sarebbe credibile. Ma c’è di più. In quei verbali, infatti, non ci sarebbe solo il nome di Ardita, ma anche di un altro consigliere di Palazzo dei Marescialli, ovvero Marco Mancinetti, all’epoca ancora in carica e dimessosi a settembre scorso a seguito dell’azione disciplinare avviata a suo carico in merito all’affaire Palamara. Davigo parlò con diversi membri del Csm della presenza del nome di Ardita in quei verbali, tacendo, però, su Mancinetti. «Dovevo spiegare perché i rapporti con Ardita si erano interrotti», ha chiarito l’ex pm, che dunque colloca la rottura con il suo ex amico Ardita nell’aprile 2020, quando Storari gli consegnò i verbali di Amara. Ma secondo quanto riferito da fonti accreditate, la rottura, tra i due, risale a prima di marzo 2020 e, quindi, prima che Davigo entrasse in possesso dei verbali. Un nuovo mistero, dunque, nella vicenda che sta terremotando il Csm. Secondo Autonomia&Indipendenza, corrente fondata proprio dai due ex amici, la vicenda rappresenterebbe una sorta di regolamento di conti, al punto da ipotizzare un complotto ai danni di Ardita.

Greco consegna la relazione. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco è stato ricevuto oggi dal procuratore di Roma, Michele Prestipino. Il capo della procura meneghina è infatti parte offesa nell’indagine a carico dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, che nello spedire alla stampa i verbali di Amara avrebbe anche fatto il suo nome. Il procuratore ha intanto consegnato al procuratore generale Francesca Nanni una relazione sulla vicenda Amara. Precisando che non ci fu alcuna inerzia nelle indagini, come invece sostenuto da Storari, che per «autotutelarsi» consegnò a Davigo i verbali. Secondo la versione di Greco, la procura fece accertamenti sulle dichiarazioni di Amara, ma ciò avvenne «con prudenza e cautela». E i primi nomi iscritti nel registro degli indagati – Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore – arrivarono a maggio 2020, cinque mesi dopo il primo verbale, risalente a dicembre 2019. Storari, dal canto suo, avrebbe voluto agire subito e indagare sei persone in modo da acquisire i tabulati e disporre le intercettazioni. Ma c’è di più: secondo Greco sarebbe stato proprio Storari, consegnando quei verbali a Davigo, a danneggiare le indagini. Dopo aver aperto il fascicolo, Greco coinvolse l’aggiunto Maurizio Romanelli, con lo scopo di rinforzare la squadra, già composta da Storari e dalla collega Laura Pedio. Fino a settembre, quando decise di girare tutto a Perugia, cosa che avvenne a gennaio scorso, visto il coinvolgimento di diversi magistrati romani. Fu in quel periodo che Amara venne interrogato dai pm di Milano e Perugia insieme. La “confessione” di Storari arrivò l’8 aprile scorso, quando, indagando sulla fuga di notizie, si rese conto che i verbali recapitati ai giornalisti del Fatto quotidiano – secondo la procura di Roma dall’ex assistente di Davigo, Marcella Contrafatto – erano proprio quelli che aveva consegnato all’ex pm. E così informò Greco di quanto fatto un anno prima. Alla relazione di Greco, che «è più segreta di una indagine», ha affermato Nanni, se ne potrebbe aggiungere ora un’altra sottoscritta da Storari. Documenti che verranno trasmessi anche al pg Salvi, che dovrebbe avviare una istruttoria disciplinare. Ma non solo: Nanni potrebbe anche avocare a sé il fascicolo aperto quattro anni fa sul tentativo di depistare l’inchiesta sulla presunta maxi tangente nigeriana.

La difesa di Davigo in tv. Intanto Davigo si difende. E dà una spiegazione precisa del perché non abbia formalizzato le lamentele del pm Paolo Storari contri i vertici della procura con un atto formale: non mettere in pericolo le indagini. Parole che l’ex pm di Mani Pulite ha riferito giovedì sera a Piazza Pulita, su La7, ribadendo di non aver violato alcuna regola. E rispedendo le accuse al mittente – il Csm – evidenzia come nemmeno David Ermini, numero due dell’organo di autogoverno delle toghe, non abbia avviato alcuna pratica formale per definire la questione secondo le regole di Palazzo dei Marescialli. L’irruzione di Morra nella vicenda, ora, complica le cose. A che titolo è stato informato dei fatti? E soprattutto, cosa sapeva? Davigo, per smarcarsi dall’accusa di aver “rotto” il segreto dell’indagine, spiega che non si trattava di verbali, ma di «copie Word di atti di supporto alla memoria. Io gli atti originali non li ho mai visti». Quei documenti gli sarebbero stati consegnati a Milano, a casa di Storari, su una pen drive che poi a Davigo ha portato a Roma. E pur dicendosi completamente estraneo a quanto avrebbe fatto Contrafatto, spiega di aver lasciato i documenti nella sua disponibilità, qualora fossero stati richiesti dal Comitato di presidenza. La procedura seguita, ribadisce Davigo, sarebbe stata corretta. E ciò per proteggere indagini che, a dire di Storari, il procuratore Greco e la collega Pedio avrebbero tentato di rallentare. Al di là del vincolo di segretezza, ciò che viene contestato a Davigo e Storari è la mancata osservanza di procedure formali, le uniche che avrebbero risparmiato al pm milanese l’indagine e il rischio di trasferimento per incompatibilità ambientale. Dopo essersi confrontato con Storari, Davigo ha ritenuto «incompresibile la mancata iscrizione. Non si possono fare atti di indagine se non si fanno iscrizioni. E quelle cose richiedevano indagini tempestive», ha affermato. Secondo Davigo, «non si potevano seguire le vie formali: la via formale più semplice era rivolgersi al procuratore generale, il problema era che la sede era vacante. Qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda. C’era la necessità di informare i componenti del Comitato di presidenza, perché questo dicono le circolari, in maniera diretta e sicura». Ma sebbene il posto fosse effettivamente vacante, Storari avrebbe comunque potuto rivolgersi al facente funzione, ottenendo comunque lo stesso risultato. L’ex pm ha scelto così la strada dell’informalità, comunicando al Comitato di presidenza del Csm quanto da lui appreso.

Robledo “smentisce” Davigo. Ma la versione di Davigo, secondo Alfredo Robledo, ex procuratore aggiunto di Milano, farebbe acqua da tutte le parti. «Non è vero affatto che se avesse seguito le linee formali avrebbe disvelato» il caso, ha dichiarato a Piazza Pulita. Davigo «avrebbe dovuto consigliare» al pm Paolo Storari «di non dargli i documenti ma di andare all’ufficio di presidenza del Csm». E l’ex aggiunto non nasconde i suoi dubbi sulla credibilità di Amara: «Per chi ha un pò di mestiere è un avvelenatore di pozzi». Mentre la vicenda della loggia Ungheria «è ridicola, è una farsa. Qui c’è semplicemente un faccendiere che cerca di recuperare ricatti e denunce per trarne un profitto personale». In gioco, dunque, ci sarebbe una guerra tutta interna alla procura: «Che il problema sia la Procura di Milano è pacifico, direi che Greco è il continuatore esatto di Bruti Liberati in tutto e per tutto», ha aggiunto.

Ardita: «Bufala clamorosa». Secondo Ardita, anche lui intervistato da La7, quanto contenuto nei verbali di Amara sarebbe «una bufala clamorosa, una cosa che non si può veramente sentire». E non mancano le accuse a Davigo: «Dire che non si possono seguire le vie formali è un’affermazione gravissima – ha sottolineato -. Davigo aveva tutti gli elementi per capire che questa era una bufala, di cosa doveva preoccuparsi? Questa è la cosa che mi lascia assolutamente di stucco». Ardita si è detto «sicuro che il procuratore Greco ha fatto tutto quello che si doveva fare» e ha spiegato di non conoscere l’avvocato Pietro Amara. «Ci ho parlato solo una volta, quando l’ho interrogato nel 2018», ha sottolineato.

Morra invoca una riforma. Morra, intanto, riflette sul ruolo della magistratura. «Recenti vicende afferenti il mondo della magistratura hanno dimostrato quanto vi sia necessità di una profonda, severa, riflessione sull’amministrazione della giustizia nel nostro paese – ha scritto su Facebook -. Ritengo pertanto che la prima riforma necessaria per restituire ai cittadini fiducia nelle istituzioni repubblicane sia, appunto, quella volta a rendere la giustizia efficace e libera, imparziale e celere».

Il caos nella magistratura. Spunta Morra nel caso della loggia Ungheria: “Davigo m’informò, trasecolai al nome di Ardita”. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Spunta anche Nicola Morra, mentre a Roma è in corso l’interrogatorio del giudice Paolo Storari per il caso della Loggia Ungheria e per quel pasticciaccio brutto sulla magistratura del quale non si vede la luce in fondo al tunnel. Il Presidente della Commissione Antimafia ha raccontato ad AdnKronos di essere stato informato dall’ex membro del Csm Piercamillo Davio. In funzione di quale principio non è chiaro. “Ricordo semplicemente che era molto caldo quando incontrai il dottor Davigo, può essere certamente giugno dell’anno scorso, ma non ricordo esattamente il giorno. Ci incontrammo nello studio di Davigo al Csm. Davigo mi disse semplicemente che sul dottor Ardita si stava adombrando un sospetto assai grave, e cioè che fosse in qualche modo organico a una loggia massonica segreta, occulta, in base alle dichiarazioni, io ricordo questo poi magari ricordo male, di un collaboratore di giustizia”. Quel collaboratore era Piero Amara, avvocato siciliano, già condannato per frode giudiziaria, coinvolto nel depistaggio sul processo Eni. Morra ha riferito ieri formalmente alla procura di Roma fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza. ”Anche perché avessi memorizzato avvocato Amara, per quanto io sia scherzosamente affetto da Alzheimer, potevo immediatamente associarlo alla vicenda Siracusa, Amara-Calafiore e tutto il resto. Ma io non ricordo di aver avuto indicato o pronunciato il nome del dichiarante, non ricordo di aver letto eventualmente questo cognome. Se l’ho fatto non ho afferrato, però mi ricordo che si trattava di una procura del Nord che stava vagliando l’attendibilità delle dichiarazioni di questo collaboratore che mi è stato presentato come un collaboratore di giustizia. Ricordo che rimasi basito, esterrefatto dalle dichiarazioni in questione”. Il Senatore duro e puro eletto con il Movimento 5 Stelle ha continuato: “Mi è stata aperta questa cartellina, questo foglio, se non ricordo male un foglio a righe che conteneva questi stampati, e quindi l’attenzione si è soffermata sull’adesione di Sebastiano Ardita alla loggia massonica, cosa che poi puntualmente mi sembra sia stata smentita nei fatti perché le affermazioni di Amara sono state riscontrate in maniera negativa, per cui sono state confutate, e io di questo non posso che essere contento. Anche perché ci tengo a ribadire che io avevo ed ho grande stima nei confronti sia di Davigo che di Ardita, quindi spero che tutto si chiarisca. Poi non so se qualcuno ha operato degli errori, non ho le competenze per poter asserire se è stato alfa o è stata beta, ma io lavoravo affinché il gruppo di Autonomia&Indipendenza recuperasse uno spirito di dialogo interno che li rendesse nuovamente punti di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Sebastiano Ardita è membro del Consiglio Superiore di Magistratura. Ex sodale di Davigo, con lui nella corrente Autonomia&Magistratura, tra i due poi una frattura mai ricomposta. Davigo non ha informato – una volta ricevuti gli atti, lui dice a Milano, da Paolo Storari, il pm che ha fatto trapelare la questione per “l’inerzia” della Procura di Milano e del Procuratore Francesco Greco – formalmente il Consiglio. A suo dire perché avrebbe potuto comportare “il disvelamento” della vicenda. Che puntualmente è avvenuta: i verbali, in formato word, senza firme, sono stati recapitati a due quotidiani – sospettata e indagata per la spedizione l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto. Ardita ha attaccato per il suo comportamento Davigo invitandolo a un confronto anche in televisione. “Quando sentii il nome di Ardita associato alla loggia massonica rimasi così, trasecolato – ha aggiunto Morra – tant’è che poi ho ricordato di essere uscito dallo studio e di aver incrociato lo stesso dottor Ardita che entrava nel suo studio, perché al Csm Ardita e Davigo avevano lo studio uno di fronte all’altro. Insomma, ho visto Ardita e credo di averlo salutato non con la solita familiarità, con la solita affabilità con cui lo salutavo, perché a distanza di pochi minuti ero rimasto proprio così. Poi nel tempo, comunque, c’ho pensato, e siccome non arrivavano ulteriori sviluppi né in un senso né nell’altro, ho inteso comunque partecipare ad eventi con il dottor Ardita, eventi pubblici relativi a questioni antimafia, per esempio la presentazione del suo libro insieme al dottor Gratteri e al dottor di Matteo a Catania, forse nel luglio del 2020. Poi ho partecipato con lui a webinar e altri incontri online”. Il presidente della Commissione Antimafia ha ricostruito l’occasione, dai contorni simili a quelli di una spy-story, nella quale Daviga lo informò: “Ricordo perfettamente che Davigo mi portò nella tromba delle scale, questo atteggiamento mi insospettì, era quasi a far pensare che non ci si fidasse neanche del luogo in cui ci si trovava perché magari si poteva essere sottoposte a controlli – ha aggiunto – una volta appreso tutto questo, ho riferito al dottor Ardita, perché mi sembrava corretto, e anche al dottor di Matteo che è stato colui che pubblicamente e denunciato il tutto. Già avevo preso la decisione di riferire alla procura di Roma, ma sono stato anche suggerito in tal senso sia dal dottor di Matteo che dal dottor Ardita, perché non c’è cosa più pulita che segnalare a chi di dovere”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

PiazzaPulita, Alfredo Robledo stronca Davigo: "Dopo questa intervista lo chiamerei Pieranguillo, sfugge ai problemi veri". Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Alfredo Robledo, ex magistrato, in collegamento con Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7, nella puntata del 6 maggio, in cui si parla della presunta Loggia Ungheria, è scatenato. Dopo aver sentito le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, Robledo commenta: "Non mi convince per niente. Dopo questa intervista lo chiamerei 'Pieranguillo', perché sfugge ai problemi veri". E, attacca ancora: "Non è vero affatto che se avesse seguito le vie formali avrebbe svelato", dice riferendosi al fatto che quando il pm Paolo Storari si è rivolto a Davigo e gli ha dato i verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria, Davigo non ha seguito la procedura prevista. Quindi Alfredo Robledo legge un documento con il quale rafforza la tesi secondo la quale proprio "Davigo avrebbe dovuto consigliare a Storari, ragazzo intelligente ma forse un po' ingenuo, di non darglieli nemmeno quei verbali ma di metterli in una busta, salire di un piano e consegnarli al Consiglio di presidenza" del Csm. Davigo però non ha fatto nulla di quanto previsto. In tutta questa vicenda, "l'unico comportamento veramente serio e trasparente è stato tenuto da Nino Di Matteo (capo della procura di Palermo, ndr). Che nulla ha da spartire con il palamaravirus". commenta Robledo. "Il palamaravirus è stata un'infezione della magistratura", attacca l'ex magistrato. "Devo correggere l'espressione di Palamara quando dice 'così fanno tutti'. Non è così, così fan tanti ma non tutti". E ancora, sempre riferendosi a Palamara: "Il mediatore, il mediatore dell'accidente. Lei è stato un boia per quello che mi riguarda". "Nel momento in cui è stato individuata la bugia su Sebastiano Ardita (che secondo quanto rivelato da Piero Amara ne farebbe parte, ndr) è chiaro che Amara diventa un calunniatore". Quindi, prosegue Robledo, "bisogna processarlo immediatamente per calunnia. Poi, una volta processato vediamo cosa ha detto di falso e cosa di vero", ragiona l'ex magistrato. "Perché è chiaro che qualcosa di vero lo ha detto, Amara è un avvocato di esperienza. Conosce intrighi e situazioni antipatiche". Avrà quindi detto "cose false, cose verosimili e qualcosa di vero".

La solitudine di Pieranguillo. Vendetta di Di Matteo contro Davigo: il Pm non perdona al suo maestro di averlo mollato in due occasioni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Maggio 2021. La vendetta, tremenda vendetta, del giovane Nino Di Matteo contro l’anziano maestro Piercamillo Davigo pare inarrestabile. Siamo ancora sul palcoscenico del verbale di Amara, che è poi la seconda puntata del libro di Palamara, e mancava solo Di Matteo a dare la pugnalata, non sappiamo se finale (perché ormai c’è la coda), a colui che nessuno chiama più “dottor Sottile”. Il magistrato più scortato d’Italia (e da ben 28 anni) è lapidario. Non ha bisogno di appellare l’ex maestro come Piercavillo o, come ha fatto l’ex collega Alfredo Robledo, Pieranguillo, gli basta una frase generale ma apodittica. «Noi magistrati per primi dobbiamo rispettare le regole». Proprio quando Davigo aveva buttato lì che a volte si può anche essere un po’ elastici. Nei mesi passati, con il suo voto al Csm che aveva messo il bollo definitivo al pensionamento di Davigo, Di Matteo aveva cercato di pareggiare il conto, dopo che l’ex maestro aveva esibito un assordante silenzio rispetto alle sue sofferenze. Perché non era diventato ministro come ipotizzato da Di Maio, né presidente del Dap su proposta di Bonafede quando poi fu scelto quel Basentini che loro consideravano un signor nessuno. E Davigo sempre zitto. Oggi uno rimprovera all’altro ogni suo comportamento, nell’affare Amara. Prima di tutto perché Davigo ha accettato dalle mani del sostituto procuratore di Milano Paolo Storari un verbale secretato. Ce ne è anche per il giovane pm milanese, e figuriamoci se Di Matteo si lasciava sfuggire l’occasione di tirare in ballo Berlusconi. Così, per tirare le orecchie al collega milanese, ricorda di quando lui e Tescaroli avevano messo nero su bianco il loro dissenso dal procuratore capo di Caltanissetta Tinebra che non voleva iscrivere sul registro degli indagati il leader di Forza Italia e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi. Secondo lui il pm Storari avrebbe dovuto fare lo stesso casino contro il suo capo Francesco Greco, se questi rifiutava di dare credito all’avvocato Piero Amara. Il che apre un bel problema, perché in quel verbale veniva accusato di far parte della loggia massonica Ungheria, tra gli altri, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, amico di Di Matteo ed ex amico (e ora non più) di Davigo e punto di riferimento, a quanto si dice, del Movimento cinque stelle. Poi c’è da mettere in discussione l’uso che l’ex “dottor Sottile” ha fatto di quel verbale, non formalizzandolo, non protocollandolo da nessuna parte, ma trattenendolo presso di sé e parlandone con diverse persone. Non solo con il vertice del Consiglio, con il vicepresidente David Ermini e con il procuratore generale Giovanni Salvi, ma anche con altri consiglieri. Sempre a titolo personale. Insomma, lamenta, sconcertato, Nino Di Matteo, quel verbale ha circolato dentro e fuori il Csm senza che mai fosse compiuto un atto formale. Fino ad arrivare all’episodio più grottesco, quello dell’incontro al Csm tra Davigo e il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, descritto da quest’ultimo come una storia tra macchiette. Con il primo tempo nell’ufficio e il secondo lungo le scale (che Morra chiama “sottoscala” ), dove i due si sarebbero accucciati, immaginiamo, sui gradini, mentre l’uno con il ditino sulle labbra a indicare riservatezza gli avrebbe mostrato il verbale con il nome di Ardita, cioè del “nemico” con cui Morra voleva facesse pace, bacini e bacetti. Alla riservatezza di Davigo si è poi contrapposto l’esibizionismo del presidente dell’Antimafia che, non appena scoppiato il bubbone Amara è corso in Procura e anche da Giletti a dire “anch’io, anch’io” ho visto il verbale. Ma il vero colpo finale l’ha dato poi proprio Nino Di Matteo, e qui entriamo all’ultima scena, quella in cui arriva il Corvo, o postino-postina a fare il “dossieraggio”, come lo definisce l’ex pm del teatrino Stato-mafia. Noi persone semplici preferiamo parlare di volantinaggio, delle solite carte che in genere escono dalle procure senza bisogno di fare tante giravolte e planano diritte nelle redazioni di alcuni giornali. Di Matteo, che ha ricevuto il verbale quasi in contemporanea a due quotidiani (nomi a caso? Repubblica e Il Fatto) ed è stato l’unico a comportarsi con dignità, rivolgendosi alla procura di Perugia e in seguito al plenum del Csm, ha una visione un po’ più dietrologica. Di quelle, non si offenda, ma un po’ stalinistiche che cercano sempre gli inquietanti retroscena alle spalle di ogni vicenda con il solito domandarsi “a chi giova?”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Non è l'arena, Giletti incalza Ardita su Davigo. "Andiamo in fondo, capiamo le contraddizioni...". Ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 16 maggio 2021. Da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, si parla della presunta Loggia Ungheria. Il conduttore ad un certo punto incalza il giudice Sebastiano Ardita su Piercamillo Davigo, visto che l'ex pm ha ricevuto le carte di Piero Amara in cui si fa il suo nome: "Davigo riceve questi verbali dal pm Storari, non segue le vie formali. Però prima di ascoltare il perché Davigo ha scelto di non seguire le vie formali, le chiedo visto il rapporto che avevate con Davigo si è sentito tradito, se posso usare il termine, da una persona con cui aveva un rapporto diverso rispetto ad altri?". E il giudice ribatte con un'altra domanda: "Lei come risponderebbe a questa domanda al posto mio?". Quindi Giletti risponde: "Io direi sì. Sarebbe una ferita umanamente molto pesante". A questo punto Ardita dice: "Questo è quello che possono anche pensare altri, io in questo momento penso sia giusto andare a fondo delle cose, capire tutte le contraddizioni...". Ma Giletti insiste: "Se mi dicessero che il mio strettissimo amico ha fatto delle cose io so chi è quel mio amico. Quando qualcuno dice che lei ha fatto il pm per sette anni a Catania, che non era vero perché già da sette anni non lo faceva più. Quando dicono che lei era pure c*** e camicia, cito testuale, con Tinebra che era l’uomo che andava contro di lei, allora vuol dire che già queste cose non possono stare né in cielo e in terra e che quindi chi le dice non è credibile. O sbaglio? Lei andava d’accordo con Tinebra?". Il giudice allora risponde secco: "E' noto che non è così, è scritto anche nei libri. Non è questo il problema. Noi dobbiamo lasciare questi accertamenti a chi deve occuparsene, perché esiste anche un merito delle questioni che va affrontato. È chiaro che da magistrato e da cittadino aspetto che si faccia la piena chiarezza su queste vicende e non voglio ostacolare in qualche misura o determinare condizioni di imbarazzo in chi deve svolgere questa attività".

Non è l'arena, Sebastiano Ardita a Giletti: "Perché non è la segretaria di Davigo il corvo che ha inviato i verbali contro di me". Libero Quotidiano il 16 maggio 2021. Massimo Giletti intervista in esclusiva a Non è l'arena su La7 il giudice e membro del Csm Sebastiano Ardita, acerrimo nemico di Piercamillo Davigo, che compare nei verbali secretati di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. "Persone off records dicono che è una storica dipendente, una signora per bene. Lei crede davvero che possa essere lei il corvo, cioè la persona che ha dato i verbali ai giornalisti?", chiede il conduttore. Ma Ardita ribatte: "So che è indagata per questo. Io stento a credere che possa aver partecipato a una cosa del genere". Quindi racconta un episodio: "Siamo nel Natale che precede il lockdown, bussano alla mia porta dell’ufficio del consiglio ed era la signora Marcella Contraffatto. Si presenta e tiene in mano un oggettino di cristallo, una sciocchezza che le avevo regalato per Natale. Mi guarda negli occhi, con gli occhi lucidi, e mi dice 'Dottore lei è l’unico consigliere che mi ha pensato. Io questo non me lo dimenticherò'”. Insomma, "per questo e per altre ragioni, che ora non sto qui a raccontare", prosegue Ardita, "io ho sempre visto negli occhi di Marcella Contrafatto un atteggiamento, uno sguardo di affettuosa riconoscenza nei miei confronti. Io francamente non riesco a vederla nel ruolo di chi imbusta una calunnia, la manda al dottore Di Matteo e ai giornali con un biglietto contro di me". Quindi il sospetto di Ardita. "Può essere una evidente strategia per metterci in difficoltà… questo è evidente". Giletti lo incalza: "Perché sapevano che uno come Di Matteo sarebbe andato dai magistrati e non si sarebbe tenuto le cose nel cassetto?". Risposta di Ardita: "Può darsi che sia per condizionare la nostra attività al consiglio, sicuramente non per un fine benefico, questo è poco ma è sicuro".

Caso verbali, la versione di Ardita: «Non temo queste calunnie. Davigo? Doveva seguire la legge». su Il Dubbio il 17 maggio 2021. Il consigliere del Csm Sebastiano Ardita ospite a "Non è l'Arena": «Se esiste la possibilità di derogare alla legge in circostanze speciali, non c'è più lo Stato di diritto. Torniamo un'altra volta all'800 in cui qualcuno si assume la responsabilità o la voglia di scavalcare la legge». «Penso che in questo momento sia giusto andare a fondo, capire tutte le contraddizioni, da magistrato e cittadino aspetto che si faccia piena chiarezza su questa vicenda». Per Sebastiano Ardita, magistrato e consigliere del Csm, la vicenda verbali dell’avvocato Piero Amara riguardati la presunta loggia segreta “Ungheria”, che lo coinvolge in prima persona, non è altro che un tentativo di screditarlo, una vera e propria «calunnia». Ospite del programma “Non è l’Arena”, Ardita dà la sua versione dei fatti rispondendo alle domande di Giletti: «Io sto molto bene, non mi ero mai abituato all’idea di un attentato all’integrità morale, avendo una vita assolutamente lineare e trasparente non temo questo attacco». E poi: «Può capitare nella vita professionale di essere oggetto anche di una calunnia, quello che è più grave è trovarsi al centro di circostanze che devono essere chiarite, che vanno dall’imbustamento della calunnia all’interno di un plico mandato ai giornali e anche a Di Matteo fino a una serie di situazioni informali che vanno ancora tutte chiarite». Ardita parla quindi dell’ex consigliere del Csm ed ex amico Piercamillo Davigo, il quale ricevette i verbali dal pm milanese Storari e ne parlò in via informale con il vicepresidente del Csm David Ermini senza seguire le vie ufficiali. Con l’intento – spiega lo stesso Davigo – di proteggere le indagini. «Le vie formali sono le vie previste dalla legge», ribadisce Ardita. Poi l’affondo: «Se esiste la possibilità di derogare alla legge in circostanze speciali, non c’è più lo Stato di diritto. Torniamo un’altra volta all’800 in cui qualcuno si assume la responsabilità o la voglia di scavalcare la legge». Alla domanda se si senta tradito da Davigo, Ardita risponde: «Questo è quello che possono pensare altri. Io voglio che si vada in fondo alle contraddizioni». «Stento a credere che Marcella Contrafatto possa aver partecipato ad un’azione del genere», dice quindi Ardita rispondendo alla domanda se possa essere stata la funzionaria Marcella Contrafatto il presunto “corvo” che avrebbe recapitato i verbali dell’avvocato Amara ai giornalisti. Il magistrato racconta poi un episodio: «Siamo nel Natale che precede il lockdown, bussano alla mia porta nell’ufficio del Consiglio: era la signora Contrafatto, aveva in mano un oggettino di cristallo che le avevo regalato, mi guarda con gli occhi lucidi dicendo “dottore lei è l’unico consigliere che mi ha pensato, io questo non lo dimenticherò”. Per questo e anche per altre ragioni che non sto qui a raccontare, io ho sempre visto negli occhi di Marcella Contrafatto un atteggiamento, uno sguardo di affettuosa riconoscenza nei miei confronti. Francamente, non riesco a vederla nel ruolo di chi imbusta una calunnia e la manda al dottor Di Matteo e ai giornali contro di me». E se fosse stata davvero la Contrafatto? «La perdonerei», ha risposto Ardita, «in tutta la mia vita non ho mai fatto nulla contro qualcuno che è più debole di me. Quindi la perdonerei sicuramente».

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 17 maggio 2021. «Non mi ero mai abituato all' idea di un attentato all' integrità morale, semmai a quella fisica come possibile pericolo». Così, Sebastiano Ardita, ex pm con lunga esperienza in inchieste antimafia, poi capo del Dap, ora consigliere Csm, finito al centro delle rivelazioni dell'avvocato Piero Amara, come presunto affiliato di una fantomatica loggia massonica «Ungheria», ha raccontato ieri a Non è l' Arena (La7) l' amarezza di essere oggetto della «calunnia» che scuote la magistratura. E parla di Piercamillo Davigo, ex consigliere Csm che, prima di andare in pensione, ricevette dal pm milanese Storari quel verbale di Amara, poi finito ai giornali e al consigliere Nino Di Matteo. Ardita non teme «l'attacco»: «Avendo una vita assolutamente lineare e trasparente». Ma «da magistrato e da cittadino aspetto che si faccia piena chiarezza». Al centro della vicenda il suo ex amico Davigo, che di quel verbale ha parlato con il vicepresidente del Csm David Ermini senza formalizzare la denuncia «perché se no non era più segreto». «Le vie formali sono le vie previste dalla legge», ribadisce Ardita. Poi l'affondo: «Se esiste la possibilità di derogare alla legge in circostanze speciali, non c' è più lo Stato di diritto. Torniamo un'altra volta all' 800 in cui qualcuno si assume la responsabilità o la voglia di scavalcare la legge». Alla domanda se si senta tradito da Davigo, Ardita risponde: «Questo è quello che possono pensare altri. Io voglio che si vada in fondo alle contraddizioni». A partire dal fatto che la presunta loggia era dedita a promuovere il garantismo e lui è considerato l'archetipo del giustizialismo. Al fatto che Amara definisce lui e il suo predecessore al Dap Tinebra, come «c... e camicia». «È noto che non è così», smentisce. Quanto al presunto «corvo» Ardita stenta a credere che sia la ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, indagata. «Nel Natale prima del lockdown le regalai una sciocchezza, un oggettino di cristallo, e, con gli occhi lucidi mi disse: "È l' unico consigliere che mi ha pensato. Non lo dimenticherò". Non riesco a vederla che imbusta la calunnia, la manda a Di Matteo e ai giornali». Ma perché Di Matteo? Per Ardita «una evidente strategia per metterci in difficoltà» e forse «per condizionare la nostra attività al Consiglio». Una guerra di potere? «Oggi non svolgiamo una funzione di potere nel Csm» ha detto Ardita che assieme a Di Matteo ha proposto il sorteggio temperato per i componenti del Consiglio, la rotazione degli incarichi e l' abolizione dell' immunità per i consiglieri. E ha chiuso: «Noi non vogliamo una guerra di potere perché il potere non lo vogliamo noi, né che lo abbia il Csm. Vogliamo toglierlo per restituire autonomia».

Amara: "Non sono inattendibile". E spuntano i nomi della "loggia". Federico Garau il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Piero Amara parla a Quarta Repubblica: "Il 100% delle sentenze che hanno giudicato sulle dichiarazioni da me rese, hanno tutte affermato la mia assoluta attendibilità". Si torna a parlare dei verbali segreti relativi alle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara che hanno scatenato un'autentica bufera nel mondo della magistratura. Carte segretate passate dal pubblico ministero milanese Paolo Storari all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, in cui viene fatto riferimento a magistrati che si erano rivolti ad Amara per ottenere promozioni e addirittura ad una loggia segreta, denominata "Ungheria". Un presunto gruppo di potere occulto di cui ancora si sa molto poco.

Le dichiarazioni di Amara. Raggiunto dai microfoni di Quarta Repubblica, in onda su Rete4, l'avvocato, finito in manette nel 2018 per i depistaggi dell’inchiesta Eni ed alcuni episodi di corruzione, ha risposto velocemente alle domande dell'inviata circa la Loggia Ungheria. Spigherà meglio in cosa consiste questo gruppo di potere? Amara afferma di volerlo fare al più presto. Ed alle accuse di falsità, l'avvocato risponde: "Non esiste una sola sentenza che mi dichiari inattendibile. Il 100% delle sentenze che hanno giudicato sulle dichiarazioni da me rese, hanno tutte affermato la mia assoluta attendibilità". "Chi dice che sia esistito un solo provvedimento in cui sia stata affermata la mia inattendibilità, dice assolutamente il falso e su questo purtroppo non posso dire altro", prosegue Piero Amara, prima di allontanarsi. "Se la loggia segreta esiste ancora? Di questo ne parliamo nelle sedi competenti".

La loggia Ungheria. Per alcuni una finzione, per altri un argomento su cui indagare. La presunta loggia Ungheria è un gruppo di potere, da alcuni paragonato alla P2, in cui vengono decise nomine e si condizionano il mondo politico e giudiziario. A far parte della loggia, secondo Amara, politici, imprenditori, vertici della polizia, avvocati e addirittura magistrati. Raggiunto da Quarta Repubblica, Vincenzo Armanna, ex manager dell'Eni, commenta: "Amara è una persona molto complicata, è più furbo del diavolo ma non è uno che ha una strategia. C'è qualcuno che in questo momento lo sta utilizzando per fare qualcosa. Che cosa? Non ne ho idea". "Ho visto in maniera più o meno sistematica", racconta Armanna, "per un paio di mesi un gruppo di persone: un sistema con relazioni forti dove più persone di interessi si occupavano di più cose". La loggia Ungheria? "C'era un modo scherzoso di salutarsi. Un modo che non ha a che fare col nome della piazza, come tutti dicono. Le poche persone che ho visto a queste cene... alcuni li conoscevo". Alle cene, rivela Armanna, prefetti ed un capo della Guardia di Finanza. Esisteva una sorta di cerimoniale per l'affiliazione, aggiunge, tuttavia "non è una loggia massonica". "Una loggia ha dei riti, un credo, dei simboli, tutti recitano una parte", spiega Armanna. "Qua non c'era nulla di tutto questo. Non esiste nessuna loggia massonica chiamata Ungheria. Esiste un sistema che poteva essere travestito da loggia massonica? La risposta è sì. Ci sono appartenenti fissi a questo sistema? La risposta è sì. Sono sempre gli stessi? La risposta è sì".

I VERBALI SULLA PRESUNTA LOGGIA SEGRETA. «Ecco chi sono i capi di Ungheria»: i dubbi dei pm sulle accuse di Amara. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN il 4 maggio 2021 su editorialedomani.it. L’avvocato dei misteri indica l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti come vertice della presunta associazione segreta. Lui smentisce tutto: «Non ne ho mai sentito parlare, Amara lo conoscevo appena». Anche l’avvocato Caratozzolo, citato, nega ogni ruolo. Piero Amara parla per la prima volta della presunta loggia coperta Ungheria ai pm di Milano nel dicembre 2019. Indica come capo della loggia Michele Vietti che avrebbe conosciuto tramite l’avvocato Enrico Caratozzolo di Mesina. 

Michele Vietti è stato vicepresidente del Csm e sottosegretario alal Giustizia nel governo Berlusconi. Nega ogni coinvolgimento nella vicenda. Anche Caratozzolo, che per Amara sarebbe uno dei depositari della lista dei membri di Ungheria, dice di non sapere nulla di associazioni segrete. Nei verbali di Piero Amara un nome ricorre spesso: Michele Vietti, ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura dal 2010 al 2015. L’ex esponente dell’Udc viene citato per la prima volta il 6 dicembre 2019, mentre Amara sta parlando ai pm Laura Pedio e Paolo Storari di vicende legate all’Eni. «Devo fare una premessa: io facevo parte di una loggia massonica coperta formata da persone che io ho incontrato attraverso persone di origine messinese, dove questa loggia è particolarmente forte. Mi ha introdotto Giovanni Tinebra, magistrato con cui avevo ottimi rapporti. Attraverso questa loggia, chiamata “Ungheria”, ho conosciuto Vietti e tale Enrico Caratozzolo, avvocato di Messina», dice Amara. Nel racconto di Amara, le cui ricostruzioni sono vagliate dai pm di Perugia e Milano che dubitano della veridicità di molti passaggi, Vietti sarebbe il suo capo diretto. Uno dei “vecchi”, che talvolta avrebbe perfino organizzato incontri del fantomatico gruppo massonico in uno studio di cui «aveva disponibilità» a Roma. L’ex numero due del Csm è torinese, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Berlusconi, aveva ingaggiato Caratozzolo come suo consigliere giuridico. Vietti viene descritto come un uomo potente, capace di indirizzare – già quando era presidente della sezione disciplinare del Csm – provvedimenti su giudici e magistrati, trasferimenti, nomine degli uffici giudiziari. Secondo Amara, erano proprio Vietti e Caratozzolo, oltre al magistrato della Corte dei conti Luigi Caruso, i custodi della lista dei membri di Ungheria. Vietti sarebbe anche il colui che raccomandò ad Amara un gruppo di avvocati di fama, per farli incaricare per il concordato della spa Acqua Marcia: Amara, come ricostruito da Domani, ha detto a dicembre 2019 ai pm milanesi di aver «raccomandato» a Fabrizio Centofanti, allora direttore degli affari legali di Acqua Marcia, proprio Caratozzolo, il professor Guido Alpa e Giuseppe Conte. Professionisti che hanno davvero lavorato (legittimamente) per il concordato di Acqua Marcia tra 2012 e 2013, ma che negano con forza qualsiasi rapporto con Amara. Conte ha minacciato querele per calunnia, Caratozzolo spiega che di denunce lui non vuole farne: «Non so perché Amara mi tira in mezzo a questa storia di Ungheria, ma che ci faccio poi con una condanna per calunnia? Di logge non so nulla: io sono stato a scuola dai gesuiti, e di associazioni segrete non mi intendo. Non conosco affatto bene Amara, lo avrò incontrato qualche volta a Roma o in aereo tornando a Messina. Ma tipo: “Ciao Piero, Ciao Enrico”, nulla di più».

GLI INCONTRI RISERVATI. Amara racconta anche di incontri organizzati da Vietti a cui lui avrebbe partecipato per anni: «Fino all’estate del 2016 mi sono mosso con una certa libertà e ho frequentato senza particolari cautele i membri dell’associazione Ungheria. Ad agosto 2016 l’avvocato Calafiore (co-indagato, ndr) è stato informato da un senatore di Ala che la Guardia di Finanza di Roma ci teneva sotto controllo con intercettazioni, cimici e pedinamenti. Da quel momento ho adottato cautele e ho evitato di incontrare direttamente gli associati. Per esempio, pur essendo stato invitato all’evento che annualmente Vietti organizza tra molte persone e al quale partecipavano molti degli associati, dopo l’agosto del 2016 non vi ho più partecipato». Caratozzolo si fa una risata: «Escudo che Amara sia mai stato presente a quegli incontri. Si fanno verso Natale, è il modo con cui Michele saluta le persone che gli sono più care». Vietti, sentito al telefono, è ancora più secco: «Non ho mai sentito nominare la loggia Ungheria. Sarà così segreta che la ignoro io stesso. È una barzelletta, escludo categoricamente ogni circostanza raccontata». Le calunnie aggravate, macchina del fango ordita per fini oscuri: questa è l’ipotesi investigativa alternativa dei pm perugini che stanno cercando verifiche sull’esistenza effettiva della loggia. Anche se Vietti non riesce a darsi spiegazioni su chi e perché avrebbe spinto Amara ad accusarlo: «Non ho la più pallida idea di perché mi tiri dentro. Forse ci siamo visti una decina di anni fa, era un legale che girava per Roma, forse. Andrebbe chiesto a lui perché parla di me».

LE ACCUSE AD ARDITA. La vicenda Ungheria, intanto, continua a squassare la magistratura italiana. Non tanto per le dichiarazioni di Amara, tutte da verificare, ma per la gestione dei verbali e dell’inchiesta che prima ha spaccato la procura di Milano, con il pm Paolo Storari in disaccordo con l’attendismo imposto dal suo capo Francesco Greco. Poi l’intero Csm, quando si è scoperto che Storari, seguendo un iter anomalo, ha deciso di “autotutelarsi” da possibili future censure e critiche consegnando verbali ancora segreti a Piercamillo Davigo, suo amico e allora consigliere del Csm. Quest’ultimo non ha tenuto il riserbo, ma ha informato delle dichiarazioni di Amara “chi di dovere”. Sempre in via informale, Davigo avrebbe infatti informato il vicepresidente del Csm David Ermini e il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi. Contemporaneamente, copie dei verbali finivano nella cassetta della posta di giornalisti e altri membri del Csm (per la fuga di notizie è indagata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto), creando un clima di terrore interno all’organo di autogoverno della magistratura: Sebastiano Ardita, infatti, è citato da Amara non come membro della presunta loggia, come erroneamente scritto finora, ma come sodale suo e di Tinebra. E come persona a conoscenza dell’esistenza della loggia e dei suoi adepti. «Una calunnia in partenza, divulgata poi attraverso la diffusione nel Csm dei verbali secretati, con l’obiettivo di screditarmi», dice oggi Ardita.

PERCHÉ DAVIGO NON È INDAGATO? Luciano Capone per “il Foglio” il 21 maggio 2021. L’interrogatorio a Brescia di Paolo Storari chiarisce alcuni elementi della posizione del pm milanese ma lascia aperti altri interrogativi. La tesi di Storari è che le dichiarazioni di Amara sull’esistenza della presunta “loggia Ungheria” in cui sarebbero coinvolti importanti magistrati andavano accertate attraverso un’indagine, sia che fossero vere sia che fossero calunniose. Ma l’inerzia del procuratore Francesco Greco lo ha spinto a chiedere consiglio a un membro del Csm come Piercamillo Davigo che gli “ha detto che si sarebbe assunto la responsabilità di questo fatto”, dice il suo avvocato. Ci sarebbe, in sostanza, la buona fede di Storari nella consegna di atti coperti da segreto a una persona, come Davigo, che si riteneva autorizzata a riceverli. In realtà non è chiaro se Davigo fosse davvero titolato e se quindi questa ricostruzione scagioni Storari (questo lo appureranno i magistrati di Brescia), ma il pm milanese fa capire che lui non c’entra nulla con la successiva diffusione dei verbali urbi et orbi. Ciò che non torna è un riferimento, fatto sia da Storari sia da Davigo, agli atti definiti non come verbali bensì come “atti di supporto alla memoria”. Non essendo verbali ufficiali, con timbro e firma, non ci sarebbe rivelazione del segreto. Se questo fosse il ragionamento sarebbe tanto cavilloso quanto ridicolo. In primo luogo perché lo stesso Davigo ha dichiarato di aver ricevuto tali atti in quanto “non si può opporre il segreto al Csm” e di averli trattati informalmente proprio per tutelarne la segretezza. In secondo luogo perché se passasse questo concetto non esisterebbe più il segreto d’ufficio: chiunque potrebbe copiare il contenuto di un atto secretato su un foglio word e divulgarlo o mandarlo ai giornali. L’altro elemento che non torna è il ruolo di Davigo. Ha indotto Storari, indagato per rivelazione di segreto, a consegnarli proprio quegli atti. Ha parlato del contenuto di quei verbali a destra e a manca, in danno del consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Ha rivelato il contenuto dei verbali, in particolare ciò che riguarda Ardita, al senatore Nicola Morra. Infine, la sua segretaria è indagata per l’invio dei verbali ai giornali. Per molto meno i magistrati Luca Palamara e Riccardo Fuzio sono imputati per un presunto “dossieraggio” ai danni di Pignatone. Com’è possibile che Davigo non sia indagato? Un’ipotesi è che i colleghi lo stiano trattando con i guanti bianchi, senza spiegarsi quale ruolo attribuirgli in questa vicenda. L’altra è che stiano cercando di fregarlo, perché quando Davigo viene ascoltato in qualità di testimone non può essere reticente né mentire. In ogni caso, viste le personalità coinvolte, sarà difficile insabbiare o non andare a fondo di questa vicenda e pertanto l’iscrizione di Davigo nel registro degli indagati sarebbe un atto a garanzia del suo diritto alla difesa.

Luca Palamara, l'affondo contro Piercamillo Davigo: "Casi identici. Io a processo, lui invece no". Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Luciano Capone ha intervistato per Il Foglio Luca Palamara, evidenziando le analogie con Piercamillo Davigo, che però non è sotto processo come il primo. “In entrambi i casi un pm si rivolge a un magistrato cercando un riferimento per uno scambio di idee - ha dichiarato l’ex presidente di Anm - in un caso a me che ero collega di ufficio ed ex membro del Csm e nell’altro a Davigo che era consigliere del Csm”. Il riferimento è al caso del pm Fava, che era entrato in conflitto con i vertici della procura di Roma sulla gestione dell’avvocato Piero Amara, e a quello del pm Storari, che invece era in contrasto con i vertici della procura di Milano (a causa dello stesso Amara).  “In quel caso mi limitai a richiamare la circolare del Csm che si ispira al principio di condivisione tra procuratore e sostituti quando nascono conflitti”, ha spiegato Palamara. Cosa che invece non ha fatto Davigo e su questo l’ex presidente di Anm ci ha tenuto a sottolineare un’altra “differenza sostanziale”, ovvero le modalità con le quali sono stati diffusi i verbali. Il Foglio fa notare che Davigo ha svelato al senatore grillino Nicola Morra il contenuto dei verbali di Amara consegnati da Storari, ma in questo caso non c’è stata nessuna indagine. Come mai? “Io sono certo di poter chiarire - ha risposto Palamara - anche in sede di udienza preliminare, i fatti e gli addebiti che mi vengono contestati. E sono certo che anche gli altri verranno valutati alle autorità competenti: occorre uniformità di giudizio”. Infine l’ex presidente di Anm si è tolto un sassolino dalle scarpe: “Non ho mai compreso l’ipocrisia che ha caratterizzato la mia vicenda e la mia persona. Non trovo nulla di scandaloso nel fatto che magistratura e politica si parlino. È fisiologico che il M5s guardasse a una parte della magistratura che si stava affermando, a quella corrente che rispondeva alle loro idee”.

Non è l'arena, Paolo Mieli sconvolto dalla frase di Davigo: "Usare prudenza? Di Matteo ha salvato la magistratura due volte". Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Il caso Davigo sconvolge lo studio di Non è l'arena. Ospite di Massimo Giletti a La7 è Nicola Morra, senatore ex M5s e attuale presidente della Commissione Antimafia che ha rivelato di essere stato messo a conoscenza da Piercamillo Davigo di alcuni dettagli dei famigerati verbali segreti di Piero Amara, consegnati all'ex consigliere del Csm dal pm milanese Storari e poi consegnati in forma anonima alle redazioni di Repubblica e Fatto quotidiano. Davigo avrebbe mostrato i verbali a Morra "sulle tromba delle scale, invitandomi a uscire dal suo ufficio", suggerendo dunque la possibile presenza di microspie. Inquietante, ma non è finita. Davigo non ha rivelato tutto il contenuto dei verbali, e Morra non si sorprende: "Io devo essere messo a conoscenza di cose solo in funzione della mia attività istituzionale. Si addensavano nubi importanti su membri del Csm e soprattutto su uno dei magistrati anti-mafia più importanti in circolazione". Vale a dire, Sebastiano Ardita, i cui rapporti con Davigo storicamente non sono buoni. "Ma Davigo le ha consigliato di troncare i rapporti?", chiede Giletti. "No, anzi, a mia precisa domanda mi ha detto di usare prudenza". La giornalista giudiziaria Sandra Amurri e l'ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli saltano sulla sedia, letteralmente, e ridono sconcertati: "Prudenza???". "Prudenza con uno che accusano di essere legato alla loggia Ungheria? Come si traduce?", chiede Giletti. "Se devo presentare un libro di Ardita su altre questioni, posso tranquillamente farlo", risponde Morra. In tutta questa storia, l'unico magistrato che sembra aver seguito le regole fino in fondo, denunciando quanto "confidato" in via informale ad alcuni membri del Csm da Davigo è Nino Di Matteo: "Per la seconda volta in un anno ha salvato l'onore della magistratura", riconosce Mieli. "Conosce bene Ardita - suggerisce la Amurri -, sa che è persona onorevole e che quelle accuse non sono credibili".

Caos procure, Palamara: "Davigo non ha seguito le procedure". Morra: "Ha fatto solo il nome di Ardita". Francesca Galici il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. A "Non è l'Arena" Nicola Morra ha portato la sua testimonianza sugli atti di Piero Amara e Luca Palamara ha confermato una procedura non regolare di Davigo. La magistratura italiana è nel caos e dopo il caso Palamara è scoppiato il caso Davigo-Storari. La vicenda è quella dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che racconta di una presunta loggia massonica "Ungheria". Per questo caso è indagato Paolo Storari, magistrato che ha consegnato i verbali a Piercamillo Davigo, sentito come testimone. Quegli stessi documenti che sono poi finiti ai giornalisti. Sono quattro le Procure attualmente coinvolte. A "Non è l'arena" Massimo Giletti ha approfondito il caso con Luca Palamara, Paolo Mieli e Sandra Amurri. Oltre ad aver raggiunto Davigo, Massimo Giletti ha portato in studio la testimonianza di Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, che ha dichiarato di aver preso visione degli atti per mano di Piercamillo Davigo. La puntata è iniziata con il riascolto dell'audio di Nino Di Matteo, Consigliere del Csm che a Radio Radicale ha scoperchiato il vaso di Pandora sulla questione. "È notorio che a volte sono stato su posizione diversa rispetto a lui ma dimostra che chi non ha fatto parte delle correnti può diventare un valore aggiunto. Lui è andato fino in fondo per capire la verità", ha detto Luca Palamara in merito all'azione di Di Matteo. Il discorso si è poi spostato sulle dichiarazioni fatte da Davigo a Piazzapulita, dove ha affermato che "qualunque strada formale avrebbe comportato il disvelamento di tutta la vicenda e quindi c'era la necessità di informare i componenti del comitato di presidenza". Una versione che non ha convinto il dottor Robledo che, sempre a Piazzapulita, ha mosso perplessità sulle affermazioni di Davigo: "Non è vero affatto che se avesse seguito le linee formali avrebbe disvelato". Intervenuto da Giletti, Luca Palamara ha confermato i dubbi di Robledo: "Ha ragione il dottor Robledo, è il percorso inverso rispetto a quanto detto da Davigo". "Non poteva dirlo al suo procuratore con cui era in contrasto e la sede del procuratore generale era vacante. È stato portato in modo riservato, nell'unico modo in cui si poteva fare. La circolare considera circostanze normali e non drammatiche come questa. Una raccomandata avrebbe creato problemi di segretezza. Si è fatto quello che si doveva fatto. Discutere del contenitore e non del contenuto mi sembra fuorviante", ha detto Piercamillo Davigo ai microfoni di una giornalista di Non è l'arena. Giletti ha ricordato che Davigo ha dichiarato a Piazzapulita di aver consegnato i verbali al vicepresidente del Csm David Ermini, dopo aver fatto cenno della situazione anche ad altri esponenti per "esigenze particolari". Ma Ermini ha negato tutto: "È falso che io abbia ricevuto informative, rapporti o note scritte dall'allora consigliere Piercamillo Davigo. Smentisco che io mi feci portatore di ringraziamenti o indicazioni da parte del presidente della Repubblica". Da Massimo Giletti è intervenuto anche Nicola Morra, che quei verbali coperti dal segreto li ha visti, come dichiarato da lui stesso: "A seguito della notizia della rottura nel gruppo Autonomia e indipendenza, per mia iniziativa ho cercato di ragionare con il dottor Davigo e il dottor Ardita al fine di ricomporre un quadro che politicamente mi sembrava convincente, perché doveva eradicare il sistema correntizio. Per questo motivo ho chiesto udienza a Davigo, ma non è un segreto che io lo ritenessi una figura importante. Ho notato che nei confronti del dottor Ardita c'era diffidenza e chiusura". Il presidente della Commissione antimafia ha poi proseguito: "Io sono stato invitato dal dottor Davigo a uscire dal suo studio, perché me l'ha mostrato nella tromba delle scale a Palazzo Marescialli (sede del Csm, ndr). Questo è un Paese in cui i trojan funzionano a intermittenza. Mi è stato mostrato un faldone di carte senza grafia manuale, non ricordo di aver visto firme a margine. Ho letto solo il nome del dottor Ardita perché noi si stava ragionando della possibilità di riavviare un dialogo. A tutela della stessa operatività della commissione, Davigo ha ritenuto opportuno mettermi a conoscenza". Nicola Morra non ricorda con esattezza quando ha preso visione di questi documenti e si difende dall'accusa di non aver parlato prima: "Ricordo che faceva molto caldo, non so se fosse giugno o luglio. So cos'è la riservatezza, da cittadino attendo che con celerità certe indagini si chiudano". I verbali segreti ai giornalisti sarebbero stati diffusi dalla funzionaria del Csm, Marcella Contrafatto, segretaria di Piercamillo Davigo. Massimo Gallo, compagno della funzioniaria ed ex magistrato, ha poi dichiarato: "Io non mi faccio idee, sono ipotesi investigative. Siccome è sottoposta al vaglio dalla magistratura, sarà la magistratura ad accertare".

La caduta di una star. Da "Dottor Sottile" a pasticcione isolato dai colleghi. Luca Fazzo il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel pool era celebre per i sillogismi manettari. Ma tra le correnti delle toghe fa sempre flop. E se poi, passo per passo, con il dovuto rispetto, si facesse strada il sospetto che Piercamillo Davigo non fosse il più intelligente di quella squadra micidiale che fu il pool Mani Pulite? Se i fatti incresciosi di questi giorni, la tempesta perfetta che ha investito settori cruciali della magistratura italiana, costringessero a rivedere con occhio critico i quasi trent'anni di gloria mediatica di questo umleno (chiamasi umleno in dialetto lombardo l'abitante della Lomellina) smilzo e facondo, portando alla conclusione che dietro l'innegabile agilità dialettica non si celi altrettanta profondità di pensiero? Perché un dato è certo: la mossa che fa Davigo accettando di ricevere brevi manu dal collega Paolo Storari i verbali del (forse) pentito Pietro Amara fa a botte con l'immagine finora scolpita nell'immaginario collettivo di un giurista saggio ed accorto. Magari alla fine Davigo se la caverà senza danni. Noie disciplinari non può più averne, perché il suo datore di lavoro non è più il ministro della Giustizia ma l'Inps, ufficio pensioni. Grattacapi penali la Procura di Roma ha già chiarito di non volergliene procurare, interrogandolo come semplice testimone sulla ricezione del papello dalle mani dell'incauto Storari. Ma viene da chiedersi come sia stata possibile tanta sciatteria formale - la copia di brutta consegnata a mano, per strada se non in un bar: e in questi casi la forma è sostanza - da parte di un magistrato davanti al quale un tempo, come dinnanzi al barone Scarpia, «tremava tutta Roma». Così diventa inevitabile pensare agli anni di Mani Pulite. E rianalizzare bene il contributo che ciascuno dei membri del pool diede all'impresa. L'intelligenza fulminea di Di Pietro, la capacità di analisi di Colombo, la regia minuziosa di Borrelli, tutto chiaro. Ma Davigo? A guardare bene, il vero apporto è la produzione di un paio di sillogismi giudiziari che diventano l'arma finale del pool. Il primo cancella di fatto dal codice la figura della corruzione impropria, che renderebbe più difficile usare le manette; il secondo dà dignità giuridica alla prassi di tenere in galera gli indagati finché non cantano. Sono armi decisive, farina del sacco dell'umleno. Perché Davigo è un cinico che sa usare le parole, che sforna ragionamenti impeccabili, aforismi memorabili come quelli di Oscar Wilde. Ma dietro, cosa c'è? L'appellativo di Dottor Sottile glielo rifila in una intervista dell'ottobre 1993 Goffredo Buccini, scippandolo al francescano Duns Scoto. E già quello a ben vedere non era un gran complimento, perché Scoto era uno che a forza di chiacchiere dimostrava per vera qualunque tesi. Il problema è che il Davigo di allora ripete le stesse tesi, le stesse rigidità e soprattutto le stesse battute per i trent'anni successivi, come se intorno a lui il mondo non cambiasse e dentro di lui le certezze non traballassero mai. E quando dal guscio prestigioso della procura di Milano prova a fare il salto in su, per Davigo arrivano le tristezze: quando si candida per l'Associazione nazionale magistrati nella corrente di destra (d'altronde l'estrazione quella è) di Magistratura Indipendente la prima volta entra per un soffio, la seconda nel 2003 viene segato, ultimo in classifica, nel 2015 lo bocciano anche per la presidenza della corrente. A quel punto si imbestia, fonda la sua corrente, Autonomia e Indipendenza, che spacca Mi, tirandosi dietro un po' di bravi colleghi, riesce persino a diventare presidente dell'Anm nonostante Raffaele Cantone, che oggi indaga su questo pasticcio come procuratore di Perugia, lo fulmini con un «era meglio come pm». Il guaio è che una dopo l'altra le toghe che Davigo ha portato con sé lo scaricano, lo cacciano dal Csm, la sua corrente si dissolve. Nel mare aperto della politica e delle correnti, Davigo scopre suo malgrado che l'agilità dialettica non basta a stare a galla. E si rifugia in un pensionamento malmostoso e un po' stizzoso, dal quale riemerge solo per le ospitate nei talk show a colpi di aforismi e battute.

Usi il suo metodo: si quereli da solo. Paolo Liguori il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Piercamillo Davigo annuncia querele per abitudine dai tempi di Mani Pulite, quando mostrava una cartella piena di denunce e diceva ai cronisti "queste sono per la mia pensione". Davigo querela. Lo ricordo a me stesso, mentre scrivo sul recente terremoto che fa tremare il Csm dalle fondamenta. Piercamillo Davigo annuncia querele per abitudine dai tempi di Mani Pulite, quando mostrava una cartella piena di denunce e diceva ai cronisti «queste sono per la mia pensione». Adesso lui è in pensione ed io anche: pur essendo stato querelato da lui, me la sono cavata, anche quando mi fece querelare dalla sua segretaria perché in quel modo sarei stato giudicato a Milano e non a Brescia, dove le querele di quei magistrati di Mani Pulite di Milano venivano considerate sistematiche e giudicate senza pregiudizio di casta. «Casta», «pregiudizio», parole proibite, da non usare, si diceva all'inizio degli anni '90. Qualcuno lo potrebbe ancora pensare oggi, dopo aver letto le memorie di Luca Palamara, trascritte da Alessandro Sallusti? E dopo aver assistito in queste settimane alla brutta vicenda dei verbali dell'avvocato Amara che hanno fatto il giro di procure e giornali per iniziativa di magistrati impegnati in una sorda guerra interna? Il Csm trema, ma la gente comune non capisce quasi nulla dell'intrigo. E così, anche se Davigo querela, è necessario chiamarlo in causa, perché è lui il principale protagonista della vicenda, più del pm Paolo Storari, che dà il via alla lotta «tutti contro tutti»; più della sua segretaria Marcella Contrafatto (un'altra, rispetto a quella in Procura di Milano), che diffonde le carte in giro; molto di più del procuratore di Milano Greco, accusato di lentezza nelle indagini, e più di tutti gli altri coinvolti nella deposizione di Amara e nei giri delle carte. Dunque, Davigo querela, ma chi e perché? Non querela chi lo ha soprannominato Piercavillo, quando sostiene che i documenti «sono in Word e non sono atti originari» e poi si trincera dietro «preferisco non rispondere», di fronte alle domande. Ovvio, si tratta di atti non firmati, presi dal cosiddetto fascicolo di lavoro, prima della conclusione delle indagini ma sempre secretati. E probabilmente non querela Antonio Robledo, già procuratore aggiunto a Milano, che lo chiama in televisione Pieranguillo, perché sfugge alla questione principale sostenendo che, se avesse seguito le vie formali, avrebbe favorito il disvelamento e la diffusione della vicenda raccontata da Amara. E così, invece? Davigo querela chi ricorda che lui era un capocorrente della Associazione nazionale magistrati e membro del Csm e che i verbali, probabilmente diffusi dalla sua segretaria, hanno fatto il giro di uffici giudiziari e redazioni di mezza Italia? Contemporaneamente alla grave crisi del Sistema Giustizia, aperta dalle rivelazioni sui metodi e le procedure in voga nella Magistratura di Luca Palamara? I fatti stanno venendo a galla a poco a poco, compresa l'impressione abbastanza evidente che al centro del mirino, questa volta, sia stato messo un altro membro del Csm, il procuratore Sebastiano Ardita. Ma ci sono alcune considerazioni che si possono già anticipare, senza aspettare ipocrite giustificazioni e sentenze. La prima è semplice e chiarissima: la magistratura, in questi anni, ha elaborato e rafforzato la convinzione che una sua presunta superiorità morale la ponga al di fuori e al di sopra delle regole che valgono per tutti gli altri, cioè per tutti noi. Una teoria simile a quella descritta nella Fattoria degli Animali di George Orwell. E ciò si realizza da parte di una minoranza di magistrati - soprattutto insediati nelle procure - a danno prima di tutto della maggioranza degli altri magistrati, come documenta bene il libro di Luca Palamara. Da qui nasce, ad esempio, la convinzione, che fu del gruppo di Mani Pulite e della Procura di Milano, di costituire un gruppo di prescelti, deputati a selezionare la classe dirigente del Paese, sostituendosi ad una classe politica ormai degradata. Ma, come si vede in questi giorni, il degrado ha fatto passi veloci nella magistratura e nel suo organo di autogoverno. Davigo querela, ma non può farlo contro se stesso: la sua inflessibilità, la sua assoluta intransigenza sono state il suo marchio: «Non ci sono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti», «i professori universitari fanno domande a chi non sa niente e fa di tutto per dire qualcosa, io interrogo persone che sanno tutto e fanno il possibile per non dire una parola», «in Italia la legge tutela più chi la vìola, rispetto a chi ne subisce le violazioni». Perfetto Davigo, potrei citarne decine di queste severe massime, valide per gli altri, non per sè stesso. È lui, l'uomo dall'indice puntato contro gli altri, che assesta un colpo micidiale contro la credibilità della giustizia e lascia in grande difficoltà le istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica. Cosa fare adesso con questo Csm? Non è un Comune, o un distretto scolastico, che può essere sciolto o commissariato, senza un'idea di riforma; ci vuole un'altra iniziativa e, in questo senso, la raccolta di firme dei radicali e di Salvini è già un'iniziativa, rispetto alla paralisi. Ma se le cose non cambiassero in fretta, varrebbe la pena di riflettere sul principio costituzionale dell'autonomia e dell'autogoverno, perché allo stato attuale questi magistrati non sono in grado di eleggersi in modo trasparente e di autogovernarsi. 

Non è l'Arena, il giornalista insegue l'ex segretaria di Davigo: "Come le Brigate rosse", parole pesantissime. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. A Non è l'Arena su La7 l'inviato di Massimo Giletti si mette sulle tracce di Marcella Contrafatto, funzionaria del Csm sospettata dalla Procura di Roma di essere il "corvo" che ha diffuso i verbali segreti di Piero Amara spedendoli nelle redazioni del Fatto quotidiano e di Repubblica e a vari consiglieri del Consiglio superiore della magistratura nella speranza, è il sospetto degli inquirenti, di "avvelenare" il clima e far esplodere la magistratura italiana. Sullo sfondo, infatti, ci sono sempre veleni personali, guerre tra toghe, dossieraggi, nomine importantissime come quella per il capo della Procura di Milano, da cui non a caso è partito tutto. Quei verbali sono stati consegnati nella primavera 2020 dal pm milanese Storari all'allora membro del Csm Piercamillo Davigo, di cui la Contrafatto era segretaria. In quelle carte, l'avvocato d'affari Amara parlava della presunta loggia segreta Ungheria, che raggruppava toghe, ufficiali della Guardia di finanza e politici. Storari contestava ai suoi capi la decisione di non procedere all'apertura di una inchiesta e per questo si era rivolto a Davigo, che però non ha mai portato formalmente il caso davanti al Csm. Il giornalista di Giletti segue la Contrafatto fino al portone di casa, ma la funzionaria del Csm non parla, e si copre il volto. Parla invece il suo compagno, Fabio Massimo Gallo, importante magistrato oggi in pensione. Smentisce l'ipotesi che sia stata la Contrafatto a far recapitare nelle redazioni i verbali. "Davigo ha definito il tentativo goffo, ed è vero. Le pare che uno manda un plico anonimo in quel modo? Se uno vuole farlo, va in redazione, lo lascia e arrivederci. Come facevano le Brigate rosse".

Valentina Errante per “il Messaggero” il 9 maggio 2021. L'incontro tra il procuratore di Roma Michele Prestipino e quello di Brescia, Francesco Prete, avverrà probabilmente martedì. Ma sembra oramai chiaro che il fascicolo sulla violazione del segreto d'ufficio, contestato a Paolo Storari, per avere consegnato all'oramai ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo i verbali secretati di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, andrà alla procura lombarda. Perché quei documenti riservati, nell'aprile 2020, l'ex pm di Mani pulite, li avrebbe ricevuti a Milano, nel suo appartamento. E così toccherà agli inquirenti di Brescia stabilire quali siano le effettive responsabilità di Davigo, in un presunto concorso nel reato, finora escluso dai pm romani, che invece potrebbe configurarsi anche alla luce dei nuovi elementi. Nell'ultima bufera che travolge il Csm si inserisce, infatti, anche la politica. La notizia della presunta loggia non era uscita soltanto dal palazzo di giustizia di Milano per arrivare, in via informale, al Csm, ma anche da Palazzo dei Marescialli, attraverso Davigo, per raggiungere San Macuto. L'ex pm di Mani Pulite, oltre che con altri consiglieri del Csm, aveva infatti parlato anche con il presidente dell'Antimafia Nicola Morra, «nella tromba delle scale» di Palazzo dei Marescialli, facendo un preciso puntuale riferimento al coinvolgimento (smentito dall'interessato) dell'ex amico e compagno di corrente Sebastiano Ardita, citato come affiliato alla loggia. E Morra ora ha trasmesso una nota ai pm della Capitale. Ieri intanto è stata la volta di Sorari davanti ai pm di Roma. Per due ore, ieri, il pm di Milano, Paolo Storari ha ripercorso davanti ai pm di Roma, che lo accusano di rivelazione del segreto d'ufficio, la vicenda dei sei verbali dell'avvocato Piero Amara secretati e consegnati nell'aprile 2020 a Davigo. Il passaggio sarebbe avvenuto a Milano, nei giorni del primo lockdown. Storari ha rivendicato la legittimità della sua iniziativa, affermando di sentirsi «sereno». Ha parlato di documenti consegnati per «autotutelarsi» (richiamandosi a una circolare del Csm del 94) perché, a suo dire, il procuratore capo di Milano Greco e l'aggiunto Laura Pedio avevano ritardato per mesi le iscrizioni di indagati, Amara compreso. «Storari non ha provocato assolutamente niente - ha detto il difensore Paolo Della Sala - Quello che è tecnicamente avvenuto è che le informazioni, perché i verbali non sono che il supporto di informazioni, sono state comunicate ad una persona autorizzata a riceverle. A sua volta questa persona le ha veicolate ad un organo istituzionalmente competente». E ancora, ad ulteriore chiarimento, il difensore del magistrato ha aggiunto che «tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari». Carte quindi consegnate, è in sintesi la versione fornita ai magistrati romani, senza infrangere regole e rispettando i ruoli. «Riteniamo perfettamente legittimo e conforme a legge quanto accaduto». Nell'ultima bufera che si abbatte sulla magistratura si è aggiunta due giorni fa la testimonianza del presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, che ha trasmesso ai pm di Roma una nota per riferire alcune circostanze relative a quei verbali «Ricordo perfettamente che Davigo mi portò nella tromba delle scale del Csm, questo atteggiamento mi insospettì, era quasi a far pensare che non ci si fidasse neanche del luogo in cui ci si trovava, mi disse semplicemente che sul dottor Ardita si stava adombrando un sospetto assai grave, e cioè che fosse in qualche modo organico a una loggia massonica segreta, occulta, in base alle dichiarazioni, io ricordo questo poi magari ricordo male, di un collaboratore di giustizia». E aggiunge: «Ricordo che rimasi basito, esterrefatto dalle dichiarazioni in questione». Morra ha aggiunto di avere parlato della vicenda con lo stesso Ardita e con il consigliere del Csm Nino Di Matteo, che gli suggerirono di andare in procura.

Loggia Ungheria, interrogato a Roma il pm milanese Paolo Storari. Il Dubbio il 10 maggio 2021. Il pm di Milano, Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, è stato interrogato negli uffici della procura Generale in piazza Adriana. È stato interrogato per circa due ore, dal procuratore di Roma Michele Prestipino e dai suoi sostituti, il pm di Milano, Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, che si è svolto negli uffici della procura Generale in piazza Adriana. Storari è stato iscritto nel registro degli indagati dai pm della Capitale in relazione al caso dei verbali degli interrogatori resi ai pm milanesi dall’avvocato Piero Amara. L’avvocato Paolo Della Sala, difensore del pm milanese ha detto: «Storari non ha provocato assolutamente niente. Quello che è tecnicamente accaduto, è che delle informazioni, perchè i verbali non sono che il supporto di informazioni, sono state comunicate ad una persona autorizzata a riceverle. A sua volta questa persona le ha veicolate ad un organo istituzionalmente competente». Ed ha aggiunto: «Storari consegnò gli atti per tatto istituzionale. Tenuto conto della delicatezza delle dichiarazioni che si ritiene siano oggetto di questa indagine. Riteniamo perfettamente legittimo è conforme a legge quanto accaduto». L’avvocato Della Sala ha parlato di un dottor Storari «sereno. Si tratta un magistrato, come ce ne sono moltissimi, la cui luce resta accesa fino a tardi la sera e tutti lo sanno. Molto amato all’interno del foro. È considerato anche dai colleghi, perchè ha sempre saputo lavorare con assoluta apertura, in condivisione con gli altri. Quindi è tutto meno che un soggetto portato all’individualismo. Risponderemo ogni volta che verremo convocati davanti all’autorità giudiziaria». Sulla posizione di Piercamillo Davigo l’avvocato Della Sala ha affermato: «Tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari». Ieri il procuratore di Milano Francesco Greco è stato in procura a Roma nell’ufficio del procuratore Michele Prestipino dove erano presenti anche i pm Fabrizio Tucci e Rosalia Affinito, titolari dell’inchiesta che vede indagata per calunnia l’impiegata del Csm (attualmente sospesa) Marcella Contrafatto, la segretaria dell’ex consigliere Piercamillo Davigo che avrebbe veicolato ad alcuni giornali  i verbali di interrogatorio coperti da segreto resi lo scorso anno al pm Paolo Storari dall’avvocato Piero Amara.

Giovanni Bianconi e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 maggio 2021. «Informazioni comunicate a persona autorizzata a riceverle». Per il pubblico ministero milanese Paolo Storari - che con la consegna dei verbali segreti all'allora componente del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo innescò un anno fa la bomba esplosa ora con la diffusione anonima di quelle stesse carte - il caso Amara-Csm-corvo è tutto qui. Per quel che lo riguarda, dunque, non è un caso. Ma resta indagato per violazione del segreto d'ufficio, sebbene all'uscita dall'interrogatorio davanti al procuratore di Roma Michele Prestipino il suo avvocato Paolo Della Sala neghi l'esistenza di reati. Ricordando che il suo assistito è «un magistrato, come ce ne sono moltissimi, la luce del cui ufficio resta accesa fino a tardi la sera, molto amato all'interno del foro e considerato dai colleghi perché ha sempre saputo lavorare anche con assoluta apertura, in condivisione con gli altri; è tutto meno che un soggetto portato all'individualismo». Parole che tendono a stemperare, o comunque non attribuire a Storari, il contrasto con il procuratore Francesco Greco che l'ha portato a bussare alla porta del collega Davigo. Ma al di là dei giudizi dell'avvocato difensore sulla «serenità» del pm inquisito, resta l'oscura e intricata vicenda del dossieraggio attribuito alla ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, indagata per calunnia, e tutte le polemiche che ha provocato. Soprattutto all'interno della magistratura e del suo organo di autogoverno, con inevitabili code politiche. Ai colleghi di Roma che hanno nel fascicolo una relazione del procuratore Greco in cui si afferma che Storari riferì che la consegna a Davigo degli interrogatori dove Amara parla della fantomatica loggia massonica coperta Ungheria (luogo in cui politici, magistrati, avvocati, vertici delle forze dell'ordine e professionisti pianificavano nomine e strategie) avvenne a Roma nell'aprile di un anno fa, l'interessato ha invece ribadito ciò che aveva già testimoniato Davigo mercoledì scorso: l'incontro si svolse a Milano, in pieno lockdown anti-Covid, quando il Csm era chiuso e l'ex consigliere non aveva motivo per andare nella capitale. L'indicazione contenuta nella relazione di Greco sarebbe dunque stata frutto di un suo errore di comprensione, che ha radicato per due settimane la competenza dell'indagine sulla violazione del segreto nella Procura sbagliata. All'inizio della prossima settimana il procuratore di Brescia Francesco Prete andrà nella capitale per una riunione di coordinamento con il collega Prestipino, e all'esito della riunione è assai probabile che il fascicolo venga trasmesso per competenza a Brescia, città dove vengono giudicati gli ipotetici reati commessi da magistrati milanesi nel loro distretto. Dopo aver ricevuto l'indicazione precisa sul luogo della consegna, i pm di Roma si sono limitati a raccogliere solo una generale ricostruzione anticipata da Storari sul movente del proprio gesto, vale a dire le ragioni per cui riteneva inerti il procuratore e gli aggiunti Laura Pedio e Fabio Di Pasquale rispetto alla necessità di verificare le dichiarazioni di Amara. Ma il pm milanese ha voluto specificare che è stato lo stesso Davigo a rassicurarlo sulla possibilità di consegnargli i verbali senza violare alcuna regola o legge, giacché i consiglieri del Csm possono consultare e ricevere anche atti segreti. Una garanzia alla quale aggiunse che poi avrebbe pensato lui a muovere i passi giusti all'interno dell'organo di autogoverno. In effetti Davigo parlò delle dichiarazioni di Amara sulla loggia «Ungheria» al vicepresidente David Ermini, al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, al primo presidente Pietro Curzio e ad altri consiglieri, ma senza atti formali. E ieri Ermini ha smentito di aver mai avuto dall'ex consigliere un appunto scritto. Dopo la riunione della prossima settimana, probabilmente alla presenza del pg Salvi, a Roma resterà l'indagine sulle spedizioni anonime del «corvo», che ha recapitato gli stessi verbali consegnati da Storari a Davigo, a due giornalisti e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Il quale ha denunciato il «dossieraggio» ai danni del collega Sebastiano Ardita (tirato in ballo nelle dichiarazioni di Amara), di cui è rimasto amico a differenza di Davigo che ha interrotto ogni relazione. Una spaccatura tra magistrati che continua a provocare reazioni sul fronte politico. Ieri il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (che venerdì ha riferito alla Procura di Roma di essere stato pure lui informato da Davigo un anno fa dell'esistenza di quei verbali, col riferimento a Ardita), ha aggiunto di essere andato ora dai pm romani «su suggerimento» dello stesso Ardita e di Di Matteo. E ha così spiegato la ragione per la quale era andato a cercare Davigo avendo saputo che si erano rotti i rapporti tra i due leader della corrente di Autonomia e indipendenza: «Lavoravo affinché quel gruppo recuperasse uno spirito di dialogo interno che li rendesse nuovamente punti di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria».

Caso verbali, Palamara: «Storari agì bene. Davigo? Non parlo…».  Il Dubbio il 10 maggio 2021. In studio da Massimo Giletti anche il presidente della commissione antimafia Nicola Morra: «Con questa operazione "diabolica" si è incrinato un fronte e i gattopardi di un vecchio sistema sono tornati dietro le quinte». «Io inviterei a guardare alla sostanza di quanto è accaduto, più che alla forma. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la vita quotidiana di una Procura sa che è prassi costante che un sostituto, soprattutto nei frangenti più delicati, senta il bisogno di trovare un momento di conforto e di condivisione da parte di colleghi che ritiene più preparati e che considera un punto di riferimento. È questo che credo sia avvenuto tra Storari e Davigo». Lo afferma Luca Palamara, ex magistrato ed ex componente del Csm, in un’intervista a Il Giornale sul caso dei verbali di Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni che ha parlato ai magistrati della presunta loggia massonica “Ungheria”. La prima commissione del Csm, continua l’ex capo dell’Anm, «è competente su tutte le problematiche interne agli uffici giudiziari: quando a un pm viene tolta una inchiesta, o anche quando, come in questo caso è innegabile, ci sono contrasti interni». Per Palamara «ci sono colleghi che a un certo punto di una indagine sentono la necessità di confrontarsi, soprattutto se sono fortemente convinti di essere dalla parte della verità. Storari lo ha fatto con un collega non solo più esperto ma che ricopriva un ruolo istituzionale». Le procure, continua, «in genere pensano che il Csm sia un colabrodo e si tengono strette le notizie fin quando possono. Nel mio caso, tra la mia iscrizione nel registro degli indagati e la comunicazione al Consiglio sono passati sei mesi». Su Piercamillo Davigo «non parlo perché non so ancora cosa abbia fatto di quei verbali». «Purtroppo spesso le informazioni vengono usate per colpire avversari», sottolinea l’ex magistrato ieri sera a Non è l’arena su La7. «Il caso di Di Matteo dimostra che chi non ha fatto parte del mondo delle correnti della magistratura riesce ad avere una visuale diversa da quella degli altri e può diventare una sorta di valore aggiunto – dice Palamara – Lui ha voluto andare fino in fondo per andare a vedere la verità». In studio da Massimo Giletti anche il presidente della commissione antimafia Nicola Morra che ribadisce la sua versione: «Piercamillo Davigo mi invitò a uscire dal suo studio e mi ha mostrato i verbali nella tromba delle scale a Palazzo dei Marescialli. Mi è stato mostrato un faldone di carte stampate. Ma Davigo mi ha mostrato solo il nome di Ardita». «Con le elezioni dell’ultimo Csm – dice Morra – c’era stato un importante successo di Autonomia e Indipendenza, la corrente fondata da Davigo e in cui c’era anche Sebastiano Ardita. Con questa operazione “diabolica” si è incrinato un fronte e i gattopardi di un vecchio sistema sono tornati dietro le quinte».

Luca Fazzo per "il Giornale" il 10 maggio 2021. Non c'è niente di male, niente di anomalo, in un pubblico ministero che davanti a un'inchiesta difficile chiede l'aiuto di un collega più esperto e più autorevole. A Paolo Storari, il magistrato milanese che ha consegnato a Piercamillo Davigo i verbali del caso Amara, e che per questo è finito sotto inchiesta e rischia il posto, arriva l'appoggio esplicito di uno che conosce bene il mondo del Consiglio superiore della magistratura, le sue regole ufficiali e le sue dinamiche nascoste: Luca Palamara.

Converrà che il passaggio brevi manu di una copia non firmata dei verbali da un pm a un membro del Csm non si era mai visto.

«Io inviterei a guardare alla sostanza di quanto è accaduto, più che alla forma. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la vita quotidiana di una Procura sa che è prassi costante che un sostituto, soprattutto nei frangenti più delicati, senta il bisogno di trovare un momento di conforto e di condivisione da parte di colleghi che ritiene più preparati e che considera un punto di riferimento. È questo che credo sia avvenuto tra Storari e Davigo».

I consiglieri del Csm non hanno tra i loro compiti fare da tutor ai giovani colleghi.

«La prima commissione è competente su tutte le problematiche interne agli uffici giudiziari: quando a un pm viene tolta una inchiesta, o anche quando, come in questo caso è innegabile, ci sono contrasti interni».

Ma Storari non avrebbe dovuto seguire un canale più limpido, più istituzionale?

«Vorrei ricordare che di una vicenda assai simile io fui protagonista quando il collega romano Stefano Fava si rivolse a me per lamentare il trattamento che riceveva dai capi dell' ufficio, e anche lì c' era di mezzo l' indagine sull' avvocato Amara. Io lo invitai a seguire i canali formali e a inviare, se lo riteneva, un esposto al Csm».

Storari poteva fare lo stesso.

«Ripeto: guardiamo alla sostanza. Ci sono colleghi che a un certo punto di una indagine sentono la necessità di confrontarsi, soprattutto se sono fortemente convinti di essere dalla parte della verità. Storari lo ha fatto con un collega non solo più esperto ma che ricopriva un ruolo istituzionale».

Ma quei verbali erano segreti.

«Ci sono due circolari molto precise che regolano questa materia. La prima dice che se il Csm chiede a una Procura atti di una indagine che coinvolge magistrati, ha il diritto di ottenerli. La seconda, che se una Procura iscrive un magistrato nel registro degli indagati ha l'obbligo di comunicarlo subito al Csm: per evitare, per esempio, che un indagato venga nel frattempo promosso. Il segreto istruttorio non può essere opposto davanti al Consiglio superiore, se non per ragioni assolute di tutela della segretezza delle indagini».

In concreto cosa accade? Quando lei era al Csm, le varie Procure vi raccontavano volentieri i fatti loro?

«In teoria le due esigenze andrebbero bilanciate. Nei fatti, le Procure in genere pensano che il Csm sia un colabrodo e si tengono strette le notizie fin quando possono. Nel mio caso, tra la mia iscrizione nel registro degli indagati e la comunicazione al Consiglio sono passati sei mesi».

Quindi Storari non ha colpe. Ma Davigo che quei verbali li accetta?

«Su Davigo non parlo perché non so ancora cosa abbia fatto di quei verbali».

L'intervista a Libero del direttore del Riformista. Sansonetti spara a zero sulla magistratura: “Opera nella totale illegalità. Davigo? Un bulletto”. Vito Califano su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Non è inverosimile che questa la loggia Ungheria esista per davvero. Lo ha detto il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti in un’intervista a Libero. “Anzi, per me potrebbero esistere pure una loggia Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania – ha aggiunto Sansonetti replicando a Giorgio Specchia – Il punto vero è che quello che sta succedendo dentro una magistratura che opera nella totale illegalità, io lo denuncio da tempo. Ci sono oramai episodi, fatti, comportamenti che superano la mia fantasia. Gli atteggiamenti di Davigo sono di una gravità inaudita, ma ancor di più lo è un potere dello Stato, quello dei magistrati che da anni schiaccia gli altri senza che nessuno reagisca”. Piercamillo Davigo, il “Dottor Sottile” di Mani Pulite, ex consigliere del Csm, anche detto “PierCavillo”, quindi “Pieranguillo” in ultimo dall’ex magistrato Alfredo Robledo, è al centro della questione “Ungheria”. Ha ricevuto i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara in formato word, dal giudice di Milano Paolo Storari, e invece di comunicare il tutto formalmente al Consiglio, ha soltanto accennato informalmente ad alcune personalità del caso. La sua ex segretaria, Marcella Contrafatto, è la principale sospettata di aver fatto trapelare quegli stessi verbali ai quotidiani La Repubblica e Il Fatto Quotidiano. A denunciare la vicenda Nino Di Matteo, consigliere del Csm, che pure aveva ricevuto quei verbali. “Davigo si presentava come Savonarola – la risposta di Sansonetti – invece ci fa la figura di un bulletto qualunque. Se le cose che ha fatto lui le avesse fatte un politico sarebbe già stato incriminato. Invece qui, inspiegabilmente, non è nemmeno indiziato di reato. Io non so se i documenti li avesse spediti la segretaria con o senza il suo consenso, ma a questo punto non è essenziale”. Le radici del problema, della crisi della magistratura, esacerbata ed esplosa con il caso Palamara e quindi con quello della Loggia Ungheria, per Sansonetti risalgono a molti anni fa, agli anni ’70. “La conclusione è che la magistratura non ricerca più la Giustizia ma la gestione del potere. Non siamo un Paese normale”. E Specchia cita nell’intervista un sondaggio pubblicato da Libero nel quale si riporta che il 77% degli italiani non si fida più dei giudici.

Sulla trincea delle riforme vanno cancellate “la Bonafede, e la Spazzacorrotti e tutte le altre leggi terribili maturate nel ‘periodo del terrore’ (ma, tieni conto che a quelle leggi ha partecipato anche Salvini nel governo giallo verde)” che invece sulla raccolta firme per quattro referendum sulle carriere, la magistratura, il Csm sta “facendo la cosa migliore da quando lo conosco, e con lui non sono mai stato tenero”. E quindi il referendum è l’unico strumento per superare “in aula il partito dei giudici”, ovvero il Movimento 5 Stelle, al quale “togli la forza, il patibolo, che rimane? I discorsi di Grillo?”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 10 maggio 2021. Vi risparmio i dettagli sulla crisi della magistratura perché la vicenda scandalosa è talmente complicata che confesso di non averci capito quasi niente, tranne una cosa: siamo nella più totale confusione. Il personaggio in questi giorni più chiacchierato è Piercamillo (detto Piercavillo) Davigo, accusato forse ingiustamente di aver combinato un casino. Vedremo quando verrà fatta luce. Devo ammettere che, nonostante tutto, a me questo ex pm è simpatico. Uno che ha detto con enfasi che non esistono innocenti ma soltanto colpevoli che l'hanno fatta franca è un battutista di talento. Davigo stesso d' altronde l'ha fatta franca, tanto è vero che i suoi colleghi hanno dovuto aspettare che egli andasse in pensione per attaccarlo per una questione che a me pare, forse per sbaglio, di lana caprina. Piercamillo ha lavorato una vita alla procura di Milano dimostrando di essere rigoroso, forse troppo, ma senza mai ricevere una critica. Adesso che ha conquistato il meritato riposo gli rompono le scatole. Strano. Mi viene voglia di difenderlo benché lui negli anni Novanta ebbe a querelarmi. Spiego il motivo. In un articolo sul Giornale, già di Montanelli, avevo scritto che Davigo era sempre stato il primo della classe, fin da piccolo. Però aveva un difetto. Eseguiva i compiti perfettamente, tuttavia non consentiva ai compagni di classe di copiare i suoi elaborati, nascondendoli con la carta assorbente, come usano fare quasi tutti i secchioni. Il mio era un brano scherzoso per quanto non molto distante dalla verità. Ebbene, il magistrato invece di fare una risata pensò bene di denunciarmi quasi gli avessi dato del malandrino. Si va ovviamente a processo per diffamazione e sorprendentemente vengo condannato. Non ricordo la pena se non che fu pecuniaria. Rimasi di stucco, ma già allora sapevo che le cause intentate dalle toghe nei confronti dei giornalisti finivano immancabilmente allo stesso modo: sentenza favorevole ai colleghi dei giudici. Già questo assioma dovrebbe indurre alla riflessione, però sorvoliamo. Me ne successe un'altra in quel periodo, che fa ancor più ridere. Vergai un fondo dedicato a una magistrata molto famosa: la Boccassini, professionista capace e donna indomabile. Osservai di lei che era talmente tosta da mettere paura non solamente agli imputati, bensì anche a me che non avevo pendenze. E precisai: ho talmente timore della signora che mi guarderei dal salire in sua compagnia perfino in ascensore. Una battutaccia che non aveva nulla di offensivo. Ciononostante ella mi querelò. Il processo di lì a un paio di anni si celebrò a Brescia e naturalmente fui punito: altri soldi prelevati dalle mie tasche. Niente di clamoroso, per carità, mi potevo e mi posso permettere di foraggiare pure le toghe. Eppure ammetto di essermi scocciato poiché ho afferrato che la Giustizia non è una faccenda seria e conviene, ove ci sia l'opportunità, scansarla allo scopo di evitare grane comunque fastidiose. Ecco perché l'idea di Salvini e dei radicali di organizzare un referendum per riformare l'ordine giudiziario mi sembra eccellente e ne incoraggio la realizzazione. Senza rancore.

Loggia Ungheria, accuse e giustizialismo. Ardita si difende da Formigli e rivendica il suo giustizialismo: “Mai stato garantista”. Giorgio Varano su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Ardita ma amara è la vita nel Csm, anche se ha i tratti della sit-comedy. Le dichiarazioni di Davigo e Ardita andate in onda su La7 hanno ricordato i migliori botta e risposta di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. L’apice della comicità (tragica) è stato toccato quando Ardita si è accalorato di più perché non è stato evidenziato come decisivo, ai fini della immediata riconoscibilità delle dichiarazioni di Amara come una “bufala”, l’elemento più orrendamente calunnioso a suo danno: il far parte di una conventicola di garantisti che combattono i giustizialisti! Per la serie, finché parliamo delle accuse di far parte della “Loggia Ungheria” rispondo con calma, ma come vi permettete di dare del garantista proprio a me? «Già nel 2006 ho fatto tanti e tali di quei processi che riguardavano soggetti di vertice, con responsabilità importantissime, che tutto potevo essere considerato fuorché un garantista!». Come se il garantismo fosse uno dei vari standard di unità di misura o di peso, e non la giusta cultura delle regole del processo e dei diritti di tutti. Ma è evidente che in certi ambienti il mero sospetto di essere portatore di garantismo rischia di farti vivere una vita di inferno, sempre lì a dover spiegare che non è vero, a dover combattere questa odiosa maldicenza delle malelingue! Poi c’è stato il momento sentimentale. «Voglio un confronto, voglio guardarlo negli occhi e dirgli moltissime cose!». È una frase un po’ patetica, ma chi siamo noi per giudicare? Del resto, tanti hanno avuto un amore sbagliato finito in malo modo al quale avrebbero voluto dire addio in modo civile (magari non in tv in prima serata). Dopo questo sfogo, Ardita è ritornato subito nel suo personaggio di grande moralizzatore, ricordando che «c’è un modo per essere consigliere». Saremmo curiosi di capire qual è, visto che formalmente non c’è perché non esiste un codice dei doveri dei consiglieri del Csm. Poi, è arrivata la parte inquietante. Il rapporto con Davigo si è interrotto per «delle gravissime questioni che certamente non possono essere trattate in questa sede». Fermi tutti! Un consigliere in carica del Csm afferma in prima serata in tv che ci sono “gravissime” questioni che riguardano il suo rapporto con un ex consigliere. Ora, o Davigo parcheggiava male la Smart prendendo anche il posto di Ardita nel parcheggio del Csm, e allora è una questione loro (obiettivamente gravissima), o queste questioni riguardano i rapporti nel Consiglio, il governo della magistratura e l’amministrazione della giustizia, e dunque tutti i cittadini. Ardita avrebbe il dovere di dirle subito, pubblicamente oltre che al Csm, ma si è visto che sui doveri dei consiglieri c’è molta originalità di pensiero. Ma quando un amore finisce non è giusto parlare solo di uno dei due, anche perché l’altro è stato a sua volta spassoso. Davigo, infatti, confonde l’organo di governo della magistratura con la sua persona (chi se lo sarebbe mai aspettato…), affermando che il segreto investigativo non è opponibile al Csm, leggasi una “recentissima” circolare del 1994. Ovviamente questa circolare dice altro: al Csm come organo, nello svolgimento delle sue funzioni, l’autorità giudiziaria non può opporre il segreto su fatti che possono avere rilievo disciplinare. Dunque al Csm che chiede informazioni, non ad un singolo consigliere che invece le riceve a casa sua da un pubblico ministero su libera volontà di quest’ultimo. Gustoso il passaggio dei fogli word stampati dal pm come supporto alla memoria quando quest’ultimo ha interloquito con lui. Mica uno può ricordarsi tutto? Ti chiamo per parlarti di una indagine, finisce che mentre arrivo a casa tua me ne dimentico – del resto le distrazioni erano tante durante il lockdown… – e allora stampo qualche foglio (verbali senza firma…) contenente accuse gravissime per ricordarmi che te ne devo parlare. Poi, quei fogli che erano a supporto della mia memoria, te li lascio. Ma questo solo perché non avevo stampato anche un foglio con la scritta «ricordarsi di non lasciare i fogli». Dopo Davigo ne ha parlato solo con qualche consigliere del Csm, ma giusto perché erano questioni riservate e segrete! Teme di essere indagato? Assolutamente no! Questa affermazione ricorda una famosa commedia (Non ti pago) del compianto Eduardo De Filippo, quando quest’ultimo, a chi lo avvisa che potrebbe essere denunciato, risponde: e io non accetto la denuncia! Ma è stata una serata anche “amara” per tutti noi della conventicola dei garantisti. Perché, sì abbiamo riso subito dopo averla sentita, ma abbiamo tutti provato quell’inconfessabile e triste rammarico che si prova quando la battuta migliore, quella che cercavi da anni, la fa un altro. E allora dobbiamo rendere onore ad Alfredo Robledo. Dopo aver ascoltato le sfuggenti dichiarazioni di Davigo, definirlo “PierAnguillo” non solo è stata la migliore battuta mai sentita su di lui, ma anche il più degno epitaffio alla carriera del Totem della conventicola dei giustizialisti. Giorgio Varano

Quel rito che non aggiri mai. Dopo i politici tocca alle toghe: la decapitazione dei capi. Massimo Donini su Il Riformista il 10 Maggio 2021. C’è un apologo di Italo Calvino intitolato La decapitazione dei capi (è raccolto in Calvino, Prima che tu dica pronto, Mondadori, 2011, 129 ss.). In una società immaginaria, collocabile nella Russia della Rivoluzione d’Ottobre, una sorta di Repubblica dei Soviet, esiste un movimento i cui militanti devono «seguire senza discussioni le decisioni del direttivo». Obiettivo è realizzare una società egualitaria, in cui il potere sia regolato dall’uccisione periodica dei capi elettivi. Infatti, ogni funzione di comando è ammissibile solo se esercitata da chi abbia già rinunciato a godere dei privilegi del potere, e virtualmente non sia più da considerarsi nel numero dei vivi. Il movimento deve decidere per i propri politici un destino di eliminazione. Ci si arriva gradualmente. Le mutilazioni ed esecuzioni periodiche hanno un effetto benefico e si celebra una festa popolare per vederli salire sul palco per l’esecuzione. Si tiene così la festa dei capi, che è la decapitazione dei capi. Il capo sa che per definizione è destinato alla decapitazione. Lo accetta. Tutto il suo potere ha questo prezzo. Si tratta di una decapitazione fisica o al limite di una mutilazione della lingua o delle falangi, che ricorda al capo il limite del suo potere, la violenza che il suo esercizio reca con sé, rivolgendosi contro chi l’ha esercitato. È questo un modello di ricambio punitivo del potere che passa dunque attraverso atti di violenza, ma il suo esercizio lo si può immaginare come punizione giurisdizionale, come criminalizzazione: e allora cambiando soggetti e tempi ci si presenta un’immagine assai più vicina alla nostra società politica e alla sua Repubblica giudiziaria. C’è una logica sanguinaria in questo ricambio dei capi attraverso atti di imputazione penale. Sembra un copione che tutti, politici, pubblici amministratori, sindaci, accettano, quando usano, cavalcano o comunque tollerano l’incolpazione insorta contro gli avversari senza neppure dubitare che domani toccherà a loro stessi. Questo destino collettivo è anzi atteso. La giustizia (“ho fiducia nella giustizia”: sic) è uno strumento di lotta politica, ma anche di catarsi collettiva. Solo i magistrati ne sono esenti, ma non appena si avventurano a perseguire il potere e le sue logiche, sono destinati anch’essi a subire la medesima sorte. Devono essere decapitati. Tutti accettano ormai questo rito. La società lo trova naturale. Che qualcuno sia colpevole è una convenzione. Molti lo saranno, ma non è questo che importa, in fondo. È decisivo che il ricambio sia se non una prigionia, almeno un esilio, un allontanamento, una macchia, comunque una perdita di ruolo, di immagine, di onore pubblico, oltre che di potere e di riconoscimento. La gestione impunita del potere è insopportabile e la società ha bisogno continuamente di riti di espiazione contro i potenti. Solo in via sempre più eccezionale accetta che la loro uscita di scena sia naturale o senza verifiche almeno infamanti anche a posteriori. Per quanto riguarda i magistrati, l’unico capo veramente decapitato finora è stato Luca Palamara e può accadere che si faccia di tutto per non estendere a macchia d’olio i giudizi di corresponsabilità, di connivenza, o di omesso impedimento, a vari livelli, attorno a questa e altre più recenti vicende che hanno palesato, nel cuore del funzionamento di alcune Procure della Repubblica, o di vertici istituzionali, opacità e collusioni, spartizione di ruoli e cariche, omertà, volontà di potenza e pura gestione di affari e scambi, anziché servizio alle istituzioni. Una politica che ha sostituito le manette e il diritto penale all’etica pubblica, e che attende solo di essere libera almeno provvisoriamente da rischi di incriminazioni per perpetuare la sua amoralità, si è alla fine confusa con i suoi presunti controllori, li ha contaminati e delegittimati. I chirurghi che volevano salvare la società dall’esterno a suon di processi penali, potrebbero finire sotto inchiesta. Ormai la società lo desidera. Anche loro stessi, forse, per eguaglianza nel destino e nel riconoscimento del vero potere esercitato. Ne prenderanno il posto altri chirurghi salvatori, la cui ritrovata separatezza dalle logiche della società civile, unita alla temporaneità abbreviata di ogni ruolo direttivo, potrà assicurar loro la liberazione dal sospetto di essere veramente meritevoli di un’ennesima decapitazione giudiziaria. Massimo Donini

Tutti contro tutti: se fossero militari, crollerebbe il sistema Italia. Caso Amara e il pollaio a Piazza Pulita: Davigo e gli altri pm se le danno di santa ragione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Maggio 2021. Ormai non c’è più un “caso Palamara”, tanto l’hanno fatto fuori, salvo sorprese. Ma non c’è più neanche un “caso Davigo”, tanto lo stanno scaricando tutti. A questo punto c’è una questione democrazia, quella che si verifica quando a un certo punto insorgono le toghe o le divise. Proviamo a immaginare per un attimo se all’improvviso un generale dei carabinieri, sospettato senza prove di averne combinata qualcuna, si mettesse a raccontare il Sistema delle divise fatto di accordi e intrallazzi tra tutte le correnti politiche dell’Arma. E che cosa succederebbe se poi arrivasse un capitano della guardia di finanza (magari lo stesso che aveva accusato il generale) a raccontare l’esistenza di una “Loggia dei Marescialli” che coinvolgeva mezza Italia, politici, imprenditori, magistrati, carabinieri, forze di polizia, guardia di finanza e persino agenti penitenziari? E se questo capitano, qualche suo collega volesse arrestarlo, ma altri lo considerassero un millantatore, e tutte le divise cominciassero a combattere le une contro le altre e qualcuno mandasse tutte le intercettazioni dei loro battibecchi ai giornali? E se si scaricasse su una segretaria la responsabilità della fuga di notizie e conseguente calunnia, ma poi la stessa lasciasse intendere di avere un ben sacco da vuotare? Rischierebbe di crollare il sistema Italia. La puntata di giovedì sera della trasmissione Piazza Pulita era lo specchio di qualcosa di simile a un’insurrezione di divise. Oddio, forse più un pollaio che una caserma. L’ex magistrato Davigo, prima declassato a Piercavillo, infine, per bocca di un altro ex della procura milanese, Alfredo Robledo, ridotto a un Pieranguillo, era una specie di fantasma che aleggiava in tutta la trasmissione. Gli era stata data la prima parola, in un’intervista registrata nella sua casa milanese, la stessa in cui, si dice, sarebbe avvenuto il fattaccio, il passaggio di documenti con le deposizioni dell’avvocato siciliano Piero Amara dalle mani del pm Paolo Storari. E qui si aprono già due problemi, perché quelle carte in teoria facevano parte di un’indagine in corso ed erano secretate, tanto che l’inquirente milanese è oggi indagato proprio per la diffusione di quegli atti. Non di ricettazione, come sarebbe capitato a un comune mortale senza toga. Davigo invece non è indagato per niente, e alla domanda del giornalista risponde indignato, ritrovando per un attimo l’antica verve di barzellettiere: figuratevi se mi spavento, ai tempi di Mani Pulite sono stato indagato 33 volte a Brescia! Se l’inchiesta sulla fuga di notizie l’avesse condotta lui siamo sicuri che avrebbe fatto battute del tipo: è ladro sia chi ruba che chi porta il sacco, e non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. Ma Piercavillo ha il cavillo bell’e pronto: il pm Storari non gli avrebbe dato i documenti cartacei ma una copia word senza timbri né firme. E allora? Quegli atti erano o no secretati? Era o no un reato il diffonderli e, si suppone, anche riceverli? Il secondo problema è quello della competenza territoriale. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco, che sta preparando una relazione con la fidatissima “aggiunta” Laura Pedio da inviare a Roma al Csm, afferma che il dottor Storari gli avrebbe detto di aver consegnato le carte a Roma. Davigo dice invece che il fattaccio è avvenuto a Milano, e sicuramente sarà così. Quindi a chi andrà l’inchiesta, al procuratore romano Prestipino (quello che Davigo contribuì a far nominare benché un tribunale abbia sancito che non avesse i requisiti) o al suo omologo bresciano Prete, cioè un ex sottoposto di Greco a Milano? Chissà come mai, qualcosa che somiglia tanto a qualche conflittuccio di interessi c’è sempre. Un bell’intrigo di toghe. Giovedì sera erano peggio dei polli di Renzo. Palamara che ghignava nel sentire le parole di Davigo, il quale spiegava al colto e all’inclito di essersi tenute strette le carte (pardon, il word) e di non averne formalizzato la deposizione protocollata al direttivo del Csm per non “produrre guai”, perché “le strade formali avrebbero disvelato tutta la vicenda”. A questo punto l’inclito, più che il colto, potrebbe domandarsi: se ho capito bene, la segretezza da parte dei suoi colleghi viene osservata solo se si fanno loro confidenze aum aum? Se invece si percorrono le vie formali (e obbligatorie, secondo una circolare interna al Consiglio del 1994), allora le toghe si trasformano tutte nella rana dalla bocca larga? È proprio l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, quello che uscì sconfitto da un precedente conflitto con l’ex capo Edmondo Bruti Liberati dopo un intervento del presidente Giorgio Napolitano al Csm, a tirare le sciabolate più forti. Le affermazioni di Davigo non mi convincono per niente, butta lì. Ma per favore! Prima di tutto lui non avrebbe dovuto accettare di ricevere proprio niente, e comunque verbali o non verbali, carta o non carta, tutto questo è solo un’ipocrisia. E poi comunque, una volta ricevuti quegli atti, avrebbe dovuto subito protocollarli al direttivo del Csm. Non c’era nessun pericolo di “disvelamento”, fa poi il verso al termine scelto dall’antico collega. Poi la stilettata finale: Davigo fa il divulgatore nei fatti, e Amara è un avvelenatore di pozzi. C’è un altro nome che aleggia, e che il dottor Davigo nell’intervista non cita, se non per allusione. È quello del suo ex amico, poi diventato nemico, e infine trasformato in uno di cui si dice alla segretaria di non farlo neanche entrare nell’ufficio del Csm dove è custodito il famoso file con le deposizioni di Amara. Già, perché in quelle carte (pardon, word) c’è proprio quel nome, quello di Sebastiano Ardita, a sua volta membro del Csm. Sarebbe uno della “Loggia Ungheria”. Ma il cenno alla sua persona è talmente strampalato e pieno di inesattezze gravi, che nessuno avrebbe dovuto prendere neanche per un attimo in considerazione quelle righe. Ardita è arrabbiatissimo con il suo vecchio amico, così impugna il telefono come fosse un’arma (di difesa) e chiama la trasmissione. Il succo della sua incazzatura è che Davigo, in quanto ex amico, sapeva benissimo che nelle parole dell’avvocato Amara non c’era nulla di vero. Ma è furibondo anche perché, a quanto pare, l’ex collega ha parlato di quelle carte con tutti tranne che con lui, “perché non mi rivolge più la parola”. Poi la sua sentenza, lapidaria: la rivelazione del segreto è un reato. E già, l’aveva capito anche l’inclito, oltre al colto Ardita, che ci sono colpevoli che l’hanno fatta franca. Per ora. Intanto sabato pubblico ministero Storari è stato sentito dal procuratore di Roma Prestipino come indagato per violazione di segreto d’ufficio. Avrebbe spifferato da solo. E, se sarà dato credito alla relazione ormai pronta del procuratore Greco, che lo accusa di non aver rispettato le regole, il sostituto milanese rischia anche un’azione disciplinare o addirittura il trasferimento. Un’altra vittima sacrificale come Luca Palamara?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da blitzquotidiano.it il 10 maggio 2021. Stefano Bisi: “La fantomatica loggia Ungheria non è tra le 870 logge che fanno parte del Grande Oriente d’Italia. Usare il termine loggia in maniera spregiativa è pericoloso per chi fa parte di logge regolari, c’è il rischio che qualche mente folle possa vendicarsi di eventuali torti subiti prendendosela con chi si comporta da cittadino esemplare”. Bisi è intervenuto ai microfoni della trasmissione "L’Italia s’è desta", condotta da Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti, su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Stefano Bisi sulla presunta Loggia Ungheria. Sulla presunta loggia Ungheria Bisi ha affermato: “La fantomatica loggia Ungheria non è tra le 870 logge che fanno parte del Goi. Dispiace quando si vede accostato il termine loggia a gruppi che poi non si sa se esistono, con accezione negativa, per denigrare persone che fanno parte di gruppi regolari. Questo utilizzo del termine loggia è molto pericoloso per chi fa parte delle logge regolari. Quando si attribuisce ai massoni le peggiori nefandezze, c’è il rischio che qualche mente folle possa vendicarsi di eventuali torti subiti contro chi la sera va in loggia e si comporta da cittadino esemplare. Ci vuole attenzione all’utilizzo dei termini. Noi facciamo le nostre riunioni regolari, cerchiamo di essere sempre disponibili all’ascolto, a parlare, a spiegare”.

Bisi e l’utilizzo del termine loggia. “Spesso è una sintesi giornalistica affidare il termine loggia ad un gruppo, la p3, la p4 erano gruppi che operavano per fini più o meno leciti, ma non erano i partecipanti al gruppo a darsi questa definizione. Il complottismo va sempre di moda, nei momenti difficili di un Paese, è la risposta più facile perché diamo la patente di verità anche a fatti che noi sappiamo non essere veri. Noi del Goi cerchiamo di essere chiari nei nostri scopi, principi e attività, purtroppo però il complottismo viene da molto lontano, non viene dagli anni 70-80, ma già nella scomunica del 1738 fatta da Papa Clemente XII. Poi la P2, per errori dei vertici di quel momento del Goi, venne utilizzata impropriamente da un personaggio che fu espulso dal Goi e tanti danni ancora ha fatto nell’immaginario collettivo. Quella non era più una loggia, si era trasformata in altra cosa. Gelli fu espulso prima della scoperta degli elenchi da parte dell’autorità giudiziaria. Per entrare nel Goi occorre presentare il certificato del casellario giudiziario e dei carichi pendenti e se non è immacolato non viene ammesso al Goi”.

Csm, botte da orbi in tv. Davigo: «Non mostrai nessun verbale a Morra». L'ex pm di Mani Pulite smentisce l'amico e presidente della Commissione antimafia, che ha dichiarato pubblicamente di aver visto i verbali dell'ex avvocato esterno dell'Eni Piero Amara. Il Dubbio il 12 maggio 2021. «Il senatore Morra ricorda cose fantasiose: non gli ho mostrato nessun verbale». In quella che sembra la nuova telenovelas delle toghe irrompe un nuovo colpo di scena. Perché dopo la “confessione” di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, che ha affermato davanti ai pm romani – e in tv – di aver saputo dall’ex magistrato Piercamillo Davigo dei verbali di Piero Amara, arriva la smentita dell’ex consigliere del Csm. Secca, senza ammissione di repliche, dura. Al punto da minacciare querela a chi, come Matteo Renzi, ha iniziato a ironizzare sul suo giustizialismo a «corrente alternata». La smentita di Davigo arriva sempre in tv, a Di Martedì, dove l’ex pm di Mani Pulite ricostruisce il famoso incontro con Morra «nella tromba delle scale» di Palazzo dei Marescialli ridisegnandone i contorni. «Il senatore Morra, presidente della commissione Antimafia, è venuto da me e voleva in quel momento parlare con Ardita, con il quale avevo interrotto i rapporti perché in passato si erano verificati alcuni fatti che avevano fatto venire meno il rapporto fiduciario – ha spiegato Davigo -. Morra voleva che parlassimo insieme con Ardita, siccome insisteva, l’ho preso in disparte e gli ho chiesto di uscire dalla mia stanza. Non gli ho fatto vedere alcun verbale per la semplice ragione che il senatore Morra dice che non gli ho detto di che Procura si trattava. Ora si dà il caso che sui verbali c’è scritto su ogni foglio qual è la Procura». Secondo la versione di Morra, Davigo, tirando fuori da un armadio i dei fogli non firmati, gli avrebbe indicato il nome di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, indicandolo come appartenente ad una loggia segreta. Si tratterebbe della fantomatica loggia “Ungheria”, indicata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara come composta da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, avvocati e politici e in grado di pilotare le nomine di mezzo Paese. Quei verbali, ora al centro di tre diverse indagini a Roma, Perugia e Brescia, sono stati consegnati da Paolo Storari, pm meneghino, a Davigo, lamentando un’inerzia nelle attività d’indagine attribuita dal pm al suo capo, il procuratore Francesco Greco. Così, anziché seguire le vie ufficiali previste – la lamentela sarebbe dovuta arrivare alla procura generale di Milano e al comitato di presidenza del Csm -, tutto è avvenuto all’ombra, con l’intento, ha spiegato Davigo, di proteggere le indagini. Ma ora è proprio l’ex pm di Mani Pulite ad essere finito nel mirino, con l’accusa di aver divulgato informazioni segrete, ovvero quanto contenuto in quei verbali. Accusa che Davigo respinge con forza, smentendo, in questo caso, il suo amico Morra. «L’ho fatto uscire e gli ho spiegato che oltre alle altre ragioni per cui non volevo parlare con Ardita c’è anche una questione che potrebbe riguardare una associazione segreta. E gli ho ricordato che nella sua qualità di pubblico ufficiale, come presidente dell’Antimafia, era tenuto al segreto. Non l’ho detto al bar, l’ho detto al presidente della commissione Antimafia – ha spiegato -. Ho fatto di tutto per mantenere segreti questi verbali. È folle pensare che possa c’entrare con la loro divulgazione. Non ho divulgato un bel niente. Sono rimasto basito per i fatti che sono accaduiti: se è stata la mia segreteria, non me ne capacito. Mi sembrava di assoluta affidabilità, era una funzionaria del Csm ed ha sempre avuto da tutti parole di elogio». Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, è infatti accusata dalla procura di Roma di calunnia per aver spedito quei verbali a Repubblica e Fatto quotidiano, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha poi svelato tutto nel corso del plenum, denunciando un attività di dossieraggio a danno di Ardita. Tornando alle lamentele di Storari, sevondo Davigo «l’iscrizione della notizia di reato deve avvenire immediatamente dice il Codice, non è che il pubblico ministero può decidere di non procedere. Se decide di non procedere deve chiedere l’archiviazione al giudice – ha evidenziato -. Storari mi dice che è seriamente preoccupato perché da mesi sono state raccolte dichiarazioni gravi, gravissime se false, e che non era stata ancora iscritta la notizia di reato. Innanzitutto mi chiese un consiglio. Io gli consigliai di mettersi al riparo dai guai che sarebbero finiti sulla sua testa, mettendo per iscritto al procuratore quello che finora aveva detto verbalmente, cioè che bisogna iscrivere. Cosa che lui mi ha assicurato di aver fatto con diverse mail. Non si poteva seguire la via ordinaria perché non poteva mandarla al procuratore, visto che era la persona con cui aveva il dissenso, il procuratore generale non c’era, la sede era vacante, e nella mia esperienza è difficile che il reggente prenda decisioni che creino situazioni irreversibili. Nell’ipotesi migliore avrebbe detto “aspettiamo che arrivi il nuovo procuratore generale”. Lui – ha aggiunto Davigo – aveva già detto molte volte che bisognava iscrivere e l’iscrizione non avveniva. All’inizio di maggio vado a Roma, chiedo a Storari se l’iscrizione era avvenuta e lui mi dice di no. Allora chiamo il vicepresidente del Csm e lo prego, appena arriverà a Roma, di contattarmi perché gli devo parlare di una cosa urgente e importante». Secondo quanto riferito dall’ex pm, il vicepresidente del Csm David Ermini avrebbe ricevuto i verbali, circostanza che il numero due di Palazzo dei Marescialli ha finora sempre smentito, ribadendo che l’unica via da seguire era quella ufficiale. E avrebbe informato anche il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi – che a maggio 2020 ha contattato Greco, ottenendo, poco dopo, l’apertura del fascicolo con l’iscrizione di tre persone sul registro degli indagati – e il primo presidente Pietro Curzio. Sulla credibilità di Amara, invece, Davigo è chiaro: «Sarà anche stato screditato ma fino a quel momento, e anche dopo, la Procura di Milano lo ha ritenuto attendibile sia in una relazione che ha fatto sia indicandolo come teste in un importante processo». Per giustificare il proprio comportamento, Davigo e Storari tirano in ballo una circolare del 1994, «scritta per i casi ordinari non per i casi eccezionali come questo. Il risultato è quello di farlo avere al Comitato di presidenza. Spedirlo per posta? Tutte le altre amministrazioni che trattano segreti, come Difesa, Esteri e Interni, usano particolari procedure come area riservata, materiale classificato. L’amministrazione della Giustizia non ha niente di tutto questo. Credo che mandare una roba di questo genere per posta sarebbe stata una follia. Bisognava parlare di persona. La regola è informare il Consiglio, le modalità per ragioni importanti possono essere derogate. L’importante era informare il Consiglio – ha concluso -. Storari voleva mettersi al riparo dai guai perché se la sarebbero presa con lui se l’iscrizione non avveniva, in secondo luogo io non gli ho detto “tira fuori o nascondiamo qualcosa”, ma informiamo il comitato di presidenza che è l’organo che poi deve decidere il da farsi. Non era possibile attivare una pratica immediatamente per una ragione semplicissima, perché nelle dichiarazioni erano indicati come appartenenti a questa associazione segreta due componenti del Consiglio. Si sarebbero dovute convocare commissioni e consigli escludendo queste persone per la necessità di mantenere il segreto. Tanto che nessuno dei componenti del comitato di presidenza, compreso il procuratore generale (Salvi ndr) si è sognato di dirmi di formalizzare».

Da liberoquotidiano.it il 12 maggio 2021. "Non è vero". Piercamillo Davigo smentisce clamorosamente Nicola Morra, il senatore ex M5s e presidente in carica della Commissione nazionale Antimafia. Ospite di DiMartedì a La7, intervistato da Giovanni Floris, l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, si difende sul tema dei verbali di Piero Amara trafugati e finiti nelle redazioni di Repubblica e del Fatto quotidiano. Morra ha rivelato di essere stato messo a conoscenza del contenuto di quei documenti da Davigo, che nella primavera del 2020 li aveva ricevuti dal pm di Milano Storari. Versione smentita dallo stesso Davigo: "Al senatore Morra non ho fatto vedere nessun verbale. Lui ricorda male e dice cose fantasiose. Lui mi aveva chiesto di parlare insieme ad Ardita (altro membro del Csm, il cui nome secondo i verbali di Amara rientrerebbe tra gli iscritti della presunta loggia segreta Ungheria). Siccome con Ardita si sono rotti i rapporti di fiducia per questioni che qui non intendo affrontare, ho pregato Morra di seguirmi fuori dall'ufficio. Non gli ho fatto vedere nessun verbale. Lui dice di non sapere di che procura si trattasse, ma sui verbali c'è scritto in ogni pagina, quindi sarebbe stravagante. Non gli ho detto né chi parlava né di chi si parlava, e gli ho ricordato che era tenuto al segreto in quanto presidente della Commissione Antimafia". Floris insiste: "Ma lei può consegnare un segreto in via ufficiosa a un politico, che poi magari cambia ruolo?". Davigo appare in difficoltà: "Non era venuto come amico, era venuto a chiedermi alcune informazioni giuridiche". "Queste carte a quanto pare finiscono alla sua segretaria che le fa finire ai giornali - incalza Floris -. Dice chi la contesta: se ci comportassimo come faceva Davigo, due indizi fanno una prova...". Tradotto: è di Davigo la manina che ha fatto girare i verbali? "No, gli indizi non fanno affatto una prova. Ho fatto di tutto per mantenere segreti questi verbali. È folle pensare che possa c'entrare con la loro divulgazione. Non ho divulgato un bel niente, la mia vita parla per me. Sono rimasto basito per i fatti che sono accaduti: se è stata la mia segretaria, non me ne capacito. Mi sembrava di assoluta affidabilità, era una funzionaria del Csm ed ha sempre avuto da tutti parole di elogio".

G.Sal. per "la Stampa" il 12 maggio 2021. Piercamillo Davigo non arretra. Torna in tv e si difende dall' accusa di aver mostrato i verbali segreti dell' avvocato Piero Amara sulla presunta loggia massonica Ungheria anche a persone estranee al Csm. Dice che Nicola Morra, presidente della commissione antimafia ed esponente del M5S all' epoca dei fatti (è uscito all' inizio di quest' anno votando contro il governo Draghi), mente su due circostanze. «Non è vero» che andava a trovarlo al Csm per «concertare» la politica giudiziaria del suo partito; «ricorda male» raccontando (come ha fatto sia alla Procura di Roma che in televisione da Giletti) che Davigo, per motivare la rottura dei rapporti con l' altro consigliere del Csm della sua corrente, Sebastiano Ardita, gli mostrò «nella tromba delle scale» i famigerati verbali, spiegando che «una Procura del Nord» indagava sulle rivelazioni di un «pentito». Ricostruendo la vicenda, Morra aveva spiegato di essersi recato al Csm per far da paciere tra Davigo e Ardita, considerati «punti di riferimento» del M5S sulle questioni giudiziarie. Davigo ha confermato la circostanza, precisando che Morra gli chiedeva un incontro pacificatore a tre. E che per motivare il suo rifiuto, gli accennò vagamente all' esistenza di un' inchiesta su una loggia segreta, senza mostrare carte né entrare nei dettagli, e confidando nel fatto che in quanto pubblico ufficiale avrebbe dovuto mantenere egli stesso il segreto. «Non è vero, al senatore Morra non ho fatto vedere nessun verbale. Lui ricorda male e dice cose fantasiose», ha detto Davigo ospite di Floris su La7. Quanto alle accuse di aver divulgato informazioni giudiziarie riservate, Davigo ha tenuto il punto sul suo comportamento: «La regola è informare il Csm, le modalità sono un' altra cosa, per ragioni importanti possono essere derogate». La ragione importante era smuovere l' inchiesta a Milano senza rivelarne l' esistenza a persone (tra cui due membri del Csm) citate da Amara. Su cui Davigo precisa: «Sarà anche stato screditato ma fino a quel momento, e anche dopo, la Procura di Milano lo ha ritenuto attendibile sia in una relazione che ha fatto sia indicandolo come teste in un importante processo». Quel che è successo dopo, con i verbali spediti a un paio di giornali e a un altro consigliere del Csm, Nino Di Matteo, «mi ha lasciato basito - dice Davigo -. Io ho fatto di tutto per mantenere segreti questi verbali. È folle pensare che possa c' entrare con la loro divulgazione. Non ho divulgato un bel niente. Se è stata la mia segreteria, non me ne capacito. Mi sembrava di assoluta affidabilità, era una funzionaria del Csm ed ha sempre avuto da tutti parole di elogio». Infine, la politica. E il bersaglio di sempre: Matteo Renzi che nei giorni scorsi aveva detto: «Non sono Davigo giustizialista con gli avversari e divulgatore di notizie con i parlamentari amici». Replica di Davigo: «Renzi avrà ulteriori notizie dal mio avvocato, ne ha già avute».

Caos Csm, tra Davigo e Morra volano gli stracci. L'ex pm smentisce di aver mostrato i verbali al presidente della Commissione antimafia. Che però conferma la sua versione. Simona Musco su Il Dubbio il 12 maggio 2021. Se non è uno psicodramma poco ci manca. Perché l’ultima puntata del terremoto interno alle toghe si è arricchito di una nuova frattura, quella tra Nicola Morra e Piercamillo Davigo, presidente della Commissione parlamentare antimafia il primo, ex consigliere del Csm il secondo. Lo strappo si è consumato a distanza, ancora una volta all’interno di uno studio televisivo. Intervistato da Giovanni Floris, a Di Martedì, l’ex pm ha smentito le dichiarazioni rilasciate da Morra solo poche ore prima, dallo studio di Massimo Giletti: «Non gli ho mostrato nessun verbale», ha tuonato Davigo, avvisando l’ex premier Matteo Renzi che presto lo avrebbe querelato per quella battuta sul suo supposto giustizialismo ad intermittenza. La colpa di Renzi sta tutta in una frase: «Non sono Davigo, giustizialista con gli avversari e divulgatore di notizie con i parlamentari amici», ha detto il leader di Italia Viva. E la querela è servita, perché Davigo nega di aver mai mostrato a Morra i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, quelli contenenti le dichiarazioni sulla presunta loggia “Ungheria” e sulla presenza, tra i tanti nomi, di quello di Sebastiano Ardita, anche lui consigliere del Csm e punto di riferimento, assieme a Davigo, della politica giudiziaria di Morra. Il senatore, ieri, non ha mancato di replicare, ribadendo quanto già affermato non solo in tv, ma anche ai pm di Roma: «Ho ascoltato e riletto attentamente quanto ha affermato il dottor Davigo – ha riferito all’Adnkronos -, ma non ho altro da aggiungere se non ribadire che confermo quanto riferito all’autorità giudiziaria». La smentita dell’ex consigliere del Csm è stata secca, senza ammissione di repliche, dura. «Il senatore Morra, presidente della commissione Antimafia, è venuto da me e voleva in quel momento parlare con Ardita, con il quale avevo interrotto i rapporti perché in passato si erano verificati alcuni fatti che avevano fatto venire meno il rapporto fiduciario – ha spiegato Davigo -. Morra voleva che parlassimo insieme con Ardita, siccome insisteva, l’ho preso in disparte e gli ho chiesto di uscire dalla mia stanza. Non gli ho fatto vedere alcun verbale per la semplice ragione che il senatore Morra dice che non gli ho detto di che Procura si trattava. Ora si dà il caso che sui verbali c’è scritto su ogni foglio qual è la Procura». Quei verbali, com’è noto, sono al centro della guerra interna alla Procura di Milano: è stato il pm Paolo Storari (ora indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio) a consegnarli a Davigo, lamentando un’inerzia nelle attività d’indagine attribuita al suo capo, il procuratore Francesco Greco, che avrebbe ritardato l’iscrizione degli indagati sull’apposito registro, per non danneggiare, secondo le ipotesi, il processo Eni-Nigeria, chiusosi a marzo con assoluzioni. Così, anziché seguire le vie ufficiali previste – la lamentela sarebbe dovuta arrivare alla procura generale di Milano e al comitato di presidenza del Csm -, tutto è avvenuto all’ombra, con l’intento, ha spiegato Davigo, di proteggere le indagini. Ma ora è proprio l’ex pm di Mani Pulite ad essere finito nel mirino, con l’accusa di aver divulgato informazioni segrete, comunicando il contenuto di quei verbali a Morra. Accusa che Davigo ha respinto con forza, smentendo, in questo caso, il suo amico Morra. «Gli ho spiegato che oltre alle altre ragioni per cui non volevo parlare con Ardita c’è anche una questione che potrebbe riguardare una associazione segreta. E gli ho ricordato che nella sua qualità di pubblico ufficiale, come presidente dell’Antimafia, era tenuto al segreto. Non l’ho detto al bar, l’ho detto al presidente della commissione Antimafia – ha spiegato -. Ho fatto di tutto per mantenere segreti questi verbali. È folle pensare che possa c’entrare con la loro divulgazione. Non ho divulgato un bel niente. Sono rimasto basito per i fatti che sono accaduti: se è stata la mia segreteria, non me ne capacito. Mi sembrava di assoluta affidabilità, era una funzionaria del Csm ed ha sempre avuto da tutti parole di elogio». Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, è infatti accusata dalla procura di Roma di calunnia per aver spedito quei verbali a Repubblica e Fatto quotidiano, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha poi svelato tutto nel corso del plenum, denunciando un attività di dossieraggio ai danni di Ardita. Tornando alle lamentele di Storari, «l’iscrizione della notizia di reato deve avvenire immediatamente dice il Codice, non è che il pubblico ministero può decidere di non procedere. Se decide di non procedere deve chiedere l’archiviazione al giudice – ha evidenziato Davigo -. Storari mi disse che era seriamente preoccupato perché da mesi sono state raccolte dichiarazioni gravi, gravissime se false, e che non era stata ancora iscritta la notizia di reato. Innanzitutto mi chiese un consiglio. Io gli consigliai di mettersi al riparo dai guai che sarebbero finiti sulla sua testa, mettendo per iscritto al procuratore quello che finora aveva detto verbalmente, cioè che bisogna iscrivere. Cosa che lui mi ha assicurato di aver fatto con diverse mail. Non si poteva seguire la via ordinaria perché non poteva mandarla al procuratore, visto che era la persona con cui aveva il dissenso, il procuratore generale non c’era, la sede era vacante, e nella mia esperienza è difficile che il reggente prenda decisioni che creino situazioni irreversibili. Nell’ipotesi migliore avrebbe detto “aspettiamo che arrivi il nuovo procuratore generale”. Lui – ha aggiunto Davigo – aveva già detto molte volte che bisognava iscrivere e l’iscrizione non avveniva. All’inizio di maggio vado a Roma, chiedo a Storari se l’iscrizione era avvenuta e lui mi dice di no. Allora chiamo il vicepresidente del Csm e lo prego, appena arriverà a Roma, di contattarmi perché gli devo parlare di una cosa urgente e importante». Secondo quanto riferito dall’ex pm, il vicepresidente del Csm David Ermini avrebbe ricevuto i verbali, circostanza che il numero due di Palazzo dei Marescialli ha finora sempre smentito, ribadendo che l’unica via da seguire era quella ufficiale. E avrebbe informato anche il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi – che a maggio 2020 ha contattato Greco, ottenendo, poco dopo, l’apertura del fascicolo con l’iscrizione di tre persone sul registro degli indagati – e il primo presidente Pietro Curzio. Sulla credibilità di Amara, invece, Davigo è chiaro: «Sarà anche stato screditato ma fino a quel momento, e anche dopo, la Procura di Milano lo ha ritenuto attendibile sia in una relazione che ha fatto sia indicandolo come teste in un importante processo». Secondo Davigo, sarebbe stato impossibile seguire le vie formali. «L’importante era informare il Consiglio – ha concluso -. Non era possibile attivare una pratica immediatamente per una ragione semplicissima, perché nelle dichiarazioni erano indicati come appartenenti a questa associazione segreta due componenti del Consiglio. Si sarebbero dovute convocare commissioni e consigli escludendo queste persone per la necessità di mantenere il segreto. Tanto che nessuno dei componenti del comitato di presidenza, compreso il procuratore generale (Salvi ndr) si è sognato di dirmi di formalizzare». Intanto a Roma, la difesa di Contrafatto ha dubbi sulla contestabilità del reato di calunnia. «La calunnia – spiega Alessia Angelini, avvocato della dipendente del Csm – ha come elemento costitutivo quello di incolpare di un reato qualcuno che si sa innocente. L’altro punto è che non sono stati messi a disposizione della difesa gli atti d’indagine o, quantomeno, i famosi verbali, che sono in mano a tutti i giornali, ma non nelle nostre. Secondo noi c’è una gravissima lesione del diritto di difesa. Mi sembra oggettivamente certo un elemento: la questione del presunto ritardo dei vertici della Procura di Milano è un punto controverso, perché Storari e Davigo sostengono che per 13 mesi non ci sia stata alcuna indagine su questa loggia e il procuratore Greco che sostiene il contrario». Contrafatto è accusata di calunnia nei confronti di Greco perché nel dattiloscritto allegato ai verbali sarebbe contenuta l’accusa al procuratore di aver tenuto tutto chiuso in un cassetto. Contrafatto, nel corso del primo interrogatorio, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, ma si è detta disponibile a partecipare a tutti gli accertamenti. E forse saranno proprio le sue parole a fare un po’ di chiarezza su una vicenda intricatissima.

Regole ignorate e alibi contorti. Greco, Davigo, Storari e il Csm: tutte le anomalie del caso Amara. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Se ancora non si conoscono i nomi degli appartenenti alla loggia Ungheria, diverso è il discorso per i reati e i potenziali illeciti disciplinari commessi dai magistrati che, a vario titolo, si sono interessati dei verbali di interrogatorio resi dall’avvocato Piero Amara. Nonostante le “cautele” delle varie Procure che si stanno occupando del caso, sono tanti gli interrogativi ancora senza risposta. I fatti sono noti. Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, viene interrogato quattro volte dai pm di Milano fra novembre e dicembre del 2019 a proposito dei depistaggi nel processo Eni-Nigeria. Il primo interrogatorio è del 18 novembre, l’ultimo del 16 dicembre. Durante questi interrogatori, fra le varie cose, Amara ammette l’esistenza di una loggia super segreta composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di Polizia, finalizzata a pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e ad aggiustare i processi. Ad interrogare Amara sono il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il pm Paolo Storari. Il 29 gennaio successivo, Pedio e Storari, d’intesa con il procuratore Francesco Greco, trasmettono questi quattro verbali “parzialmente omissati” ai colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro che stanno sostenendo l’accusa nel processo milanese Eni-Nigeria. De Pasquale, aggiunto e capo del Dipartimento reati economici transazionali, tenterà di far entrare nel dibattimento uno di questi verbali, quello in cui Amara afferma di aver saputo che gli avvocati degli imputati avevano “accesso” presso il presidente del collegio Marco Tremolada. Il tentativo non andrà a buon fine e i verbali saranno trasmessi alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe del capoluogo lombardo, che archivierà. Storari, vedendo però che sulla loggia Ungheria le indagini non vanno avanti, decide di informare Piercamillo Davigo, allora potente consigliere del Csm, consegnandogli i verbali in formato word e senza firma nel successivo mese di marzo. L’ex pm di Mani pulite ricevuti i verbali avrebbe allora informato il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione, alcuni consiglieri del Csm, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Interlocuzioni “informali” per non compromettere le investigazioni. Quando a ottobre dello scorso anno Davigo va in pensione per raggiunti limiti di età, i verbali, rimasti fino a quel momento nel suo ufficio, sarebbero stati inviati dalla segretaria Marcella Contrafatto alle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano. Per questa vicenda, ad oggi, a essere indagati sono Storari, per rivelazione del segreto d’ufficio e la stessa Contrafatto. Ma gli altri?

Francesco Greco. Il procuratore della Repubblica di Milano è “accusato” di aver rallentato le indagini sulla loggia Ungheria. Un premessa: i rapporti fra segreto investigativo e poteri del Csm sono disciplinati da una circolare del 1994. Il pm che procede, si legge nella circolare, deve dare «immediata comunicazione al Csm con plico riservato al Comitato di presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio». «Gli uffici – prosegue la circolare – avranno cura di informare di propria iniziativa anche delle varie fasi e gradi del procedimento». Nessuna delle due cose pare sia stata fatta. Perché? Una ulteriore circolare del 1995 prevede, poi, che ci siano aggiornamenti “ogni tre mesi”. I procuratori generali hanno sul punto un obbligo di vigilanza. Ma non potendo accedere ai registri tale obbligo rimane spesso lettera morta. Come in questo caso. Il procuratore della Repubblica, va ricordato, ha la supervisione sull’operato dei propri pm. Amara è stato sentito nei mesi di novembre e dicembre. Le prime iscrizioni risalgono al 9 maggio 2021. Come mai questo ritardo di quasi sei mesi? Quali attività istruttorie sono state effettuate? Mistero. Il pm ha l’obbligo di iscrivere la notizia di reato senza ritardo. Pena una contestazione disciplinare.

Paolo Storari. Oltre al reato di rivelazione del segreto, come mai non ha informato del contrasto con il procuratore sulle iscrizioni nel registro degli indagati il Csm e il procuratore generale? E che rapporti ha avuto con l’aggiunto Pedio? Perché si è esposto al rischio di essere indagato, come poi avvenuto, informando Davigo? Altra domanda al momento senza risposta.

Piercamillo Davigo. Il comportamento dell’ex pm di Mani pulite è quello più incredibile, considerata la sua esperienza. Davigo, appresa la notizia da Storari, avrebbe dovuto subito informare il Comitato di presidenza del Csm e a sua volta la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Le informazioni dovevano avvenire nelle forme “previste”. Certamente non a voce. E perché ha tenuto per mesi questi verbali senza consegnarli a nessuno? Cosa stava aspettando?

I componenti del Csm ed il vice presidente Ermini. Diversi consiglieri ed Ermini sarebbero stati informati da Davigo di questa vicenda. Che cosa hanno fatto? Allo stato sembrerebbe nulla. Nino Di Matteo, che aveva ricevuto in forma anonima i verbali, era intervenuto in Plenum dicendo di aver già informato l’autorità giudiziaria di Perugia. Quando è avvenuto l’inoltro? Il giorno stesso o settimane prima? E anche lui ha informato il Comitato di presidenza del Csm? Sulla vicenda abbiano chiesto lumi all’ex laico del Csm Antonio Leone. «In quattro anni al Csm non ho mai avuto il “piacere” di ricevere da parte di qualche pm dei verbali sottoposti al segreto investigativo. Forse perché non avevo pm amici o che volevano tutela», ha esordito Leone, sottolineando come sia «irrituale, per utilizzare un termine che va molto di moda in questo periodo, che un consigliere del Csm riceva il presidente della Commissione parlamentare antimafia nella tromba delle scale di Palazzo dei Marescialli: forse Davigo aveva timore che nell’aria aleggiasse qualche trojan indesiderato». «Vorrei sapere a che titolo il presidente della Commissione parlamentare antimafia deve essere informato su un procedimento penale durante la fase delle indagini preliminari», ha poi aggiunto Leone.

Il mio nome è Amara. L'uomo che ha messo in ginocchio la magistratura italiana. Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Emanuele Lauria, Andrea Ossino, Salvo Palazzolo, Conchita Sannino su La Repubblica il 20 maggio 2021. Produzione Gedi Visual. Come diavolo è stato possibile che un professionista di 52 anni, Piero Amara, avvocato siciliano di Augusta, abbia dato scacco, nello spazio di pochi anni, a un pezzo della magistratura italiana e ad un colosso come Eni? E, soprattutto, come è potuto accadere che sia scivolato, sin qui sostanzialmente indenne, tra le maglie di inchieste di diverse Procure riuscendo a minare, con la vicenda della fantomatica loggia Ungheria, ciò che resta dell'immagine, del prestigio e dell'autonomia dell'ordine giudiziario? O, quantomeno, della sua percezione? Siamo tornati ad Augusta, dove Amara è nato nell'ottobre del '69 e a Siracusa, dove tutto è cominciato. Dove il suo "metodo" è stato perfezionato e battezzato. Dove il suo portafoglio di relazioni e la forza di ricatto costruita su informazioni riservate e debolezze umane, quella che si conferma il cemento del Potere e di parte significativa della classe dirigente del Paese, si sono gonfiati a dismisura consegnandogli le chiavi per la scalata al cielo. E dove qualcuno avrebbe potuto fermarlo quando ancora, forse, si era in tempo.

La finanziera. "Gioia mia u tavulu è pronto". Ha sempre apostrofato tutti i suoi avventori così la titolare del ristorante "la Finanziera", "Gioia mia". Anche l'avvocato Piero Amara, quando si accomodava nel riservato e riparato soppalco del locale di via Epicarmo, a Siracusa, a poche decine di metri dal comando della Guardia di Finanza. E vai a capire se il destino avesse deciso ab ovo di mischiare le carte e scherzare con una certa prossimità tra guardie e ladri. Perché è proprio qui, alla "Finanziera" dove, tra un piatto e l'altro - uno spada, una pasta allo scoglio, un totano ripieno - l'avvocato pianificava le sue strategie, tesseva la sua ragnatela. Più semplicemente, dispiegava un metodo. Che lui, l'avvocato Piero Amara, aveva imparato dal padre Giuseppe, Pippo per gli amici di Augusta.

Nel nome del padre. Già, Pippo. L'uomo, oggi avanti negli anni, vive in una villa all'ingresso di uno dei comuni del siracusano, Augusta, appunto, più colpiti dagli effetti velenosi di quel petrolchimico che ha sfamato migliaia di bocche, presentando poi il conto di un modello di industrializzazione selvaggia alle famiglie e ai figli degli operai. "Ad Augusta si muore di cancro", denunciò qualche anno fa la scrittrice Catena Fiorello, che qui è nata come i fratelli Rosario e Beppe, scegliendo la forma innocente e straniante di una letterina a Babbo Natale e alla Befana. Anche se c'è poco di onirico nello sviluppo incontrollato dell'industria nell'antica "Megara", che ha cancellato borghi di pescatori in cambio di fabbrica e inquinamento. Ebbene, il presidente dell'Area di Sviluppo Industriale della zona, nei ricchi anni Ottanta, è proprio Pippo Amara. Sulla carta è un geologo, un insegnante, ma è nei corridoi dell'allora partito socialista che Pippo è diventato "un intoccabile", per usare la definizione con cui le informative della Guardia di Finanza danno conto delle sue amicizie politiche. A cominciare da un padre della Repubblica come Giuliano Vassalli, ministro della giustizia sotto i governi Goria, De Mita e Andreotti. Oggi, Pippo, vecchio leone del Psi, già sindaco di Augusta nel '73, è malato. "Mio marito è a letto, non può parlare", dice la moglie al citofono. Ma sono ancora materia viva, in città, le storie che ne hanno costruito la leggenda locale. Qualcuno ricorda come annotasse, con precisione maniacale, in un ordinato archivio, i nomi di tutti i suoi interlocutori. O di come, una volta, avesse costretto un uomo politico che aveva chiesto di interloquire con lui a svuotare il sacchetto del pane che aveva con sé nel timore che all'interno nascondesse un registratore. Sospettoso, metodico e - raccontano ancora - spregiudicato. Come quando per giustificare davanti ai magistrati la presenza di ingenti somme di denaro contante in casa, spiegò che si trattava di "regali" fatti da persone a lui ignote alla moglie. Costretta poi, con qualche imbarazzo, a confermare in aula, la frottola che sarebbe valsa l'assoluzione al marito.

L'ingresso della villa della famiglia Amara ad Augusta, Siracusa. Divideva il mondo in amici e nemici, Pippo. E non faceva prigionieri. Chi gli si metteva di traverso veniva sciolto nel discredito. Accadde all'uomo, Massimo Carruba, che ebbe la ventura di succedergli come sindaco di Augusta. Un'onta intollerabile. Resa ancor più urticante dalla decisione di opporsi a un insediamento industriale caro a Pippo. Il povero Carruba, che avrebbe alla fine vinto una causa per molestie contro il "vecchio leone" socialista, sarebbe stato travolto, insieme alla sua giunta, da inchieste giudiziarie germogliate da accuse tanto fabbricate quanto infamanti: tentata concussione e mafia. E quando Carrubba ne sarebbe uscito completamente pulito, il tempo, per lui, era ormai esaurito. "Avevo una carriera da deputato davanti ma dieci anni sulla graticola giudiziaria mi hanno rovinato. Ad Augusta non si muove foglia che Amara non voglia", dice oggi l'ex primo cittadino.

Piedi buoni. Aveva capito tutto, Pippo. La giustizia penale può diventare un'arma formidabile se addomesticata e guidata con sapienza per proteggere se stessi - negli anni della cosiddetta prima Repubblica, esce indenne da 18 procedimenti penali tra assoluzioni, archiviazioni e prescrizioni. Con un solo inciampo: una condanna per minacce a pubblico ufficiale  - o per colpire un bersaglio da eliminare. Può trasformare il falso in verosimile, il verosimile in vero. Ma anche il vero in falso. Era così nella Sicilia degli anni '80. Sarebbe stato così anche in quella dei '90 e dei duemila. Magari richiedendo una punta di maggiore sofisticazione come il giovane Piero, figlio di Pippo, dimostrava di saper garantire. Del resto, il ragazzo aveva dimostrato qualità precoci. Formidabile autostima, comportamento sobrio, una robusta dose di cultura resa affascinante da un'intelligenza vivace e un eloquio incline alla battuta. Piero Amara era cresciuto tra le strade di Augusta, accompagnando il padre come un'ombra. Spesso anche durante le interviste che gli capitava di rilasciare. E senza preoccuparsi troppo dell'aspetto, con i pantaloni di una tuta e una giacca jeans. Aveva studiato al liceo classico Megara, quindi si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Catania, per poi approdare nel prestigioso studio Grasso della città ai piedi dell'Etna. Gli piaceva il calcio e aveva i piedi buoni del centrocampista, Piero. Ma quando lo sfiorò il treno che poteva portarlo al nord, a Torino, nelle giovanili della Juventus, aveva deciso di restare in Sicilia. Di fare l'avvocato. Per coltivare una scalata al cielo che avrebbe sicuramente richiesto più tempo per la consacrazione di un rettangolo di gioco, ma che prometteva di essere assai più longeva. E di fargli assaggiare il gusto inebriante del Potere. Quello con la maiuscola.

Il ragno. Come un laboriosissimo ragno, tra i ristoranti di Siracusa e Augusta, o al circolo nautico del comune, Piero Amara lavora in modo incessante alle sue relazioni. E i due gommoni, che tiene ormeggiati al pontile, non sono solo il manifesto di una passione per il mare, ma il passepartout per vincere le debolezze di clienti, amici, persone che contano. I legami che intreccia nel tempo vengono suggellati con la creazione di società e con comparsate a matrimoni. È così che si mette nel taschino il pubblico ministero Maurizio Musco (condannato per abuso d'ufficio in cassazione a 18 mesi). È così che diventa testimone di nozze e collega di Andrea Campisi, figlio dell'ex procuratore di Siracusa Roberto Campisi. È così che sceglie come collega associato in studio Attilio Maria Toscano, figlio del magistrato Giuseppe Toscano. Ed è così che coltiva la frequentazione di Edmondo Rossi e Salvatore Torrisi, figli (acquisiti o naturali) dell'ex Procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi (condannato in via definitiva per abuso d'ufficio a 1 anno). Va tutto a meraviglia. Almeno fino al 2006, quando comincia qualche seccatura. I carabinieri lo interpellano per una vicenda di abusivismo edilizio. Quindi viene coinvolto in una storia di false fatturazioni insieme alla moglie, Sebastiana Bona. Mentre, nel 2009, viene accusato di avere istigato Vincenzo Tedeschi, cancelliere del procuratore Alessandro Centonze (al tempo alla Direzione distrettuale antimafia di Catania), a fornire informazioni ancora coperte da segreto istruttorio. Vicenda per la quale verrà condannato a 11 mesi. "Il giorno in cui uscì quella notizia - racconta il giornalista Gaetano Scariolo - nelle edicole di Augusta nessuno trovò il giornale. Tutte le copie le aveva fatte acquistare lui...". Del resto, nei corridoi della Procura di Siracusa il potere di Piero Amara dimostra di non aver subito neppure un graffio.

Peter Pan, Escobar, Zorro. Né potrebbe essere diversamente. Perché relazioni chiamano relazioni. Benemerenze chiamano benemerenze. È così che il potere di Amara lievita, insieme alle targhe degli studi legali in cui inscrive il suo nome. A Roma e Dubai. Ma sì, in quei primi anni duemila, quando ha poco più di 30 anni, l'avvocato di Augusta si racconta e viene raccontato come "un vincente". Nel 2002, è entrato a far parte del collegio difensivo dell'Eni e, guarda caso, si ritrova come "controparte" l'amico pm Maurizio Musco nel processo "Mare Rosso", idealmente imbastito nelle acque di Siracusa che cambiarono colore per la presenza del mercurio, del cromo e del nichel. Al fianco di Piero Amara, inseparabili, sono sempre i suoi compari: Salvatore Calafiore, avvocato come lui, e il giovane imprenditore Alessandro Ferraro. Nelle loro chat riservate, Amara si fa chiamare Peter Pan, Calafiore, complici la fisionomia, un paio di baffoni spioventi e una passione divorante per il personaggio, è Pablo Escobar, mentre Ferraro diventa Zorro. Nulla a che vedere con il raffinato nickname adottato dal consigliere di Stato e "amico", Luigi Caruso, che si è scelto un bel "Minchia69". Calafiore è di casa nella stanza del sostituto procuratore di Siracusa Giancarlo Longo. E la Guardia di Finanza - nell'inchiesta che scoperchierà il "Sistema Siracusa" - li riprende mentre si abbracciano, quando Calafiore usa il computer del magistrato, quando lo consola in un momento difficile, o quando si tratta di isolare qualche avvocato che ha capito tutto, qualche sindaco e qualche giornalista locale (come i cronisti de "La civetta di Minerva") che continua a scrivere e non si fa gli affari suoi. Insistendo cioè sui rapporti con cui l'allora capo della Procura Ugo Rossi, per dirla con le parole dell'ispezione ministeriale che nel 2012 accerterà cosa accade in quelle aule di giustizia, "protegge legami familiari e sociali" a "dispetto e discapito" della "corretta ed imparziale gestione del proprio ruolo". Va da sé che non ci sia vicenda che tocchino "Peter Pan" ed "Escobar" che non abbia le stimmate dell'opacità: l'inchiesta su Oikoten del gruppo Mercegaglia, quella sul centro commerciale Open Land, sulla Sai 8, sulla Fiera del Sud, o le 15 sentenze cui ha messo mano un altro amico magistrato, il giudice del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia Riccardo Virgilio.

Le elezioni farsa. Ed è così, in questo contesto, che Piero Amara scrive uno dei capitoli più incredibili della storia politica siciliana: le elezioni replay. Accade infatti che, nel 2014, nei Comuni di Rosolini e Paceco, in provincia di Siracusa, una fetta della popolazione siciliana venga richiamata alle urne per ripetere il voto delle Regionali che si sono tenute due anni prima.  Come se l'orologio si fosse fermato, in una surreale macchina del tempo, vengono inscritti ai seggi anche cittadini che, nel frattempo, sono morti. E questo mentre i vivi si trovano a dover scegliere sulla scheda (identica a quella di due anni prima) partiti che nel frattempo si sono estinti, dal Pdl a Futuro e libertà di Fini. Una farsa che, si sarebbe scoperto più tardi, è figlia della corruzione di un giudice amministrativo per una "somma non inferiore 30 mila euro" che, scrivono i pm, il candidato Pippo Gennuso aveva messo a disposizione per riconquistare il seggio attraverso quelle elezioni farlocche. Che giunge al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Raffaele De Lipsis "grazie alla mediazione di Pippo Amara e Giuseppe Calafiore". "Amara? È un traditore e lo sa anche lui", dice oggi Pippo Gianni, il deputato che invece, per quell'illecito, perse il seggio all'Ars. E che del golden boy augustano era in precedenza amico e cliente. È tra Siracusa ed Augusta che l'avvocato Piero Amara ha mosso i primi passi. Figlio di un socialista, si è fatto strada nel mondo che conta. "Ha sviluppato il metodo del padre", dice l'ex sindaco di Augusta Massimo Carrubba che pagò caramente l'opposizione al sistema Amara. Lo sa bene anche l'ex deputato regionale Pippo Gianni che lo ebbe prima come avvocato e poi come nemico. "Mi tradì", dice l'attuale sindaco di Priolo che perse il seggio all'assemblea regionale siciliano dopo che, fatto più unico che raro, un giudice fece rifare le elezioni nel Siracusano. 

Calcio e affari. In ossequio al metodo paterno, nulla è impossibile da concepire e ottenere se si ha la "giustizia" come compare. E chi prova a mettere i bastoni fra le ruote viene travolto. Secondo un format che si muove su due gambe: dossieraggio e rivelazioni a orologeria. Accade ad esempio nel 2007 quando due calciatori del Catania, il cui presidente è difeso da Amara, denunciano il club per mobbing. Venendo per tutta risposta indagati per una vicenda di calcio scommesse. Travolti dallo scandalo, i giocatori vengono trasferiti, prima di essere prosciolti. Come Amara. Anche lui prosciolto in una successiva inchiesta. Come uno Zelig, l'avvocato entra ed esce dalle aule dei tribunali cambiando indifferentemente veste. Ora è avvocato, ora indagato, ora testimone. Il Sistema che ha messo in piedi comincia intanto a macinare "vittime" eccellenti. Per lo più politici e amministratori di ostacolo ai suoi affari e per questo scaraventati nel tritacarne di inchieste penali sollecitate ad arte e quindi pilotate. Emblematico il caso di Sai 8, società lombarda chiamata a gestire il servizio idrico in provincia di Siracusa. L'ex presidente della Provincia Nicola Bono, dopo il suo insediamento, vuole vederci chiaro su un affidamento che - a suo avviso - è privo delle garanzie necessarie circa la disponibilità delle risorse da parte dell'azienda aggiudicatrice. Bono dà un ultimatum ad adempiere alla Sai8 ma, proprio alla vigilia della scadenza del termine, viene iscritto nel registro degli indagati a seguito di una intercettazione in cui due imprenditori, che parlano fra di loro, rivelano che il presidente della Provincia aveva brigato per fare assumere un suo uomo nella dirigenza della Sai 8. Bono si dimette dalla guida dell'assemblea dei soci. E nel salotto della sua casa di Avola oggi ricorda: "Finii indagato all'improvviso per tentata concussione su fatti che ruotavano attorno a una società nella quale lavorava il figlio della moglie del Procuratore, Ugo Rossi. Quest'ultimo, l'ingegner Torrisi, successivamente divenne direttore della Sai8. Fui scagionato dopo un paio d'anni, ma quanta sofferenza". Ebbene, chi c'era fra i legali della Sai8? Piero Amara, naturalmente. 

Le pressioni. D'altra parte, come si diceva, il rapporto tra Amara e il vertice della Procura di Siracusa è d'acciaio. Le intercettazioni delle inchieste che, a un certo punto scoperchieranno il verminaio, rivelano che persino i pubblici ministeri di quella Procura e i parlamentari che provano a sollevare la testa (come l'onorevole Sofia Amoddio), non hanno vita facile. Accade ad esempio che Amara e Calafiore decidano di mettere pressioni al capo della Procura di Siracusa Francesco Paolo Giordano, e di riflesso ai suoi sostituti, minacciando un intervento di Cosimo Ferri, deputato e magistrato, gran Visir della magistratura del nostro Paese che, negli anni, si era costituita nel cosiddetto "Sistema Palamara". Ma glielo deve dire? Cosimo... qua ci vuole qualcuno che lo fa cagare di più?", dice Longo non sapendo di essere intercettato. "No, ma io ci vado", risponde Calafiore. "Si deve far cagare di piu? di quanto lui si caghi con questi scemoniti, continua Longo insultando i colleghi della procura di Siracusa. "Io ci vado e gli dico... Procuratore - prosegue Calfiore - stiamo predisponendo un'interrogazione parlamentare... senza cazzi". Già, le intercettazioni sono chiare: "Ora pero? basta... ora finiamola... ora facciamo una cosa... loro vogliono giocare? Allora io gioco libero (...) domani sto andando alla Procura Generale e vi denuncio tutti - prosegue Calafiore - inizio da Lucignani, finisco con Grillo... dopo di che? sto facendo predisporre un'interrogazione parlamentare... e pretendero? di comprendere se qui si contrattano affitti dentro questo ufficio... dopo di che? mi compro tre giornali perche? i soldi ce li ho... e faccio un articolo ad uno... diventera? un terreno di guerra... il Vietnam". Gli inquirenti segnalano "la capacita? di Calafiore" nell'organizzare "campagne diffamatorie particolarmente penetranti nei confronti dei magistrati" che gli mettono i bastoni tra le ruote. Si concretizzano in un "abbozzo di dossier", in un "esposto" e in una "denuncia" che convincono la Guardia di Finanza a parlare di "materializzazioni documentali". È il gioco di Amara. Il suo metodo, appunto.

Vacanze di Capodanno. L'avvocato Amara trascorre il Capodanno 2014 negli Emirati Arabi. Con due amici, diciamo così, particolari: l'imprenditore romano e potente lobbista Fabrizio Centofanti e un sostituto procuratore di Siracusa, Giancarlo Longo, titolare di alcune indagini delicate. Partono tutti con le relative famiglie. La Guardia di finanza di Messina scopre che sul conto del magistrato non risulta alcun pagamento relativo a quel viaggio o al soggiorno nel lussuoso albergo di Dubai "Atlantis The Palm". Chi ha pagato dunque? Centofanti ha anticipato per tutti. E ha contribuito anche Amara. Diciamo pure a piè di lista, visto che non risulta un solo movimento sulla carta di credito del magistrato durante il suo soggiorno all'estero. La vacanza, insomma, va alla grande. Così bene che l'anno successivo si replica. Diversa location, pressoché identica formazione. Per il Capodanno 2015, Centofanti e Longo si ritrovano infatti con le famiglie al Gran Hotel Vanvitelli di Caserta. Amara non c'è. Ma quell'albergo riporta in qualche modo anche a lui. Perché è lì che vengono organizzate alcune iniziative culturali di un'associazione, la "A.pro.m.", Associazione nazionale per il progresso del Mezzogiorno in Italia, di cui Amara è socio. Nel 2016, per dire, Aprom organizza un convegno ad Anacapri al quale partecipa come relatore il magistrato Longo. Organizzatore del convegno e finanziatore dell'incontro è l'avvocato Calafiore, il socio di Amara, attraverso una società a lui riconducibile. È un cerchio che si chiude, scrivono i magistrati della procura di Messina quando leggono il primo rapporto della Guardia di Finanza sul "sistema". Un quadro che "dà immediatamente contezza delle cointeressenze economiche fra gli indagati - scrive la procura diretta da Maurizio de Lucia - e consente di comprendere meglio la ratio delle aberranti attività che sono state poste in essere".

La rivolta del pm. A denunciare il "Sistema Siracusa", che è poi il figlio legittimo del "Sistema Amara", il 23 settembre 2016, sono otto degli undici sostituti procuratori della procura di Siracusa. Mandano un esposto al ministero della Giustizia, alla Procura generale della Corte di Cassazione, ma anche alla Procura generale di Catania, per denunciare "gravi anomalie nella gestione di alcuni fascicoli pendenti presso la procura". Scrivono: "Soggetti portatori di specifici interessi economici ed imprenditoriali dimostrano una preoccupante attitudine ad orientare a proprio favore l'azione della Procura, rendendo fondato il timore che parte dell'ambiente giudiziario non sia immune a tale forza di infiltrazione". I magistrati segnalano in particolare alcuni fascicoli che interessano molto Amara e il suo socio Calafiore. L'indagine, istruita dalla Procura di Messina, vedrà Longo finire in manette insieme ad Amara nel febbraio 2018 con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e un patteggiamento a 5 anni dell'avvocato per aver fatto parte di un'associazione a delinquere nata per favorire clienti di spicco di alcuni avvocati, avvalendosi di consulenti tecnici compiacenti e della complicità di Longo, remunerato con denaro e altre utilità (il magistrato avrebbe ricevuto anche 80 mila euro). Nel sistema Amara, nulla viene lasciato al caso. Il fidato pm Longo ricorre ai cosiddetti "fascicoli specchio", che si autoassegna per poter monitorare quelli, originali, dei colleghi. Esistono poi i "fascicoli minaccia" nei quali vengono strumentalmente indagati, "con chiara finalità concussiva", soggetti "ostili" agli interessi di alcuni clienti di peso dell'avvocato Calafiore. E infine i "fascicoli sponda", "tenuti in vita - ricostruiscono i magistrati - al solo scopo di creare una mera legittimazione formale al conferimento di consulenze, il cui reale scopo è "servente" rispetto agli interessi coltivati dai clienti di Calafiore e Amara". Insomma, una macchina perfetta. Almeno così immaginavano i suoi architetti.

Un giornalista per amico. Chi dunque non cede alle lusinghe, chi dimostra di non avere un prezzo, viene macinato. Negli ingranaggi della giustizia penale telecomandata, come abbiamo visto. Ma non solo. Il nostro avvocato "Peter Pan" usa per i lavori sporchi anche un giornalista. Soprattutto quando c'è da intimidire magistrati che ostacolano l'addomesticamento delle inchieste. Il tipo si chiama Pino Guastella e scrive per un periodico. Amara lo ha a libro paga di Amara. E non gli costa neppure una fortuna. Nel 2013, gli liquida 11.900 euro. Nel 2014, 20.876 euro. L'anno successivo, 13.654. Nel 2016, 10.700. Nel 2017, soli 1.976 euro. La causale dei bonifici è generica: "Acconto prestazione professionale". O anche: "Prestazione professionale per attività di internet reputation". Dove non si capisce se quella parola - "reputation", reputazione - sia un modo diabolico per prendersi gioco e giocare con l'apparenza. La cifra di Amara. Nella lista dei nemici cui spezzare le gambe c'è Marco Bisogni, il pubblico ministero di Siracusa che sta indagando su Amara e che ha compreso come si articoli il suo ruolo nella Procura e quanto estesa sia la sua rete di relazioni. Nel 2018, il giornalista finisce ai domiciliari, con l'accusa di associazione a delinquere. E sempre in quel 2018, in carcere finisce anche Amara. E lui prepara un nuovo abito. Quello del pentito. Che indossa con la stessa confidenza di quello del carnefice.

"Ogni essere umano ha un punto debole". Due mesi dopo l'arresto, nel 2018, Amara è dunque davanti ai pm di Messina per offrire la sua confessione. "Ampia confessione", sostiene lui, nel declinare a verbale il suo metodo. Che, all'osso, racconta così: ogni essere umano ha un punto debole. Va solo cercato e quindi sfruttato. E lo strumento è la capacità di intessere relazioni, di accumulare un patrimonio di informazioni da barattare, se necessario, e da mettere a sistema. Per arrivare prima degli altri. Per vedere ciò che gli altri non vedono. E la parabola del giudice amministrativo De Lipsis è esemplare. "A dicembre 2015 il magistrato va in pensione", spiega l'avvocato ai magistrati. Ed è un problema, perché De Lipsis è uno snodo importante della sua rete all'interno del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana. "Viene nominato un tale Mineo. E, allora, inizia la manovra di avvicinamento, viene trovato il punto debole". Che non sono le "femmine", non è "il denaro". Ma il senso di amicizia. "Mineo era molto legato all'ex presidente della Regione Giuseppe Drago, all'epoca gravemente ammalato". Amara apprende la circostanza dal suo Alessandro Ferraro. "Mineo chiese di aiutare Drago, che voleva tentare un intervento in Malesia. Fu fatto il pagamento, per assecondare Mineo". Attraverso una società, viene subito messa a disposizione una provvista di 115 mila euro per affrontare le spese sanitarie di Drago. E, immediatamente dopo, Amara passa all'incasso. "Incontrammo Mineo e parlammo di una camera di consiglio che era stata fatta sulla vicenda Open Land e Am Group e il giudice ci rivelò tutti i contenuti". Un incontro riservato, all'hotel Alexandra di Roma.

Io e Calafiore cercammo di convincerlo a riconoscere di più. Calafiore venne con degli appunti e scrisse addirittura un'ipotesi di sentenza. E gli atti furono consegnati a Mineo. Al giudice veniva chiesto di favorire due imprese, controllate da alcuni costruttori, nei ricorsi intentati contro il Comune e la Sovrintendenza di Siracusa. Nel primo caso l'oggetto del contendere era un permesso per demolire e ricostruire il centro commerciale Fiera del Sud. Nel secondo caso, invece, il nulla osta negato alla Am Group che voleva realizzare 71 villette nella zona vicina alle mura dionigiane di Siracusa. Ballavano richieste di risarcimenti milionari, che l'allora presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Claudio Zucchelli dichiarò inammissibili. Il "punto debole" di Riccardo Virgilio, ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Sicilia, all'epoca alla guida della quarta sezione del Consiglio di Stato, era invece un tesoretto che aveva accumulato in Svizzera. Una polizza vita, accesa presso il Credit Suisse di Zurigo, che, nel 2014, ammontava a 751 mila euro. Il giudice voleva trasferire la somma in una cassaforte sicura a Malta, per sottrarla al fisco. Amara aveva offerto la soluzione. Attraverso un fidato prestanome, era in grado di gestire i conti bancari della società di diritto maltese "Investment eleven ltd". Dove verranno investiti i soldi del giudice. Anche in questo caso, alla prestazione aveva corrisposto un saldo. Amara aveva chiesto di "aggiustare" una serie di contenziosi che riguardavano i propri clienti. Di questi, 18 ne avrebbe aggiustati Virgilio, che non sarebbe poi finito in carcere solo perché andato in pensione nel 2016.

La loggia Ungheria. Lo svelamento del Sistema Siracusa, quella che il Procuratore generale di Messina avrebbe definito "una delle più gravi, estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate" nella storia della magistratura italiana dovrebbe segnare la fine di Peter Pan. E con lui di Escobar. Ma non è così. Il patteggiamento nell'inchiesta di Messina lo ha messo temporaneamente al riparo dal carcere e, nel suo nuovo abito di "pentito", l'avvocato sposta l'epicentro del suo gioco sul continente. Il portafoglio di informazioni che custodisce, la forza di ricatto che ha accumulato negli anni su un pezzo di magistratura italiana (di cui conosce con esattezza i meccanismi, gli equilibri, e gli interna corporis), le munizioni che, da avvocato consulente di Eni, può utilizzare per mettere insieme, come farà, un gioco di tossico di depistaggi ai danni del colosso energetico, lo mettono, nel 2019, al centro delle indagini di un triangolo di Procure - Roma, Perugia, Milano - dove il suo ruolo di "impumone" - imputato e testimone - è in grado di fulminare chiunque maneggi ciò che mette a verbale. Succede a Roma, dove diventa oggetto di una spaccatura all'interno della Procura (divisa sulla opportunità o meno di arrestarlo una seconda volta in ragione di misteriosi fondi, 25 milioni di euro, a suo dire ricevuti da Eni e di cui tuttavia non è in grado di giustificare compiutamente la ragione. Tanto da essere denunciato da Eni per truffa e citato per danni) che sarà uno dei detonatori della vicenda Palamara. Succede a Perugia, dove si propone come testimone di accusa dello stesso Palamara. Succede a Milano, dove è insieme testimone dell'accusa nel processo per le asserite tangenti Eni in Nigeria, ma al tempo stesso indagato per "costituzione di associazione segreta". Accade infatti - e siamo alla cronaca delle scorse settimane - che il 6 dicembre del 2019 Amara decida di sedersi dinanzi ai magistrati di Milano, il procuratore aggiunto Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari. E di raccontare questa storia. "Facevo parte di una loggia massonica coperta. Formata da persone che ho incontrato attraverso persone di origini messinesi, dove questa loggia è particolarmente forte".  A suo dire, la loggia si chiama Ungheria (dal nome della piazza di Roma dove abita un noto magistrato e dove alcune delle riunioni si sarebbero tenute) e ne fanno parte "giudici, avvocati, forze dell'ordine, alti dirigenti dello Stato". Una "Gladio" di colletti bianchi in grado di esercitare pressioni e condizionare nomine nei settori chiave delle istituzioni, di pilotare affari, appalti, incarichi professionali. Tra i quali, l'avvocato lascia scivolare anche quelli dell'avvocato ed ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ci sarebbe da strabuzzare gli occhi, ma, per come la racconta nei verbali (saranno più d'uno), per la genericità dei riferimenti, le palesi incongruenze, la storia di Amara sta in piedi come un sacco vuoto. Più che una confessione, appare un cocktail di falso, verosimile, vero. Assemblato per portare fuori strada. O, meglio, sulla strada che solo Amara ha in mente. Insomma, una creatura figlia del suo metodo. La lista della loggia, infatti, che Amara ha promesso di consegnare non viene né verrà mai fornita. Il suo asserito capostipite è un magistrato deceduto e dunque non in grado di replicare. Soprattutto, la loggia non implicherebbe per i suoi iscritti alcun onere di mutuo soccorso, se non a sporadica richiesta. Come fosse la tessera di un club. Sappiamo ormai cosa accada dopo. Quei verbali di Amara non hanno apprezzabili seguiti investigativi. Il Procuratore di Milano e la sua aggiunta Laura Pedio li ritengono radioattivi e dunque da maneggiare con estrema cautela. Il pm Paolo Storari - di avviso contrario e convinto che in quella cautela investigativa si debba leggere dell'altro - decide di consegnarli all'allora membro del Csm Piercamillo Davigo. E, un anno e mezzo dopo, quell'incarto diventa materia di un dossieraggio violento. E oggetto di una fuga di notizie che esplode esattamente nel cuore del Consiglio Superiore della Magistratura. Con una funzionaria di quegli stessi uffici, Marcella Contrafatto, che finisce perquisita e indagata per calunnia. Il tutto, in un intreccio di scelte inopportune, sospetti, faide interne alle correnti della magistratura. Un rompicapo, ma meglio sarebbe forse dire un bolo velenoso, che finisce, a due anni esatti dallo tsunami del caso Luca Palamara, per minare ciò che resta del prestigio e dell'autonomia del potere giudiziario.

Domande senza risposta. Quattro Procure oggi - quella di Milano che continua a procedere a carico di Amara per altri profili, quella di Perugia, che indaga sulla presunta loggia Ungheria, quella di Roma che procede sulla fuga di notizie della Contrafatto e che vede parte lesa il procuratore capo di Milano, Greco e quella di Brescia che ha messo sotto inchiesta il pm Storari e ha avviato verifiche conoscitive sulle presunte e asserite pigrizie investigative della Procura di Milano - sono chiamate a dare una risposta a una semplice domanda. C'è una regia dietro la decisione di "Peter Pan" di depositare sotto la sedia della magistratura italiana e delle istituzioni una bomba a orologeria? Quella bomba poteva essere disinnescata? E perché non si è riusciti a farlo per tempo? Nella decisione di farla esplodere dove finisce la volontà e comincia, piuttosto, la fragilità di un sistema giudiziario ormai prigioniero dei suoi demoni e di un infinito redde rationem figlio della vicenda Palamara?

Dieci verbali senza più segreti. Allo stato, conviene stare ai fatti. Dieci verbali in tutto, quelli di Amara. E una lista, quella degli iscritti alla loggia, che non c'è. "Potreste trovarla in casa di un magistrato con cui ho avuto contatti", dice Amara ai magistrati milanesi, nel dicembre del 2019. E tuttavia, gli inquirenti, che per distinte iniziative bussano alla porta di quel magistrato coinvolto in un'altra vicenda giudiziaria, non trovano alcuna lista. Amara aggiunge: "Quell'elenco lo ha anche Calafiore". Si, proprio lui, Escobar. Ma anche in questo caso, un buco nell'acqua. "Credo la nasconda all'estero", precisa allora Amara. Sempre stando al suo racconto, ad avvicinare Amara alla loggia sarebbe stato il magistrato Giovanni Tinebra, l'ex procuratore capo di Caltanisetta che dal 2001 al 2006 è il vertice del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, controverso successore di Giancarlo Caselli, prima di diventare Procuratore generale di Catania. Tinebra è il magistrato con cui Amara sostiene di avere avuto "ottimi rapporti". E nella triangolazione - che Tinebra, scomparso nel 2017, non potrà smentire - il faccendiere siracusano inserisce anche l'attuale membro del Consiglio superiore della magistratura, Sebastiano Ardita. Fa dunque mettere a verbale anche il nome dell'attuale togato (che siede in Consiglio come esponente di Autonomia e Indipendenza) descrivendolo come molto legato a Tinebra nel 2006. Un falso perché alla Procura guidata da Raffaele Cantone, che un anno dopo erediterà l'inchiesta, basterà poco per verificare che già nel 2005 l'allora capo del Dap e il pm che firma richieste di misure cautelari per diversi politici, erano divisi da una profonda inimicizia e disistima personale e professionale. Eppure, quei verbali sembrano aver minato la serenità del pm milanese Paolo Storari, convinto che la vicenda non sia gestita con tempestività dal procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Siamo al febbraio 2020, l'Italia sta scivolando - primo tra i paesi europei - nel cupo incubo del Covid. Sono sospese iscrizioni e attività giudiziarie. Storari intanto si sente sovraesposto. Ad aprile, incontra l'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Gli racconta tutto. Esprime le sue perplessità e riserve. E stando a quanto racconterà lo stesso pm milanese agli inquirenti romani lo scorso sabato 9 maggio, sarà "autorizzato" dallo stesso Davigo a consegnargli copie word, non firmati, di quei verbali. Si tratterebbe, lo rassicura l'anziano togato che siede a Palazzo dei Marescialli, di una consegna lecita, poiché il consigliere Csm si ritiene persona "qualificata" a ricevere materiale coperto da segreto. Un'interpretazione diciamo pure assai singolare delle procedure che disciplinano rigidamente la trasmissione di atti segreti al Csm. Eppure, Davigo non ha dubbi. Prende quindi in consegna quei file dal sostituto di Milano, li porta al Csm. Ne parla ai vertici del comitato di presidenza, mostra quei fogli. Vuole muovere le acque, spiegherà dopo, per risolvere il problema sorto a Milano nel conflitto non solo tra due magistrati, ma tra due approcci diversi alla gestione di quel bolo tossico che Peter Pan ha depositato a Milano. Storari vorrebbe mettere subito Amara alla prova della sua attendibilità (sta ingannando la giustizia con la storia della loggia Ungheria, o sta dicendo la verità?). Greco, che per altro ha forti dubbi sulla competenza della sua Procura a procedere per i fatti raccontati da Amara a verbale, ritiene si debba procedere con cautela e con una preliminare valutazione delle sue dichiarazioni. A maggior ragione in una fase in cui Amara è per giunta teste nel processo per le asserite tangenti Eni che è in una fase decisiva. Davigo comincia intanto, sempre più platealmente, a prendere le distanze da Ardita, l'ex amico e collega con cui avevano fondato insieme la corrente "Autonomia e Indipendenza". Ma è l'inizio della fine: quasi l'implosione annunciata di un'indagine segreta che di segreto, ormai, non conserva più nulla. Un singolare e inquietante precipitare di eventi.

Di Matteo rovescia il tavolo. È il 28 aprile scorso, un giorno che dovrebbe essere una data speciale per la giustizia italiana. A Parigi, infatti, dopo l'intesa tra Macron-Draghi e i rispettivi ministri della Giustizia, sono stati appena fermati sette ex membri delle Brigate Rosse accusati di gravi crimini e degli omicidi di innocenti durante gli Anni di piombo. È la fine della dottrina Mitterand. Eppure, la mattinata, al Consiglio Superiore della magistratura, dov'è previsto il plenum, viene catalizzata da un'irrituale (e non per tutti, sorprendente) dichiarazione del consigliere, ed ex pm antimafia, Nino Di Matteo. L'assemblea plenaria comincia con un consistente ritardo, aleggia una tensione che non promette nulla di buono. Qualcuno si accorge che Di Matteo e il vicepresidente del Csm, David Ermini, si intrattengono per qualche minuto. Poi, quando sono pronti per cominciare, qualcuno sente il numero due del Csm mormorare, fuori microfono, che quella è un'altra brutta giornata per il Consiglio. Pochi minuti e Di Matteo dà il suo singolare annuncio. Si tratta, per certi versi, di una irrituale seppur criptica discovery dell'affaire Amara. Dice Di Matteo: "Ho ricevuto un plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell'interrogatorio di un indagato reso nel dicembre 2019 dinanzi all'autorità giudiziaria". Il togato di Autonomia e Indipendenza non ne fa il nome, ma non sono pochissimi - in quel plenum - a sapere che si sta parlando di Piero Amara. Aggiunge il consigliere: "Nella lettera anonima, quel verbale veniva indicato come segreto e l'indagato menzionava in forma diffamatoria se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo". Qui il riferimento è al suo collega Ardita, stessa corrente, stesso gruppo. Di Matteo aggiunge poi di aver contattato l'autorità giudiziaria di Perugia e riferito il fatto, "nel timore che tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo potessero collegarsi a un tentativo di condizionamento dell'attività del Csm", auspicando infine che si faccia luce sugli autori e sulla diffusione di quegli atti. Passano poche ore e l'intera vicenda si arricchisce degli altri segmenti del racconto. Solo qualche settimana prima, la Procura di Roma ha disposto una perquisizione in un ufficio del Csm: sotto indagine è infatti finita la funzionaria Marcella Contrafatto che (moglie di un magistrato) è stata segretaria del consigliere Davigo fino all'ottobre del 2020, cioè fino all'ultimo giorno di attività del togato che poi (con una sofferta decisione assunta in Consiglio) è stato spinto a lasciare il Consiglio per andare in pensione, per raggiunti limiti d'età. I pm hanno elementi per ritenere che Contrafatto sia la "postina" di almeno tre plichi recapitati rispettivamente a due giornalisti (di "Repubblica" e del "Fatto") - già a partire dall'ottobre del 2020 - e al consigliere Di Matteo. I cronisti non usano quel materiale, potrebbero rendersi responsabili di un depistaggio o di un inquinamento: e denunciano quell'irrituale consegna all'autorità giudiziaria. Di Matteo invece ne parla, pur senza esplicitare nomi e dettagli, nel cuore dell'organo di autogoverno, perché si capisca che cosa è in ballo. 

Due elementi appaiono significativi. Il primo: le copie dei verbali di Amara recapitati agli ignari destinatari sono tutti tratti da quegli stessi file che Storari aveva consegnato a Davigo. E che il consigliere anziano aveva evidentemente condiviso sulle cartelle del proprio pc con la propria collaboratrice e segretaria, come avviene di rito, in molte cancellerie di magistrati. Il secondo. In tutti e tre i casi, quei dossier sono accompagnati da una lettera anonima, scritta a mano, in cui si avanzano sospetti di intrecci e di presunti insabbiamenti da parte della Procura di Milano. E la grafia è identica per ciascuna di quelle lettere: dunque è come se la stessa mano avesse firmato tutte e tre le "spedizioni". Si tratta solo di un disegno della Contrafatto? Oppure quell'operazione ha dei mandanti, per ora rimasti senza volto? Il magistrato Michele Prestipino e il procuratore di Milano Francesco Greco Il procuratore Michele Prestipino, che coordina l'indagine, interroga la funzionaria anche su questi aspetti: che però si avvale della facoltà di non rispondere. Le vengono sequestrati anche pc e telefonino: la difesa della dipendente (subito sospesa dal Csm) ne chiede il dissequestro al Riesame. Che rigetta. Se Contrafatto custodisce ancora qualche segreto, non è al pm che intende affidarlo. Almeno, per ora. Ma è risalendo da quel versante che vengono giù gli altri protagonisti, distinti e separati, dello scandalo sui verbali Amara. Il pm Storari, sollecitato dal procuratore Greco, racconterà di aver fornito lui stesso le copie dei verbali di Amara a Davigo. E quest'ultimo, convocato come teste dalla Procura di Roma, cade dalle nuvole rispetto alle ipotesi che si formulano a carico della sua ex segretaria. "Sono stupefatto - dirà - Ho sempre avuto un rapporto cordiale con lei, inimmaginabile che avesse potuto fare qualcosa del genere". Scatta il coordinamento tra uffici: la Procura di Brescia per competenza continua l'indagine su Storari, indagato per rivelazione del segreto d'ufficio; e invece piazzale Clodio va avanti sulla fuga di notizie e la calunnia contestata a Contrafatto.  Davigo - tra l'altro - sentito dai pm romani, lascia intendere che la dottoressa Contrafatto aveva un carattere forse appena sopra le righe, ma molto legata a un'idea di rigore ed estremo rispetto della legalità. Potrebbe essere stata la presunzione di salvare un'inchiesta che rischiava una gestione troppo prudente ad averla spinta a trasformarsi nella postina dei verbali vietati? Oppure i corvi che volteggiano sul Csm sono di più? Quanti? E soprattutto: perché?  Fuori del Palazzo, intanto, va in scena uno scontro imbarazzante.

Davigo versus Ardita. Lo scontro che si consuma intorno alla asserita loggia Ungheria, e al cuore di un'indagine ancora tutta da ricostruire, mette uno di fronte all'altro due magistrati che un tempo sembravano inseparabili nella loro battaglia anticorruzione e antimafia, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I primi attriti risalgono al tempo in cui Davigo parlò anche con altri membri del consiglio, come il laico Fulvio Gigliotti. Gli raccontò loro che tra i citati da Palamara figuravano sia Ardita sia un altro consigliere. Ma il conflitto esplode quando, dopo il deposito di una sua relazione sul tavolo del Procuratore di Roma, il presidente della commissione antimafia, il senatore M5s Nicola Morra, racconta che circa un anno prima Davigo raccontò anche a lui non solo dell'esistenza dell'inchiesta milanese sull'associazione segreta, ma anche del presunto coinvolgimento, tra i partecipanti, di Ardita. Morra aggiunge che Davigo, mentre toccava quei delicati argomenti, si era allontanato dal suo studio al Csm e aveva invitato Morra a seguirlo per mostrargli superficialmente alcune di quelle pagine. Addirittura "nella tromba delle scale del palazzo, circostanza che mi lasciò stupito". Davigo, ora, minimizza. E nega di aver mostrato carte e anche di aver specificato dell'esistenza di un'inchiesta e di un dichiarante. Anche perché la sua posizione è al vaglio della Procura e non è esattamente facilissima. L'ex consigliere potrebbe infatti rischiare di rispondere di violazione di segreto. Ardita, intanto, tira dritto. Chiede all'autorità giudiziaria di "andare fino in fondo". Anche perché non ritiene la Contrafatto capace da sola di aver concepito la fuga di notizie. Anzi, ne ricorda perfino lo scambio affettuoso all'ultimo Natale. Lei che, dopo aver ricevuto dal magistrato un oggetto in cristallo come regalo, entra nel suo studio per ringraziarlo. E gli dice: "Grazie, lei è l'unico che mi ha pensato, non lo dimentico".

Il silenzio di Peter Pan. E Amara? Tace. Perché il suo silenzio, in questi giorni, vale la libertà. È in attesa della pronuncia del Tribunale della Sorveglianza, cui ha chiesto di poter scontare i suoi tre anni di pena residua per i fatti del "Sistema Siracusa" con la misura alternativa al carcere dell'affidamento ai servizi sociali. "Repubblica" gli aveva rivolto delle domande che ha declinato chiedendo "la cortesia di comprendere il momento" e "la necessità di non condizionare in alcun modo la valutazione dei giudici" che dovranno decidere sulla sua libertà. Si limita solo a una battuta: Tutto quello che ho raccontato alla giustizia, l'ho fatto per offrire un contributo in termini di ricostruzione della verità. E, assistito dai suoi avvocati Salvatore Mondello e Francesco Montali, ripete che non "corrisponde minimamente al vero l'immagine di inquinatore o mistificatore che qualcuno vorrebbe cucirmi addosso". Ad ascoltarlo viene in mente il "paradosso del mentitore" del VI secolo a.C.: "Tutti gli atenesi sono bugiardi. E dunque, se io vi dico che sto mentendo, sapendo che sono ateniese, vi dico la verità?"

Paolo Amara, la loggia segreta "Ungheria": toghe vicine a Conte e ufficiali della Gdf, i nomi nei verbali segreti. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Piero Amara, il faccendiere, avvocato dell'Eni coinvolto in diversi fatti di corruzione ha parlato come "pentito" ai pm di Milano di tre i gruppi iscritti ad una loggia massonica chiamata "Ungheria": magistrati romani del tribunale fallimentare, magistrati catanesi come il togato del Csm Sebastiano Ardita e alti ufficiali della Guardia di Finanza. Riporta il Giornale che questo è quello che trapela sulle copie degli interrogatori del 2019 fatti avere ad alcuni giornali, come la Repubblica, Il Fatto, Domani e al consigliere Nino Di Matteo, che ha rivelato il fatto al plenum di Palazzo de' Marescialli. Evidentemente il corvo che diffonde le carte secretate vuole che siano di dominio pubblico, forse per mettere in difficoltà la procura di Milano che non avrebbe indagato come si doveva sulle rivelazioni di Amara. Questo nella primavera del 2020 spiegò il pm milanese Paolo Storari all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Che assicura di aver informato "chi di dovere", anche se non c'è stato seguito. E' invece indagata per calunnia a Roma la sua segretaria di allora, Marcella Contrafatto, sospettata di aver mandato ai giornali i verbali e sospesa dal servizio al Csm. Storari, che a Milano indagava sul falso complotto Eni, fa sapere che se verrà chiamato è pronto a riferire al Csm. La conferma che Amara abbia coinvolto dei magistrati romani viene, anche se non ufficialmente, da Perugia che ha competenza in questi casi. Il reato ipotizzato sarebbe di associazione segreta e questo conferma anche le indiscrezioni sulla loggia massonica, che per l'avvocato opererebbe per condizionare le nomine in magistratura e non solo. Tra le toghe della fallimentare citate dall'avvocato una, che ora lavora per la Coldiretti, sarebbe vicina al l'ex premier Giuseppe Conte, tirato già in ballo dal quotidiano Domani per i suoi incarichi per l'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone. Nei verbali emergerebbe lo stretto collegamento con lo scandalo Palamara. Insomma, forse il Csm, che ormai è coinvolto - un consigliere, Di Matteo, che denuncia il dossieraggio del corvo; un altro, Ardita, accusato da Amara di essere massone e finito sui giornali; un ex consigliere, Davigo, che ha ricevuto lamentele e verbali dal pm Storari ma non gli ha consigliato di fare un esposto; la sua ex segretaria indagata e sospesa, il tutto legato al sistema Palamara - forse dovrebbe dire qualcosa.

Toghe vicine a Conte e ufficiali della Gdf. Ecco i nomi coinvolti nei verbali segreti. Anna Maria Greco l'1 Maggio 2021 su Il Giornale.  C'è il nome del consigliere del Csm Ardita. Lo stretto collegamento con il caso Palamara. Sono tre i gruppi di cui parla il faccendiere Piero Amara ai pm di Milano come iscritti ad una loggia massonica chiamata «Ungheria»: magistrati romani del tribunale fallimentare, magistrati catanesi come il togato del Csm Sebastiano Ardita e alti ufficiali della Guardia di Finanza. Da quello che trapela sulle copie degli interrogatori del 2019 fatti avere ad alcuni giornali, come la Repubblica, Il Fatto, Domani e al consigliere Nino Di Matteo che ha rivelato il fatto al plenum di Palazzo de' Marescialli, l'avvocato dell'Eni coinvolto in diversi fatti di corruzione, per ottenere vantaggi per sé collabora con gli inquirenti. E, come nella migliore tradizione dei «pentiti», potrebbe mescolare cose vere e cose false. Il corvo che diffonde le carte secretate vuole, comunque, che siano di dominio pubblico, forse per mettere in difficoltà la procura di Milano che non avrebbe indagato come si doveva sulle rivelazioni di Amara. Questo nella primavera del 2020 spiegò il pm milanese Paolo Storari all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Che assicura di aver informato «chi di dovere», senza che ci sia stato però un seguito, a quanto pare. Mentre risulta indagata per calunnia a Roma la sua segretaria di allora, Marcella Contrafatto, sospettata di aver spedito in giro i verbali e sospesa dal servizio al Csm. Storari, che a Milano indagava sul falso complotto Eni, fa sapere che se verrà chiamato è pronto a riferire al Csm. La conferma che Amara abbia coinvolto dei magistrati romani viene, anche se non ufficialmente, da Perugia che ha competenza in questi casi. Il reato ipotizzato sarebbe di associazione segreta e questo conferma anche le indiscrezioni sulla loggia massonica, che per l'avvocato opererebbe per condizionare le nomine in magistratura e in altri settori. Tra le toghe della fallimentare citate dall'avvocato una, che ora lavora per la Coldiretti, sarebbe vicina al l'ex premier Giuseppe Conte, tirato già in ballo dal Domani per i suoi incarichi per l'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone.

Nei verbali emergerebbe lo stretto collegamento con lo scandalo Palamara. Amara è l'accusatore dell'ex presidente dell'Anm e ai pm di Milano non parlerebbe solo della loggia ma anche della storia del dossier sull'avvocato consulente dell'Eni Domenico Ielo, fratello dell'aggiunto di Roma Paolo, che Luca Lotti avrebbe chiesto al presidente di Eni, Claudio Descalzi. Il pm romano è quello che ha ottenuto il rinvio a giudizio dell'ex ministro dello Sport per l'inchiesta Consip e Amara è stato indagato per bancarotta e frode fiscale dal collega di Ielo, Stefano Fava che poi, su consiglio di Palamara, presentò un esposto al Csm per denunciare irregolarità nell'ufficio e il possibile conflitto d'interessi legato al fratello di Ielo e a quello del procuratore Giuseppe Pignatone. La storia di Fava, che si rivolse a Davigo e Ardita, oltre che a Palamara, ricorda quella di Storari oggi. Solo che nel primo caso si seguì la via istituzionale, nel secondo tutto si arenò in una stanza di Palazzo de' Marescialli. A questo punto il Csm, che finora si è tenuto fuori da queste vicende, ne viene investito in pieno. Un consigliere, Di Matteo, che denuncia il dossieraggio del «corvo»; un altro, Ardita, accusato da Amara di essere massone e finito sui giornali; un ex consigliere, Davigo, che ha ricevuto lamentele e verbali dal pm Storari ma non gli ha consigliato di fare un esposto; la sua ex segretaria indagata e sospesa e tutto si lega al sistema Palamara. È davvero troppo per tacere ancora. E il vicepresidente David Ermini, che tre giorni fa in plenum ha fatto cadere nel vuoto l'allarme di De Matteo, ora dice che il Csm è «obiettivo di un'opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare, in un momento particolarmente grave per il Paese, la sfiducia dei cittadini verso la magistratura». Per L'organo di autogoverno delle toghe, afferma, «è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti» di cui parlano i giornali e i pm devono «accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione».

Il dossier del collaboratore di Giustizia. Piero Amara, il "Buscetta" dei colletti bianchi, inguaia Conte: consulenze e veleni. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2021. L’avvocato Piero Amara, l’ideatore del cosiddetto Sistema Siracusa, che utilizzando le parole del sostituto procuratore generale di Messina Felice Lima, è «una delle più gravi, estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate», è ormai a pieno titolo il Buscetta del terzo millennio. Le sue dichiarazioni presso varie Procure d’Italia stanno togliendo il sonno in questi giorni a politici e ad alti magistrati che hanno avuto negli ultimi anni rapporti con lui. Amara è balzato agli onori delle cronache agli inizi del 2018, quando venne arrestato in una operazione congiunta delle Procure di Roma e Messina per associazione a delinquere finalizzata, fra l’altro, alla frode fiscale e alla corruzione in atti giudiziari. Amara aveva messo in piedi un “team” di professionisti e magistrati – ben rodato – finalizzato a pilotare i processi e ad aggiustare le sentenze al Consiglio di Stato. Con lui venne arrestato il giudice Riccardo Virgilio, presidente di sezione a Palazzo Spada. Scarcerato dopo poco, Amara ha iniziato una “collaborazione” con gli inquirenti, patteggiando una pena sotto i quattro anni che, per il momento, lo ha messo al riparo dal carcere. Chi fin da subito non era affatto convinto della bontà del suo “pentimento” era stato il pm romano Stefano Rocco Fava che, agli inizi del 2019, aveva chiesto di arrestare nuovamente l’avvocato siciliano. Dai riscontri in possesso di Fava, Amara avrebbe ricevuto la cifra di 25 milioni di euro da Eni, poi diventati 80, pur in pendenza dei procedimenti romani e siracusani. Il motivo di questa corposa dazione sarebbe stato legato alla corruzione dell’allora pm di Gela, Giancarlo Longo, per procedimenti a tutela dell’amministratore delegato del colosso petrolifero Claudio Descalzi presso la Procure di Trani e Siracusa. Tale dazione avrebbe reso ricattabili i vertici di Eni. Amara, quindi, non aveva detto tutto quello di cui era a conoscenza sulle corruzioni. L’aggiunto Paolo Ielo aveva, però, respinto la richiesta di Fava a cui, poi, sentito il procuratore Giuseppe Pignatone, era stato anche tolto il fascicolo. Interrogato a Perugia, Amara era stato fra i principali accusatori dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. A fine 2019 le peripezie giudiziarie lo portarono a Milano dove si sottopose a quattro interrogatori in meno di un mese davanti all’aggiunto Laura Pedio e al sostituto Paolo Storari nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. E a questo punto la storia si tinge di giallo. Tali verbali, oltre ad essere inviati per competenza a varie Procure, sono stati inviati, non è dato sapere come e da chi, nei mesi scorsi alle redazioni di importanti quotidiani nazionali. I quotidiani, che non si sono mai sottratti in casi analoghi alla pubblicazione di verbali d’indagine, mantengono il riserbo per motivi diversi: da un lato perché vengono chiamati in causa esponenti dell’ex compagine governativa, la cui linea politica è stata appoggiata pancia a terra, dall’altro perché sono citati importati magistrati, soprattutto di Roma, da sempre loro fonti privilegiate. La pubblicazione del contenuto dei verbali è iniziata l’altra settimana a cura del Domani. Il primo a finire nel mirino è stato Filippo Patroni Griffi. Il presidente del Consiglio di Stato avrebbe indotto Amara a non licenziare l’esperta di relazioni istituzionali e sua amica Giada Giraldi, assunta in una delle società dell’avvocato siciliano, con un contratto di circa 4-5mila euro al mese, a seguito di una raccomandazione del faccendiere laziale Fabrizio Centofanti. Amara avrebbe detto ai pm di aver assunto nel 2017 Giada Girardi per fare un piacere all’allora influente presidente della Quarta sezione del Consiglio di Stato. Patroni Griffi, però, sarebbe stato anche il presidente del collegio che doveva decidere in un contenzioso tra due società, il titolare di una delle quali era assistito dallo stesso Amara. Ieri è stato il turno di Giuseppe Conte. L’ex premier era stato segnalato da Amara per una consulenza per la società Acqua marcia, controllata da Francesco Bellavista Caltagirone con un compenso pattuito di 400 mila euro. A fare il nome di Conte sarebbe stato (ma ha negato fermamente) Michele Vietti, ex presidente del Csm. Dopo la consulenza per Acqua Marcia, finita in concordato, Conte aveva lavorato per l’imprenditore pugliese Leonardo Marseglia nella compravendita del Molino Stucky, stupenda struttura extralusso che sorge sull’isola della Giudecca a Venezia, e nel portafoglio della società di Caltagirone. Sulla carta un potenziale conflitto d’interessi, dal momento che Conte aveva lavorato prima come consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato) e poi con Marseglia, che di quel concordato aveva beneficiato. Su questa trasmissione incontrollata di verbali è intervenuto ieri in Plenum al Csm il togato Nino Di Matteo, annunciando che nei mesi scorsi ha ricevuto un «plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell’interrogatorio di un indagato risalente al dicembre 2019 dinanzi a un’Autorità giudiziaria». Nella lettera che accompagnava il faldone, ha spiegato Di Matteo, «quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto». «Nel contesto dell’interrogatorio – aggiunge – l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria, se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo». L’ex pm ha quindi spiegato di aver subito contattato la Procura competente, cioè quella di Perugia, per riferire i fatti. Il suo timore, infatti, è che “tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo” possano “collegarsi a un tentativo di condizionamento” dell’attività di Palazzo dei Marescialli. La speranza è che le «indagini in corso possano tempestivamente far luce sugli autori e le reali motivazioni della diffusione di atti giudiziari in forma anonima». Il togato chiamato in causa è Sebastiano Ardita, davighiano della prima ora, accusato di far parte di una loggia massonica. Patroni Griffi, Conte, Ardita, hanno smentito le ricostruzioni di Amara, annunciando denunce. Chi sarà il prossimo? Paolo Comi

Fabrizio Boschi per "il Giornale" il 29 aprile 2021. Un nome che torna spesso. Piero Amara, l'uomo dei dossier e dei depistaggi, al centro di un sistema di relazioni tra consiglieri di Stato e aziende. Dalle vicende Eni - di cui è stato avvocato esterno - alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato, dal «Sistema Siracusa» al caso dell'ex pm Luca Palamara. Coinvolto in vari procedimenti penali (deve scontare in carcere quasi 4 anni), l'avvocato siciliano è diventato ora il grande accusatore. Amara riempie da tempo i verbali dei pm raccontando le vicende di politici di partiti diversi, potenti assortiti e toghe d' ogni genere. L' ultimo suo bersaglio è l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che è adesso in forte imbarazzo per via di certi incarichi svolti prima di diventare premier. Il quotidiano Domani scrive che Amara avrebbe spifferato ai pm di aver «raccomandato» Conte per fargli ottenere, nel 2012-2013, consulenze dal Gruppo Acqua Marcia Spa (la più antica società immobiliare italiana) pagate circa 400mila euro. Una cifra legittima, ma sospetta secondo il testimone. Il nome di Conte sarebbe stato fatto ad Amara da Michele Vietti, l'ex Udc, eletto vicepresidente del Csm nel 2010. Vietti sarebbe stato a conoscenza del fatto che Francesco Bellavista Caltagirone, che controllava Acqua Marcia, doveva far omologare dal tribunale di Roma il concordato preventivo della sua società. L' impero dell'immobiliarista, infatti, prima di sfiorare il fallimento nel 2013 per un debito con le banche superiore al miliardo, spaziava dagli hotel ai porti, dagli aeroporti ai servizi finanziari e alla comunicazione. Secondo Amara la nomina di Conte come avvocato di Acqua Marcia (insieme a Guido Alpa ed Enrico Caratozzolo) era condizione fondamentale «per riuscire a ottenere l'omologazione del concordato stesso». Conte annuncia querela per calunnia: «Mai visto Amara in vita mia, non ho avuto rapporti professionali nemmeno con Vietti. Quanto percepito è congruo».  E anche Vietti smentisce: «Amara mente». Uomo senz' altro da prendere con le pinze, i pm lo sanno, ma da ulteriori verifiche emerge che Fabrizio Centofanti (l'imprenditore accusato di aver corrotto Palamara e che nel 2012 era a capo delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia) ha davvero ricevuto da Amara la richiesta di incaricare Conte. Può darsi anche che Amara menta, ma c' è una lettera del 2012 dove Centofanti scrive al professor Conte per chiedergli formalmente il «conferimento di un incarico professionale per la società dell'Acqua Pia Antica Marcia Spa». Due anni dopo Conte agevolerà anche l'acquisizione dell'hotel Molino Stucky di Venezia, controllato da Acqua Marcia, da parte dello sconosciuto imprenditore pugliese Leonardo Marseglia, che sbaragliò la concorrenza dei più importanti fondi immobiliari al mondo. Qualcuno potrebbe insinuare il conflitto d' interessi dato che Conte era stato prima consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato) e poi di Marseglia, che di quel concordato ha beneficiato. Gli incarichi di Conte, scrive Domani, sono probabilmente tutti leciti, ma i suoi comportamenti non sono molto vicini all' homo novus senza macchia descritto dalla propaganda del M5s potenziale nuovo capo dei grillini. E l'ex premier, in un post su Facebook, respinge anche questa affermazione: «Attività pienamente lecita».

Dal "sistema Siracusa" al caso Palamara l'avvocato invischiato in tutte le inchieste. Massimo Malpica l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Varie procure lo hanno ascoltato ma i suoi racconti presentano spesso omissioni. Il suo legale smentisce: "Io non ho mai avuto i verbali diffusi". Amara, come l'aria per la magistratura negli ultimi tempi. Il nome dell'avvocato siciliano che emerge da ogni indagine - Pietro Amara, appunto - è sintomatico del momento difficile per le toghe, ma i suoi legami non si limitano al potere giudiziario e coinvolgono, spesso, politici e imprenditori di rango. Amara è asceso agli onori delle cronache nel 2018 con l'inchiesta messinese sul «sistema Siracusa», quando venne arrestato con l'accusa di aver messo su un gruppo di potere che, tramite un pm di Siracusa, Giancarlo Longo (condannato a risarcire l'erario per 300mila euro per il danno d'immagine provocato alla magistratura, dopo aver patteggiato 5 anni per il «sistema»), gestiva a piacimento le indagini, favorendo in particolare gli imprenditori a lui vicini. A cadere in piedi è proprio Amara, che patteggia a Roma (3 anni) e a Messina (14 mesi) per chiudere la partita, scegliendo di «collaborare». Eppure a partita chiusa, appunto, salta fuori che l'Eni, mentre l'avvocato (che del colosso era «legale esterno», collaborando già dal 2002) era sotto indagine, gli avrebbe bonificato 80 milioni (tramite società intestate ad altri ma delle quali Amara sarebbe stato il dominus), proprio per favori giudiziari legati al «patto» col pm Longo, e diretti a «proteggere» l'Ad della multinazionale dell'energia Claudio Descalzi. Ma Amara finisce pure nell'affaire Palamara, perché salta fuori che l'ex presidente Anm gli avrebbe indirettamente fatto da informatore, raccogliendo notizie da pm di Roma e Messina sulle inchieste che riguardavano l'avvocato siciliano, girandole al suo sodale Fabrizio Centofanti che poi, secondo la procura di Perugia, le avrebbe riferite proprio ad Amara. Il cui zampino c'è anche nell'indagine romana a carico del presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi per induzione indebita: Amara avrebbe assunto nel 2017 un'amica del magistrato, Giada Giraldi, che gli era stata raccomandata dallo stesso Centofanti, su «suggerimento» proprio di Patroni Griffi. E secondo i pm, dietro all'induzione a non licenziarla arrivata ad Amara dal presidente del Consiglio di Stato ci sarebbe anche un contenzioso amministrativo su cui avrebbe dovuto decidere il collegio presieduto da Patroni Griffi e che vedeva una delle controparti «assistita» proprio da Amara. E tornando al «cliente» Eni, Amara va poi a parlarne, interrogato, anche a Milano, proprio per l'indagine sui depistaggi e sui falsi complotti contro la società per influenzare l'inchiesta Eni-Nigeria. E in quei verbali il «collaboratore» Amara dice di tutto e di più. Rivela di far parte di una loggia massonica, «Ungheria», della quale farebbero parte anche diversi magistrati anche importanti, come Sebastiano Ardita; sostiene che l'ex premier Conte (in carica al momento degli interrogatori) avrebbe ottenuto grazie a lui 400mila euro di consulenze dalla società Acqua Marcia nel 2012; parla di magistrati, facendo nomi e cognomi, che gli avrebbero chiesto una mano per ottenere incarichi e promozioni. Ma quei verbali pur se «secretati» non restano, come noto, affatto segreti, visto che finiscono consegnati dallo stesso pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo, all'epoca ancora al Csm, e spediti poi al consigliere del Csm Nino Di Matteo in forma anonima, e sempre anonimamente anche a due quotidiani ai quali stando alla procura di Roma, che l'ha indagata e perquisita sarebbero stati mandati da Marcella Contrafatto, un'impiegata del Csm nella segreteria di Davigo che, interrogata, è rimasta in silenzio. Il legale di Amara, Salvino Mondello, nega di essere lui la fonte della fuga di notizie: «I verbali degli interrogatori dell'avvocato Piero Amara davanti ai pm milanesi sono secretati. Io non ne ho e non ne ho neanche mai chiesto copia proprio perché sono secretati». Un pasticcio senza fine, in cui alle parole del dichiarante Amara - uno che sembra erogare verità a singhiozzo, come dimostrerebbero le «omissioni» già registrate in occasione dell'indagine sul Sistema Siracusa - replicano, smentendo, gli altri protagonisti tirati in ballo, da Conte a Patroni Griffi. Di certo gli ultimi, burrascosi anni di Amara, che all'Espresso, 3 anni fa, diceva di essere «solo un avvocato di provincia che ha avuto un po' di successo e che ora lobby oscure vogliono mettere in difficoltà», ha rilanciato un timore molto italiano. Quello dell'ennesima «loggia» segreta.

Fuga di verbali coperti da segreto: bufera su Davigo e il Csm. Una nuova bufera rischia di coinvolgere il Csm e riguarda atti giudiziari coperti da segreto, lettere anonime, calunnie con il coinvolgimento di alcune Procure, prima fra tutte Milano. Il Dubbio il 30 aprile 2021. Una nuova bufera rischia di coinvolgere il Csm e riguarda atti giudiziari coperti da segreto, lettere anonime, calunnie con il coinvolgimento di alcune Procure, prima fra tutte Milano. Come scrivono oggi alcuni quotidiani, sarebbe stato proprio un pm di questo ufficio, Paolo Storari, a consegnare un anno fa i verbali ancora segreti all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, senza informare i propri capi, a partire dal procuratore Francesco Greco, e anzi allo scopo di tutelarsi da essi. I verbali, tuttora segretati, sono quelli resi in cinque occasioni nel 2019 da Piero Amara, l’avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici, 2 anni e 8 mesi di patteggiamento, e coinvolto anche nelle vicende dell’ex pm romano Luca Palamara, radiato dalla magistratura e accusato d’aver pilotato nomine in cambio di regali e favori. Pochi mesi dopo che i verbali erano stati consegnati da Storari a Davigo, e mentre le indagini erano in corso, alcuni giornali iniziarono a riceverli con una missiva anonima che ne sollecitava la pubblicazione. A spedirli – scopre ora la Procura di Roma – fu Marcella Contrafatto, impiegata del Csm nella segreteria dell’allora consigliere Davigo, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. Verbali che, tra l’altro, riguardano anche l’ex premier Conte, all’epoca presidente del Consiglio.

Piercamillo Davigo e "il corvo della Procura di Milano". Verbali segreti, fughe di notizie e... Travaglio: regolamento di conti interno? Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Nuova bomba in arrivo sulla Procura di Milano: protagonisti, ancora una volta, l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, il procuratore capo Francesco Greco e il pm Paolo Storari. Secondo quanto appurato dal Corriere della Sera, quest'ultimo avrebbe consegnato a inizio 2020 dei verbali ancora segreti a Davigo "senza informare i propri capi e anzi allo scopo di tutelarsi da essi". I documenti, scottanti, sono quelli relativi alle testimonianze rese davanti ai pm nel 2019, in 5 occasioni, dall'avvocato e faccendiere siciliano Piero Amara, finito al centro della rete di Luca Palamara, ex presidente dell'Anm radiato dalla magistratura e accusato di nomine pilotate in cambio di regali e favori. Amara era stato arrestato nel 2018 e indagato per depistaggi nell'inchiesta Eni e vari episodi di corruzione, e per questo le sue dichiarazioni vengono "congelate" dai pm che lo hanno ascoltato perché giudicate tutte da verificare. Tra quei pm c'è proprio Storari, che preme però per l'apertura di un fascicolo perché a suo dire in quelle testimonianze ci sono o reati gravissimi o, viceversa, calunnie da sanzionare. I suoi superiori invece tergiversano e così il magistrato decide di passare le carte, in gran segreto, proprio a Davigo, figura istituzionale in quanto membro del Csm. Ma cos'aveva detto di tanto scottante Amara? Aveva riferito di casi di corruzione di magistrati e sosteneva di essere membro di una potentissima loggia segreta di toghe, "Ungheria". e di aver "raccomandato" l'allora premier Giuseppe Conte "per fargli ottenere nel 2012 e 2013 consulenze dal Gruppo Acqua Marcia Spa per 400mila euro", ricorda il Corsera. Roba pesante. A questo si aggiunge un ulteriore, torbido dettaglio: Marcella Contraffatto, impiegata del Csm nella segreteria di Davigo, avrebbe fatto girare quei verbali segreti in varie redazioni di quotidiani sotto forma anonima, pressando per farli pubblicare. Al Fatto quotidiano, temendo di essere finiti al centro di ricatti incrociati, decidono insieme al direttore Marco Travaglio di rispedire tutto alla Procura di Milano. Ora la Contraffatto, "il corvo della Procura", è indagata per calunnia. "Per conto di chi si è mossa? Qual è il reale obiettivo del corvo?", si chiedono Luigi Ferrarella e Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, che dopo aver contattato Davigo ottiene risposte lapidarie: "Sì", Storari gli ha  passato quelle carte e "no", non è violazione del segreto in quanto lui era componente del Csm. "Ho informato chi di dovere", si limita a sottolineare senza voler specificare se si trattasse del vicepresidente Ermini o dell'ufficio di presidenza del Csm.

Le deposizioni passata a magistrati e giornali. Nuovo terremoto sul Csm, i verbali segreti di Amara consegnati a Davigo: inchiesta tra ‘corvi’ e logge segrete. Carmine Di Niro su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Ci sono tutti gli ingredienti di una spy story nella nuova inchiesta che rischia di provocare l’ennesimo terremoto all’interno della magistratura e in particolare del Csm, già travolto dalle vicende giudiziarie riguardanti il "sistema Palamara". Un caso che nasce dai quattro interrogatori ai quali era stato sottoposto a fine 2019 Piero Amara, l’avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici, 2 anni e 8 mesi di patteggiamento, coinvolto anche nelle vicende che vedono indagato l’ex pm di Roma Luca Palamara. Amara viene sentito nel dicembre 2019 dall’aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. In quei verbali Amara parla dei suoi rapporti con politici, imprenditori e magistrati, che avrebbero chiesto aiuto per ottenere promozioni: nei verbali “secretati”, cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, c’è anche il nome dell’ex premier Giuseppe Conte, con Amara che rivela di essere membro di una presunta loggia massonica, chiamata "Ungheria", di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, membro della "corrente" davighiana Autonomia & Indipendenza. Quei verbali finiscono a giornali e ad altri magistrati. In particolare il plico contenente le parole di Amara finisce nell’ottobre 2020 a giornalisti del Fatto Quotidiano e di Repubblica: entrambi i quotidiani informano della vicenda rispettivamente la Procura di Milano e di Roma, pensando di essere finiti al centro di una attività di dossieraggio in quanto i verbali non erano firmati dai magistrati che avevano raccolto le deposizioni di Amara, e questo li rendeva non ufficiali e sospetti. Liana Milella e Antonio Massari, i giornalisti che ricevono il plico anonimo, non sanno ancora che nell’aprile 2020 quegli stessi verbali sono finiti nelle mani di Piercamillo Davigo, ormai ex consigliere del Csm (andato in pensione ad ottobre del 2020 tra mille polemiche e ricorsi), consegnati dal sostituto Paolo Storari, che lo avrebbe fatto come atto di “autotutela” da possibili conseguenze disciplinari per comportamenti che, nel trattamento di quei verbali, riteneva non corretti da parte dei vertici della Procura di Milano. Un gesto che rientra nella divergenza di vedute tra Storari e gli altri magistrati milanesi, col primo che spingeva per iscrizioni nel registro degli indagati e Greco, De Pasquale e Pedio che non lo ritenevano opportuno. Storari, secondo quanto saputo dall’Ansa tramite fonti giudiziarie milanesi, sarebbe pronto a riferire la sua versione dei fatti al Csm se l’organo di autogoverno della magistratura lo riterrà necessario. Quanto a Davigo, l’ex membro del Csm al Corriere della Sera ha confermato di aver ricevuto quei verbali e di non aver violato il segreto perché “non opponibile ai componenti del Csm. E io ho subito informato chi di dovere”, pur non spiegando chi sia la persona informata. Al Tg2 quindi Davigo ha spiegato di ritenere “inusuale” quanto accaduto a Milano, “cioè un sostituto procuratore della Repubblica lamentasse che non gli consentivano di iscrivere una notizia di reato”. A spedire invece i verbali ai giornali, secondo quanto scoperto dalla Procura di Roma, sarebbe stata Marcella Contrafatto, impiegata del Csm nella segreteria dell’allora consigliere Davigo e poi assegnata al consigliere Fulvio Gigliotti, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. La funzionaria si è avvalsa della facoltà di non rispondere quando è stata interrogata dalla procura di Roma sulla diffusione dei verbali degli interrogatori resi a suo tempo ai pm di Milano dall’avvocato Amara, è stata quindi sospesa dalle sue funzioni dal Csm. Verbale che è finito anche ad un secondo membro del Csm, il togato Nino Di Matteo. A dirlo è stato lo stesso ex pm di Palermo nel Plenum del Csm del 28 aprile, annunciando che nei mesi scorsi aveva ricevuto un “plico anonimo, tramite spedizione postale, contenente la copia informatica e priva di sottoscrizione dell’interrogatorio di un indagato risalente al dicembre 2019 dinanzi a un’Autorità giudiziaria”. Nella lettera che accompagnava il faldone, ha spiegato Di Matteo, “quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto”. “Nel contesto dell’interrogatorio – aggiungeva Di Matteo – l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria, se non calunniosa, circostanze relative a un consigliere di questo organo” (ovvero Ardita, ndr). L’ex pm aveva quindi spiegato di aver subito contattato la Procura competente, cioè quella di Perugia, per riferire i fatti. Il suo timore, infatti, era che “tali dichiarazioni e il dossieraggio anonimo” potessero “collegarsi a un tentativo di condizionamento” dell’attività di Palazzo dei Marescialli. E sull’intricata vicenda sta effettivamente indagando la procura guidata da Raffaele Cantone. L’ipotesi, tutta da verificare, è inquietante: l’esistenza di una loggia, la già citata ‘Ungheria’, che col coinvolgimento di alcuni pezzi del Paese avesse l’obiettivo di condizionare le nomine non solo nella magistratura ma anche in altri settori.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da rainews.it il 30 aprile 2021. E' indagata per calunnia e si è avvalsa della facoltà di non rispondere la signora Marcella Contrafatto, impiegata del Csm e già segretaria di Piercamillo Davigo prima e Fulvio Gigliotti poi. Nei giorni scorsi la donna, convocata per interrogatorio dagli inquirenti della Procura di Roma in seguito alla trasmissione degli atti dagli uffici giudiziari di Milano e Perugia, e dopo aver subito una perquisizione, ha deciso di non parlare. Gli accertamenti che hanno messo al centro la Contrafatto - secondo quanto si è appreso - sono stati avviati dai pubblici ministeri del gruppo "reati in danno della pubblica amministrazione" e nell'incartamento si ipotizza il reato di calunnia. "Altro" fascicolo - si spiega a piazzale Clodio - è stato aperto dopo l'invio degli atti dalle Procure di Milano e Perugia e si procede per rivelazione del segreto d'ufficio, secondo l'articolo 326 del codice penale.  Nella disponibilità della Contrafatto, nei giorni scorsi, gli investigatori della Guardia di finanza hanno trovato dei verbali secretati di Amara. I controlli delle Fiamme gialle si sono concentrati sia nell'abitazione della donna che nell'ufficio a Palazzo dei Marescialli. Amara - secondo quanto si spiega stamane su diversi quotidiani - negli interrogatori, in particolare, ha parlato dell'esistenza di una presunta loggia massonica 'Ungheria'. L'impiegata è stata sospesa dal servizio e rischia il procedimento disciplinare.

Storari: "Pronto a riferire al Csm" Si dice pronto a riferire al Csm, se l'organo di autogoverno della magistratura lo riterrà necessario, il pm di Milano Paolo Storari che per circa sei mesi, tra fine 2019 e maggio 2020, avrebbe chiesto ai vertici dell'ufficio della Procura di effettuare delle iscrizioni nel registro degli indagati per andare a verificare le dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara, e che poi, come forma di autotutela, avrebbe deciso di consegnare i verbali all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. E' quanto emerge nelle ultime ore dagli ambienti giudiziari milanesi nei quali - notano le agenzie - si vivono ore di tensione.  

Verbali secretati. E spunta una presunta loggia massonica La vicenda deflagra sui principali quotidiani oggi in edicola e vale la pena di ricapitolarla per cercare di fare chiarezza in un quadro sempre più intricato. Si parla di verbali d'interrogatorio coperti da segreto istruttorio consegnati ad un ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura, con dentro una serie di rivelazioni sulla attività di una presunta loggia massonica. E' questo l'oggetto della vicenda che viene riferita oggi da diversi quotidiani dopo che ieri in serata con una nota congiunta le procure di Milano e Perugia hanno dato notizia di aver trasmesso gli atti alla procura di Roma "con riferimento al luogo di consumazione del reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio". I verbali di Amara fatti recapitare a Di Matteo al Csm Sono stati recapitati proprio al Csm i verbali senza firma di un interrogatorio dell'avvocato Pietro Amara fatti arrivare al consigliere Nino Di Matteo. Le carte erano dentro un plico, spedito per posta, insieme a una lettera anonima in cui si commentavano le vicende oggetto delle dichiarazioni. A quanto si è appreso, l'invio degli atti è avvenuto nei mesi scorsi e un mese e mezzo fa il consigliere li ha consegnati al procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, al quale aveva chiesto formalmente di essere ascoltato. Un'iniziativa presa perché si possa far luce su quello che appare come un "tentativo di condizionamento dell'attività del Csm", visto che Amara riferisce "circostanze relative a un consigliere di questo organo, in forma diffamatoria se non calunniosa", aveva spiegato qualche giorno fa lo stesso Di Matteo prendendo la parola in apertura del plenum del Csm. Il togato non aveva fatto nomi, ma si tratta del consigliere Sebastiano Ardita, che secondo Amara avrebbe fatto parte assieme a lui e altri magistrati di una fantomatica loggia "Ungheria". La nota delle procure sui verbali passati ai giornali In particolare le indagini "hanno permesso, con sicurezza anche documentale, di ricostruire compiutamente i fatti riguardanti le modalità con le quali alcuni verbali apocrifi (in formato word), relativi ad attività segretata, sono entrati nella disponibilità di due testate giornalistiche, rispettivamente nell'ottobre 2020 e nel febbraio 2021". La questione, che viene descritta in qualche modo dal comunicato firmato dai procuratori Francesco Greco e Raffaele Cantone, fa riferimento ai verbali che sono arrivati nelle sedi di alcuni quotidiani e di alcuni organi istituzionali e riguardano quanto dichiarato ai pubblici ministeri da Piero Amara, già coinvolto in alcune indagini.

Il ruolo dell'avvocato Amara. Nello specifico le verifiche dei magistrati chiamano in causa - come scrivono stamane alcuni quotidiani - i verbali, tuttora secretati, e resi in cinque occasioni nel 2019 dall'avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell'inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici. Amara per le pendenze giudiziarie ha patteggiato 2 anni e otto mesi di pena, ma il suo nome è citato anche nelle vicende dell'ex pm romano Luca Palamara, radiato dalla magistratura e accusato d'aver pilotato nomine in cambio di regali e favori. Secondo quanto si spiega sui quotidiani - a cominciare dal Corriere della sera, Fatto e Repubblica - le carte degli interrogatori di Amara sono stati consegnati Davigo, e mentre le indagini erano in corso, alcuni giornali hanno iniziato a riceverli con una missiva anonima che ne sollecitava la pubblicazione.

La loggia massonica "Ungheria". Amara, in particolare, ha parlato dell'esistenza di una loggia massonica 'Ungheria'. Alcuni mezzi di stampa ieri hanno spiegato che Amara coinvolgeva l'ex premier Giuseppe Conte e l'ex deputato e già vicepresidente del Csm Michele Vietti. Sempre secondo quanto riferito dai giornali i verbali di Amara sono stati inviati per posta anche al consigliere del Csm Nino Di Matteo che, a sua volta, ne ha denunciato l'esistenza alla Procura di Perugia e ha dichiarato al Consiglio superiore della magistratura di temere che la loro circolazione era legata a un "tentativo di condizionamento".  

Davigo: "Su verbali di Amara inusuale ritardo indagini". "Ritengo inusuale quello che era accaduto a monte, cioé che un sostituto procuratore della Repubblica lamentasse che non gli consentivano di iscrivere una notizia di reato". Così Piercamillo Davigo, ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ai microfoni del Tg2 parla dei verbali che un anno fa gli ha consegnato Paolo Storari, magistrato della Procura di Milano. Si tratta di verbali ancora segreti con le deposizioni dell'avvocato siciliano Piero Amara. "Non posso parlare del contenuto di quei verbali - aggiunge -, posso solo dire che per fare le indagini bisogna iscrivere una notizia di reato, che siano vere o che siano false le cose dette, e non è pensabile di ritardarle ingiustificatamente". Quindi Storari, "per tutelarsi - spiega Davigo - ha ritenuto di informare una persona che conosceva, un componente del Csm, io a mia volta ho informato chi di dovere su cosa stava accadendo". "C'è stato un ritardo a mio giudizio non conforme alle disposizioni normative nell'iscrizione della notizia di reato, e un ritardo conseguente nell'avvio delle indagini - sottolinea l'ex componente del Csm -. Non è questione di lotte interne, è questione che c'è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo".

Di Matteo (Csm), da Amara palesi calunnie su Ardita. "Le dichiarazioni che riguardano il Consigliere Sebastiano Ardita sono palesemente calunniose. La loro falsità è facilmente riscontrabile. L'illecita diffusione di quei verbali anche all'interno del Consiglio superiore rappresenta un vero e proprio dossieraggio volto a screditare il consigliere Ardita e a condizionare l'attività del Csm". Lo afferma il consigliere del Csm Nino Di Matteo, con riferimento alle dichiarazioni contenute nei verbali dell'avvocato Pietro Amara.  Ermini, Csm estraneo a manovre destabilizzanti Il Consiglio superiore della magistratura "è del tutto estraneo" alle vicende riferite oggi da diversi quotidiani. E' quanto afferma il vicepresidente David Ermini puntualizzando che il Csm, "non solo è del tutto estraneoa manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un'opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare, in un momento particolarmente grave per il Paese, la sfiducia dei cittadini verso la magistratura". Lo afferma il vicepresidente del Csm David Ermini. Il Csm è "obiettivo di un'opera di delegittimazione" e "auspico la più ferma e risoluta attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria al fine di accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione", ha affermato Ermini. "Una funzionaria del Consiglio, in seguito alla perquisizione nella sede consiliare in ordine alla diffusione di materiale istruttorio coperto da segreto, è stata immediatamente sospesa dal servizio. Eventuali sue responsabilità o di altri per condotte individuali non riferibili al Consiglio sono oggetto di indagine da parte dell'autorità giudiziaria competente", ha sottolineato il vicepresidente del Csm David Ermini.

I verbali e la tempesta sul Csm. Davigo nella bufera. Federico Garau il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. Bufera sul Consiglio superiore della magistratura per i verbali segreti diffusi alla stampa tramite lettera anonima. Renzi a gamba tesa su Davigo: "Da anni ci fa la morale, saprà spiegare questa strana vicenda". Occhi ancora una volta puntati sul Consiglio superiore della magistratura (Csm) a causa dell'inchiesta sulla divulgazione di verbali segreti portata avanti dalla procura della Repubblica di Roma. Al centro del caso la divulgazione di documenti ed atti giudiziari coperti da segreto, calunnie e lettere segrete, che vedrebbe coinvolte anche alcune procure, fra cui quella di Milano. Secondo quanto emerso sino ad ora, sarebbe stato il pubblico ministero del capoluogo meneghino Paolo Storari a consegnare a Piercamillo Davigo, all'epoca consigliere del Csm, i verbali dell'avvocato siciliano Piero Amara, ancora protetti da segreto. Il tutto senza avvisare i propri superiori, fra cui il procuratore Francesco Greco. Ciò sarebbe stato fatto come forma di autotutela.

I verbali. I documenti a cui si fa riferimento, ancora secretati, contengono le dichiarazioni deposititate in cinque occasioni dall'avvocato Piero Amara. Arrestato nel 2018 per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per alcuni episodi di corruzione, Amara rimase coinvolto anche nel caso Palamara. Durante gli interrogatori, l'avvocato siciliano avrebbe fatto i nomi di alcuni magistrati andati da lui per ottenere delle promozioni. Non solo. Nei verbali si parlerebbe anche di una sorta di loggia segreta, denominata Ungheria, che avrebbe avuto fra i suoi membri alcuni magistrati. Nelle sue dichiarazioni, Amara avrebbe parlato dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, grazie a lui, avrebbe ottenuto delle consulenze dal gruppo Acqua Marcia Spa (per un totale di circa 400 mila euro). Tra fine 2019 e maggio 2020 Storari avrebbe sollecitato i vertici della procura ad effettuare delle iscrizioni nel registro degli indagati così da poter procedere a delle verifiche sulle dichiarazioni di Amara. Alla fine, come forma di autotutela, il pm milanese avrebbe deciso di consegnare tutto a Davigo. Ma questi verbali, pochi mesi dopo il passaggio a Davigo, furono inviati anonimamente ad alcuni giornali. A spedirli, stando a quanto emerso sino ad ora, sarebbe stata Marcella Contrafatto, che a quel tempo lavorava come impiegata nella segreteria di Piercamillo Davigo. La donna è stata ora sospesa dal servizio e risulta indagata per il reato di calunnia. Nei suoi confronti potrebbe arrivare anche un provvedimento disciplinare. Durante le perquisizioni, gli inquirenti hanno trovato nei dispositivi elettronici di sua proprietà le copie di alcuni atti spediti. Indagata dai pm di Roma, Marcella Contrafatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere.

"Csm estraneo ai fatti". "Il Consiglio superiore della magistratura è del tutto estraneo alle vicende riferite oggi da diversi quotidiani", ha dichiarato il vicepresidente David Ermini, come riportato da LaPresse. "Non solo il Csm è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un'opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare, in un momento particolarmente grave per il Paese, la sfiducia dei cittadini verso la magistratura. Auspico la più ferma e risoluta attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria al fine di accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione". Il procuratore di Milano Francesco Greco ha invece fatto sapere che all'interno della procura meneghina non vi è alcuna spaccatura, mentre Paolo Storari si è detto disponibile a riferire al Consiglio superiore della magistratura. Sul caso è intervenuto anche l'ex premier Matteo Renzi, che ha affidato le proprie dichiarazioni al portale Enews."Incredibile. Per due anni ci hanno fatto credere che il problema fosse un singolo magistrato, Luca Palamara. Ogni giorno che passa scopriamo qualcosa di nuovo. Trovarsi un comodo capro espiatorio non è la soluzione, mai. E, infatti, i problemi nascosti sotto il tappeto continuano a venire fuori", ha affermato il leader di Italia viva. "Sono certo che il giudice Davigo - che da anni ci fa la morale in tutte le trasmissioni tv cui partecipa e dalle colonne de Il Fatto Quotidiano - saprà spiegare questa strana vicenda. Davigo è considerato il campione mediatico del giustizialismo, mentre noi continuiamo a essere garantisti nei confronti di tutti, anche nei confronti della ex segretaria di Davigo. Ma ormai è evidente che il Csm è in difficoltà. E quando un’Istituzione soffre, è un problema per tutti. Un grande problema per tutti", ha concluso.

Antonella Mascali per “il Fatto quotidiano” il 9 settembre 2021. AUMENTANO i rischi di un processo per Marcella Contrafatto, l'ex segretaria al Csm di Piercamillo Davigo, indagata a Roma per calunnia: sarebbe stata lei a consegnare, in forma anonima, al Fatto e a Repubblica i verbali secretati di Piero Amara, l'ex legale esterno dell'Eni che, ai pm milanesi, due anni fa, aveva raccontato di una presunta loggia denominata Ungheria. Ieri, la Procura di Roma ha depositato l'avviso conclusioni indagini, anticamera della richiesta di rinvio a giudizio. A comunicarlo al plenum del Csm sia il vice presidente David Ermini, che Riccardo Bolognesi, difensore della funzionaria sospesa e a rischio licenziamento disciplinare. L'avvocato ha ottenuto un rinvio della decisione, prevista per ieri, al 22 settembre, proprio per la notifica del 415 bis, fino a ieri pomeriggio non ancora in mano alla difesa. I verbali ricevuti in forma anonima dai giornalisti Antonio Massari e Liana Milella, che hanno denunciato, sono gli stessi che, in formato Word, non firmati, sono stati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all'allora consigliere del Csm Davigo nella primavera 2020. "L'ho fatto per autotutelarmi", ha sostenuto, denunciando contrasti con il procuratore Francesco Greco. Storari è sotto procedimento disciplinare e indagato a Brescia insieme a Davigo per rivelazione di segreto, mentre Greco, accusato da Storari, è indagato per omissione di atti d'ufficio. Intanto la prima commissione del Csm ha aperto nei confronti del procuratore aggunto milanese Fabio De Pasquale la procedura per decidere se chiedere il trasferimento d'ufficio per incompatibilità. L'iniziativa arriva dopo le audizioni dei pm milanesi post caso verbali Amara-Storari. 

Il Csm “silenzia” la discussione sull’ex segretaria di Davigo. Nonostante la richiesta di rendere pubblica la seduta sulla proposta di licenziamento di Marcella Contrafatto i microfoni sono rimasti spenti. E tra i consiglieri è di nuovo polemica. Simona Musco su Il Dubbio il 21 luglio 2021. Il Csm “silenzia” la discussione sulle sorti dell’ex segretaria di Piercamillo Davigo, secretando la seduta nonostante la richiesta, da parte della maggioranza del plenum, di rendere la seduta pubblica. Una richiesta che, nei giorni scorsi, era stata fatta anche dalla stessa Marcella Contrafatto e dai suoi difensori, che in una lettera indirizzata al Csm aveva sottolineato come «l’interesse alla riservatezza dell’incolpata, che dovrebbe costituire il fine di quella scelta, è stato già ampiamente compromesso dall’illegittima circolazione delle informazioni e dalla comunicazione mediatica che ha colpito l’immagine personale e professionale di un funzionario che non aveva mai subito alcuna contestazione disciplinare in tutta la sua carriera, prossima al traguardo pensionistico». Contrafatto, come noto, è la dipendente del Csm indagata per calunnia dai pm capitolini nell’ambito dell’inchiesta sulla diffusione di verbali secretati degli interrogatori resi da Piero Amara ai magistrati milanesi. E proprio per tale motivo, il 19 aprile scorso, era stata sospesa dall’incarico. Il segretario generale, in quello stesso provvedimento, aveva evidenziato però l’impossibilità di «adottare alcuna utile determinazione poiché le decisioni da assumere in sede disciplinare risultano connesse all’accertamento della sussistenza o meno dei fatti oggetto delle investigazioni in sede penale», sospendendo il procedimento disciplinare fino alla sentenza irrevocabile. Ma il primo luglio, il segretario generale ha dichiarato «cessati gli effetti del provvedimento di sospensione emesso in data 19 aprile 2021», pur non essendo ancora conclusa nemmeno la fase delle indagini. Un provvedimento ingiustificato, secondo Riccardo Bolognesi, uno dei difensori della donna, e non disciplinato dal regolamento dal momento che nessun elemento nuovo sarebbe intervenuto per concludere il procedimento. «Esistono, semmai, nel fascicolo del procedimento appena acquisito, alcuni elementi documentali di estremo interesse in senso contrario – ha scritto il legale -, che provano circostanze idonee a mettere in crisi la professata coerenza dei pochi indizi raccolti». Nulla da fare. Il plenum si era ieri riunito alle 15.30 per votare la proposta di licenziamento, pratica approdata in aula a microfoni spenti e per la quale il consigliere Nino Di Matteo ha chiesto di poter rendere la seduta pubblica, sottolineando come non ci fosse nulla, tra gli atti da trattare, che potesse essere considerato segreto. Si trattava, infatti, degli atti del Riesame, finiti su tutti i giornali il giorno stesso del loro deposito. Per mantenere la segretezza, stando al regolamento, è necessario che due terzi del plenum votino in tal senso. Ma la maggior parte dell’assemblea ha accolto la proposta di Di Matteo. La seduta è andata dunque avanti per un po’ in modalità pubblica, registrando l’intervento della stessa Contrafatto, che ha ribadito la propria innocenza. Ma è stato qui che una parte del Csm ha contestato la pubblicità dei lavori, paragonando il plenum ad una camera di consiglio e ritenendo la riunione, pertanto, segreta. Un parallelismo che, secondo alcuni, non reggerebbe, dal momento che l’unica cosa da fare era votare la proposta di licenziamento. Per risolvere il problema, il vicepresidente David Ermini ha investito la seconda Commissione dell’onere di stabilire il da farsi. E dopo una breve riunione, il presidente Carmelo Celentano ha annunciato il parere espresso all’unanimità dalla Commissione: «Il regolamento del personale nulla dice in ordine alla pubblicità della così definita assemblea plenaria quale organo competente alla deliberazione delle sanzioni». Tuttavia, a giudizio della Commissione, «la stessa natura di un procedimento disciplinare che trova il suo esito definitivo in un atto di natura non giurisdizionale o contrattuale, ma di natura provvedimentale, così come delineato dal regolamento, determina come conseguenza sul piano applicativo delle norme di principio dei procedimenti amministrativi la natura non pubblica delle sedute dell’ufficio disciplinare, in quanto la regola della pubblicità è applicabile soltanto alle udienze dei casi dei procedimenti di natura giurisdizionale e non per i provvedimenti di natura amministrativa e non contrattuale». La seduta è diventata, dunque, di nuovo segreta, il tempo necessario per decidere di rimandare tutto a dopo le vacanze: la decisione verrà presa l’8 settembre alle 15.30. Ma la discussione ha di nuovo infiammato gli animi dei presenti, sempre più indispettiti da una trasparenza sempre invocata ma difficilmente messa in atto. «Per quale motivo non se ne vuole parlare pubblicamente? Cosa c’è da nascondere?», si è chiesto qualcuno. Ma la domanda è rimasta senza risposta.

Giuseppe Conte, il "pentito" del caso Palamara rivela gli affari d'oro: "Raccomandato per 400mila euro". Lui? "Querela". Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Giuseppe Conte è finito nel mirino di Piero Amara, avvocato siciliano, al centro di un sistema di relazioni tra consiglieri di Stato e aziende, dalle vicende Eni - di cui è stato legale esterno - alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato, dal "Sistema Siracusa" al caso dell'ex pm Luca Palamara, scrive il Giornale che cita l'inchiesta di Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti. Amara è coinvolto in diversi procedimenti penali e deve scontare in carcere quasi 4 anni. Ora è diventato il grande accusatore: ai pm ha raccontato le vicende che coinvolgono politici di partiti diversi, potenti vari e toghe, e appunto quelle che riguardano l'ex premier. Il quale è in imbarazzo per alcuni incarichi svolti prima di diventare presidente del Consiglio.  Amara avrebbe detto ai piemme di aver "raccomandato" Conte per fargli ottenere nel 2012 e 2013 consulenze dal Gruppo Acqua Marcia Spa (la più antica società immobiliare italiana) pagate circa 400mila euro. Cifra legittima, secondo il testimone, ma sospetta. E ancora. Sarebbe stato Michele Vietti, ex Udc, vicepresidente del Csm nel 2010, a fare il nome di Conte. Vietti, a quanto pare, sapeva che Francesco Bellavista Caltagirone, che controllava Acqua Marcia, doveva far omologare dal tribunale di Roma il concordato preventivo della sua società. Secondo Amara la nomina di Conte come avvocato di Acqua Marcia (insieme a Guido Alpa ed Enrico Caratozzolo) era condizione fondamentale "per riuscire a ottenere l'omologazione del concordato stesso". Ma Conte annuncia querela per calunnia: "Mai visto Amara in vita mia, non ho avuto rapporti professionali nemmeno con Vietti. Quanto percepito è congruo". Pure Vietti smentisce: "Amara mente". Anche i pm sanno che le sue dichiarazioni vanno prese con le pinze però da altre verifiche emerge che Fabrizio Centofanti (l'imprenditore accusato di aver corrotto Palamara e che nel 2012 era a capo delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia) ha davvero ricevuto da Amara la richiesta di incaricare Conte. Insomma, forse Amara mente ma c'è una lettera del 2012 nella quale Centofanti scrive a Conte per chiedergli formalmente il "conferimento di un incarico professionale per la società dell'Acqua Pia Antica Marcia Spa". Due anni dopo Conte agevolerà anche l'acquisizione dell'hotel Molino Stucky di Venezia, controllato da Acqua Marcia, da parte dello sconosciuto imprenditore pugliese Leonardo Marseglia. C'era un conflitto di interessi per Conte? I suoi incarichi, riporta Domani, sono probabilmente tutti leciti, ma i suoi comportamenti non sono molto vicini all'idea di "trasparenza" del Movimento 5 stelle. L'ex premier, da parte sua, respinge tutte le illazioni: "Attività pienamente lecita". Secondo l'ex premier si tratta di una vendetta di De Benedetti: "Gli affari li concludono gli imprenditori", come l'editore di Domani De Benedetti: "Da presidente del Consiglio non mi sono mai concesso il piacere di incontrarlo privatamente, pur sollecitato varie volte a farlo. Ma come lei sa mi sono dovuto dedicare a tempo pieno ai bisogni del popolo, di qui la rinuncia di cui l'ingegnere mi sta ripagando amabilmente".

Emiliano Fitttipaldi per “Domani” il 29 aprile 2021. Giuseppe Conte ha replicato all’inchiesta di Domani in merito ai suoi affari e alle consulenze segrete da centinaia di migliaia di euro con la società Acqua Marcia e con l’hotel Molino Stucky con una lunga lettera su Facebook. L’ex premier e capo in pectore del M5s lamenta come diffamatori «titolo» e «passaggi interni dell’articolo», senza tuttavia smentire nulla dei suoi incarichi e contratti. Poi aggiunge: «L’avvocato civilista non fa affari, tantomeno segreti, ma svolge attività professionale, tra cui consulenze e pareri legali, rispettando la riservatezza dei propri assistiti». Conte non è più un semplice legale da tre anni, ma un ex premier e il capo in pectore del più importante partito della maggioranza. Dunque che un giornale si occupi di consulenze e business di un politico di primo piano non è solo è lecito, ma doveroso. Conte su Facebook nega nuovamente (avevamo già riportato nell’articolo le sue smentite) le affermazioni di Piero Amara, un imprenditore-corruttore di giudici che – in alcune dichiarazioni rilasciate ai magistrati di Milano e finite ora a Perugia – ha detto di aver «raccomandato» anni fa l’ex premier, il suo maestro Guido Alpa ed Enrico Caratozzolo, a Fabrizo Centofanti, allora potente legale di Acqua Marcia. Il lobbista ha assunto i tre avvocati nel 2012 e nel 2013 per consulenze legali in merito al piano di ristrutturazione del debito e del concordato preventivo dell’impero immobiliare che è stato di Francesco Bellavista Caltagirone. Non dubitiamo che Conte (e gli altri avvocati citati dal “facilitatore” Amara) non sappia nulla di presunte raccomandazioni, nel caso avvenute a sua insaputa: già ieri l’ex premier ci aveva chiarito che potrebbe sporgere querela per calunnia contro quelli che ritiene suoi diffamatori. Le carte trovate da Domani non sono state però smentite dall’ex presidente del Consiglio. Conte conferma che Centofanti (oggi indagato per una presunta corruzione in atti giudiziari insieme a Luca Palamara, ndr) nel 2012 gli ha mandato una lettera d’incarico da 150mila euro. Mentre da visure camerali è sicuro che nel cda della controllata per cui Conte doveva fare pareri legali (la Acquamare) in quel periodo sedeva Amara in persona. Al netto dei soldi ottenuti da Centofanti e dai commissari del concordato, è però l’operazione Molino Stucky a far sorgere qualche interrogativo. Il Molino Stucky è infatti un albergo extralusso che Bellavista Caltagirone possedeva sull’isola della Giudecca. Secondo stime prudenziali del concordato valeva circa 300 milioni di euro ed era controllato una società di Acqua Marcia (la Ghms srl), finita anch’essa in concordato preventivo. E Conte ci ha detto di aver fatto la valutazione «sull’intero gruppo». Un anno e mezzo dopo aver lavorato al concordato Acqua Marcia e fatturato per la spa di Bellavista, l’ex premier ha preso però un altro incarico da un gruppo pugliese guidato da Leonardo Marseglia che nel 2015 ha assunto Conte per lavorare all’operazione finanziaria che gli porterà in dote il Molino Stucky: invece di essere messo all’asta al prezzo indicato dal piano concordatario come inizialmente previsto, dopo l’ok dei giudici e dei creditori l’hotel è finito a Marseglia. Un impresario specializzato in olio d’oliva che grazie all’expertise di Conte ha battuto fondi asiatici e americani, riuscendo a comprarsi i crediti delle banche (280 milioni) a circa la metà (145 milioni), di cui 25 di risorse proprie e il resto finanziato dagli stessi istituti di credito. «Un’operazione complessa e brillante» ci dice Conte. Che non ricorda quanto ha fatturato al cliente a cui ha fatto fare l’affare del secolo: «Un milione di euro? Molto meno: non ero venale con i miei clienti». Domani però ha scoperto che il professore di diritto privato non è stato l’unico consigliere di Marseglia nell’operazione Molino Stucky. Conte ha lavorato con Arcangelo Taddeo. Un architetto pugliese, già tecnico comunale del comune di Carovigno, che è finito anni fa in grossi guai giudiziari per il fallimento della grande Compagnia italiana turismo, società di cui era diventato nel 2005 amministrazione delegato. Taddeo, quando lavorava all’operazione Stucky con Conte, era stato da poco condannato in primo grado a 17 anni di carcere per bancarotta fraudolenta. «Sì, sapevo al tempo che Taddeo aveva un contenzioso pesante con Cit. Ma io ero il legale di Marseglia, Taddeo era solo il consulente scelto da Marseglia, non da me. Dovevo per principio evitare di lavorare all’operazione Molino Stucky con un condannato in bancarotta? Scusi, ma quindi un avvocato smette di fare l’avvocato?», dice Conte a Domani. «È sicuro la sentenza di Taddeo sia passato in giudicato? Quell’impianto accusatorio era davvero molto discutibile». Abbiamo contattato gli uffici del commissario della Cit, che ci hanno spedito la sentenza definitiva della condanna penale di Taddeo, passata in giudicato nel 2017. Gli anni di carcere comminati dai giudici della Cassazione sono scesi – dopo l’appello – a sette, ma i reati sono gravi: bancarotta fraudolenta aggravata e associazione a delinquere. Anche Milena Gabanelli ed esponenti del M5s come Elio Lannutti, nel 2012, avevano denunciato le azioni di Taddeo in inchieste tv e interrogazioni parlamentari. Conte risulta essere infatti stato avvocato di Taddeo ancora nel 2018: un breve articolo di Repubblica di luglio di quell’anno informava che l’avvocato foggiano aveva perso una causa nella quale assisteva Taddeo in persona che pretendeva «un risarcimento di 9 milioni di euro» per presunti danni provocati a lui e alla Cit. Una causa che l’ex premier e il suo cliente ormai pregiudicato hanno perso: «Il tribunale civile di Venezia – scriveva Repubblica – ha condannato Taddeo a rifondere le spese legali alle altre parti: 360mila euro».

Giuliano Foschini per repubblica.it il 29 aprile 2021. "Non sono un tipo abituato a esagerare o a sbilanciarmi. Ma davvero in questo caso mi sento in dovere di farlo: con Giuseppe Conte l'Italia non è in mani sicure. Ma si- cu- ris- si- me!". Scandisce così le parole, alzando anche la voce, Leonardo " Dino" Marseglia, il re pugliese dell'olio (e poi delle biomasse, e poi del turismo, e poi ancora fino ad arrivare a 700 milioni di fatturato all'anno), uno dei pochi a poter parlare del nuovo premier incaricato con cognizione di causa. Conte è infatti ( o meglio è stato, visto che il suo incarico è scaduto a dicembre del 2017, anche se non è ancora stato sostituito) nel consiglio di amministrazione di una delle società della holding Marseglia, la Ghms. "E' una società che abbiamo creato per comprare l'hotel di Venezia, Hilton Molino Stucky. Era un'operazione delicatissima, come avversari avevamo i più importanti fondi immobiliari del mondo. Era impossibile. E invece ce l'abbiamo fatta. Soprattutto grazie a Conte". Marseglia è imprenditore alla vecchia maniera. Detesta la comunicazione (non ha un ufficio, per dire), negli archivi si trovano disavventure giudiziarie (finite poi in assoluzioni) e poco altro, se non attacchi proprio dei 5 Stelle su alcuni progetti della sua holding. "In quel consiglio di amministrazione mi serviva una figura di garanzia, una persona riconosciuta da tutti come valida. E il professor Conte mi ha fatto questa cortesia: ma era una nomina pro forma, non è mai venuto nemmeno a una riunione. Dopodiché io vi posso assicurare che l'Italia è in mani sicure".

Come vi siete conosciuti?

"A Rosa Marina, perché lui viene lì a fare la villeggiatura estiva. Alcune persone che conosco mi avevano detto che c'era questo grande avvocato e così ho voluto conoscerlo. Mi ha fatto subito una grandissima impressione: è una persona seria".

Sembra innamorato.

"Sono sincero. Questo paese ha bisogno di una persona come lui".

Di cosa esattamente?

"Noi siamo soffocati dalla burocrazia, dalle regole anche quando non servono. I soldi ci sono, in Italia siamo pieni di soldi, soltanto che è difficile spenderli. Io sono sicuro che la prima cosa che il professore farà una volta al Governo è uccidere la burocrazia, quello è il suo lavoro, ne abbiamo parlato più volte. All'Italia serve qualcuno che faccia funzionare le cose: sa qual è il modo per vedere se le cose vanno bene?".

Quale?

"Il prezzo delle case. Se il mercato è immobiliare, i soldi stanno. Altrimenti è uno scatafascio. A Monopoli dove in questi anni hanno governato bene, i prezzi sono alle stelle. Dobbiamo augurarci prezzi immobiliari altissimi in tutta Italia".

Ha sentito il professore in queste ore?

"Ha già un sacco di problemi...Non mi sembrava il caso. Ma nei prossimi giorni gli manderò anche un messaggino".

Laura Cesaretti per "il Giornale" il 29 aprile 2021. Tutta colpa dell'Ingegnere: Giuseppe Conte, come è comprensibile, ha preso malissimo lo sberlone arrivato ieri mattina dal quotidiano Il Domani, che raccontava i suoi «affari segreti» con pezzi da novanta dell'establishment imprenditoriale italiano (quelli che i grillini usavano chiamare «prenditori» e su cui scagliavano anatemi terribili), le laute consulenze, i rischi di conflitto di interessi. L'ex premier ha letto e riletto la lunga inchiesta del quotidiano fondato da Carlo De Benedetti, ha pensato e ripensato e poi ha vergato un lungo post sul suo medium preferito, Facebook, per replicare. La prosa contiana, come al solito ampollosa e azzeccagarbugliesca, si dilunga nello spiegare come l'articolo sia «diffamatorio» e i suoi non siano «affari» ma normale «attività professionale da avvocato civilista». Poi arriva la zampata velenosa: «Gli affari li concludono gli imprenditori» come l'editore di Domani De Benedetti: «Da presidente del Consiglio non mi sono mai concesso il piacere di incontrarlo privatamente, pur sollecitato varie volte a farlo. Ma come lei sa mi sono dovuto dedicare a tempo pieno ai bisogni del popolo, di qui la rinuncia di cui l'ingegnere mi sta ripagando amabilmente». Ecco: non è chiaro di quali «bisogni del popolo» (si spera non fisiologici) l'ex premier fosse intento ad occuparsi, ma di certo l'articolo che lo colpisce nasce, a dire di Conte, da una vendetta di De Benedetti, che - come una maliarda respinta dall' integerrimo gentiluomo che tentava di sedurre - reagisce a suon di colpi bassi. Attaccato per non aver ceduto alle avance dei poteri forti: così Conte - che pure, alla testa di due diversi governi in tre anni, qualche contatto anche ravvicinato coi poteri forti lo ha avuto - tenta di uscire dall' imbarazzo. Un imbarazzo politico e d' immagine, che non ci voleva in un momento particolarmente delicato per chi sta tentando di assumere la guida di un partito in sfacelo, ed è immerso fino al collo nel pasticcio senza uscita delle faide grilline e delle demenziali regole interne. Perché se è probabile che non ci sia niente di illecito nelle prestazioni passate dell'avvocato Conte, come nota lo stesso Domani, resta il fatto che «i comportamenti e le relazioni non sembrano somigliare molto a quelli dell'homo novus senza macchia descritto dalla propaganda M5s». Quel Conte che venne descritto al popolo grillino come «una perla rara», uno «tosto che si è fatto tutto da sé» da Di Maio, quando ne annunciò l'arruolamento come ministro, e poi l'upgrade a premier. Del resto Di Maio fu il primo ad accorgersi, masticando amaro, che il modesto avvocato pugliese dal curriculum ritoccato era in realtà molto più introdotto di lui nei vasti sottoboschi del potere romano, e capace di galleggiarci agevolmente da solo, proprio grazie alle reti pazientemente tessute negli anni. Quel che più faceva impressione, ieri, era il silenzio di gran parte dei vertici grillini (Di Maio in testa) davanti all' imbarazzante tegola caduta sull' aspirante leader M5s. Solo nel tardo pomeriggio (e, raccontano, dopo un certo ansioso pressing del solito Rocco Casalino e dintorni) qualcuno ha iniziato a spendere due parole a difesa di Conte, denunciando il tentativo di «delegittimazione ad orologeria» (Crimi), perché «è chiaro che Conte leader di un M5s rinnovato incute timore» (Baldino). «Hanno paura che la sua missione riesca» (Gubitosa). «Dà fastidio a molti, quindi lo infangano» (Taverna). La tesi difensiva di Conte è trasmessa tramite Crimi: gli «editori impuri» lo attaccano perché M5s ha presentato proposte contro il conflitto d' interessi. Sarà.

Dagospia il 28 aprile 2021.  Conte attacca il sottoscritto e il nostro editore. Senza smentire una virgola dell'inchiesta sulle sue consulenze e i suoi contratti da centinaia di migliaia di euro. Ottenuti anche grazie all'Acqua Marcia, a Centofanti e a Marseglia. Emiliano Fittipaldi

Dagospia il 28 aprile 2021.  Dal profilo Facebook di Giuseppe Conte. Gentile dott. Fittipaldi, ho letto questa mattina l’articolo che mi ha dedicato sul quotidiano “Domani” dal titolo “Gli affari segreti di Conte”. Questo titolo e vari passaggi interni dell’articolo sono palesemente diffamatori. Già dal titolo, a ben guardare, Lei tradisce una concezione davvero “singolare” della professione di avvocato. Un avvocato civilista, che è la professione che ho svolto prima di diventare Presidente del Consiglio, non fa affari, tantomeno segreti. Un avvocato civilista svolge attività professionale: difende i clienti nei processi e fornisce consulenze e pareri legali, rispettando - è un preciso e rigoroso dovere imposto dal codice deontologico forense - la riservatezza dei propri assistiti. Gli “affari” - ostentati o segreti non spetta me dirlo - li concludono gli imprenditori, come ad esempio il Suo datore di lavoro, ing. De Benedetti. Quanto a quest’ultimo, da Presidente del Consiglio non mi sono mai concesso il piacere di incontrarlo privatamente, pur sollecitato varie volte a farlo. Ma come Lei sa mi sono dovuto dedicare a tempo pieno ai bisogni del popolo, della gente comune, di quei cittadini - per intenderci - che non hanno santi protettori sulla terra e che, ancor più con la sopravvenuta pandemia, si sono ritrovati a vivere in condizioni di forte sofferenza. Di questa rinuncia, peraltro, l’ing. De Benedetti mi sta ripagando amabilmente, ragionando di me - in tutte le occasioni pubbliche che gli sono offerte - con pertinace livore. Nel Suo articolo scrive, tra le altre cose: “Gli affari segreti di Conte sono quelli di un avvocato d’affari di successo, probabilmente leciti, ma i comportamenti e le relazioni non sembrano somigliare molto a quelli dell’homo novus senza macchia descritto dalla propaganda del Movimento 5 Stelle. Questo senza considerare le dichiarazioni di Amara che, fossero confermati i fatti raccontati, porterebbe la vicenda su un piano diverso e piu scivoloso”. Caro Fittipaldi, questa mia attività professionale non è stata “probabilmente lecita”, come finge di concedermi. È stata pienamente lecita. Corretta e trasparente. Già ieri, nel corso di una conversazione telefonica, le ho chiarito che non ho mai avuto rapporti personali né professionali con l’avv. Piero Amara, della cui esistenza ho appreso leggendo le cronache dei giornali. Escluderei inoltre che il mio nome come professionista possa essere stato suggerito dall’avv. Michele Vietti, per la semplice ragione che non ho mai avuto rapporti personali o professionali neppure con lui. Fermo restando che sapevo chi era in ragione dei suoi impegni politici e del suo incarico come Vice-Presidente del CSM. Quanto al contenuto degli incarichi professionali, nulla di segreto. Quando il Gruppo Acqua Marcia è entrato in tensione finanziaria a seguito dell’arresto di Francesco Bellavista Caltagirone (neanche lui mai conosciuto o incontrato), mi è stato chiesto di redigere all’incirca 300 pareri legali per certificare lo stato di tutti i contenziosi giudiziali e di tutte le vertenze extragiudiziali che riguardavano le varie società del Gruppo.  Questi pareri legali, che hanno richiesto un impegno professionale particolarmente intenso, sono stati necessari per valutare, più puntualmente, le potenziali poste attive e passive delle società al fine di presentare un concordato preventivo che fosse rispondente alle effettive condizioni economico-finanziarie del Gruppo. I relativi compensi professionali, peraltro, a conferma della limpidezza dell’incarico, sono passati al vaglio e mi sono stati liquidati dai vari Commissari giudiziari nominati dal Tribunale fallimentare di Roma, in relazione alle varie società ammesse al concordato. Quanto al secondo incarico professionale di cui si fa cenno nell’articolo, trattasi di un incarico di consulenza legale in relazione a una complessa operazione finanziaria di cartolarizzazione che ha riguardato la società GHMS, che era proprietaria dell’hotel Molino Stucky di Venezia. Questo secondo incarico, che pure riguarda una società del Gruppo Acqua Marcia, risale ad alcuni anni dopo (al 2015, mentre i pareri legali di cui sopra risalgono al 2012/2013). Per questo secondo incarico ho avuto accesso, al pari di tutti gli altri professionisti, a tutta la completa documentazione e, quindi, a tutte le pertinenti informazioni che sono state messe a disposizione (nella c.d. data room) di tutti i soggetti (anche molti fondi stranieri) che hanno mostrato interesse per l’operazione. Cordialmente, Giuseppe Conte

Emiliano Fittipaldi per Editorialedomani.it il 28 aprile 2021. Piero Amara, l’avvocato dei misteri che ha da poco inguaiato con le sue dichiarazioni prima Luca Palamara e poi il presidente del Consiglio di stato Filippo Patroni Griffi, è un fiume in piena. “Facilitatore” con natali ad Augusta, provincia di Siracusa, ha deciso da qualche tempo di collaborare con la giustizia. E prima a Milano, poi a Roma infine a Perugia, Amara sta riempiendo centinaia di pagine di verbali (molti dei quali ancora segretati) che gli investigatori stanno esaminando. Per verificarne l’attendibilità, in primis. E per trovare riscontri ad accuse gravi che coinvolgono politici di partiti diversi, potenti assortiti e toghe d’ogni ordine e grado. Ora, in uno degli interrogatori davanti ai pm di Milano, Amara ha parlato – ha scoperto Domani – anche dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Raccontando di aver di fatto “raccomandato” il suo nome affinché l’avvocato di Volturara Appula ottenesse una consulenza dalla società Acqua Marcia, quando lo stesso, controllato al tempo da Francesco Bellavista Caltagirone, si avviava verso un concordato preventivo a causa di debiti per centinaia di milioni di euro con le banche. Una presunta segnalazione che avrebbe permesso a Conte, dice Amara, di ricevere contratti e conferimenti di incarico per circa 400mila euro, non tutti incassati. Il nome di Conte, dice il Mr Wolf siciliano, gli sarebbe stato fatto direttamente da Michele Vietti: l’ex Udc, eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura nel 2010, sarebbe stato un importante referente di Amara (così almeno racconta ancora l'avvocato) nel mondo della politica, degli affari e della magistratura. Il testimone aggiunge a verbale che Vietti sarebbe stato a conoscenza del fatto che Bellavista Caltagirone doveva far omologare dal tribunale di Roma il concordato della sua azienda, in grave crisi di liquidità a partire dal 2011. «Vietti mi chiese così di parlare con Fabrizio Centofanti», aggiunge Amara. Centofanti è l’imprenditore diventato famoso perché accusato di aver corrotto Palamara, e che nel 2012 era gran capo delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia, più consigliere con delega agli affari legali della spa. Ecco: proprio Centofanti, conclude Amara, avrebbe dovuto assumere come avvocati di Acqua Marcia non solo Conte, ma anche Guido Alpa ed Enrico Caratozzolo. Secondo Amara la nomina era condizione fondamentale «per riuscire a ottenere l’omologazione del concordato stesso». Non sappiamo se i nomi di Conte e di Alpa siano stati davvero “raccomandati” ad Amara da Vietti, né se è vero che quel concordato (che ha poi avuto l’ok del tribunale fallimentare di Roma) poteva davvero passare solo a seguito di quelle nomine caldeggiate a Centofanti da Amara. Sarà la magistratura perugina ad accertare la realtà dei fatti e la presenza di eventuali calunnie. Conte, sentito da Domani, smentisce categoricamente, annunciando denuncia per calunnia: «Mai visto Amara in vita mia, non ho avuto rapporti professionali nemmeno con Vietti, è surreale». Anche Vietti, sentito al telefono, smentisce le dichiarazioni del testimone: «Escludo categoricamente di aver mai raccomandato nessuno per Acqua Marcia, non ricordo nemmeno se ho mai conosciuto Amara. Non so perché mi tira in ballo, non ricordo nemmeno di avere avuto rapporti con lui». Al netto delle dichiarazioni dell’ex legale dell’Eni e delle decisioni delle procure in merito alla sua attendibilità, però, Domani ha condotto un’indagine autonoma. Scoprendo – attraverso documenti aziendali, visure camerali e testimonianze incrociate – non solo che Centofanti ha confermato ai pm di Perugia che Amara gli ha chiesto di assumere Conte, ma che l’ex premier ha in effetti ottenuto consulenze dalla spa di Bellavista Caltagirone per centinaia di migliaia di euro. Affari (probabilmente del tutto leciti) di cui però finora nessuno sapeva nulla.  Centofanti ha aggiunto che, se è vero che Amara gli ha fatto il nome di Conte per una consulenza, lo stesso nome dell’ex premier era già sul suo tavolo, perché proposto dagli altri avvocati da lui precedentemente contattati per lavorare alla ristrutturazione del debito e al possibile concordato preventivo di Acqua Marcia. Cioè proprio Caratozzolo e Alpa, coadiuvati da Giuseppina Ivone. Chi sono? Catarozzolo, che compare anche come liquidatore di Acqua Marcia, è stato consigliere giuridico di Vietti quando quest’ultimo era sottosegretario al ministero della Giustizia, ma è anche un brillante legale assai stimato. Alpa è tra i principali giuristi italiani («non aveva certo bisogno della mia segnalazione» aggiunge Vietti) ed è maestro e mentore di Conte. Infine Ivone, avvocata cassazionista di fama, ha avviato uno studio a Roma diviso con il collega Fabrizio Di Marzio, condirettore insieme a Conte della rivista Giustizia civile.com (Ivone è nel comitato scientifico), e autore di un manuale sulla riforma della legge fallimentare con il solito Vietti. Visti gli intrecci professionali e amicali tra i protagonisti è del tutto possibile, al netto della richiesta di Amara a Centofanti di cui lo stesso Conte forse nulla sapeva, che la proposta di scegliere l’ex premier sia stata fatta dallo stesso collegio difensivo. «Amara Mente», chiude Vietti. Può essere. È certo, però, da altri documenti trovati da Domani che il 20 giugno 2012 Centofanti spedisca una lettera formale a Conte, per il «conferimento di un incarico professionale per la consulenza e l’elaborazione di pareri a beneficio della società dell’Acqua Pia Antica Marcia spa, nell’ambito dell’iniziativa Porto di Imperia, anche nell’interesse del controllante Acqua mare srl», cioè la società che aveva lavorato alla realizzazione dell’infrastruttura tanto cara all’ex ministro Claudio Scajola. Ora dalle visure camerali risulta, a sorpresa, che nel cda della società Acquamare sedeva in quei mesi non solo Centofanti, ma anche Amara. All’«illustrissimo professore», Centofanti e Camillo Bellavista Caltagirone (il padre Francesco era stato arrestato qualche mese prima nell’inchiesta sul porto di Imperia, vicenda da cui è stato assolto, e non poteva firmare deleghe o incarichi di consulenza) chiedono una serie di pareri legali e «una ricognizione dei rapporti giuridici» della Acquamare, «rapporti che coinvolgono anche la capogruppo». Il tutto per «potere completare la predisposizione di un piano di risanamento funzionale e/o alla presentazione di un concordato preventivo o anche di un accordo di ristrutturazione dei debiti». Insomma, il compito di Conte era quello di rivedere il contenzioso della società. Solo per l’espletamento di questo incarico per Acquamare, Centofanti comunica al futuro presidente del Consiglio che «le sarà corrisposto un compenso pari a 150mila euro, oltre accessori di legge come Iva e cpa». Fonti vicine al concordato segnalano che Conte avrebbe fornito pareri anche per altre società controllate da Acqua Marcia (in tutto erano oltre venti, ognuna con un suo concordato e un commissario liquidatore) e che l’accordo finale con la società di Bellavista sarebbe stato di 400mila euro complessivi. Una cifra troppo elevata per il lavoro effettivamente svolto, ha ipotizzato Amara. Conte invece, anche se non ricorda quanto ha incassato alla fine («probabilmente molto meno») dice che le cifre sono assolutamente congrue, visto che «io ho lavorato al contenzioso per tutte le società del gruppo. Non ricordo se la lettera d’incarico era firmata da Centofanti». Di sicuro ancora il 23 maggio 2014 Conte fatturava alla spa di Caltagirone oltre 50mila euro, come «saldo dei compensi relativi all’elaborazione del parere relativo» a una fideiussione «rilasciata dalla Società Acqua Pia Antica Marcia spa in favore della controllata Acquamare». Un parere tecnico di 17 pagine consegnato a dicembre 2012 che Domani ha potuto visionare. Al di là delle supposizioni di Amara, fino a prova contraria i compensi di Conte garantiti prima da Centofanti e poi dai nuovi amministratori del gruppo (Tiziano Onesti ne è diventato il presidente) sono del tutto legittimi. C’è però un’altra vecchia vicenda che – collegata a quella delle consulenze per Acqua Marcia di cui nulla finora si sapeva – apre nuovi interrogativi. Conte e lo studio Alpa (che secondo Amara avrebbe preso da Acqua Marcia una parcella di circa un milione di euro) hanno lavorato per la spa di Bellavista Caltagirone per mesi. L’impero dell’immobiliarista, prima di sfiorare il fallimento per un debito superiore al miliardo contratto con le banche, spaziava dai palazzi ai porti, dagli aeroporti ai servizi finanziari e alla comunicazione. Fino ai grandi alberghi di lusso della Sicilia, come Villa Igiea e Des Palmes di Palermo, San Domenico a Taormina, Des Etrangers a Siracusa e i due Excelsior di Catania e Palermo. Tutti passati di mano nel corso degli anni. Un altro grande albergo controllato allora dal gruppo, vero fiore all’occhiello di Bellavista Caltagirone, era il Molino Stucky, stupenda struttura extralusso che sorge sull’isola della Giudecca, a Venezia. Un hotel gigantesco da 379 stanze possedute tramite un’altra controllata di Acqua Marcia, la Grand hotel Molino Stucky srl (Ghms srl), anche lei finita in concordato preventivo a luglio 2013, dopo l’ok del tribunale fallimentare di Roma. Per la cronaca, il giudice delegato era Claudio Tedeschi. L’idea iniziale – leggendo le carte del tribunale – era quella di liquidare l’intero patrimonio societario, in modo da pagare il debito da 280 milioni di euro vantato dalle banche creditrici. Su tutti Unicredit e Royal Bank of Scotland, che nel 2008 avevano erogato un finanziamento a Bellavista da 250 milioni di euro, mutuo necessario all’imprenditore romano per comprarsi l’hotel. Per mesi i giornali ipotizzano aste tra i maggiori fondi internazionali, anche perché, secondo una prima perizia, il valore dell’albergo era di ben 350 milioni di euro. Non solo per la bellezza e la posizione dell’edificio, ma anche in virtù di un contratto d’affitto blindato da 14,5 milioni di euro l’anno garantiti da Hilton, la multinazionale che ha da anni in gestione la struttura. Considerando una redditività del 5 per cento del bene affittato, il Molino varrebbe almeno 300 milioni, cifra prudenziale inserita non a caso nel piano concordatario. Nel 2015 è stata creata una nuova società quasi omonima, la Ghms Venezia spa: qualcuno ipotizza, oltre all’asta, che le banche possano decidere di rilevare le azioni e diventare proprietarie della struttura con affitto sicuro incorporato. Grandi fondi americani e di Singapore si dicono interessati. Ma a sorpresa, in breve tempo, l’albergo da sogno finisce nelle mani di un imprenditore pugliese sconosciuto alle cronache nazionali, Leonardo Marseglia. Che riesce a comprarsi, attraverso un veicolo di cartolarizzazione costruito ad hoc, i crediti deteriorati delle banche. Sborsando però non 280 milioni, ma solo 145. Di cui – risulta a Domani – 25 in equity (cioè grazie a risorse proprie) e altri 120 milioni finanziati di nuovo dagli stessi istituti di credito, che si trovano in pegno le quote della nuova società che controlla l’albergo. Per Marseglia è un capolavoro finanziario. L’imprenditore di Ostuni che ha sbaragliato la concorrenza e messo d’accordo banche e soprattutto amministratori del concordato e giudici ha fatto tutto da solo? Sappiamo che Conte ha certamente lavorato come consulente al concordato per l’Acqua Marcia, che controllava l’albergo veneziano, fatturando centinaia di migliaia di euro. Eppure Marseglia – appena presa la società dal concordato – piazza proprio il giurista pugliese nel nuovo cda della Ghsm Venezia. È il novembre del 2015, e Conte resterà socio d’affari di Marseglia fino a dicembre 2017. «È solo un incarico onorifico», dice en passant Marseglia nel maggio del 2018. Ma nella stessa intervista a Repubblica, che lo chiama per chiedergli l’origine della loro amicizia, si lascia sfuggire che sarebbe stato il neopremier in persona ad aiutarlo (non dice in che veste) nell’affare del secolo. «Il Molino Stucky era una operazione delicatissima» dice a Giuliano Foschini. «Come avversari avevamo i più importanti fondi immobiliari del mondo. Era impossibile. E invece ce l’abbiamo fatta, soprattutto grazie a Conte». Conte, si scopre ora, aveva un incarico a pagamento con Marseglia. Qualcuno ora potrebbe gridare al conflitto d’interessi potenziale, dal momento che Conte ha lavorato prima come consulente di Acqua Marcia (di cui conosceva i documenti del concordato) poi con Marseglia, che di quel concordato ha beneficiato. «Lei adombra una mia condotta professionale impropria» dice Conte «Le chiarisco che il mio incarico per Acqua Marcia e quello successivo per HGMS non sono ai entrati in conflitto. Trattasi di epoche diverse: la prima risale al 2012-13, mentre l’incarico per Marseglia risale a due anni dopo. E comunque il contenuto dell’incarico non era tale da creare potenziali conflitti, perché la documentazione posta in data room per consentire a tutti gli interessati di visionare e valutare gli assets era completa e identica per tutti e semmai dopo qualche anno ancora più ricca». Gli affari segreti di Conte sono quelli di un avvocato d’affari di successo, probabilmente leciti, ma i comportamenti e le relazioni non sembrano somigliare molto a quelli dell’homo novus senza macchia descritto dalla propaganda del Movimento 5 Stelle. Questo senza considerare le dichiarazioni di Amara che, fossero confermati i fatti raccontati, porterebbe la vicenda su un piano diverso e più scivoloso. I magistrati milanesi che hanno raccolto le parole di Amara tra fine 2019 e inizio 2020 si muovono con cautela. Tanto che nessun fascicolo di reato è stato finora aperto sulla vicenda Acqua Marcia. La storia è arrivata di recente anche sulla scrivania di Raffaele Cantone, neo procuratore capo della procura di Perugia, perché (indirettamente e senza fare nomi) Amara ipotizza il coinvolgimento nella vicenda dei giudici della fallimentare romani, di cui sono competenti gli uffici giudiziari della città umbra. Non solo, i nemici di Amara considerano l’avvocato un depistatore professionista (è indagato a Milano per aver creato un falso dossier per sviare le indagini su Eni) un potenziale calunniatore mosso da interessi oscuri che – per salvare sé stesso – avrebbe inventato circostanze false, al solo fine di sembrare un testimone utile all’accusa. D’altro canto sono molti i pm che negli ultimi anni stanno prendendo molto sul serio le dichiarazioni auto-vetero accusatorie di Amara e del suo collaboratore più stretto, Giuseppe Calafiore. È vero che la procura di Brescia ha archiviato il fascicolo sul giudice Marco Tremolada, tirato in ballo da Amara in merito a un ipotetico accesso privilegiato che i difensori di Eni avrebbero avuto con lui, cioè il presidente del collegio del processo Eni che ha da poco assolto tutti gli imputati. In quel caso, però, lo stesso Amara aveva riferito parole de relato, senza fare accuse specifiche, tanto che non risulta essere stato poi indagato per calunnia.  Quando Amara si autoaccusa di reati e descrive circostanze di cui è stato testimone, però, più di un magistrato sembra dargli credito: una recente sentenza della Corte d’appello sul giudice corrotto Nicola Russo definisce Amara «pienamente credibile», per «completezza, precisione, coerenza interna, ragionevolezza delle accuse», evidenziando anche la mancanza di volontà di «vendetta, o inimicizia e rancori». Anche il fatto che Amara sia interessato a patteggiare pene più miti accusando e autoaccusandosi, secondo i giudici romani «non intacca affatto la credibilità delle accuse fornite» sul caso Russo. Un’altra sentenza del gup di Roma, dopo che le dichiarazioni di Amara e Calafiore hanno portato sul banco degli imputati alcuni magistrati amministrativi accusati di corruzione in atti giudiziari (Riccardo Virgilio e Raffaele De Lipsis hanno poi patteggiato, ma i verbali di Amara hanno creato problemi anche a Luigi Pietro Caruso), evidenzia l’attendibilità dei due testimoni: «Entrambi gli imputati meritano il riconoscimento della circostanza attenuante in dipendenza dell’indiscutibile, efficace contributo fornito nel corso delle indagini per un proficuo inquadramento della vicenda investigata e per l’individuazione degli altri soggetti coinvolti negli accordi corruttivi». Toni e parole simili dalla procura di Catania che nell’agosto scorso ha scritto come «Amara e Calafiore hanno reso dichiarazioni eteroaccusatorie davanti agli uffici giudiziari di Roma, Messina e Palermo tutte riscontrate. Al momento devono quindi ritenersi soggetti che stanno collaborando con la giustizia». Vedremo se le nuove dichiarazioni su Acqua Marcia saranno considerate altrettanto attendibili, oppure no. L’ultima “vittima” di Amara, il presidente del Consiglio di stato Filippo Patroni Griffi indagato con il lobbista per induzione indebita per la presunta raccomandazione di una sua amica, ha negato con forza ogni addebito, e ha fatto esposto in procura a Roma per calunnia contro l’ex avvocato dell’Eni. Sia davvero un pentito genuino o un geniale mestatore capace di ingannare (e far perdere anni) alle più importanti procure italiane, un fatto è certo: di Amara sentiremo parlare ancora a lungo.

Tra magistratura e politica nessuno è innocente. Massimo Cacciari su L’Espresso il 22 aprile 2021. Il Parlamento spaventato non ha pensato una riforma coerente, ma i giudici, nel vuoto, si sono dati un compito eccessivo. E rimediare adesso sarà comunque traumatico. È estremamente difficile svolgere un discorso obbiettivo sulla crisi dell’amministrazione della giustizia oggi in Italia. Il campo è stato invaso ormai da un trentennio da contenuti e fini della lotta politica. Discernere quanto di questa crisi sia imputabile alle modalità assunte da questa lotta, quanto da ragioni etiche e culturali interne alla magistratura, analizzare gli intrecci inevitabili tra i due piani, significherebbe ricostruire la genesi del mutamento di stato che il nostro sistema istituzionale sta attraversando senza che nessuno ne abbia chiara coscienza e cerchi di governarlo. Certo soltanto è che pensare che un tale mutamento possa avvenire senza produrre traumi all’interno di quelle funzioni essenziali della macchina dello Stato rappresentate dalla Magistratura, equivale a cullarsi in ipocrite illusioni. E non mi riferisco agli inevitabili effetti di “contagio” che il fenomeno della cosiddetta “corruzione” produce, ma all’esplodere di contraddizioni e lacerazioni ben più profonde, proprio di ordine culturale, che dovrebbero essere dichiarate e affrontate con chiarezza. Si dice che la Magistratura si è trovata quasi costretta, dal tracollo della prima Repubblica, e poi via via per il perdurare di una fisiologica impotenza del ceto politico nel decidere sui grandi problemi di riforma del Paese, a svolgere una “funzione di supplenza”. Supplire vuol dire riempire un vuoto. Ma non ogni vuoto può essere riempito da qualsiasi sostanza. Perseguire crimini accaduti nello spazio politico potrà avere conseguenza politiche, non sarà mai fare politica, anche quando magari ne ha l’intenzione. È avvenuto qui un cortocircuito nell’opinione pubblica, che ha condizionato in qualche modo la stessa azione della Magistratura, o di alcuni suoi settori? Può darsi, ma è questione ininfluente. Il problema di fondo, in una prospettiva storica, non ridotta alla cronaca dei quotidiani contrasti tra politica e magistratura, riguarda l’azione della prima sul tema della giustizia, da un lato, e la cultura predominante che la seconda ha espresso nel suo operare concreto, dall’altro. Sono i due piani, per vizi intrinseci a ciascuno, a essere finiti in questo trentennio in rotta di collisione. Il legislatore ha manifestato la propria crescente impotenza a decidere attraverso un’inflazione di ordinamenti e norme occasionali, in contraddizione o competizione tra loro. Ciò è avvenuto pressoché su tutte le materie, costringendo a ricorrere a continui adattamenti, a riscritture ininterrotte, e senza mai giungere a leggi chiare su alcune delle più delicate e di frontiera. Basti pensare a fine vita, eutanasia, diritto di cittadinanza. Appartiene a questi problemi in attesa di assumere una regolazione giuridica razionale anche quello della funzione del partito politico, del suo finanziamento, dei costi della rappresentanza democratica. Eppure questo problema ha rappresentato la Sarajevo della prima Repubblica, e logica avrebbe voluto venisse affrontato per primo: non mai! La sfida di Craxi sarà stata dettata da superbia finché si vuole, ma era del tutto ragionevole: onorevoli colleghi, siete in grado, voi e i vostri partiti e correnti di funzionare secondo l’attuale legge? Lo escludiamo tutti,vero? - e allora, domanda successiva, vogliamo insieme immaginare una riforma complessiva e radicale del sistema per la quale si possa funzionare secondo una nuova? Rispondere di sì - cosa che nessuno fece - avrebbe significato mettere anzitutto mano alla stessa Costituzione per definire in quella sede il profilo del partito politico e del sindacato alla luce del “mondo nuovo” dopo l’89. Gli interventi legislativi si limitarono da allora, invece, agli aspetti economici, mostrando pari incultura e demagogica improvvisazione di quella esibita per i “tagli” di vitalizi e deputati. In parallelo a una azione legislativa sempre più confusa e di “emergenza” è inevitabile che il lavoro connesso alla sua “interpretazione” debordi dal suo compito di “esplicazione” della norma, per tendere a diventare anche espressione anche di quei “valori” che il giudice ritenga sovra-determinati rispetto ad essa. Più la legge fatica a definire fattispecie chiare sotto cui sussumere i casi particolari, più la norma va de-formandosi, più il magistrato si sentirà quasi chiamato a “protestarla”, a esigerne di nuove, e dunque a intervenire di fatto nel campo politico, secondo fini politici. L’esperienza giuridica può essere considerata astratta dal mondo della vita e dei suoi conflitti soltanto nei testi di accademia, tuttavia è essenziale, per il funzionamento dell’intero sistema, che dal politeismo dei valori proprio della democrazia (almeno di quella in cui siamo cresciuti) il magistrato si tenga ben distinto nella sua funzione, per quanto arduo il compito appaia. A lui spetta, sì, l’ultima parola, ma solo in sede processuale, e questa parola non detiene altra “verità” che la propria nuda realtà: a un certo punto, cioè, occorre metter fine al processo. Una verità puramente fattuale, che va costruita con rigore logico, dedotta sulla base di norme chiaramente esplicabili. Un’azione che nulla ha a che fare con ammonimenti morali, prediche, imperativi categorici. Insomma, il processo - che già in sé costituisce parte della pena (e mai questo è vero quanto oggi) - non è scuola dell’honeste vivere. L’uguaglianza di fronte alla legge, l’isonomia che è fondamento dello Stato, esige norme dotate di forma, riconducibili a principi chiari, e per questo tali da permettere un’esplicazione il più possibile conforme ed uniforme. La magistratura di fronte ad esse dovrà contenersi nel proprio limite imperativo. Professione o vocazione di immensa difficoltà, la sua, poiché comporta una continua rinuncia all’espressione dei propri “valori”, se si esclude quello, altrettanto generale che universale, affermante che nessuna comunità potrebbe reggersi se a ognuno non venisse dato “ciò che gli spetta” per i suoi atti, fino a un giudizio ultimo, inappellabile. Tremenda responsabilità, di cui la cultura del giudice dovrebbe manifestarsi ben cosciente. Senza azione legislativa strategicamente orientata e senza la coscienza di questa responsabilità da parte della magistratura, continueremo ad avere leggi sconclusionate applicate variamente a seconda della diversità di luoghi, tempi e magistrati; alle leggi ad hoc continueranno a seguire processi ad personam di analoga natura in un circolo perfettamente vizioso, in cui finiranno col corrompersi ancora più alla radice il nostro sistema istituzionale e la nostra azione politica.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 27 marzo 2021. Per capire in che mani sia la giustizia in questo Paese vale la pena di riportare tre recenti casi di cronaca che coinvolgono alcune delle star della magistratura.

Il primo riguarda Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, famoso per le sue retate antimafia dagli incerti esiti processuali, che, nei giorni scorsi come ha raccontato ieri Il Foglio , ha scritto la prefazione a un libro sul Covid di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni. E fin qui nulla di male, se non fosse che i due autori il primo medico (?), il secondo magistrato presidente di commissione tributaria sostengono apertamente tesi complottiste e negazioniste. I vaccini è la sintesi del libro sponsorizzato da Gratteri sul cui equilibrio in questo caso qualche dubbio l' avrei sono «acqua di fogna e trasformeranno gli uomini in Ogm».

Il secondo magistrato vip è Raffaele Cantone, procuratore di Perugia con giurisdizione sui reati commessi dai colleghi romani. Interrogato dal Csm sul caso Palamara, Cantone ha sostenuto che la famigerata microspia inserita nel telefonino di Palamara non era stata attivata negli incontri con il potente e intoccabile allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone perché «essendo presenti le mogli, era da escludere che i due parlassero di cose d' ufficio», tesi strampalata, giuridicamente debole e comunque cortesia usata solo nei confronti del procuratore di Roma, non ai comuni mortali che finiscono sotto inchiesta.

Il terzo caso riguarda Antonio Esposito, il giudice della discussa sentenza che nel 2013 ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per evasione fiscale. Sentenza «discussa» anche da Amedeo Franco, uno dei giudici che parteciparono alla camera di consiglio, che in un audio reso noto nel giugno 2020 ha parlato di «forti pressioni per condannare Berlusconi» e della corte come di «un plotone di esecuzione».

Bene, l' attuale procuratore di Roma, Michele Prestipino (di cui racconta Palamara nel libro Il Sistema e la cui nomina è ancora oggi contestata dal Tar), si è mosso in prima persona, cosa assai rara, e a tempo record (soli sei mesi, funzionasse sempre così la giustizia) ha chiesto il rinvio a giudizio per quindici tra giornalisti (me compreso, e poi Feltri e Porro), deputati e senatori (tra cui la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e il sottosegretario Giorgio Mulè) che hanno osato commentare le inquietanti rivelazioni di Franco sulla trasparenza di quella sentenza.

Che cosa lega il filo-negazionismo di Gratteri al buonismo di Cantone e all' attivismo di Prestipino? Il senso di giustizia? Io una risposta l' avrei, ma con l' aria che tira la tengo per me. Meglio Pasqua a piede libero.

Paolo Vites per ilsussidiario.net il 29 marzo 2021. Luca Palamara, l’ex magistrato espulso dalla magistratura, autore con Allessandro Sallusti del libro Il sistema, divenuto un caso politico, è stato convocato dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. E l’udienza è stata secretata. “Parlo di fatti e vicende documentati e documentabili, altrimenti non li avrei affrontati. So quello che ho fatto e che il mio impegno dev’essere chiarire come sono andate effettivamente le cose”, ha detto dopo l’audizione. Secondo Frank Cimini, già corrispondente de Il Mattino di Napoli, veterano della giudiziaria e fondatore del blog giustiziami, “Palamara continua a sostenere che tutto quello che ha fatto non lo ha fatto da solo, ma perché gli veniva chiesto, quindi continua a chiamare in causa la magistratura”. Parlare di riforma, ci ha detto ancora, “non ha senso, perché quale riforma si può fare contro lo strapotere della magistratura e con una politica sempre più debole divisa sul tema?”.

Luca Palamara torna alla ribalta. Questa convocazione da parte del Csm che significato ha? Cosa ne è uscito fuori?

Palamara, scagionando se stesso e cercando di alleggerire le proprie responsabilità che comunque non nega, dice che le cose andavano così da un sacco di tempo e continuano ad andare in modo storto anche adesso che lui non c’è più.

Ha fatto degli esempi?

Ha parlato in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano. In sostanza fino adesso il suo caso è stato solo la punta dell’iceberg. Per questo ha lanciato un messaggio su quelli che possono essere degli sviluppi immediati. C’è il caso Roma, dove si andrà davanti al Consiglio di Stato dopo che il Tar ha censurato la nomina a procuratore capo di Michele Prestipino, il quale non ha intenzione di lasciare e vuole fare ricorso. Ma si oppone l’attuale procuratore di Firenze Marcello Viola, che si è costituito innanzi al Consiglio di Stato per chiedere il rigetto dell’istanza di Prestipino. La stessa cosa succede a Milano, dove il procuratore Greco aveva chiesto aiuto perché venissero nominati  procuratori aggiunti i suoi candidati. Dopo il caso Bruti-Robledo adesso il Csm si guarda bene dal promuovere a procuratori aggiunti dei magistrati che non rientrano nelle grazie della procura proprio perché vuole evitare che si ripetano casi analoghi a quello di Bruti-Robledo.

Di queste cose avrebbe dunque parlato Palamara?

La sua audizione è stata secretata proprio perché lui ha fatto dei nomi, ha parlato di situazioni specifiche ribadendo la sua linea: voi mi avete cacciato ma io non potevo fare da solo quello che ho fatto. Ho fatto cose perché mi è stato chiesto aiuto per farle; facevo parte di un sistema, non ero da solo.

È un sistema che continua a chiudersi a riccio.

E’ un sistema su cui si dovrebbe agire, ma chi ha la responsabilità di farlo preferisce fare due pagine di intervista su Dante Alighieri (il presidente della Repubblica, ndr) e si limita a dire che bisogna fare riforme. Non è un problema solo di fare riforme, ma di cambiare mentalità e cultura. Non si capisce poi quello che queste riforme dovrebbero essere. Non c’è riforma che possa abolire lo strapotere della magistratura.

Pensa che il nuovo ministro della Giustizia possa intervenire in questo caos?

Il nuovo ministro è partito in linea con quello che aveva fatto alla Corte costituzionale e cioè dare grande attenzione al carcere, al  superamento del concetto di carcere come unica soluzione al problema penale. Un ministro da solo può avere tutte le buone intenzioni del mondo, ma può fare molto poco. Spetta al parlamento e alla politica, che però continuano a essere assenti da tutto questo.

Una politica che non sa affrontare il problema giustizia?

Volendo allargare il discorso alla vicenda dei vaccini, vediamo anche lì che la politica è sempre più debole in tutta Europa, subisce i poteri delle multinazionali, che vendono i vaccini a chi li paga di più, non per salvare vite umane.

Il governo Draghi invece?

È un governo dove ci sono insieme visioni della giustizia che hanno interessi diversi. Non è che di idee ne abbiano poi molte, ma hanno interessi contrapposti, con un Salvini che apre bocca solo contro i magistrati quando ce l’hanno con la Lega.

Intanto Davigo ha dovuto accettare il pensionamento con il voto di maggioranza del Csm. È la fine di un periodo storico?

Si è rassegnato, non può avere rivincite formali. Adesso va in tv, scrive editoriali sul Fatto Quotidiano. Ma continua a non spiegare perché in merito alla procura di Roma ha cambiato più volte il suo candidato. Anche lui partecipava ai giochi secondo la convenienza del momento. Adesso è stato scaricato dal Csm, è un pensionato che dice la sua, ma di potere non ne ha più.

"Dopo l'era Palamara al Csm è cambiato solo chi comanda il Sistema". Il presidente della giustizia tributaria: "L'unica differenza sono i rapporti di forza tra correnti". Massimo Malpica - Mar, 30/03/2021 - su Il Giornale. È alla guida del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, e per quattro anni ha presieduto la disciplinare del Csm, quando il «sistema» di Luca Palamara era in piena azione. Ma per Antonio Leone, vicepresidente della Camera tra 2008 e 2013, la radiazione di Palamara non ha cambiato nulla. «L'unico cambiamento sospira è nei rapporti di forza fra correnti nel Csm. Grazie alle dimissioni spintanee dei togati presenti con lui all'hotel Champagne, i gruppi che persero le elezioni nel 2018 hanno ora la maggioranza. La corrente di Davigo, ad esempio, ha raddoppiato i propri componenti nel Plenum».

In che modo si potrebbe ridurre il potere delle correnti al Csm?

«Con un diverso approccio - culturale e non ideologico - degli stessi magistrati nei confronti della necessità di esistenza delle correnti. Poi va cambiata la modalità di elezione, tipo un sorteggio temperato, dei componenti. Il sistema proposto da Bonafede, in discussione alla Camera, darà ancora più potere alle correnti e rischia di dar vita ad un Csm monocolore».

Oltre al Csm quali sono le riforme più urgenti per il sistema giustizia?

«Separazione delle carriere e obbligatorietà dell'azione penale. Quest'ultima, di fatto, è già una finzione. Possibile che, dopo quello che ha scritto Palamara nel suo libro, nessuna Procura abbia deciso di aprire un'indagine?»

Recentemente due magistrati sono stati «processati» dal Csm ma di fatto «premiati»: uno col trasferimento per incompatibilità a una sede più prestigiosa, l'altro col superamento della valutazione di professionalità. Cosa pensa?

«Le sanzioni in dotazione al Csm sono estremamente inefficaci e aggirabili. Nel caso di Marco Mescolini, trasferito da Reggio Emilia a Firenze, ritengo che la prima Commissione non abbia ben valutato l'esistenza di un'incompatibilità ambientale legata alla percezione di indagini a senso unico, comminando una pena inutile e inefficace: accusato da inquirente in una città rossa di avere a cuore le sorti del Pd, è stato giustamente mandato a fare l'inquirente in un'altra città rossa. Se si ritiene che un magistrato per qualsiasi motivo non sappia fare bene il pm, lo si manda a fare il giudicante, se non sa fare neanche il giudicante lo si manda a casa. L'ambiente c'entra poco o niente, esiste già l'istituto dell'incompatibilità funzionale che però il Csm non applica mai. Quanto al giudice Cesare Cipolletta che quando, come dice il Csm, non faceva il buon giudice, tagliava le gomme all'auto della collega, voglio rilevare e l'ho fatto quand'ero al Csm l'inefficacia delle sanzioni disciplinari che non incidono sulla progressione in carriera del magistrato condannato. La valutazione di professionalità trasforma una sentenza di colpevolezza in una di assoluzione. È il vero trionfo dell'indipendenza della magistratura, dal buon senso e, a volte, dalla giustizia stessa».

A proposito delle valutazioni di professionalità, non pensa che le percentuali con cui vengono superate dai magistrati - non così lontane dal 100% - siano poco attinenti alla reale produttività della categoria? E come spiega quelle percentuali?

«Che nelle valutazioni ci fossero anomalie lo disse anche l'allora presidente della Cassazione Giovanni Canzio, evidenziando deficit in materia di circolari del Csm. Le valutazioni vengono fatte nei Consigli giudiziari dal vicino di stanza o di piano. Sono valutazioni casalinghe e tali si vuole che rimangano, vedi l'esclusione degli avvocati dalle procedure, legate, in buona parte, a logiche di appartenenza correntizia. Palamara dovrebbe scrivere un libro sul sistema delle valutazioni».

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 25 marzo 2021. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha scritto un libro-intervista con Luca Palamara, il magistrato più famoso d' Italia per aver vuotato il sacco delle schifezze prodotte dall' Ordine giudiziario in vari momenti e circostanze. Naturalmente noi poveri tapini non siamo in grado di appurare se tutto quanto è stato inserito nel volume risponda a verità. Ma così, a fiuto, siamo propensi a credere che il testo, dalla prima all' ultima parola, sia un condensato di fenomeni accaduti sul serio. Inoltre, ad avvalorare la nostra supposizione c' è il fatto acclarato che nessuno di coloro citati nel volume abbia sporto querela per diffamazione, nonostante esso sia in circolazione da un mesetto e in testa alle classifiche delle opere editoriali più vendute. Se fosse una raccolta di balle, ovvio che invece sarebbe al centro di mille cause. Niente. Le vicende narrate da Sallusti non sono state contestate da alcuno. La corporazione dei giudici non ha aperto bocca, non si è difesa, non ha replicato. E pensare che le pagine, molte, raccontano scandali che fanno accapponare la pelle. Io lettore, diciamo pure sgamato, sono rimasto basito e sarei ansioso di leggere qualche replica difensiva da parte dei protagonisti delle porcate. A questo punto mi domando: se Palamara fosse stato un matto e Sallusti un dissennato, almeno un cane avrebbe abbaiato? Silenzio totale. Nessuno si degna di smentire o almeno di protestare. Macché, tutti zitti e con la coda tra le zampe come se la confessione di Palamara fosse un libro giallo avulso dalla realtà. Eppure sono curioso di sapere come certe denunce sono state accolte dalle toghe, molte delle quali tacciate quantomeno di complicità con i registi del sistema. Però il particolare più strano, incomprensibile, è che nemmeno Sergio Mattarella ha battuto ciglio, come se la grave questione non lo riguardasse, mentre egli, in qualità di presidente della Repubblica, è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. In altri termini è il capo delle toghe. Tuttavia non ha sentito l' esigenza di fare chiarezza mediante una indagine finalizzata a stabilire la verità. Non importa quale. Magari i giudici sono tutti santi se non proprio beati, noi non intendiamo gettare la croce su alcuno, ma avremmo il diritto di scoprire se Palamara e Sallusti sono fuori di melone oppure si sono limitati a diffondere ragionevolmente le nefandezze commesse dalla casta giudiziaria. Alla prima carica dello Stato non mancano gli strumenti per capire cosa sia successo e magari provvedere a dare una ripulita in una casa che è pure sua.

Ottavia Giustetti per repubblica.it il 22 marzo 2021. Matteo Salvini è stato assolto dal Tribunale di Torino al processo che lo vedeva imputato per vilipendio all'ordine giudiziario. Pronunciando la sentenza, il giudice Roberto Ruscello ha assolto il leader della Lega "per la particolare tenuità del fatto". I fatti risalgono al 14 febbraio 2016, quando durante un congresso regionale della Lega tenutosi al palazzetto dello sport di Collegno, nel Torinese, al quale parteciparono circa un migliaio di persone, l'allora segretario federale della Lega Nord Salvini, fra le altre cose, disse: "Difenderò qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare". "Sono contento, ringrazio giudice e avvocato - è il commento a caldo del leader della Lega - La giustizia italiana va profondamente riformata, il "sistema Palamara" va smontato per il bene dei cittadini e dei tanti magistrati davvero liberi e indipendenti". "Sono molto soddisfatta, questa è una sentenza che ripristina lo stato di diritto". Così Claudia Eccher, difensore del capo leghista - Ho appena avvisato Salvini: non ci credeva, ma era ovviamente soddisfatto". Il pm Emilio Gatti aveva chiesto una multa "esemplare" da 3mila euro. Oggi pomeriggio in aula il pubblico ministero ha osservato che le frasi rivolte al pubblico del congresso da Salvini "hanno chiaramente natura oltraggiosa: una cosa è la critica, un'altra gli accostamenti volgari e ripugnanti". Gatti ha poi aggiunto che Salvini ha definito i magistrati "stronzi" e "lazzaroni che rompono le palle alla Lega", mentre la magistratura italiana "una schifezza". Il pubblico ministero, inoltre, ha fatto notare come "il pubblico accoglie gli insulti del 'capo' alla magistratura con vere e proprie ovazioni". Le parole di Salvini erano state riprese dal Tg1 in prima serata. "Questo a riprova che il discorso é da ritenersi pubblico" ha concluso il pm. Intervenuto in aula lo scorso 25 gennaio, il leader della Lega, dopo aver sottolineato "massima fiducia nella magistratura e nella sua libertà di giudizio", aveva evidenziato di non aver attaccato un giudice o un altro "ma il sistema", precisando di aver fatto le affermazioni che gli vengono contestate "perché c'era qualcuno che dall'interno politicamente utilizzava alcune inchieste della magistratura per attaccare la Lega". Argomentazioni riprese dal suo avvocato, Claudia Eccher: "Le parole pronunciate da Salvini - afferma il legale - sono prive di carica offensiva: usa quei termini perchè è quel genere di linguaggio che i leghisti si aspettano, non voleva offendere i magistrati e la magistratura. Il linguaggio della Lega e dei partiti sorti dalla cosiddetta società civile hanno cambiato il paradigma del linguaggio: quello del leader politico oggi è chiaro e diretto, utilizza frasi brevi e parole comuni, anche quelle di tono basso. Salvini non ha fatto altro che riprendere stilemi del linguaggio tipico della Lega, quello in cui i militanti si riconoscono, un lessico colorato ed espressivo, non offensivo". Il giudice ha accolto questa tesi.

 “L’associazione nazionale magistrati è un’associazione sovversiva e di stampo mafioso”. Magistratura e Cossiga: il pensiero di K., sempre attuale. Filodiritto.it il 03 Dicembre 2020. Il rapporto tra Cossiga il Csm e la magistratura è sempre stato tempestoso o almeno così è stato raccontato dai mass-media. Certo è che il Presidente aveva una vista lunga. Come non ricordare il “confronto” su Sky Tg24 nel 2008, davanti alla giornalista Maria Latella, tra un furioso K e Palamara per l’occasione apostrofato con il titolo di Palmera. Sono trascorsi dodici anni, ma le parole di Cossiga sembrano pronunciate oggi. Cossiga prese il telefono ed intervenne nella trasmissione: “Un magistrato che non capisce nulla di diritto o è molto spiritoso. La faccia da intelligente non ce l’ha assolutamente. Si chiama Palamara come il tonno, io ho fatto politica per 50 anni e vuole che non riconosco uno dalla faccia, mi diverte se mi querela. Lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l’ottimo tonno che si chiama Palmera…”. Il caso del momento erano le dimissioni di Clemente Mastella dal governo Prodi.  Cossiga aveva espresso a Mastella solidarietà con una lettera. Palamara a Sky Tg24 parlò del ruolo della magistratura e delle dimissioni del Guardasigilli, fino a che non fece capolino telefonicamente Cossiga con le sue parole decisamente provocatorie. Alle quali Palamara non replicò. In chiusura del suo intervento Cossiga fu molto critico verso l’Anm, riservandole una delle sue celebri stoccate “L’associazione nazionale magistrati è un’associazione sovversiva e di stampo mafioso”. E ancora, rivolto alla conduttrice: “Marì, fai tacere quella faccia di tonno, con uno con quella faccia non parlo”. Ed a proposito della sezione disciplinare del Csm, sul Corriere della Sera del 19.01.2008 Cossiga disse: “La politica è trattativa. Alla disciplinare del Csm non trattano? Se mi condanni quello non ti assolvo quello? Era così quando ero presidente. E credo che ora sia peggio”. Cossiga non aveva peli sulla lingua, una pagina illuminante del suo pensiero sulla magistratura la troviamo nel libro: “La passione e la politica” di Piero Testoni edito da Rizzoli nel 2000. Sono trascorsi ben vent’anni ma nulla sembra cambiato dalle considerazioni espresse da K: “Da un lato mi trovai la magistratura corporativa, che aveva nel Csm il proprio strumento di potere. Parlo di quei magistrati piccoli che si sentono migliori di tutti solo perché hanno superato il concorso…Molti tra questi in realtà sono dei complessati che avrebbero voluto fare politica e non sapendolo o non potendolo fare, cercano di fare politica attraverso l’esercizio della giurisdizione. E quindi nel Csm finiscono per giocare al parlamentino, al governino, al presidentino della repubblichetta dei giudici e così via. Poi ci sono gli altri, molto più lucidi, che concepiscono l’esercizio della giurisdizione come potere politico, la giustizia alternativa appunto, e quindi ne vogliono il controllo, come vogliono il controllo di quei magistrati che non sono impegnati. Sostenere che nella mia vita politica e durante la mia attività legislativa io mi sia battuto contro la magistratura non solo è una calunnia, ma una schicchezza. Basta guardare i disegni di legge che portano la mia firma. Non solo: nella mia attività di presidente della Repubblica, i messaggi che io ho mandato al Parlamento sulla magistratura erano tutti per l’ampliamento delle garanzie dei singoli magistrati e per l’assoluta indipendenza dei giudici. Vi è stato un grande giurista <militante>, nominato giudice costituzionale nel consistente pacchetto dei <giuristi militanti>, che mi spiegò come in realtà fossi furbo e maligno e pericoloso perché, rafforzando l’indipendenza dei giudici e quella della magistratura, io volevo indebolire il potere del Csm. Mentre quello che, per loro, era politicamente importante era appunto il potere del Consiglio, vertice politico della magistratura e della giurisdizione: un’aberrazione”.

«Penso che, nel quadro delle istituzioni, le procure siano diventate un quarto potere, accanto a legislativo, esecutivo e giudiziario». Il Dubbio il 20 giugno 2020. «Penso che, nel quadro delle istituzioni, le procure siano diventate un quarto potere, accanto a legislativo, esecutivo e giudiziario».  Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, usa parole molto severe per commentare lo scandalo che sta investendo la magistratura, nel corso dell’iniziativa “La riforma radicale della giustizia” in corso da ieri su Radio Radicale. «Come si esercita questo potere? Si esercita fondamentalmente al di fuori del processo con un procedura che gli americani chiamano “naming-shaming”, cioè segnalare il nome di una persona ed additarla al pubblico ludibrio, consumando questa specie di potere accusatorio e nello stesso tempo di decisione, mediante un rapporto diretto con l’opinione pubblica e anche grazie ai temi che l’accusa utilizza», aggiunge Cassese. Non solo, «se l’accusa fosse seguita da una decisione entro 3/4 mesi vi sarebbe un risultato, ma questo non accade. Praticamente vi sono delle persone che sono condannate mediante questo processo senza contraddittorio ed un vero e proprio giudizio», conclude il professore.

È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell'azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura "politica", incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. "Pochi i giudici a non ottenere benefici da intese tra correnti". Valentina Stella su Il Dubbio, 27 giugno 2020. Cricenti, consigliere della Cassazione: "È un fenomeno diffuso in tutta la magistratura. Palamara doveva essere sentito dall'Anm. Separare le carriere? Sarebbe una misura di garanzia". Non usa mezzi termini per censurare alcuni comportamenti della magistratura e per criticare il suo attuale assetto ordinamentale. Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema corte di Cassazione, commenta duramente il caso Csm aperto un anno fa dall'indagine di Perugia su Luca Palamara e altri colleghi.

Consigliere Cricenti si aspettava che sul ruolo delle correnti emergessero elementi così pesanti?

La realtà non è emersa nella sua vera gravità: si cerca di accreditare l'idea che si tratti di un fenomeno di malcostume di alcuni magistrati o di alcuni gruppi. Invece, è diffuso in tutta la magistratura e sono pochi quelli che possono dirsene esenti o che nel corso della loro carriera non hanno tratto beneficio da un qualche accordo di corrente. Come spesso accade in questi frangenti, allignano moralisti senza morale, che dopo avere partecipato al sistema se ne tirano fuori e additano gli altri.

Le correnti andrebbero sciolte?

Sono, in astratto, espressione della libertà di associazione, e sarebbe come limitare quest'ultima. Ma non si può negare che si tratta di associazioni dal ruolo oramai anomalo: un organo a rilevanza costituzionale come il Csm è condizionato da associazioni private e non c'è delibera che non risponda a un interesse correntizio. Alcuni di quelli che hanno beneficiato del sistema, anche oggi, ripetono che le correnti erano sorte come fucine di pensiero, luoghi attenti allo sviluppo culturale della magistratura e che solo di recente sono degenerate in sistemi di spartizione degli incarichi. Ma è una mistificazione: precisino allora quale modello culturale hanno visto nascere e coltivare a iniziativa delle correnti. E soprattutto dimostrino che gli adepti di ciascuna corrente hanno adeguato i loro comportamenti alla dottrina di quelle fucine di pensiero.

Al di là delle prerogative statutarie, Palamara andava sentito sabato nel direttivo dell'Anm?

Andava sentito, certo. È una regola a priori, diremmo, di ogni procedimento sanzionatorio che chi è accusato debba avere la possibilità di dichiarare le sue ragioni.

Il presidente dell'Anm Luca Poniz, in una intervista a questo giornale, ha detto che "la carriera ha fuorviato alcuni magistrati" ma che vanno accantonate le "ipocrisie della politica", a proposito, per esempio, della scelta dei magistrati nei ministeri...

Ai magistrati le correnti hanno offerto un certo modello di carriera, fondato sul sostegno del gruppo, piuttosto che sul merito, requisito ritenuto, se non dannoso, perlomeno inutile; hanno imposto l'idea che studiare è un'applicazione del tutto superflua, poiché basta avere amicizie in un gruppo influente. I magistrati si sono adeguati. Dunque, non è la prospettiva di carriera ad aver fuorviato i magistrati. Detto questo, la politica ha poche colpe, se si allude alla scelta dei collaboratori nei ministeri, i quali sono piuttosto indicati dalle correnti che scelti dal ministro per simpatie politiche. A ogni cambio di ministro c'è tendenzialmente un cambio di corrente. Basti verificare a quale corrente, ad esempio, appartengono i diretti collaboratori dell'attuale ministro.

Sabino Cassese ha definito le Procure un "quarto potere" indipendente dalla magistratura stessa.

È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell'azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura "politica", incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. Ed è questa un'azione che sfugge al controllo istituzionale, nella quale le Procure operano con una certa discrezionalità. C'è poi da considerare il ruolo sociale assunto dai pm negli ultimi anni, che è di maggior visibilità e di maggior contatto con l'opinione pubblica: mai visto un giudice delle locazioni diventare il beniamino di una certa quota di popolazione. Fino ad ora, né il Csm né l'Anm hanno assunto decisioni chiare sulla caratterizzazione "populista" che le Procure rischiano di avere: alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura.

Quale è il suo giudizio in merito alla separazione delle carriere?

La separazione delle carriere è in primo luogo una misura di garanzia e di adeguatezza istituzionale: di garanzia in quanto la terzietà del giudice passa anche attraverso l'appartenenza di questi a un ordine diverso da quello della parte pubblica. Spesso si denuncia l'"appiattimento" del gip/ gup sulle richieste del pubblico ministero: è in gran parte vero. Ed è un esito di certo condizionato dalla contiguità che l'appartenenza ad un medesimo ordine favorisce. È una misura di adeguatezza istituzionale, anche, nel senso che si tratta di due mestieri diversi e di due ruoli istituzionali diversi. Si obietta che separando i Pm dall'ordine giudiziario si finisca con assoggettarli al potere esecutivo. È ovviamente un'obiezione incongruente: nulla vieta di creare un ordine distinto, con distinto organo di autogoverno.

Cosa ne pensa delle allusioni sul Csm fatte trapelare da De Magistris nella trasmissione di Giletti?

Il solito argomentare per illazioni: siccome nel collegio della disciplinare c'era il tale che però è anche citato nelle intercettazioni, allora vuol dire che la decisione disciplinare è viziata. Oppure peggio: siccome il tale da me indagato, e poi però assolto, è stato arrestato per altri fatti allora anche la mia indagine era fondata. Da un punto di vista giuridico nessuno si fa suggestionare da queste illazioni, tanto è vero che le sentenze di assoluzione a favore degli indagati di quell'ex pm non saranno di certo messe in discussione, ma l'illazione non è uno strumento retorico innocuo: condiziona i sistemi simbolici di cui fruisce l'opinione pubblica e mina la fiducia nei giudicati.

Il consigliere Csm Sebastiano Ardita, commentando la scarcerazione di Carminati, ha detto che i cittadini non capiranno e occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale. Non le sembra un discorso populista?

Le procedure italiane, ormai da qualche decennio, producono decisioni formalmente corrette, ma che per l'opinione pubblica risultano assurde e ciò a prescindere da come vengono divulgate. Da un punto di vista teorico, il tema è complesso: appartiene alla tradizione liberale l'idea che la garanzia stia nella forma e non nel contenuto della regola, ma il problema è l'idea distorta che si ha proprio della forma. Da un punto di vista della politica del diritto, è vero che ci sono settori della magistratura inclini a pensare che la giustizia coincida con l'accusa e che basti quest'ultima per fare dell'accusato un colpevole. In questa strategia v'è il sostegno di buona parte dell'informazione. Sicuramente è una forma di populismo giudiziario, ossia di quel modo ritenuto più semplice perché un magistrato possa assumere le vesti di interprete delle esigenze e degli interessi del popolo: quest'ultimo vuole giustizia dei corrotti e dei mafiosi? La semplice accusa soddisfa quel bisogno.

Il gip Mastroeni: “Il risiko delle correnti è come un’associazione a delinquere”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Agosto 2020. alvatore Mastroeni è giudice per le indagini preliminari a Messina. Dopo decenni in prima linea nelle Procure di frontiera del Mezzogiorno e – veniamo a sapere – sei mancate promozioni, il giudice decide per una operazione-verità. «Noi magistrati siamo avvolti da troppa faziosità, stiamo perdendo i valori comuni essenziali. E il Risiko delle correnti ci ha trasformato in una associazione a delinquere vera e propria».

Tutta colpa delle correnti?

All’inizio ero anche io in una corrente, ma tanti anni fa mi sono dimesso e da allora sono rimasto apolide. Lo comunicai alla segreteria dell’Anm. La funzionaria non capiva. Mi chiese: va in pensione? Io risposi: no, mi dimetto dalle correnti.

Non teme ritorsioni a parlare in questi termini?

Sono già uno uno dei magistrati che non essendo in correnti, correndo per una posizione direttiva, ha ricevuto pareri inspiegabilmente negativi. Si entra in crisi. Avevo iniziato con la distribuzione casuale degli uditori, oggi Mot, magistrati ordinari in tirocinio. Vengono assegnati sapientemente. Perché quando si entra in magistratura c’è un periodo di tirocinio, si sta dietro ad un magistrato cui si viene assegnati. E c’è l’effetto-pulcino. La prima persona che vedi è la mamma. Ed è così che si entra nelle correnti: si appartiene a una corrente prima ancora di averlo capito.

Palamara dunque in questo ha ragione? Il gioco a incastri esiste da sempre?

Su questo lo difenderei, certamente. Se risultasse vero che c’era solo un Palamara con un suo potente gruppo di amici, tutti quelli che adesso si stanno stracciando le vesti, e che io chiamo Sepolcri imbiancati, lo avrebbero mangiato vivo. Se tu, Palamara di Unicost, proponi un metodo scorretto di spartizione dei posti, noi di Area, noi di Ai, noi di MI ti divoriamo. Ti mettiamo in minoranza. E invece no, il sistema Palamara è esploso così adesso solo perché il trojan lo avevano messo a lui. Ma tutto il sistema funzionava così, e alle sue cene c’erano tutte le correnti.

Quindi tutte le accuse a Palamara si possono estendere ai predecessori?

Prenda in esame gli ultimi due Consigli superiori precedenti a Palamara, faccia uno studio fatto bene, vedrà una costante assoluta: ciascun voto è stato assegnato dai consiglieri al candidato della propria corrente. E statisticamente è impossibile che il candidato della mia corrente sia sempre il migliore. Eppure si è votato così. In due consiliature non trova nessuno che non fosse iscritto alle correnti.

E come faccio a fare questa verifica se l’adesione alle correnti non è pubblica?

Appunto. Avrebbe qualche difficoltà nella ricerca, non esistono elenchi depositati. E però se nei meccanismi che regolano l’elezione dei magistrati ai più alti incarichi c’è, per consolidata prassi, il ricorso sistemico all’equilibrio correntizio, sarebbe giusto che l’appartenenza alle correnti fosse pubblica, dichiarata, scritta. Faccio un esempio: se in una cittadina il sindaco dà un incarico a un imbianchino e poi si scopre che quell’imbianchino è in una associazione letteraria con lui, noi magistrati lo attacchiamo e diciamo che ha privilegiato un interesse privato. I colleghi amici nelle correnti, invece, si possono votare tra loro. Non c’è l’obbligo di astensione. Ora molti dicono che non è dignitoso. Io vado oltre: dico che non può essere legale.

I giudici del Csm operano contro la legge?

La normativa del Csm prevede, come per i membri del Parlamento, che i consiglieri del Csm non siano punibili per i voti espressi e per le opinioni date in Consiglio. Una garanzia di immunità. E infatti oggi un po’ tutti dicono che quelli che riguardano Palamara e il Csm “sono fatti senza rilevanza penale”. Io una certa esperienza nel penale ce l’ho, e ho delle riserve serie. Perché anche se l’abuso c’è, il reato ci sarebbe, nel tuo caso non è punibile perché sussiste una norma-scudo. È il caso dei magistrati del Csm. Noi magistrati contestiamo, a quattro persone che smontano e vendono marmitte della macchina, il reato di associazione a delinquere. Palamara e tutti quelli che si riunivano, come è stato detto, “in sedi non opportune”, per decidere ad esempio chi promuovere e chi tenere al palo, commettevano un reato in associazione a delinquere. Hanno sovvertito le regole avendo il potere e i mezzi per farlo.

Si pone un problema di credibilità importante.

Enorme. Il giudice vive di credibilità, senza la quale il peso e il valore delle sue sentenze non esistono più.

Correntocrazia e intimidazioni. Al vertice della magistratura c’è una cupola. Andrea Mirenda su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. Come non riconoscere, pur nel suo singolare andamento alterno, i grandi meriti di un piccolo trojan? Questo simpatico cavallino, lasciato purtroppo solo nella stalla quando, invece, avrebbe potuto godere di ampia compagnia, ha definitivamente disvelato alla società civile ciò che – per la verità – era non solo già ampiamente noto, almeno all’interno della magistratura, ma, addirittura, già denunciato pubblicamente, da quasi 15 anni, da uno sparuto gruppo di coraggiosi magistrati non allineati al “rito scozzese” del pensiero unico giudiziario. È emerso quel mondo parallelo ed illegale creato dalle correnti, poi argomentatamente descritto dal dott. Palamara (con tanto di nomi, cognomi, date e riferimenti, nella pressoché totale indifferenza degli organi requirenti) come ”Il Sistema”. Ma forse, più che di sistema, sarebbe meglio parlare di “cupola”. Sì, perché, fatte le debite proporzioni, nel mondo correntizio si riscontrano inquietanti metodologie il cui sapore, vagamente intimidatorio, porta a pensare ad altri mondi… Parliamo, difatti, di prassi consiliari improntate a prevaricazione, ad illeciti abboccamenti, a capziose valutazioni dei candidati, a manipolazioni ideologiche dei “curricula” (con omissioni deliberate e artificiosi apprezzamenti), a pelose rinunce silenziosamente “suggerite” a questo o a quel magistrato per lasciare posto a quello o a quell’altro per il quale è maturato il turno giusto. E così via. Il tutto – come ci racconta Palamara e come si può leggere nelle chat che tutti hanno ma che nessuno vuol mostrare – secondo accorta regia e studiata pianificazione, al fine ultimo di svilire l’indipendenza del singolo magistrato. Una cupola che Palamara descrive minuziosamente sia nel suo libro (vero decalogo alla rovescia) che nelle interviste, senza che a ciò, almeno sino ad oggi, abbiano fatto seguito persuasive risposte dei magistrati coinvolti, a tutela prima di tutto della dignità della funzione. Un sistema la cui esistenza, purtroppo, viene minimizzata (quando non negata) dalla sua prima vittima: l’ Associazione nazionale magistrati. Una vittima con un nome e una storia gloriosa, ora preda di una incomprensibile Sindrome di Stoccolma che la conduce a difendere a spada sguainata quella correntocrazia che, da troppo tempo a questa parte, la tiene sotto sequestro, sprofondandola in un isolamento morale senza precedenti.

Come lavora la cupola correntizia? Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. Si realizza attraverso l’occupazione sistematica dei nodi nevralgici del circuito dell’Autogoverno (Csm, Consigli giudiziari, Scuola superiore della magistratura, Commissioni di concorso per magistrato, collocamenti fuori ruolo, etc.), al duplice scopo – conclamato anche dalle recenti cronache – di promuovere i sodali e abbattere i nemici. Prova ne sia, il recentissimo annullamento di tutte e sei le nomine togate del Consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura, deliberate nel 2019 dal Csm “del cambiamento” erminiano.

Prova ne sia, ancora, la colonizzazione della Sezione Disciplinare (la cui stessa esistenza appare di dubbia costituzionalità), divenuta un’occhiuta arma per colpire magistrati non allineati all’ortodossia dominante. Come non ricordare i procedimenti avviati contro de Magistris, Forleo, Nuzzi, Woodcock, tutti accomunati da finalità scopertamente ritorsive? Proprio per Woodcock si parlò di procedimento voluto “per dare un segnale”, secondo la squallida logica maoista del colpirne uno per educarne cento. E proprio per Clementina Forleo, rea di aver voluto indagare certi settori della politica, il giudice Salvini ritenne dovere morale denunciare ai colleghi il vergognoso accerchiamento di cui fu vittima, premessa del successivo ed ingiusto trasferimento punitivo.

Come definire questi metodi? L’attenzione va, tuttavia, concentrata sul principalissimo canale di condizionamento della vita del magistrato: il cosiddetto “nominificio”. Grazie allo sciagurato Testo Unico sulla Dirigenza voluto dall’abile Mastella e prontamente lodato dal coro correntizio che ne comprese subito le potenzialità di asservimento, dal 2006 l’Allegra Comitiva del Lauto Governo è riuscita a “piazzare” nei posti direttivi degli uffici giudiziari (in primis, le ambitissime Procure) uno stuolo di compari e comparielli apparentemente selezionati secondo un criterio (“l’attitudine direttiva”) di cui si ignora la concreta portata, tanto più in un settore – come quello giudiziario – ove al titolo di dirigente non si accompagnano poteri gerarchici, autonomia finanziaria ed ancor meno spoil system. Insomma, una vaghezza buona per un’autostrada di arbitri di ogni genere, come nei fatti è accaduto. È bene tenere presente che queste operazioni di collocamento sono avvenute sotto l’ombrello ideologico di una fantasiosa “politicità” del Csm (ripetutamente negata dalla Corte Costituzionale) e, a cascata, delle correnti che lo occupano. In breve, in omaggio a questa visione distorta, il Csm, da organo di alta amministrazione destinato a tutelare l’indipendenza del singolo magistrato, è divenuto… altro: una sorta di parlamentino minaccioso chiamato a confrontarsi sulle più variegate idee in tema di giustizia. E non solo… Il tutto nel silenzio della Carta Fondamentale. Questo processo di snaturamento ideologico ha generato un’ulteriore gravissima distorsione democratica. Le correnti, elevatesi a rappresentanti di un inesistente corpo unitario, sono giunte ad immedesimarsi con l’Ordine Giudiziario, attribuendo ad esso – in via principale – l’indipendenza; il tutto al fine di erodere silenziosamente il principio costituzionale di soggezione del singolo magistrato soltanto alla legge, attraverso un florilegio di sovrastrutture organizzative (pensiamo all’ipertrofico sistema tabellare e alla pletorica regolamentazione secondaria del Csm, prossima oramai alla Biblioteca di Alessandria), la cui reale significanza è quella di ridurre pesantemente l’autonomia del singolo giudice. Il fall out della cupola è, allora, evidente: il magistrato ne esce, a seconda dei casi, schiacciato o speranzoso ma, alla fine della fiera, sempre moralmente succube. Perché il giovane magistrato impara da subito che occorre imparentarsi bene, sia per fare carriera (attraverso il circuito delle cosiddette medagliette) che per prevenire guai…

Descritto il sistema, veniamo ai rimedi.

Il primo è senz’altro quello di dar vita al più presto ad una Commissione parlamentare di inchiesta con i poteri dell’autorità giudiziaria. Perché premessa di ogni buona riforma è ricostruire con precisione il quadro generale in cui versa la giustizia. E ve n’è la necessità per due ordini di ragioni: per supplire all’evidente timidezza della magistratura requirente, in ciò favorita, da ultimo, dall’improvvido “Editto Salvi” che ha sdoganato “a monte” comportamenti riprovevoli che, a mio sommesso avviso, ove posti in essere da amministratori pubblici in seno a gare o a procedimenti concorsuali, varrebbero quantomeno un’iscrizione nel registro degli indagati; per la necessità, poi, di non adagiarsi sulle dichiarazioni di Palamara che, al pari di quelle di ogni collaboratore di giustizia, andranno puntualmente verificate, nel pieno delle garanzie dei soggetti coinvolti. Senza, però, essere ignorate, come parrebbe…

Il secondo rimedio è di tutta evidenza. Parliamo del sorteggio dei candidati da eleggere al Csm (sorteggio temperato). Ciò varrà a liberarlo dalle consorterie correntizie che lo hanno soffocato e varrà, altresì, a restituire all’Autogoverno il suo sobrio ruolo di organo di alta amministrazione in difesa dell’indipendenza del singolo magistrato. Ed è lo stesso Palamara, nella sua veste di ex Presidente di lungo corso dell’Associazione nazionale magistrati, a sottolineare quanto la correntocrazia tema questa riforma.

Il terzo, infine, è quello della rotazione turnaria dei magistrati negli incarichi di coordinamento dell’ufficio. Anche qui si tratta di una riforma “a costo zero” e, tuttavia, capace di togliere alle correnti il boccone più ghiotto: le nomine apicali. E non è affatto inutile rimarcare che queste nomine, per come oggi maturano, suscitino seri dubbi sul successivo libero esercizio dell’attività giurisdizionale da parte dei sodali beneficati. Altro non fosse che per banale debito di riconoscenza… La rotazione varrà poi a restituire ai magistrati la vera pari dignità delle funzioni ed un vero autogoverno orizzontale, contro l’attuale oligarchia dei dirigenti a vita a cui si accompagna una surrettizia subordinazione dei giudici.

Un’ultima chiosa. Se l’Associazione nazionale magistrati, la cui credibilità è a pezzi, vorrà davvero recuperare il prestigio perduto e onorare la sua storia gloriosa, sia la prima ad invocare le riforme indicate, le uniche che dimostrerebbero la reale volontà di eliminare “Il Sistema”. 

Anm è un’associazione di clan incostituzionale, Palamaragate ha scoperchiato sistema corrotto e illegale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Se esistesse ancora il premio Stalin (che temo sia stato abolito nel 1956) l’edizione del 2020 avrebbe un vincitore sicuro: il Csm. Cioè l’organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal presidente della Repubblica. Il Csm ha celebrato in un tempo brevissimo, e quindi battendo ogni record di rapidità, il processo disciplinare a Luca Palamara, che in passato è stato uno degli dei della magistratura italiana: lo ha svolto senza accettare i testimoni a difesa, senza prove, fondandosi su pochissime intercettazioni ottenute coi Trojan (sono state accettate solo le intercettazioni illegali), negando ogni diritto della difesa e rifiutandosi di svolgere una inchiesta su ciò che Palamara ha denunciato, e cioè un sistema corrotto che domina la magistratura, ne stabilisce le gerarchie, determina la distribuzione dei poteri e – purtroppo – anche l’esito di molti processi, facendo strame dei diritti degli imputati e dell’esigenza di diritto e verità. Il Csm in fondo è stato abbastanza sincero. Non ha negato che il motivo vero per il quale si è decisa la condanna di Palamara non è tanto quella cenetta alla quale ha partecipato anche l’on.Lotti, e che dunque metteva a repentaglio il principio della separazione tra politica e magistratura (principio che viene violato, ad occhio, un paio di volte al giorno, diciamo dal 1947…); ma è il disdoro che Palamara con la sua condotta e soprattutto con la sua linea di difesa ha gettato sulla magistratura. Cosa ha fatto Palamara? Ha parlato male dei suoi colleghi, ha offerto le prove che centinaia di loro avevano brigato per ottenere scatti di carriera e posti di potere, ha messo in luce un’incredibile commistione di interessi che unisce e condiziona Pm e giudici, spesso protagonisti degli stessi processi, ha mostrato come il potere giudiziario non è nelle mani di una magistratura libera, professionale e indipendente ma di una organizzazione incostituzionale, e cioè l’Anm, che è l’assemblea dei magistrati dominata dalle correnti e che garantisce, in modo persino dichiarato, la non autonomia di Pm e giudici. Questo è quello che il Csm, cioè – diciamo così – la corporazione delle toghe (soprattutto dei Pm) o se vogliamo essere ancora più precisi la “casta delle toghe” non ha potuto accettare e questa è la ragione per la quale ha deciso di espellere con grida di infamia Luca Palamara e di assolvere tutti gli altri. È intervenuto persino il Procuratore generale della Cassazione, nei giorni scorsi, per dire: se i magistrati si autopromuovevano niente di male. Traffico di influenze? Può darsi: ma chiunque capisce – deve aver pensato il Procuratore – che il traffico di influenze non è un reato, è una invenzione della componente forcaiola della magistratura e della politica, e quindi vale per tutti ma non per chi l’ha inventato. Di sicuro non per i magistrati. Ora, chiuso il Palamara-gate è chiusa anche magistratopoli? Diciamo le cose come stanno: magistratopoli, sebbene ignorata dai giornali – perché i giornali sono parte integrante dello scandalo – è il più grande scandalo politico del dopoguerra. La Lockheed era robetta, riguardava al massimo un paio di ministri che oltretutto, probabilmente, erano anche innocenti. Tangentopoli ha coinvolto solo una parte dei politici, e oltretutto lo ha fatto in modo evidentemente persecutorio, visto che l’80 per cento degli indiziati è stato assolto e molti sono stati condannati senza prove. Qui invece parliamo di un gigantesco fenomeno di corruzione – da nessuno negato – che ha stravolto le regole di funzionamento della magistratura, ne ha cancellato l’indipendenza, le ha imposto il giogo di organizzazioni private (lobby, clan, dite come volete: le correnti) e ha reso illegale l’intero sistema giudiziario italiano, probabilmente condizionando e violentando migliaia e migliaia di sentenze, passate, presenti e – al punto in cui sono le cose – anche future. Come fa il Parlamento a non intervenire? La magistratura si è rifiutata di svolgere un’inchiesta su se stessa. Il Parlamento ha il dovere – non l’occasione, dico: il dovere, l’assoluto dovere civico – di istituire una commissione di inchiesta, con tutti i poteri della commissione di inchiesta, per scoprire cosa è successo davvero. La prima cosa da fare, ad esempio, è ascoltare i 130 testimoni che Palamara aveva chiamato al banco e che il Csm ha rifiutato di ascoltare. Non c’è nessuna ragione di dividersi, in questo caso, tra sinistra e destra. La divisione, al massimo, può essere quella tra onesti e disonesti. Onesti senza H questa volta. Perché non è una questione di propaganda alla Casaleggio, ma un vero problema di lealtà alle istituzioni. Chi si dovesse opporre a una commissione di inchiesta sarebbe un traditore della democrazia.

Luca Fazzo per “Il Giornale” il 20 febbraio 2021.  L'impegno a mettere mano alla giustizia, salutato dal lungo applauso dai banchi del centrodestra: quando Mario Draghi nell'aula del Senato ha affrontato questo passaggio del suo programma, a Paolo Mieli è corso davanti agli occhi un déjà vu: quello dei tanti governi affossati non dal voto degli elettori ma dagli avvisi di garanzia. A raccontarlo è stato lo stesso Mieli, ex direttore del Corriere e ex presidente di Rcs, in una intervista a Radio24. «Non faccio previsioni e non ho notizie inedite da svelare. Mi limito a osservare l'insegnamento della storia recente del paese. Negli ultimi trent' anni non c'è stato governo, soprattutto se aveva una immagine forte, che non abbia avuto problemi con il sistema della giustizia». Nello scenario evocato da Draghi, un posto importante è occupato da quanto sta accadendo nell'universo dei 5 Stelle: «Guardo cosa bolle in pentola, e vedo che un giornale come il Fatto Quotidiano è schierato dalla parte degli scissionisti, dice tra le righe che Grillo si è rimbecillito e che quelli che hanno votato a favore del governo si sono accomodati. Sarebbe una forma di libera espressione giornalistica se non sapessimo che il Fatto è un giornale molto caro alla magistratura più militante. Aspettiamo e vediamo...». I precedenti, ricorda Mieli nell'intervista, non mancano. «Di fatto ogni tipo di governo ha avuto problemi con magistrati più o meno combattivi. Non c'è stato neppure bisogno di prendere di mira il presidente del Consiglio. Nel 2008 il meccanismo che portò alla caduta di Prodi fu innescato dall'inchiesta contro Clemente Mastella, ministro della Giustizia, e sua moglie». Il movente è sempre il solito, basta che un governo dia segno di voler riformare tribunali e procure, e parte la reazione. «Prima - dice Mieli - il potere giudiziario risponde in modo risentito attraverso i suoi organi ufficiali. Poi qualche pm di qualche parte d'Italia parte con un'inchiesta. Non c'è un'organizzazione, non ci sono ordini dall'alto, ci sono però degli automatismi. Quel pm parte perché sa di trovare intorno a sé il consenso della categoria. Come poi vada a finire l'inchiesta, magari dieci anni dopo, è del tutto irrilevante». «Non sto parlando di tutti i magistrati - precisa Mieli a Radio24 - ma della magistratura più militante. Sono loro in questi anni ad avere condotto le danze. E ora tutto è reso più delicato dal momento difficilissimo che vive la giustizia, grazie anche al fatto che il Consiglio superiore della magistratura non abbia affrontato nei dovuti termini il caso Palamara. Che un libro come quello di Palamara e Sallusti sia in cima alle classifiche è un fatto eclatante, era dai tempi della Casta di Rizzo e Stella che non accadeva un fatto editoriale simile, e la dice lunga sul modo in cui il paese guarda alla giustizia. Eppure i nodi non vengono affrontati, persino la nomina del procuratore di Roma torna ad essere un passaggio irrisolto dopo l'annullamento della nomina di Prestipino. Con questo Csm terremotato ogni cosa è possibile». In questo caos anche Mario Draghi rischia di essere preso di mira dai pm se interviene con forza sul nodo giustizia? Mieli non lo dice esplicitamente, ma il riferimento al caso Mastella racconta che un lato debole da colpire, a volere, si trova sempre. «La ribellione di un nutrito gruppo di 5 Stelle e l'appoggio evidente del Fatto Quotidiano - spiega Mieli - sono campane che mandano un suono distinto e che si sente bene. Chi vivrà vedrà. Dì sicuro, dalle parti della magistratura militante sta ribollendo qualcosa».

Da liberoquotidiano.it il 26 febbraio 2021. "Se Mario Draghi sulla giustizia fa sul serio, gli arriva subito un avviso di garanzia". Corrado Formigli a Piazzapulita cita le parole di Paolo Mieli e manda su tutte le furie Piercamillo Davigo, ex magistrato di Mani Pulite. "Una provocazione o l'affermazione di chi conosce la storia d'Italia?", chiede Formigli riguardo all'ex direttore del Corriere della Sera. "Ho la sensazione che Mieli non sappia di cosa parla", è la lapidaria risposta di Davigo. "Probabilmente cita dei fatti...". "No, cita dei fatti che sono... Intanto dovrebbe documentarli questi fatti, io non li ho mai visti accadere. Per aprire un provvedimento ci vuole una notizia di reato, non è che il pubblico  ministero si sveglia la mattina e dice chi incrimino oggi?". Ribatte Formigli: "Però non è detto che quei reati vengano dimostrati". "Questo è un altro discorso - ammette Davigo -, tra l'altro possono non essere dimostrati perché non ci sono o perché per mille e una ragioni non si riesce a dimostrarli, magari per le leggi particolari che abbiamo in questo paese e che altri paesi non hanno". "Le prove raccolte durante le indagini preliminari - sottolinea l'ex pm - di regola non valgono durante il dibattimento, e questo spiega perché persone che erano state raggiunte da elementi molto forti e concreti ma non utilizzabili nel processo poi vengano assolti".

DAGONOTA il 21 febbraio 2021. Senti chi parla! Dopo aver attraversato con il suo faccione a forma di salvadanaio l’intero pianeta del talk nel corso dell’ultima crisi di governo, profettizzando a cazzo di cane un Conte Ter o la via del voto, l’altro giorno l’erede del tuttologo catodico, la mitica macchietta napoletana Alessandro Cutolo, l’ex Buddino di via Solferino, Paolo Mieli, si è offerto pure ai microfoni di Radio24. E stavolta indossati i panni del cuoco (smemorato) ha regalato agli uditori una ribollita (acidula) sui danni giudiziari “che negli ultimi trent’anni hanno avuto chi aveva soprattutto una immagine forte”. Dimentico, il tapino, di aver diretto il Corriere della Sera “manettaro” negli anni di Tangentopoli (1992-1997) con tanto di “scoop” (pilotato da Scalfaro e Borrelli) sull’avviso di garanzia per corruzione al premier in carica Berlusconi (22 novembre 1994) e immemore delle migliaia di politici arrestati in attesa di giudizio e messi alla gogna dai suoi cronisti anti-casta, oggi Mieli è preoccupato (sic!) per le sorti di Mario Draghi che potrebbe essere la prossima vittima indiretta della magistratura (cattiva). «Guardo cosa bolle in pentola, e vedo che un giornale come il Fatto Quotidiano è schierato dalla parte degli scissionisti dei 5 Stelle”, osserva il Paolino falso garantista. E aggiunge mielesco: “Sarebbe una forma di libera espressione giornalistica se non sapessimo che il Fatto è un giornale molto caro alla magistratura più militante. Aspettiamo e vediamo (…)”. Per concludere: “A volte non c'è stato neppure bisogno di prendere di mira il presidente del Consiglio. Nel 2008 il meccanismo che portò alla caduta di Prodi fu innescato dall'inchiesta contro Clemente Mastella, ministro della Giustizia, e sua moglie». Ovviamente i suoi ragionamenti si basano sulle vicende del passato da emendare come peccati veniali fatti in nome della Fiat di Agnelli & Romiti prima azienda per dazioni miliardarie ai partiti. Di prove, ovviamente, neppure l’ombra oltre a quella canagliata riservata a il Fatto diretto da Travaglio. Che liquida come “supercazzole” le parole sul circuito mediatico-giudiziario inaugurato proprio dall’ex direttore del Corriere della Sera ai tempi di Mani pulite. Del resto osservava Michel de Montaigne “Il primo segno della corruzione è il mettere al bando la verità. La nostra verità di oggigiorno non è ciò che si fa credere agli altri”.

L'asse con le Procure. La notizia dell’avviso di garanzia per Palamara servì per bruciare Viola procuratore di Roma? Paolo Comi su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Il Corriere della Sera ha la notizia dell’indagine di Perugia a carico di Luca Palamara ma non la pubblica subito: aspetta che avvenga il voto al Consiglio superiore della magistratura sul nuovo procuratore di Roma. Domenica sera, durante la trasmissione Non è l’Arena su La7 condotta da Massimo Giletti, è stata ascoltata per la prima volta la conversazione intercettata con il trojan fra l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Giovanni Bianconi, noto giornalista della giudiziaria del quotidiano di via Solferino. L’episodio risale al 21 maggio del 2019. Bianconi si trovava nell’ufficio di Palamara a piazzale Clodio. Il magistrato, dopo essere stato potente consigliere del Csm, dal mese di ottobre dell’anno precedente era tornato al suo incarico di pm. Il giornalista è foriero di brutte notizie. Ha saputo che gli atti dell’indagine di Perugia a carico di Palamara sono stati inviati al Csm. «Mi dicono che dovrebbe(ro) essere arrivati a Roma», esordisce Bianconi. All’ex zar delle nomine, che ha presentato domanda per diventare procuratore aggiunto a Roma, trema la voce. L’avviso di garanzia notificato a mezzo Corriere della Sera rischia di stoppare quella che fino ad allora era stata una carriera inarrestabile. «La partita degli aggiunti è scollegata», prosegue Bianconi. «Aspettiamo e vediamo quello di che si tratta, no?», risponde Palamara. «In questo caso è solo De Ficchy (Luigi, fino al 2 giugno 2019 procuratore di Perugia, ndr)», aggiunge il giornalista, sottolineando che «tanti avevano capito se il procuratore provano a farlo prima dell’estate gli aggiunti dopo». «Voglio essere eliminato per via del merito e non per via giudiziaria», risponde più volte Palamara. Il Corriere il giorno dopo non pubblicherà la notizia. Aspetterà per farlo il 29 maggio. «Un’inchiesta per corruzione agita la corsa alla Procura di Roma. Palamara, candidato a un ruolo di aggiunto, è indagato a Perugia. Informato il Csm», scriverà il ben informato Bianconi. Il 23 maggio precedente la quinta commissione del Csm, competente per le nomine dei magistrati, aveva votato per il successore di Giuseppe Pignatone, in pensione per sopraggiunti limiti di età dall’8 maggio. La maggioranza dei voti, quattro, erano andati a Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, iscritto alla corrente di destra di Magistratura indipendente. Un voto ciascuno per Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze ed esponente di Unicost, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, anch’egli di Magistratura indipendente. Per Viola avevano votato Antonio Lepre, togato di Magistratura indipendente, Piercamillo Davigo, i laici in quota Lega e M5s, Emanuele Basile e Fulvio Gigliotti. Il togato della sinistra giudiziaria Mario Suriano aveva votato per Lo Voi e quello di Unicost Gianluigi Morlini per Creazzo. Il 29 maggio, comunque, la notizia dell’indagine di Perugia verrà riportata anche da Repubblica e Messaggero. Il quotidiano di largo Fochetti ricorderà che Viola è legato al deputato Cosimo Ferri, da magistrato leader indiscusso di Magistratura indipendente. L’arrivo di Viola a Roma segnerebbe una “discontinuità” con la gestione Pignatone, si legge nel pezzo. Una discontinuità che va evitata assolutamente. «Di Pignatone non dove rimanere neppure l’ombra: né vanni fatti prigionieri, come l’aggiunto Michele Prestipino, l’aggiunto Paolo Ielo o il sostituto Mario Palazzi», prosegue. Quello che poi è successo dopo la fuga di notizie è noto: il voto su Viola venne annullato, Prestipino, con l’appoggio di Davigo, è diventato procuratore di Roma, Ielo ha sempre le indagini più importanti, e lo stesso dicasi di Palazzi. «C’è il terribile sospetto che ci possa essere stato un uso strumentale della giurisdizione», ha dichiarato in serata Andrea Reale, componente dell’Anm, commentando le tempistiche dell’indagine a carico di Palamara (i fatti contestati, come ha raccontato l’ex presidente dell’Anm da Giletti, furono fatti emergere dalla Procura di Perugia con notevole ritardo, proprio con lo scopo di far saltare la nomina di Marcello Viola, ndr). «La sensazione, ascoltando Palamara, è che ci sia stata una guerra fra fazioni», aggiunge Reale, stigmatizzando la fuga di notizie. «Mi auguro che si faccia chiarezza al riguardo e che vengano fatti i dovuti accertamenti».

Palamara: “Mi impediscono di parlare in Antimafia. Avrei molto da dire su Borsellino”. Nuova bordata dell'ex presidente dell'Anm: "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Il Dubbio lunedì l'1 marzo 2021. ”Io mi sono messo a disposizione, anche io ho letto i giornali e ho letto che ci sono state addirittura richieste da parte alcuni esponenti politici, anche ex magistrati, di fare la conta per evitare di farmi andare”. Lo ha affermato l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, intervenendo a ‘Non è l’Arena’, a proposito dell’audizione saltata in Commissione Antimafia. ”Quello che dovevo raccontare del mio libro – ha aggiunto – non ho nessuna difficoltà a raccontarlo in sede di audizione antimafia. Anzi, potrebbe essere anche quella l’occasione per affrontare dei temi che nell’ambito dell’esperienza consiliare abbiamo trattato sui rapporti Stato-mafia, sui mandanti delle stragi, su importanti esposti fatti dalla famiglia Borsellino”.

Borsellino e il “ricatto alla palermitana”: perché non ascoltare Palamara? L'ex presidente dell'Anm Palamara : "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Damiano Aliprandi su Il Dubbio martedì 2 marzo 2021. «Io mi sono messo a disposizione della commissione Antimafia, potrebbe essere una occasione per affrontare dei temi che, nell’ambito della mia esperienza consiliare, abbiamo esaminato come i rapporti tra Stato e mafia, i mandanti delle stragi e gli importanti esposti dalla famiglia Borsellino. Penso che sia l’occasione giusta per potermi consentire di parlare». Così ha dichiarato Luca Palamara durante la trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti, a proposito dell’audizione saltata in commissione Antimafia per la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, accanto al quale si è schierato non solo il Pd ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione. Il problema è che se dovesse essere convocato nuovamente, c’è il rischio che venga ascoltato solo per la vecchia storia sulla mancata nomina al Dap del magistrato Nino Di Matteo. Roba già fin troppo sviscerata, ma nulla sulla vicenda delle deviazioni emerse all’interno delle correnti della magistratura e del Csm. Non solo.

Il rischio è che non venga sentito sugli esposti di Fiammetta Borsellino. Il rischio è che non venga nemmeno sentito per i temi che ha annunciato da Giletti. Parliamo soprattutto degli esposti presentati da Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” da parte dei magistrati che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ricordiamo che il gip ha archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, rilevando che «ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino», ma non è stata «individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati». Quindi per il gip, gli allora pm di Caltanissetta non hanno avuto alcuna responsabilità penale nel depistaggio accertato. Ma resta sullo sfondo, come ha scritto recentemente l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di alcune di quelle persone condannate innocentemente per la strage, che i pm sono stati «scarsamente aderenti ai criteri di valutazione della prova» e che purtroppo non tennero conto neppure dell’instabilità psicologica di Scarantino.

Non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni di Scarantino. Fatti che il Csm non ha voluto esaminare per una eventuale azione disciplinare, nemmeno simbolica tipo come la “censura” che equivale a un buffetto sulla guancia. C’è Luca Palamara che, prima di essere radiato, è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Anche quando in seno alla prima commissione Csm si stava discutendo dell’opportunità di svolgere accertamenti nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio nel primo processo Borsellino. Forse potrebbe fare chiarezza, capire esattamente quale sia stato il vero motivo per cui si è deciso di non dare seguito all’esposto presentato dalla figlia di Borsellino. La verità ufficiale è che ciò sarebbe stato determinato dal troppo tempo trascorso che toglierebbe ogni efficacia all’intervento disciplinare del Csm. Tutto quindi si è fermato e non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni del falso pentito: ovvero Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva e Ilda Boccassini, come aveva deciso invece il precedente Csm, il cui unico atto istruttorio era stata l’audizione del magistrato e ora membro del Csm Nino Di Matteo, oltre che l’acquisizione delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater. Se Palamara ha annunciato che ha qualcosa da dire, forse dietro la verità ufficiale si nascondono ben altre motivazioni? Un motivo in più per essere audito in commissione Antimafia, ma forse non basta. Per i temi annunciati ci vorrebbe una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc, altrimenti c’è il rischio che si riveli del tutto inutile. A questo si aggiunge un altro aspetto che dovrebbe essere chiarito sempre per il rispetto dei familiari di Borsellino che chiedono con forza la verità.

L’interessamento di Borsellino a mafia-appalti. Uno di quelli è il discorso del procedimento mafia-appalti archiviato dopo la strage di Via D’Amelio. Oramai sono agli atti, per ultimo la sentenza di secondo grado del Borsellino quater, che la causa dell’accelerazione della strage è da ricercarsi nell’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti, lo scopo è di «cautela preventiva». Un fatto richiamato in diverse sentenze, ma mai approfondito fino in fondo. Ebbene nelle intercettazioni tra Palamara e il pm Stefano Fava si parla di un «ricatto alla palermitana». Si tratta dell’informativa della Guardia di finanza relativa ad attività tecniche rit. n 120/19 e 175/ 19. Riportiamo i passaggi in causa.

Le intercettazione dei colloqui tra Palamara e Stefano Fava. Palamara: «Però dopo lo sai che facciamo, facciamo un libro, io faccio un libro, no non sto scherzando…», Fava: (ride), Palamara: «’na specie di ricatto tu me dai le co…eh…e tutto… e diciamo quello che cazzo è successo…», Fava: «Il titolo è Ricatto alla Palermitana…», Palamara: «Questa adesso è una cosa che va oltre, no? Totalmente», Fava: «Ma se tu leggi quel libro là di… Gli intoccabili inc. le… cioè tu vedi come tutta la carriera di Pignatone è una fuga di notizie…», Palamara: «È così!», Fava: «Dall’ indagine mafia-appalti del ’91 in tutti i procedimenti dove c’era lui, gli indagati, lì era Felice Lima (all’epoca pm di Catania che raccolse la collaborazione di Li Pera e dove rivelò con precisione tutto il sistema appalti ndr), poi c’era Siino (fonetico), c’era Li Pera (fonetico) sempre avevano le informative, cioè sempre in tutti i procedimenti, poi arriva Cuffaro e Cuffaro nella vicenda Guttadauro, nella vicenda Aiello è andato a dire perché è stato condannato Cuffaro, perché Cuffaro dà un incarico a suo fratello Roberto Pignatone, il mio stesso Roberto Pignatone…perché Cuffaro ha dato la notizia a Guttadauro che era un medico e ad Aiello che era un altro medico che avevano le ambientali», Palamara: «Eh!», Fava: «Perciò è stato condannato, giusto?», Palamara: «Esatto», Fava: «e questi procedimenti chi c’era, Pignatone, perché all’epoca era braccio destro…», Palamara: «Secondo me pure per loro se lo mandano in Prima è un boomerang che se io le vado a fa ste dichiarazioni, no ipoteticamente mi chiamano, cioè saltano in area sia Cascini che Manci…cioè quelli che poi si devono dimette…».Precisiamo che sono solo intercettazioni, scambi privati tra due magistrati. Da sottolineare che Pignatone, in realtà, non è l’unico che si occupò del procedimento mafia-appalti: fu coassegnatario del procedimento soltanto sino alla data del 5 novembre del ’91. Non partecipò nemmeno alla stesura della richiesta di archiviazione inerente gli esponenti della politica e della imprenditoria, oggetto di attenzione da parte del Ros. L’aspetto che più colpisce è il “ricatto alla palermitana”, come se esistessero soggetti ricattabili a causa del loro passato. Sarebbe importante fare chiarezza su tutti questi aspetti, in particolar modo i primi anni 90 e ciò che sarebbe accaduto all’interno dell’allora procura di Palermo. Ricordiamo che la sentenza del Borsellino quater di secondo grado suggerisce di indagare anche su quel versante. La Corte ricorda che «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dottor Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo». A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito «le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita».

L'intervista alla figlia del magistrato. L’accusa di Fiammetta Borsellino: “Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato”. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992. Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva. I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip.

L'antimafia siciliana prosegue le indagini. La Commissione Fava non molla su Scarantino: chi guidò il depistaggio? Leonardo Berneri su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Il Gip di Messina ha di recente archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta Carmelo Petralia e Annamaria Palma accusati di calunnia aggravata in concorso nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Ciò ha creato un forte dissenso da parte della Commissione Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava che per questo ha deciso di usare i suoi poteri per continuare le indagini e allargarle allo scenario generale in cui avvenne il “più grande depistaggio della storia d’Italia”. Infatti la commissione da martedì scorso ha aperto i nuovi lavori e tra gli altri ha indicato il giornalista Enrico Deaglio per una audizione. È stato ascoltato con molta attenzione, gli sono state rivolte domande pertinenti, ha consegnato documentazione che gli era stata richiesta, e indicato altre persone “informate sui fatti” che possono essere utili all’inchiesta. La Commissione ha in programma di lavorare per i prossimi mesi, rendendo pubbliche le sue acquisizioni e naturalmente rendendo note alle competenti procure le notizie di reato di cui eventualmente verrà a conoscenza. La notizia non può non far piacere a Fiammetta Borsellino, che sulle pagine de Il Riformista si è detta amareggiata per la frettolosa archiviazione della posizione dei due magistrati e soprattutto per l’indifferenza del Consiglio superiore della magistratura che non ha dato seguito al suo esposto. Se da una parte è positivo il fatto che ci sia la voglia di non far cadere nell’oblio il depistaggio e le anomalie tecniche, giuridiche e valutative che hanno visto protagonisti i magistrati coinvolti nella gestione dell’ex falso pentito Vincenzo Scarantino, dall’altra c’è però il rischio che la commissione antimafia siciliana – non volendo – faccia un remake del processo sulla Trattativa. Un indizio proviene proprio dal giornalista Deaglio. Il quale ha scritto pubblicamente un post su Facebook nel quale ha spiegato che è stato convocato da Fava in merito alle ricostruzioni elaborate in due suoi libri, Il vile agguato del 2012 e Patria 2010-2020. Sia chiaro, va dato atto a Deaglio che è stato uno dei pochi a capire fin da subito che Scarantino era inattendibile. Recentemente, nel suo ultimo libro, ha anche criticato aspramente il lavoro di magistrati come Nino Di Matteo per la gestione del processo Borsellino. Ha perfino scritto, con grande onestà intellettuale, che per lui il processo Trattativa è “sgangherato”. Il problema è che nello stesso tempo affronta questioni che la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato mafia ha preso in realtà molto in considerazione. Deaglio sa raccontare, è un maestro nella scrittura, ma ha il difetto di essere impreciso per quanto riguarda queste tematiche e, in sostanza, avvalora la tesi di Di Matteo e colleghi. Solo a titolo esemplificativo, nel libro Il vile agguato parla anche dei mafiosi che svuotano il covo da dove è uscito latitante per l’ultima volta Riina. A pag. 61 scrive della “cassaforte divelta”, come anche altri in realtà avevano scritto in precedenza. La logica ci fa porre una domanda: che bisogno c’era di svellere dal muro la cassaforte, non bastava portarsi via il contenuto? Infatti la cassaforte sta ancora lì. Un dettaglio, ma utile per far capire che i libri non possono essere fonte di prova per una indagine. Quindi ci si augura che la Commissione vada direttamente alle fonti originali, tipo le sentenze definitive, dove facilmente si può ricostruire la verità oggettiva dei fatti. Per questa e altre ragioni, la commissione antimafia presieduta da Claudio Fava rischierebbe di prendere un granchio e avvalorare la tesi sulla trattativa stato mafia. Basterebbe acquisire tutta quella documentazione prodotta nel processo d’appello trattativa dall’avvocato Basilio Milio, legale dell’ex ros Mario Mori. Solo così, si potrà avere una visione a 360 gradi di queste tematiche. Ci permettiamo un consiglio non richiesto. Parliamo di tematiche trite e ritrite che rischiano di “depistare” dai fatti concreti, razionali, quelli che si toccano con mano. Sarebbe il caso di non spostarsi troppo dai fatti tragici del 1992, partendo dalle indagini che stava svolgendo Paolo Borsellino finalizzate a rendere giustizia al suo fraterno amico Giovanni Falcone. I suggerimenti sono indicati dalla stessa sentenza sul depistaggio, il Borsellino Quater. L’accelerazione dell’attentato è dovuta al suo interessamento al dossier mafia appalti. Suggerisce anche di andare a vedere che problematiche c’erano state all’interno della procura di Palermo. A tal proposito, sono molto utili i verbali delle audizioni al Csm risalenti a poche settimane dopo la strage del 19 luglio del 1992. Sono stati sentiti tutti i magistrati e vengono fuori questioni inedite. A partire dall’ultima riunione della Procura di Palermo dove partecipò Borsellino. Possibile che non si riparta da lì? La magistratura non l’ha fatto, nonostante i verbali del Csm siano stati di recente depositati al processo d’appello sulla trattativa. La commissione antimafia ha un senso solo se si occupa delle questioni ancora non vagliate fino in fondo e che gridano vendetta nella completa indifferenza. Altrimenti, non volendo, si rischia di essere alleati dei propri becchini. 

Il racconto della figlia del magistrato. Intervista a Fiammetta Borsellino: “Mio padre lontano da pregiudizi e rispettoso delle garanzie”. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. «Mio padre si è sempre battuto, senza doppi fini, per il riscatto dei palermitani e di tutti i siciliani», afferma Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992. Fiammetta Borsellino da anni si batte per conoscere la verità sulla morte di suo padre. Ci sono voluti ben quattro processi per arrivare a stabilire che le iniziali indagini furono condizionate dal più grande depistaggio che la storia giudiziaria italiana ricordi. In particolare, le dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, poste a fondamento dei processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, erano totalmente false. Sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, alle quali per anni i giudici hanno creduto, vennero infatti condannate all’ergastolo sette persone. Le false accuse sono state poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Fiammetta ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura e alla Procura generale della Cassazione di svolgere accertamenti su chi diede credito a Scarantino. Il pg della Cassazione Riccardo Fuzio aveva raccolto la testimonianza di Fiammetta e della sorella. Coinvolto nel Palamaragate e costretto alle dimissioni nell’estate del 2019, l’attività istruttoria è rimasta incompiuta.

Fiammetta Borsellino, che tipo di magistrato era suo padre?

Un magistrato apolitico, indipendente, rispettoso delle garanzie del cittadino, e soprattutto serio. Ha sempre agito tenendosi lontano da pregiudizi ideologici o visioni politiche della società.

Per molti colleghi il suo stile è stato di esempio?

Penso di si. Parlava spesso con i colleghi più giovani raccontandogli le difficoltà che si incontravano nell’interrogare il pentito di mafia, della complessità delle vicende narrate dal mafioso, delle loro strategie processuali, e soprattutto degli scenari squarciati dai pentiti con le loro dichiarazioni.

Può dirci come viveva il suo impegno antimafia?

Il contrasto alla criminalità organizzata per mio padre non era solo un impegno straordinario ed eccezionale di un momento della vita o della carriera ma era una scelta di vita.

Suo padre aveva un alto senso dello Stato.

Sì. Era la scelta della legalità ed era anche la consapevolezza di stare dalla parte della legge, delle Istituzioni, del cittadino.

Una scelta di democrazia.

Di quella vera però, di quella che consente al cittadino di determinarsi davvero liberamente, senza il condizionamento dell’intimidazione, del bisogno e della minaccia. Una scelta di civiltà il cui fine era quello di una società migliore.

Rispettando, comunque, sempre i diritti e le garanzie di tutti.

Esatto. Mio padre aveva la consapevolezza di dovere applicare sempre legge anche contrastando feroci organizzazioni criminali, tenendo bene a mente che il giudice “non lotta” contro nessuno.

E come uomo?

Era ironico. Mai banale. E dotato di grande umanità.

Per cosa andrebbe ricordato suo padre?

Mio padre va ricordato soprattutto per l’eredità morale e professionale che ha lasciato, per l’impegno profuso nell’istruzione del cosiddetto maxi processo di Palermo, per ciò che lo univa a Giovanni Falcone e per ciò che da lui lo distingueva.

Suo padre e Falcone hanno cambiato il modo di fare le indagini.

E sempre cercando riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Il maxi processo veniva ritenuta opera gigantesca, elefantiaca che mai sarebbe giunta neppure alla soglia del dibattimento. Ed invece mio padre e Giovanni Falcone, assieme ad altri validissimi colleghi, non soltanto portarono il “loro” maxi processo a dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Palermo ma videro il loro impegno definitivamente consacrato nella sentenza della Cassazione del 1992.

Cosa è stato, allora, il maxi processo di Palermo?

Ha costituito per il nostro Paese una svolta epocale sia sul piano giudiziario, avendo contribuito all’affermazione di una linea nuova e finalmente efficace nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa, sia sul piano politico avendo dato la prova e la misura dello sforzo della magistratura e delle Istituzioni nel contrasto alla criminalità organizzata senza incertezze o ambiguità.

Parliamo di pentiti.

Il maxiprocesso di Palermo si basò in gran parte sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista rappresentò una scommessa vinta, nel senso che nessuno, tranne i magistrati che si spesero su questo fronte con mio padre e Giovanni Falcone in testa, credeva che all’interno di Cosa nostra potesse svilupparsi il fenomeno del pentitismo e che mafiosi di rango, “uomini d’onore” di primo livello, potessero collaborare con i giudici.

Fa riflettere che suo padre e Falcone furono attaccati in maniera violentissima da coloro che successivamente si proclamarono loro eredi.

Nessuno può dimenticare gli attacchi a Falcone quando venne chiamato dal ministro Claudio Martelli a collaborare con lui al Ministero della Giustizia e si propose di creare la Direzione nazionale antimafia, per la cui guida era il candidato più accreditato. E non si possono dimenticare le polemiche che investirono mio padre poco tempo dopo la sua nomina a procuratore di Marsala.

Suo padre era iscritto a Magistratura Indipendente, la corrente di destra delle toghe. Cosa è stato l’associazionismo giudiziario?

Mio padre ha vissuto l’associazionismo senza alcuna finalità carrieristica e non chiese mai di essere candidato al Csm. Se avesse accettato la candidatura sarebbe stato certamente eletto.

Adesso si fanno carte false per andare al Csm o per avere incarichi.

Mio padre rimase coerente. Quando, dopo la morte di Falcone gli fu proposto di candidarsi per l’incarico di procuratore nazionale antimafia, rifiutò di farlo.

Una persona di altra epoca e con un stile difficilmente conciliabile con il “Sistema” descritto da Luca Palamara e fatto di magistrati chattatori.

Già.

Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre.

«Esatto».

Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti.

«E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa».

Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre.

«C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola».

L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente.

«Una incongruenza che destabilizza».

Non ha fiducia nei giudici?

«Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale».

Ad esempio?

«In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura».

Perché non ha fiducia nel Csm?

«Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese».

Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm.

«Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri».

Prova un po’ di amarezza?

«Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste».

Vuole fare un nome?

«Nino Di Matteo».

Perché proprio lui?

«A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».

Che tipo era suo padre?

«Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi».

Le parole di Fiammetta. “Depistaggi e complicità di magistrati e poliziotti ha impedito la verità sull’uccisione di mio padre”, parla la figlia di Borsellino. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. “Il Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie. A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafia, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti vennero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.

Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione?

«Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre».

Cosa aveva evidenziato?

«Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non finire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi.

Denunciò l’accaduto?

«Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre».

Risposta?

«Nessuna».

E allora?

«Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm».

Una precisazione: in che anno siamo?

«2018 inizio 2019».

Questo Csm?

«Si».

Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini?

«Certo».

Cosa le disse?

«Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché».

All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio.

«Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni».

Come andò l’interrogatorio?

«Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso.

Una ricostruzione dettagliata?

«Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei».

Poi?

«Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta».

Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa…

«Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992».

Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffiò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm.

«Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr)».

Sa se è arrivato il verbale?

«Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto».

A parte questo?

«Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione».

E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla?

«No».

Si sente presa in giro?

«Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado».

Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe?

«Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede».

Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude…

«Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni».

Le rivelazioni al Csm. Paolo Borsellino stava scoprendo "cose terribili" in Procura, le rivelazioni della sorella di Falcone. Leonardo Berneri su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Paolo Borsellino stava scoprendo delle cose tremende che avrebbero fatto saltare diversi equilibri. Lo disse lui stesso a Maria, la sorella di Giovanni Falcone. Perché le disse questo? Lei voleva andare dalle autorità competenti per parlare delle difficoltà che il fratello aveva avuto nella procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco. Ma Borsellino le disse di avere pazienza e di aspettare: ci avrebbe pensato lui, perché stava acquisendo delle prove, dei documenti. Tutto questo lo apprendiamo dai verbali delle audizioni al Csm relative al periodo tra il 28 e il 31 luglio 1992, quando furono convocati tutti i magistrati dell’allora procura di Palermo. Tali verbali sono stati recentemente acquisiti dal procuratore generale Roberto Scarpinato, che sostiene l’accusa nel processo d’appello per la “Trattativa”. Acquisiti e depositati al processo in corso. In realtà, ancora prima, a depositare alcuni di questi stessi verbali ci hanno pensato gli avvocati Basilio Milo e Francesco Romito, legali degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Anche perché emerge un dato oggettivo: tutto c’è, tranne che qualche indizio che porti alla “presunta trattativa”. Forse, il posto naturale di questi verbali delle audizioni al Csm è la procura di Caltanissetta che ha la competenza territoriale per indagare sulla strage di Via D’Amelio. Ciò diventa necessario, dal momento in cui la sentenza di secondo grado del Borsellino Quater suggerisce di andare anche ad approfondire le problematiche che Borsellino riscontrò in Procura, oltre al discorso del suo interessamento all’indagine mafia appalti, considerata la causa dell’accelerazione dei tempi della strage. «Ecco, io mi levo gli occhiali perché amo guardare le persone negli occhi e che gli altri mi riguardino negli occhi». È il 30 luglio del ‘92 ed è Maria Falcone che parla rivolgendosi al Csm. È lei che ha chiesto di essere convocata, infatti è l’unica non togata ad essere sentita. Lo spiega lei stessa: «Ormai ho preso la decisione di venire qua, perché? È questo quello che a voi interessa, perché sono venuta qua? Certo, perché Giovanni, ci aveva sempre detto che le cose bisognava che fossero fatte nelle sedi istituzionali appropriate, era una sua massima, un suo modo di vivere e ce lo ripeteva spesso in famiglia, quando si chiacchierava di varie situazioni che si venivano a creare durante la sua carriera, io non ho le scalette, né fogli davanti a me, ma ho soltanto dodici anni di sofferenza vissuta insieme a Giovanni». La sorella di Falcone spiega anche il motivo per cui ha deciso di essere sentita solo in quel momento e non prima: «Io per due mesi sono stata zitta, perché Paolo Borsellino così mi aveva consigliato, o ci aveva consigliato, perché Paolo era un caro amico di Giovanni, io lo ritenevo uno dei pochissimi amici di Giovanni, e quello che lui ci ha detto subito dopo la sua morte a me e a mia sorella, era quello di avere calma, di aspettare il momento opportuno per parlare, per prendere determinate decisioni». Maria ha sostanzialmente raccontato che Falcone aveva dei problemi enormi, tanto che fu costretto a lasciare la Procura per poter lavorare serenamente al ministero della giustizia. «Giovanni se ne è andato da Palermo – racconta sempre la Falcone al Csm -, perché non poteva più lavorare, perché il Procuratore Giammanco non gli permetteva più di svolgere il suo lavoro come avrebbe voluto lui farlo. Io, non è compito mio indagare sul perché Giammanco ha adoperato questa strategia di non farlo lavorare, questo non è compito mio, io posso dirvi soltanto quello che Giovanni diceva in famiglia». Maria, però, ci tiene a specificare che non è compito suo fare i nomi. Anche perché Falcone, per serietà istituzionale, non li ha mai fatti in confidenza. «Qua interessa soltanto parlare del Procuratore Giammanco, quindi solo questo nome farò», ci tiene a sottolineare. In effetti, più avanti la Falcone è ancora più chiara su questo punto: «Giovanni era riservatissimo, tutto quello che era ufficio era tabù, ci riferiva il suo stato di animo, cioè la sua sofferenza». Racconta anche un fatto inedito, una vicenda che però non è stata tuttora raccontata nei dettagli da chi è testimone. Giammanco, all’inizio, prima di diventare Procuratore Capo, si mostrò grande amico di Falcone. Era la sua ombra, lo seguiva passo dopo passo per apprendere i suoi insegnamenti. Poi, però, una volta diventato capo della Procura grazie anche al sostegno di Falcone, qualcosa cambiò. Come mai questo cambio repentino di atteggiamento? Non è dato sapere. Maria rivela un fatto mai emerso prima. Si riferisce a quando Falcone andò a cena a casa sua e le raccontò che in mattinata aveva dato l’addio alla Procura di Palermo. Le raccontò che aveva fatto una scenata di quelle tremende. «Questa scenata – spiega al Csm la Falcone – vi sarà stata raccontata dai sostituti, io non so i particolari perché Giovanni non me li ha riferiti i particolari, mi aveva detto che aveva detto pane al pane e vino al vino, cioè non aveva aperto una nuova “stagione dei veleni” ma aveva detto davanti a tutti i Sostituti e a Giammanco, tutto quello che pensava di lui, quale siano state le parole precise, vi dico non lo so, e poi alla fine, addirittura, di questo suo sfogo macroscopico, addirittura il Procuratore come se nulla fosse, gli è andato vicino e l’aveva anche abbracciato e baciato: “Ma che vai pensando Giovanni”, queste sono parole riferite da Giovanni». Maria Falcone, dopo la morte del fratello, voleva riferire tutto questo, ma è Borsellino a dirle di stare tranquilla, che ci avrebbe pensato lui e che stava cercando delle prove. «Borsellino sapeva che doveva competere come un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili. Verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende». Quindi sono due i momenti in cui ha parlato con Borsellino. Subito dopo la morte di Falcone e poi il 23 giugno, nel trigesimo. «Delle cose terribili, che avrebbero fatto saltare parecchie cose», sono le parole che Borsellino ha riferito alla Falcone. Alla domanda precisa da parte del Csm, relativa a cosa si riferisse Borsellino, così risponde Maria: «Come tutti i magistrati e come mio fratello quando parlava con una non addetta ai lavori, non si fermava, penso, a dare parecchi particolari». Maria precisa che con Borsellino parlava del fatto che il mondo doveva sapere che se Giovanni se ne era andato da Palermo era per Giammanco. «Queste erano state le mie parole a Borsellino e lui quindi penso che facesse riferimento alla scoperta di qualche cosa che riguardava questo problema». Borsellino avrebbe quindi scoperto qualcosa di “terribile” in Procura, questa è la sensazione che sembra aver percepito la sorella di Falcone. Aggiunge anche un altro particolare: «Ricordo ancora, appoggiato alla chiesa di San Francesco per la messa del trigesimo, dopo che lui era andato a guardare il campetto dove giocava con Giovanni a calcio da ragazzino, abbiamo avuto questa discussione in cui mi disse: “State calmi perché sto cercando di arrivare”». Parliamo del 23 giugno. Dopo due giorni Borsellino si incontra riservatamente con i Ros in caserma, dice loro di continuare nell’indagine mafia appalti e di riferire esclusivamente a lui. Ricordiamo che Borsellino non era ancora titolare delle indagini palermitane. E purtroppo non lo sarà mai. Sappiamo, infatti, che Giammanco – dopo una notte insonne (così riferirà Borsellino alla moglie Agnese) -, decide di chiamarlo la domenica mattina presto del 19 luglio. Lo chiama per dargli la delega delle indagini. «No, la partita è ancora aperta!», esclama al telefono Borsellino. Lo stesso pomeriggio, però, muore trucidato dal tritolo. Una questione che viene evidenziata dalla sentenza della corte d’appello di Caltanissetta, che si sofferma anche sui sospetti che lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie. Ovvero «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse». La vicenda, a distanza di quasi 30 anni, non è stata chiarita. Più il tempo passa e viene sprecato con l’astratta ricerca di entità e terzi livelli, più sarà difficile avere chiarezza.

Palma e Petralia sono innocenti e Scarantino è solo un mitomane…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. I pubblici ministeri sono innocenti, i poliziotti, ancora sotto processo per il reato di calunnia, si vedrà. Forse Vincenzo Scarantino, protagonista suo malgrado del più grande depistaggio di Stato sulla strage di via D’Amelio e l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, si sarà torturato da solo fino a inventarsi le proprie responsabilità nel delitto. Solo questa può essere la verità emersa dalla decisione assunta dal gup di Messina, che ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti dei due ex pubblici ministeri di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, indagati per calunnia aggravata per aver costruito insieme al vicequestore Arnaldo La Barbera il falso pentito della strage. I due magistrati possono ora dormire sonni tranquilli, una nel suo nuovo ruolo di avvocato generale a Palermo, l’altro come procuratore aggiunto a Catania. Sono tanti gli assurdi di questa storia. Prima di tutto perché dall’inchiesta è stato escluso l’altro pm delle indagini, Nino Di Matteo. Perché era giovane, appena arrivato, si dice. Argomento cui risponde Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato ucciso, dicendo che ci sarebbe da indignarsi, se davvero la sorte di suo padre fosse stata affidata a un ragazzino alle prime armi. Cosa che lei non crede, infatti lo chiama a rispondere delle proprie responsabilità nelle indagini dirette a senso unico. Ricordando il fatto che Di Matteo, chiamato a deporre al processo “Borsellino quater”, ha di fatto ammesso la propria partecipazione attiva a ogni fase dell’inchiesta. «Nei primi interrogatori abbiamo creduto che le dichiarazione di Scarantino fossero genuine –aveva detto-. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate». Intuìto? E quando, visto che undici persone innocenti sono state in carcere per quindici anni, fino alla deposizione del “pentito” (vero) Gaspare Spatuzza nel 2008? E visto che nel frattempo il piccolo spacciatore veniva ripetutamente “preparato” da poliziotti e magistrati prima di ogni interrogatorio, fatto che non viene smentito. Ma che andrebbe chiamato con il nome giusto. Perché evidentemente qualcuno suggeriva quel che Scarantino doveva dire. L’altro assurdo è il fatto che ancora oggi si dia credito al falso pentito, che ha fatto l’ennesima giravolta a Messina rispetto a quanto testimoniato in aula a Caltanissetta, e che ora scarica ogni responsabilità sui poliziotti, mentre prima aveva fatto nomi e cognomi dei magistrati. Facile colpire La Barbera, prima di tutto, che è morto nel 2002. E poi i tre ex agenti che potrebbero, alla fine, diventare dei veri capri espiatori di un’operazione nata a cresciuta nel mondo delle toghe, oltre che delle divise ad alto livello. Cioè quelli abituati a gonfiare il petto davanti alle telecamere dopo ogni retata, dopo ogni arresto eccellente per la soluzione dei casi più spinosi. Ma che sono poi pronti a scaricare su altri le proprie responsabilità. Magari condizionando, ancora oggi, il falso pentito, aiutandolo (ma senza suggerire, per carità) prima di ogni deposizione.

L’avvocato dei Borsellino contro la Procura di Palermo: ha allontanato la verità. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Nei giorni scorsi un ex pentito ha gettato fango sul Pm di Caltanissetta Gabriele Paci. La cosa ha avuto una ricaduta sul processo contro Messina Denaro in corso proprio a Caltanissetta, e che si occupa delle stragi del ‘92. In aula ha preso la parola l’avvocato Trizzino, che è l’avvocato dei figli di Borsellino, e ha rilasciato una dichiarazione molto significativa. Ha detto: «Esprimo totale fiducia nel lavoro di questa Procura. Ripeto: di questa Procura, di questa Procura (e ha calcato la voce tra volte sulla parola “questa”, ndr), che dal 2008 sta faticosamente cercando di mettere insieme i pezzi di una verità che è stata fondamentalmente allontanata dall’operato dell’altra Procura». Poi ha aggiunto: «In particolare esprimiamo fiducia nei confronti del dottor Gabriele Paci, il quale lavora col codice in mano non facendo sociologia o storia». Non è difficilissimo interpretare queste frasi. Trizzino non ha fatto nomi ma chi conosce la storia capisce. L’altra Procura a cui si riferisce l’avvocato dei Borsellino, e cioè la Procura che ha allontanato la verità, a occhio e croce è la Procura di Palermo. E anche il riferimento alla differenza tra il dottor Paci che usa i codici diversamente da altri magistrati che fanno invece «sociologia o storia», è in modo assai evidente molto polemico. Quali sono i nomi degli altri magistrati ai quali si riferisce Trizzino? Provate a indovinare. Trizzino ha pronunciato queste frasi alzando la voce e mostrando anche una certa emozione e una certa rabbia. Ha fatto anche riferimento esplicito al depistaggio operato attraverso il falso pentito Scarantino che per anni ha seppellito la verità sull’omicidio Borsellino. Naturalmente la dichiarazione dell’avvocato dei figli di Paolo Borsellino ha valore, tecnicamente, solo all’interno del processo di Caltanissetta. Però le parole che ha usato erano molto chiare e molto pesanti. E dimostrano una sfiducia evidente verso la Procura di Palermo e – sempre a occhio e croce – verso il processo Stato-Mafia tutto costruito non certo sui codici ma su ipotesi di tipo sociologico o storico. Precisazione dell’avvocato Trizzino – Con riferimento all’articolo del Riformista qui riportato, mi tocca precisare che l’altra Procura cui intendevo riferirmi, era quella diretta da Tinebra. Il richiamo, inoltre, all’osservanza del codice e al processo come luogo dove si accertano fatti attraverso le prove, rimanda ad una circostanza che molti purtroppo dimenticano o non conoscono. Invero, del capitolo della c.d. Trattativa Stato Mafia si è occupata in principio l’attuale Procura di Caltanissetta, proprio per l”attitudine a intravedere, in astratto, nella condotta dei protagonisti ipotesi delittuose configurabili come concorso in strage. L’applicazione rigorosa delle norme del codice di rito nella ricerca dei riscontri, ha condotto La attuale procura di Caltanissetta a concludere per l’irrilevanza penale delle condotte analizzate. Giudizio che, dopo un’ analisi attentissima delle carte, noi condividiamo. Ci tenevo a precisare, giacché il Riformista – quotidiano che apprezzo moltissimo- propone un’ interpretazione del mio pensiero che incolpevolmente sconta la possibilità di un fraintendimento della mia dichiarazione in aula al processo Messina Denaro, accompagnata forse da una foga eccessiva, la quale giammai giova alla linearità dell’esposizione.