Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LA GIUSTIZIA

 

OTTAVA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le condanne.

Cucchi e gli altri.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Massimo Bossetti è innocente?

Il DNA.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpevoli per sempre.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Morire di TSO.

Parliamo di Bibbiano.

Nelle more di un divorzio.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

L’alienazione parentale.

La Pedofilia e la Pedopornografia.

Gli Stalker.

Scomparsi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?

La Giustizia non è di questo Mondo.

Magistratura. L’anomalia italiana…

Il Diritto di Difesa vale meno…

Figli di Trojan: Le Intercettazioni.

A proposito della Prescrizione.

La giustizia lumaca e la Legge Pinto.

A Proposito di Assoluzioni.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Verità dei Ris

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Le Mie Prigioni.

I responsabili dei suicidi in carcere.

I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Gli scherzi della memoria.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La responsabilità professionale delle toghe.

Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Adolfo Meciani.

Alessandro Limaccio.

Daniela Poggiali.

Domenico Morrone.

Francesca Picilli.

Francesco Casillo.

Franco Bernardini.

Gennaro Oliviero.

Gianni Alemanno.

Giosi Ferrandino.

Giovanni Bazoli.

Giovanni Novi.

Giovanni Paolo Bernini.

Giuseppe Gulotta. 

Jonella Ligresti.

Leandra D'Angelo.

Luciano Cantone.

Marcello Dell’Utri.

Mario Marino.

Mario Tirozzi.

Massimo Luca Guarischi.

Michael Giffoni.

Nunzia De Girolamo.

Pierdomenico Garrone.

Pietro Paolo Melis.

Raffaele Chiummariello.

Raffaele Fedocci.

Rocco Femia.

Sergio De Gregorio.

Simone Uggetti.

Ugo de Flaviis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’uso politico della giustizia.

Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

I Giustizialisti.

I Garantisti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati specializzati.

Le Toghe Candidate.

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Le Intimidazioni.

Palamaragate.

Figli di Trojan.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Magistratopoli.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giornalistopoli.

Le Toghe Comuniste.

Le Toghe Criminali.

I Colletti Bianchi.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della Moby Prince.

Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.

L’affaire Modigliani.

L’omicidio di Milena Sutter.

La Vicenda di Sabrina Beccalli.

Il Mistero della morte di Christa Wanninger.

Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.

Il Mistero di Marta Russo.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Charles Sobhraj.

Il Mistero di Manson.

Il Caso Morrone.

Il Caso Pipitone.

Il Caso di Marco Valerio Corini.

Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.

Il Caso Claps.

Il Caso Mattei.

Il Mistero di Roberto Calvi.

Il Mistero di Paola Landini.

Il Mistero di Pietro Beggi.

Il Mistero della Uno Bianca.

Il Mistero di Novi Ligure.

Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.

Il mistero del delitto del Morrone.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Mistero del Mostro di Milano.

Il Mistero del Mostro di Udine.

Il Mistero del Mostro di Bolzano.

Il Mistero della morte di Luigi Tenco.

Il Giallo di Attilio Manca.

Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.

Il Mistero dell’omicidio Varani.

Il Mistero di Mario Biondo.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il Mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Cranio Randagio.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.

Il Mistero di Saman Abbas.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.

Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.

Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.

Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.

Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.

Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.

Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.

Il Mistero di Roberto Straccia.

Il Mistero di Carlotta Benusiglio.

Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.

Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.

Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.

Il Giallo di Sebastiano Bianchi.

Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.

Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il Mistero della "Signora in rosso".

Il Mistero di Polina Kochelenko.

Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.

Il Mistero di Giulia Maccaroni.

Il Mistero di Tatiana Tulissi.

Il Mistero delle sorelle Viceconte.

Il Mistero di Marco Perini.

Il Mistero di Emanuele Scieri.

Il Mistero di Massimo Manni.

Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.

Il Mistero di Bruna Bovino.

Il Mistero di Serena Fasan.

Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.

Il Mistero della morte di Vittorio Carità.

Il Mistero della morte di Massimo Melluso.

Il Mistero di Francesco Pantaleo.

Il Mistero di Laura Ziliani.

Il Mistero di Roberta Martucci.

Il Mistero di Mauro Romano.

Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo. 

Il Mistero di Wilma Montesi.

Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.

Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.

Il Mistero di Maurizio Gucci.

Il Mistero di Maria Chindamo.

Il Mistero di Dora Lagreca.

Il Mistero di Martina Rossi.

Il Mistero di Emanuela Orlandi.

Il Mistero di Gloria Rosboch.

Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".

Il Mistero del delitto di Garlasco.

Il Mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.

Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.

Il giallo di Stefano Ansaldi.

Il Giallo di Mithun.

Il Mistero di Stefano Barilli.

Il Mistero di Biagio Carabellò.

Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.

Il Caso Imane.

Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero di Serena Mollicone.

Il Mistero di Teodosio Losito.

Il Caso di Antonio Natale.

Il Mistero di Barbara Corvi.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Roberta Siragusa.

Il Caso di Niccolò Ciatti.

Il Caso del massacro del Circeo.

Il Caso Antonio De Marco.

Il Giallo Mattarelli.

Il Giallo di Bolzano.

Il Mistero di Luca Ventre.

Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.

Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.

Il Mistero di Federico Tedeschi.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero di Gianmarco Pozzi.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della strage di Bologna.

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Giornalistopoli.

Napoli, accesso libero ai giornalisti in procura. Gli avvocati? Solo su prenotazione.  La circolare che fa discutere. Il Dubbio il 12 giugno 2021. Giornalisti liberi di entrare, avvocati solo su appuntamento. È quanto accade a Napoli, dove una recente circolare della Procura sta facendo discutere gli avvocati. Stando al documento, il procuratore Giovanni Melillo, d’intesa con il dirigente amministrativo e dopo aver consultato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e il presidente della Camera Penale, ha disposto l’orario di apertura al pubblico degli uffici e degli sportelli dalle ore 8.30 alle ore I2.30. Ma se gli accessi degli avvocati presso gli uffici dei magistrati e le segreterie «saranno consentiti, oltre che per le attività prioritarie ed urgenti fissate dall’Ufficio, previo appuntamento, nella fascia oraria dalle ore 9 alle ore 13», gli accessi dei giornalisti in ufficio «sono consentiti senza alcuna autorizzazione». Una corsia preferenziale che non è passata inosservata. Stando alla comunicazione, «restano valide le altre misure organizzative già date con la Circolare numero 2 dell’8 marzo 2021. Quella circolare, dunque, tra le altre cose, stabilisce di tenere soltanto con modalità telematiche – o altrimenti differire, se non urgenti e improcrastinabili – le riunioni con altri uffici giudiziari e con gli organi di polizia giudiziaria; tenere a distanza, via telefono o con modalità telematiche, i contatti di lavoro e gli incontri con i difensori delle parti private, i consulenti tecnici e gli ausiliari della polizia giudiziaria limitandone l’afflusso in ufficio ai casi di assoluta necessità e previa richiesta di appuntamento, trasmettere le deleghe di indagine esclusivamente mediante posta elettronica; trasmettere le richieste di autorizzazione delle intercettazioni, i decreti d’urgenza, le richieste di proroga ed i relativi allegati all’Ufficio Intercettazioni utilizzando esclusivamente la posta elettronica, evitare, per quanto possibile, la circolazione del materiale cartaceo tra i vari uffici della Procura.

Magistratopoli e riforma della giustizia: la libera stampa alla scoperta dell’acqua calda. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Quanti giornalisti folgorati sulla via del garantismo. Che il vento stia cambiando, per il partito delle procure e dei manettari, lo si capisce da molte folgorazioni sulla via di Poggioreale o di San Vittore. Due delle più celebrate carceri italiane. Delle quali, per molti agitatori di cappi, dovevano essere gettate le chiavi per ogni semplice indagato eccellente dalle procure della repubblica. E non mi riferisco ovviamente solo a quella recentemente più celebrata del ministro degli esteri Luigi Di Maio. Che si é scusato per i linciaggi, mediatici e del suo partito, subiti dall’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti.  Che ora, dopo l’assoluzione in appello, definisce «grotteschi e disdicevoli». Nonostante per decenni sia stata la sorte, disdicevole e grottesca, di un’infinità di altri «presunti innocenti colpevoli fino a prova contraria». Come riportava il titolo di un articolo del Foglio del 23 aprile 2016. Mi riferisco anche alla folgorazione di tanti colleghi giornalisti. Che ovviamente si difendono dalle accuse di un forse un po’ tardivo ravvedimento operoso, ricordando che sono sempre obbligati ad «attaccare il ciuccio dove vuole il padrone». Che nel loro caso é l’editore. E non si può certo negare che vi siano stati editori che per decenni hanno «appaltato» di fatto il servizio di portavoce delle procure della repubblica. Alla faccia del «watch dog» che, secondo gli anglosassoni, dovrebbe essere il ruolo della stampa. Cioè del cane da guardia contro gli eccessi di ogni potere. Che in Italia, per almeno tre decenni, é stato solo uno che meritasse di essere considerato tale. Quello giudiziario. O meglio, quello della magistratura inquirente. Alla faccia di quanto insegnato da Monsieur Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu. Meglio noto semplicemente come Montesquieu. Che sanciva la moderna dottrina del «checks and balances», che significa controllo reciproco e contrappesi. Oltre alla loro più conosciuta separazione, tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Sparare contro la crocerossa, aiuta a soccorrere i (presunti) vincitori. Ogni giorno sembrano crescere i giornalisti folgorati da questo nuovo garantismo de noantri. Forse perché ispirati dal cambiamento del vento. Che soffia verso la riforma della giustizia «perché ce la chiede l’Europa». O forse semplicemente perché Salvini potrebbe guidare il Paese nei prossimi anni.  E non si sa mai. Un caso tra i tanti che sembra dimostrare questo cambiamento, quello di Milena Gabanelli. Una delle più accreditate giornaliste italiane d’inchiesta. Che solo qualche anno fa qualcuno voleva persino alla Presidenza della Repubblica. E che io ammirai per il suo schernirsi. Dicendo che era laureata al Dams di Bologna (in arte, musica e spettacolo) e non riteneva quindi di averne le qualità. Certamente un merito, in un Paese dove tutti si dicono capaci di fare tutto. Soprattutto di gestire la cosa pubblica. Anche quando non possono dimostrare di aver fatto qualcosa di serio nella loro vita. Arrivando a candidandosi persino alla guida del paese, pur non avendo mai gestito in vita propria nemmeno un condominio o una tabaccheria. Meglio tardi che mai. Ma dove stavate prima? Milena Gabanelli, assieme a Virginia Piccolillo, nella rubrica Dataroom del Corriere della Sera, giornale cui confesso essere ancora abbonato, nonostante la grande cautela con la quale ha trattato la magistratopoli scoperchiata dal «Palamaragate», il 30 maggio ha pubblicato un video servizio dal titolo : « Giudici, cosa succede quando sbagliano : magistratura, processi e carriere». Alla brava Gabanelli, e con essa anche al suo giornale, mi verrebbe da dire meglio tardi che mai. Mi viene però anche da chiedere, e più che a lei a tanti altri giornalisti cosiddetti investigativi e della cronaca giudiziaria: ma dove stavate negli ultimi trent’anni? Non certo in Italia. Perché quelle raccontate oggi da Gabanelli e Piccolillo sono cose che Stefano Liviadotti aveva denunciato nei dettagli, quasi tre lustri fa, nel libro edito da Bompiani, “Magistrati. L’ultracasta”. Spiegando le ragioni tecniche per le quali era impossibile (e penso ancora sia) una riforma della giustizia italiana che non sia unicamente leopardesca. Ed il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga in un celebre intervento telefonico in diretta durante una trasmissione di Sky Tg24 dello stesso periodo, non si limitò ad umiliare pubblicamente l’allora presidente dell’ANM Luca Palamara. Che definí «faccia di tonno». Ma arrivò persino a definire l’Associazione Nazionale Magistrati come un’“associazione sovversiva di tipo mafioso”. Parole di una gravità assoluta seguì dall’assordante silenzio della stragrande maggioranza dei media italiani. Come se a lanciare quella devastante pubblica accusa, che in altro paese europeo avrebbe meritato ben più che l’immediata apertura di un’inchiesta giudiziaria (che non ci fu, da quanto ne so), seguita dalla costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, non fosse stato un presidente della repubblica emerito. Che come tale era anche presidente emerito del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che un professore di diritto costituzionale. Ma uno dei tanti imbecilli che, secondo Umberto Eco, «prima dell’avvento dei social media, parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Perché venivano subito messi a tacere».

Leggetevi Stefano Livadiotti e riascoltate Francesco Cossiga. Negli ultimi tempi, sempre più «giornalisti coraggiosi» sembrano invece diventati bravi a dare lezioni sulle scandalose storture nella magistratura italiana.  Stracciandosi i capelli con l’italica vocazione a fare i primi della classe, incuranti di aver per anni marinato la scuola. Fingendo di chiudere le stalle quando sanno che i buoi sono già scappati. Fingendo soprattutto di non sapere che in questi ultimi decenni solo Piero Sansonetti, e davvero pochissimi altri (oltre a Cossiga e Livadiotti), hanno avuto il coraggio di dire e scrivere ciò che era invece sotto gli occhi di tutti. Quanto meno degli addetti ai lavori (politici, forze di polizia, giornalisti e anche avvocatura) che non avessero avuto il prosciutto sugli occhi. Che tanti si si sono messi con piacere.  Perché molto utile alla propria carriera. Ed é noto che in italia non c’é nessuno che non «tenga famiglia». Ma a chi ora sembra essere votato al soccorso dei presunti vincitori del garantismo vs giustizialismo, voglio dare un consiglio. Quello di leggersi il libro di Liviadiotti. Poi quello di Palamara-Sallusti. Senza dimenticare, prima di cedere alla italica tattica del correre sempre in aiuto dei vincitori, di leggere quello più recente, edito da Feltrinelli, a firma di un capo di gabinetto ministeriale, che ha voluto però restare anonimo. Dal titolo «Io sono il potere. Confessioni di un Capo Gabinetto». Capirá così non solo che la luna é gia stata scoperta da tempo. Al pari dell’acqua calda. Ma anche che l’arrivo della riforma della magistratura, nonostante un premier del livello di Mario Draghi ed i proclami di Matteo Salvini, é tutt’altro che cosa scontata. Almeno sinché il Ministero della Giustizia ed i gabinetti dei Ministri rimarranno in mano ai magistrati. Fuori ruolo, certo. Ma pur sempre magistrati. E forse opterà per la scelta del più prudente rifoderarsi gli occhi di prosciutto. Prima di farsi magari rifolgorare sulla via del giustizialismo manettaro. Perché il ciuccio, come noto, si deve sempre attaccare dove vuole il padrone e l’editore. O forse, semplicemente, dove si trova il proprio particulare.

Piero Sansonetti per ilriformista.it il 22 marzo 2021. Dopo magistratopoli ora scoppia giornalistopoli. Ma se i giornali sono stati molto silenziosi sullo scandalo Csm (e restano per abitudine silenziosissimi su qualsiasi scandalo che riguardi i magistrati), ora diventano veramente muti su giornalistopoli. Muti al 100 per cento. È un ordine di scuderia. Non ci sarebbe niente di male. Le intercettazioni che toccano i più importanti giornalisti dei più importanti giornali italiani, messe a disposizione degli stessi giornali dalla Procura di Perugia che indaga sul caso Palamara, sono pure e semplici intercettazioni e non dimostrano che esista alcun reato da parte dei giornalisti. Sono intercettazioni infami, come sempre lo sono le intercettazioni. Dunque, a rigor di logica, perché bisognerebbe pubblicarle? Per una sola, piccolissima, ragione. Perché i giornalisti che stavolta sono stati intercettati sono esattamente gli stessi che di solito pubblicano paginate intere di intercettazioni, generalmente ai politici o ai loro amici o familiari, sebbene queste intercettazioni non contengano nessuna notizia di reato. Spesso, anzi, pubblicano intercettazioni che sono ancora segrete, e che qualche Pm ha deciso di far filtrare per mettere in difficoltà gli indiziati, o per ottenere qualche aiuto nell’inchiesta o, più semplicemente, per iniziare a punire non essendo sicuri di poter poi ottenere la condanna, visto che le prove latitano. Le intercettazioni, e la loro pubblicazione, hanno un effetto fondamentale e incontrollato e immediato: sputtanano. Comunque, chiunque. Nella pubblicazione generalmente non c’è mai un’opera di mediazione o di ragionamento. Mai un elemento a difesa o una proposta di attenuanti. C’è un solo ragionamento, evidentemente, che viene fatto nelle redazioni dei giornali: quali conviene pubblicare, quali è meglio censurare. Se il giornalismo italiano non fosse quasi interamente sottomesso alla logica delle Procure e delle intercettazioni, non ci sarebbe nessun motivo per stupirsi del fatto che restino segrete le intercettazioni che riguardano le principali firme di giudiziaria (e non solo di giudiziaria) del Corriere della Sera e di Repubblica e della Stampa e di svariati altri giornali. Sono tutte intercettazioni che son state prese con i trojan sul cellulare dell’ex procuratore aggiunto di Roma Luca Palamara. Esattamente uguali a quelle che furono ampiamente pubblicate perché riguardavano uomini politici. Luca Lotti, considerato all’epoca vicino a Renzi, è stato praticamente vivisezionato. Sebbene la legge proibisse le intercettazioni dei suoi discorsi privati: è vietato intercettare i parlamentari, e Lotti è un parlamentare. È vietato anche perché è previsto dal buonsenso, e dalla Costituzione, che un dirigente politico debba avere una parte della sua attività che resti riservata. Può essere una attività di diplomazia, di compromessi, di trattative, di accordi. Senza queste cose la politica non esiste. La politica non è solo retorica. È anche governo. E il governo non si fa gridando slogan e basta. E invece sui politici nessuna indulgenza, anzi, nessun rispetto della legalità. L’ordine di servizio, in questo caso è: sputtaniamoli. Anche se non hanno fatto niente di male.  Tutto cambia se invece le vittime del trojan diventano i magistrati e i giornalisti. Cioè la casta. Sarà forse giunto il momento di dirlo: la casta, la vera casta, è quella; la corporazione potentissima che raduna la parte più aggressiva e politicizzata della magistratura e del giornalismo. Diciamo, più semplicemente, il partito dei Pm. Il cui leader massimo, non a caso, non è un Pm ma un giornalista. È Marco Travaglio. Noi abbiamo dato solo uno sguardo a queste intercettazioni. Cosa ci dicono? Che i giornalisti più importanti dei grandi giornali parlavano con Palamara e partecipavano alle operazioni politiche in corso per determinare i nuovi equilibri nella magistratura. C’è una giornalista che dice a Palamara che se l’avesse saputo prima (non ha importanza cosa) l’articolo lo avrebbe scritto lei e in un altro modo. Viene avanzata, da parte di Palamara, l’ipotesi che un altro importante giornalista sia legato ai servizi segreti. Che certo non è un delitto, però dal punto di vista dell’etica giornalistica, se fosse vero, sarebbe una gran brutta cosa. Perché, per dire, magari preferirei essere informato da persone che non hanno da rispondere ai servizi segreti, non vi pare? Poi c’è addirittura un lungo colloquio tra Palamara e il vicepresidente del Csm dell’epoca nel quale si discute di come sia possibile influenzare Repubblica, se è meglio farlo attraverso pressioni sulla cronista di giudiziaria o sul caporedattore, e il vicepresidente del Csm si offre per parlare con Repubblica ad alto livello, e si discute della necessità di una “azione di orientamento” e si dice quale linea deve passare all’interno di quel giornale. Non ho fatto nomi. Non mi interessano i nomi. Quello che è bene che si sappia è la sostanza: oggi il giornalismo politico, in Italia, è del tutto subalterno al giornalismo giudiziario. Questo grazie alle grandi campagne moralizzatrici condotte dai giornali negli anni scorsi. Cioè le campagne che hanno demolito la reputazione della politica e messo in discussione persino la necessità della democrazia, dipinta come un sistema sostanzialmente corrotto. Queste campagne sono state guidate dalla magistratura (e dalla sua rappresentanza parlamentare, cioè i 5 Stelle), e forse dai servizi segreti. In questo modo è stato distrutto il giornalismo politico ed è stato reso un sottoprodotto del giornalismo giudiziario. Il giornalismo giudiziario – non tutto, certo, ma quasi tutto – è assolutamente eterodiretto. E, per definizione, privo di indipendenza. E dunque non è più giornalismo. La gigantesca opera di reticenza di questi giorni dimostra che le cose stanno esattamente così. Che il giornalismo in Italia non esiste più. Che giornalistopoli esiste, è forte, e non ha nemici. Dunque non sarà stroncata. E magistratopoli regge e non si sgretola proprio perché è sostenuta da giornalistopoli. Se poi vi aspettate che qualche giornale o qualche Tv vi racconti queste cose, siete proprio ingenui. L’informazione, quasi tutta, ormai è agli ordini del Fatto.

Pm e stampa a braccetto, così prevale il pregiudizio. «Presunzione di innocenza e diffusione delle notizie di reato» è il titolo del webinar organizzato dalla Scuola di Diritto Avanzato. Valentina Stella su Il Dubbio il 22 marzo 2021. «Presunzione di innocenza e diffusione delle notizie di reato» è il titolo del webinar organizzato dalla Scuola di Diritto Avanzato, in collaborazione con Studio Cataldi. L’avvocato Luigi Viola, direttore scientifico della scuola, ha introdotto: «Ci siamo chiesti fino a che punto la diffusione della notizia di reato, ancorché astrattamente legittima, non metta in crisi la presunzione di innocenza. La diffusione delle notizie comporta che, contrariamente al principi costituzionali di presunzione di innocenza e giusto processo, l’immagine dell’indagato venga lesa perché viene considerato molto probabilmente già colpevole da una opinione pubblica indotta a credere che la notizia di reato corrisponda alla realtà dei fatti. L’informazione di garanzia nasceva per tutelare l’indagato affinché potesse difendersi. Ma nel momento in cui essa viene diffusa non è più una tutela dell’indagato ma un elemento contro di lui». Tra i relatori il professor Giorgio Spangher: «Il problema è complesso, bisogna bilanciare diritto di cronaca e diritto di difesa. Tuttavia sono tante le patologie che vanno a ledere sia il diritto di difesa dell’indagato sia la verginità cognitiva del giudice. Ci vorrebbe più attenzione da parte del Csm e dell’Anm e quando necessario occorrerebbe sanzionare condotte errate. In generale il pm dovrebbe assumere un atteggiamento sobrio quando va ad impattare sui media; ci dovrebbero essere meno fughe di notizie; si dovrebbero evitare i processi mediatici paralleli». L’avvocato Cataldo Intrieri, ricordando la recentissima scomparsa di Mario Sarzanini, il decano dei cronisti della giudiziaria di Roma, ha detto: «La vecchia figura del cronista di una volta innamorato della notizia è stata sostituita da quella di un giornalista che persegue lo spinning, ossia che orienta l’opinione pubblica attraverso una attività di manipolazione volta a favorire la tesi dell’accusa». Le conclusioni sono state affidate a Giovanni Canzio, Presidente emerito della Corte di Cassazione: «Se il processo penale era nato per avere come baricentro il dibattimento, oggi quel baricentro si è spostato tutto sulle indagini preliminari, anche a causa dell’intreccio tra uffici di Procura e organi di stampa: nella collettività prevale così il pregiudizio di colpevolezza dell’imputato, alimentato dalla gogna mediatica». Eppure, conclude, se «la presunzione di innocenza dell’imputato ha ricevuto un rafforzamento straordinario con la direttiva Ue 343/ 2016 che raccomanda e pretende che gli Stati membri facciano rispettare da tutti gli organi dello Stato il principio della presunzione di non colpevolezza, in l’Italia la direttiva non trova ancora attuazione».

·        Le Toghe Comuniste.

Salvi, l’incorruttibile che ama la legge. Troppo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Dicembre 2019. Giovanni Salvi è il nuovo procuratore generale della Cassazione. Cioè, più o meno, è il capo della magistratura. Lo ha votato e proclamato il Csm, riunito sotto la presidenza di Sergio Mattarella. Succede a Riccardo Fuzio che ha dovuto lasciare l’incarico, questa estate, perché è finito nella trappola delle intercettazioni nel caso Palamara. Giovanni Salvi è un esponente di Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei Pm. Però ha ottenuto consensi trasversali: 12 voti, compresi quelli della destra di Davigo e Di Matteo. Luigi Riello, il suo principale competitor, procuratore generale a Napoli, ha preso solo 4 voti e altri 3 voti li ha presi Marcello Matera, avvocato generale della Cassazione. Salvi è un magistrato molto serio e molto stimato, che nella sua lunga carriera ha attraversato tutta la storia degli ultimi 40 anni della Repubblica. Ha 67 anni, è pugliese di Lecce, ha studiato a Roma. È in magistratura dal 1979. Suo padre era un grande avvocato salentino, e anche sua sorella è avvocato a Lecce. Suo fratello invece, Cesare, di qualche anno più anziano di lui, ha insegnato in varie università, sempre Diritto, ma soprattutto ha dedicato gran parte della sua vita alla politica, nel Pci, prima, ai tempi di Berlinguer, e poi nel Pds e nei Ds. Non ha mai aderito al Pd, invece, si è dissociato da posizioni di sinistra e poi si è ritirato dalla politica. Ho conosciuto bene Giovanni Salvi quando eravamo ragazzi. Militavamo insieme nel Pci e precisamente nella sezione universitaria. Sto parlando dei primi anni Settanta. Io ero il segretario della sezione, lui il segretario della cellula di Legge (allora dicevamo così: Legge, non dicevamo giurisprudenza). Noi della sezione universitaria, in generale, eravamo ragazzi scapestrati e un po’ sovversivi. Lui, devo dire, non lo era. Come tutti noi non aveva una lira in tasca, era uno studente fuorisede e viveva in un appartamentino scalcinato a San Lorenzo, insieme ad altri due studenti comunisti, uno si chiamava Amato Mattia, e poi diventò amministratore dell’Unità, l’altra si chiamava Pina Monaco, erano tutti e tre studenti di Legge e tiravano avanti col presalario Pina, il guadagno di Amato che scaricava i pacchi di giornali dai camion, e qualche lira che i genitori mandavano a Giovanni. Si mangiava alla mensa della Casa dello Studente, pranzo e cena in tutto a 400 lire. Qualche volta noi ci autoriducevamo il prezzo di pranzo e cena e pagavamo solo 100 lire, per supposte ragioni politiche. Giovanni non mi pare che abbia mai aderito a queste proteste. Era serissimo, studiosissimo, molto berlingueriano, favorevole al compromesso storico, mentre noi studiavamo poco, sempre presi dalle assemblee, dai cortei, dalle riunioni, dai volantini, eravamo anche critici con Berlinguer o perché eravamo stalinisti oppure perché eravamo ingraiani. Giovanni amava i cani e la natura, ma siccome San Lorenzo non era molto verde, spesso se ne andava a studiare tra gli alberi del Verano, cioè al cimitero. Sapeva sfruttare al massimo le poche virtù della città. Poi l’estate tornava giù in Puglia, e tornava anche ad essere ricco, perché i suoi avevano una villa bellissima a picco sul mare, sopra la grotta della Zinzulusa, a Castro. Io ho lasciato l’Università nel 1975, e credo anche lui. Dopo aver combattuto e stravinto le prime elezioni universitarie che permettevano agli studenti di entrare negli organi di governo degli atenei. Io andai a fare il giornalista, lui l’avvocato e poi il magistrato. Ci siamo persi di vista, ma da lontano ho seguito la sua carriera. È stata una carriera notevole, da Pm a Roma e a Catania, da membro del Csm, da magistrato impegnatissimo. Per diventare Procuratore a Catania dovette combattere con Giovanni Tinebra che voleva quell’incarico e sosteneva che Salvi di mafia non sapesse niente. Tinebra ne sapeva? Era quello che quando indagò sull’uccisione di Borsellino credette (nel migliore dei casi, diciamo, credette) al pentito falso Scarantino e finì per nascondere per sempre la verità. Per fortuna la corsa a Procuratore di Catania la vinse Salvi. Salvi non ha mai amato la pubblicità, i giornalisti, tantomeno le fughe di notizie. Eppure è stato protagonista di processi importantissimi. È lui che nell’82 riaprì il processo per la morte del banchiere Calvi, che era stata archiviata come suicidio (sto parlando del tragicissimo scandalo del Banco Ambrosiano). È lui che ha indagato su Ustica (l’aereo dell’Itavia abbattuto non si sa da chi, forse dai libici, forse dai francesi, forse dagli americani), sull’omicidio Pecorelli e soprattutto su Pippo Calò, il cassiere della mafia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Indagò anche sulla banda della Magliana e poi si mise in testa di inseguire un certo Contreras Sepulveda che era stato il capo della polizia politica di Pinochet, in Cile, e aveva fatto ammazzare un sacco di gente, anche di Italiani. Riuscì a farlo condannare. Salvi è un magistrato molto molto esperto. Gran parte delle sue inchieste – non tutte, naturalmente – sono state coronate da successo. Dico non tutte perché, per esempio, Andreotti fu pienamente assolto per l’omicidio Pecorelli. È una persona che ama davvero la legge e il diritto. Molto, anzi troppo. Come tantissimi altri magistrati ha un’idea della legge quasi religiosa. Non solo della legge, anche della macchina della giustizia. La considera la cosa più importante che c’è, in una società moderna. La mette al di sopra di tutto, di tutti gli altri valori e di tutti gli altri meccanismi sociali. Per Salvi una società moderna e giusta è una società dove tutti i colpevoli vengono scovati e puniti e dove scovare i colpevoli è un dovere assoluto, una missione, sovraordinata a ogni altra missione e a ogni altra attività. Al vertice della civiltà Salvi vede il Tribunale. Lo dico anche con affetto, perché non riesco a non avere affetto per il vecchio amico e per una personalità seria e specchiata. Però anche con un po’ di paura. La paura di sempre: che quelli come lui abbiano in mente il sogno dello Stato etico…

L'ammissione e i tanti distinguo. La mafia stragista non c’è più, ma l’antimafia è diventato un partito: lo ammette anche Pignatone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Finalmente qualcuno l’ha detto: Cosa nostra non c’è più. Quindi: viva l’antimafia! Il tono del giudice Pignatone ha la morbidezza che si addice al presidente del tribunale vaticano, ma il concetto è chiaro. E non significa che non esista ancora qualche forma di mafia che faccia i propri affari, ma che la stagione sanguinaria che ha lasciato sul selciato delle strade di Palermo centinaia di morti, quelli delle istituzioni e gli altri, è ormai lontana nel tempo e solo nei tristi ricordi di chi ha una certa età. Una realtà che pare rivivere ogni anno, a ogni ricorrenza di luglio o di agosto, quasi fosse vero che La mafia uccide solo d’estate, il famoso film di Pif del 2013. Pignatone le elenca con puntiglio, le vittime più significative, quelle uccise per vendetta e quelle per la loro simbologia: da Rocco Chinnici fino a Falcone e Borsellino. E non può fare a meno di notare, anche se non lo dice esplicitamente, che nel suo elenco, fatta eccezione per l’assassinio di don Pino Puglisi, avvenuta nel 1993, le stragi terminano proprio lì, tra il 29 maggio e il 19 luglio del 1992, con l’annientamento dei due giudici che rimarranno per sempre i simboli della “lotta alla mafia”. È lì che è terminato il potere di Cosa nostra. Ed è lì che anche l’antimafia avrebbe dovuto deporre le armi, dopo gli arresti dei boss latitanti. Invece si sono costruiti carriere e processi, come quello sulla “trattativa” o quelli contro Silvio Berlusconi. La realtà è che restano solo le ricorrenze, con le celebrazioni e le sfilate degli uomini dello Stato. Ma resta anche quel comma tre dell’articolo 416 bis del codice penale che non dovrebbe avere più senso, e che recita “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…”. Un concetto anacronistico, che pare però così inamovibile da aver indotto il legislatore ad aumentare le pene all’infinito, fino a 26 anni di carcere solo per il reato associativo, se l’organizzazione mafiosa dispone di armi. Anche se, come abbiamo visto dalla ricostruzione storica del dottor Pignatone, per fortuna le armi paiono ormai in disuso. È ormai un ritornello, lo dice sempre anche il procuratore Gratteri di Catanzaro, che ormai le mafie sono nulla di più che comitati d’affari. E i reati dovrebbero esser perseguiti più come reati economici che non di tipo “mafioso”. Ma il punto è che della mafia resta solo l’antimafia. In un articolo su La Stampa (ma quello di ieri è di Repubblica) del gennaio scorso il presidente del tribunale vaticano operava un distinguo non da poco tra i reati di mafia e quelli di corruzione. Contro i primi si deve “lottare”, sosteneva, per i secondi dovrebbero bastare le regole dello Stato di diritto. Se l’ex ministro Bonafede, è sottinteso (ma neanche tanto), con l’introduzione della legge “spazzacorrotti”, non avesse equiparato i due fenomeni. Che sono diversissimi perché quello della criminalità organizzata è un fenomeno deviante che va studiato e approfondito prima di poter essere combattuto, diceva il dottor Pignatone. Trasformando quindi il pubblico ministero in una sorta di soggetto multitasking. Più che sbirro, meglio sociologo, storiografo, storico. Anche psicologo, suggerisce Gratteri. Poco laico, in definitiva. Ma pur sempre guerriero, in lotta contro i fenomeni criminali. Così succede che, mentre con la mano destra il giudice Pignatone scrive che Cosa nostra è morta, con la sinistra introduce i suoi “però”. E il però sta nella lotta antimafia come il baco sta nella mela. Pare turbato da un piccolo episodio che non dovrebbe preoccupare ma solo far ridere. Racconta dell’intercettazione recentissima di un boss che si lamenta perché la figlia di una sua amica aveva chiesto alla mamma di partecipare a una commemorazione di Giovanni Falcone. Ma stiamo parlando di un pericoloso criminale sanguinario o di Maria Montessori che discetta sull’educazione dei pargoli? Se un capomafia occupa il suo tempo a discettare sulle abitudini di una ragazzina, è proprio vero che Cosa nostra non c’è più. L’antimafia rappresenta un po’ la nostalgia dei tempi andati, quando la lotta aveva un ruolo reale: loro sparavano e tu li arrestavi. Ma continuare oggi con questa insistenza da giapponesi nella giungla a guerra finita è un po’ patetico e un po’ ancoraggio a quello Stato Etico unico governatore del bene e del male che poi rimproveriamo ai Talebani, senza renderci conto di quanto ancora alberghi nella cultura di tanti magistrati, compreso Giuseppe Pignatone. Che è uomo di cultura, ma anche di potere. Se così non fosse non avrebbe avuto lunga vita al vertice della Procura di Roma. Probabilmente non ci sarebbe neppure arrivato. Vero, Palamara? Se oggi neppure lui può mollare l’antimafia, è perché questa è diventata nel corso degli anni un vero partito, oltre che un centro di potere molto redditizio dal punto di vista politico. C’è la Commissione parlamentare il cui ruolo ormai consiste solo nel dare prebende sotto forma di consulenze a un po’ di magistrati, ma che controlla i partiti attraverso le liste elettorali. E poi c’è tutta la schiera dei pubblici ministeri “antimafia”, i più titolati a influenzare anche governo e Parlamento e a gestire processi come quello sulla “trattativa”. E a dare la benedizione del bollino blu. Un po’ come quello, ancor più obsoleto, dell’antifascismo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Gli anti-berlusconiani irriducibili rileggano Palamara. Il giornalista Furio Colombo chiede per il Cavaliere l'oblio. In nome di una giustizia ingiusta. Vittorio Sgarbi - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. Con una fiducia cieca in un una giustizia marcia, il mio amico Furio Colombo scrive sul Fatto quotidiano l'ennesimo articolo su Silvio Berlusconi, rimpiangendo che non sia passato per le patrie galere, e che anzi venga scortato dai carabinieri, «riceva il saluto marziale e metallico dei corazzieri», che molti militari di molte armi si irrigidiscano al suo entrare e al suo uscire con il loro saluto a questa autorità impropria ma resistente. Potrebbe essere plausibile se, negli stessi giorni in cui Colombo legge il libro di Giuseppe Pesce Il lato B, centinaia di migliaia di italiani non avessero acquistato e letto il libro di Sallusti con Palamara in cui si chiariscono molti aspetti inquietanti sulla condanna di Berlusconi. Avendo lavorato per Agnelli, diffamato sul suo stesso giornale in un articolo di Tomaso Montanari, Colombo non può non sapere quale fu il rapporto di sudditanza dello Stato nei confronti di Agnelli, e quali fossero le incriminazioni di cui avrebbe potuto rispondere la classe dirigente della Fiat, parzialmente risparmiata dai magistrati. Ma soprattutto, sulla base dei paradossi giudiziari, come carabinieri e corazzieri abbiano salutato nel corso dei suoi mandati parlamentari Palmiro Togliatti, personalità politicamente certo più significativa di Berlusconi, e certamente responsabile della morte di Imre Nagy, ex presidente del Consiglio ungherese, avendo condiviso e sostenuto l'intervento armato sovietico contro la rivoluzione ungherese. Un comunista insospettabile come Pietro Ingrao ha testimoniato la soddisfazione di Togliatti per l'avvenuta invasione della ribelle Ungheria: e quando gli confidava di non dormire la notte per le vicende ungheresi, il segretario rispondeva di «aver bevuto un bicchiere di vino rosso in più» la sera del 4 novembre 1956. Analoga la posizione rispetto al maresciallo Tito, nonostante la persecuzione di innumerevoli innocenti con la disumana pratica delle foibe. Il 7 novembre 1946 Togliatti va a Belgrado e rilascia all'Unità la seguente dichiarazione: «Desideravo da tempo recarmi dal maresciallo Tito per esprimere la mia schietta e profonda ammirazione». Indiscutibile complice, nonché diretto responsabile di assassinio, come lo fu Mussolini con Matteotti, fautore della politica di Stalin, Togliatti ha avuto responsabilità storiche e politiche di gran lunga superiori a quelle di Berlusconi. Eppure, da ministro e da parlamentare, nessuno gli ha risparmiato gli onori dovuti al capo di un partito. «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone!». Come sembra ignorare le responsabilità di Togliatti, così Colombo è certo di quelle di Berlusconi. Lo indurrei a meditare su queste parole di Palamara: «La magistratura si legge nel libro vuole farsi trovare pronta ai blocchi di partenza della nuova sfida a Berlusconi. È un segnale al governo che sta per arrivare, ma anche al nostro interno: non tollereremo un'opposizione blanda al berlusconismo». Solo dopo mi occuperei dei saluti dei corazzieri.

Giustizia, arriva il corso pro-gay E scoppia la polemica "Propaganda arcobaleno". Parte il corso del Consiglio Nazionale Forense dedicato all'inclusione delle persone LGBTIQ+. L'associazione Pro Vita e Famiglia: "La propaganda arcobaleno entra nelle aule e negli studi". Francesca Bernasconi, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Dalla difesa dei diritti fondamentali, alle problematiche legate alla discriminazione sessuale, fino agli stereotipi del linguaggio. Sono alcuni degli argomenti su cui verterà il nuovo corso del Consiglio Nazionale Forense (CNF), dedicato alle persone LGBTIQ+ e a quelle appartenenti ad etnie diverse dalla maggioranza della popolazione. Il corso "dedicato alla diversità e all'inclusione" prenderà il via giovedì 11 febbraio alle ore 14.30 e i posti sono già esauriti. Ad organizzarlo, come riportato sulla pagina Facebook del CNF che ne ha annunciato l'inizio, è stata la Commissione diritti umani. La partecipazione al corso conferirà 18 crediti formativi. Prima degli interventi, i partecipanti saranno accolti dal saluto introduttivo della Presidente facente funzioni del CNF Maria Masi. Poi, ad aprire le "lezioni" sarà il Presidente emerito Guido Alpa, che guiderà una "lectio magisrtralis" e un dibattito relativi al ruolo dell'avvocatura nella difesa dei diritti fondamentali, in cui interverranno anche Stefania Stefanelli, dell'Università di Perugia, Vincenzo Miri, Presidente di Avvocatura per i Diritti LGBTI - Rete Lenford e Hilarry Sedu, consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. L'iniziativa ha scatenato la reazione immediata dell'associazione Pro Vita e Famiglia onlus, che vede il corso come un "indottrinamento" dei professionisti forense secondo la "propaganda arcobaleno". "'Indottrinare' i professionisti forensi ormai è una pratica non solo consentita ma addirittura incentivata- ha dichiarato il presidente dell'associazione, Toni Brandi- Il corso sull’inclusione delle persone LGBTQI+ e di origine etnica e razziale diversa dalla maggioranza, pubblicato sulla pagina Facebook del Consiglio Nazionale Forense, è già tutto esaurito e prevede addirittura 18 crediti formativi a chi vi parteciperà giovedì 11 febbraio, alle 14.30, sulla piattaforma Zoom". Un'iniziativa che permetterebbe alla "propaganda arcobaleno" di entrare nella auke, che diventeranno "lo specchio della sopraffazione ideologica". Ma l'assunzione o meno di una persona, si chiede il presidente Brandi, non dovrebbe essere legata alle proprio capacità? Una persona dovrebbe essere assunta non per "un un determinato colore o orientamento sessuale", ma per le proprie abilità e competenze. "Nel mondo forense non c’è discriminazione- conclude- e non credo che gli avvocati abbiano bisogno di corsi per capire quello che già prevede l’articolo 3 della Costituzione". Sulla stessa linea anche il vicepresidente di Pro Vita e Famiglia onlus, Jacopo Coghe, che ha commentato l'iniziativa. Tra gli aspetti del corso che ha destato maggior stupore c'è, infatti, quello relativo ai "Punti di forza dell’avvocato inclusivo. La capacità di valorizzare ed attrarre i talenti e comprendere l’evoluzione del mercato e dei clienti. Esperienze dagli studi professionali e dalle aziende". "Insomma- ha precisato Coghe- l’inclusività come fattore di successo imprenditoriale e professionale. Quindi ci dicono che chi non si adegua a questa visione 'dottrinale' è destinato all’insuccesso e al fallimento?". Secondo Coghe, è bene che gli avvocati e i professionisti forensi non cadano in questi ragionamenti. E lancia un appello conclusivo: "Non si lascino insegnare la lingua orwelliana del finto rispetto e si ricordino che tutti sono uguali davanti alla legge".

Felice Manti per "il Giornale" il 10 febbraio 2021. Ci mancava solo «l'avvocato inclusivo», esperto dei diritti del mondo LGBTIQ+ e delle «etnie diverse dalla maggioranza della popolazione». Un legale che abbia «la capacità di valorizzare e attrarre i talenti e comprendere l'evoluzione del mercato e dei clienti». Andiamo verso un mondo in cui la legge non sarà uguale per tutti, ma alcuni clienti saranno «più uguali» di altri e gli studi legali dovranno specializzarsi nella «difesa dei diritti fondamentali», nelle «problematiche legate alla discriminazione sessuale» e contro «gli stereotipi del linguaggio». Ecco spiegato perché il nuovo corso del Consiglio nazionale forense dedicato al tema - che inizierà domani alle 14.30 - è andato esaurito. Non tanto per i 18 crediti formativi che spettano a chi segue in corso, ma anche per il parterre dei relatori come Stefania Stefanelli dell' Università di Perugia, Vincenzo Miri, Presidente di Avvocatura per i diritti LGBT - Rete Lenford e Hilarry Sedu, avvocato napoletano di origine nigeriana consigliere dell' Ordine degli Avvocati partenopeo, recente protagonista di uno spiacevole episodio in Tribunale, con un giudice onorario che gli ha chiesto: «Ma lei è laureato?». Ad aprire le lezioni sarà però la lectio magistralis di Guido Alpa, presidente emerito del Consiglio nazionale forense e mentore personale dell' ormai ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. A pensar male si fa peccato, ma non è un caso che proprio il governo giallorosso avesse messo in cima alle sue priorità la legge Zan, già approvata in uno dei due rami del Parlamento, che potrebbe istituire il reato di «omotransfobia» per chiunque discrimini qualcuno basandosi «sull' orientamento sessuale o sull' identità di genere». Come ha fatto il giudice onorario che non ha riconosciuto il legale di colore. È chiaro che parliamo di un reato certamente odioso per chi lo subisce. Ma così come è stato formulato, secondo molti osservatori, lascia un' ampia discrezionalità dei giudici. Per cui persino chi contesta pratiche odiose come l'utero in affitto, sostenendo che un bambino ha diritto a una mamma e a un papà, rischia un' accusa di omotransfobia. L'iniziativa del Cnf ha scatenato la reazione immediata dell' associazione Pro Vita e Famiglia onlus, che vede il corso come un «indottrinamento» dei professionisti forense secondo la «propaganda arcobaleno» che rischia di diventare «lo specchio della sopraffazione ideologica» anche nelle aule di tribunale. «Quindi chi non si adegua a questa visione dottrinale è destinato all' insuccesso e al fallimento?», si chiedono Toni Brandi e Jacopo Coghe. Il corso del mentore di Conte è solo l' antipasto di come le aule di tribunale potrebbero trasformarsi in processi contro appunto «gli stereotipi del linguaggio». Come direbbe Gilbert Keith Chesterton «prosegue la grande marcia della distruzione intellettuale».

Ai magistrati dico: il Csm non è proprietà dell’Anm. Alessio Lanzi su Il Dubbio il 18 gennaio 2021. Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm non ha dubbi: “Ho rendiamo legittime le correnti oppure, per sconfiggere il loro peso, rendiamo segreto il voto in Plenum”. Sono quasi due anni che sentiamo insistentemente parlare di crisi della magistratura, di perdita di credibilità del CSM, di caduta dei consensi relativi all’amministrazione della giustizia, etc…. Dal mio angolo visuale, quale componente laico del CSM, ritengo di avere una visione concreta e adeguata di quanto accade e di quanto è accaduto. Indubbiamente la situazione è, e continua ad essere, di “emergenza”. L’analisi e l’utilizzo di tutte le intercettazioni ( chat comprese) di Palamara, sta determinando un’alluvione di indicazioni che riguardano moltissimi magistrati e, conseguentemente, un gran numero di procedimenti per “incompatibilità ambientale”, relativamente ai quali si discute animatamente se si sia effettivamente realizzato – per i magistrati coinvolti – il risultato di una perdita di indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni. Ma, a parte i procedimenti in corso, il punto centrale è, e deve essere, quello di cercare i rimedi per uscire dalle aberrazioni che si sono realizzate.

SUPERARE IL CORRENTISMO. In tale prospettiva il tema più caldo è quello delle correnti, delle quali si continua a dire che se ne debba fare a meno; cercando di superarle e addossando così loro tutto il male e la responsabilità di ciò che sta accadendo. A questo punto bisogna dunque, realisticamente, fare un discorso concreto. E’ umano, è assolutamente non superabile, il dato che vi siano delle affinità culturali e ideologiche delle persone. Se mettiamo in un ambiente ristretto anche solo venti persone, dopo un’ora esse si aggregheranno secondo dei comuni sentimenti che hanno e che sono in contrasto con quelli degli altri. E’ pertanto ovvio che esista un’aggregazione di individui, nel caso i magistrati, che si realizza sulla base di opinioni culturali e di derivazioni ideologiche comuni. Una tale realtà si misura, poi, col tema delle elezioni, che hanno luogo a seguito di vere e proprie campagne elettorali e che vedono come protagonisti quelle aggregazioni. In tal modo si crea un senso di rappresentatività del gruppo. Ciò è ineliminabile, è assolutamente fisiologico al sistema elettorale. Quindi, i togati che vanno al CSM si sentono, giustamente, i rappresentanti di quella aggregazione culturale che li ha fatti votare e che ha consentito loro di sedere al CSM con tutti i benefici che ne derivano. Questa è la realtà. Di fronte ad essa è poi “naturale” che quando si vanno a prendere delle decisioni si fa riferimento a tale dato di partenza. Io credo che non sia possibile pretendere che il tema sia superato, se, alla base c’è questa situazione di fatto e di diritto: gli eletti si sentono i rappresentanti di una corrente, il che genera le storture che abbiamo visto, nate proprio in un terreno fertile per realizzare le aberrazioni cui abbiamo assistito.

A questo punto cosa fare? I tentativi sul tappeto e la riforma in cantiere sarebbero nel senso di eliminare le correnti; ma questo è impossibile, finché vi saranno delle aggregazioni culturali costituite in correnti e delle elezioni da queste gestite. Pertanto i casi sono due: o si istituzionalizza senza infingimenti, senza ipocrisie, il sistema delle correnti, e allora, come spesso si dice, il CSM diviene a tutti gli effetti una sorta di “parlamentino”; ma questo probabilmente è contro il sistema e l’assetto costituzionale vigente. Oppure si supera realmente il problema delle correnti. Io ritengo che a tal fine una possibile soluzione potrebbe essere quella di inserire in qualche modo – per i magistrati designati- l’istituto del sorteggio, perché a questo punto la corrente può essere superata; viene superata dall’alea, dalla sorte e si può così assistere a dei risultati elettorali assolutamente diversi da quelli che erano i desiderata delle stesse correnti. Se c’è il sorteggio, viene meno anche il cordone ombelicale della necessaria rappresentatività; perché, in fin dei conti, la corrente mi ha fatto votare ma poi, dopo, è stata l’alea che mi ha consentito di entrare al CSM. Infatti, non a caso, molti magistrati sarebbero favorevoli al sorteggio. Un’altra possibile, quanto drastica, soluzione, dovrebbe essere quella di prevedere ( per regolamento interno) che la votazione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi sia segreta e non palese, così come oggi invece avviene. In tal modo, nel segreto dell’urna, il singolo magistrato si sentirebbe libero di operare una propria scelta, autonoma da quella della corrente di appartenenza ( oggi, infatti, praticamente sempre, fatta salva l’indipendenza di taluno, gli eletti di una stessa corrente votano sempre allo stesso modo).

DISTINGUERE TRA ANM E CSM. Inoltre, e questo è un altro tema interessante, bisogna distinguere fra ANM e CSM, perché il rischio è quello che si abbia l’idea che il CSM non sia altro che una emanazione dell’ANM. Ma non deve essere così, perché l’organo di autogoverno è istituito soprattutto a beneficio della collettività e della società civile. Questo è un altro aspetto che va considerato: le regole dell’autonomia, dell’autogoverno, dell’indipendenza, sono dei benefici che riguardano il singolo magistrato, ma solo contingentemente; essi sono, in realtà, tutti beni strumentali al fine ultimo, che è quello della corretta amministrazione della giustizia. E’ la società civile che deve concretamente beneficiare di queste prerogative di autonomia della magistratura, e allora bisogna chiaramente uscire dall’interferenza e coincidenza fra l’organo sindacale e corporativo, rappresentativo della magistratura, e l’organo che viceversa assicura l’indipendenza e l’autonomia della stessa nella prospettiva del bene della società. Ancora una volta, dunque, va sottolineato che il tema delle elezioni e delle correnti non esaurisce la questione, perché è fondamentale il ruolo della componente laica eletta dal Parlamento; in quanto la differenza sostanziale fra l’ANM e il CSM è rappresentata proprio dalla componente laica. Si tratta di due grandezze che se si sovrappongono individuano fra loro un “elemento specializzante” ( per usare un linguaggio tecnico- giuridico), costituito proprio dalla componente laica. Questo fa in modo che il CSM non sia la fotocopia dell’ANM. E qui si inserisce il tema della politicizzazione dei rappresentanti laici, in quanto li elegge il Parlamento. Ma va considerato che ci troviamo in una società diversificata e complessa, in cui il Parlamento, nel bene e nel male, rappresenta la società civile. In tale prospettiva, se la componente laica è quella che deve dare il corretto assetto al CSM, è indispensabile che essa venga eletta dalla società civile. Ma non si può pretendere di realizzare delle elezioni nazionali anche per i componenti laici del Consiglio. Nell’attuale sistema dunque la componente laica – attraverso il Parlamento – è indirettamente nominata dalla società civile; questa è la garanzia che la collettività ha: avere una magistratura che non coincide con l’esercizio di un potere corporativo. A questo punto il problema è sulle persone scelte ed elette. Il Parlamento, come risulta anche dai lavori preparatori della Costituente, dovrebbe guardare alle personalità che vengono nominate; i laici sono scelti fra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati di esperienza, perché è fondamentale avere una competenza e conoscenza delle questioni dell’ amministrazione della giustizia; ma al tempo stesso è fondamentale che siano professori e avvocati ( è difficile dire indipendenti, perché poi nessuno è indipendente fino in fondo, perchè culturalmente tutti abbiamo dei condizionamenti) che abbiano una personalità di studioso e di professionista che consenta loro una autonomia intellettuale nei confronti di chi li ha scelti. Ma il problema torna, ed è quello dei politici, che sono magari anche professori universitari o, il più delle volte, avvocati, ma che, per militanza politica di provenienza, di regola ( salvo lodevoli eccezioni) non hanno e non possono avere una tale autonomia.

LE PORTE GIREVOLI. Questo è il punto, il famoso fenomeno delle “porte girevoli” che la riforma in cantiere sembrava volesse impedire e che adesso, invece, sembra essersi limitata a disciplinare in modo molto più modesto e parziale. Un’ultima considerazione: io credo che sarebbe opportuno allargare i numeri dei componenti del CSM; se non altro per assicurare un buon funzionamento della sezione disciplinare che è appunto composta, allo stato, da quasi tutti i consiglieri. Attualmente, nell’“emergenza”, essa assorbe talmente tanto le attività del Consiglio, che condiziona negativamente il corretto esercizio dell’amministrazione ordinaria. Nell’ultimo periodo molte riunioni di commissione spesso saltano perché si dovrebbero svolgere in concomitanza con la sezione disciplinare che assorbe il lavoro di molti dei consiglieri. A questo punto è evidente la necessità che la sezione disciplinare sia del tutto sganciata dalle commissioni e con un numero di consiglieri tale da non condizionare l’attività ordinaria del Consiglio; evitandosi anche, così, che si creino incompatibilità più o meno manifeste. 

«Chi lascia Md distrugge la sinistra giudiziaria». La segretaria Guglielmi replica ai fuoriusciti. Errico Novi su Il Dubbio il 26 dicembre 2020. Dopo l’ultimo addio, quello del togato Csm Ciccio Zaccaro, lunga nota della pm che guida la storica corrente: «Chi va via lamenta la mancanza di confronto in Magistratura democratica, eppure lo ha sempre rifiutato». Certo è che con la crisi delle toghe progressiste rischia di allontanarsi ancora una riflessione coraggiosa e non moralistica sul caso Palamara. Certo che se si pensa ai tormenti vissuti nella prima era del dopo Palamara, la lite all’interno della magistratura progressista è in fondo una declinazione attenuata, persino rassicurante. Dal rischio di un armageddon moralistico siamo ora alle scissioni politiche. Tutt’altra roba. L’ultimo tornante della frattura in Md, apertasi con la fuoriuscita di Eugenio Albamonte, Luca Poniz e altri big, è l’addio silenzioso di Francesco “Ciccio” Zaccaro, togato al Csm. Segue il pioniere della rottura con Magistratura democratica, ossia Giuseppe Cascini, che a Palazzo dei Marescialli è il capogruppo della “macrofamiglia” progressista, cioè Area, e che ad agosto era stato il primo a riconsegnare la tessera della corrente originaria, Md appunto, che di Area fa parte. È l’ultimo episodio, l’uscita di Zaccaro, ma viene accompagnato dal severo commento della segretaria di Magistratura democratica  Mariarosaria Guglielmi. Una risposta affidata a una lunga nota che parte da un’amara riflessione: la scelta del consigliere Csm «è il disconoscimento del gruppo come comunità politica, la rottura di ogni dialogo con le persone con le quali si è condiviso un percorso e alle quali nessuna spiegazione è dovuta».

Gugliemi: così si disintegra la magistratura progressista. Guglielmi assicura che, insieme con il presidente Riccardo De Vito, manterrà fino alla fine del mandato l’impegno di «operare perché Md, con la sua specificità e  il suo spirito critico, continui a esprimere capacità di dialogo in magistratura e nella società, e a essere una forza di aggregazione e di unità per tutti i magistrati progressisti». Ma soprattutto sostiene che chi, come il segretario di Area Albamonte, l’ex presidente Anm Poniz e ora Zaccaro è andato via da Magistratura democratica  rischia di provocare conseguenze «distruttive» per l’intero «fronte della magistratura progressista». Sono preoccupazioni espresse con un tono grave, ma dall’altra parte della barricata si mira proprio a Guglielmi e De Vito come responsabili di un isterilimento di Md, di averla isolata e soprattutto di aver negato ogni effettivo “dibattito interno”. Su tale ultima contestazione Guglielmi replica con argomentazioni forti, di cui si dirà a breve. Ma intanto un fatto sembra chiaro: la fase due del dopo Palamara rischia, per una parte della magistratura, di diventare  effettivamente autolesionistica. Quanto avvenuto con il cosiddetto mercato delle nomine e con l’epitome di quel fenomeno – ossia il tentativo compiuto da Palamara e altri di impedire che il passaggio di testimone alla Procura di Roma avvenisse nel segno della continuità con Pignatone –  sembra dovere per forza costare una implicita e indiretta autopunizione, peraltro proprio in quel settore della magistratura associata meno coinvolto dalle vicende di maggio 2019.

Il rischio di compromettere un riesame non moralistico del caso Palamara. Al di là di quanto un simile esito sia inesorabile, c’è un ulteriore dato che ne deriva, e a cui forse è più difficile rimediare: si rischia cioè di rinviare ancora una volta un’analisi seria all’interno dell’Anm, sul vero significato dal caso Palamara. In parte tale elusione si è realizzata proprio attraverso l’asprezza della sanzione inflitta all’ex presidente Anm e con lo stesso iter procedimentale, in cui si è negato l’ascolto dei testi indicati dall’incolpato. In quella sede l’opportunità dell’analisi è svanita. Adesso la ricostruzione storica e il giudizio distaccato rischiano di essere soppiantati dall’infinita sequenza delle lacerazioni Proprio in quella componente del mondo togato, la sinistra di Area e di Md appunto, che è non solo più estranea al cosiddetto scandalo, ma anche più ricca dal punto di vista dell’abitudine all’approfondimento, al confronto intellettuale. Si rischia così di perdere l’occasione di un riesame della crisi deflagrata nel 2019 il meno possibile moralistico  e il più possibile costruttivo e propositivo. Sarebbe invece stato utile compierlo, a costo di opporne gli esiti, anche con un’opportuna dose di sfrontatezza, a quella politica che spesso in questi mesi ha maramaldeggiato sui magistrati. Altro motivo di rammarico, per la perdita di una simile occasione, è nel valore aggiunto che potrebbe assicurare il nuovo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, a cui vanno riconosciute autorevolezza ma anche franchezza nei toni, capacità di esprimere giudizi senza piegarli all’attesa del politicamente corretto.

La segretaria di Md contro l’«abbandono unilaterale». Intanto è chiaro che all’assemblea di Area, prevista a gennaio, si andrà a un redde rationem tesissimo. Lo lasciano intuire la vicenda Zaccaro e la risposta di Guglielmi. La quale lamenta come detto soprattutto un “vizio”, nell’addio a Md dei 25 firmatari della lettera e poi dal togato Csm: non aver sentito «il  bisogno di portare le proprie ragioni nei luoghi di dibattito  collettivo del gruppo». Secondo la segretaria di Magistratura democratica «per alcuni, in realtà, si tratta a ben vedere di un “ultimo atto”  del tutto coerente con un’assenza che si protrae da tempo proprio da quei luoghi di confronto politico di Md di cui si lamenta la mancanza. Luoghi che non sono le chat ma i consigli nazionali, sono le sezioni ancora attive e tutte le occasioni nelle quali l’impegno dei singoli  riesce a segnare una presenza del gruppo, aperta e inclusiva». Gli ormai ex compagni del gruppo, che resteranno in Area ma senza più il distintivo della «nobile storia» di Md, compiono, per Guglielmi, un «abbandono “unilaterale” in linea con  la scelta di tenere posizioni di “dissenso non espresso” (e certo non soffocato), come accaduto anche all’ultimo congresso di Roma: nessuna  presentazione di candidature “alternative” alla  linea della dirigenza per l’elezione dei componenti del Consiglio Nazionale; numerose  e compatte astensioni sul voto per il rinnovo di segretario e presidente in carica  e per l’approvazione della mozione finale, rimasta infatti unitaria perché nessuna proposta alternativa è stata mai presentata». Ma così, sostiene la segretaria di Md, «non si propone un’alternativa, non si  indicano strade diverse nella direzione che si ritiene giusta, ma si decide l’abbandono. Si va via bruciando i ponti, senza  possibilità di ripensamenti e chiudendo definitivamente le vie del dialogo. Non si prova a cambiare la “nobile storia” di Md ma si tenta di “rottamare “ il gruppo che ne è l’erede. Non ci si limita ad interrompere un percorso individuale ma si mette in mora chi resta». Può darsi sia un semplice e fisiologico esempio di dialettica politica interna. Certo sarebbe grave se l’esito delle differenze all’interno della sinistra giudiziaria prefigurasse l’implosione di uno tra gli ultimi luoghi di impegno pubblico e civile sopravvissuti alla crisi politica più ampia che, a cominciare dai partiti politici, travolge ormai il Paese e le sue classi dirigenti.

E' iniziato il dopo Palamaragate. Terremoto in magistratura, scoppia la rivolta dei Pm ultrà. Piero Sansonetti su Il Riformista il  23 Dicembre 2020. Magistratopoli, piano piano, inizia a dare frutti. L’establishment del potere giudiziario ha finto di non vederla. Il Csm si è comportato come una specie di setta segreta, anche abbastanza sfacciata nel seppellire tutto sotto la sabbia. La politica si è voltata dall’altra parte. Il giornalismo… beh, non parliamo del giornalismo, perché quello italiano, ormai, in larghissima parte, è solo lo scantinato della magistratura. Non è certo il giornalismo che può ribellarsi allo strapotere e all’evidente grado di non indipendenza, e anche di corruzione profonda, venuto alla luce grazie al Palamara-gate. E però…Però qualcosa è successo. Perchè la magistratura è un luogo piuttosto vasto. Composto da circa 8000 professionisti. Di questi ottomila c’è solo una parte modesta, forse di duemila persone, che ha in mano tutto il potere, che controlla le correnti, e dunque le carriere, gli assetti delle procure, le nomine, molto spesso anche le sentenze. La magistratura è un monolite, come quasi sempre succede ai poteri autoreferenziali. Cioè ai poteri che non subiscono controlli o condizionamenti o verifiche esterni. Ma alle volte succede che anche i monoliti si sfaldano. E succede che le minoranze al potere vengono messe in discussione. Così è accaduto nel luogo sacro del potere giudiziario. Dico del potere giudiziario, non certo del diritto, perché le due cose non sempre, anzi quasi mai, coincidono. Questo luogo sacro è l’Anm, cioè l’associazione che raccoglie tutti i magistrati italiani e che da molti e molti anni è dominata dal partito dei Pm. È successo che una parte consistente della magistratura si è ribellata al partito dei Pm e gli ha tolto via lo scettro. Nessuno se l’aspettava. Non era mai accaduto. L’elezione di Beppe Santalucia a presidente dell’Anm è un fatto storico. Innanzitutto per una ragione oggettiva: per la prima volta da molti decenni diventa presidente dell’Anm un giudice. Almeno in questo secolo mai un giudice aveva ottenuto il comando: Bruti Liberati, Palamara, Sabelli, Davigo, Albamonte, Poniz: tutti uomini della procura. Eppure, i Pm sono solo una minoranza nel corpo della magistratura italiana. Ma una minoranza che ha in mano tutto il potere. La vittoria di Santalucia su Poniz ha avuto subito un effetto deflagrante. Santalucia non solo è un giudice e non un Pm, ma è un giudice della Cassazione (dunque dell’istituzione più garantista della magistratura). Non è un forcaiolo, anzi è considerato un liberale, e appartiene a quella componente garantista di magistratura democratica che negli ultimi anni era quasi sparita, ma che fa parte del Dna della corrente di sinistra della magistratura. La nomina di Santalucia, che avviene a sorpresa, spacca Md e spacca tutto lo schieramento delle correnti. Proviamo a spiegare perché. Nella magistratura italiana esistono diversi livelli di potere. Il potere istituzionale, e cioè il potere vero, quello che determina assetti, orientamenti e anche sentenze, che regola i rapporti col potere politico, che indirizza le carriere e gli organigrammi, è in mano a pochi uomini, in genere molto discreti, fuori dal clamore, che non amano la Tv, i giornali, la fama: amano il comando. Chi sono? Provo a fare tre nomi, difficilmente mi sbaglio: Michele Prestipino, Giovanni Melillo, Francesco Greco. Sono i capi rispettivamente della Procura di Roma, di Napoli e di Milano. Prestipino è il successore di Pignatone, ex deus ex machina del potere giudiziario. Melillo ha costruito la sua carriera al ministero. Greco ha una grande esperienza nella lotta contro la politica, perché è l’autore del primo clamoroso arresto di un segretario di partito (Pietro Longo, Psdi, 1992) e poi partecipa attivamente al pool mani pulite che smantella e liquida la Prima Repubblica. È questa troika, oggi, che tiene stretto il bastone del comando. Poi c’è il partito dei Pm, che è molto rumoroso, vistoso, super politicizzato, spesso folkloristico. Sostenuto da stampa e Tv. E che partecipa attivamente, e controlla, tutte le correnti. La tattica del partito dei Pm, fin qui, è stata molto semplice: stare nelle correnti di sinistra, di centro e di destra, in modo da avere una quota di potere molto superiore alla propria forza reale. In particolare, il partito dei Pm aveva conquistato la corrente più importante della magistratura, e cioè Md (“Magistratura democratica”) che nasce negli anni Sessanta su posizioni di sinistra e garantiste ma da diversi anni è diventata la corrente delle cosiddette “toghe rosse” che si sono poste alla testa del pensiero e della pratica giustizialista. Il partito dei Pm si interfaccia con la troika, la sostiene, in parte la condiziona, in parte obbedisce. La novità di questi giorni, probabilmente in buona parte dovuta al clamoroso scandalo di magistratopoli, è che in Md si è indebolita la forza dei giustizialisti. Il primo scricchiolio si era sentito sull’affare Davigo. Piercamillo Davigo certamente non è un magistrato di sinistra, anzi è sempre stato considerato esponente della destra estrema. Però da diversi anni è lui la bandiera del giustizialismo, ed è esattamente sul giustizialismo che si era realizzata una convergenza col gruppo di testa di Md e si era formata, anche in Csm, una specie di alleanza di potere rosso-bruna, con le truppe di Md e il cervello davighista, che aveva preso il sopravvento. Quando in settembre si è posto il problema di accettare o respingere la pretesa, arrogante di Davigo di restare in Csm nonostante il pensionamento, una parte consistente di Magistratura democratica si è ribellata. Ha detto no. Davigo non se l’aspettava. Ha perso una battaglia che era sicuro di vincere e ha dovuto lasciare la magistratura. Da lì è iniziato il terremoto. Ora alcuni tra i più noti e potenti esponenti di Md (Cascini, Albamonte, Poniz) si sono dimessi dalla loro corrente per protesta contro la linea liberale che ha prevalso. Quali saranno le conseguenze? Probabilmente la mossa del gruppo Cascini costringe il partito dei Pm a uscire allo scoperto. Voglio dire: a unificarsi e a dichiararsi. Non sarebbe una cosa cattiva. Sarebbe oggettivamente un atto di semplificazione. Porterebbe la lotta all’interno della magistratura dal piano della pura lotta di potere a quello di una lotta sulle idee: da una parte i settori (che probabilmente sono maggioritari) della magistratura convinti che la bussola debba essere sempre il diritto, e non la lotta politica o la moralizzazione, dall’altra parte la componente giustizialista, che sicuramente ha la maggioranza tra i Pm ma non nella magistratura giudicante. Perché questa sarebbe una grande novità? Perché finalmente si potrebbero separare gli schieramenti di potere dagli schieramenti delle idee. Una magistratura aperta, dove si confrontano le idee e non solo i rapporti di forza, è l’unica precondizione a una possibile riforma della giustizia. Finora la riforma è stata impossibile perché il fortino della “casta” giudiziaria era inespugnabile. Stanno per cambiare le cose? Ho sempre pensato che l’unica possibilità di una riforma della giustizia risiedesse in una rottura nel monolite magistratura. Dal giornalismo e dalla politica non mi sono mai aspettato nulla. Se il monolite si è rotto davvero, possiamo tornare a sperare. Non è mai troppo tardi per provare a rimettere insieme i cocci dello Stato di diritto.

La storia della corrente. Storia di Magistratura Democratica: da casa dei lavoratori a trincea dell’antiberlusconismo. Frank Cimini su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Magistratura Democratica, molto conosciuta con la sua sigla, Md, nasce nel 1964, un anno indubbiamente di grandi speranze perché il contesto era quello dei primi governi di centro-sinistra, in sostanza l’alleanza tra democristiani e socialisti. Il perno di tutto all’inizio fu l’attuazione della Costituzione reclamata non solo dalle forze dell’opposizione perché, in pratica, la Carta aveva subito una sorta di congelamento con i governi centristi all’interno e la “guerra fredda” in ambito internazionale. Ma si trattava anche di garanzie per le classi lavoratrici di diritti sociali, di applicare lo Statuto per rimuovere gli ostacoli che limitavano uguaglianza e libertà dei cittadini. Insomma, Md nasce per interpretare le leggi a favore dei lavoratori per superare la figura del giudice come mero tecnico che vive in una sorte di torre d’avorio. Furono messi in discussione i valori tradizionali della magistratura. Ad aiutare la nuova corrente di sinistra fu la spinta al cambiamento sociale. Magistratura Democratica si schiera per il cosiddetto “Intervento esterno”, il privilegiare il rapporto e la collaborazione con le forze politiche e sociali che sono a favore del cambiamento. Ma la corrente venne investita dai problemi posti dalla giurisdizione, prima la strategia della tensione poi il terrorismo. In Md nell’analisi della lotta armata c’erano tre anime: una completamente legata al Pci, il partito della fermezza e delle leggi speciali anche forzando (eufemismo) la Costituzione, un’altra che stava in mezzo a cercare di mediare e un’altra ancora molto garantista nel perorare la causa della “democrazia che si difende con la democrazia”. A operare fu una piccola pattuglia ma molto determinata di magistrati distribuita tra Roma e Milano che ben presto venne emarginata e accusata addirittura di “fiancheggiamento”. Da ricordare la vicenda di due magistrati milanesi, Romano Canosa e Amedeo Santosuosso, sottoposti a procedimento disciplinare a causa delle loro posizioni garantiste riguardo alle inchieste sul terrorismo. L’allora procuratore generale della Cassazione arrivò ad affermare che i due magistrati erano «più pericolosi delle Brigate Rosse perché almeno le Br ti sparano e stanno davanti a te». A Padova un giudice del caso Sette aprile, che non era neanche di sinistra, fu ricusato perché aveva osato affermare: “stanno facendo un processo per quattro giornaletti”. Ancora a Milano il pm Antonio Bevere organizzatore della cena alla quale parteciparono Toni Negri e Emilio Alessandrini di lì a poco ucciso da Prima Linea fu sentito come testimone nell’inchiesta ma emarginato e trattato come un appestato dalla maggior parte della sua corrente. In quella indagine ci fu una sola teste ad affermare il falso a verbale in merito ai partecipanti alla cena. Fu la vedova Alessandrini, mai indagata però. Era la criminalizzazione della peperonata. Con il proliferare degli arresti e le lunghe carcerazioni preventive andarono in frantumi rapporti di amicizia decennali. Rapporti in parte mai ricuciti e in parte sì, come è nelle cose della vita. La frattura interna verificatasi sul terrorismo non venne replicata quando il protagonismo dei magistrati si ingigantì con le inchieste sulla corruzione. La crescita del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura come organo di autogoverno e di garanzia (in verità presunta, molto presunta) dell’indipendenza della magistratura fu il prodotto soprattutto delle iniziative e dell’attività di Md. Non si può dimenticare la replica del presidente della Repubblica Cossiga che mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli per impedire una riunione. Negli anni di Mani pulite poi Magistratura Democratica fu la punta di diamante della categoria togata soprattutto nell’infinita polemica con Silvio Berlusconi e la Fininvest. La corrente agiva in modo compatto. Va ricordato però un piccolo episodio molto poco pubblicizzato: quello del procedimento disciplinare al pubblico ministero Ilda Boccassini che utilizzando gli appunti di un poliziotto aveva fatto apparire come funzionante una microspia inceppata messa dalla procura di Milano in un bar romano dove si riunivano per il caffè di metà mattina un po’ di giudici sospettati di prendere mazzette. Boccassini fu prosciolta ma un componente del Csm targato Md volle spiegare: «La collega è stata assolta ma un magistrato certe cose non solo non le deve fare ma neanche pensare». Una mosca bianca, insomma. Per capire la storia di Md, di cosa è diventata, basta pensare che il 4 luglio del 1964 tra i “punti” nativi della corrente c’era l’obiettivo di avere uffici inquirenti caratterizzati dall’orizzontalità delle decisioni. Tra i fondatori di Md c’era Edmondo Bruti Liberati che nella sua carriera ha fatto soprattutto il massimo dirigente dell’Anm prima di diventare capo della procura di Milano. E da capo della procura di Milano sfilò le inchieste su Expo al suo aggiunto Alfredo Robledo supportato fino in fondo dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che intervenne per dire che con la riforma dei poteri dei capi degli uffici giudiziari il problema della guerra interna era risolto in nuce e punto.

Del resto era stato lo stesso Bruti ad ammettere di aver detto a Robledo: «Se nella seduta in cui ti nominarono aggiunto io avessi invitato uno della mia corrente ad andare a fare la pipì al momento del voto tu non saresti stato nominato a vantaggio della tua collega che poi avremo sbattuto alle esecuzioni». La nuova orizzontalità delle procure riformata dalla Md del terzo millennio.

·        Le Toghe Criminali.

Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare. Trasferito il magistrato De Vivo, scarcerò Pasquale Zagaria. Angela Stella su Il Riformista il 16 Novembre 2021. Il dottor Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e ex Presidente di Magistratura Democratica fino a qualche mese fa, è stato trasferito dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari in un altro ufficio del settore civile a Nuoro. A darne notizia è stata l’Unione Sarda: all’origine di tutto una telefonata intercettata tra lui e un avvocato penalista sotto indagine, con un trojan inoculato nel telefono. Non si conoscono i dettagli della conversazione ma appena il Csm è stato informato del contenuto dell’intercettazione ha disposto il trasferimento per «incompatibilità ambientale» e aperto un procedimento disciplinare nei confronti di De Vito. Come è noto il Tribunale di Sorveglianza di Sassari è competente per le richieste di benefici dei reclusi nel carcere di Bancali, che ospita molti detenuti al 41-bis. Secondo l’Unione Sarda, essendo l’avvocato intercettato legale di alcune persone rinchiuse al carcere duro, probabilmente l’oggetto della chiamata potrebbe riguardare una richiesta di differimento pena o di altri benefici. Ma siamo nel campo delle ipotesi. Quello che si è appurato fino ad ora è che è stato lo stesso dottor De Vito a richiedere il trasferimento a Nuoro appena interpellato dal Csm. Ha già dato mandato ad un suo collega che lo assisterà dinanzi alla sezione disciplinare e ha fatto sapere che non ha concesso favoritismi, anzi in passato ha respinto anche delle richieste del legale. Comunque parlerà a tempo debito a Palazzo dei Marescialli. Le persone che lo conoscono si dicono profondamente dispiaciute per lui sul piano umano e professionale e confermano la stima nei suoi riguardi. L’associazione radicale Nessuno tocchi Caino «conosce de Vito e gli manifesta piena fiducia e stima. Ha partecipato al nostro ultimo Congresso nel carcere di Opera a Milano e lo abbiamo invitato anche al prossimo del 17 e 18 dicembre. È un magistrato che rivendica autonomia e indipendenza della magistratura dal potere politico ma non accetta che la giurisdizione si spinga oltre i suoi confini, sconfinando in ambiti non propri. In uno splendido intervento ha spiegato come “solo un magistrato di sorveglianza vicino ai detenuti può essere in grado di agire come vero mediatore tra il potere che punisce e l’essere umano che cerca di rieducarsi”. Insomma un magistrato che se chiamato a decidere la scarcerazione di un boss per motivi di salute non ha dubbi: al cupo e maldicente mormorio delle Erinni preferisce l’ascolto della sua coscienza specchio della legge fondamentale che considera sacro il diritto alla salute di ogni individuo». Quello che viene da pensare, anche se non lo si può dimostrare, è che il dottor De Vito sia stato in qualche modo punito per il modo in cui ha gestito il caso di Pasquale Zagaria. Come vi abbiamo raccontato da queste pagine De Vito l’anno scorso, durante i mesi più difficili della pandemia, ha autorizzato la detenzione domiciliare per motivi di salute a Pasquale Zagaria, fratello del capoclan dei casalesi. Ne sono nate polemiche feroci, soprattutto da parte di alcuni magistrati requirenti antimafia che sono andati in televisione a demonizzare questa scelta che invece era rispettosa dei principi costituzionali. Anzi, come ha stabilito un gip nei mesi successivi, Zagaria ha trascorso in carcere più mesi del dovuto, per un errato calcolo della pena. De Vito inoltre, insieme ad altri colleghi, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti del decreto Bonafede anti-scarcerazioni. Ma Riccardo De Vito è anche colui che, in una delle numerose interviste su questo giornale, ha detto: «Non vi è dubbio che il paradigma culturale del buttare la chiave costituisca la questione da affrontare. […] Sarebbe importante raccontare come mettere da parte gli strumenti dell’umanità della pena sia il più grande regalo che si possa fare, in termini di consenso, ai sodalizi criminosi. Ad agire così, poi gli si consegna il carcere in mano. Per questo, devo dire, mi ha fatto una certa impressione sentire autorevoli commentatori dire che “la legge è la legge, ma i mafiosi sono mafiosi”. Lo Stato di Diritto ha una sola parola e una sola legge per tutti, altrimenti si degrada, diventa meno credibile e più aggredibile». A qualcuno non sono piaciute queste parole? Angela Stella

Trasferimento d’urgenza: il Csm “punisce” il magistrato Riccardo De Vito. L'ex presidente di Md è stato trasferito tribunale di Nuoro come giudice civile per un'intercettazione. Protagonista della magistratura di sorveglianza, finì nell'occhio del ciclone per i domiciliari a Zagaria. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 16 novembre 2021. Sul magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, per il solo fatto di essere stato intercettato mentre parlava al telefono con un’avvocata, controllata con un trojan perché indagata, il Consiglio superiore della magistratura ha aperto un procedimento disciplinare e lo ha trasferito d’urgenza al tribunale di Nuoro come giudice civile. Si ritiene che il contenuto della telefonata sia sconveniente. Nessuna rilevanza penale nella conversazione, quindi, ma sembra che questo intervento del Csm sia legato a un discorso morale. Eppure parliamo di un magistrato di sorveglianza, dal 2016 presidente di Magistratura Democratica, riconosciuto dagli addetti ai lavori per la sua serietà e scrupolosità nell’adottare i provvedimenti nel rispetto della legge e soprattutto facendo valere i principi fondamentali della Costituzione italiana.

Chi è Riccardo De Vito

De Vito, classe 1973, è un magistrato che svolge anche un lavoro intellettuale non indifferente. Ha contribuito soprattutto nel dibattito relativo all’ergastolo, il fine pena mai. Tema divisivo soprattutto all’interno della magistratura, ma che trova – tranne casi eccezionali, anche se di peso perché massmediatici – uniti tutti i togati progressisti e liberali. Non solo ergastolo, ma anche il tema del diritto alla salute nelle carceri, la detenzione come extrema ratio e tutte quelle leggi che rendono vana la funzionalità della pena. Temi che il magistrato De Vito affronta nelle riviste specializzate e nei convegni. Lo stesso De Vito, da militante di Md, non ha mai nascosto il suo disagio rispetto alla sinistra italiana che, di fatto, ha snobbato la questione carceraria fino a promuovere tesi che un tempo appartenevano al patrimonio delle destre. Ma pensare che sia un magistrato di sorveglianza che conceda benefici ai detenuti a prescindere si sbaglia di grosso. Molto spesso con i suoi provvedimenti ha respinto le richieste dei difensori, anche – trapela da L’unione Sarda – del legale della telefonata incriminata. Eppure, lui è stato uno dei protagonisti della magistratura di sorveglianza messa sotto accusa per aver concesso detenzioni domiciliari per motivi di salute a diversi detenuti dell’alta sicurezza e tre del 41bis.

Riccardo De Vito e il caso Zagaria

De Vito finì nell’occhio del ciclone per aver concesso, da giudice del tribunale di sorveglianza di Sassari, la detenzione domiciliare a Pasquale Zagaria, fratello del capoclan Michele. Poiché tutti i penitenziari della Sardegna erano stati trasformati in strutture Covid, De Vito aveva chiesto al Dap di individuare una sede alternativa dove Pasquale Zagaria potesse curare la patologia tumorale di cui era affetto. Zagaria, scrisse De Vito nell’ordinanza, avendo un tumore, avrebbe dovuto sottoporsi al previsto «follow-up diagnostico e terapeutico».

Al carcere di Bancali, però, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, tali operazioni non sarebbero state garantite. Ma non solo: la patologia di Zagaria era tra quelle «che lo espone maggiormente al rischio di infezione». Il giudice nel suo provvedimento aveva sottolineato poi di avere inviato una richiesta al Dap per capire «se fosse possibile individuare un’altra struttura penitenziaria dove effettuare il “follow-up”», ma non è pervenuta nessuna risposta, neppure interlocutoria. Un addetto della cancelleria del Tribunale di Sassari, si scoprì a posteriori, aveva sbagliato l’indirizzo mail del Dap e, pertanto, la comunicazione non era mai arrivata a destinazione. Di conseguenza l’amministrazione penitenziaria non aveva potuto rispondere e De Vito aveva dunque disposto la scarcerazione.

Polemiche feroci contro De Vito

Ad aprile del 2020 Zagaria aveva lasciato il carcere di Bancali ed era stato trasferito a Pontevico, vicino Brescia dove era stato programmato il piano terapeutico Per tale detenzione domiciliare era stata individuata l’abitazione di un familiare. Le polemiche per tale scarcerazione – nonostante l’impeccabile ordinanza emessa dal giudice De Vito – furono feroci: oltre ad una accesa campagna mediatica, numerose erano state le interrogazioni parlamentari che avevamo messo in pericolo la poltrona dello stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede. A quel punto, venne varato il famoso “decreto antiscarcerazione”. Rientrarono quasi tutti in carcere, compreso Zagaria, e alcuni poi moriranno. Uno dei tre detenuti al 41 bis, rientrati in carcere a seguito del decreto Bonafede, come si legge oggi su Il Dubbio, è morto. Parliamo di Vincenzino Iannazzo.

Il magistrato Riccardo De Vito, nel caso di Zagaria (tra l’altro scarcerato per fine pena a marzo scorso), ha agito nel profondo rispetto del suo mandato istituzionale, ovvero tutelare dignità e umanità della pena in un’ottica di bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica. Ora, per la famigerata telefonata, sta subendo un procedimento disciplinare. Si ha la percezione, si spera errata, che ci sia una attenzione particolare per tutti quei magistrati non allineati a un concetto fortemente reazionario della pena.

Inchiesta anti-corruzione, ex giudice di Ischia Alberto Capuano condannato a 8 anni e 10 mesi.  Da ilmattino.it Martedì 14 Settembre 2021. Condannato a 8 anni e dieci mesi per corruzione l'ex giudice Alberto Capuano della sezione distaccata di Ischia del Tribunale di Napoli. A deciderlo i giudici del Tribunale di Roma che hanno condannato anche Valentino Cassini e l'ex consigliere della Decima Municipalità di Napoli (Fuorigrotta, Bagnoli) Antonio Di Dio e a sei anni e sei mesi. Quattro anni e mezzo sono stati inflitti invece a Giuseppe Liccardo. Le accuse contestate a vario titolo nell'inchiesta della procura di Roma, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Gennaro Varone, sono corruzione in atti giudiziari, corruzione per l'esercizio della funzione, traffico di influenze illecite, tentata estorsione e favoreggiamento personale. Per il gip di Roma che nel 2019 firmò l'ordinanza con le misure cautelari si trattava di un gruppo in grado di «sospendere procedure esecutive penali e ritardare verifiche dei crediti fallimentari, provocare la scarcerazione di detenuti ed il dissequestro dei beni di importanti esponenti della criminalità organizzata». 

Lecce, affittava casa a prostitute: indagato magistrato della Cassazione. Secondo gli inquirenti Giuseppe Caracciolo, in servizio presso la Suprema Corte, non poteva non sapere che il suo appartamento veniva utilizzato per un giro di prostituzione. Luisiana Gaita su Il Fatto Quotidiano l’1 luglio 2016. Un gruppo di ragazze rumene si prostituiva all’interno di un appartamento del centro storico di Lecce. Secondo gli inquirenti il proprietario, Giuseppe Caracciolo, magistrato di 58 anni originario di Lecce, in servizio presso della Corte di Cassazione, non poteva non saperlo. Anzi, avrebbe affittato quell’immobile alle giovani donne perché si prostituissero e con il loro giro di affari potessero pagare un canone di locazione, da lui imposto, ben superiore a quelli di mercato. Per questo il magistrato è ora indagato insieme alla compagna, una poliziotta di Brindisi in aspettativa, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Anche se l’abitazione veniva pubblicizzata online come ‘bed and breakfast’ o ‘casa vacanze’, all’esterno non c’era alcuna insegna che potesse far pensare a un’attività ricettiva. Inoltre l’appartamento era situato accanto a quello che la coppia utilizzava quando si trovava a Lecce, a cui era collegato da una porta interna. In realtà si trattava originariamente di un unico immobile, in seguito diviso in due. Il primo utilizzato direttamente da magistrato e compagna, il secondo ‘adibito’ a casa d’appuntamenti. Che ora è stata sottoposta a sequestro preventivo dal gip Vincenzo Brancato, come richiesto dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco. Per il giudice esiste dunque “il concreto ed attuale pericolo che il permanere della libera disponibilità dell’immobile possa protrarre, e dunque aggravare, le conseguenze dei reati ipotizzati, trattandosi di attività in corso di piena esecuzione”.

IL BLITZ DELLA POLIZIA – La polizia ha scoperto il giro a luci rosse anche grazie alle lamentele dei residenti della zona di piazza Mazzini, che assistevano e più volte avevano segnalato un continuo via vai di clienti da quell’appartamento posto al primo piano. Uomini che arrivavano a tutte le ore del giorno e della notte e magari uscivano anche dopo poche decine di minuti. Dopo diversi appostamenti e testimonianze raccolte nel corso delle indagini, gli agenti di polizia si sono finti clienti e hanno suonato al campanello dell’appartamento. Ad accoglierli una ragazza vestita solo del reggiseno e di un tanga che li ha invitati a seguirla.

All’interno sono state identificate tre giovani rumene, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. L’appartamento è composto da una zona soggiorno e da due camere da letto, all’interno delle quali gli agenti hanno trovato numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. La vera sorpresa, però, è stata un’altra: in un vano lavanderia comune alla casa in affitto e a quella utilizzata dal magistrato e dalla compagna, gli agenti della squadra mobile hanno identificato la collaboratrice domestica della coppia. Ma secondo le testimonianze raccolte la stessa coppia era solita accedere all’appartamento confinante per raggiungere la terrazza dove si stendevano i panni.

L’ACCUSA A CARICO DEL MAGISTRATO – Secondo gli investigatori il magistrato doveva per forza essere a conoscenza di quanto avveniva tra quelle mura. Di più: avrebbe affittato l’immobile a giovani rumene perché si prostituissero e si potessero permettere canoni di locazione alti rispetto a quelli di mercato, per i quali richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilasciare alcuna ricevuta. E quando una delle ragazze ha contattato il proprietario dopo aver trovato in rete il suo numero di telefono come titolare di un ‘bed and breakfast’ e si è lamentata del prezzo troppo alto, il magistrato le ha risposto che non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra, sottintendendo che era perfettamente a conoscenza del giro di prostituzione che aveva come quartier generale proprio il suo appartamento.

Ogni ragazza pagava dai 300 ai 350 euro per una sola stanza, che spesso doveva però dividere (insieme al letto) con altre affittuarie completamente sconosciute, senza che vi fosse alcun rispetto delle normali procedure di locazione. D’altro canto Caracciolo non aveva comunicato all’autorità di pubblica sicurezza l’identità di chi alloggiava effettivamente in quell’appartamento. Il giorno prima del blitz, un episodio emblematico raccontato proprio dalle giovani rumene trovate nell’appartamento: il magistrato si era recato nell’abitazione per consegnare alle ragazze alcuni prodotti per l’igiene della casa e aveva annunciato loro l’arrivo nei giorni successivi di altre ragazze con cui avrebbero dovuto dividere l’immobile.

DAI PASSAGGI ALLE TELECAMERE – Non solo burocrazia, però. Secondo quanto raccontato dalle giovani rumene, in più occasioni le avrebbe condotte all’aeroporto, mentre sono stati i residenti della zona a riferire agli inquirenti di aver notato più volte il magistrato accompagnare nell’appartamento ragazze portando loro le valigie. E se le giovani non potevano esibire ricevute, erano però in possesso di una piantina di Lecce, sulla quale erano annotati tre numeri telefonici: quelli del magistrato, della compagna e della collaboratrice domestica. Mentre tutti i vicini si erano accorti dell’attività che da circa tre mesi veniva esercitata nell’appartamento posto al primo piano, il magistrato aveva pensato bene di far installare, senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera di vigilanza all’ingresso. Insolito per un appartamento affittato a turisti.

Aggiornamento

Per completezza dell’informazione, segnaliamo che la Corte d’Appello di Lecce, in data 18 dicembre 2020, ha annullato la sentenza di primo grado, che aveva condannato i due imputati, disponendo la restituzione degli atti al Pubblico Ministero, perché eserciti l’azione penale a carico del dott. Caracciolo e dell’altra imputata, per il diverso reato di favoreggiamento della prostituzione.

Giudice sperimenta la gogna di Davigo e attacca il capo dell'Anm. Giuseppe Caracciolo l’1 marzo 2017 su  IlFoglio.it. Un magistrato di Cassazione sotto indagine spiega i danni prodotti dal “protagonismo mediatico” del dr. Davigo. Il labirinto penale. Nel corso della puntata “Otto e mezzo” di mercoledì scorso, su La7, il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, rispondendo alla domanda del direttore del Foglio su cosa avrebbe fatto l’Anm nell’ultimo anno per monitorare la correttezza dei magistrati iscritti al sindacato, ha fatto riferimento al caso del magistrato Giuseppe Caracciolo, 59 anni, esperto in Diritto Tributario e consigliere di Cassazione, indagato nel luglio 2016 con l'accusa di favoreggiamento della prostituzione e sospeso in via cautelare dal Csm nel luglio dello scorso anno. Così Davigo: “Io sostengo che i politici sbagliano a dire ‘aspettiamo le sentenze’ perché dovrebbero fare loro valutazioni autonome sulla base di fatti accettati e non controversi. Noi abbiamo avuto un caso di un magistrato che è stato accusato di un reato grave, favoreggiamento alla prostituzione, perché avrebbe affittato un bed and breakfast a delle prostitute. E’ stato deferito ai probiviri e si è dimesso immediatamente quindi evitando il procedimento disciplinare dall’Anm. Io ho detto: non mi interessa se è colpevole o innocente: ha preso gli affitti in nero e questo è incompatibile con il dovere di correttezza di un magistrato”. Il dottor Caracciolo ha contattato il Foglio per replicare al dottor Davigo e accusando quest’ultimo di “parlare a vanvera” con un atteggiamento “funzionale al Suo protagonismo mediatico”. Quella che segue è la lettera inviata al Foglio. Una lettera simile era stata inviata mesi fa al dottor Davigo, ma senza risposta.

Egregio dottor Davigo, nella trasmissione “8 e 1/2” di qualche sera fa su “La7” Lei ha fatto riferimento alla mia vicenda giudiziaria, principiata con comunicazione di garanzia ricevuta il 1.7.2016, chiarendo che sono stato accusato di favoreggiamento della prostituzione per avere affittato un B&B a donne che vi si prostituivano e mi ha bollato (se non proprio come un criminale) almeno come un evasore fiscale, assumendo che io avrei preso i soldi in nero da dette signore. Inoltre Lei ha riferito che io sono stato deferito per questa ragione al collegio dei probiviri dell’Anm e che mi sarei dimesso per sottrarmi al procedimento disciplinare. Secondo Lei il mio caso sarebbe uno di quelli accertati e non controversi a riguardo dei quali l’incolpato avrebbe anzitutto il dovere di dimettersi, essendo incompatibile con il dovere di correttezza del magistrato anche il solo fatto della percezione degli affitti in nero, circostanza che – per sua diretta conoscenza – sarebbe “non controversa”. Questo il resoconto della sua intervista, per la parte che mi riguarda, e spero di non avere travisato il contenuto ed il senso delle Sue dichiarazioni. Orbene, scrivendole “per fatto personale” un’unica cosa ho da dirLe a questo riguardo (tralasciando i fatti di rilevanza penale sui quali la mia difesa si svolge in altra sede) è cioè che Lei parla “a vanvera”. In realtà, Lei ha dimostrato di non conoscere i fatti sui quali si è espresso con tanta sicurezza e ne ha fatto anticipata valutazione (rispetto al processo penale in corso) solo sulla scorta di artefatti resoconti giornalistici (purtroppo recepiti tali e quali dalla precipitosa ordinanza con la quale la sezione disciplinare del CSM mi ha sospeso dalle funzioni), così maturando un pregiudizio fondato sul nulla, vizio antico di non pochi eredi spirituali di Maximilian de Robespierre ed altri forcaioli di più recente notorietà. Infatti, Lei ha fatto passare per un “B&B” (struttura ricettiva dotata di peculiari caratteristiche) ciò che invece ha avuto i caratteri “della locazione occasionale turistica”, come disciplinata dal combinato disposto dell’art.53 del D.Lgs.59/2011, dell’art.art.1 comma 2 let. C della legge 431/1998, dell’art.1571 cod civ, dell’art. 2-bis Tariffa  Parte II  del DPR 131/1986, a mente del quale il rapporto di locazione di durata inferiore ai 30 giorni non necessita di registrazione e neppure di redazione in forma scritta del contratto di locazione, così come non è imposto il rilascio di alcuna quietanza se non esplicitamente richiesta dalla parte conduttrice. Detta tipologia contrattuale mi impone semplicemente di corrispondere le imposte dovute sui redditi (fondiari) derivanti dal rapporto locativo soltanto con la dichiarazione dei redditi da depositare nel successivo anno solare, così che io non posso assolutamente essere fatto passare per evasore (come Lei suppone) a riguardo di redditi relativi all’anno 2016 che non ho ancora potuto dichiarare, mentre a riguardo di quelli dell’anno 2015 metto a disposizione la mia dichiarazione dei redditi, già depositata a giugno del 2016, nella quale ogni centesimo percepito con quel genere di rapporti locativi risulta dichiarato ed assoggettato a tassazione con il regime della cedolare secca. Le circostanze ora ora riassunte non mi pare necessitino di specifica prova se non di quella derivante dal fatto che –nonostante la notorietà della vicenda e nonostante la locale questura abbia fatto di tutto per sollecitarne l’esercizio – la mia condotta non è stata oggetto di accertamento fiscale e neppure di procedimento amministrativo  per violazione della disciplina in materia di denuncia alla PS degli ospiti di strutture ricettive, siccome perfettamente legittima e totalmente lineare anche agli occhi delle Amministrazioni competenti (che, evidentemente, hanno esaminato la vicenda con minore superficialità rispetto a Lei). L’evidente imprecisione della Sua ricostruzione dei fatti anche a riguardo di ciò che Lei ha presentato come “non controverso” costituisce per me la dimostrazione più chiara del fatto che ciò che Lei ha detto circa la vicenda che mi riguarda è solo funzionale al Suo protagonismo mediatico, incline com’è a sollecitare l’ammirazione per la Sua persona ed i mirabolanti progressi che l’Anm avrebbe realizzato sotto la Sua “guida”, tanto da compiacersi pubblicamente del fatto che  circoli tra gli utenti delle mailing list di settore la mitologia delle Sue gesta e – come emblema di ciò – la battuta a riguardo della criticità dei “carichi esigibili” relativi al collegio dei probiviri. Quest’ultimo si è – certamente – a lungo industriato intorno alla vicenda della mia propensione ad evadere le tasse e – così facendo e continuando su questa china – risolleverà senz’altro le sorti un po’ sbiadite della nostra gloriosa associazione di categoria. E’ proprio a quest’ultimo riguardo che si appunta il mio maggior stupore circa le cose che Lei ha riferito in trasmissione durante l’intervista, e cioè riguardo al fatto che io mi sarei dimesso per eludere il procedimento disciplinare associativo che Lei ha ritenuto di sollecitare avanti al collegio dei probiviri. Mi dispiace e mi stupisce che Lei abbia frainteso anche questo e mi sorprende che Lei non abbia compreso che io non mi sono affatto dimesso per eludere il procedimento (disponendo peraltro di solidi argomenti utili a dimostrare la correttezza della mia condotta e la mia estraneità ai fatti che mi sono contestati, tra i quali non vi è affatto quello dell’evasione fiscale), ma invece per rimostranza e fastidio nei riguardi di una associazione di categoria che consuma il tempo e l’ingegno dei suoi migliori dirigenti per mettere sotto procedimento disciplinare chi come me (dopo oltre 30 anni di illibato esercizio delle funzioni giudiziarie e di perseverante vincolo associativo) viene messo alla gogna da artefatte indagini di polizia, piuttosto che occuparsi nel riconquistare il sempre più flebile consenso della categoria e nell’arginare il discredito che l’inefficienza di molti settori del sistema giudiziario nazionale finisce per catapultare addosso ai magistrati. D’altronde, Le confesso che le dimissioni mi avrebbero creato sofferenza fino a qualche tempo addietro ma ora –dopo avere avuto mostra, anche in vari episodi antecedenti a quello di ieri sera, della facilità con la quale Lei esprime giudizi feroci a riguardo di casi personali, trasformando la Sua loquacità in azzardo per la categoria – preferisco non essere rappresentato in tal modo e mi congedo agevolmente. Mi preme rammentarLe la vicenda del presidente Carnevale, che ha avuto bisogno di tredici anni per recuperare integralmente la propria dignità di magistrato: resisterò anch’io alla stessa stregua, fidando nella possibilità di diventare un caso di scuola come il suo. E ciò perché la mia condotta è improntata al principio “male non fare, paura non avere”, proverbio che spero Le rammenti qualcosa. Non mi attardo oltre a perorare la mia causa, per non apparire esasperato difensore di me stesso e La saluto con non poco rammarico per avere sostenuto la sua elezione al direttivo dell’associazione di categoria, in attesa di conoscere che cosa saprà dire a riparazione delle mia dignità che ha così pesantemente vilipeso, in virtù della notorietà dei fatti menzionati  – e  senza concedermi diritto di replica, facendo affidamento sul potere mediatico che per occasione Le è concesso – quando sarò assolto da ogni addebito e quando la mia dichiarazione dei redditi per l’anno 2016 sarà sottoposta a positivo controllo. Ma temo che non potrò aspettarmi molto: impegnato com’è a rendere autoreferenziali interviste televisive e a giurare sulla immoralità di chi meglio Le fa comodo, non avrà certo tempo per rammaricarsi di avere imprudentemente fatto riferimento alla mia persona a riguardo di fatti che – nella Sua onniscienza – Le sono risultati “non controversi”. Cordiali saluti. Giuseppe Caracciolo 

 B&b a luci rosse, annullate condanne per il giudice di Cassazione e la compagna ex poliziotta. Nel locale fittato in nero un giro di prostituzione: manca la contestazione dell'accusa e la corte d'Appello di Lecce ha azzerato il processo, restituendo gli atti alla Procura che dovrà ora decidere se esercitare l'azione penale per il reato di favoreggiamento della prostituzione. La Repubblica il 19 dicembre 2020. La Corte di appello di Lecce, rilevando l'assenza formale dell'accusa, ha annullato la sentenza di condanna di primo grado emessa nei confronti del magistrato di Cassazione Giuseppe Caracciolo e della sua compagna ex poliziotta, Pasqua Biondi, accusati di favoreggiamento della prostituzione. L'indagine, avviata da poliziotti vicini di casa del magistrato, risale all'estate del 2016. Il magistrato, difeso dal professor David Brunelli, era stato subito sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e poi aveva scelto di essere giudicato con il rito abbreviato. In primo grado Caracciolo e la sua compagna, difesa dall'avvocato Ladislao Massari, erano stati assolti dalla contestazione di sfruttamento della prostituzione e condannati ad un anno di reclusione per il reato meno grave di favoreggiamento della prostituzione. Quest'ultimo reato però non era mai stato contestato formalmente dal pm agli imputati. L'accusa per i due era quella di aver affittato una casa vacanze nel centro di Lecce per una settimana a persone che l'avrebbero utilizzata non per turismo ma per esercitare la prostituzione e aveva fornito loro anche ulteriori servizi, quali la disponibilità di un garage, di una telecamera per il controllo degli ingressi, e un supporto logistico. Nell'appello la difesa ha sostenuto che i due imputati, a causa del brevissimo periodo in cui erano stati in contatto con le prostitute, non si erano accorti di nulla e che comunque quei servizi accessori erano forniti a tutti i turisti. Ha poi sostenuto che comunque per il reato per il quale erano stati condannati non vi era una regolare contestazione. La Corte d'appello ha accolto il motivo della mancata contestazione ed ha azzerato il processo, restituendo gli atti alla Procura della Repubblica che dovrà ora decidere se esercitare l'azione penale per il reato di favoreggiamento della prostituzione.

Affitto casa a prostituta, non è reato. Sabrina Arnesano il  29/01/2017 su masterlex.it. Non costituisce reato la locazione di appartamenti a prostitute. Dare in locazione appartamenti a prostitute non costituisce reato, se non sono finalizzati a favorire il meretricio. Lo ha dichiarato la Corte di Cassazione, sentenza 1773/2017 (sotto allegata). Molto spesso chi concede in affitto appartamenti è ignaro dell’utilizzo che se ne farà. Per questo se l’immobile viene destinato a un uso illecito, il proprietario non può essere considerato colpevole. Questo è quanto è accaduto a un locatario che ha dovuto subire il sequestro degli immobili per favoreggiamento alla prostituzione. La Corte di Cassazione ha accolto la richiesta nei confronti dell’interessato che il Tribunale di Messina aveva rigettato. Il Tribunale rimarcava che l’attività di prostituzione avveniva già da qualche tempo e che i condomini e l’amministratore avessero più volte invitato l’indagato a intervenire. La locazione degli appartamenti non poteva essere considerata illecita, perché gli immobili non erano aperti al pubblico. I due miniappartamenti, però, fruttavano una somma superiore rispetto ai canoni di mercato e il contratto non era stato risolto dopo la conoscenza del fatto. A ciò si aggiunge che il contratto era intestato a soggetti che non avevano mai risieduto nell’immobile, vivendo in altre regioni. L’appartamento, infatti, era sublocato ad altri soggetti di cui il proprietario sarebbe stato del tutto ignaro fino alle proteste dei condomini. Sarebbe bastato questo a condurre il Tribunale a mettere in stato d’accusa il malcapitato. La Corte ha, poi, precisato che l’indagato non può essere colpevole per diversi motivi. Il delitto di favoreggiamento alla prostituzione sussiste nel caso in cui vengono fornite prestazioni accessorie che agevolino suddetto reato. La Giurisprudenza della Corte ritiene che, anche qualora il proprietario dell’immobile fosse stato consapevole, non poteva dirsi colpevole. La cessione in locazione a una prostituta, infatti, integra il reato di favoreggiamento, solo se costituisce reale ausilio alla prostituzione. Sabrina Arnesano

PARMALIANA: LA CONDANNA DELL’EX PG FRANCO CASSATA, RESPINTA L’ISTANZA DI REVISIONE. Enrico Di Giacomo 17 Dicembre 2019 su Stampa libera.it – La Seconda sezione penale della Corte d’appello di Catanzaro ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di revisione della sentenza di condanna che era stata presentata dall’ex Procuratore Generale Franco Cassata, accusato di essere il ‘corvo’ che nel settembre 2009 ha inviato un bieco dossier anonimo allo scrittore Alfio Caruso (all’epoca impegnato nella stesura del libro “Io che da morto vi parlo”, una meticolosissima analisi sulla vita del professor Adolfo Parmaliana, 50 anni, ordinario di chimica a Messina, e delle avversità da lui patite fino al suo suicidio del 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia. Il sostituto procuratore generale ha concluso il proprio intervento sostenendo l’inammissibilità dell’istanza, cosi come hanno fatto gli avvocati Maria Rita Cicero, Biagio Parmaliana e Fabio Repici, per le parti civili, moglie, figli, madre e fratelli di Adolfo Parmaliana. I difensori dell’ex magistrato Franco Cassata, Giuseppe Lo Presti e Isabella Barone, hanno invece insistito per l’accoglimento della revisione sulla base delle testimonianze nel processo di Franca Ruello, Angelica Rosso e Domenico Bottari, impiegati della Procura Generale e dell’assoluzione dell’ex commesso della procura generale Ciro Alemagna nel processo per falsa testimonianza. In quel dossier il “corvo” denigrava pesantemente il prof. Parmaliana con toni e contenuti che qualificavano – e qualificano – la miseria umana dell’autore: 30 pagine finalizzate a demolire la credibilità di un uomo scomodo che aveva osato denunciare le infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi e che, evidentemente, faceva paura anche da morto. A seguito di quell’anonimo la moglie di Parmaliana, Cettina Merlino (difesa dagli avvocati Fabio Repici e Mariella Cicero), aveva presentato una denuncia contro ignoti indirizzando le indagini degli investigatori verso la Procura Generale di Messina allora diretta dallo stesso Cassata. Che, nel redigere il suo scritto, aveva commesso un errore fatale: al dossier aveva allegato un documento inviato da un fax di una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto e indirizzato alla Procura generale di Messina.

Colto in flagrante. Paradossalmente era stato lo stesso Franco Cassata a spianare la strada per la sua incriminazione mettendo a disposizione il suo ufficio al magistrato che indagava sulle calunnie nei confronti del defunto docente. Il pm aveva notato che all’interno di una vetrinetta nella stanza del Procuratore Generale c’era proprio quel dossier anonimo sul quale stava indagando. Tra gli appunti c’era addirittura un foglietto con la scritta “da spedire”.

Il personaggio. Nominato magistrato nel 1971, nel 1980 Franco Cassata era divenuto consigliere d’appello, e poi nel 1986 consigliere di Cassazione. Nel corso della sua carriera Cassata aveva retto la Procura generale di Messina in qualità di membro anziano nel 1999, tra il 2004 e 2005 e anche nel 2008. In questi anni moltissime sono state le battaglie condotte da Sonia Alfano, ex Presidente della Commissione antimafia europea, ma soprattutto figlia del giornalista assassinato da Cosa nostra nel 1993, Beppe Alfano, e dall’avvocato Fabio Repici, per chiedere al Csm la rimozione dello stesso Cassata dal suo incarico. Appelli e interpellanze che si sono sempre scontrati contro un vero e proprio muro di gomma eretto da una potentissima casta restia a fare pulizia al proprio interno. Per comprendere meglio la figura ibrida di Franco Cassata basta riprendere l’interrogazione parlamentare del 4 giugno 2008 del senatore Giuseppe Lumia indirizzata al ministro della giustizia. Nel documento riaffiorano uno dopo l’altro i “dettagli” inquietanti del potere incontrastato di questo ex magistrato, già presidente della “Corda Fratres” tra i cui soci spiccavano boss del calibro di Pippo Gullotti e Saro Cattafi.

Il testamento di Parmaliana. Leggendo l’incipit del libro di Alfio Caruso “Io che da morto vi parlo” emerge un ritratto autentico del prof. Parmaliana “considerato uno dei massimi esperti mondiali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile”. “All’impegno accademico Parmaliana ha unito per trent’anni un accanito impegno civile. Iscritto giovanissimo al Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore. Un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona franca dei grandi boss di Cosa Nostra, da Santapaola a Provenzano, fondamentale snodo del Gioco Grande, lì dove confluiscono e s’intrecciano mafia-massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni. Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del comune di Terme per infiltrazioni mafiose”. Ed è rileggendo uno stralcio della lettera che ha lasciato prima di lanciarsi dal viadotto di Patti Marina che si comprende ciò che ha vissuto in quel periodo. “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati … Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi. Non glielo consentirò… Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al Sen. Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo”.

La prima sentenza. “Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un Procuratore generale è stato condannato”. Era il 25 gennaio 2013 quando l’avvocato Fabio Repici si esprimeva così in un lungo articolo a sua firma a seguito della sentenza di condanna di primo grado comminata dal giudice di Pace di Reggio Calabria. In quel caso il giudice, che pure aveva concesso all’imputato le attenuanti generiche, aveva condannato per diffamazione Cassata ad una multa di 800 euro (!) ritenendo sussistenti a suo carico anche le circostanze aggravanti dei motivi abietti di vendetta in merito all’ultima lettera lasciata da Parmaliana e “dell’attribuzione di fatti determinati”. “Su un piano sostanziale – scriveva Repici – per la provincia di Messina è una delle sentenze più rilevanti degli ultimi decenni. Da domani la storia giudiziaria messinese sarà scissa in due fasi: prima della condanna di Cassata e dopo di essa. E, allora, quando l’avvenimento è ancora nella dimensione della cronaca e prima che si incardini nella storia, qualche ulteriore considerazione di dettaglio si impone. La prima riguarda la giudice, la dr.ssa Lucia Spinella, umile giudice onoraria: con quella sentenza, pronunciata nelle condizioni note a chi per tutto l’ultimo anno ha letto queste impressioni d’udienza, ha dimostrato schiena dritta come decine e decine di giudici togati tutti insieme sarebbero stati incapaci di fare”. “La seconda – sottolineava il legale – riguarda la moglie, i figli, i genitori e i fratelli di Adolfo. Non hanno riottenuto indietro la preziosa persona del loro congiunto ma hanno visto lo Stato restituire una volta per tutte l’onore al loro caro Adolfo, quell’onore che chi aveva avuto la fortuna di incrociarlo aveva colto all’istante ma che l’intera nazione aveva avuto la possibilità di conoscere solo un anno dopo il suo suicidio, grazie al libro ‘Io che da morto vi parlo’, scritto da un giornalista e scrittore a sua volta con la schiena dritta come Alfio Caruso”. “La terza – aggiungeva ancora – riguarda chi scrive e la propria collega Mariella Cicero, che per tutto quest’anno hanno avuto la ventura di tutelare processualmente la memoria di Adolfo Parmaliana. Hanno avuto una di quelle fortune che capitano raramente, servire una causa giusta, e vincerla, e sapere dunque che la loro professione ha avuto un senso nobile e che potrebbero smettere anche domani di esercitarla avendo comunque concorso a realizzare vera giustizia, quella sensazione che certi presunti principi del foro non raggiungeranno mai, nemmeno dopo centinaia e migliaia di cause vinte e proporzionati guadagni”. “La quarta riflessione, poi – concludeva Repici – riguarda Adolfo Parmaliana, figlio mirabile di questa Sicilia disgraziata, inseguito dalla persecuzione di iene e sciacalli perfino dopo la sua morte. Da ieri sera le infamie contro di lui svaniranno in fretta. Pazienza se la sua terra non è stata capace di riconoscerlo in tempo, lui scienziato indiscusso e cittadino integerrimo e coraggioso, prima che si trovasse costretto a togliersi la vita”

La seconda condanna. Il 23 giugno 2015 la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la condanna nei confronti dell’ex procuratore generale di Messina, Franco Cassata, accusato di diffamazione pluriaggravata nei confronti del docente universitario Adolfo Parmaliana, morto nel 2008 dopo essersi lanciato da un viadotto dell’autostrada A20, nel territorio di Patti. I giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza del giudice di Pace di Reggio Calabria, Lucia Spinella, che al termine del procedimento penale aveva inflitto all’ex giudice una pena quantificata in 800 euro di multa ed il risarcimento del danno ai familiari dello stesso Parmaliana. Secondo l’accusa, l’ex procuratore barcellonese avrebbe diffuso un dossier, a lui riconducibile, che è stato giudicato diffamatorio nei confronti del docente. La parte civile era rappresentata in giudizio dagli avvocati Biagio Parmaliana, Fabio Repici ed Anna Maria Cicero.

La Cassazione conferma: destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. Siracusanews.it il 21 settembre 2020. La difesa di Musco, rappresentata dall'ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato dall’ex Pm Maurizio Musco confermando così la destituzione proposta dal Csm per non essersi astenuto da un’udienza il cui imputato era assistito dall’avvocato Piero Amara, con cui aveva un rapporto di amicizia. La sentenza – si legge sull’articolo de La Sicilia firmato da Francesco Nanìa – è stata emessa il 3 settembre al termine di un lungo iter nel corso del quale il magistrato aveva impugnato la decisione del Csm. La difesa di Musco, rappresentata dall’ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Sezione disciplinare del Csm, a giugno del 2019, aveva già deciso di destituire dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco per aver tenuto comportamenti che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria e per non aver osservato l’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. Nel 2016 già la Corte di Cassazione riconobbe “l’esistenza di uno strettissimo rapporto di amicizia con l’avvocato Amara”, sottolineando la gravità delle condotte e il danno “cagionato all’immagine della gestione equilibrata e imparziale della funzione giudiziaria del pubblico ministero”. Con queste motivazioni venne confermata la condanna per l’ex Procuratore Ugo Rossi e del Pm Maurizio Musco. In particolare, la commissione disciplinare del Csm aveva evidenziato che il magistrato avrebbe violato il dovere di astensione nei procedimenti penali nei quali era coinvolto l’avvocato Piero Amara (che ha patteggiato 3 anni di carcere nell’ambito dell’inchiesta sul Sistema Siracusa e le sentenze “pilotate” al Consiglio di Stato) con il quale Musco aveva un legame di amicizia consolidatosi nel tempo e arricchitosi di rapporti economici e imprenditoriali tanto “da divenire fatto noto nell’ambiente forense e giudiziario” e tale da far apparire il suo comportamento processuale “non scevro da condiscendenza” nei confronti del legale. Un atteggiamento tale da porre in essere comportamenti che hanno messo in dubbio la terzietà del magistrato. Si tratta dell’ultimo passaggio della vicenda dei “Veleni in Procura”, con il magistrato Musco – oggi a Sassari – condannato per abuso d’ufficio per aver arrecato un ingiusto danno all’ex sindaco di Augusta Massimo Carrubba e all’ex assessore Nunzio Perrotta nel caso Oikothen.

La Cassazione conferma: destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato dall’ex Pm Maurizio Musco confermando così la destituzione proposta dal Csm per non essersi astenuto da un’udienza il cui imputato era assistito dall’avvocato Piero Amara, con cui aveva un rapporto di amicizia. La sentenza – si legge sull’articolo de La Sicilia firmato da Francesco Nanìa – è stata emessa il 3 settembre al termine di un lungo iter nel corso del quale il magistrato aveva impugnato la decisione del Csm. La difesa di Musco, rappresentata dall’ex magistrato Marcello Maddalena, ha annunciato che ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Sezione disciplinare del Csm, a giugno del 2019, aveva già deciso di destituire dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco per aver tenuto comportamenti che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria e per non aver osservato l’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. 

Condannato in appello Ruggiero, il pm giustizialista di Trani in cravatta tricolore. Il Foglio il 22 luglio 2021. La Corte di appello di Lecce ha confermato la condanna di due pm: 6 mesi di reclusione per Michele Ruggiero e 4 mesi per Alessandro Pesce. La procura pugliese continua a dimostrare di essere il simbolo della malagiustizia del paese. La Corte di appello di Lecce ha confermato la condanna di due pm della procura di Trani: 6 mesi di reclusione per Michele Ruggiero e 4 mesi per Alessandro Pesce. I due magistrati erano accusati di tentata violenza privata, per aver minacciato durante un interrogatorio alcuni testimoni per spingerli ad ammettere di essere al corrente del pagamento di tangenti a un imputato nell’inchiesta “Sistema Trani”. In primo grado c’era stata una condanna che i giudici di appello hanno confermato, seppure dimezzando la pena. Se le vittime, titolari di un’impresa, avessero acconsentito per timore alla minaccia testimoniando una cosa falsa a pagarne le conseguenze sarebbe stato un innocente. E’ un comportamento particolarmente grave per un pubblico ministero che ha il dovere di cercare le prove a carico e anche a discarico degli indagati, ma non di certo deve inventarle. Ma ciò che è ancora più grave, al di là del caso singolo, è ciò che continua a emergere dalla procura di Trani che si continua a dimostrare il simbolo della malagiustizia del paese, un concentrato di tutte le disfunzioni del paese.

Inchiesta di Firenze, indagati Duchini e Colaiacovo: le accuse. Avviso di conclusione delle indagini a 7 persone tra cui l'ex pm di Perugia. Tra i reati contestati, abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Redazione di tuttoggi.info Mercoledì 23/10/2019. La Procura di Firenze ha chiuso l’inchiesta sull’ex procuratore aggiunto di Perugia Antonella Duchini, indagata per corruzione, abuso d’ufficio, rivelazione di segreto istruttorio e peculato. Tra gli indagati (l’avviso di conclusione delle indagini è arrivato a sette persone) anche Carlo Colaiacovo, patron Colacem ed ex presidente di Confindustria Umbria, gli ex sottufficiali del Ros, Orazio Gisabella e Costanzo Leone, e l’imprenditore Valentino Rizzuto. Secondo la procura di Firenze, Colaiacovo avrebbe istigato i concorrenti nella commissione dei reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreto. I fatti risalgono agli anni tra il 2016 e il 2017, quando Duchini, che indagava su un procedimento penale relativo alla famiglia Colaiacovo, “comunicava – si legge nelle carte – a Gisabella, e per suo tramite a Leone, notizie relative alla tempistica del compimento di atti di indagine del procedimento”. Inoltre la pm avrebbe fatto visionare atti di indagine ai carabinieri e avrebbe rivelato loro l’adozione di un decreto di sequestro preventivo e la possibilità di avanzare istanza di fallimento di società di Franco e Giuseppe Colaiacovo. “Violando i loro doveri di ufficio”, sarebbero state fatte visionare a un dipendente delle consulenze tecniche e le trascrizioni di conversazioni telefoniche intercettate e una nota della guardia di finanza di Perugia. Inoltre, a Carlo Colaiacovo sarebbe stata “comunicata l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo d’urgenza della quota della società Financo di proprietà della Franco Colaiacovo Gold”, fatto – secondo l’accusa – concordando contenuti e tempistica dell’emissione, al solo scopo di “impedire l’erogazione di finanziamenti in favore di Giuseppe e Franco Colaiacovo”, favorendo quindi Carlo Colaiacovo nel suo progetto di acquistare quote. Tesi che il diretto interessato respinge: contattato dal Corriere dell’Umbria, fa sapere di non aver commesso i fatti contestati, tra cui l’acquisto delle quote che non si è mai verificato. Accuse respinte al mittente, in passato, anche dagli avvocati del magistrato, Nicola Di Mario e Michele Nannarone, che a metà luglio 2018 definivano gli addebiti “privi di fondamento giuridico”. Tesi ribadita con una nota oggi, con cui Duchini, insieme a Gisabella e per tramite dei legali Di Mario e Nannarone, scrivono che “la lettura delle evidenzia delle criticità di contenuto, che riguardano da un lato l’inquadramento giuridico della vicenda e dall’altro la ricostruzione del suo profilo storico-fattuale”. I legali in particolare segnalano un “assoluto difetto degli elementi costitutivi dei reati” e che “le contestazioni di peculato riguardano decreti di liquidazione compensi per attività di consulenze tecniche svolte in modo effettivo e corretto e perciò doverosamente retribuite”. Duchini è inoltre indagata, insieme a Gisabella, all’imprenditore Valentino Rizzuto per corruzione. Nel mirino della Procura i 108mila euro che Rizzuto avrebbe dato a Gisabella, “insieme ad altre utilità, consistenti nel pagamento di viaggi all’estero, per avere Duchini, d’intesa con l’avvocato Pietro Gigliotti (che non è indagato) compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio, quali, tra gli altri, avere definito favorevolmente il procedimento contro Rizzuto”. A Gisabella, Duchini e altre due persone viene anche contestato il peculato (ma le accuse sono prescritte, in quanto risalgono a prima del 2011) e, nello specifico, di essersi appropriati di parte delle somme liquidate in favore di consulenti della procura, circa 400.000 euro.

Scafati, sentenze truccate: niente patteggiamento. Respinta la richiesta dell’ex Giudice di Pace Antonio Iannello. Ora rischia il rinvio a giudizio per corruzione con altri sette. Alfonso T. Gueritore il 26 settembre 2020 su lacittadisalerno.it. Respinta la richiesta di patteggiamento, l’ex giudice di pace Antonio Iannello ora rischia di finire a processo insieme ad altri sette co-imputati. Il procedimento penale è quello sulle cosiddette “toghe sporche” di Torre Annunziata, fascicolo in mano al pm Anna Chiara Fasano del Tribunale nocerino. Nei giorni scorsi, infatti, il gip ha respinto la richiesta dell’avvocato Iannello, originario di Scafati, personaggio cardine dell’inchiesta, coinvolto nel presunto giro di mazzette e abusi al tribunale di città Oplontina. L’ex magistrato onorario, sotto accusa per corruzione in atti giudiziari, aveva chiesto di patteggiare la pena al termine della fase preliminare partita con il blitz del 27 settembre 2018, nel quale furono coinvolti altri 22 soggetti accusati a vario titolo sempre di corruzione in atti giudiziari. L’attività investigativa era parte di un più ampio contesto d’indagine sviluppato prima dalla Guardia di Finanza di Torre Annunziata, poi da quella di Roma, e infine dalle Fiamme gialle di Nocera Inferiore. Nel corso delle indagini, a seguito delle diverse verifiche incrociate svolte dalla polizia giudiziaria delle Fiamme gialle, Iannello aveva subito un sequestro penale per il pericolo di reiterazione e inquinamento del quadro indiziario, soprattutto in merito alla ricostruzione di sospette movimentazioni bancarie avvenute dopo la notifica dell’ordinanza cautelare. Nel frattempo l'inchiesta è giunta alle prime condanne, tutte con rito alternativo. Nel mirino delle Fiamme gialle erano finiti Giudici di Pace, consulenti, avvocati e procacciatori. Alcuni hanno chiuso la pendenza giudiziaria con il patteggiamento. Su Iannello i finanzieri hanno ricostruito operazioni di acquisto di veicoli e immobili intestati alla figlia, depositi in nome di familiari, numerosi versamenti bancari in denaro contante. Operazioni accertate nel periodo tra il 2015 e il 2018. E ancora bonifici dalle causali più svariate che coinvolgono anche le collaboratrici di studio, finite a loro volta nell’inchiesta che fece tanto scalpore. Gli investigatori hanno intercettato acquisti sproporzionati rispetto ai redditi dichiarati nonché captato intercettazioni telefoniche con un luogotenente dei carabinieri, a sua volta indagato, sulle preoccupazioni di Iannello sui possibili accertamenti bancari. Anche i social, definite dal gip “fonti di informazioni aperte”, offrirono altri spunti per la ricostruzione del tenore di vita di Ianiello e della sua famiglia ritenuto non confacente con i redditi dichiarati: viaggi e spostamenti dai costi importanti e una crescita patrimoniale quanto mai sospetta. Per la procura costituirebbero variabili illecite, indicatrici preziose. L’inchiesta è arrivata ora alla fase finale e l’ex giudice rischia il rinvio a giudizio insieme ad altri sette correi. Per quanto riguarda Iannello, l’avvocato di fiducia Francesco Matrone aveva scelto per lui lo scivolo del patteggiamento. Richiesta che aveva incassato anche il parere favorevole del pm Fasano. Il gip del Tribunale dell’Agro, invece, non è stato dello stesso avviso ed ha rigettato la proposta, rinviando a giudizio l’ex magistrato ordinario. Ora si attende la convocazione dell’udienza preliminare che dovrà decidere se Iannello dovrà essere mandato a processo per le gravi accuse di corruzione. Alfonso T. Gueritore

La denuncia poi ritirata, plenum spaccato sul voto. Il Csm salva Mario Fresa, numero 2 della Cassazione: la moglie lo aveva denunciato per maltrattamenti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Il colpo che le aveva sferrato in faccia non è bastato perché le lesioni “non sarebbero derivanti da una condotta intenzionale”. Così il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha salvato mercoledì 19 maggio il sostituto procuratore generale della Cassazione Mario Fresa dal trasferimento d’ufficio da Roma. Il procedimento nei confronti del numero 2 della Cassazione era nato per valutare la sussistenza dei presupposti per una sua "cacciata" dalla Capitale dopo la vicenda di maltrattamenti denunciati dalla moglie. L’aggressione, avvenuto nella casa dei coniugi Fresa al centro di Roma, risale al 10 marzo 2020 ed era stato riportato dal quotidiano La Repubblica. Il magistrato, in particolare, sarebbe stato sorpreso dalla moglie al telefono con un’altra donna. Da qui la violenta discussione terminata con un fortissimo pugno alla tempia assestato davanti al figlioletto e alla tata. La consorte di Fresa raggiunge il commissariato di San Vescovio e qui denuncia il consorte per maltrattamenti e lesioni, ma successivamente decide di ritirare la denuncia nei confronti del marito. Il plenum del Csm, riunitosi ieri, ha quindi deciso di archiviare la pratica aperta dalla prima commissione. Una scelta che ha spaccato i membri: 9 sì, 8 no e 8 astensioni. Ma a favore di Fresa si spende in particolare il pg della Cassazione, Giovanni Salvi, di cui Fresa è di fatto vice. Per Salvi, come ha ricordato in plenum, “pm e giudice hanno messo in discussione il nesso di causalità o meglio l’intenzionalità della condotta del dottor Fresa”. Quindi rileva, ha spiegato, “non solo un profilo di difetto di querela ma anche un profilo che segue alle dichiarazioni della persona offesa secondo le quali le lesioni non sarebbero derivanti da una condotta intenzionale”. Per Salvi dunque caso chiuso, anche perché nel corso del plenum ricordo ai colleghi delle “qualità professionali eccellenti” di Fresa. Quest’ultimo è un esponente di spicco del Movimento per la giustizia che, insieme a Magistratura democratica, rappresenta la sinistra giudiziaria all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Già consigliere del Csm dal 2006 al 2010, attualmente rappresenta la pubblica accusa davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Un incarico particolarmente prestigioso e di grande responsabilità.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 20 maggio 2021. La moglie si era presa un pugno in faccia. Al pronto soccorso dell' Umberto I di Roma erano stati espliciti: «Vistoso ematoma con rigonfiamento dell' arcata sopraccigliare». Un referto da boxe che non è bastato: ieri il plenum del Csm salva Mario Fresa, sostituto procuratore generale della Cassazione, e boccia il suo trasferimento per incompatibilità ambientale. Finisce 9 a 8, più una pattuglia di 8 astenuti, con una spaccatura che la dice lunga sul disagio al momento del voto. Stefano Cavanna, avvocato civilista in quota Lega, va giù duro: «A questo punto è inutile che noi mandiamo un magistrato nella commissione del Senato che studierà il femminicidio. Questa vicenda ha avuto grande clamore, è finita sui giornali, appanna l' immagine della magistratura, ma noi facciamo finta di niente». E Nino Di Matteo, icona della lotta alla grande criminalità, punta il dito contro l' ipocrisia della corporazione: «Questa storia è stata archiviata sul lato penale ma i pm di Roma non dicono che i fatti non siano avvenuti». E i fatti sono a dir poco inquietanti: la donna raggiunge il commissariato di San Vescovio il 10 marzo 2020 e qui denuncia il consorte per maltrattamenti e lesioni. Poi arrivano i camici bianchi che la visitano e notano «il vistoso ematoma con rigonfiamento». La prognosi è di sette giorni. Imbarazzante e anche di più. I quotidiani raccontano e salta fuori un altro episodio, precedente, che era sfuggito ai radar della giustizia. Ancora, emergono le umiliazioni subite dalla signora cui il consorte rinfacciava la perdita del fascino e lo sfiorire della bellezza. Parte l' indagine che però finisce in nulla per una serie di fattori: non vengono dimostrati i maltrattamenti che presuppongono un comportamento abituale e alla fine lei ritira anche la denuncia. Anzi, ridimensiona quel che è accaduto. Lui si difende parlando di una scenata di gelosia e di una colluttazione degenerata per sbaglio. Fresa non è una toga nelle retrovie: «il pm femminista», lo battezza il Riformista, sempre in prima linea nel difendere con appelli e interviste le donne da offese sessiste, come nel caso di Laura Boldrini messa alla berlina da Beppe Grillo. La procura della capitale invece frena, anzi archivia e, come sostiene Di Matteo, se la cava con un «tecnicismo»: si ferma senza entrare nel merito. Ci sarebbe poi l' indagine disciplinare, ma a quanto è dato sapere la procura generale della Cassazione, ovvero lo stesso ufficio in cui lavora Fresa, non ha ancora deciso se procedere o no. E qui si tocca un altro mistero italiano, perché Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, è sotto procedimento disciplinare per aver molestato una collega in ascensore: e però non ci sono denunce o referti medici, come per Fresa, ma solo le chat di Palamara, ritenute però più che sufficienti per portarlo davanti al tribunale di Palazzo dei Marescialli. Un rebus. Ma la giustizia ha molte frecce: ecco il fascicolo per trasferimento che arriva al plenum addirittura segregato: Di Matteo riesce a rendere pubblica l' udienza e insiste sulla delicatezza della questione: «La procura generale è un organo importantissimo e fra l' altro esercita l' azione disciplinare, ma la reputazione dell' ufficio è stata macchiata e per questo dobbiamo mandare un segnale, spostando Fresa». Un appello che cade nel vuoto. Anche se soltanto per un voto. È con una conclusione bizantina: si dà atto che Fresa non seguirà più i procedimenti disciplinari e nemmeno si interesserà delle controversie di famiglia. Insomma, non c' è il trasferimento ma c' è una specie di trasferimento o ghettizzazione interna. Al Csm, dove gli scandali non si contano più, va bene così.

Magistratura, scandali a raffica nei tribunali? Ma il governo non si muove sulla riforma delle giustizia: quel terribile sospetto. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Scrive Mario Draghi, nella premessa al "Piano nazionale di ripresa e resilienza" con cui chiediamo quattrini alla Ue, che quei soldi serviranno anche per fare una riforma della giustizia. L'obiettivo sarà «affrontare i nodi strutturali del processo civile e penale e rivedere l'organizzazione degli uffici giudiziari». Propositi meritevoli, ma il più importante è un altro: restituire credibilità alla giustizia. Perché ciò accada, le toghe debbono diventare responsabili, ossia pagare quando infrangono la legge. Cosa che non può avvenire se non si riforma il Consiglio superiore della magistratura, che da organo di autogoverno e "giudice dei giudici" è divenuto quel centro di traffici inconfessabili tra correnti e tra individui dipinto da Luca Palamara. Draghi e il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, questo lo hanno presente? Leggendo il Pnrr, il dubbio c'è. In quel documento l'esecutivo s' impegna infatti a varare «una riforma del meccanismo di elezione dei componenti del Csm e una rimodulazione dell'organizzazione interna di quell'organo», con l'intento di «garantire un autogoverno improntato ai soli valori costituzionali». Ma su cosa intenda fare, se voglia ad esempio passare per una forma di sorteggio dei componenti del Csm o per altre strade, il buio è assoluto. Nel piano si ricorda che la ministra ha affidato lo studio della pratica a una commissione, la quale si è divisa in tre sottocommissioni, i cui lavori dovrebbero finire il 15 maggio. La calendarizzazione nell'aula di Montecitorio dovrebbe avvenire «entro giugno 2021»: difficile, dunque, che prima dell'estate accada qualcosa di concreto.

La gerarchia dei mali. Insomma, la lentezza dei processi, sulla quale Draghi sembra avere le idee chiare, è una questione importante. Però la stortezza nell'applicazione del diritto, la perdita di stima nella magistratura e la inattendibilità del Csm sono mali peggiori, e per esse il rischio che i discorsi si trascinino per le lunghe, senza approdare a nulla, è concreto. È chiaro che il premier e il guardasigilli non intendono entrare in rotta di collisione con il composito mondo dei magistrati, nel quale le voci più forti appartengono a chi frena e non vuole cambiare le cose, e nemmeno mettere a rischio la tenuta della maggioranza, dove Cinque Stelle e Pd sono parte integrante del «sistema» descritto da Palamara. A ricordare che così non si può andare avanti, però, provvedono le notizie che continuano ad arrivare da ogni parte d'Italia, anche se la gran parte della stampa (terza gamba del «sistema», non a caso) fa di tutto per non vederle. Gianluigi Nuzzi e il sito Dagospia hanno reso pubbliche le abitudini di Piero Gamacchio, giudice tra i più importanti a Milano: lasciava conti salatissimi, non pagati, nei ristoranti di lusso e nelle boutique. Si è messo in aspettativa ammettendo di avere avuto «comportamenti di grave leggerezza». Il presidente del consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, che fu ministro del governo Monti, è stato appena iscritto nel registro della procura di Roma, indagato per induzione indebita «a dare o promettere utilità». Nel 2017 avrebbe indotto un avvocato a non licenziare una sua amica. Patroni Griffi si proclama innocente, e ovviamente lo è sino a prova contraria. Comunque vada, in questa storia c'è un magistrato che ha sbagliato qualcosa.

Giustizia, Creazzo lascia in anticipo: così si estingue il procedimento sulle molestie sessuali alla collega Sinatra. Conchita Sannino su La Repubblica il 13 maggio 2021. Il procuratore di Firenze va in pensione quattro anni prima del tempo. Una decisione che annulla l'indagine disciplinare che lo vede sotto accusa al Csm. Il magistrato: "Non avevo prospettive di carriera". Pensionamento anticipato. Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, getta la spugna: chiede di lasciare la toga con quattro anni di anticipo. La richiesta sarebbe già stata inoltrata al Csm e al ministero della Giustizia. Impossibile non collegare una tale decisione al procedimento disciplinare che lo vede sotto accusa dinanzi al Csm, per le presunte molestie consumate sulla collega, pm a Palermo, Alessia Sinatra.

Indagato per molestie il capo del tribunale del caso Grillo. Felice Manti il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. La denuncia di una giudice che ha lasciato la Sardegna. Il fascicolo già ai pm di Roma. Non c'è solo il caso del presunto stupro di Ciro Grillo e dei suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria ad agitare il palazzo di giustizia di Tempio Pausania. Se da un lato la vicenda relativa al figlio del fondatore del Movimento Cinque stelle si arricchisce di nuovi particolari e sebbene il processo a carico del ragazzo e dei suoi amici non sia neppure iniziato, nei corridoi del tribunale sardo da settimane si respira una bruttissima aria. Il perché è presto detto. All'inizio erano solo delle voci, poi il sospetto si è trasformato in certezze ed è esploso in tutta la sua gravità. Tra un'importante giudice del tribunale e il presidente Giuseppe Magliulo da tempo sarebbe in corso una battaglia giudiziaria di cui si starebbe occupando sia la Procura di Roma - competente territorialmente sul distretto giudiziario di Tempio Pausania - sia il Consiglio superiore della magistratura, dove sarebbe già aperto un procedimento disciplinare di cui si sarebbe discusso con lo stesso Magliulo alla fine dello scorso mese di aprile. Secondo alcune fonti contattate, il procedimento era stato assegnato prima al sostituto Pg che segue le procedure disciplinari in funzione di accusa Mario Fresa, poi sarebbe stato assegnato a una donna. Ma non si tratterebbe di una semplice schermaglia tra il presidente e una sua giudice, come può succedere in un ufficio giudiziario per incomprensioni o divergenze. L'accusa che riserva a Magliulo un giudice donna, arrivata a Tempio solo qualche anno fa per potenziare l'organico, ingolosita dai vantaggi professionali nello scegliere il tribunale gallurese, considerata sede disagiata, visti gli incentivi previsti (economici, di carriera e pensionistici), ma la cui identità è ancora segreta, sarebbe pesantissima: molestie sessuali. Tanto che la giudice peraltro non sarebbe più residente in Sardegna ma sarebbe tornata nella sua regione di origine già a dicembre, in attesa che la questione si chiarisca. L'indagine penale su Magliulo sarebbe già incardinata, e non è escluso che nei prossimi giorni ci possano essere degli sviluppi, come l'arrivo di un 415bis, vale a dire un avviso all'indagato della conclusione delle indagini preliminari. Ma al netto delle eventuali responsabilità del presidente del tribunale, che dovranno emergere solo da un eventuale procedimento a meno che il pm non decida per l'archiviazione, c'è una questione di opportunità su cui tutti si interrogano: è normale che un tribunale alle prese con un delicatissimo processo, i cui esiti sono imprevedibili sebbene molte delle prove siano di dominio pubblico o quasi (dal video delle presunte molestie ad alcune incongruenze nelle testimonianze rilasciate ai carabinieri e poi ai giornali), sia guidato da un magistrato su cui pende un'accusa gravissima, quella di aver molestato un giudice donna? Questa è la domanda che circola negli ambienti giudiziari galluresi. A complicare il processo è arrivata la deposizione alla Procura di Tempio della madre di Ciro Grillo, Parvin Tadjik, che scagionerebbe il figlio Ciro Grillo e i suoi amici dalle accuse di stupro mosse dalla ragazza. Secondo il racconto fatto dalla donna al procuratore Gregorio Capasso e dal pm Laura Andrea Bassani, nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 la notte di sesso sarebbe avvenuta non nell'appartamento di proprietà di Beppe Grillo ma in una dependance messa a disposizione da un'amica, il cui nome è protetto per la privacy, poco lontano da casa Grillo. Due dependance divise da un patio, è la versione della Tadjik. Per la signora Grillo «i ragazzi erano tutti tranquilli, avevano conosciuto due ragazze che si erano fermate da loro perché non se la sentivano di rientrare a Porto Pollo e che avevano fatto una spaghettata insieme». Nessuno della servitù né la notte né al mattino seguente si sarebbe accorto di nulla, tranne per un particolare: «Mangiavamo insieme tutti i giorni alle 14 ma quel giorno sono arrivati alle 15. Per questo ho chiesto spiegazioni e mi dissero di aver fatto tardi per aver accompagnato le due ragazze ad Arzachena».

Nessuna illusione. A Lecce, lo scorso luglio, è stato condannato a dieci anni, in primo grado, l'ex pm di Trani, Antonio Savasta: era finito a processo per aver pilotato sentenze assieme ad altri, in cambio di denaro e gioielli. E due giorni fa la procura salentina ha aperto le indagini sulla sorella di Savasta, ritenendo che pure lei abbia partecipato alla spartizione. Questo mentre a Potenza si è aperto il processo a un altro ex procuratore di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e altre cose. Per tutti loro vale la presunzione d'innocenza, ma l'idea che gli italiani hanno della magistratura esce ulteriormente peggiorata da queste e dalle altre storie. Il cattivo Palamara, alla fine, svuotando il sacco ha reso un servizio alla collettività. Ma la sua denuncia rischia di essere un'immensa occasione persa, se chi dovrebbe trarne le conseguenze non lo fa. E sperare in un'autoriforma della magistratura è da poveri illusi. Presidente Draghi, ministro Cartabia, tocca a voi, nessun altro può farlo. Ci siete?

Ciro Grillo, il capo del tribunale di Tempio Pausania nelle chat di Luca Palamara: quelle strane richieste d'incontro. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Nelle chat di Luca Palamara ci è finito anche Giuseppe Magliulo, presidente del Tribunale di Tempio Pausania dove rischia il processo Ciro Grillo. Gli avvenimenti sono ormai datati, perché legati alla sua nomina a presidente del tribunale, ma oggi più che mai - con Magliulo accusato di molestie sessuali - sollevano qualche sospetto. Nei messaggi dell'ex magistrato indagato per corruzione è il consigliere del Csm, Giuseppe Cascini, a chiedergli degli esiti della Quinta commissione. "Magliulo 5, Fracassi astenuto", è la risposta di Palamara che nel frattempo avverte anche altri colleghi tra cui Francesco Cananzi, factotum di Unicost, al quale chiede di organizzare un incontro con lo stesso Magliulo. Un anno dopo - spiega Il Giornale - è stato lo stesso Palamara a invitare Magliuolo a Olbia nell'ultima settimana di agosto del 2018. Invito declinato "perché andrò finalmente in ferie e rientro dai miei figli". Proprio Magliuolo però deve fare i conti con una recentissima indagine che lo vede indagato per molestie sessuali in seguito alla denuncia di una collega che da tempo lavorava al suo fianco. A rendere noto quanto sarebbe accaduto sono i suoi legali, che chiedono comunque di mantenere l'anonimato per la toga. "La mia assistita - scrive l'avvocato Ivano Iai - ha chiesto di poter essere trasferita in altra sede al fine di poter lavorare serenamente e in un ambiente lontano dalle ostilità". Richiesta a quanto pare rigettata visto che la donna risulterebbe ancora in organico al tribunale. Non solo, è l'ipotesi di Iai, "dopo l'audizione davanti a diverse autorità magistratuali e disciplinari, tra cui il Consiglio giudiziario del distretto, la mia assistita ha cominciato ad avvertire appunto delle ostilità, fino a essere addirittura ella stessa denunciata, ma con addebiti certamente infondati, in sede penale e disciplinare". Eppure è il legale di Magliuolo, Valerio Spigarelli, già presidente delle Camere penali, a mettere le mani avanti su un eventuale accostamento tra le accuse di molestie e il caso Grillo. A detta dell'avvocato infatti non è ammissibile "gettare un'ombra sulla figura di un magistrato che, fin a dal suo insediamento, ha operato senza risparmio per risanare un Tribunale che da anni opera in condizioni di estremo disagio, richiamando questioni di opportunità e accuse". 

Toghe nella bufera: il giudice di Tempio tra accuse e veleni. Anche lui nelle chat di Palamara. Felice Manti il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. Confermata l'indagine per molestie a carico di Magliulo, presidente del Tribunale sardo dove rischia il processo il figlio di Grillo Il suo nome spunta nel "Sistema" delle nomine. La notizia dell'indagine sul presidente del Tribunale di Tempio Pausania Giuseppe Magliulo per molestie sessuali piomba tra i corridoi del palazzo di giustizia gallurese come una bomba a tempo. Qualcuno ammette che sì, ne sapeva qualcosa. Altri annuiscono, altri cadono dalle nuvole. Il coinvolgimento di una giudice che da qualche anno lavora con Magliulo viene confermato dai suoi legali, che inviano una garbata precisazione, con la quale chiedono di mantenere l'anonimato per la toga: «Dopo aver brillantemente superato il concorso in magistratura, la mia assistita ha scelto di svolgere le funzioni in Sardegna - scrivono i legali - nessun appetito di natura economica (ipotizzata nell'articolo pubblicato ieri, ndr), può aver determinato la sua decisione, anche in ragione del fatto che si trattava di magistrato di prima nomina». Non solo i legali non smentiscono la denuncia ma aggiungono alla vicenda alcuni particolari che lasciano basiti. Scrive infatti l'avvocato Ivano Iai che dopo i fatti, risalenti alla prima metà del 2019, «la mia assistita ha chiesto di poter essere trasferita in altra sede al fine di poter lavorare serenamente e in un ambiente lontano dalle ostilità». E invece non solo la donna risulterebbe ancora in organico al tribunale ma, ipotizza Iai, «dopo l'audizione davanti a diverse autorità magistratuali e disciplinari, tra cui il Consiglio giudiziario del distretto, la mia assistita ha cominciato ad avvertire appunto delle ostilità, fino a essere addirittura ella stessa denunciata, ma con addebiti certamente infondati, in sede penale e disciplinare». È possibile che questo clima di cui parla il legale e l'addebito disciplinare di cui la donna sarebbe accusata nasca come forma di ritorsione? Che clima si respira in tribunale? Ci sono stati altri episodi? Nessuno vuole parlarne apertamente, qualcuno malignamente imputa a Magliulo soltanto un uso un po' spregiudicato dei social, come un selfie che lo ritrae in canottiera in quello che sembrerebbe il suo ufficio in tribunale. Avremmo voluto parlarne con il presidente, che ha declinato l'invito a chiarire invitandoci a parlarne con il legale, Valerio Spigarelli, già presidente delle Camere penali, al quale non è piaciuto l'accostamento tra le vicende del suo assistito e il caso di Ciro Grillo e le accuse di stupro di cui dovrà rispondere insieme a tre suoi amici «proprio quando si era in attesa della scontata richiesta di archiviazione - che si ha motivo di ritenere sarà formalizzata in questi giorni - in ordine a fatti totalmente inconsistenti e seccamente smentiti dagli accertamenti svolti nelle sedi competenti». Secondo il legale «gettare un'ombra sulla figura di un magistrato che, fin a dal suo insediamento, ha operato senza risparmio per risanare un Tribunale che da anni opera in condizioni di estremo disagio, richiamando questioni di opportunità e accuse... pendenti che sono totalmente insussistenti alla luce delle regole e dei principi vigenti nel nostro ordinamento, appare frutto di una cultura del sospetto che ci si aspetterebbe estranea ad una testata che fa del garantismo la sua linea editoriale sui temi giudiziari». Insomma, per Magliulo tutto sarà archiviato in fretta. Vedremo se avrà ragione. Della nomina di Magliulo a presidente del tribunale si parla nelle chat di Luca Palamara finite nel mirino della procura di Perugia. È il consigliere del Csm Giuseppe Cascini a chiedere conto a Palamara degli esiti della Quinta commissione, e Palamara risponde, tra gli altri, con «Magliulo 5, Fracassi astenuto». Del verdetto avverte anche altri colleghi tra cui Francesco Cananzi, factotum di Unicost, al quale chiede di organizzare un incontro con lo stesso Magliulo. I due evidentemente diventeranno amici, tanto che secondo Dagospia diventerà uno dei più assidui frequentatori di quell'ufficio, tanto che un anno dopo è lo stesso Palamara a invitarlo a Olbia nell'ultima settimana di agosto del 2018. Invito declinato «perché andrò finalmente in ferie e rientro dai miei figli».

IL CSM ESPELLE DALLA MAGISTRATURA IL GIP DE BENEDICTIS CHE SI ERA DIMESSO. Il Corriere del Giorno il 13 Ottobre 2021. L’accettazione da parte del Csm delle dimissioni di De Benedictis determinerà un beneficio erariale per lo Stato, in quanto l’assegno non sarà più versato e la pensione arriverà soltanto quando l’ex giudice raggiungerà l’anzianità pensionistica prevista. Giuseppe De Benedictis, l’ex gip di Bari arrestato ad aprile per corruzione in atti giudiziari e detenzione di un arsenale da guerra, da oggi non è più un magistrato. Lo ha deciso il plenum del Csm, a maggioranza con 8 astensioni, dopo che la quarta commissione del Consiglio superiore della magistratura aveva accolto la sua richiesta di dimissioni, nonostante un procedimento disciplinare pendente a suo carico , considerando l’ “evidente e primario interesse dell’amministrazione a far cessare il rapporto di servizio con una persona la cui presenza nell’ordine giudiziario compromette in modo significativo il prestigio dell’ordine stesso“. I fatti dei quali è accusato De Benedictis dalla Procura di Lecce, secondo i consiglieri del Csm sono talmente gravi da esercitare un veloce allontanamento dalla magistratura nonostante la ritualità prevederebbe che la decisione venga adottata soltanto all’esito dei procedimenti penale e di quello disciplinare. Ma in questo caso è stato proprio l’ormai ex-magistrato De Benedictis a decidere di lasciare la magistratura, subito dopo che lo scorso 9 aprile i militari del Nucleo investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Bari lo avevano fermato fuori dallo studio dell’avvocato Giancarlo Chiariello, con in tasca 5mila 500 euro. A seguito della perquisizione effettuata nella sua abitazione di Molfetta erano stati scoperti ben 57mila 700 euro in contanti occultati dietro delle prese elettriche. De Benedictis in una conversazione telefonica intercettata lo stesso 9 aprile mentre parlava con un amico di Altamura diceva: “Chiariello stava puntato, mi sono dimesso per evitare il carcere, speriamo che mi diano i domiciliari”. Le sue dimissioni non bastarono a sfuggire alla custodia cautelare che venne trasformata a luglio in arresti domiciliari per la corruzione ma non per il possesso del più consistente deposito di armi mai rinvenuto dall’ Autorità Giudiziaria, come affermò il procuratore capo della Procura di Lecce dr. Leone de Castris, né l’avvio del procedimento disciplinare, che era stato avviato lo scorso 14 aprile congiuntamente dalla Procura Generale della Cassazione e dal Ministero della Giustizia e il 14 aprile, a seguito della notizia proveniente dalla procura di Lecce dell’arresto e della successiva perquisizione. Il Csm aveva disposto a seguito dell’ordinanza cautelare, come di prassi, la sospensione cautelare dalle funzioni del De Benedictis e dallo stipendio collocandolo fuori organico. La stessa azione disciplinare è stata poi replicata per la questione delle armi nascoste nella masseria di Andria di un suo amico e sodale. La presenza della richiesta di dimissioni del De Benedictis, continuava ad incombere assieme tutte le conseguenze collegate e di cui l’ ex-magistrato era perfettamente a conoscenza, come si evinceva dalle conversazioni telefoniche intercettate, in cui diceva ad un amico : “Il problema è che io adesso ho 38 anni di contributi , ma ce ne vogliono 43 per prendere la pensione e non li posso neanche pagare io perché è proibito ai dipendenti pubblici, quindi devo trovare un altro lavoro che mi fa cinque anni di contributi“. Nei calcoli effettuati fatti dai magistrati componenti della IVa Commissione del Csm hanno influito però anche altre valutazioni, e cioè la circostanza che l’accettazione delle dimissioni di De Benedictis non fa decadere l’interesse del Csm a portare avanti il procedimento disciplinare, in considerazione che quanto accaduto, scrivono “ha causato un rilevante danno all’immagine e al prestigio della magistratura (visto anche il significativo clamore mediatico)”. Ma anche l’evidenza che De Benedictis percepisce attualmente dal Ministero di Giustizia l’assegno alimentare previsto per non lasciare i magistrati sospesi privi di sostentamento, e che, in caso di assoluzione (circostanza possibile, ma quasi irreale sulla base delle evidenze probatorie degli inquirenti) avrebbe potuto chiedere gli arretrati e l’adeguamento della pensione. La Quarta commissione ha evidenziato questa situazione, come si legge nel documento che il CORRIERE DEL GIORNO pubblica in esclusiva : ” De Benedictis non potrà accedere al trattamento pensionistico, non avendo maturato i prescritti requisiti né per limiti di età ( 70 anni, e lui ne ha 59) né per anzianità di servizio, che per gli uomini corrisponde a 43 anni di contributi e lui ne ha 36“. L’accettazione da parte del Csm delle dimissioni di De Benedictis, secondo il Csm “determinerà un beneficio erariale per lo Stato“, in quanto l’assegno non sarà più versato e la pensione arriverà soltanto quando l’ex giudice raggiungerà l’anzianità pensionistica prevista.

MAZZETTE PER OLTRE 70 MILA EURO AL GIUDICE DE BENEDICTIS. LA PROCURA DI LECCE CHIUDE LE INDAGINI. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2021. Secondo la Dda della Procura di Lecce, l’ex giudice bare insieme all’avvocato Chiariello e altri indagati, avrebbe aiutato gruppi criminali della regione ad accrescere il loro potere. Concluse le indagini della la Direzione distrettuale antimafia (Dda) della Procura di Lecce sul giudice dimissionario del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, arrestato il 24 aprile scorso , accusato di aver incassato mazzette per 77.500 euro in cambio di attenuare le misure cautelari emesse a carico di appartenenti alla mafia del Nord della Puglia, e dell’avvocato Giancarlo Chiariello, 70, anche lui barese, nella cui abitazione sono stati ritrovati un milione e 200mila euro in banconote, che è stato sospeso dalla professione per dieci mesi dopo aver manifestato la volontà di cancellazione dall’albo ed alcuni giorni fa è stato scarcerato con concessione dei domiciliari. Stralciata la posizione, con richiesta di archiviazione, di un altro avvocato Paolo D’Ambrosio del foro di Foggia, inizialmente coinvolto nell’indagine. È circoscritta ai soli episodi del blitz di fine aprile l’inchiesta principale per corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante dell’agevolazione delle associazioni mafiose. Insieme al giudice De Benedictis e l’avvocato Chiariello sono indagati anche suo figlio Alberto Chiariello, 30 anni, di Bari, avvocato; Marianna Casadibari, 45 anni, avvocatessa; Danilo della Malva, 35 anni, di San Giovanni Rotondo, collaboratore di giustizia; Roberto Dello Russo, 41 anni, di Terlizzi; Antonio Ippedico, 49 anni, di Foggia; Pio Gianquitto, 42 anni, di Foggia; Matteo Della Malva, 50 anni, di Vieste; Valeria Gala, 26 anni, di Vieste; ed il carabiniere Nicola Vito Soriano, 58 anni, di Bari, in servizio nella sezione di Polizia giudiziaria della Procura di Bari. Sono quattro gli episodi di corruzione in atti giudiziari, uno di rivelazione del segreto di ufficio contestati dalla procura di Lecce. Quest’ultimo è in relazione alle notizie riservate che il carabiniere Soriano avrebbe fornito secondo le accuse, al giudice De Benedictis sui collaboratori di giustizia che stavano parlando di provvedimenti favorevoli ai clienti dell’avvocato Giancarlo Chiariello emessi dal giudice De Benedictis, grazie all’operato di Marianna Casadibari, che secondo gli accertamenti delle indagini, dell’inchiesta manteneva i contatti fra il giudice ed il noto avvocato del Foro di Bari.

Il primo episodio sulle corruzioni in atti giudiziari, riguarda Danilo Della Malva che lo scorso l’11 marzo ottenne dal Gip De Benedictis la revoca degli arresti in carcere, trasformati in domiciliari con braccialetto elettronico da trascorrere nel comune di Vasto Marina (in provincia di Chieti) . Questo provvedimento sarebbe stato concesso attraverso il versamento di 30mila euro dall’avvocato Chiariello al giudice, anche attraverso Matteo Della Malva, zio dell’indagato, e di Valeria Gala. Per questo episodio viene contestata l’aggravante di avere agevolato il “clan” mafioso di Vieste di cui farebbe parte Danilo della Malva.

Il secondo episodio riguarda Roberto Russo che il 24 giugno 2020 fu fatto uscire dal carcere con destinazione alla comunità Airone di Trepuzzi. Questa concessione dell’attenuazione della misura cautelare avrebbe consentito al giudice di incassare 15mila euro e poi successivamente altri 18mila euro. Ed altri 4.000 euro per consentire all’indagato di essere successivamente trasferito nella comunità Spazio Esse di Bari-Loseto. Per questi episodi viene contestata l’aggravante di avere agevolato l’associazione mafioso-camorristica di Bitonto.

Il terzo episodio coinvolge il pregiudicato Pio Gianquitto che lasciò il carcere il 16 novembre 2020 ottenendo in cambio di 5mila euro pagati al giudice, l’obbligo di dimora nella sua citta, Foggia. Anche in questo caso è stata contestata l’aggravante di avere favorito il clan mafioso Società Foggiana. 

L’ultimo dei quattro episodi riguarda Antonio Ippedico anche lui appartenente al clan mafioso Società Foggiana. che lo scorso 31 marzo ottenne i domiciliari, pagando 5.500 che sarebbero andati per questa concessione al giudice De Benedictis.

I pubblici ministeri Roberta Licci ed Alessandro Prontera sotto il coordinamento del procuratore Leonardo Leone de Castris hanno stralciato il fascicolo di indagine su altri quattro episodi contestati nell’inchiesta principale, secondo cui il giudice De Benedictis sia sceso a patti con altri avvocati o imputati in cambio di somme di denaro o di altri vantaggi.

Procedono invece autonomamente le indagini della squadra mobile di Bari, coordinate dalla stessa Dda di Lecce, sul ritrovamento dell’arsenale di armi in possesso del giudice De Benedictis fatte custodire nella masseria di Andria dell’imprenditore Antonio Tannoia, in cui è indagato anche il sottufficiale maggiore dell’Esercito, Antonio Serafino. Vi è anche un terzo procedimento, gestito dai magistrati della Procura di Bari, nei confronti di Giancarlo Chiariello e suo figlio Alberto, entrambi indagati per riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, dichiarazione infedele e sottrazione fraudolente al pagamento delle imposte. L’inchiesta viene coordinata direttamente dal procuratore facente funzione Roberto Rossi (che la 5a commissione cariche direttive del CSM ha recentemente indicato all’unanimità come prossimo procuratore capo del capoluogo, in attesa della decisione finale del plenum) , ed è stata avviata dopo gli arresti disposti dai magistrati della Procura di Lecce nell’ambito dei quali, nel corso di una perquisizione domiciliare a casa del figlio Alberto Chiariello, gli investigatori hanno scovato due borsoni occultati in un divano, contenenti la somma di un milione 200mila euro in contanti.

"Almeno cinque avvocati di Bari e Altamura pagavano il gip": le rivelazioni dell'ex boss di Japigia inchiodano De Benedictis. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 25 Giugno 2021. Domenico Milella, oggi pentito, ha raccontato ai pm salentini il giro di presunte mazzette che legavano l'ex giudice molfettese a clan, avvocati e imprenditori. La testimonanza nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in carcere il magistrato: risponde, fra l'altro, di corruzione in atti giudiziari. Ha confermato le pesanti dichiarazioni che aveva fatto davanti ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia barese: "Il giudice Giuseppe De Benedictis prendeva soldi per le scarcerazioni tramite alcuni avvocati". Domenico Milella, ex braccio destro del boss di Japigia Eugenio Palermiti e oggi collaboratore di giustizia, è stato ascoltato dai magistrati di Lecce che coordinano l’inchiesta che il 24 aprile ha fatto finire in carcere De Benedictis insieme con l’avvocato Giancarlo Chiariello e il pregiudicato viestano Danilo Pietro Della Malva.

Bari, in 29 «omissis» le verità dell’ex gip De Benedictis. Le rivelazioni di De Benedictis: ha parlato di persone estranee all’indagine per mazzette. Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2021. La parola più ricorrente nei verbali dell’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis non è «corruzione», piuttosto che «tangenti» come ci si aspetterebbe per una brutta storia di soldi in cambio di scarcerazioni facili. Il vocabolo che rimbalza di più è infatti «omissis», formula latina utilizzata negli atti giudiziari per non fare emergere circostanze che al momento, per esigenze investigative, devono rimanere segrete. Se si aggiunge che dagli interrogatori emerge come il magistrato molfettese abbia anche depositato un suo memoriale, facile intuire che la vicenda nel suo complesso non è affatto conclusa. Ma procediamo con ordine. Ben 25 pagine sono interamente barrate con la parola «omisiss» che rimbalza spesso negli interrogatori, complessivamente per 29 volte. Una evidente conferma sul fatto che, oltre l’inchiesta formalmente chiusa per corruzione in atti giudiziari, che vede tra gli indagati una dozzina di persone tra cui De Benedictis e l’avvocato barese Giancarlo Chiariello, la Procura di Lecce è al lavoro su altro. Quanto al filone concluso, ricordiamo, nel mirino dei carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Bari che hanno condotto le indagini, sono finiti quattro episodi di corruzione in atti giudiziari, presunte tangenti che sarebbero state versate dall’avvocato Chiariello al giudice De Benedictis, per la scarcerazione di Ippedico, Dello Russo, Gianquitto e Della Malva. De Benedictis il 9 aprile fu sorpreso in flagranza dopo aver ricevuto dei soldi da Chiariello. Nella abitazione del giudice furono trovati circa 60mila euro in contanti, in casa di Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo e anche lui indagato, furono trovati invece 1,2 milioni in due zaini. Negli interrogatori fiume il magistrato molfettese ha fornito una serie di spunti investigativi adesso al vaglio dei pm che hanno preferito chiudere la vicenda sui clamorosi arresti dello scorso aprile per andare avanti su altro. In un passaggio, per fare un esempio, il pm salentino Alessandro Prontera, si rivolge all’indagato De Benedictis dicendo: «Le chiedo espressamente, reati che ha commesso eventualmente da confessare? Oltre a questi?» Segue un omissis. Una scena che si ripete anche oltre. «Ora su altri fatti le vuole aggiungere adesso? O vuole che poi ci rivediamo, faccia mente locale», chiede il magistrato inquirente. Anche qui spunta un altro omissis: evidentemente copre dichiarazioni in cui si parla di questioni (e persone) estranee al motivo dell’arresto. Prendiamo anche il passaggio in cui il magistrato molfettese indagato per corruzione in atti giudiziari chiarisce alcuni passaggi sulla vicenda Soriano, il carabiniere accusato di divulgazione di atti coperti da segreto. Il militare in servizio nella Procura di Bari si sarebbe attivato illecitamente per sapere il più possibile sull’indagine in corso su Chiariello e che nei mesi successivi si sarebbe abbattuta come un ciclone anche su De Benedicitis che aveva chiesto al Csm di dimettersi dalla magistratura. «Consegnò a Chiariello il verbale di Oreste (un pentito, ndr); non credo che Soriano gli consegnò anche il verbale di Milella (un altro pentito, ndr) anche se lo informò delle sue dichiarazioni», dice De Benedictis. Nel rigo successivo, c’è un nuovo omissis. L’ex gip di Bari, poi, nega di avere avuto mazzette da due avvocati, uno deceduto, l’altro che a suo dire «in realtà per quello mi risulta millantava in giro rapporti corruttivi con i giudici per ottenere più soldi dai clienti». Anche qui, via con l’omissis che precede un passaggio molto significativo. L’interrogatorio tenuto il 10 giugno scorso nel carcere di Lecce volge al termine, ma prima di chiudere il verbale si dà atto del deposito di un memoriale scritto da De Benedictis. Le sue verità vengono riposte all’interno di una busta chiusa, controfirmata a penna dallo stesso indagato. Il fascicolo bis riparte anche da qui: una valanga di omissis e il memoriale.

L'ex gip De Benedictis: «Mi vergognavo a prendere quei soldi». Una mazzetta da 1.800 euro nascosta in una scatola di profumo. Gli altri retroscena dell'inchiesta. Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Luglio 2021. «L’avvocato Chiariello era uno che non dava niente per niente». È il 29 aprile 2021. L’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis risponde alle domande del pm di Lecce Alessandro Prontera che, con la collega Roberta Licci, ha coordinato le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo di Bari. Quattro giorni prima il magistrato molfettese era finito in carcere con l'accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con il penalista barese Giancarlo Chiariello, anche lui in cella ma adesso ai domiciliari. Si tratta del secondo interrogatorio dopo quello di garanzia, il primo dei tre «investigativi». Il documento è allegato agli atti dell'inchiesta chiusa sul primo filone d'indagine, quello sfociato nei clamorosi arresti. Ma ciò che le carte non possono svelare si cela dietro un numero imprecisato di omissis. Pagine intere barrate che costituiscono il fondamento del nuovo filone investigativo top secret, quello sul quale De Benedictis ha raccontato moltissimo. Ciò che si intuisce dalle trascrizioni è che il clima non è stato tra i più sereni quel giorno. «Credo che stiamo girando intorno intorno», dice a un certo punto un indagato piuttosto infastidito. «No è lei che gira intorno!», risponde stizzito il collega inquirente. Altro segnale in questa direzione è un altro scambio di battute. «Dottore posso precisare?», chiede l'indagato. «No, l'interrogatorio lo conduco io, mi faccia prima verbalizzare in maniera che andiamo in maniera precisa», replica il pm. Chissà quante volte nella sua attività De Benedictis avrà apostrofato allo stesso modo un indagato che lui stava interrogando. Ora si trova dall'altra parte della scrivania. Ma torniamo alle prime parole riferite dal giudice indagato. La Procura di Lecce procede riassumendo le dichiarazioni rese da Benedictis nel precedente interrogatorio, il primo. «Già mi vergognavo a prendere qui soldi», dice tra l'altro, mostrandosi molto sorpreso quando il pm Prontera riassume le dichiarazioni rese da Chiariello. «No in realtà al di là delle singole dazioni cioè legate a singole vicende io in questo periodo 2019/2020 sostanzialmente fino al 2021 in cui abbiamo riallacciato i rapporti in cui è ritornato il giudice De Benedictis, io comunque di tanto in tanto gli davo del denaro» è il Chiariello pensiero. Una circostanza che l'ex gip smentisce categoricamente. «Non esistono altre dazioni di denaro», taglia corto il presunto corrotto. Inquietante il suo ragionamento quando prova a darsi una spiegazione sul perché di quelle dichiarazioni. «Mi fa davvero specie questa uscita dell’avvocato che non riesco a spiegarmi se non con una vendetta». La pubblica accusa chiede di approfondire un po' meglio cosa intende con la parola "vendetta". A suo dire potrebbe essere stata una sorta di «ritorsione per la mia collaborazione», ovvero «perché mi sono lasciato prendere perché ho confessato». Poi ricorda una sorta di prassi di fronte alle istanze sintetizzata così: «Qualsiasi persona da me sottoposta all’obbligo di dimora, se la rispettava era liberata entro trenta massimo quaranta giorni, come tutti gli avvocati di Bari sapevano». Qualche passaggio prima l'indagato entra nel dettaglio sul passaggio di una mazzetta ricevuta da Chiariello, 1.800 euro, consegnati nei pressi di un bar. «Materialmente nella busta me l'ha data Alberto (figlio di Giancarlo, anche lui avvocato e indagato, ndr), ma suppongo l'avesse preparata Giancarlo». La tangente per una scarcerazione è custodita nella più classica delle buste ma all'interno di «una scatola di profumo». De Benedictis, infine, afferma di non avere mai parlato esplicitamente di tangenti con Chiariello jr e l'avvocato Marianna Casadibari, collega di studio di Chairiello sr. e anche lei indagata. Dice infine che può solo supporre che entrambi fungessero da mediatori e che sapessero delle tangenti, ma di non avere certezze sul punto.

De Benedictis: «Chiariello mi dava 100-200 euro al mese per correggere i suoi atti». Le confessioni dell'ex gip barese indagato dalla Procura di Lecce.  Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Luglio 2021. In materia di criminalità organizzata l’avvocato Giancarlo Chiariello era tra i professionisti più apprezzati del Foro di Bari. Ciò non toglie che anche i più bravi hanno necessità di confrontarsi con qualcuno altrettanto esperto. Il problema è che il penalista barese aveva individuato quel qualcuno nel giudice che spesso decideva sulla sorte dei suoi assistiti. Il «consulente» di Chiariello si chiamava Giuseppe De Benedictis, ex gip del Tribunale di Bari, pagato 100-200 euro ad atto. Questo, almeno, è ciò che il 23 giugno scorso lo stesso magistrato molfettese, in carcere con l’accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’avv. Chiariello, ha raccontato ai pm di Lecce Alessandro Prontera e Roberta Licci. «Con riferimento alle genesi del mio rapporto corruttivo con Chiariello - mette a verbale De Benedictis - devo effettivamente chiarire, oltre agli episodi di corruzione che mi vengono contestati, che dopo la morte di mia moglie nel 2016, quando ero ancora a Matera, Chiariello si riavvicinò a me». 

Mazzette in cambio di sentenze, la confessione di De Benedictis. L'ex gip barese: «Certi avvocati dicono di prendere soldi per me». Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2021. Il pm salentino Alessandro Prontera chiede: «Luogo in cui esercita l’attività lavorativa?». L’ex gip Giuseppe De Benedictis risponde: «Nessuno». Il magistrato inquirente incalza: «Professione, occupazione?». Anche la seconda risposta è più secca che mai: «Nessuna». Fa un certo effetto, non c’è che dire. Si apre così l’interrogatorio del 29 aprile, depositato insieme all’avviso di chiusura indagini sull’inchiesta per le mazzette in cambio di scarcerazioni facili. La «Gazzetta» ieri ne ha già anticipato alcuni stralci. Gli spunti sono numerosi. Come quando il pm chiede all’indagato una conferma su una «manovra strana» che il magistrato compie nel suo ufficio nel Palagiustizia di Bari, una volta intascata una mazzetta dall’avvocato Giancarlo Chiariello, anche lui accusato di concorso in corruzione in atti giudiziari.

Ecco come viene sviscerata l’immagine simbolo della clamorosa inchiesta.

PRONTERA: «Sembrava che volesse nascondersi a se stesso, mette sotto la scrivania, li tira fuori (1.800 euro, ndr) li mette nel portafogli e poi conta».

DE BENEDICTIS: «Lo confermo». (...)

P: «Pagamenti in denaro che lei ha ricevuto rispetto ai provvedimenti favorevoli che ha reso nell’ambito delle restanti contestazioni lei li conferma di cui all’ordinanza cautelare?».

DB: «Confermo tutto».

Una confessione piena per tre delle quattro scarcerazioni facili disposte in cambio di denaro, fatta eccezione per la vicenda Gianquitto (un avvocato di Foggia) che il magistrato indagato «esclude categoricamente». Una scarcerazione a suo dire «frutto unicamente della mia decisione». In questo caso Gianquitto «ha avuto tra virgolette la sfortuna di capitare in un momento in cui ricevevo una tranche del pagamento Dello Russo», spiega l’ex magistrato cui la Procura ha concesso i domiciliari per le tangenti, ma che resta in carcere per l’arsenale trovato ad Andria.

Ma De Benedictis parla anche di altro, ad esempio del suo rapporto con il carabiniere Nicola Soriano, all’epoca in servizio in Procura a Bari, cui è contestata la divulgazione di atti coperti da segreto. Il militare (indagato) avrebbe fornito informazioni riservate sull’inchiesta in corso su Chiariello e De Benedictis, in cambio di un interessamento dell’ex gip su un fascicolo di un parente del militare. «Lo ritenevo un buon amico», premette De Benedictis parlando di Soriano. In questo interrogatorio De Benedictis ha negato lo scambio di favori (informazioni sull’indagine in cambio di una mano per la sorte giudiziaria del parente), ma il Pm chiede all’ex gip perché alla proposta del carabiniere non abbia risposto declinando l’offerta con un «no» come ci si aspetterebbe da un magistrato. «Perché con gli amici non rispondo mai “no assolutamente”». E lui era peraltro «amico di tutte le divise».

Poi, però, nell’interrogatorio del 10 giugno, ancora una volta davanti ai pm di Lecce (in questa occasione c’è anche l’altro pm Roberta Licci), De Benedictis cambia versione. Dopo 8 pagine di «omissis» che lascerebbero presupporre dichiarazioni su altri episodi tuttora al vaglio della Procura di Lecce, sulla vicenda Soriano c’è una inversione a 180°. «Intorno al mese di dicembre dell’anno 2020 - ricorda De Benedictis -, Soriano mi venne a parlare nel mio ufficio e mi disse che i collaboratori (i pentiti di mafia che hanno parlato delle mazzette, ndr) si stanno stringendo sempre di più su Chiariello. Ostentai sicurezza e dissi al Soriano che non mi interessava questo discorso. Soriano mi parlò di Oreste e Milella (due pentiti, ndr) ed almeno di altri due, di cui non ricordo i nomi, dandomi contezza di quanto veniva dichiarato a verbale da loro. Mi cullavo del fatto che si riferissero ad altri magistrati e non a me». Valutazione sbagliata. E non finisce qui. «Gli altri due collaboratori - avrebbe riferito il militare - dicevano che Chiariello pretendeva molti soldi, sempre più soldi dai suoi clienti» perché, sarebbe stata la spiegazione dell’avvocato Chiariello, quest’ultimo «doveva dividere con i magistrati». Parlando, dunque al plurale. L’ex gip a questo punto racconta di aver detto a Soriano di avvisare Chiariello per il tramite dell’avvocato Marianna Casadibari, anche lei indagata, e definita la «mediatrice dei miei appuntamenti riservati con Chiariello».

In uno di questi incontri riservati, sempre a detta di De Benedictis, Chiariello, appreso da Soriano il contenuto delle dichiarazioni dei pentiti, riferì all’avvocato che «si doveva usare la massima attenzione anche se a suo giudizio non sarebbero mai riusciti ad arrivare a noi due per i fatti corruttivi». Altra valutazione sbagliata, alla luce dei clamorosi arresti. «Soriano consegnò a Chiariello il verbale di Oreste, non credo anche il verbale di Milella anche se lo informò delle sue dichiarazioni», spiega il magistrato molfettese. Logica la conseguenza alla luce di tutto questo: «È ovvio e logico che il mio impegno (a seguire il fascicolo sul parente del carabiniere, ndr) fu una contropartita rispetto alle rivelazioni di Soriano».

Infine De Benedictis, rispondendo a una domanda dei pm, nega di avere avuto mazzette da altri due avvocati baresi, uno dei quali «in realtà per quello che mi risulta millantava in giro rapporti corruttivi con i giudici per ottenere più soldi dai clienti».

Ex gip De Benedictis arrestato: interrogato in carcere Lecce. Dove è detenuto dal 24 aprile scorso per tangenti riscosse in cambio di scarcerazioni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2021. L’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis è sotto interrogatorio nel carcere di Lecce dove è detenuto dal 24 aprile scorso per tangenti riscosse in cambio di scarcerazioni. Assieme a lui è detenuto il penalista barese Giancarlo Chiariello, ritenuto dalla Dda di Lecce il corruttore. Entrambi sono accusati di concorso in corruzione in atti giudiziari. L’interrogatorio - a quanto si apprende - è condotto dai pm inquirenti del Tribunale di Lecce Roberta Licci e Alessandro Prontera. De Benedictis è assistito dagli avvocati Gianfranco Schirone e Saverio Ingraffia. All’ex magistrato il 13 maggio scorso la magistratura salentina ha fatto notificare in carcere un secondo provvedimento restrittivo per la detenzione illegale di un arsenale composto da oltre 200 pezzi tra fucili, mitragliatori, pistole, esplosivi, bombe a mano, una mina anticarro e circa 100mila munizioni di vario calibro.

Bari, tangenti in cambio di libertà: altri guai per l'ex giudice De Benedictis. La Dda di Bari chiede rinvio a giudizio per l’inchiesta «Grande Carro»: in due uscirono pagando una tangente all’ex gip. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Giugno 2021. Dall’elenco dei difensori di fiducia è (ovviamente) sparito il nome di Giancarlo Chiariello, l’avvocato barese arrestato il 24 aprile per aver pagato tangenti al gip Giuseppe De Benedictis. Perché almeno due suoi clienti, liberati dall’ormai ex giudice in cambio di soldi, erano coinvolti nell’operazione «Grande Carro, quella sulle infiltrazioni dei clan foggiani nel sistema dei fondi europei per l’agricoltura. Una maxi-indagine per cui la Dda di Bari, con le pm Lidia Giorgio e Bruna Manganelli, ha chiesto ieri il rinvio a giudizio. Sono 41 gli imputati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, favoreggiamento della mafia, intestazioni fittizie di beni, riciclaggio, estorsioni, corruzione, truffa aggravata all’Unione europea e alla Regione Puglia, armi corruzione e riciclaggio, che il 1° luglio dovranno presentarsi davanti al gup Anna Perrelli. L’inchiesta su Chiariello e De Benedictis si incrocia con quella dei carabinieri che ha scoperto come imprenditori vicini al clan Sinesi-Francavilla Foggia avrebbero messo le mani su almeno 24 milioni di fondi europei per l’agricoltura. È stato l’ex gip De Benedictis, a ottobre 2020, a concedere le 48 misure cautelari (tra carcere e domiciliari) chieste dalla Dda di Bari. Ma secondo la Procura di Lecce, un mese dopo De Benedictis avrebbe ricevuto 5mila euro in un bar vicino al Tribunale di Bari in cambio della scarcerazione di un avvocato di Foggia, Pio Michele Gianquitto, apparentemente inconsapevole dell’accordo corruttivo. Nello stesso fascicolo il gip avrebbe favorito un altro cliente di Chiariello, l’imprenditore Antonio Ippedico, scarcerato e messo ai domiciliari per motivi di salute in cambio di 5.500 euro: proprio quelli trovati addosso al giudice il 9 aprile, il giorno della perquisizione. Ippedico nel frattempo è tornato in carcere a Bari. Le indagini dei carabinieri hanno documentato gli incontri di De Benedictis con un altro imputato di «Grande Carro, l’agronomo Manlio Livio Cassandro, anche lui finito in carcere e poi rimesso in libertà dal Riesame per un difetto motivazionale dell’ordinanza. I militari hanno pedinato e fotografato il professionista durante un incontro con il giudice, il 7 febbraio, nella masseria di Altamura di Franco Acquaviva, l’amico del giudice: l’ex carabiniere chiedeva a Cassandro consigli per le sue pratiche di finanziamento con la Regione. Il gip di Lecce, Giulia Proto, ha riconosciuto la necessità di intercettare il telefono e mettere le microspie nell’auto dell’agronomo, a fronte dell’ipotesi che durante l’incontro potesse andare in scena «un “ritorno” della illecita mediazione svolta in tal caso da Acquaviva in favore di Cassandro presso il giudice De Benedictis». I carabinieri hanno documentato il passaggio di mano di alcuni «cartoni per la pizza», caricati nell’auto del magistrato. L’inchiesta della Dda di Bari, nata a seguito delle segnalazioni dell’Olaf (l’antifrode di Bruxelles), ruota intorno agli interessi dei fratelli Donato e Franco Delli Carri, 51 e 48 anni (in carcere a Voghera e Nuoro): utilizzando dichiarazioni false e grazie anche a dipendenti regionali compiacenti avrebbero ottenuto dalla Regione finanziamenti per 16 milioni di euro destinati ad imprese agricole ritenute a loro riconducibili. Donato Delli Carri è il killer di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso nel 1992 per essersi ribellato al racket.

I segreti di De Benedictis: spiato con un «trojan» come Palamara. Ecco come è stato violato il suo telefono. Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Maggio 2021. Aveva le cimici nel suo ufficio al terzo piano del Tribunale di Bari e nell’abitacolo della sua Audi A6 del 2018. Altre telecamere erano state montate nei luoghi degli incontri: sulla porta di ingresso di un bar non lontano dal Palazzo di giustizia e all’interno dell’ascensore di un palazzo del centro di Bari. Ma soprattutto, è stato il trojan inoculato in diversi cellulari a catturare i segreti dell’ex gip Giuseppe De Benedictis, finito in carcere il 24 aprile con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato Giancarlo Chiariello. I carabinieri li hanno pedinati e fotografati per mesi, documentandone gli incontri e - in alcuni casi - anche gli scambi di quelle che sembrerebbero mazzette. L’indagine della Procura di Lecce ha sfruttato molto le intercettazioni ambientali, anche attraverso i software spia. Un po’ come accaduto nell’indagine più celebre d’Italia sui magistrati, quella che ha riguardato Luca Palamara: la società che si è occupata dell’inoculazione dei trojan è la stessa, e le tecniche utilizzate sono le medesime. E mentre per Chiariello quell’approccio si è rivelato impossibile (l’avvocato utilizzava un telefono senza funzionalità smart, un Cxtel F10), sia De Benedictis che altre due persone usavano un iPhone. E sono stati infiltrati. Gli atti depositati dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera a supporto della misura cautelare in carcere disposta dal gip Giulia Proto raccontano come è avvenuta l’inoculazione del trojan. De Benedictis utilizzava un iPhone 11 Pro Max, su cui a giugno 2020 è stato effettuato un approfondimento propedeutico all’utilizzo di tattiche di social engineering. Senza entrare troppo nello specifico, i tecnici della società di Milano specializzata in intercettazioni informatiche - dopo aver determinato il modello del telefono e la versione del software installato -, hanno analizzato alcuni giorni di traffico dati per capire quali fossero le app più utilizzate dagli «obiettivi». E, una volta confermato che tra queste c’era Whatsapp, hanno utilizzato un trucco: i pm hanno ordinato al gestore telefonico di simulare un guasto, e quando l’utente ha chiamato il call center per protestare (i carabinieri lo ascoltavano...), a richiamarlo poco dopo sono stati quelli della società di Milano. «Guardi, per risolvere il suo problema deve effettuare un aggiornamento...», hanno detto al «bersaglio». Il payload dell’aggiornamento, ovviamente, era il software che trasforma il telefono in microspia. I carabinieri non sono però riusciti a catturare il traffico Whatsapp dei bersagli dell’indagine su De Benedictis, perché la funzionalità del software spia dipende dal modello e dalla versione software installata sul cellulare. Il «captatore informatico» può trasformarsi in microspia (o catturare le chat di whatsapp) solo in alcuni casi. E infatti di alcune delle telefonate che il giudice ha fatto attraverso Whatsapp c’è traccia soltanto perché la voce di De Benedictis è stata catturata dalle microspie dell’ufficio. Il telefonino gli è stato però sequestrato il 9 aprile, nel corso della perquisizione seguita alla consegna dell’ultima mazzetta da 5.500 euro: il giudice ha fornito il codice di sblocco, dunque la Procura potrà agevolmente acquisire tutte le chat di Whatsapp. L’installazione della microspia in auto, invece, è stata effettuata ordinando al fabbricante di consegnare una copia delle chiavi: se il lavoro è fatto per bene, il bersaglio dell’intercettazione non si accorge di nulla. I carabinieri del Reparto operativo di Bari hanno depositato centinaia di fotografie agli atti del procedimento di Lecce. Ad esempio quelle scattate nell’ascensore del palazzo in cui abita De Benedictis, nel centro di Bari, dove a Natale scorso alcuni inquilini si erano anche allarmati vedendo alcuni fili spuntare dal controsoffitto della cabina: hanno chiamato il 113 pensando a un pacco bomba. I poliziotti delle volanti hanno fatto intervenire i colleghi della Scientifica. E si è visto che l’incarto di colore chiaro intravisto da un ragazzo era in realtà di una microcamera dotata di sim collegata con fili elettrici a due pacchi batteria: anche quella, insieme alle telecamere di sicurezza del palazzo, ha documentato incontri tra De Benedictis e Chiariello che - secondo la Procura - avrebbero carattere corruttivo. Mazzette in cambio della scarcerazione di persone in odore di criminalità organizzata.

Altre armi sequestrate a Bisceglie: sono dell'ex gip De Benedictis?. Trovate dai carabinieri nell'abitazione del suocero. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Luglio 2021. Un’altra parte della collezione di armi del giudice barese arrestato potrebbe essere stata trovata a Bisceglie, in casa dell’anziano suocero. La hanno scoperta i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico in collaborazione con la Squadra Mobile di Bari, che stamattina hanno sequestrato altre pistole e fucili in casa di Mario Lanotte, 88 anni, padre della defunta moglie dell’ex gip Giuseppe De Benedictis, in carcere a Lecce con l’accusa di possesso di armi da guerra. Proprio per provare a ottenere i domiciliari (già concessi per le mazzette) anche in relazione all’inchiesta a suo carico sulle armi, l’ex gip ha presentato ricorso al Riesame di Lecce che ne discuterà il 6 agosto. Non è chiaro se le armi sequestrate stamattina possano essere riconducibili a De Benedictis, ma si tratterebbe di esemplari che non possono essere legalmente detenuti da privati. 

Bari, fucili, munizioni e pistole sequestrate a Ruvo di Puglia. Nell’ambito delle indagini che ha portato all'arresto dell’ex gip De Benedictis. La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Giugno 2021. Altri fucili, munizioni e pistole sono state sequestrate a Ruvo di Puglia dalla Squadra mobile di Bari nell’ambito delle indagini coordinate dalla Dda di Lecce che il 13 maggio scorso ha portato all’arresto dell’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e del caporal maggiore dell’Esercito, Antonio Serafino. Ai due fu notificata un’ordinanza di custodia cautelare in carcere dopo il ritrovamento, in una villa alla periferia di Andria, di un arsenale con centinaia di armi anche da guerra. I successivi accertamenti hanno portato a questo nuovo ritrovamento di armi, all’interno di un box di pertinenza di una abitazione alla periferia di Ruvo di Puglia, risultata nella disponibilità di Serafino ma sono ancora in corso verifiche per stabilire a chi appartengano le armi. Tra le armi sequestrate oggi c'è anche una penna-pistola. Nell’inchiesta della Dda di Lecce è indagato anche un imprenditore agricolo di Andria, Antonio Tannoia, nella cui villa il 29 aprile fu trovato un arsenale con oltre 200 armi, tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette «comunemente usate dalla criminalità organizzata in agguati armati» dicono gli investigatori, e circa 100 mila munizioni. Tannoia con l’ex gip De Benedictis e il militare Serafino rispondono di porto e detenzione di armi da guerra ed esplosivi, di armi comuni da sparo e di munizionamento per armi da guerra e per armi comuni. "La perquisizione - si legge in una nota della Questura di Bari - è scattata a seguito di ulteriori accertamenti finalizzati a rintracciare materiale bellico e micidiali armi, che potevano non essere state rinvenute nel corso dell’operazione dello scorso 29 aprile». A De Benedictis l’ordinanza di custodia cautelare fu notificata in carcere a Lecce, dove l’ex magistrato era già detenuto dal 24 aprile nell’ambito di un’altra indagine per presunti episodi di corruzione in atti giudiziari. In questi due mesi De Benedictis è stato interrogato 5 volte, due volte dal gip a seguito degli arresti, e in altre tre occasioni dai pm in interrogatori investigativi durati ore. Ai magistrati di Lecce l’ex gip avrebbe fatto nuove rilevazioni su ulteriori episodi relativi sia alle tangenti in cambio di scarcerazioni sia alle armi.

ELENCO ARMI 

All’esito della perquisizione del 22 giugno, gli investigatori della Squadra Mobile di Bari hanno altresì rinvenuto e sequestrato le seguenti armi e munizioni:

• N. 1 pistola semiautomatica marca Beretta mod. 950B cal. 6.35 con matricola abrasa;

• N. 1 pistola lancia razzi cromata, marca Mamm od. Exspress 7, cal. 22 a salve, completa di tromboncino lancia razzi, priva di matricola;

• N. 1 pistola lancia razzi, completa di tromboncino, marca Mondial mod. 1900 cal. 22 a salve, priva di matricola;

•N. 1 pistola lancia razzi, marca CECV, priva di matricola;

• N. 1 fucile semiautomatico, marca Benelli mod. Special 121, cal. 12 con matricola abrasa e canna mozzata;

•N. 1 pistola semiautomatica marca ALKARTASUNA cal. 7.65;

•N. 1 carabina ad aria compressa marca Slavia mod. 618 Rifled;

•N. 1 pistola revolver del tipo Velodog, mod. puppy cal. 3.20;

• N. 1 pistola semiautomatica marca Beretta mod. 70, cal. 22, con matricola abrasa e silenziatore di fattura artigianale;

• N. 1 pistola semiautomatica marca Beretta mod. 950B cal. 6.35, con matricola abrasa;

• N. 1 pistola semiautomatica a salve, modificata con canna priva di ostruzione, marca Kimar mod. 85 Auto, priva di matricola;

• N. 1 pistola semiautomatica a salve, modificata con canna priva di ostruzione e filettatura per silenziatore, marca Kimar mod. 85 Auto, priva di matricola;

•N. 1 pistola semiautomatica mod. P38 cal. 9 mm.;

•N. 1 pistola revolver marca Beretta, cal. 22;

• N. 1 pistola semiautomatica marca Beretta mod. 34, cal. 9 corto, con matricola abrasa e silenziatore;

•N. 1 pistola revolver priva di marca e modello;

•N. 1 pistola lancia razzi cal. 22 short, priva di matricola;

•N. 1 penna pistola, priva di marca e matricola;

• N. 1 pistola semiautomatica marca Titanic mod. 1914 cal. 7.65, con matricola abrasa;

•N. 1 arma lunga, tipo MAB, cal. 9 mm.;

•N. 1 sciabola;

•N. 1 baionetta.

Sequestrate parti di arma (canna, otturatori, cartuccere, caricatori per armi da guerra) e munizionamento di vario calibro, anche da guerra.

Tutto il materiale sequestrato si presentava in perfetto stato di conservazione.

Caso De Benedictis: scoperte altre pistole, mitragliatrici e munizioni per armi da guerra. Nuove perquisizioni nella masseria di Andria e nell'abitazione molfettese dell'ex gip. Luca natile su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Maggio 2021. Gli agenti della Squadra Mobile sono tornati nella masseria di Antonio Tannoia, coinvolto nell'inchiesta sull'arsenale riconducibile al giudice Giuseppe De Benedictis. Nuove perquisizioni sono infatti state disposte nel casolare di Andria dalla Procura di Lecce. All'interno di una cucina, dietro un battiscopa, i detective hanno rinvenuto tre pistole, tre fucili mitragliatori e un migliaio di munizioni, parte delle quali destinate ad armi da guerra. Nel corso di una seconda perquisizione nell'abitazione del giudice, a Molfetta, sono invece stati scoperti - all'interno di una cassettina elettrica - un libretto bancario, assegni e altri documenti riferibili a un conto corrente intestato all'ex gip, del quale non si conosceva l'esistenza. Assieme ai documenti erano nascoste anche 1100 sterline in contanti. 

L'esplorazione nella masseria è stata condotta dai professionisti della Polizia Scientifica con uno speciale scanner, un geolocalizzatore che consente di intercettare la presenza di oggetti nelle intercapedini delle pareti.

Arresto De Benedictis: in masseria Andria un tesoretto di nuove armi trovate in un nascondiglio in cucina insieme a sterline nascoste dietro una finta presa della corrente. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2021. La polizia nel pomeriggio di ieri ha eseguito un decreto di perquisizione e sequestro nella tenuta di campagna dell’imprenditore agricolo andriese Antonio Tannoia, detenuto, già colpito da provvedimento cautelare lo scorso 13 maggio, con Giuseppe De Benedictis, 59 anni, all’epoca dei fatti Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bari e Antonio Serafino, Caporal Maggiore Scelto dell’Esercito Italiano, indagati per i reati di porto e detenzione di armi da guerra ed esplosivi, di armi comuni da sparo e di munizionamento per armi da guerra e per armi comuni.

La perquisizione è scattata nella giornata di ieri nella masseria dell'imprenditore, a seguito di ulteriori accertamenti finalizzati a rintracciare materiale bellico e armi che potevano non essere state rinvenute nel corso dell’operazione dello scorso 29 aprile che aveva portato al maxi sequestro di un vero e proprio arsenale per armi da guerra comprendente più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette comunemente usate dalla criminalità organizzata in agguati armati (tra gli altri, 2 kalashnikov, 2 fucili d’assalto AR15, 6 mitragliatrici pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI), armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni di vario calibro. I sospetti sono stati confermati: nella masseria di proprietà di Tannoia, in cucina, nascoste in un vano segreto ricavato nella parete retrostante gli elettrodomestici, protetto a sua volta da una finta parete di mattonelle scorrevoli che copriva una piccola porta in ferro serrata, venivano rinvenute e sequestrate:

-  Una pistola semiautomatica marca Remington mod. 1911 cal. 45, corredata di caricatore e cartucce;

- Una pistola semiautomatica marca Walther mod. P.38 cal. 9x19, corredata di caricatore e cartucce;

- Una pistola di provenienza belga, cal. 6.35

- Un fucile d’assalto Sabre Defence mod. XR15 cal. 223 Remington corredato di caricatore e di 19 cartucce.

- Un fucile mitragliatore del tipo MG42

- Un fucile d’assalto del tipo MP40

nonché parti di arma (canna, otturatori, cartuccere, caricatori per armi da guerra) e circa un migliaio di munizioni di vario calibro, anche da guerra. Tutto il materiale sequestrato si presentava in perfetto stato di conservazione. All’interno di una finta presa per la corrente elettrica, sono state rinvenute e sequestrate 1.100 sterline e documenti bancari.

Bari, nell'ordinanza cautelare dell'ex gip De Benedictis tutti i sospetti della Dda di Lecce. Custodiva «un arsenale degno di una cosca mafiosa» ma il timore è che lo facesse per conto dei clan. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Maggio 2021. Custodiva un «arsenale degno di una cosca mafiosa», ma il sospetto degli inquirenti della Dda di Lecce è che l'ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis detenesse quelle armi anche per conto di clan, «di soggetti terzi - si legge negli atti - appartenenti a persone orbitanti nell'ambito della criminalità organizzata locale». È un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare per traffico e detenzione di armi e munizioni, anche da guerra, e ricettazione, notificata ieri in carcere all’ex giudice barese, in cella dal 24 aprile per corruzione in atti giudiziari. L'inchiesta sull'arsenale scoperto in una villa alla periferia di Andria, quindi, è tutt'altro che conclusa. Dopo aver accertato chi procacciava le armi (il caporal maggiore capo scelto dell'Esercito italiano Antonio Serafino, anch'egli in carcere da ieri), chi le custodiva (l'ex gip di Bari) e dove (nella villa dell'imprenditore agricolo Antonio Tannoia, arrestato il 29 aprile dopo il rinvenimento dell'arsenale), gli inquirenti salentini stanno adesso indagando sulla «provenienza delle armi» e sui collegamenti con la criminalità organizzata. La traccia la fornisce lo stesso De Benedictis in alcune intercettazioni con Serafino, nelle quali dice di temere che un eventuale rinvenimento delle armi avrebbe «smascherato» la loro provenienza, «perché risalgono a chi non devono». La stessa «tipologia delle armi, alcune con matricola abrasa, depone - si legge negli atti - per l’inserimento degli indagati in circuiti delinquenziali di criminalità organizzata anche transnazionali». Nelle conversazioni intercettate si parla di canali illeciti di approvvigionamento delle armi, «una montagna di roba» dice De Benedictis, da San Marino, dai Balcani e forse anche da strutture militari. Il passo ulteriore su cui si concentreranno gli uomini della Squadra mobile di Bari, infatti, è il coinvolgimento di «altri pubblici ufficiali, in specie appartenenti ai carabinieri e comunque alle forze dell’ordine». I magistrati salentini ipotizzano una «possibile sottrazione di talune delle armi in sequestro all'Esercito italiano, plausibilmente con la compiacenza se non proprio con il contributo positivo di altri pubblici ufficiali infedeli che hanno garantito, anche, copertura. Basti solo pensare all’utilizzo di cinque carabinieri da parte del magistrato per il trasporto delle armi». Il particolare emerge da un’altra intercettazione, dell’8 dicembre 2020, nella quale l'ex gip, parlando sempre con Serafino, spiega che «devi fare le vedette, perché se ti prendono con un carico del genere è meglio che ti spari, se ti prendono sono 20 anni ciascuno». Le indagini hanno accertato che le armi erano custodite nella villa di Tannoia da almeno tre anni, in una botola «messa a disposizione del giudice» dall’imprenditore «per riconoscenza, per averlo fatto uscire da galera». Armi che l’ex gip andava anche a «provare», come la sera della vigilia di Capodanno, sul balcone di casa di Serafino a Ruvo di Puglia, dove dopo aver sparato con una mitraglietta a raffica, i due avrebbero anche esploso due colpi con un «lanciarazzi, di quelli di segnalazione della Marina».

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 16 maggio 2021. (…) Hanno trovato il «più grande arsenale mai sequestrato in Italia», qualcosa «che fa pensare all'arsenale di una cosca di mafia di altissimo livello»: 193 pezzi. Kalashnikov, M15, lanciarazzi. Non era, però, l'arsenale di un clan. Ma di un giudice, il gip di Bari Giuseppe de Benedictis, che qualche giorno prima era stato arrestato con una mazzetta in mano. (…) De Benedictis è un collezionista: era stato già arrestato anni fa e poi assolto in Cassazione. Assoluzione che gli aveva consentito di tornare a fare il giudice. «Con le armi ha evidentemente un rapporto patologico», raccontano oggi gli inquirenti. Ma, altrettanto evidentemente, è da considerarsi «un trafficante di armi da guerra», con collegamenti «sia istituzionali che non istituzionali anche di criminalità organizzata, non solo a livello personale». (…) Quello che emerge dalle indagini è che la collezione è frutto di decenni di raccolta da parte del giudice. Consentita anche da chi, in Cassazione, lo aveva assolto. E che De Benedictis usava tutti i canali illegali per procurarsi le armi. L'armiere ufficiale era un caporal maggiore dell'esercito, Antonio Serafino, ora in carcere. «Tra gli accertamenti da espletare vi sono quelli di una possibile sottrazione di armi all'Esercito - scrive la gip - con il contributo di altri pubblici ufficiali infedeli, che hanno garantito copertura». C'era anche un'altra persona di primo livello, «mister X», che aiutava De Benedictis. «L'importante è che non arrivino a quello» si preoccupava il giudice. È chiaro però che De Benedictis avesse un filo diretto con la criminalità organizzata. Le indagini mirano ad accertare se le comprasse soltanto, magari in cambio di scarcerazioni (le inchieste hanno accertato che il gip aveva venduto la sua funzione, scarcerando mafiosi pugliesi di primo livello). O se le detenesse anche per conto dei clan. Certo, era consapevole della delicatezza della questione: aveva preparato un trasferimento di armi «con l'aiuto di cinque carabinieri». Avevano organizzato la scorta al carico. «Devi fare le vedette, se là ti prendono con un carico del genere è meglio che ti spari perché si rischiano 20 anni», diceva De Benedictis. Che, ora, chiuso nel carcere di Lecce, sa che ne rischia anche di più.

Arsenale sequestrato a ex gip, De Benedictis ammette: «Mie solo alcune di quelle armi». Nega sia rapporti con la criminalità organizzata sia di avere le chiavi della masseria dove è stato trovato l’arsenale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Maggio 2021. L’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis ha confessato di essere il possessore solo di alcune delle armi, anche da guerra, sequestrate il 29 aprile scorso in una masseria ad Andria, nel Nord Barese. Dinanzi alla gip di Lecce Giulia Proto l’ex giudice, che è detenuto in carcere per traffico di armi e anche per una precedente vicenda di tangenti, ha risposto alle domande ammettendo in parte i reati contestati. «Sono un collezionista con una passione malata per la armi» avrebbe detto, negando sia rapporti con la criminalità organizzata sia di avere le chiavi della masseria dove è stato trovato l’arsenale. La masseria è di proprietà dell’imprenditore agricolo Antonio Tannoia (in carcere a Trani dal giorno del sequestro) e De Benedictis ha negato di avere la disponibilità della dependance dove era stata ricavata una botola per custodire l’arsenale. Nell’interrogatorio di garanzia nel carcere di Lecce, assistito dagli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, l’ex gip di Bari ha parlato per circa tre quarti d’ora, spiegando, elenco alla mano, quali delle armi rinvenute erano sue e quali no. In particolare ha contestato che fossero di sua proprietà le armi con matricola abrasa, mentre ha ammesso che, pur consapevole della loro detenzione illegale, erano sue quelle storiche risalenti alle grandi guerre. Ha anche confermato che le armi erano custodite in quella botola da circa tre anni. Stando a quanto si apprende da fonti dalla difesa, De Benedictis avrebbe anche spiegato che non andava nella masseria e non era a conoscenza del fatto che lì ci fossero altre armi. Avrebbe anche affermato di non avere rapporti con la criminalità, in quanto lui le armi - avrebbe spiegato alla gip che lo interrogava - le acquistava attraverso intermediari senza contatti diretti con i trafficanti. All’ex magistrato, che era già in carcere dal 24 aprile per presunti episodi di corruzione in atti giudiziari in concorso con il penalista barese Giancarlo Chiariello relativi a scarcerazioni in cambio di soldi, l’ordinanza di custodia cautelare per le armi è stata notificata in cella il 13 maggio. Oltre a lui, è stato arrestato anche il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito italiano Antonio Serafino, che si trova nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.

MILITARE ARRESTATO TACE DAVANTI A GIP - Si è avvalso della facoltà di non rispondere il caporal maggiore dell’Esercito Antonio Serafino, in carcere dal 13 maggio nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Lecce sull'arsenale, con armi anche da guerra, scoperto in una masseria di Andria, nel Nord Barese. Il militare si è sottoposto all’interrogatorio di garanzia dinanzi alla gip di Lecce Giulia Proto, scegliendo di non rispondere alle domande, in videocollegamento dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è detenuto da 4 giorni. Secondo i magistrati salentini, Serafino sarebbe il procacciatore delle armi destinate all’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis (che oggi invece nell’interrogatorio ha risposto, ammettendo in parte gli addebiti). Nell’indagine è coinvolto anche l’imprenditore agricolo di Andria Antonio Tannoia (quest’ultimo arrestato in flagranza il 29 aprile, giorno del sequestro).

Agnelli e benzina, i regali all’ex gip De Benedictis. Con i colleghi: «I miei hobby sono illegali, io caccio col kalashnikov». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2021. Da un notissimo imprenditore del settore dei trasporti otteneva buoni benzina e la riparazione dell’auto incidentata. Ogni settimana andava ad Altamura per fare il pieno di carburante agricolo. Un ristoratore lo invitava a passare: «Così la lasagna te la sforno calda». E poi buste di formaggi, latticini, la richiesta di un agnello intero (che poi diventano quattro). È la vita di regali e favori dell’ex giudice Giuseppe De Benedictis, in carcere a Lecce con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato barese Giancarlo Chiariello. In un anno di indagini i Carabinieri di Bari hanno ascoltato, pedinato e fotografato De Benedictis, registrandone anche le affermazioni più pittoresche. Come quelle sulle armi: con i colleghi in Tribunale non faceva mistero della sua passione, la stessa che la scorsa settimana gli è costata il secondo arresto.

«MA QUALE ARSENALE...»

A gennaio 2021 sulla scrivania del gip De Benedictis arriva la richiesta di convalida di un sequestro di armi definito «arsenale» dalla Procura di Bari. Il giudice, parlando con un collega (del tutto estraneo all’inchiesta), ridicolizza la definizione. Lo scambio, registrato nel suo ufficio in Tribunale, è molto eloquente.

DE BENEDICTIS: «Ti faccio… guarda… (mostra delle foto sul cellulare). Questo è con quello che ho sparato io a Capodanno, figurati se mi sto a preoccupare dell’arsenale».

COLLEGA: «Ma dove hai sparato a Capodanno? Dal balcone?».

DB: «No in campagna, mica le tengo in casa queste cose… Che dobbiamo andare a fare un viaggetto».

C: «Un kalashnikov».

DB: «No, non è kalashnikov».

C: «Questi sono quelli da guerra».

DB: «Questa è solo una mitragliatrice con il nastro, quella che si mette sul treppiede. Mi sono fatto un nastro da 250. E quanto può durare? Due e cinquanta, venti secondi, un dieci colpi al secondo… E questo mi viene a rompere il c... con l’arsenale».

L’episodio degli spari alla vigilia di Capodanno 2020 è vero: i colpi dell’arma del giudice sono stati registrati dalla cimice nell’auto del sottufficiale dell’esercito Antonio Serafino, arrestato la scorsa settimana insieme al giudice. Ma non basta. Sempre a gennaio, e sempre nel suo ufficio, De Benedictis parla con un altro collega di cosa fare dopo la pensione. E torna sulle armi.

COLLEGA: «Ma perché non hai un hobby? Non ti piace viaggiare?».

DB: «Gli hobby che ho io sono quasi tutti illegali».

C: «Eh vabbè non te ne puoi trovare di legali?».

DB: «Che ti devo dire e sono immorali (ride)».

C: «La caccia non mi sembra che sia illegale se la fai nel periodo giusto».

DB: «No, la caccia non è illegale dipende che tipo di armi usi (…) Io di solito uso un kalashnikov».

C: «Madò (ride). I muri hanno orecchie!».

DB: «E venissero a prenderseli se sono capaci, e posso sempre dire che è una millanteria (…) Peraltro io ce li ho regolarmente denunziati, quindi…».

La Procura di Lecce ritiene che non sia proprio così. Nell’arsenale sequestrato a fine aprile nelle campagne di Andria ci sono anche armi da guerra (forse provenienti anche da depositi dell’Esercito) che nessun privato è autorizzato a detenere.

GLI AGNELLI PER PASQUA

Il 1° aprile 2021 De Benedictis contatta Francesco Acquaviva, un brigadiere dei Cc in pensione che ha un’azienda agricola ad Altamura e che, secondo i carabinieri, in occasione di Pasqua «ha elargito prodotti alimentari sia al giudice che ai suoi ex colleghi», cioè altri carabinieri in servizio negli uffici della Procura di Bari che «hanno svenduto la loro funzione giudiziaria in cambio di varie utilità». Ne è un esempio la consegna di prodotti da parte di Acquaviva a un altro sottufficiale in servizio in Procura a Bari, che avrebbe intercesso per una certa questione. «Devi venire a casa eh, subito, ha portato la ricotta… Questo ha portato la ricotta fatta da lui, il formaggio, c’è l’agnello che metti nel frigo non può stare, è già tagliato comunque, è messo nella faschetta attenzione già è tutto sistemato… E poi fammi capire il salame a te piace piccante o dolce?».

L’agnello, dunque, sembrerebbe il punto di forza di Franchino Acquaviva e il punto debole del giudice: «Antonio di Andria ne vuole uno - è la richiesta che gli fa De Benedictis -, eh Franchì me lo devi dare per forza perché a quello non gli posso dire di no». Antonio di Andria, annotano i carabinieri, è Antonio Tannoia, il proprietario della masseria in cui era custodito l’arsenale di De Benedictis: chiaro che non gli si potesse dire di no. Franchino però non la prende bene, e qualche giorno dopo si lamenta con un altro amico. «L’altro giorno mi ha fatto inc..., e che mi crea difficoltà sempre. “Franco serve serve”, e allora dico: sì, ho capito, me se io a te te ne ho dato uno, a quello uno, a quello uno e a quello uno, se tu vieni e te ne prendi quattro mi crei difficoltà… “Franco per piacere, per piacere”, e per piacere ieri sono andato a comprare altri tre e ho dovuto accontentare gli altri».

Giudice arrestato a Bari, così spiava i colleghi e cercava di scoprire i segreti delle indagini. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 21 maggio 2021. Giuseppe De Benedictis si informava sul lavoro della procura per cercare di favorire i suoi amici. I pm erano inavvicinabili. E lui in molti casi imprecava. Vavalle ritenuto vicino al clan Mercante: “Mai avuto rapporti con lui”. "Con Marazia non perdo tempo ad andare a parlare, che poi quello si insospettisce pure..."; "Pinto ne ha combinata un'altra delle sue..."; "Questo trimone di pm continua a dire che io avevo interessi, come dobbiamo fare per farlo stare zitto..."; "Rossi speriamo che non lo trasferisce a quel carabiniere..."; "Bretone se ne è andato ora i suoi fascicoli andranno alla Digeronimo...

Arsenale scoperto ad Andria, il proprietario della masseria resta in carcere; l'ipotesi: «Le armi erano di De Benedictis». Il sospetto è che le armi fossero nella disponibilità dell’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, in carcere con l’accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con il noto avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello. Massimiliano Scagliarini e Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Maggio 2021. Resta in carcere Antonio Tannoia, andriese, 55 anni, proprietario della masseria in contrada Bortuido (Andria) dove venerdì scorso la Squadra mobile di Bari, al termine di una perquisizione disposta dalla Procura di Lecce, ha scoperto un vero e proprio arsenale. Il sospetto è che le armi fossero nella disponibilità dell’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, in carcere con l’accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con il noto avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello, anche lui in cella con la stessa accusa. Sospetto - quello della reale proprietà delle armi - corroborato dalle dichiarazioni spontanee rese dall'imprenditore agricolo dopo la perquisizione. Tannoia è indagato per detenzione illegale di armi e ricettazione (alcune delle armi ritrovate, da guerra e comuni, sono risultate clandestine, senza matricola, di provenienza delittuosa). La misura cautelare a suo carico è stata disposta dal gip del Tribunale di Trani Ivan Barlafante, su richiesta della Procura, al termine dell’udienza di convalida dell’arresto in flagranza di reato. Davanti al gip Tannoia si è avvalso della facoltà di non rispondere, riservandosi di fornire la sua versione fatti ai magistrati salentini titolari del fascicolo. Ma in sede di dichiarazioni spontanee ha già riferito agli agenti che le armi non erano sue: il locale in cui sono state ritrovate era nella disponibilità del giudice De Benedictis, la cui passione per le armi è molto nota negli ambienti giudiziari.

LA DIFESA DEL GIUDICE: STA MALE - «E' irriconoscibile. Chiederemo che venga sottoposto d’urgenza ad un visita medico-legale di parte perché temiamo per la sua salute». Lo riferiscono i legali dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, detenuto nel carcere di Lecce dal 24 aprile nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte scarcerazioni di pregiudicati in cambio di mazzette di denaro. Questa mattina i legali di De Benedictis, Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, hanno avuto un colloquio in carcere con il proprio assistito, al termine del quale hanno ravvisato la gravità dello stato psico-fisico in cui l’ex giudice si troverebbe, confermato a loro dire anche dal medico del carcere. «Non riesce a toccare cibo - racconta l’avv.Schirone -. Non è stato in grado neppure di sostenere il colloquio, di fornirci un benché minimo contributo. Non è presente e non risponde ad alcuno stimolo. Si è lasciato andare. Nelle prossime ore chiederemo una perizia medico-legale perché il timore per la sua salute è davvero molto alto». Nelle prossime ore il gip del Tribunale di Lecce Giulia Proto deciderà sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata dai due legali al termine dell’interrogatorio di garanzia di De Benedictis le cui dimissioni dalla magistratura sono state accolte dal Csm.

IL CASO. Bari, detenzione di arsenale da guerra: nuovo arresto per ex gip De Benedictis. Sparò col mitra dal balcone di casa. Arrestato anche caporal maggiore dell'esercito. Il provvedimento è stato notificato in carcere dove l’ex giudice è detenuto dal 24 aprile scorso per corruzione in atti giudiziari. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Maggio 2021. L’ex gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Beneditis, e un caporal maggiore dell’Esercito italiano, Antonio Serafino, di 43 anni, sono stati arrestati per la detenzione dell’arsenale da guerra trovato nelle scorse settimane in un nascondiglio ricavato in una villa di Andria, nel Barese. A De Benedictis il provvedimento è stato notificato in carcere dove l’ex giudice è detenuto dal 24 aprile scorso per corruzione in atti giudiziari. La Polizia di Bari è stata guidata dal Primo dirigente Filippo Portoghese capo della squadra mobile. I due, stando alle indagini, discutevano spesso di armi e di come procacciarsele e nasconderle. A seguito del coinvolgimento del magistrato, l’indagine è stata trasferita, per competenza, alla Procura della Repubblica di Lecce, che ha proseguito gli accertamenti con l’organo di Polizia Giudiziaria barese. La misura restrittiva è stata firmata dal gip del Tribunale di Lecce, su richiesta della Dda salentina, ed eseguita dalla Squadra mobile della Questura di Bari. I due arrestati sono accusati di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, e relativo munizionamento e ricettazione. Nell’inchiesta, nelle scorse settimane, era stato arrestato in flagranza di reato al momento del sequestro dell’arsenale, il proprietario della villa in cui era stato ricavato il nascondiglio, Antonio Tannoia, imprenditore di 55 anni. L’indagine sul traffico di armi era stata avviata dalla Dda di Bari ma è stata poi trasmessa a Lecce una volta accertato il coinvolgimento del magistrato barese. Dagli atti emerge che il caporal maggiore era in collegamento con alcuni trafficanti d’armi dell’area metropolitana barese e frequentava abitualmente De Benedictis. Dopo aver captato i colloqui dei due, l’indagine ha riguardato la ricerca del nascondiglio dell’arsenale che - da quanto emerso - era in un luogo segreto nella disponibilità dei due indagati. Si è così arrivati alla villa di Andria di proprietà dell’imprenditore Antonio Tannoia. Le intercettazioni compiute nei confronti dei tre, nel tempo, hanno portato gli investigatori ad ipotizzare che fosse proprio l’imprenditore a custodire, in una delle sue proprietà, l’ingente quantitativo di armi e munizioni nella disponibilità del terzetto. L’arsenale è stato sequestrato il 29 aprile scorso in una dependance della villa. In quell'occasione Tannoia fu arrestato in flagranza di reato e riferì che il luogo in cui erano state trovate le armi era nella disponibilità di De Benedictis. L’allora gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, e il caporal maggiore dell’Esercito, Antonio Serafino, si frequentavano abitualmente e, nel corso dei loro incontri, discutevano spesso di armi, di come procacciarsele e di come nasconderle una volta ottenute. Sono numerose le conversazioni intercettate nel corso delle quali i due parlano di armi e munizioni in loro possesso e del nascondiglio, chiamato «il pozzo» perché ricavato in un sotterrano al quale si accedeva da una pesante botola saldata e parzialmente murata. E’ quanto emerge dalle indagini della Dda di Lecce che oggi hanno portato all’arresto di entrambi per detenzione e traffico di un micidiale arsenale da guerra. L’arsenale sequestrato il 29 aprile scorso è composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette (tra cui 2 kalashnikov, 2 fucili d’assalto AR15, 6 mitragliatrici pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI), armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni di vario calibro. Non sarebbe stato accumulato solo per essere collezionato il micidiale arsenale da guerra sequestrato il 29 aprile scorso ad Andria che era - secondo l’accusa - nella disponibilità dell’allora gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e del caporal maggiore dell’Esercito Antonio Serafino, arrestati oggi per traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. De Benedictis, infatti, è un noto collezionista di armi, passione che condivideva con Giuseppe Tannoia, nella villa del quale l’arsenale è stato sequestrato contestualmente all’arresto in flagranza dell’imprenditore andriese. Le indagini della Dda di Lecce puntano ad accertare la provenienza delle armi, come kalashnikov, fucili d’assalto AR15, mitragliatrici Beretta Mg 42, Mab e Uzi, che sono solitamente utilizzate dalla criminalità organizzata per compiere agguati, e sulla destinazione delle stesse. Sull'esistenza del nascondiglio e sul coinvolgimento dell’allora giudice barese si è arrivati attraverso intercettazioni ambientali compiute nell’auto di Serafino (che frequentava abitualmente il magistrato) che era già sottoposto ad indagini dalla Dda di Bari.

I DETTAGLI DELLE INDAGINI - È il 30 dicembre 2020, la vigilia di Capodanno, quando sul balcone di casa del caporal maggiore dell’Esercito, Antonio Serafino, a Ruvo di Puglia, nel Barese, partono raffiche di mitraglietta: a sparare - secondo la pubblica accusa - sono Serafino e l’allora gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis. Il rumore della sventagliata di mitra è registrato dalla microspia posizionata nell’auto di Serafino (parcheggiata sotto casa del militare) che, poco prima, ha registrato anche i colloqui in macchina tra il giudice e il militare. E’ quanto riportato nell’ordinanza di custodia cautelare notificata in carcere all’ex giudice De Benedictis e al militare, in servizio all’ufficio passaporti della Brigata Pinerolo di Bari, accusati di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Il 31 dicembre Serafino, parlando con un vicino di casa, conferma - secondo gli investigatori - di aver sparato con la mitraglietta dicendo: «Hai visto ieri che mazzata si sentiva?». Nelle circa 40 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare vi sono altre intercettazioni dalle quali si evince che i due andavano a provare le armi in una campagna, sempre a Ruvo di Puglia. Serafino, un giorno, va a provare una pistola che poi nasconde sotto un masso e ne parla con De Benedictis. I poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Bari ascoltano la conversazione e vanno a sequestrare la pistola. In alcune altre intercettazioni, del gennaio 2021, De Benedictis, sempre in auto con Serafino, dice di voler spostare l'arsenale, forse perché forse stavano nascendo dissapori tra Serafino e Antonio Tannoia, l’imprenditore che nascondeva le armi in una dependance della sua villa, ad Andria: «Quello ci può vendere» dice il caporale al giudice. Ad un certo punto De Benedictis dice: 'Così vai a portare in giro 70mila cartucce, bombe a mano, 5 mitragliatori e 4 fucili d’assalto?'. In un’altra intercettazione sempre l’allora gip fa riferimento sia al deposito delle armi, che chiama "pozzo", sia alla disponibilità di 53 mitragliatrici e 82 pistole. Dagli atti emerge che ad un certo punto De Benedictis compra un mitragliatore croato "Agram 200B" e dice al caporale: «Quando ricevo qualcosa di pesante da lui la devo portare per forza», facendo riferimento al deposito di Tannoia. Dagli atti emerge che i due avevano acquistato e stavano aspettando la consegna di un mitragliatore M12. Nel provvedimento restrittivo il gip di Lecce definisce Serafino e De Benedictis «autentici trafficanti in armi da guerra».

(ANSA il 24 aprile 2021) Il gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, e l'avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello, sono stati arrestati e condotti in carcere su disposizione del gip di Lecce che ha accolto le richieste cautelari della Dda. Entrambi sono accusati di aver stretto un accordo corruttivo in base al quale il giudice avrebbe emesso provvedimenti di scarcerazione in favore degli assistiti dell'avvocato Chiariello. De Benedictis nei giorni scorsi ha presentato richiesta di dimissioni dalla magistratura. Il gip di Bari Giuseppe De Benedictis e il penalista barese Giancarlo Chiariello sono accusati di aver stretto da tempo un accordo corruttivo in base al quale, in cambio di denaro, consegnato presso l'abitazione e lo studio del legale, o anche all'ingresso di un bar vicino al nuovo Palazzo di Giustizia di Bari, il giudice emetteva provvedimenti "de libertate" favorevoli agli assistiti dell'avvocato Chiariello, tra i quali un indagato arrestato oggi. I beneficiari dei provvedimenti del gip, sono in gran parte appartenenti a famiglie mafiose o legate alla criminalità organizzata barese, foggiana e garganica. Nell'indagine della Dda di Lecce che stamani ha portato all'arresto in carcere per corruzione del gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e del penalista barese Giancarlo Chiariello sono indagate numerose altre persone nei confronti delle quali sono in corso perquisizioni. Le indagini si basano su intercettazioni telefoniche e ambientali, videoriprese in uffici e ambienti interni ed esterni, pedinamenti, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, esame di documentazione, perquisizioni e sequestro di ingenti somme di denaro contante. Il gip Giuseppe De Benedictis, il 9 aprile scorso, è stato perquisito nel suo ufficio a Palazzo di Giustizia di Bari ed è stato trovato in possesso - secondo la Dda di Lecce - di una tangente di circa 6.000 euro ricevuta poco prima dall'avvocato Giancarlo Chiariello. Il giudice, subito dopo, ha presentato al Csm richiesta di dimissioni dalla magistratura perché provava "vergogna". Oggi De Benedictis e Chiariello sono stati arrestati e portati in carcere. La perquisizione è stata estesa anche all'abitazione del magistrato dove, nascoste in alcune prese per derivazioni elettriche, sono state sequestrate numerose mazzette di denaro per importi variabili tra 2.000 e 16.000 euro (per un totale di circa 60.000), ritenute frutto della corruzione. Secondo quanto accertato dalla Dda di Lecce, il 9 aprile scorso il gip De Benedictis si sarebbe recato nell'abitazione dell'avvocato Chiariello per riscuotere il prezzo della corruzione dovuto per la concessione degli arresti domiciliari ad Antonio Ippedico, in carcere per associazione mafiosa e successivamente posto agli arresti domiciliari. In quell'occasione i carabinieri hanno osservato De Benedictis incontrarsi con Chiariello, salire sul vicino studio legale alle 8 del mattino, per poi scendere dopo qualche minuto con materiale cartaceo nelle mani e quindi, senza mai essere perso di vista dagli stessi carabinieri, salire sull'auto e recarsi in ufficio. Qui De Benedictis, ripreso dalle telecamere nascoste, ha tirato fuori una busta piena di banconote dal giubbotto e l'ha riposta nelle tasche dei pantaloni. A questo punto i Carabinieri sono intervenuti ed hanno perquisito il magistrato, sequestrando la somma in contante di 6.000 euro. De Benedictis ha subito rilasciato a verbale dichiarazioni spontanee con le quali ha ammesso di avere ricevuto poco prima da Chiariello la somma "per il disturbo" e di volersi dimettere dalla magistratura per la vergogna.

Corruzione, arrestati gip di Bari De Benedictis e avvocato penalista. Entrambi sono accusati di aver stretto un accordo corruttivo in base al quale il giudice avrebbe emesso provvedimenti di scarcerazione in favore degli assistiti dell’avvocato Chiariello. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 aprile 2021. Il gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, e l’avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello, sono stati arrestati dai carabinieri e condotti in carcere, su disposizione del gip di Lecce che ha accolto le richieste cautelari della Dda. Il gip che ha firmato l'ordinanza è Giulia Proto, la richiesta è stata fatta dai due sostituti procuratori Roberta Licci e Alessandro Prontera che hanno coordinato le indagini. De Benedictis e Chiariello sono accusati di aver stretto un accordo corruttivo in base al quale il giudice avrebbe emesso provvedimenti di scarcerazione in favore degli assistiti dell’avvocato. De Benedictis nei giorni scorsi ha presentato richiesta di dimissioni dalla magistratura. L'ordinanza viene notificata in queste ore ad alcuni noti esponenti della criminalità organizzata, già detenuti. In corso anche perquisizioni nei confronti di molte persone indagate nel procedimento. In cambio di somme di denaro in contante, consegnate anche all’ingresso di un bar nelle vicinanze del nuovo Palazzo di Giustizia di Bari, il gip avrebbe emesso provvedimenti favorevoli agli assistiti dell’avvocato. I soggetti beneficiati, in gran parte appartenenti a famiglie mafiose o legate alla criminalità organizzata barese, foggiana e garganica, potendo contare sullo sperimentato accordo corruttivo tra il giudice e l’avvocato, (circostanza peraltro nota da tempo nell’ambiente criminale per come riferito dai collaboratori di giustizia), in cambio della corresponsione di somme di denaro, sarebbero riusciti ad ottenere provvedimenti di concessione di arresti domiciliari o rimissione in libertà, pur essendo sottoposti a misura cautelare in carcere per reati anche associativi di estrema gravità.

SEIMILA EURO PER I DOMICILIARI A UN ESPONENTE DEL CLAN - Nel corso delle indagini, sono state registrate conversazioni in cui De Benedictis e Chiariello discutono sulle strategie migliori affinché il giudice potesse motivare i provvedimenti più favorevoli ai clienti del penalista. In un'occasione i carabinieri hanno registrato il conteggio del denaro in contanti consegnato al gip e ancora il dialogo sugli importi da imputare alla corruzione. Le conversazioni sono state intercettate sia all’interno dell’ufficio del gip, sia nell’ascensore del palazzo dove Chiariello abita. I carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari, il 9 aprile scorso, hanno intuito dell'imminente incontro tra i due indagati attraverso alcuni messaggi in codice scambiati tra i collaboratori dello studio Chiariello. Il 9 aprile dunque De Benedictis avrebbe raggiunto l'abitazione del legale per riscuotere il compenso dopo la concessione degli arresti domiciliari in favore di Antonio Ippedico, arrestato per associazione mafiosa. I militari hanno seguito De Benedictis dopo l'incontro con Chiariello, avvenuto alle 8 del mattino del 9 aprile scorso. Dallo studio legale del penalista, in via Sparano, nel cuore di Bari, il gip è stato seguito fin nel suo ufficio di via Dioguardi. Qui, ripreso dalle microcamere, è stato filmato mentre tirava fuori una busta piena di banconote dal giubbotto e la riponeva nelle tasche dei pantaloni. A questo punto i carabinieri sono intervenuti per eseguire un decreto di perquisizione già emesso dalla Procura della Repubblica di Lecce. Seimila euro la somma in contante sequestrata nella disponibilità di De Benedictis. La perquisizione è stata estesa anche all’abitazione del magistrato dove, nascoste in alcune prese per derivazioni elettriche, sono state sequestrate numerose mazzette di denaro per importi variabili tra 2.000 e 16.000 euro (per un totale di circa 60.000), ritenute frutto della corruzione. Durante le perquisizioni di questa mattina, nell'abitazione del figlio di Chiariello, Alberto, i carabinieri hanno trovato circa 1 milione e 200mila euro in contanti nascosti in tre zainetti nascosti all’interno di un divano e di un armadio. L'inchiesta della Procura di Lecce è destinata a far rumore: nel fascicolo sono infatti confluiti particolari tali da ipotizzare che altri indagati siano coinvolti, non solo sul fronte dell'ipotesi di corruzione, ma anche per la rivelazione di segreti d’ufficio. Sarebbero infatti state acquisite e divulgate, illecitamente, notizie custodite in banche dati riservate, relative a dichiarazioni di collaboratori di giustizia ancora segrete.

Arresto De Benedictis, la confessione: «Mi hanno trovato la mazzetta, mi arresteranno». «Ho speso trentamila euro e mi sono comprato il giudice a Bari». E’ lo stralcio di una conversazione intercettata nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Lecce che ha portato oggi all’arresto del gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, dell’avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello e del pregiudicato Danilo Pietro Della Malva di Vieste. A parlare è il pregiudicato. La conversazione risale al 16 giugno 2020. Della Malva, difeso dall’avvocato Chiariello, aveva ottenuto da poco dal gip De Benedictis la scarcerazione, con concessione degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Era tornato a casa dal carcere di Rebibbia il 24 aprile e una sera, parlando con la moglie sulla veranda, «commentava senza alcuna cripticità il mercimonio per la sua scarcerazione» si legge negli atti. «Dapprima - ricostruiscono gli inquirenti - si vantava di essere uscito dal carcere dopo appena tra mesi e, alla reazione ironica della moglie che, ridendo, esordiva con un commento «grazie» come a voler dire «sappiamo bene il perché», Della Malva diceva: «però aspetta, ho speso trentamila euro e mi sono comprato il giudice a Bari"». Secondo gli inquirenti della Dda, il denaro sarebbe stato consegnato al giudice tramite l’avvocato. Le indagini hanno infatti documentato che il 18 marzo 2020, 7 giorni dopo il provvedimento con il quale il gip aveva disposto la scarcerazione, il gps dell’auto del magistrato ne segnalava la presenza a casa del legale.

TUTTI I NOMI DEGLI INDAGATI (di Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini) - In carcere sono finiti Giuseppe De Benedictis, 59 anni, di Molfetta, giudice del Tribunale di Bari, Giancarlo Chiariello, 69 anni, nato a Campobasso, residente a Bari, avvocato, Danilo Pietro Della Malva detto «Meticcio», 24 anni, di Vieste, ritenuto sodale del clan Notarangelo. Indagati anche Alberto Chiariello, 29 anni, e Marianna Casadibari, 45 anni, collaboratori dello studio Chiariello, e l’altro avvocato Paolo D’Ambrosio, 51 anni, di Foggia, e Nicola Soriano, 59 anni, di Bari, appuntato dei carabinieri in servizio nella Procura di Bari. Ci sono poi Roberto Dello Russo, 41 anni di Terlizzi detto «il malandrino», Matteo Della Malva, 49 anni di Vieste e Valeria Gala, 25 anni di San Giovanni Rotondo (rispettivamente zio e compagna di Della Malva), l’avvocato Pio Michele Gianquitto, 42 anni di Foggia, Antonio Ippedico, 49 anni di Foggia, gli ultimi tre ritenuti appartenenti o comunque contigui al clan Sinesi-Francavilla. Le accuse, a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità, sono di concorso in corruzione in atti giudiziari con l’aggravante di aver agevolato l’attività di un clan mafioso e rivelazione di segreto d’ufficio. L’avvocato Chiariello e il gip De Benedictis avevano saputo di essere sotto indagine dopo un accesso abusivo ai registri della Procura effettuato il 3 marzo dal carabiniere Vito Nicola Soriano. L’appuntato – secondo la Procura di Lecce, avrebbe contribuito a svelare «il contenuto di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia – e tra questi il collaboratore Oreste Michele – aventi valenza accusatoria nei confronti di Chiariello e potenzialmente coinvolgenti lo stesso De Benedictis», cui il carabiniere «rappresentava che “stanno appresso a noi” riportando l’origine delle indagini avviate alle dichiarazioni dei “pentiti” e procurando una copia delle dichiarazioni rese dal collaboratore Oreste che consegnava sia a Chiariello che a De Benedictis e fornendo informazioni anche sul p.m. titolare del procedimento ottenendo in cambio dal De Benedictis l’impegno ad occuparsi della vicenda giudiziaria riguardante il cugino di Santoruvo Giovanni, suo amico (di cui esibiva al giudice atti del procedimento) da gestire in termini favorevoli alla sua posizione». Il verbale da cui è partita l’inchiesta porta la data del 12 febbraio 2020 e riguarda il pentito Domenico Milella, esponente di vertice del clan Palermiti di Bari che ha parlato con il pm della Dda di Bari D’Agostino: «Però c'è un dato di fatto sul Giudice De Benedictis. Già degli anni... sto parlando già di otto, nove anni fa, forse anche di più, si diceva... io ero nei primi blitz, non ero niente ancora, ero un ragazzino, diciamo un ragazzino, e già sapevo che il Giudice De Benedictis prendeva delle mazzette da...non so come gli arrivavano, questo non lo potrò dire, però tramite Cosimo Fortunato per i Palermiti». Da chi le prendeva? «Tramite quell'avvocato di Altamura, un certo Siani, che ora è morto, io so tramite quello arrivavano. Comunque, dottore, parecchi avvocati arrivavano direttamente a questo giudice De Benedictis. E’ una voce che c’era, c’è e ci sarà sempre... Già dall'epoca certi avvocati che stavano già da prima... ora c'è questa generazione, ma già da prima era un... un giudice che si diceva che prendeva le mazzette, dai, diciamola tutta. Però io non posso dire. "Ho visto con gli occhi miei"». Milella ha poi raccontato un episodio risalente al 2007: a dire del pentito il boss Palermiti o il figlio avrebbero pagato per ottenere la concessione dei domiciliari.

ARRESTATI UN MAGISTRATO ED UN AVVOCATO IN PUGLIA. PRENDEVANO SOLDI IN CAMBIO DI SENTENZE PILOTATE. Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2021. Nel corso dell’attività di intercettazione sono state registrate conversazioni in cui il De Benedictis e il Chiariello discutono sulle strategie più idonee affinché il giudice possa motivare i provvedimenti più favorevoli ai clienti del predetto avvocato, intenti a contare il denaro poi consegnato al giudice De Benedictis, discutendo sugli importi da imputare alla corruzione . Indagati alcuni avvocati del Foro di Bari. Questa mattina i Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari hanno eseguito un’ordinanza applicativa di misura cautelare in carcere disposta dal gip dr.ssa Giulia Proto nei confronti di Giuseppe De Benedictis, 59 anni, nativo di Molfetta, magistrato presso ufficio Gip del Tribunale di Bari, e l’ avvocato penalista Giancarlo Chiariello, 70 anni, del Foro di Bari. Sono in corso notifiche di ordinanze di custodia cautelare e perquisizioni ad altre persone, già detenute per fatti di criminalità mafiosa, Numerosi altre persone sono indagate a piede libero che risultano destinatarie di decreto di perquisizione, al momento in fase di esecuzione. La misura è stata richiesta dai pm Alessandro Prontera e Roberta Licci dalla Procura della Repubblica-Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce che hanno coordinato lunghe indagini consistite in intercettazioni telefoniche ed ambientali, video riprese in uffici e ambienti interni ed esterni, pedinamenti, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, esame di documentazione, perquisizioni e sequestro di ingenti somme di denaro contante. L’ipotesi su cui fonda l’impianto accusatorio della DDA di Lecce, anche fatta propria dal GIP, è quella per cui il giudice Giuseppe De Benedictis, GIP presso il Tribunale di Bari, e l’ Avvocato Giancarlo Chiariello, dello stesso Foro, abbiano da tempo stretto un accordo corruttivo in base al quale in cambio di somme di denaro in contante, consegnate presso l’abitazione e lo studio del legale, o anche all’ingresso di un bar sito nelle vicinanze del nuovo Palazzo di Giustizia di Bari, il predetto magistrato emetteva provvedimenti ”de libertate” favorevoli agli assistiti dell’ avvocato Chiariello, tra i quali uno anche attinto dalla odierna ordinanza di custodia cautelare. I soggetti beneficiati, in gran parte appartenenti a famiglie mafiose o legate alla criminalità organizzata barese, foggiana e garganica, potevano contare sullo sperimentato accordo corruttivo (circostanza peraltro nota da tempo nell’ambiente criminale per come riferito dai collaboratori di giustizia) tra il giudice e l’avvocato arrestati questa mattina, che in cambio del pagamento di somme di denaro, riuscivano ad ottenere provvedimenti di concessione di arresti domiciliari o rimissione in libertà, pur essendo sottoposti a misura cautelare in carcere per reati anche associativi di estrema gravità, che gli consentivano di rientrare nel circuito criminale, con indubbio vantaggio personale, del difensore e delle stesse organizzazioni criminali. I primi segnali sulla corruzione nel Tribunale di Bari risalgono al 2012, quando Matteo Tulimiero, collaboratore di giustizia, aveva raccontato ai magistrati della Dda di Bari che esponenti del clan Parisi-Palermiti erano usciti dal carcere dopo aver pagato il giudice De Benedictis, affermando di avere visto personalmente un uomo del clan Palermiti lasciare 10mila euro a un avvocato barese affinché li portasse al giudice De Benedictis. Il giudice dopo un periodo al Tribunale di Matera era rientrato in servizio a Bari, dove nel 2019 i pm antimafia Fabio Buquicchio, Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano si erano accorti di alcune scarcerazioni “allegre” segnalando il tutto al procuratore capo ed alla Direzione nazionale antimafia. I casi “immotivati” segnalati dai magistrati dell’Antimafia barese riguardavano Raffaele Addante, Paolo D’Amato, Giuseppe Loglisci, Francesco Martiradonna, Angelo Martiradonna, Michele Martiradonna, Radames Parisi e Filippo Mineccia il quale avrebbe preannunciato la propria imminente uscita dal carcere: “Tutto a posto, sta fatto. Se il gip De Benedictis diventa gup, tu avrai pure l’assoluzione “. Francesco Giannella, procuratore aggiunto della Dda, aveva trasmesso quegli atti al procuratore capo di Lecce, Leonardo Leone de Castris, evidenziando che indagati eccellenti erano stati mandati ai domiciliari nei loro luoghi di residenza .

“Dalle indagini emerge un collaudato sistema di svendita delle pubbliche funzioni un costante mercimonio della giurisdizione, piegata e asservita a scopi illeciti, per un arco temporale che ve ben oltre quello dell’indagine” scrive la Gip Giulia Proto nella sua ordinanza cautelare. Nel corso dell’attività di intercettazione sono state registrate conversazioni in cui il De Benedictis e il Chiariello discutono sulle strategie più idonee affinché il giudice possa motivare i provvedimenti più favorevoli ai clienti del predetto avvocato, intenti a contare il denaro poi consegnato al giudice De Benedictis, discutendo sugli importi da imputare alla corruzione (sia all’interno dell’ufficio del GIP tanto all’interno dell’ascensore del palazzo ove il Chiariello abita, presso i quali gli indagati si sono ripetutamente incontrati e sono stati ripresi, con contestuale registrazione delle conversazioni, dalle telecamere nei pressi installate). L’encomiabile lavoro degli operanti del Nucleo Investigativo Carabinieri di Bari delegati alle indagini dalla Procura della Repubblica-Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce , consentiva di acclarare che, nella giornata dello scorso 9 aprile, in occasione di un appuntamento fissato con modalità criptiche da collaboratori dello studio legale Chiariello, così come avvenuto in altre occasioni, il giudice De Benedictis si sarebbe recato presso l’abitazione del legale per riscuotere il prezzo della corruzione dovuto per la concessione degli arresti domiciliari in favore del pregiudicato Antonio Ippedico , attinto da precedente ordinanza applicativa di misura cautelare in carcere per il reato di cui all’articolo 416 bis c.p., e successivamente collocato agli arresti domiciliari. I Carabinieri osservavano il De Benedictis incontrarsi con il Chiariello, recarsi alle ore 8 del mattino del 20 aprile presso l’attiguo studio legale dello stesso nella centralissima via Andrea da Bari del capoluogo pugliese, per poi uscirne qualche minuto dopo con materiale cartaceo nelle mani e quindi, senza mai essere perso di vista dagli stessi Carabinieri, salire sulla propria auto e recarsi in ufficio a Palazzo di Giustizia in via Dioguardi. Arrivato a destinazione il De Benedictis, veniva ripreso dalle telecamere ivi installate con provvedimento della Procura leccese, mentre tirava fuori una busta piena di banconote dal giubbotto e la riponeva nelle tasche dei pantaloni. A questo punto i Carabinieri intervenivano e procedevano ad eseguire decreto di perquisizione già emesso da questa Procura della Repubblica, sequestrando la somma in contante di circa euro 6.000. Nell’immediatezza dei fatti il De Benedictis rilasciava a verbale dichiarazioni spontanee con le quali ammetteva di avere ricevuto poco prima dal Chiariello la somma in questione “per il disturbo” e di volersi dimettere dalla magistratura per la vergogna. La perquisizione è stata poi estesa anche all’abitazione del magistrato dove sono stati rinvenute sequestrate numerose somme di denaro, nascoste all’interno di alcune prese per derivazioni elettriche, per importi variabili tra 2mila e 16mila euro (per un totale di circa 60mila), ritenute dagli inquirenti frutto della corruzione. Il magistrato vistosi scoperto, intuisce che per lui è finita, e scrive la lettera di dimissioni per cercare di evitare il carcere. La telefonata che fa a u, amico di seguito riportata avviene lunedì 12 aprile, le 7,17 del mattino utilizzando il telefono cellulare della fidanzata del figlio, viene considerata dalla Procura di Lecce come una piena confessione.

DE BENEDICTIS: ti sto chiamando dal cellulare di un amico, io non tengo più il cellulare, tu hai saputo niente?

AMICO: no, che cos’è successo?

DE BENEDICTIS: eh, che cos’è successo …allora, innanzitutto io mi sono dimesso dalla magistratura, non sono più Giudice a partire da questa mattina, va bene?

AMICO: perché?

DE BENEDICTIS: perché venerdì io, quello Chiariello mi dette una cosa da studiare e mi dette qualche soldo, come scesi dallo studio stavano ì Carabinieri , perquisito, perquisizione, corruzione ..adesso ho detto tutte cose, ieri sono stati due giorni a casa mia a portarsi cellulare, computer, controllare le armi e cose, che vogliono vedere …quello Chiariello stava multato, io mi sono dimesso per evitare il carcere, però la misura la devono fare. Adesso sono a casa ad aspettare se mi fanno i domiciliari, speriamo che mi fanno i domiciliari

AMICO: moo, mannaggia a … mannaggia

DE BENEDICTIS: no, adesso devi dire la vergogna quando uscirà su tutti i giornali “Giudice De Benedictis arrestato per corruzione”

AMICO: madonna Gesù Cristo mio

DE BENEDICTIS: madò, Gesù Cristo che sputtanamento, anche ad Altamura chi mi potrà vedere più

AMICO: madonna mia, madonna

DE BENEDICTIS: secondo te mi posso far vedere ad Altamura?

AMICO: e qual è il problema scusa?

DE BENEDICTIS: si, ma non per gli altri amici, sai come mi devono mandare tutti a fare in culo

AMICO: non mandano …ma c* lo sapevi pure tu! (bestemmia)

DE BENEDICTIS: va bene, io mi sono dimesso, adesso vediamo quando mi devono prendere, comunque considerando che per questo reato il minimo sono sei anni, quattro anni me li devo prendere sicuro …Hai capito?

AMICO: Madonna

DE BENEDICTIS: sicuro

AMICO: va bene, dopo vedo se ti vengo a trovare

DE BENEDICTIS: a casa? …Quando?

AMICO: eh…vedo oggi pomeriggio dai

DE BENEDICTIS: io da casa non mi muovo da casa o domani quando vuoi, io non lo so, come vuoi tu, però io sono sicuro che me l’hanno riempita di microspie casa …hai capito?

AMICO: ah, ah …va bene

DE BENEDICTIS: tu quand’è che passi? Io non ho più telefono, hai carta e penna?

AMICO: no, adesso vedo se vengo domani.

De Benedicits, era stato assolto dai giudici di Lecce in primo grado nel maggio 2014 per il reato di porto, detenzione e ricettazione di armi da guerra. Sentenza impugnata dalla Procura e ribaltata dalla Corte d’Appello di Lecce. condannato a due anni di reclusione . La condanna successivamente venne annullata nel 2019 dalla Cassazione in quanto l’acquisto era stato fatto secondo i giudici della Suprema Corte,  “in buona fede”, essendo De Benedictis un collezionista. Secondo quanto scritto nella sentenza “l’atteggiamento psicologico di De Benedictis appare qualificabile come errore di fatto, incolpevole sulla natura dell’arma, ingenerato dalla regolarità delle modalità lecite di acquisto da un armiere autorizzato, e, in seguito, in occasione dell’incontro tra lui e il suo armiere di fiducia, come dubbio di non particolare consistenza su tale fondamentale profilo”. Il giudice aveva acquistato un fucile Feg Gbm a otturatore girevole-scorrevole ungherese che ricordava l’antica carabina, presso un negozio specializzato nella Repubblica di San Marino. Ma l’arma acquistata poteva sparare a raffica, motivo per cui il fucile venne riportato al negozio, su richiesta del commerciante che aveva ricevuto una segnalazione dall’importatore per possibili difetti dell’arma. De Benedictis nel frattempo era venuto a conoscenza dai Carabinieri per l’elezione di domicilio, dell’esistenza di una indagine a suo carico. Fra le persone indagate dalla Procura di Lecce compare anche l’ avvocato Alberto Chiarello figlio trentenne dell’avvocato arrestato, nella cui abitazione sono stati trovati 1,3 milioni di euro in contanti nascosti all’interno di tre zaini occultati all’interno di un divano e di un armadio. Sono in corso gli accertamenti per verificarne la provenienza. Gli indagati in totale sono 12 nei cui confronti la pm Roberta Licci aveva chiesto la custodia cautelare in carcere, ma la Gip Giulia Proto, ha ritenuto che l’applicazione della misura cautelare fosse necessaria solo per tre di loro che avrebbero potuto avere la possibilità di poter continuare a commettere reati dello stesso genere. Oltre a Giancarlo Chiariello e Giuseppe De Benedictis, anche Danilo Pietro Della Malva ritenuto il principale corruttore, che era stato arrestato per aver fatto parte di un gruppo criminale dedito al narcotraffico. Gli altri indagati sono l’avvocata barese Marianna Casadibari, collaboratrice di studio dell’avvocato Chiariello; l’ appuntato dei Carabinieri Nicola Soriano, in servizio presso la sezione di pg della Procura di Bari; Roberto Dello Russo, 41 anni di Terlizzi detto “il malandrino”, indagato per narcotraffico nell’ambito di un’inchiesta di cui De Benedictis si era occupato come Gip; il pregiudicato Antonio Ippedico, 49 anni di Foggia noto esponente della “Società foggiana”, indagato ed arrestato in un’ altra inchiesta della Dda di Bari ; Pio Michele Gianquitto, 42 anni di Foggia, indagato per trasferimento fraudolento di valori che era stato arrestato a suo tempo su ordine del gip De Benedictis; l’ avvocato Paolo D’Ambrosio, 51 anni di Foggia, co-difensore insieme a Chiariello del pregiudicato foggiano Ippedico; Matteo Della Malva, zio di Danilo Pietro e Valeria Gala compagna di quest’ultimo. L’appuntato dei carabinieri, Nicola Vito Soriano, scrive il gip di Lecce, Giulia Proto, nel provvedimento di arresto avrebbe “rivelato a De Benedictis e all’avvocato Chiarello notizie che dovevano rimanere segrete , in particolare disvelava il contenuto di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia che consegnava sia a Chiarello che a De Benedictis e fornendo informazioni anche sul pm titolare del procedimento ottenendo in cambio dal De Benedictis l’impegno ad occuparsi della vicenda giudiziaria che riguardava un suo cugino da gestire in termini favorevoli alla sua posizione“. Gianquitto, D’Ambrosio ed Ippedico sono ritenuti appartenenti al clan Sinesi-Francavilla, clienti dello studio legale Chiariello che avrebbero beneficiato delle scarcerazioni disposte dal Gip De Benedictis in cambio di denaro. Le ipotesi di reato contestate agli indagati a vario titolo, sono: associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio e atto contrario ai doveri di ufficio. L’inchiesta condotta della Procura di Lecce potrebbe riservare altre sorprese in quanto nel fascicolo d’indagine sono presenti ulteriori indizi di reato che consentono di ipotizzare che siano coinvolti altri indagati oltre che per l’ipotesi di corruzione, in quanto vi sarebbero anche delle rivelazioni di segreti d’ufficio che sarebbero state acquisite e divulgate illecitamente, e diffuse delle notizie relative a dichiarazioni di collaboratori di giustizia ancora segrete, custodite in banche dati riservate. Lo stralcio di una conversazione intercettata risale al 16 giugno 2020. A parlare è il pregiudicato Danilo Pietro Della Malva di Vieste (difeso dall’avvocato Chiariello) il quale aveva ottenuto dal gip De Benedictis la scarcerazione, con concessione degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico: “Ho speso trentamila euro e mi sono comprato il giudice a Bari” si legge negli atti. Della Malva era tornato dal carcere di Rebibbia a casa il 24 aprile e una sera, parlando con la moglie sulla veranda, “commentava senza alcuna cripticità il mercimonio per la sua scarcerazione” ricostruiscono gli inquirenti “Dapprima si vantava di essere uscito dal carcere dopo appena tra mesi e, alla reazione ironica della moglie che, ridendo, esordiva con un commento «grazie» come a voler dire «sappiamo bene il perché», Della Malva diceva: «però aspetta, ho speso trentamila euro e mi sono comprato il giudice a Bari”. Secondo gli inquirenti della Dda, i soldi sarebbero stato consegnati tramite l’avvocato al giudice. Le indagini dei Carabinieri hanno infatti documentato che il 18 marzo 2020, cioè 7 giorni dopo il provvedimento con il quale il gip De Benedictis aveva disposto la scarcerazione, il Gps dell’automobile del magistrato segnalava la sua presenza a casa del legale. “Oltre a ribadire il grande apprezzamento per l’eccellente lavoro svolto e la grande professionalità dimostrata dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari, questo ufficio desidera rivolgere un sentito ringraziamento all’Autorità Giudiziaria di Bari e Trani per la collaborazione istituzionale prestata e le segnalazioni trasmesse, che hanno consentito di concludere un’indagine assolutamente doverosa, anche se al tempo stesso dolorosa per tutti noi – scrive la Procura di Lecce in una nota – È opinione di questa Procura della Repubblica che la collettività, sia pure nel comprensibile disagio e disorientamento determinato dalla vicenda, possa trovare motivo di sollievo nella circostanza che proprio l’Istituzione Giudiziaria possieda gli anticorpi necessari per colpire i comportamenti devianti, e abbia, ancora una volta nella nostra regione, dimostrato di saper guardare al proprio interno e individuare le più gravi criticità. E’ oggi più che mai necessario che, insieme all’Avvocatura, tutti gli Uffici Giudiziari proseguano nel proprio impegno volto ad assicurare un servizio efficiente e trasparente per la collettività”.

Bari, «con quel giudice siamo a cavallo». Caso De Benedictis-Chiariello: la mala sapeva da almeno 10 anni. Luca Natile su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Aprile 2021. Le confessioni di una «settima-trequartino», grado altissimo nella gerarchia criminale di una «società maggiore» come la famiglia malavitosa dei Palermiti di Japigia, fanno tremare il palazzo. Le rivelazioni di Domenico Milella, 40 anni, alias «Mimm u’ gnor», braccio destro del boss Eugenio Palermiti, 58 anni, detto «Il nonno», non stanno portando alla luce solo i segreti della cupola mafiosa ma anche quelli nascosti tra i corridoi e le stanze del palazzo di giustizia e negli studi legali. L'inchiesta è quella che ha portato all'arresto del gip Giuseppe De Benedictis e del penalista barese Giancarlo Chiariello. Secondo la Procura di Lecce, i due avrebbero stretto da tempo un patto in base al quale, in cambio di denaro, consegnato nell’abitazione, nello studio del legale, o anche all’ingresso di un bar vicino al nuovo Tribunale, il giudice emetteva provvedimenti favorevoli agli assistiti dell’avvocato. Fondamentali, nella ricostruzione della vicenda, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Quelle di Milella, ad esempio. Da gennaio del 2020 «U’gnor» è impegnato a svelare ai magistrati antimafia, i segreti della mafia barese e della Società foggiana , comprese quelle su supposti rapporti privilegiati tra gli avvocati difensori di «indagati eccellenti di mafia» e un giudice. Quel giudice è Giuseppe De Benedictis, 59 anni, nato a Molfetta, che solo due settimane fa aveva chiesto di abbandonare la toga. Sua la firma in calce ad alcuni dei provvedimenti giudiziari più importanti degli ultimi anni. Dagli atti dell’inchiesta, emerge che Milella avrebbe confidato agli inquirenti di essere a conoscenza di un rapporto di corruzione che andava avanti da svariati anni, tra un giudice in servizio presso il Tribunale di Bari e alcuni avvocati del foro di Bari e di Foggia i quali, a dire del pentito, venivano nominati difensori in processi di mafia proprio perché «amici del giudice». «Noi riusciamo a capire l’avvocato che sta bene con quel giudice... ma questo può voler dire tutto e può voler dire niente» racconta Milella nell’interrogatorio reso il 12 febbraio dello scorso anno. «Però - aggiunge - c’è un dato che ritorna da tempo sul giudice. Già nove anni fa io ero un ragazzino e già sapevo che quel giudice prendeva mazzette. Parecchi avvocati arrivavano direttamente a lui. Io non ho visto con gli occhi miei, non ho dato soldi, però Gianni Palermiti una volta mi disse che "Quando sta quello (ndr, riferito al giudice) siamo a cavallo”». Milella racconta anche delle vicende giudiziarie di un suo sodale Giuseppe detto «U’Gnuff» di Japigia, arrestato nell’ottobre del 2019. «Lui - spiega - doveva uscire (ndr, ai domiciliari) verso Foggia. Dopo quindici giorni mi hanno detto che “No, l’avvocato dello Gnuff ha parlato con il giudice che gli ha detto: puoi andare direttamente alla casa... a Japigia. Che nessuno credeva che poteva uscire». Nell’inchiesta sono entrate anche le dichiarazioni datate 2012 di un altro pentito Matteo Tulimiero, del gruppo Parisi. Raccontando del suo arresto e di quello di altri sodali, Tulimiero spiega che il loro legale avvicinò un collega avvocato che sapeva amico di De Benedictis «per cercare di tirarci fuori dal carcere. Per il primo di noi pagammo 20mila euro, per gli altri 5 mila euro a testa. I soldi li demmo all’avvocato. Una volta che ci siamo incontrati. A suo dire doveva dividere quei soldi con De Benedictis».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 25 aprile 2021. Boss scarcerati in cambio di tangenti. L'inchiesta che travolge gli uffici giudiziari di Bari e che porta in carcere un magistrato e un avvocato è della Procura di Lecce: al gip Giuseppe De Benedictis e al penalista Giancarlo Chiariello la Dda contesta la corruzione in atti giudiziari e anche l'aggravante mafiosa. De Benedictis, per denaro, avrebbe emesso provvedimenti favorevoli agli assistiti di Chiariello, in gran parte appartenenti a cosche o legati alla criminalità organizzata. Nell'ordinanza di arresto il gip di Lecce, Giulia Proto, parla di «un deprimente quanto collaudato sistema di svendita delle pubbliche funzioni, un costante mercimonio della giurisdizione, piegata ed asservita a scopi illeciti». La svolta nell'inchiesta è arrivata il 9 aprile, quando l'ufficio di De Benedictis è stato perquisito: gli investigatori hanno trovato circa seimila euro pagati poco prima dal legale: entrambi erano pedinati e intercetatti. Il giudice ha quindi presentato al Csm richiesta di dimissioni dalla magistratura, «per vergogna», aveva detto. Ma in una telefonata captata poco dopo dai carabinieri ha specificato a un amico: «Mi sono dimesso per evitare il carcere». E ha aggiunto: «Chiarello mi dette una cosa da studiare e mi dette qualche soldo, come scesi dallo studio stavano i carabinieri, perquisizione, corruzione... quello stava puntato». A casa del magistrato sono poi stati trovati altri 60mila euro: le mazzette erano nascoste in alcune prese per derivazioni elettriche ed erano divise in importi che variavano dai duemila ai 16mila euro. Gli indagati sono in tutto 12: ci sono altri tre avvocati, tra i quali il figlio di Chiarello, Alberto, che in tre zaini nascosti in un divano di casa aveva 1,2 milioni in contanti, la collega Marianna Casadibari e l'avvocato Paolo D'Ambrosio. Tutti sono accusati di concorso in corruzione in atti giudiziari. Indagato anche un carabiniere in servizio alla Procura di Bari, Nicola Vito Soriano. Il gip Proto, che ha disposto il carcere per il collega e per l'avvocato, parla di un «gravissimo quadro indiziario», emerso non solo dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, ma anche da video e intercettazioni. Un quadro «reso ancor più grave dalla qualifica dell'indagato: un gip, che ha il potere sulla libertà degli individui, che mette al servizio di uno scaltro avvocato per favorire personaggi di elevata caratura criminale», si legge ancora nell'ordinanza. «Ho speso 30mila euro e mi sono comprato il giudice a Bari», ha detto intercettato insieme alla moglie un pregiudicato assistito da Chiarello, che era riuscito a ottenere i domiciliari con braccialetto elettronico e si vantava di essere uscito dal carcere dopo appena 3 mesi di reclusione. Secondo gli inquirenti, il denaro sarebbe stato consegnato al giudice tramite l'avvocato: 7 giorni dopo il provvedimento di scarcerazione il gps dell'auto del magistrato ne segnalava la presenza a casa del legale. Lo scambio di tangenti sarebbe proseguito nonostante la consapevolezza di Chiarello e di De Benedictis di essere sotto inchiesta. Scrive il giudice nell'ordinanza: «De Benedictis, in attesa della prevista restrizione cautelare, non disdegna l'ennesima dazione. Delinque fino all'ultimo momento, e oltre». E ancora: «L'aspetto inquietante della vicenda, a dimostrazione del delirio di onnipotenza di entrambi, è che De Benedictis, già nel gennaio 2021 era consapevole che Chiariello fosse oggetto di investigazione». Lo avrebbe saputo dal carabiniere indagato. Nonostante questo, il giro di mazzette e scarcerazioni sarebbe andato avanti. Nel giugno 2020, per esempio, era toccato al pregiudicato barese Roberto Dello Russo. Ecco la ricostruzione degli inquirenti: «L'accordo veniva chiuso a 18mila e per arrivare a tale cifra Chiariello riferiva che si sarebbe tolto il suo onorario». L'intercettazione sembra chiara, per l'accusa: «Diciò, mi tolgo tutto io, me la vedo tutto io, va bene?», dice l'avvocato. «Fai prima guerra mondiale, dai», risponde De Benedictis. Tradotto: 15-18, gli anni della guerra, per indicare una cifra compresa tra i 15 e i 18mila euro.

Massimilliano Scagliarini per lagazzettadelmezzogiorno.it il 27 aprile 2021. Il ritrovamento di 1.200.000 euro in contanti ha fatto partire una indagine per reati fiscali e riciclaggio a carico del penalista Giancarlo Chiariello, l’avvocato barese finito in carcere venerdì su richiesta della Dda di Lecce con l’accusa di aver corrotto il giudice Giuseppe De Benedictis. I militari della Finanza, su ordine del procuratore di Bari, Roberto Rossi, hanno eseguito stamattina una perquisizione nello studio dell’avvocato. L’obiettivo del nuovo fascicolo è capire la provenienza del denaro ritrovato venerdì in casa del figlio dell’avvocato, nascosto in tre zainetti: entrambi, padre e figlio, sono indagati con l’ipotesi di evasione fiscale, riciclaggio e autoriciclaggio. I finanzieri hanno acquisito tra l’altro la copia della contabilità ufficiale dello studio professionale. Dal provvedimento eseguito stamattina emerge infatti che nella perquisizione eseguita venerdì in casa del figlio Alberto Chiariello, anche lui avvocato e collaboratore del padre, oltre che il denaro è stato trovato un foglio manoscritto con quella che sembrerebbe una contabilità parallela. L’ipotesi è dunque che i soldi possano essere provento di evasione fiscale oppure di “reinvestimento di somme della criminalità organizzata”. Giancarlo Chiariello, che si trova nel carcere di Altamura su ordine del gip di Lecce, Giulia Proto, dovrebbe essere interrogato domani insieme al giudice De Benedictis.

DE RAHO: «FATTO DI UNA GRAVITA' SENZA PARI» - E' un fatto di una gravità senza pari. Ci si aspetta da un magistrato di avere giustizia e quindi pensare che possa esistere nel sistema giudiziario un soggetto che, invece, dietro pagamento aderisce addirittura a proposte in materia di mafia è un fatto totalmente incredibile e gravissimo». Lo ha detto il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, a margine della conferenza stampa a Bari sull'arresto di 99 presunti affiliati al clan Strisciuglio, commentando la vicenda che ha portato in carcere nei giorni scorsi il giudice barese Giuseppe De Benedictis.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “La Verità” il 25 aprile 2021. Non c'è pace per la magistratura italiana. Mentre le toghe ai vertici del Sistema si randellano tra di loro, con il rischio di paralizzare la macchina della giustizia, per issare sulla picca la testa del loro vecchio leader Luca Palamara, nelle retrovie, colleghi più attirati dal denaro che dal potere, si ingegnano per arrotondare a suon di mazzette i già lauti stipendi. Un malcostume che starebbe diventando regola a voler dare valore statistico ai ripetuti casi di corruzione finiti di recente sulle gazzette. In Puglia, per esempio, dopo gli arresti di Antonio Savasta e Michele Nardi, è venuto il turno di Giuseppe De Benedictis. Il terzetto ha trovato nel procuratore di Lecce Leone De Castris un implacabile cacciatore di toghe corrotte. La comune provenienza geografica dei mariuoli ci perplime: i magistrati vengono resi più corruttibili dall'abuso di cozze pelose e cicerchie oppure nel Salento c'è chi, insensibile al richiamo della corporazione, cerca di fare pulizia più che ad altre latitudini? A prescindere dalla risposta, in un momento in cui la magistratura ha raggiunto il livello più basso di credibilità nella sua storia recente, a causa di inchieste e faide di ogni genere, non sentivamo la mancanza delle imprese di De Benedictis da Molfetta. È finito ieri in manette per aver intascato 57.000 euro di mazzette da questo e quell'imputato. Una cifra che a ben vedere non fa neppure un anno dello stipendio netto da giudice. Una carriera rovinata, in fondo, per pochi soldi. Emblematico quanto dice un certo Danilo Pietro Della Malva in una conversazione con la moglie Valeria: «Però... però aspetta ...ho speso trentamila euro e mi sono comprato il giudice a Bari». Il cadeau è il cinquantanovenne magistrato, un po' spelacchiato, magari con qualche decimo di vista mancante, ma di garantita efficacia. Era in grado di spostarti, secondo le accuse, dal carcere a casa a prezzi modici. Ecco spiegata in poche righe l'inchiesta che ha portato De Benedictis dietro alle sbarre. Nel fascicolo i pm contestano a vario titolo i reati di rivelazione di segreto di ufficio e corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio e in atti giudiziari, con l'aggravante (non riconosciuta dal Gip) di aver agevolato clan mafiosi, anche dettando ai periti cosa scrivere per far scarcerare i boss. In totale nel procedimento sono state iscritte 12 persone e tre di questi sono finite in prigione: De Benedictis, l'avvocato Giancarlo Chiariello e Della Malva.Della Malva, come sottolinea il Gip Giulia Proto, è un personaggio di una certa caratura criminale (è sospettato di essere promotore e organizzatore di una banda dedita al narcotraffico) e non aveva nessun motivo per millantare con la consorte il mercimonio. Che i carabinieri del Nucleo investigativo di Bari hanno registrato in presa diretta. L'ultimo caso lo scorso 9 aprile, quando De Benedictis fa visita all'avvocato Chiariello. Terminato l'abboccamento, il giudice torna in Tribunale. In ufficio, le telecamere lo riprendono «mentre maneggia - estraendola dalla tasca destra del giubbotto di pelle e riponendola nella tasca sinistra dei pantaloni - una busta di carta bianca». In cui c'è una mazzetta da 5.500 euro «per il provvedimento di favore adottato il 31 marzo 2021 nei riguardi di Antonio Ippedico». L'attività di indagine ha anche ricostruito il suk dietro a quella presunta tangente. Protagonisti sempre il giudice e l'avvocato. De Benedictis: «[] Poi si vede, più in là te la faccio, ora ti faccio Monacis. Quando devi presentare la domanda per quello?». Chiariello: «E io quello volevo sapere». Dopo la toga sussurra: «Può darli?». «Ci dobbiamo incontrare», replica il legale. Chiariello fa la prima offerta: «Sedici qualche cosa in più». De Benedictis non deve sembrare convinto. A questo punto l'avvocato rilancia: «Dicio' (nel senso di 18.000 euro, ndr) mi tolgo tutto io». De Benedictis: «Allora fai dicio'». Soldi che per l'accusa sarebbero poi stati consegnati il 3 luglio 2020. E qui l'ordinanza ci regala una scena da commedia all'italiana. Quel giorno sono passate da poco le otto del mattino e Chiariello è nell'androne del portone «in pantaloncini corti e con una valigetta 24 ore». Raggiunto da De Benedictis, entra con lui «nell'ascensore, salgono fino al sesto piano, e senza mai uscire, tornano immediatamente al piano terra». Gli investigatori annotano: «In quegli attimi all'interno dell'ascensore Chiariello consegna "la mazzetta" che il magistrato ripone evidentemente in tasca. Quindi escono, vanno al bar e Chiariello rientra nell'androne con in mano la valigetta chiaramente vuota». Nel fascicolo di indagine del pm Roberta Licci è stato iscritto pure il figlio di Chiariello, Alberto, anch' egli avvocato. Quest' ultimo, in un altro episodio documentato dai carabinieri, «secondo un ormai consolidato modus operandi», in qualità di «intermediario del padre Giancarlo, entra nell'ufficio del giudice e gli rivolge questa semplice domanda: "Vuole un caffè?"». De Benedictis, «intuendo il motivo sotteso all'invito», risponde senza giri di parole: «Dove sta tuo padre?». A casa del figlio d'arte sono stati trovati 1,3 milioni di euro cash nascosti in tre zaini. Quella di celare il contante era una pratica utilizzata anche da De Benedictis, il quale metteva il denaro nei posti più disparati. Durante la perquisizione, come detto, gli investigatori hanno recuperato 57.700 euro complessivi. Una parte era occultata «all'interno di una cassette di sicurezza di piccole dimensioni, celata dietro una placca riproducente una presa di corrente []». Per gli investigatori De Benedictis aveva un chiodo fisso per i «sordi»: tanto che una mattina dal suo ufficio contatta un funzionario di banca. «Perdonami se ti sto stalkerizzando volevo solo sapere, ricordati di far incassare il mio assegno ti ringrazio». De Benedictis, da buon conoscitore del codice, quando l'aria si è fatta pesante, ha anche provato a evitare il carcere, come confida in una conversazione telefonica con un amico: «Perché venerdì io, quello Chiariello mi dette una cosa da studiare e mi dette qualche soldo, come scesi dallo studio stavano i carabinieri, perquisito, perquisizione, corruzione quello Chiariello stava puntato, io mi sono dimesso (dalla magistratura, ndr) per evitare il carcere». Missione miseramente fallita.

Bari, De Benedictis ammette tutto e chiede scusa: «Sconvolto dopo la morte della moglie». Confessa anche Chiariello. L'ex gip di Bari interrogato nel carcere di Lecce. . La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Aprile 2021. «Ha confessato, chiedendo scusa per il suo operato» l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis rispondendo alle domande del gip e dei pm del Tribunale di Lecce durante l’interrogatorio di garanzia che si è tenuto questa mattina nel carcere Borgo San Nicola nel capoluogo salentino. L'interrogatorio si è svolto alla presenza del gip Giulia Proto, che ha emesso la misura restrittiva che sabato scorso ha portato in carcere con l’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari De Benedictis e l’avvocato barese Giancarlo Chiariello. A dirlo sono stati all’uscita dal carcere di Lecce i difensori Gianfranco Schirone e Saverio Ingrassia. L’interrogatorio è cominciato alle 10.30 e si è concluso poco dopo l’una. Secondo quanto riferito dai legali, De Benedictis ha addebitato il suo operato ad un episodio privato. «Ho agito - avrebbe detto - in seguito ad un corto circuito mentale dovuto alla morte di mia moglie in seguito alla quale ho deragliato». L’ex gip di Bari è apparso, secondo i suoi legali, «molto provato, un uomo distrutto e sofferente». I due difensori hanno anche rivolto un appello ai giornalisti che attendevano fuori del carcere: «non giudicate - hanno detto - ricordatevi il magistrato che è stato». Al termine dell’interrogatorio i due legali hanno chiesto la concessione degli arresti domiciliari.

I LEGALI: È UN UOMO DISTRUTTO - «De Benedictis è un uomo distrutto, provato dai sensi di colpa. E’ come se si fosse liberato di un peso che non riusciva a scrollarsi di dosso da solo. Quello che ha fatto è una nefandezza che lui stesso ha riconosciuto davanti al gip e al pm davanti al quale ha mostrato tutta la sua sofferenza con un pianto liberatorio. E’ un uomo che ora ha voglia solo di riscattarsi»." E’ quanto hanno riferito i legali dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis a conclusione dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto oggi nel carcere di Lecce dove il magistrato è detenuto con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Secondo i difensori, Gianfranco Schirone e Saverio Ingraffia, l'ex gip «ha avuto un periodo di disconnessione, non si è reso conto di quello che stava facendo», avrebbe avuto un «corto circuito di un anno e mezzo causato da vicende personali (la morte della moglie, ndr) e da un isolamento professionale verificatosi dopo dopo il ritrovamento delle armi». De Benedictis era stato infatti arrestato nel 2010, condannato in appello e poi assolto in Cassazione, perchè in casa sua, nell’ambito di una inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere era stato trovato un arsenale, tra cui un’arma da guerra che non avrebbe potuto tenere. Secondo i difensori, malgrado questa vicenda si sia conclusa con l’assoluzione, «De Benedictis sarà un uomo che non sarà più preso in considerazione dal Csm, vedendo vanificato ogni sogno di progressione di carriera» .
Nel pomeriggio alle 15 si svolgerà a Lecce l’interrogatorio di garanzia dell’avvocato Giancarlo Chiariello arrestato con De Benedictis con l’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari. L’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis ha dato «ampia disponibilità a incontrare la Procura, a rispondere ad altre domande e ad approfondire ulteriori richieste da parte dei pm». Lo rendono noto i suoi difensori, gli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, a margine dell’interrogatorio di garanzia che si è tenuto oggi nel carcere di Lecce, dove il giudice è detenuto da sabato su disposizione della magistratura salentina nell’ambito dell’inchiesta su presunte mazzette in cambio di scarcerazioni. De Benedictis è accusato di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello, anche lui arrestato. A quanto si apprende, De Benedictis oltre a confessare tutti gli addebiti contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare, si è detto pronto a parlare di ulteriori vicende che coinvolgerebbero anche altri professionisti. «Ho sbagliato ed è giusto che paghi - avrebbe detto stando a quanto riferito dai difensori - ma adesso voglio dare il mio contributo». Confessando di aver accettato denaro dall’avvocato Chiariello, il giudice si è detto «vittima», «succube» del legale, arrivando a «sperare che qualcuno lo scoprisse - ha spiegato l’avvocato Ingraffia - , perché era l’unico modo per porre fine all’incubo dal quale non riusciva a tirarsi fuori».

LA CONFESSIONE DEL PENALISTA CHIARIELLO -  Ha confessato gran parte degli episodi di corruzione contenuti nel provvedimento di arresto il penalista barese Giancarlo Chiariello, arrestato sabato scorso assieme all’ormai ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione in atti giudiziari. L’ammissione è avvenuta durante l’interrogatorio di garanzia (durato circa due ore e mezza) che si è svolto nel Tribunale di Lecce dinanzi al gip Proto e al pm Prontera. Chiariello, assistito dagli avvocati Andrea Sambati e Raffaele Quarta, ha ricostruito con dovizia di particolari - si apprende dalla difesa - gli episodi di corruzione sui quali ha fatto ammissioni (3 dei 4 contestati) e la genesi del rapporto con il giudice. Ha detto di essere sempre stato vicino negli anni a De Benedictis, ma ha puntualizzato che il rapporto di corruzione è limitato agli ultimi 18 mesi, da quanto De Benedictis è tornato a svolgere le funzioni di gip a Bari, dopo essere stato trasferito da Matera. Il penalista ha quindi precisato che è stato il magistrato a chiedergli di aiutarlo perché aveva una serie di problemi personali da risolvere. Durante l’interrogatorio Chiariello è stato più volte sopraffatto dalla commozione. I legali si sono riservati di chiedere al gip gli arresti domiciliari. 

Bari, avvocato Chiariello: «Il milione nascosto negli zainetti? Erano gli onorari del mio lavoro». La versione del legale sui contanti trovati a casa. E il suo studio chiude. Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Giugno 2021. La Procura di Bari sta verificando se quel denaro provenga da un qualche reinvestimento di somme illecite. Al vaglio degli inquirenti c'è anche la pista, ancora tutta da verificare, che quei contanti appartenessero addirittura a qualcuno dei suoi assistiti e che fossero lì a titolo di deposito. Quando è stato interrogato sul punto, però, dopo il suo arresto, ha fornito al giudice una sua versione dei fatti diametralmente opposta. «I miei onorari venivano pagati anche in contanti e quei soldi sono il frutto della mia attività professionale che non potevo versare in banca per le limitazioni all’uso del cash», ha detto in estrema sintesi. La differenza non è di poco conto. La magistratura è al lavoro per capire qual è la verità. C'è da chiarire il «giallo» dei 1,2 milioni di euro nella disponibilità dell'avvocato barese Giancarlo Chiariello, finito in carcere il 24 aprile scorso insieme con l'ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Presunte mazzette in cambio di scarcerazioni facili, ipotizza la Procura di Lecce competente a indagare su magistrati in servizio nel distretto di Bari. A carico del solo Chiariello e di suo figlio Alberto (anche lui coinvolto nella storia delle tangenti), indaga anche Bari dopo il ritrovamento di 1.200.000 euro fascettati e sottovuoto in casa di Chiariello jr. Di qui, solo per padre e figlio l’accusa di reati fiscali, riciclaggio e autoriciclaggio. Il procuratore facente funzioni di Bari, Roberto Rossi, in concomitanza con gli arresti, aveva delegato la Finanza a eseguire una nuova perquisizione nello studio in pieno centro cittadino, con l'obiettivo questa volta di acquisire la documentazione contabile e mandati professionali. Insieme ai soldi (trovati in tre zainetti, nascosti sotto un divano e in un armadio) i carabinieri avevano già rinvenuto appunti manoscritti: potrebbero essere la contabilità occulta dello studio legale messa a confronto con l’elenco dei clienti dello studio. I soldi vennero sequestrati. Le verifiche sui redditi dichiarati dall’avvocato Chiariello hanno fatto emergere che le cifre non sono nemmeno lontanamente paragonabili alla quantità di contante ritrovata un sabato mattina di fine aprile. Ma per procedere alla confisca del denaro è necessario provarne la provenienza illecita: dunque, ad esempio, documentare la mancata fatturazione di compensi professionali oppure qualcosa di più grave. In sede di interrogatorio, l'avvocato Chiariello, assistito dagli avvocati Raffaele Quarta e Andrea Sambati, ha sostenuto appunto che si trattasse del frutto di anni di lavoro. Poiché a volte veniva pagato in contanti, non poteva certo effettuare i relativi bonifici in banca. In sintesi, il tema sarebbe quello del «nero». In poche settimane da quei ricavi ad oggi, è cambiato completamente lo scenario se Chiariello nel frattempo è stato sospeso per 10 mesi in via cautelare dall’Albo degli avvocati (in attesa del procedimento disciplinare) e se, soprattutto, uno degli studi penalistici più affermato non solo a Bari ma nell'intera regione, molto apprezzato anche al livello nazionale ha chiuso i battenti.

Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 23 aprile 2021. Gli scandali della magistratura italiana sembrano non avere fine. La procura di Roma ha infatti iscritto nel registro degli indagati il presidente del Consiglio di stato, Filippo Patroni Griffi. Ex ministro del tempo del governo Monti, il capo del più importante organo della giustizia amministrativa è indagato per induzione indebita «a dare o promettere utilità». Perché nel 2017, quando era presidente della quarta sezione di palazzo Spada, avrebbe indotto l'avvocato Piero Amara (indagato con la stessa ipotesi di reato) a non licenziare Giada Giraldi, un'amica dell'alto magistrato. Esperta in relazioni istituzionali, Giraldi sarebbe stata assunta tempo prima in un'azienda di Amara, la Da.gi srl. Amara le avrebbe fatto un contratto da circa 4-5mila euro al mese, dopo una raccomandazione arrivata da un suo socio in affari, Fabrizio Centofanti, imprenditore finito sui giornali celebre perché accusato di aver corrotto il pm Luca Palamara. Secondo i pm, però, sarebbe stato proprio Patroni Griffi a sollecitare Centofanti affinché trovasse un posto di lavoro alla ragazza. I prodromi della vicenda sono stati anticipati da Domani lo scorso gennaio. L'inchiesta dei pm Rosalia Affinito, Fabrizio Tucci e Gennaro Varone prende infatti il via dopo un duro scontro tra Patroni Griffi e un consigliere del Tar, Dauno Trebastoni. Quest'ultimo, che è indagato per corruzione a Catania e rischiava di essere sospeso in via cautelativa dal servizio dal consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, non ci sta a passare per l'unico “cattivo” di turno.  Così prende carta e penna e lo scorso 15 dicembre manda «un'istanza di astensione e / o ricusazione di Patroni Griffi». Trebastoni, che non nega di conoscere bene sia Amara sia l'amico-socio Giuseppe Calafiore, ma afferma che anche Patroni Griffi «ha intrattenuto rapporti con Amara e Calafiore, dai quali egli avrebbe" preteso "l'assunzione di racconto Giada Giraldi». Un'affermazione avvalorata da alcune dichiarazioni che Amara rilascia all'avvocato di Trebastoni, in cui Amara conferma le pressioni: «Nel 2017 venne a cercarmi lui, e pretese da me che continuassi a far lavorare una giovane donna con la quale aveva una relazione, tale Giada Giraldi, che sapeva io conoscevo. Tale richiesta mi venne formulata nei pressi del ristorante di Roma che si trova vicino al mio studio, alla presenza dell'avvocato Calafiore ». Secondo Amara, Giraldi lavorò per lui «per tutto il 2017 vieni addetto alle relazioni esterne, che in realtà non ha mai svolto ma per le quali è stata pagata 4-5mila euro al mese».

Le nuove accuse. È noto che, avuto notizia dell'istanza di Trebastoni, Patroni Griffi ha subito depositato un esposto per calunnia e diffamazione aggravata a Piazzale Clodio. In pochi sanno invece che, a causa dell’istanza contro di lui, Patroni Griffi si è dovuto astenere dal voto sulla sospensione del magistrato del Tar: nell’organo collegiale è così finita 7 a 7, un pareggio che permette oggi a Trebastoni di essere ancora regolarmente in servizio. Gli amici dell’ex ministro parlano oggi di una beffa: «Trebastoni, che è indagato per corruzione, ha costretto con una bugia il presidente ad astenersi, e così si è salvato da un voto che con lui nel consiglio sarebbe stato probabilmente sfavorevole». Torniamo negli uffici guidati da Michele Prestipino. I pm romani, appena ricevuto l’esposto, hanno cominciato ad indagare per capire chi mentiva tra Amara (le cui dichiarazioni a Perugia hanno da poco peggiorato la posizione di Palamara, indagato adesso anche per corruzione in atti giudiziari) e il magistrato. L'inchiesta è andata avanti per qualche mese. Se Patroni Griffi non sembra essere stato ancora sentito, sono stati ascoltati altri protagonisti della vicenda. Soprattutto, sarebbero stati trovati alcuni, seppur parziali, riscontri al racconto di Amara. In primis, alcuni testimoni hanno confermato come anni fa Patroni Griffi, durante un evento mondano a cui era andato insieme alla Giraldi, avrebbe chiesto a Centofanti (incontrato lì per caso) se era interessato ad assumere la ragazza. Non è tutto: in mezzo ad alcune carte sequestrate nel 2016 e 2017 dalla Guardia di finanza al lobbista (a processo da tempo a Roma per false fatturazioni), gli investigatori hanno trovato una bozza di un contratto di assunzione che Centofanti aveva preparato per Giraldi. Ingaggio poi saltato per motivi non chiari. Fin qui la vicenda non sembra avere profili penali. È il racconto del presunto incontro presso il ristorante Gusto a piazza Augusto Imperatore fatto da Amara e Calafiore che - fosse veritiero - creerebbe più di un imbarazzo al presidente. Che oggi nega non solo fatto alcuna pressione, ma perfino di aver mai incontrato i due avvocati siciliani. «Ovviamente non posso escludere» ha detto ai colleghi del Consiglio di stato «che qualcuno possa avermeli presentati di sfuggita in un ristorante o in altro luogo, ma nessuna conoscenza diretta o frequentazione c'è mai stata, figuriamoci l'appuntamento improvvisato di cui parlano ». Ma per quale motivo Amara, che voleva liberarsi di Giraldi, avrebbe dovuto sottostare alle presunte richieste di Patroni Griffi che «pretese» da Amara di recedere dal licenziamento? E perché ha raccontato sia ai pm sia al suo amico Trebastoni la faccenda del presunto rendez-vous con Patroni Griffi, rischiando - com'è accaduto - una nuova incriminazione per induzione indebita, un nuovo reato introdotto nel 2013 che punisce sia il pubblico ufficiale che si macchia di una concussione più leggera di quella classica sia il destinatario che accetta le pressioni per ottenere un indebito vantaggio? Difficile dirlo per adesso. Amara, condannato in passato per alcune compravendite di sentenze amministrative, dice di aver mantenuto Giraldi al suo posto per non dispiacere un influente presidente di sezione del Consiglio di stato. Un favore fatto, insomma, per usare quando possibile la “funzione” ricoperta dall’ex ministro. Ma i magistrati che hanno iscritto i due nel registro degli indagati vanno oltre, ipotizzando che il do ut des tra i due sia legato a un contenzioso specific tra due aziende, ossia la Gemmo srl e la Exitone, quest'ultima società di Ezio Bigotti di cui Amara è stato avvocato per anni. Ebbene, all'epoca dei fatti Patroni Griffi era - secondo i pm - presidente della quarta sezione, lo stesso dove era stato assegnato un ricorso per revocazione presentato dalla Gemmo contro Exitone, rappresentata in giudizio da Amara in persona.

«È una calunnia». L'ipotesi accusatoria è tutta da verificare. Non solo perché Amara lasciò a un certo punto l'incarico perché sostituito da altri legali. Ma pure perché, si chiarisce negli uffici di palazzo Spada, «al netto della vicenda Gemmo ci risulta che almeno una sentenza di un collegio presieduto da Patroni Griffi accolto abbia una revocazione contro Exitone, annullando una precedente deliberazione del Consiglio di stato che era stata emessa da un altro collegio presieduto da Ricardo Virgilio ». Cioè un magistrato amico di Amara finito nella polvere con l'accusa di essersi fatto corrompere dall'avvocato. Per l’accusa, al di là delle nuove testimonianze e indizi, restano comunque centrali le affermazione di Amara e Calafiore. Da parte sua, la Giraldi ha negato non solo di essere mai stata amante del magistrato, ma anche di essere mai stata da lui raccomandata. In pratica, avrebbe trovato lavoro alla Da.gi grazie alle sue sole forze e capacità. I pm vanno coi piedi di piombo. Per adesso, però, sembrano dare qualche credito alle parole di Amara. Fosse confermata l’accusa Patroni Griffi rischierebbe un processo assai delicato, quando manca ancora un anno alla fine del suo mandato al Consiglio di stato. In caso contrario, se le ipotesi di reato venissero archiviate, potrebbe essere Amara a finire indagato come calunniatore. Di certo l'iscrizione è un duro colpo al Consiglio di stato. Che - paradossalmente - dovrà presto esprimersi in merito al ricorso del Csm in merito alla nomina del capo della procura romana Michele Prestipino, bocciata dal Tar del Lazio che ha accolto l'istanza del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e il procuratore di Palermo Franco Lo Voi. Sul caso Patroni Griffi, così, Prestipino ha mandato una lettera al procuratore generale, per formalizzare la sua astensione in merito al procedimento. Il conflitto in caso contrario sarebbe st ato evidente.

Magistratura, l'alta toga Patroni Griffi indagata: "Ha favorito un'amica", duro colpo al Consiglio di Stato. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Pure Palazzo Spada - sede autorevole del Consiglio di Stato - rischia di finire sotto i riflettori per una vicenda che riguarda in prima persona uno dei suoi vertici. Notizia di qualche giorno fa è quella che riguarda l'iscrizione nel registro degli indagati, da parte dei pm della Procura di Roma, proprio del presidente dell'organo costituzionale (il più importante della giustizia amministrativa), Filippo Patroni Griffi. Il caso, riportato dal quotidiano Domani, vede l'alto magistrato ed ex ministro della Pubblica amministrazione del governo Monti «indagato per induzione indebita "a dare o promettere utilità"» nei confronti di una donna, sua conoscente. Il tutto sarebbe accaduto nel 2017 quando Patroni Griffi, come si legge nella ricostruzione, era presidente della Quarta sezione di Palazzo Spada e «avrebbe indotto l'avvocato Piero Amara (indagato con la stessa ipotesi di reato, ndr) a non licenziare Giada Giraldi, un'amica dell'alto magistrato». Cosa c'entra la donna con la vicenda? «Esperta in relazioni istituzionali - si legge ancora -, Giraldi sarebbe stata assunta tempo prima in un'azienda di Amara, la Da.gi srl», con un contratto da circa 4-5mila euro al mese, «dopo una raccomandazione arrivata da un suo socio in affari, Fabrizio Centofanti: imprenditore finito sui giornali perché accusato di aver corrotto il pm Luca Palamara». Secondo la tesi dei pm, però, sarebbe stato proprio Patroni Griffi «a sollecitare Centofanti (al tempo socio di Amara) affinché trovasse un posto di lavoro alla ragazza». Fonti vicine al presidente del Consiglio di Stato hanno fatto presente come Patroni Griffi già a gennaio ha fatto un esposto in Procura per calunnia proprio contro l'avvocato Amara (che ha confermato di aver subito pressioni durante un incontro in un ristorante). «Naturalmente - spiegano - essendoci una indagine (a quanto scrive il vicedirettore di Domani, Emiliano Fittipaldi) non può parlare». In ogni caso, fanno ancora presente ambienti di Palazzo Spada, «l'indagine è un atto dovuto della Procura e il suo avvocato chiederà di sentire il Presidente quanto prima». Gli scenari? «Di certo l'iscrizione è un duro colpo al Consiglio di Stato», commenta Fittipaldi, secondo il quale se «fosse confermata l'accusa Patroni Griffi rischierebbe un processo assai delicato quando manca ancora un anno alla fine del suo mandato al Consiglio di Stato». In caso contrario, «se le ipotesi di reato venissero archiviate», potrebbe essere Amara a finire indagato per calunnia. 

Magistratopoli e il caos delle nomine. Patroni Griffi indagato per induzione indebita, Domani annuncia l’avviso di garanzia. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Nei giorni in cui il Consiglio di Stato deve decidere sul ricorso presentato dal procuratore generale di Firenze Marcello Viola contro la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, i pm della Capitale hanno notificato ieri a mezzo stampa un avviso di garanzia al numero uno di Palazzo Spada. Il quotidiano che è stato scelto per informare Filippo Patroni Griffi di essere indagato a Roma per induzione indebita a dare o promettere utilità è Domani. Patroni Griffi, secondo la dettagliata ricostruzione del giornale di Carlo De Benedetti, avrebbe indotto l’avvocato Piero Amara a non licenziare l’esperta di relazioni istituzionali e amica dell’alto magistrato Giada Giraldi. Amara è noto alle cronache per essere l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di professionisti e magistrati finalizzato ad aggiustare i processi e pilotare le sentenze in vari tribunali d’Italia e al Consiglio di Stato ed è fra i principali accusatori a Perugia di Luca Palamara. Giada Giraldi, come riporta Domani, era stata assunta in una delle società di Amara, con un contratto di circa 4-5mila euro al mese, a seguito di una raccomandazione del faccendiere laziale Fabrizio Centofanti dopo una premura dello stesso Patroni Griffi. Amara avrebbe detto ai pm di aver assunto nel 2017 Giada Giraldi per fare un piacere ad un influente presidente di sezione del Consiglio di Stato. Patroni Griffi, infatti, all’epoca era presidente della Quarta sezione di Palazzo Spada. Per i pm, però, ci sarebbe qualcosa di più: un contenzioso amministrativo tra due società, una delle quali aveva come titolare un assistito di Amara e vedeva Patroni Griffi come presidente del collegio che doveva giudicare su quel contenzioso stesso. Giraldi, comunque, avrebbe dichiarato di non essere mai stata l’amante di Patroni Griffi e di aver trovato lavoro grazie alle sue forze e capacità. A parte la fuga di notizie, su cui sicuramente nessuno indagherà, la circostanza curiosa è che queste accuse vengono da Amara, ormai la “bestia nera” dei magistrati della Repubblica. L’ideatore del Sistema Siracusa, già condannato per associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso, ha riempito nell’ultimo periodo le Procure italiane di proprie testimonianze nei confronti di magistrati di ogni ordine e grado. Alla Procura di Milano, tanto per fare un esempio, ci sarebbero pagine e pagine di verbali delle sue dichiarazioni. E a seconda del momento questi verbali vengono tirati fuori. Vedasi nel processo milanese Eni Nigeria dove la testimonianza di Amara contro il presidente del collegio Marco Tremolada, che ha giudicato ed assolto l’amministratore Claudio Descalzi, era stata trasmessa a Brescia dopo un tentativo di farla inserire nel fascicolo del dibattimento. Amara, in quell’occasione, aveva affermato di aver saputo che gli avvocati di Eni e di Descalzi “avevano accesso” presso Tremolada. Affermazione senza riscontri che aveva però messo in imbarazzo il giudice. Adesso è il turno di Patroni Griffi, magistrato stimato e di grande equilibrio, peraltro candidato in pectore alla Corte Costituzionale, il cui ufficio deve decidere se il capo della Procura che lo indaga ha i requisiti per ricoprire quel posto. Il classico cortocircuito all’italiana. Per la cronaca Prestipino avrebbe scritto al procuratore generale di Roma, Antonello Mura, che si asterrà nel procedimento. Paolo Comi

Dagospia il 19 aprile 2021. Dall'account facebook di Gianluigi Nuzzi. È l'incubo dei ristoratori. Quando lo vedono arrivare alzano rassegnati gli occhi al cielo. Piatti di tonno crudo, primi incantati da tartufo bianco, grandi vini rossi per allietare il palato e le serate con amici: oltre ad essere un esperto di legge, il giudice è di certo un raffinato degustatore di prelibatezze. Certo, i conti alla fine sono super salati ma non è un problema: basta non pagarli. Sembra incredibile ma è la storia di uno dei giudici più conosciuti in città, presidente di collegio in processi penali importanti, che lascia conti in sospeso per migliaia e migliaia di euro.  Nemmeno si possono immaginare incredulità rabbia e imbarazzo di alcuni ristoratori di Milano, che ora sono ben contenti di riaprire ma che temono che il magistrato ancora si materializzi. Nessuno di loro ha il coraggio di denunciare e rendere pubblica questa storia (che dura ormai da parecchi mesi se non addirittura anni). "Da me venivano parecchi magistrati e avvocati" - afferma uno di questi commercianti, titolare di un grazioso ristorante a qualche minuto dal Palazzo di Giustizia - "e quando arrivava lui alzavo gli occhi al cielo. “Segna segna che poi ci mettiamo d’accordo”. Ancora aspetto". Sull’identità è mistero fitto, di certo si sa che il suo nome è legato a processi FONDAMENTALI negli annali giudiziari e per il nostro Paese. Ma c’è anche chi si chiede nella cittadella della giustizia perché gli organi competenti, a iniziare dal Csm, non intervengano, dato che ormai è diventato il segreto di pulcinella...Chi sarà mai? Ah, saperlo...

Dagospia il 20 aprile 2021. Dall'account facebook di Gianluigi Nuzzi. Si arricchisce di nuovi e incredibili particolari la storia del giudice scroccone, l’importante magistrato, presidente di un collegio penale, che a #Milano ormai da anni consuma lussuosi pranzi, cene e aperitivi senza pagare il conto. Innanzitutto per il numero di ristoranti coinvolti. La lista infatti aumenta, non sono solo 2 come scritto ieri, ma sarebbero molti di più. Tra questi alcuni noti come la Risacca Blu di viale Tunisia, l’Horse Caffè di viale Montenero e poi un prestigioso ristorante in zona piazza Cinque Giornate, un importante bar per aperitivi in san Babila e il “Da Gennaro” di via Orti. I “sospesi” sarebbero da poche centinaia di euro per il ristorante più alla mano a un migliaio, per quelli più di livello come la Risacca Blu di viale Tunisia o l’Horse Caffè, che unisce cucina siciliana a quella altotesina. "Da me voleva ogni piatto con sopra la grattata di tartufo" – afferma Carlo Bellotti, il titolare - "persino sul brodo e ordinava sempre i vini più cari in lista. Veniva con tanti suoi colleghi e mi diceva ‘Mi raccomando non farli pagare, poi ci penso io', solo che il conto è ancora da pagare”. Alcuni ristoratori erano entrati anche in confidenza con il magistrato, tanto da conservare in memoria il numero di cellulare: "Gli ho scritto chiedendogli di saldare il conto" – spiega il titolare della Risacca Blu - "Li leggeva ma senza rispondere. Se spendeva molto? Ordinava certi rossi che io bevo solo a Natale”.  Nel frattempo è partito un tam tam per capire di chi si tratti. Tra i nomi più gettonati quello di un giudice di lungo corso, che non brilla certo in rapidità quando deve estendere le motivazioni delle sentenze che pronuncia. “Ma scusi – è la domanda in coro dei ristoratori – con quale credibilità questo signore assolve o condanna?”. Di certo nessuno critica i modi di questo magistrato, ritenuto sempre affabile, educato e gentile, quanto proprio il “Modus operandi”. In almeno tre ristoranti la dinamica è incredibilmente simile: prima il magistrato non paga alcuni conti, poi sollecitato li salda, conquistando nuovamente la fiducia dell’esercente, quindi lascia ancora dei debiti superiori ai primi per sparire. “Quello che fa arrabbiare è che questo atteggiamento si è ripetuto anche durante le brevi aperture dall’inizio della pandemia ad oggi. E non pagare i conti a chi fa fatica a non fallire fa proprio saltare i nervi”. E in effetti mentre il debito più vecchio risalirebbe al marzo 2019, per quello più recente si arriva allo scorso anno. Sarebbe quindi un sogno che il magistrato saldasse i suoi debiti prima che si apra magari l’istruttoria per un’azione disciplinare? Lo scopriremo nelle prossime puntate.

Dagospia il 21 aprile 2021. Dall'account instagram di Gianluigi Nuzzi. Lo scandalo del giudice scroccone a #Milano, importante presidente di una corte penale, firma di sentenze da prima pagina, si allarga su fronti impensabili. Il magistrato ha la passione non solo per la forchetta gratis, tra portate di pesce e piatti con grattate di tartufo bianco, ma anche per l’abbigliamento, ovviamente sartoriale per la sua dolce metà. Il tutto lasciando sempre i conti non pagati in boutique nel centro di Milano. Ne sa qualcosa Francesca, titolare della boutique Chicca, a due passi dal tribunale: “Adesso quando mi incontra abbassa lo sguardo - racconta - "Fa finta di non conoscermi, ma ricordo benissimo quei vestiti che fece fare su misura. Parliamo di diversi anni fa, era ancora viva la mia mamma. Se è accaduto solo una volta? Eh magari! Sono rimasti da pagare quattro vestiti per 3.500 euro per una signora, credo fosse la moglie”.

Non avete provato a chiedere di saldare il conto?

“Si dava un sacco di arie, diceva "Qualsiasi problema in Tribunale, io per voi ci sono" e io che incrociavo le dita... Mia mamma mandava la lavorante in tribunale con la busta del sollecito: "Dottore ci sarebbe il conto" gli diceva intimidita tra un’udienza e l’altra. E lui nicchiava, prendeva tempo, rimandando indietro la ragazza”. Questa storia a Milano inizia a far rumore anche perché i giudici devono mantenere sempre un’immagine di assoluta integrità. Più degli avvocati che rischiano un’azione disciplinare anche per questioni che possono lederne il prestigio, ad esempio se sono morosi con l’affitto dello studio. Ma chi è questo giudice? Il magistrato è di lunga esperienza, si è occupato di grandi processi, anche a leader politici della prima e della seconda repubblica, a iniziare da Bettino Craxi, a piduisti come Umberto Ortolani sino a vicende più attuali che hanno visto alla sbarra sia finanzieri d’assalto sia ex ministri.

(ANSA il 25 giugno 2021) La Procura generale di Milano, guidata da Francesca Nanni, ha fatto ricorso in Cassazione contro la sentenza d'appello “bis” del 2014, con motivazioni depositate dopo 7 anni dal verdetto, che ha confermato l'assoluzione di Impregilo, imputata per la legge sulla responsabilità amministrativa in relazione ad un'ipotesi di aggiotaggio, che risale a 18 anni fa e che era contestata agli allora vertici Piergiorgio Romiti e Paolo Savona, per cui fu dichiarata la prescrizione nel 2010. Il ricorso arriva dopo il deposito delle motivazioni lo scorso aprile del giudice Piero Gamacchio andato in aspettativa per il noto caso di conti.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 26 aprile 2021. A 7 anni dalla sentenza d'Appello-bis sull'aggiotaggio Impregilo, per fatti addirittura di 17 anni fa contestati alla società di costruzioni amministrata nel 2004 da Piergiorgio Romiti e dall'allora presidente Paolo Savona (dal 2019 presidente della Consob), le motivazioni dell'assoluzione sono state depositate l'altro giorno in cancelleria dal giudice Piero Gamacchio. È l'ultimo deposito del 67enne magistrato che giovedì scorso ha annunciato di andare in aspettativa 45 giorni (fino poi alla pensione già programmata per luglio) dopo le «leggerezze, pur mai riverberatesi sul lavoro», nell'intermittente saldo di conti in alcuni ristoranti, e dopo la mancata restituzione di 40.000 euro prestatigli nel 2018 da un vecchio amico avvocato (sposato con una giudice) che per riaverli gli ha pignorato un quinto dello stipendio. E proprio il deposito dopo 7 anni (al riparo almeno della sostanziale imprescrittibilità della responsabilità amministrativa dell'ente) è altro perfetto paradosso dell'incarnarsi, nel medesimo magistrato assai stimato da avvocati e pm milanesi, di un peculiare connubio: tra un giudice già una volta sanzionato disciplinarmente per ritardi nelle sentenze, e un giudice nel contempo addirittura secondo per produttività in tutta la Corte d'Appello. L'indagine dello scomparso pm di Monza Walter Mapelli nacque già sotto una luna storta, allorché l'iniziale perquisizione in Impregilo, ordinata nel novembre 2004, coincise con l'anticipazione di un articolo: episodio che poi la Procura di Milano archivierà arrendendosi all'impossibilità di farlo discendere con certezza dalla compresenza a cena, la sera prima, del generale comandante regionale della GdF Emilio Spaziante, di un magistrato dell'Ispettorato del ministero della Giustizia (Otello Lupacchini), e del cronista Gianluigi Nuzzi. A Milano, mentre la prescrizione estinse le posizioni di Savona e Romiti, il gup Enrico Manzi nel 2009 e l'Appello nel 2012 assolsero Impregilo, ma nel 2013 la Cassazione ordinò un Appello-bis (celebrato appunto nel 2014) sull'adeguatezza o meno dei modelli organizzativi aziendali.

Dagospia il 22 aprile 2021. Comunicato di Piero Gamacchio. Quanto letto sui social e taluni media in questi ultimi giorni corrisponde ahimè alla verità, salvo che da parte mia pensavo sempre al successivo adempimento, come in parte ho fatto! Ci tengo però a sottolineare il fatto che mai, in alcun modo mai, questi fatti possano aver influito nelle mia attività di giudice; attività che ho sempre svolto con libertà ed indipendenza. Il contenuto delle sentenze da me redatte e lì a dimostrarlo. Proprio però considerando la necessaria serenità che deve presiedere all’esercizio della funzione giudiziaria, questi fatti mi impongono di chiedere da subito di essere messo in aspettativa. Si è trattato di comportamenti di grave leggerezza di cui mi pento profondamente ed ai quali porrò al più presto rimedio.

Dagospia il 22 aprile 2021. Dal profilo Instagram di Gianluigi Nuzzi. È il consigliere di Corte d’Appello Piero Gamacchio il giudice che negli ultimi anni ha lasciato conti non pagati in numerosi lussuosi ristoranti della città, tra portate di pesce e piatti al tartufo bianco, dal Risacca Blu all’Horse Café. Gamacchio è tra i giudici più anziani ancora in servizio e si è occupato di personaggi e storie di primo piano. Da Bettino Craxi a Roberto Maroni, dal processo Finmeccanica a quello al finanziere Danilo Coppola, a quello alla coppia dell’acido, il magistrato ha presieduto o partecipato a importanti dibattimenti, a iniziare da quello per il cosiddetto conto Protezione nell’Ambrosiano di Roberto Calvi. Talvolta ha depositato in gran ritardo le motivazioni venendo anche condannato disciplinarmente dal Consiglio superiore della magistratura con perdita di mesi d’anzianità. Una storia destinata a diventare un caso. Al di là della posizione di Gamacchio c’è da chiedersi: qualcuno in Tribunale sapeva e ha taciuto? Ad esempio, i magistrati commensali alle laute cene del collega non si chiedevano come mai nessuno pagava? E, ancora, a cosa sono serviti quei 40mila euro chiesti con urgenza al penalista?

Mordi e fuggi a Milano. Giudice scroccone terrore dei ristoratori: cibo e vino a sbafo nei migliori ristoranti intorno al Tribunale. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Era diventato il terrore dei ristoratori milanesi in zona Palazzo di giustizia. Il modus operandi sempre lo stesso: entrare, sedersi, ordinare cibi raffinati e vini pregiati, e poi uscire, dopo aver salutato il proprietario, senza aver pagato il conto. È stato Gianluigi Nuzzi sulla propria pagina Fb a dare la notizia l’altro giorno del giudice scroccone, elencando anche i nomi di alcuni dei ristoranti frequentati, fra cui l’Horse Caffè in viale Montenero, Da Gennaro in via Orti, la Risacca Blu di viale Tunisia. Tutti ristoranti blasonati con clientela vip. Alla Risacca Blu sono di casa, quando vengono in Italia, la cantante Beyoncé ed il marito Jay-Z, tanto per fare un esempio. Nuzzi aveva riportato anche le dichiarazioni dei malcapitati ristoratori. «Gli ho scritto chiedendogli di saldare il conto, li leggeva ma senza rispondere», aveva affermato il titolare della Risacca Blu. «Se spendeva molto? Ordinava certi rossi che io bevo solo a Natale», aveva poi aggiunto. Il Riformista ha cercato un riscontro fra i magistrati milanesi dell’incredibile notizia riportata da Nuzzi. Nessuno stupore: il comportamento del giudice era noto da tempo. Per la cronaca, ieri al Palazzo di giustizia di Milano non si parlava d’altro. Trattandosi di un alto magistrato legato ad una importante corrente dell’Associazione nazionale magistrati, tutti hanno sempre preferito chiudere un occhio sulle sue particolari abitudini. La toga, come detto, è molto conosciuta avendo sempre svolto, anche con incarichi di responsabilità, il giudice penale, sia in primo che in secondo grado. La riapertura dei ristoranti prevista in Lombardia per il prossimo lunedì deve aver, allora, messo in allarme i ristoratori. Dopo mesi di chiusura forzata senza entrate, ritrovarsi il magistrato che dopo aver ordinato tartufo come se piovesse si alza e se ne va senza pagare non deve essere stata una bella prospettiva. Nessuno, pare, abbia mai fatto denuncia. Anche perché, dice un ristoratore che vuole mantenere l’anonimato, «sappiamo bene come vanno a finire certe cose: denunci ed il giorno dopo ti trovi la finanza nel locale». Non sappiamo se sia stata avviata nei suoi confronti un’azione disciplinare o una segnalazione alla Procura di Brescia, competente per gli illeciti commessi dai magistrati milanesi. Più probabile una “moral suasion” finalizzata al pagamento dei conti in sospeso, con l’invito a non farsi più vedere in quei ristoranti. Una conseguenza, però, ci sarebbe a proposito dei processi che ha in carico.

Processi importanti che vedono coinvolti “colletti bianchi” e dove la sua presenza potrebbe essere di grande imbarazzo. Sembra che i suoi capi stiano valutando un provvedimento per rimuoverlo da questi dibattimenti con imputati eccellenti. Uno doveva cominciare prossimamente. Un paio di anni fa un altro magistrato di Milano era balzato agli onori delle cronache: travestito da volpe con doppia coda, durante un controllo di polizia in un locale gay, aveva chiesto di non essere identificato da parte degli operanti. Il locale venne poi chiuso per droga. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” il 23 aprile 2021. Una cosa è certa: se ci fossero stati ancora Saverio Borrelli o Livia Pomodoro, con le loro asprezze caratteriali, tutto questo non sarebbe accaduto. Perché solo in un clima plumbeo di anarchia è possibile quanto sta accadendo in questi giorni nel palazzo di giustizia di Milano: che è, comunque lo si guardi, prima e dopo Mani Pulite, un' icona della giustizia nel nostro Paese. E che ora è divenuto un palazzo dei veleni, dove si incrociano guerre per bande e killeraggi organizzati, in un groviglio di interessi personali, di categoria e di fazione di cui non si vede la fine. L' ultimo ad andarci di mezzo è Piero Gamacchio, 67 anni, giudice di Corte d' appello. Un magistrato fin troppo intelligente, protagonista di processi storici come quello del Banco Ambrosiano, punto di riferimento di una generazione di giudici. Che finisce sui siti per una storia antipatica di conti non pagati e di debiti non restituiti: sulle prime senza che si faccia il suo nome, con allusioni sempre più precise. Ieri arrivano nome e cognome, e Gamacchio si deve mettere in aspettativa. «Si è trattato di un comportamento di grave leggerezza di cui mi pento profondamente e al quale porrò al più presto rimedio», scrive il giudice. Letta così, sembra un gossip gustoso della Casta con la toga. Invece l' operazione che affossa Gamacchio è l' ultima puntata dei veleni che ammorbano i corridoi e le stanze del colosso di marmo di corso di Porta Vittoria. Gli attacchi a Gamacchio sono iniziati quando ha assolto gli imputati di processi istruiti con risalto e risorse: prima il caso Finmeccanica, poi il processo ai Riva per il crac dell' Ilva di Taranto. Prima sottovoce, poi più esplicitamente, Gamacchio veniva accusato di inspiegabili eccessi di garantismo. E poco conta che le sentenze non le avesse decise da solo, né che fossero state entrambe confermate in Cassazione. Poi il brontolio si era esteso al suo superiore diretto, il presidente vicario della Corte d' appello Giuseppe Ondei, colpevole non solo di non controllare Gamacchio ma di avere preso personalmente una decisione indigesta, l' assoluzione dei vertici di Saipem per le presunte tangenti in Algeria. Sane, fisiologiche diversità di valutazione tra organi giudiziari, venivano raccontate come tradimenti: o peggio. E l' allarme è cresciuto quando si è saputo che Gamacchio aveva rinviato la pensione per celebrare un altro processo delicato, quello ai vertici del Monte dei Paschi di Siena, previsto per l' autunno. A quel punto qualcuno, dentro il Palazzo, ha pensato bene di affossarlo definitivamente, facendo uscire la storia dei debiti. Risultato raggiunto, il processo Mps lo farà un altro giudice. Impossibile indicare chi abbia fatto scattare l' operazione. Ma è evidente che un simile regolamento di conti può avvenire solo in un contesto fuori controllo. Basti pensare al precedente più recente, il tentativo di eliminare dalla scena il giudice Marco Tremolada, presidente del processo Eni, cui un «pentito» attribuì rapporti privilegiati con alcuni legali: chi abbia ispirato il «pentito» non si sa, ma anche in quel caso c' era di mezzo un processo a rischio di assoluzione. Come puntualmente accaduto. Le chat interne alla Procura, divulgate dal Giornale il mese scorso, raccontano bene lo sconcerto e le spaccature che regnano anche tra i pubblici ministeri: anche perché esistono fascicoli d' inchiesta ancora segretati sul cui contenuto circolano voci incontrollate e incontrollabili. Molte delle voci ruotano intorno al caso Eni, la sconfitta più bruciante subita in questi anni dalla Procura, e al presunto complotto per delegittimare l' autore dell' indagine, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Nello sfogatoio delle chat, un pm si lamenta contro «il metodo dell' insinuazione, dello schizzo di fango». Ora lo schizzo di fango colpisce ad alto livello, con l' attacco a Gamacchio. E non c' è da illudersi che finisca presto. Perché sullo sfondo c' è la successione a Francesco Greco, il capo della Procura che tra pochi mesi andrà in pensione. Greco in queste settimane ha difeso a spada tratta De Pasquale, che proprio lui ha voluto a capo del pool che si occupa di corruzione internazionale. Ma cosa accadrà quando lui non ci sarà più? La scelta da parte del Consiglio superiore della magistratura si annuncia lunga e complicata, nel frattempo la Procura verrà retta dal più anziano tra gli «aggiunti», Riccardo Targetti. Ma è chiaro che un lungo interregno rischia di lasciare ancora più ingovernate le fazioni in lizza.

Il Csm: il presidente Avolio va trasferito da Trento. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 9 aprile 2021. La famigerata cena a base di capra con un imprenditore colluso con la ‘ndrangheta calabro-trentina e un rapporto di conoscenza con Luca Rigotti, presidente dell’azienda vinicola Mezzacorona al centro di un’ipotesi di riciclaggio con l’aggravante mafiosa, sono costate care a Guglielmo Avolio, presidente del Tribunale di Trento, nei cui confronti il plenum del Csm ieri ha disposto il trasferimento. Avolio, in servizio da 40 anni, è un magistrato di spicco. È uno che si è occupato della strage di Bologna e dei delitti della Uno Bianca. Eppure il plenum ha ritenuto che «non possa più esercitare, in piena indipendenza ed imparzialità, le funzioni giudiziarie di presidente del Tribunale e di ogni altra funzione giudiziaria nel distretto della Corte d’appello di Trento», accogliendo la proposta di trasferimento avanzata all’unanimità dalla Prima Commissione. Troppo compromettente quella contestata opacità di comportamenti e il conseguente strepitus – l’eco mediatica – ha finito con lo spaccare l’ufficio da lui diretto. Tutto nasce dalla segnalazione della Procura generale di Trento al Csm relativa a due inchieste. Da una parte, la vicenda Mezzacorona, ovvero un’ipotesi di riciclaggio aggravato a carico del presidente Rigotti, con particolare riferimento all’acquisto di terreni in Sicilia, ad Acate (Ragusa) e Sambuca di Sicilia (Trapani), già appartenuti ai cugini Antonino ed Ignazio Salvo, che in vita erano stati esponenti di spicco di Cosa Nostra. La società presentò un ricorso al Tribunale del riesame avverso il sequestro del marzo 2020. Avolio avrebbe dovuto presiedere il collegio ma decise di non farlo, anche se non presentò una dichiarazione formale di astensione. Secondo il Csm c’erano peraltro irregolarità di costituzione del collegio, del quale un membro fu sostituito, che poi dissequestrò i vigneti dell’imprenditore, decisione poi confermata in Cassazione. Da alcune intercettazioni sarebbe emerso il riferimento a una presunta “regia” di Avolio che, replicando, ha parlato di “millanterie”. Pochi minuti dopo l’annullamento del sequestro da parte del Riesame, il presidente diede la notizia su un gruppo WhatsApp (denominato “Pallavolo”) a cui era iscritto anche Rigotti. E due mesi dopo Avolio andò nell’azienda di Rigotti a comperare «due cassette di vino e un po’ di mele» (pagate con carta di credito) e incontrò l’imprenditore che gli parlò del procedimento penale. Un «comportamento marcatamente inopportuno», secondo il Csm. Dall’altra parte, la vicenda “Perfido”, nome in codice per l’operazione antimafia scattata nell’ottobre scorso, con cui è stato sgominato il “locale” di ‘ndrangheta di Lona Lases, e quindi la frequentazione di un imprenditore calabrese di successo al Nord, che avrebbe esercitato un ruolo di collegamento tra i clan, la politica e le istituzioni, magistratura compresa. Rapporti definiti «diretti e confidenziali», con la partecipazione ad incontri conviviali, come la cena in cui venne cucinata la capra “speciale” di cui parlava Carini, ciò che avrebbe determinato «un appannamento dell’immagine di imparzialità e indipendenza» del giudice. Tanto più che il Tribunale di Trento dovrà valutare entrambe queste vicende di notevole rilievo e che eventuali decisioni rischiano di essere «percepite come influenzate dai rapporti sociali disinvolti, inopportuni e opachi, o comunque obiettivamente infelici, che lo stesso ha intrecciato». Una vicenda che la dice lunga sul livello sofisticato delle relazioni intrecciate dalle cosche radicate nel profondo Nord. Come ogni associazione di tipo mafioso che si rispetti, anche quella calabro-trentina puntava a darsi una facciata di rispettabilità soprattutto, grazie al ruolo di Carini, originario di Reggio Calabria, vero e proprio faccendiere in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco. Al di là dei tre politici trentini coinvolti nell’inchiesta, l’ascolto delle conversazioni intercettate ha consentito ai carabinieri del Ros di documentare gli innumerevoli contatti e frequentazioni di Carini con alte cariche istituzionali, tra cui un ex prefetto di Trento, un vicequestore della polizia di Stato, un capitano dei carabinieri, giudici, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara ed altri. Dalle intercettazioni è stata gettata luce su una serie di incontri conviviali e riservati, cui partecipavano anche altri indagati, organizzati personalmente da Carini che non esita mai ad interpellare le sue conoscenze per risolvere ogni qualsivoglia problema, venendo in taluni casi a conoscenza anche in tempo reale di di notizie riservate. C’è, per esempio, un brano in cui annuncia che «presto – dice – diventeremo amici anche con il nuovo questore perché lui è calabrese, e mi ha presentato il vecchio prefetto che siamo andati una sera a cena insieme… e poi quando mi hanno dato il titolo di Cavaliere lui era lì … e allora lui mi ha detto “Eh… complimenti, allora lei è un calabrese…” e dico “Ma vede questore, anche lei è un calabrese, noi siamo quelli che portiamo onore alla nostra terra”… tutto contento lui … adesso piano piano devo diventare amico con… perché quando il questore è nostro amico allora, allora la cosa cambia molto…». C’è il brano in cui un vicequestore dice a Carini che ha parlato con il comandante e che gli avrebbe detto che avrebbe scritto al sindaco per cambiare un segnale stradale. E Carini aggiunge che si farà presentare il presidente del Tar e andrà «alla carica». Carini sembra in cerca di «coperture», per citare un’altra delle intercettazioni a suo carico, quando si propone di invitare un capitano «dell’investigativa» a «mangiare assieme il pesce a Brenzone». C’è un brano, ancora, in cui un interlocutore chiede a Carini «se ha saputo qualcosa della giudice di Castrovillari». E Carini risponde che non vuole parlare al telefono, poi si corregge, dice che chiamerà e parlerà in dialetto. E l’interlocutore pressa affinché si possa «arrivare a questo giudice». Una vicenda che fa il paio – anche se le due posizioni sono completamente diverse – col recente trasferimento del procuratore di Reggio Emilia, Marco Mescolini, per incompatibilità con ogni funzione giudiziaria nel distretto di Bologna, ovvero di colui che, quando era in forza alla Dda del capoluogo emiliano, è stato l’artefice principale del processo più grande contro le mafie al Nord, quello denominato Aemilia. Mescolini era finito nell’occhio del ciclone per il Palamara Gate, ma creò un polverone anche la sua presunta vicinanza al Pd, essendo stato peraltro capo ufficio del vice ministro dell’Economia Roberto Pinza. Ed è noto che il sostituto procuratore della Dna Roberto Pennisi lasciò l’indagine Aemilia per contrasti con Mescolini e che non tutta l’indagine sul livello politico finì nell’informativa finale. Ma, a proposito di relazioni altolocate, anche la cricca affaristico-mafiosa spazzata via dal processo Aemilia andava a cena con politici e perfino con un questore e elaborava una strategia mediatica per darsi una patina di rispettabilità. Perché con pezzi di imprenditoria, politica e istituzioni le mafie del Nord vanno a braccetto e ci fanno affari.

Calunnia e depistaggio in indagini su giustizia svenduta a Trani: arrestato ex comandante Noe Bari. Angelo Colacicco avrebbe fornito dichiarazioni false e reticenti e accusato il pm di Lecce di averlo minacciato durante l'esame testimoniale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Marzo 2021. È stato arrestato e si trova ai domiciliari Angelo Colacicco, in servizio presso il comando dell'Undicesimo Reggimento Carabinieri Puglia, già comandante del Noe di Bari, e accusato di depistaggio delle indagini condotte dalla Procura di Lecce sui magistrati di Trani e di calunnia in danno del pm di Lecce Roberta Licci. I fatti risalgono al periodo in cui era al comando del Noe. È stato arrestato ieri, ma la Procura di Potenza ne ha dato notizia solo oggi. Colacicco avrebbe fornito dichiarazioni false e reticenti in relazione agli accertamenti a carico dei magistrati di Trani, avrebbe accusato falsamente il pm Licci di averlo intimidito e minacciato durante l'esame testimoniale, e avrebbe tentato di convincere carabinieri di grado inferiore al suo di rendere davanti all'autorità dichiarazioni false, per confermare la sua versione dei fatti.

IL DIFENSORE: «MASSIMA FIDUCIA IN PM E ARMA» - «Massima fiducia nella magistratura e nell’Arma dei carabinieri». Lo dichiara in una nota l’avvocato Francesco Ruggiero, difensore dell’ex comandante del Noe di Bari arrestato con le accuse di depistaggio e calunnia. «Il tenente colonnello Colacicco, per tutelare il decoro dell’Arma dei carabinieri, prima ancora della sua persona, - prosegue il legale - non intende rilasciare dichiarazioni sulla vicenda né commentare quanto diffuso dagli organi di stampa per il tramite di questo difensore, se non nelle sedi preposte, come già avvenuto sino ad oggi. Si ribadisce l’impegno, la collaborazione e la lealtà istituzionale del tenente colonnello Colacicco che hanno sempre contraddistinto il suo operato a servizio dell’Arma dei carabinieri e della magistratura».

Sintesi dell'articolo di Massimiliano Peggio per "la Stampa" pubblicata da "la Verità" il 4 marzo 2021. Una magistrata della Procura di Torino, Monica Supertino, è stata segnalata ai suoi stessi uffici giudiziari per il tenore di una frase rivolta agli agenti che le avevano contestato una violazione al codice della strada. Supertino aveva superato una colonna di auto ferme a un semaforo in zona San Salvario, invadendo la corsia opposta. Ai poliziotti che hanno assistito alla manovra e l'hanno fermata, la magistrata avrebbe detto: «Con il bollettino postale mi pulisco il ...». La frase è finita nel verbale assieme alla multa e alla sospensione della patente. Tempo fa Monica Supertino aveva fatto parlare di sé per avere pubblicato sul Web alcuni video, poi rimossi, in cui dava consigli nutrizionali su come «ottenere un fisico magro, statuario, "pietroso", scolpito».

ARRESTATO L’EX COMANDANTE DEI CARABINIERI DEL NOE DI BARI. AVREBBE DEPISTATO DELLE INDAGINI SUI MAGISTRATI DI TRANI. Il Corriere del Giorno il 18 Marzo 2021. L’inchiesta viene condotta dai pm di Potenza, poichè nel caso in questione, il fascicolo è stato trasferito a loro in quanto la parte offesa è la pm Roberta Licci della procura di Lecce e quindi la competenza territoriale a indagare su fatti che hanno come protagonisti o parti offese magistrati in servizio nel Distretto di Lecce è attribuita alla Procura di Potenza. Il colonnello Angelo Colacicco ex comandante dei Carabinieri del Noe di Bari ed attualmente in servizio presso l’Undicesimo reggimento “Puglia” è stato posto agli arresti domiciliari. L’inchiesta a suo carico, avrebbe depistato le indagini della Procura di Lecce sul sistema di corruzione dei magistrati di Trani, è stata portata avanti dalla Procura di Potenza, facendo seguito alle segnalazioni inoltrate dai magistrati salentini in relazione al comportamento tenuto dall’ufficiale dell’ Arma nel corso di filoni investigativi collegati a quelli che nel gennaio 2019 portarono agli arresti gli ex pm Antonio Savasta e Michele Nardi. L’inchiesta viene condotta dai pm di Potenza, poichè nel caso in questione, il fascicolo è stato trasferito a loro in quanto la parte offesa è la pm Roberta Licci della procura di Lecce e quindi la competenza territoriale a indagare su fatti che hanno come protagonisti o parti offese magistrati in servizio nel Distretto di Lecce è attribuita alla Procura di Potenza. La Procura di Potenza gli contesta anche di avere contattato degli altri carabinieri, di grado inferiore al suo, per cercare di convincerli a confermare la sua versione dei fatti che aveva fornito ai pm, nel caso fossero stati ascoltati come persone informate sui fatti. Colacicco avrebbe avuto secondo le contestazioni a suo carico un comportamento reticente, in relazione ad alcune indagini seguite dal Noe per delle vicende accadute nel circondario di Trani. Il colonnello Colacicco avrebbe anche redatto una relazione, trasmessa alle superiori gerarchie dell’ Arma dei Carabinieri sostenendo che la pm Roberta Licci della Procura di Lecce durante l’esame testimoniale lo avrebbe intimidito e persino minacciato . Al termine dell’indagine la Procura di Potenza, ha evidenziato “il contributo lealmente e puntualmente fornito dall’Arma, che ha consentito di ricostruire, a livello di gravità indiziaria, i fatti oggetto di contestazione”.

D'Introno deve rimanere in carcere: «Ha denunciato i giudici, è complice». L'imprenditore che ha fatto condannare Nardi e Savasta aveva chiesto l'affidamento in prova. La sorveglianza: non la merita. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Aprile 2021. Flavio D'Introno dovrà continuare a scontare nel carcere di Trani la condanna definitiva a 5 anni e 6 mesi per usura riportata nel 2016. Il Tribunale di Sorveglianza ha detto «no» all’affidamento in prova per l’imprenditore che, con le sue rivelazioni, ha consentito l’avvio dell’inchiesta di Lecce nei confronti degli ex magistrati di Trani: questo anche perché - secondo i giudici della Corte d’appello di Bari - è attualmente sottoposto alle indagini che lui stesso ha contribuito a far aprire. Avendo denunciato la corruzione dei magistrati, ed essendo parte in causa, D’Introno deve rimanere in carcere. «La pendenza dunque di altri procedimenti per gravi fatti di criminalità nella forma associata commessi peraltro in tempi recenti (fatti di estremo allarme sociale per i quali notevole è stato il rilievo e clamore locale per aver essi coinvolto anche magistrati del distretto barese) - è scritto nel provvedimento firmato dal magistrato estensore Simonetta Rubino -, è palesemente indicativa, a parere del Collegio, dell’assoluta assenza di quel requisito costantemente indicato nella giurisprudenza di legittimità come elemento fondamentale e necessario per una prognosi favorevole circa il buon esito della prova e la prevenzione del rischio di recidiva». D’Introno (con l’avvocato Vera Guelfi) aveva chiesto di poter lasciare il carcere e di poter andare a lavorare come addetto alle vendite in una azienda della sua zona. Ma a parere della Sorveglianza, il titolare dell’azienda non darebbe sufficienti garanzie essendo sottoposto a un procedimento penale. E, in ogni caso, l’imprenditore di Corato non si sarebbe comportato bene nel primo anno di detenzione e sarebbe ancora un delinquente: «Non ha certo conformato il proprio agire ai principi del vivere lecito e civile: reiterando nelle condotte illecite, egli è dunque ben lungi dall’aver intrapreso un effettivo percorso di cambiamento». Tanto da non avere nemmeno mai risarcito le parti civili del processo in cui è stato condannato per usura: proprio per evitare quella condanna ora definitiva - lo ha raccontato lui alla Procura di Lecce - D’Introno avrebbe pagato e fatto favori ai tre giudici Michele Nardi, Antonio Savasta e Luigi Scimè, tutti poi condannati. Un cortocircuito che lascia perplessa la difesa. «Ogni vizio rilevato nella posizione del D’Introno - dice l’avvocato Guelfi - è documentato in senso contrario dagli atti che erano in possesso anche del magistrato. Il comportamento negativo nel primo periodo di detenzione cautelare è contraddetto dal fatto che lo stesso magistrato ha concesso i 45 giorni di liberazione anticipata per quello stesso periodo. Il D’Introno ha risarcito le parti civili costituite nel processo Fenefator, diversamente da quanto affermato. I datori di lavoro sono stati assolti con formula piena e sentenza definitiva». Ma il punto nodale riguarda la posizione processuale dell’imprenditore di Corato, che a Lecce è coimputato dei giudici già condannati ma è anche loro vittima: «Sostenere che il D’Introno non ammetta le proprie responsabilità e sia lontano da un percorso riabilitativo perché soggetto interessato da accuse per diffamazione e reati con la pubblica amministrazione - secondo l’avvocato Guelfi - significa voler ignorare quanto noto a tutta Italia ossia il comportamento collaborativo del D’Introno nelle indagini nei confronti dei colleghi del magistrato che ha emesso il provvedimento di diniego». La Procura di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio di D’Introno separatamente rispetto a quello degli altri imputati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. L’udienza preliminare, rinviata tre volte, è fissata a luglio. L’imprenditore coratino, entrato in carcere nell’ottobre 2019, finirà di scontare la condanna per usura a marzo 2024.

Giustizia truccata a Trani, si riparte: «Soldi alla sorella dell'ex pm». Chiuso il secondo fascicolo dell'indagine di Lecce contro altre 12 persone: accusa di corruzione e concussione per Emilia Savasta. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Aprile 2021. La sorella di Antonio Savasta avrebbe ottenuto una fetta dei soldi e dei regali che l’imprenditore Flavio D’Introno aveva destinato all’ex pm di Trani con l’obiettivo di ottenerne i favori. Ed è per questo che la Procura di Lecce ha incluso anche Emilia Savasta, 47 anni, nell’avviso di conclusione delle indagini notificato negli scorsi giorni a altre 12 persone coinvolte nell’indagine sulla giustizia truccata a Trani. Le cinque nuove contestazioni formulate dal pm Roberta Licci, a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità, sono di concorso in corruzione, concussione, calunnia, falsa testimonianza, falso, soppressione di atti veri ed estorsione, anche in concorso con i magistrati e le persone già giudicate e condannate in primo grado. Le accuse riguardano anche i genitori e due fratelli di Flavio D’Introno che, secondo le risultanze delle indagini, avrebbero prodotto o assecondato le false denunce presentate alla Procura di Trani per «affossare» gli accusatori del figlio oppure per tentare di bloccare le cartelle esattoriali che lo inseguivano. Emilia Savasta (avvocato Massimo Manfreda di Brindisi) risponde in particolare di concorso in corruzione per i soldi e i favori che avrebbe ottenuto da D’Introno, grazie all’intercessione del fratello: si tratta in particolare dei lavori per l’allestimento della palestra di via Patalini a Barletta, di 50mila euro in contanti e di viaggi e soggiorni in alberghi a cinque stelle prenotati dall’imprenditore nell’agenzia di viaggi Tarantini di Corato. L’altra accusa, quella di concussione, riguarda proprio la richiesta dei soldi a Paolo Tarantini nell’ambito della «stangata» ai suoi danni che - in base alla sentenza del gup Vergine - fu organizzata da Antonio Savasta: la sorella del pm sarebbe infatti stata il tramite «per la richiesta della somma di denaro» durante un incontro nella palestra di Barletta. Una storia che è centrale per il processo: i 400mila euro estorti a Tarantini dalla «banda dei giudici» come contropartita per far sparire una (falsa) indagine per evasione fiscale a suoi carico. Lo stesso Tarantini avrebbe poi pagato per i regali che D’Introno faceva a Savasta e all’ex gip Michele Nardi. La richiesta di chiusura delle indagini (atto che normalmente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio) è dunque la terza puntata dell’inchiesta condotta dalla Procura di Lecce con i carabinieri: i protagonisti principali (Nardi, Savasta e l’ex pm Luigi Scimè) sono già stati processati e condannati e hanno fatto appello. Nardi (16 anni e 9 mesi) e Savasta (10 anni) sono ancora agli arresti domiciliari, mentre Scimè è libero ma è stato sospeso dalla magistratura. L’accusa è di concorso in corruzione (oltre che di calunnia) anche per Michele Valente, 64 anni, di Corato, ritenuto il «mediatore» tra D’Introno e il poliziotto Vincenzo Di Chiaro (anche lui condannato in primo grado a 9 anni e 7 mesi, ai domiciliari), oltre che autore di alcune delle dichiarazioni false utilizzate dal pm Savasta nel procedimento per bloccare le cartelle esattoriali. Di falso ideologico, materiale e soppressione di atti veri è accusato invece un altro poliziotto, all’epoca collega di Di Chiaro nel commissariato di Corato, Francesco Palmentura, 46 anni di Bari che - sempre secondo la Procura di Lecce - insieme al collega avrebbe consegnato all’ex amministratore della società della famiglia D’Introno un «ordine» di Savasta affinché convocasse un’assemblea dei soci per sostituire gli amministratori, salvo poi far sparire tutto quando l’interessato ha protestato con il pm.

E D'INTRONO CHIEDE DI TORNARE LIBERO - Il Tribunale di sorveglianza di Bari si pronuncerà a breve sulla richiesta di affidamento in prova presentata da Flavio D’Introno. L’imprenditore di Corato, grande accusatore dei giudici di Trani, sta infatti scontando in carcere una condanna definitiva per usura e, ora che il residuo pena è sceso sotto i 4 anni (due anni e 9 mesi), chiede di poter tornare libero. Sulla questione si è però aperto un nuovo giallo. Secondo una informativa del commissariato di Corato (lo stesso in cui lavoravano alcuni dei poliziotti coinvolti nelle indagini), il titolare dell’azienda dove D’Introno vorrebbe lavorare una volta libero avrebbe pendenze con la giustizia: la circostanza è stata valorizzata dalla Sorveglianza (relatore Rubino) nell’udienza di martedì. Ma secondo la difesa dell’imprenditore (avvocato Vera Guelfi) non sarebbe così: il titolare dell’azienda è infatti stato assolto con sentenza passata in giudicato, a seguito di un processo svolto a Trani e in cui l’accusa era sostenuta da uno degli ex pm coinvolti nell’inchiesta. E lo stesso titolare era stato ascoltato a Lecce come testimone nell’ambito del fascicolo del pm Roberta Licci. La decisione della Sorveglianza dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, ma la Procura generale ha espresso parere negativo invitando l’imprenditore a trovare un altro datore di lavoro. D’Introno sta scontando una condanna definitiva per usura a 5 anni e 6 mesi emessa a luglio 2017 (con la restituzione di tutti i beni, poi a quanto pare spostati in un trust all’estero). La stessa condanna che - secondo le indagini di Lecce - D’Introno avrebbe tentato di evitare con le mazzette e i favori ai giudici Michele Nardi, Antonio Savasta e Luigi Scimè. Anche D’Introno è accusato (a Lecce) di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, ma la sua posizione è stata stralciata ed è ora ferma all’udienza preliminare (già rinviata tre volte): prima dell’11 giugno la difesa dell’imprenditore potrebbe chiudere l’accordo per il patteggiamento, o in alternativa potrebbe optare per il giudizio abbreviato.

Le motivazioni della condanna a 16 anni: «Ha preso soldi e regali da D’Introno». Gli incontri dell’ex gip con un esorcista.  Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Giugno 2021. All’interno del Tribunale di Trani operava «un sistema di corruttela» con al vertice Michele Nardi, che poteva contare sulla «costante collaborazione» dell’ex pm Antonio Savasta. Nelle 1.039 pagine di motivazioni della sentenza con cui il Tribunale di Lecce ha condannato l’ex gip a 16 anni e 9 mesi di carcere emerge l’esistenza di una cricca dei processi truccati che aveva come obiettivo «la tutela del patrimonio del D’Introno», l’imprenditore di Corato che con le sue confessioni ha dato avvio all’inchiesta ma che «inizialmente agganciato quale “vittima” del Nardi, progressivamente diviene membro del gruppo, del quale condivide le iniziative da cui si propone di trarre personali vantaggi». Non ci sono dunque vittime tra i cinque condannati a vario titolo dal collegio di Lecce (presidente Baffa) per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, concussione, traffico di influenze e numerosi episodi di falso. La vittima vera è Paolo Tarantini, il titolare dell’agenzia di viaggio contro cui viene inventato un falso procedimento penale: l’uomo, la cui testimonianza in aula è stata a tratti drammatica, è indotto a pagare 300mila euro per salvarsi. Lo spaccato è desolante: incontri carbonari per strada, escort a Dubai, gente che concorda false testimonianze e si registra a vicenda, opachi rapporti personali e interessenze tra professionisti insospettabili. Ma la sentenza (destinata a essere appellata) certifica la solidità dell’impianto accusatorio della Procura di Lecce: così come fatto dal gup Cinzia Vergine nell’abbreviato ai danni di Savasta e Scimè (condannati rispettivamente a 10 e 4 anni), anche i giudici del dibattimento hanno riconosciuto la credibilità dei racconti di D’Introno (che hanno trovato «ampio riscontro») e la genuinità di quanto detto nelle registrazioni di fine 2018 con Savasta. «L’obiettivo di far rientrare l’imprenditore in possesso dei suoi beni (quote societarie, immobili, somme di denaro) - riconoscono i giudici - è a ben guardare la garanzia del’ottenimento delle tangenti per l’intero gruppo criminale». In questo esisteva un «modus operandi ideato dal Nardi e fatto proprio dal Savasta»: il pm «con la collaborazione del Di Chiaro», l’ex ispettore di polizia condannato a 9 anni, aveva messo in piedi «un sistema di “scatole cinesi”» con i fascicoli di indagine, «mediante il deposito - previamente concordato col Nardi - di notizie di reato o istanze contenenti notizie urgenti in giorni nei quali egli è di turno, con conseguente assegnazione automatica del relativo procedimento». Iniziative a cui dava «veste giuridica» l’avvocato Simona Cuomo, condannata a 6 anni. Il Tribunale ha ridimensionato l’entità delle tangenti pagate da D’Introno (100mila euro in contanti a Nardi, 500mila a Savasta, 70mila a Di Chiaro, 75mila a Scimè, 300mila alla Cuomo «formalmente corrispondenti a onorari»). Nardi (che come Savasta è ai domiciliari) ha millantato l’intervento sui vari colleghi chiamati a giudicare le vicende penali di D’Introno: il Tribunale di Lecce ha considerato i vari episodi come singoli reati in continuazione, così concedendo all’ex gip la prescrizione per i fatti più vecchi (da qui lo sconto di pena di alcuni mesi rispetto alle richieste di condanna della Procura). D’Introno ha detto di aver speso complessivamente tre milioni di euro, soldi che non sono stati trovati, ma il Tribunale ha da un lato valorizzato «la continuità e la costanza dei prelievi di denaro contante» dai conti correnti, e dall’altro ha ritenuto sufficienti le parole dell’imprenditore con i riscontri: «Si pensi alle fatture attestanti i viaggi fatti dal Nardi presso l’agenzia di viaggi del Tarantini, a quelle relative all’acquisto del materiale per la ristrutturazione della villa di Capirro, al contratto di comodato sequestrato al Nardi e recante la sottoscrizione del D’Introno» per dare veste giuridica ai rapporti patrimoniali tra i due, contratto ritenuto falso. Il dibattimento ha fatto emergere le frequentazioni oscure di Nardi, compreso «un prete dedito a pratiche di esorcismo presso il quale l’imputato portava suoi conoscenti». Uno degli episodi centrali del processo, quello del Rolex Daytona: D’Introno aveva detto che era un regalo per i 50 anni di Nardi, smentito però da una sua amica, Rosa Grande, che aveva prima confermato questa versione salvo poi presentarsi a testimoniare in aula con un Rolex Daytona («L’ho avuto da D’Introno per il mio compleanno, mi ha chiesto lui di mentire»). I giudici l’hanno ritenuta inaffidabile: anche se aveva in mano lo stesso orologio «non dimostrerebbe alcunché rispetto all’originaria destinazione dello stesso essendo trascorsi oltre quattro anni dai fatti».

Monica Supertino, il magistrato che insulta la polizia: "Con la vostra multa mi ci pulisco il culo. " Libero Quotidiano il 04 marzo 2021. La magistrata della Procura di Torino Monica Supertino fa parlare di sè. In questione questa volta una violazione del codice della strada.  Secondo quanto riportato da La Stampa, la Supertino aveva superato una colonna di auto ferme presso un semaforo in zona San Salvario, invadendo la corsia opposta per compiere la manovra. La gincana della toga è stata osservata da una volante della polizia locale, che ha immediatamente fermato e multato la magistrata. Ai poliziotti che l'hanno sanzionata, la Supertino avrebbe inoltre rivolto testuali parole: "Con il bollettino postale mi ci pulisco il culo". La frase è stata naturalmente inserita nel verbale, assieme alla contravvenzione e alla sospensione della patente. Non è la prima volta che la magistrata è stata segnalata ai suoi stessi uffici giudiziari. Tempo fa la pm era finita al centro dell'attenzione per una serie di video caricati su YouTube, in cui dava consigli dietetici ai suoi fan, con la promessa di "ottenere un fisico non solo magro, ma statuario, pietroso, scolpito in ogni muscolo, in ogni virgola". Ai superiori non era andato giù il danno d'immagine procurato dai video. 500 visualizzazioni nel giro di pochi giorni, abbastanza perché a Palazzo di Giustizia non si parlasse d'altro. La toga, originaria di Saluzzo in provincia di Cuneo, aveva rimosso i video in seguito ai richiami da parte della magistratura. Video e commenti spariti in un batter d'occhio, ma che sono stati comunque ricaricati in giro sul web e sui social e sono tutt'ora fruibili. Nuove grane quindi per la magistrata che, essendosi già giocata il cartellino giallo, rischia ora di perdere il posto. La magistratura dovrà ora decidere se chiudere di nuovo un occhio, oppure prendere seri provvedimenti per mantenere la propria credibilità. In fin dei conti è noto: errare humanum est, perseverare autem diabolicum. 

Quando in galera ci va il giudice. Fabio Amendolara  venerdì 19 febbraio 2021 su Panorama. Da Brindisi a Catanzaro, da Firenze a Latina e Torino. La corruzione compromette sempre più spesso i magistrati. Che, grazie alla loro posizione, fanno favori e aggiustano inchieste. Con ottimi guadagni. C’è chi ha ottenuto una masseria e un bed and breakfast, chi ha comprato una barca a un prezzo di favore e chi si accontentava di cassette di gamberoni, bottiglie di vino pregiato e mazzette. Ma c’è anche chi, più astutamente, avrebbe agito per favorire le coop che gestiscono le case-famiglia per minorenni. La corruzione, stando alle ultime inchieste giudiziarie, sembra viaggiare spedita tra i corridoi dei palazzi di giustizia. Dove non ha dominato solo il sistema di gestione del potere fotografato dall’inchiesta sullo stratega delle nomine Luca Palamara. La nuova Mani pulite nella giustizia ha l’epicentro in Puglia, come provano arresti e condanne a raffica, ma a macchia di leopardo è diffusa in tutta Italia. L’ultima toga finita dietro le sbarre, il 28 gennaio, è Gianmarco Galiano, giudice del Tribunale di Brindisi accusato di aver ottenuto una mazzetta dopo aver prospettato al papà e alla mamma di un bimbo disabile di sottrargli la potestà genitoriale. Poi è saltato fuori, a leggere gli atti firmati dal procuratore di Potenza Francesco Curcio, che c’era lo zampino del giudice anche in una causa del 2007 sul decesso di una ragazza, e in un procedimento per colpa medica riguardante un bambino nato con traumi permanenti. Nel primo caso sarebbero stati messi a disposizione del magistrato 300 mila euro su un conto corrente intestato alla ex suocera. Nel secondo caso, circa 150 mila euro. Ma di soldi sembra che la toga sia riuscita ad accumularne una bella cifra, visto che il gip di Potenza ha anche disposto il sequestro di 1,2 milioni di euro. Per gli inquirenti, con il denaro incassato Galiano avrebbe acquistato appunto una masseria e un bed and breakfast. «Tracce bancarie indiscutibili» le definisce il procuratore Curcio, spiegando che i soldi «sono passati sicuramente da una parte privata alla disponibilità del giudice». Insieme a Galiano sono indagati altri due colleghi: Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia. «Anche i giudici sono uguali davanti alla legge» taglia corto il procuratore potentino, che solo qualche mese prima ha sconvolto un altro palazzo di giustizia, quello di Trani. Lì, per presunte pressioni nei confronti di una pm affinché avviasse un ingiusto procedimento per usura nei confronti di una persona «infondatamente» denunciata da alcuni imprenditori, è finito ai domiciliari e ci è rimasto per tre mesi l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Anche il suo caso, per competenza territoriale, è finito a Potenza, dove è stato disposto il giudizio immediato. A Trani l’attività investigativa sembra essersi concentrata non poco. Solo due mesi fa è stato condannato a 16 anni e 9 mesi di carcere l’ex gip Michele Nardi, ritenuto uno degli esponenti di quello che è stato ribattezzato il Sistema Trani. Una condanna pesante, 10 anni di carcere, pure per l’ex pm Antonio Savasta, considerato l’organizzazione del «Sistema»: tra gli episodi ricostruiti c’è anche un incontro a Palazzo Chigi con Luca Lotti organizzato da Tiziano Renzi, padre dell’ex premier e leader di Italia viva. A Lecce, invece, è finito nei guai l’ex pm Emilio Arnesano, condannato dai giudici di Potenza a 9 anni di carcere. Secondo l’accusa, la funzione di magistrato era stata «svenduta» in cambio di regali e «di prestazioni sessuali». L’altro Sistema era invece a Siracusa, dove ha patteggiato 5 anni di carcere l’ex pm Giancarlo Longo. Ma l’inchiesta più scottante sulle toghe è in mano al procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli. Sulla sua scrivania c’è un fascicolo nel quale sono raccolti i nomi di 15 magistrati del distretto di Catanzaro. Tutto è cominciato con l’arresto di un giudice della Corte d’appello di Catanzaro, Marco Petrini (di recente condannato a 4 anni e 4 mesi di carcere). L’accusa di corruzione è scattata quando gli investigatori hanno scoperto che, oltre a denaro contante, aveva accettato pagamenti in natura con cassette di gamberoni e bottiglie di champagne. Una volta in procura Petrini ha raccontato le malefatte dei suoi colleghi calabresi. Ora gli investigatori salernitani stanno cercando di orientarsi in un marasma nel quale ha fatto capolino pure la ‘ndrangheta. Secondo il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri esiste una Mani pulite nella giustizia, con almeno il «4 o 5 per cento di toghe coinvolte». E non solo al Sud. Risalendo la Penisola, a Firenze con l’accusa di corruzione è stata arrestata una giudice del Tribunale per i minori, Rosa Russo. Avrebbe coperto reati commessi dai dirigenti di una coop che gestisce case di accoglienza per ragazzi sotto i 18 anni. Nei guai pure il pm torinese Andrea Padalino, che avrebbe ricambiato con favori processuali anche una cena stellata nel ristorante di Antonino Cannavacciuolo. È diventata definitiva, invece, la condanna per il giudice di Latina Antonio Lollo: 2 anni e 10 mesi per aver pilotato procedimenti di fallimento. Ora è pentito. E ammette: «Pensavo a fare soldi, tradendo quello in cui avevo sempre creduto».

Fatti e misfatti delle toghe che si autoassolvono, chi c’è dietro il Palamaragate. Frank Cimini su Il Riformista il 30 Dicembre 2020. Al fine di accompagnare i taralli del caso magistratura, derubricato dal Csm e dai giornaloni a caso Palamara con ovvia radiazione del capro espiatorio per fingere pulizia e tabula rasa, appare utile la lettura delle 223 pagine vergate dal collega Stefano Zurlo, cronista di vecchia data nelle aule dei processi. Il libro nero della magistratura (ed. Baldini e Castoldi, euro 18) recita il titolo accompagnato dall’occhiello: “I peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della sezione disciplinare del Csm”. Si tratta del terzo lavoro di Zurlo sullo stesso tema dopo La legge italiana siamo noi del 2009 e Prepotenti e impuniti del 2011, «sempre sbianchettando i nomi» specifica l’autore «per non rischiare grappoli di cause milionarie e grane a non finire. Nove anni dopo ci risiamo». Non c’è una virgola che sia inventata fuori posto o esagerata. «Ci sono giudici che hanno depositato sentenze con mesi e mesi di ritardo e altri che hanno dimenticato in cella gli imputati per 51 giorni… giudici che hanno chiamato i carabinieri per non pagare il conto al ristorante e altri che hanno smarrito pratiche e fascicoli vanificando anni di processi…. Molti sono stati assolti perché c’è quasi sempre una scappatoia, troppo lavoro, il sistema che non funziona, la separazione dalla moglie, la malattia grave di un congiunto». Molti non sono sfuggiti alla sanzione, spesso minima, tra ammonimento e censura. Raramente si è arrivati alla perdita di anzianità e molto difficilmente all’espulsione dalla categoria. Tutti processi celebrati in silenzio. In questo libro siamo oltre gli accordi sottobanco, le spartizioni tra le correnti. Siamo a fatti di vita quotidiana rispetto ai quali si resta senza parole soprattutto perché i comuni mortali per episodi simili sono costretti a vedere i sorci verdi e la loro vita sconvolta dalle decisioni dei togati. Un giudice resta al suo posto nonostante sia responsabile di 74 procedimenti civili fuori tempo massimo con punte tra i 595 e i 560 giorni e di aver copiato pari pari 55 delle 71 pagine del testo da una delle due parti. La nobilissima arte del copia e incolla. Il signore ha “pagato” con la perdita di un anno di anzianità con gli utenti sempre costretti ad aspettare i suoi tempi. Un altro giudice si ubriaca, barcolla, viene soccorso, arrivano due poliziotti e lui li “saluta” a modo suo: «Sbirri di merda, mi avete rotto i coglioni». E ancora: «Ve la faccio pagare adesso chiamo il questore e vi sistemo». Successivamente dopo aver tamponato un’auto prende a calci e pugni due carabinieri rifiutando di dare le proprie generalità. Diversi procedimenti disciplinari, il buffetto dell’ammonizione. Ma non si ferma, prosegue. Viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Adesso vive con l’assegno alimentare cosiddetto. Quello alle toghe non lo negano mai. C’è il giudice che picchia la moglie e viene assolto con la commissione disciplinare che filosofeggia sui fallimenti esistenziali per coprire gli eccessi e gli istinti maneschi. Non manca chi ha molestato e vessato per anni una collega “perché non ci stava”, rischia il trasferimento ma non arriva neanche quello e il giudice continua in aula a rappresentare lo Stato. Un altro fa il giudice e il vicesindaco nello stesso territorio ma se la cava con l’ammonimento. 428 giorni, più di un anno agli arresti domiciliari per un erroraccio del gip che avrebbe dovuto firmare la remissione in libertà di due imputati a maggio del 2013 ma lo fece solo nell’agosto dell’anno successivo. La commissione disciplinare del Csm decide che si tratta di grave negligenza. Emerge che lo stesso giudice aveva dimenticato in cella un terzo imputato per 48 ore. Ma tutto finisce con una semplice censura. Nella commissione disciplinare che prende la decisione ci sono Maria Elisabetta Alberti Casellati futuro presidente del Senato e dulcis in fundo Luca Palamara. Da lui eravamo partiti per parlare del libro di Stefano Zurlo e non possiamo non finire con lo stesso, ormai ex magistrato. Quello che adesso viene misconosciuto dai colleghi a cominciare da quelli beneficiati dalle sue attività diciamo borderline. Ovvio non aveva agito da solo. Piazzare negli anni passati al Csm 86 magistrati in ruoli di vertice non è impresa da poco. Alla fine ha pagato solo lui. E molti giudici dei quali ci racconta Zurlo fecero di peggio molto di peggio, anche se il Csm quei misfatti li ha retrocessi a una sorta di vizi privati da curare al massimo con qualche caramella amara.

Son giudici: prescrivere, prescrivere, prescrivere. Gianfranco Pensavalli su Messinaora.it il 21 febbraio 2017. Suvvia, credere che due magistrati di Messina, seppur accusati di reati gravissimi, debbano pagare è pura utopia. Così arriva la prescrizione per Giovanni Lembo, già alla Direzione Nazionale Antimafia con delega sulle regioni adriatiche e per l’ex capo dei gip di Messina, Marcello Mondello (foto in alto, edg). Han fatto passare 21 anni dalla denunzia dell’avvocato Ugo Colonna, che ha vissuto e vive vita da blindato e che fu costretto a trasferirsi a Torino. Tutto nasce dalle denunzie sulla gestione del boss Luigi Sparacio, poi finito tra i collaboratori di giustizia. La Corte d’Appello di Catania, tornata a decidere dopo che la Corte di Cassazione nel 2014 aveva annullato la sentenza di secondo grado emessa nel 2012, ha respinto l’appello della Procura e della Procura generale di Catania, dichiarandoli inammissibili, ed ha prescritto tutte le accuse contestate agli imputati. Nel 2014 la Suprema Corte aveva annullato con rinvio l’assoluzione decisa in primo grado per Lembo, ravvisando l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa. In primo grado, addirittura nel 2008, l’aggravante ex articolo 7 era costata al magistrato la condanna a 5 anni. In secondo grado, nel 2012, i giudici l’avevano riqualificata in aggravante semplice, prescrivendo poi le accuse principali. Ora la caduta in prescrizione. La prima sentenza d’appello era stata annullata anche per il maresciallo Antonino Princi e per l’ex Gip Marcello Mondello, per il quale i giudici d’appello avevano confermato la condanna a 7 anni. Erano stati quindi accolti i rilievi del pg Vito D’Ambrosio, che aveva chiesto alla Corte (presidente era Esposito) di annullare la sentenza del 2012. Chiedendo l’annullamento, D’Ambrosio aveva preannunciato che avrebbe valutato l’attivazione dell’azione disciplinare nei confronti dell’estensore della sentenza per la pochezza – a suo dire – dell’atto depositato. Il pg ha anche precisato che avrebbe trasmesso gli atti alla Procura di Catania per verificare una presunta difformità fra dispositivo e motivazione. La II sezione della Corte d’appello di Catania aveva chiuso con una sentenza il caso giudiziario più clamoroso della storia messinese. Sul banco degli imputati due ex giudici messinesi e un sottufficiale dell’Arma, accusati di aver pilotato le dichiarazioni di Luigi Sparacio, ex boss di primo piano e pentito di primo livello. Tra gli imputati lo stesso Sparacio. I giudici catanesi, escludendo l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa, contestata a corollario delle due principali accuse, favoreggiamento e abuso d’ufficio, hanno poi applicato la prescrizione dichiarando quindi il non doversi procedere. L’ex magistrato era stato inoltre assolto dall’accusa di minaccia al pentito Paratore e per lui è stata revocata l’interdizione dai pubblici uffici. In primo grado era stato condannato a 5 anni. Assoluzione perché il fatto non sussiste per il maresciallo dei Carabinieri Antonio Princi per le minacce al pentito Paratore, condannato in primo grado a 2 anni. Rispetto alla sentenza di primo grado, emessa nel 2008, erano rimaste in piedi sostanzialmente le condanne a 7 anni per concorso esterno a carico dell’ex capo dell’ufficio Gip di Messina, Marcello Mondello, ed a 6 anni e 4 mesi per il pentito Luigi Sparacio. L’accusa per Lembo era quella di aver gestito la collaborazione di Luigi Sparacio in maniera deviata, così da tener fuori dalle dichiarazioni il boss Michelangelo Alfano, poi suicidatosi a Faro Superiore. A dare il via al caso Messina erano state le dichiarazioni del penalista di Rodì Milici Ugo Colonna, che nel ’96 denunciò la falsa collaborazione di Sparacio. Alfano e Santino Sfameni, capo del mandamento di Villafranca, erano in contatto col boss messinese Domenico Cavò e, dopo la sua morte, con Sparacio, come hanno raccontato diversi pentiti, che hanno anche svelato i rapporti di Alfano con i politici e gli imprenditori messinesi. A Mondello, invece, è stato imputato il collegamento con don Santo Sfameni. Concretizzatosi, secondo l’accusa, nell’archiviazione per Gerlando Alberti jr e Giovanni Sutera, poi condannati all’ergastolo per l’omicidio della giovane Graziella Campagna, 23 anni fa. Nota finale. Il giudice catanese ha impiegato 13 mesi per depositare la sentenza. 13 mesi… 

Manette al pm Lembo della Dna e all'ex gip Mondello. Nei guai anche un maresciallo dei carabinieri. La Repubblica (19 marzo 2000. Messina, arrestati due giudici. Avrebbero coperto falso pentito. Connivenze tra giustizia e Cosa Nostra, sei ordini di custodia cautelare. Bufera sulla magistratura messinese. Il pm Giovanni Lembo, 55 anni, della Direzione nazionale antimafia e l'ex giudice per le indagini preliminari Marcello Mondello, 71 anni, ora in pensione, sono stati arrestati dai carabinieri di Catania nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione del "falso pentito" Luigi Sparacio. Nei loro confronti il gip ha emesso ordini di carcerazione ipotizzando i reati di concorso esterno in associazione mafiosa, abuso d'ufficio e falso ideologico. Lembo è stato subito interrogato per oltre cinque ore respingendo tutte le accuse. Il suo legale, il professor Guido Ziccone spiega: "Il mio assistito è stato molto fermo e lucido nel contestare le tesi dell'accusa. Sono sicuro che tutto sarà chiarito, anche se questa vicenda è uno dei segni di inquietudine che comportano i collaboratori di giustizia". I magistrati che hanno interrogato Lembo, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni. La magistratura di Messina è anche sotto osservazione del ministero della Giustizia, che per la seconda volta in un anno ha inviato sul posto ispettori governativi. Tra le pratiche scottanti il ritardo nella deposizione delle motivazioni della sentenza e quelle relative all'università. Arresti dai risvolti inquitanti. Finisce in carcere anche il maresciallo dei carabinieri Antonio Princi, 34 anni, all'epoca dei fatti segretario del pm Lembo, indagato per minacce. Colpiti da provvedimenti anche l'imprenditore Santi Travia, 62 anni, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e due collaboratori di giustizia, Cosimo Cirfeta, di 35 anni, e Giuseppe Chiofalo, di 50, entrambi indagati per calunnia, e già detenuti per altri reati. Cosimo Cirfeta è un boss della Sacra Corona Unita che si "pente" nel '92. Il suo nome, come quello di Chiofalo, è legato, per i magistrati della Procura di Palermo, a un vero e proprio tentativo di depistaggio nell'inchiesta sul parlamentare di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Ma il nome più scottante è quello di Giovanni Lembo. Secondo le contestazioni che gli sono state mosse il magistrato avrebbe concesso, anche con interventi sulla polizia, libertà di movimento al boss Sparacio che, durante la collaborazione, avrebbe mantenuto i rapporti con i suoi affiliati. Avrebbe così "condizionato" le dichiarazioni di altri "pentiti" per impedire che accusassero i familiari e gli amici del boss. Lembo, secondo l'accusa, avrebbe omesso di verbalizzare le dichiarazioni rilasciate da altri collaboratori su Michelangelo Alfano, indicato come "uomo d'onore" delle cosche di Bagheria. Il pm antimafia avrebbe anche raccolto dichiarazioni "artatamente finalizzate" a scagionare Alfano dall'accusa di essere il mandante del ferimento del giornalista Tonino Licordari. All'ex gip Marcello Mondello, cui sono stati concessi gli arresti domiciliari, viene invece contestato di avere avuto rapporti costanti con il presunto boss Santo Sfamemi. Il magistrato arebbe partecipato a riunioni nella sua masseria di Villafranca Tirrenica, durante le quali sarebbero state concordati strategie difensive e adozione di provvedimenti giudiziari di favore. L'imprenditore Santi Travia è indagato per avere svolto un rapporto di mediazione tra Michelangelo Alfano e il pm Lembo con il quale è sospettato avere avuto "cointeressenze economiche". Il maresciallo Antonio Princi è accusato invece di avere minacciato, assieme a Lembo, il collaboratore di giustizia Vincenzo Paratore affinché accusasse ingiustamente un avvocato, Ugo Colonna. Paratore avrebbe dovuto affermare di essere stato sollecitato dal suo difensore a rendere false dichiarazioni sul magistrato per delegittamarlo. Le indagini dei carabinieri del nucleo operativo e dalla guardia di finanza sono state coordinate dal procuratore aggiunto di Catania, Vincenzo D' Agata, e dai sostituti Mario Amato e Giovanni Cariolo. Non commenta Ottaviano Del Turco, presidente della Commissione nazionale antimafia. Aspetta di conoscere gli atti processuali. Ma non manca di dire che "la vicenda di Messina è destinata a durare nel tempo perché non sono stati sciolti tutti i nodi che l'inchiesta della commissione Antimafia aveva portato alla luce". Ma il Procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna precisa e spiega che Lembo da tempo non aveva più incarichi. "L'indagine sul dottor Lembo si è sviluppata due anni fa e appena ne ho avuta notizia ho esonerato, anche su sua richiesta, il dottor Lembo da ogni attività che riguardava Messina e inoltre da ogni attività che riguardava la Sicilia e Cosa nostra".

Quella sera cenai col giudice a casa del boss. La Repubblica (F.V.) 20 marzo 2000. Era il pentito preferito dal sostituto procuratore della Dna, Giovanni Lembo, con il magistrato aveva concordato false accuse e false inchieste, andavano a cena assieme a casa del boss di Cosa nostra, Michelangelo Alfano. Poi, dopo false accuse, false ritrattazioni, Luigi Sparacio, al centro dell' intrigo dell' inchiesta sui magistati messinesi, ha tradito il suo amico Lembo, confermando, sia pure con ritardo, le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia che erano stati minacciati e intimiditi. Ecco cosa ha raccontato Sparacio nel suo ultimo interrogatorio ai magistrati di Catania. "Il dottor Lembo investiva denaro in varie attività, spesso quel denaro glielo dava Michelangelo Alfano ed il magistrato investiva anche nelle attività dell' imprenditore Santi Travia. Ricordo in particolare un incontro avvenuto in casa di Michelangelo Alfano che mi aveva invitato a cena. Quando entrai nella sua abitazione vidi che tra gli invitati c' era anche il dottor Lembo e l' imprenditore Travia. Alfano e Travia parlavano di attività speculative ed il dottor Lembo assisteva ed interveniva. Tuttavia posso dire che i soldi da investire per il dottor Lembo venivano materialmente sborsati da Michelangelo Alfano. Ricordo che in quella cena si parlò anche delle difficoltà economiche dell' imprenditore Travia ed il dottor Lembo invitò Alfano ad aiutarlo". Sparacio parla poi dei "favori" ottenuti dal dottor Lembo quand' era falso pentito e delle intimidazioni e minacce agli altri collaboratori di giustizia che accusavano il magistrato. Tra questi il pentito Antonino Cariolo. Ecco cosa aveva dichiarato Cariolo: "Nel gennaio del 1994 decisi di collaborare con la giustizia esternando le mie intezioni al dottor Carmelo Marino, sostituto procuratore di Messina con l' inoltro allo stesso di numerose lettere dove dicevo che ero al corrente di numerosi episodi inerenti illeciti rapporti coinvolgenti anche la politica e la magistratura.... Devo precisare che quando fui interrogato dal dottor Marino dissi che intendevo parlare anche del dottor Lembo... Dopo queste dichiarazioni venni di fatto abbandonato, non venni più ascoltato e addirittura venni screditato come depistatore e numerosi difensori che avevo designato come di fiducia, vennero sollecitati dai magistrati della Procura di Messina a non accettare il mandato... Un avvocato, Currò, che aveva accettato l' incarico, venne invitato dal dottor Marino a non accettare l' incarico perché, come mi ha riferito lo stesso difensore, il magistrato mi definì un depistatore". Cariolo racconta di essersi reso conto che i suoi "guai" erano provocati dal fatto che aveva accusato Lembo e così "trovai conveniente aderire alle sollecitazioni che mi provenivano da più parti, giustificando quelle mie prime dichiarazioni come frutto di un disegno personale di delegittimazione del magistrato". "E subito dopo queste correzioni su Lembo il dottor Marino mi disse: "Vedi Antonio, che adesso va meglio, tu devi essere fiducioso"". Cariolo ha anche dichiarato di avere scritto poi al procuratore nazionale Vigna "cui confermavo tutte le mie precedenti dichiarazioni rese sul conto del dottor Lembo". Cariolo ha anche affermato di avere appreso che "il dottor Lembo era coinvolto, come mandante, nel tentato omicidio di un avvocato".

Francesco La Licata: La registrazione del pentito mette nei guai il magistrato. Da feltrinellieditore.it/news il 24/02/2003. "Dottore, ricorda...". L´interlocutore tronca la conversazione: "Era un discorso fuori verbale. Dimentichiamo che c´è stata quella discussione". Scampoli di una telefonata registrata. E´ il 17 settembre del 1998 e Carmelo Ferrara, fratello del boss pentito Iano, chiama al telefono il procuratore capo facente funzione di Messina, Pietro Maria Vaccara (oggi procuratore aggiunto). Il giorno dopo quella telefonata, Carmelo Ferrara, anche lui mafioso pentito di Messina, deve essere interrogato, su sua richiesta, dai pm antimafia di Catania sulle collusioni tra mafia, imprenditori e magistrati della città sullo Stretto. Messina è al centro del ciclone, il "Verminaio" è stato da poco scoperchiato dall´Antimafia di Ottaviano Del Turco e Nichi Vendola e i vertici dei "palazzi" di Messina sono stati o stanno per essere decapitati: l´università del rettore Diego Cuzzocrea, il sottosegretario all´Interno Angelo Giorgianni, il procuratore capo Antonio Zumbo diventeranno le prime "vittime". A Messina, in quegli anni, furoreggiava il mercato dei pentiti gestiti da contrapposte cordate di magistrati che avevano come principale interesse non quello di squarciare il velo sugli affari illeciti e sulle collusioni, ma garantire la copertura di interi settori della criminalità imprenditoriale messinese attraverso false dichiarazioni del pentito eccellente Luigi Sparacio. Grazie a un avvocato, Ugo Colonna, nel novembre del 1997 la procura di Catania e poi l´Antimafia avviano un´operazione di bonifica del territorio. E a seguire finiscono in carcere il sostituto procuratore nazionale antimafia, Giovanni Lembo, il capo dei gip Marcello Mondello, il capo di Cosa nostra a Messina, l´imprenditore Michelangelo Alfano, e altri affaristi e pentiti. Dunque, il 17 settembre 1998 il pentito Ferrara telefona al procuratore reggente Vaccara per comunicargli che avrebbe riferito ai magistrati catanesi, il giorno dopo, un episodio del lontano gennaio 1995, quando lui stesso aveva raccontato al procuratore Vaccara alcuni fatti, e in particolare la responsabilità del dottor Lembo nel ferimento dell´avvocato Ricciardi avvenuto nel luglio del 1991. Con quella telefonata Ferrara chiedeva al magistrato messinese l´autorizzazione a chiamarlo in causa. All´insaputa del procuratore Vaccara, Ferrara registra la telefonata e la cassetta originale di quella conversazione è ora sotto sequestro dei giudici di Catania che stanno processando il dottor Lembo, l´imprenditore Alfano e altri imputati per fatti di mafia. Il 13 marzo, in udienza, la cassetta sarà sbobinata - ma una copia della stessa è stata recapitata a "La Stampa" - e, probabilmente, la procura di Catania dovrà procedere d´ufficio contro l´attuale procuratore aggiunto di Catania, Vaccara, per falso e favoreggiamento. In quella conversazione che abbiamo potuto ascoltare, in sostanza, il pentito ricordava al magistrato di avergli rivelato nel lontano 1995 che i mandanti dell´agguato contro un avvocato di Patti, Francesco Riccardi - curatore del fallimento "Giuffré", un importante imprenditore della zona - erano stati, secondo quanto aveva appreso in carcere, sicuramente il sostituto procuratore antimafia Giovanni Lembo e probabilmente il "costruttore palermitano mafioso, presidente del Messina calcio", alias Michelangelo Alfano. Quelle rivelazioni, secondo quanto emerge dalla registrazione del colloquio con il pentito, il procuratore Vaccara non le verbalizzò e nel corso della telefonata del 1998 il magistrato chiese al pentito di non chiamarlo in causa: "La discussione che lei ha fatto con me se la dimentichi completamente". Il giorno dopo Carmelo Ferrara viene sentito dai pm catanesi Amato, Cariolo e il procuratore aggiunto D´Agata e racconta i fatti, omettendo di riferire che quei fatti li aveva già raccontati all´inizio della sua collaborazione al procuratore reggente di Messina: "Nel `94, ero recluso nel carcere di Messina, parlando con un detenuto venni a sapere che il dottor Lembo era stato il mandante del tentato omicidio dell´avvocato Ricciardi di Patti, eseguito da Castorina (Pasquale Castorina, ndr)". Ferrara prosegue il suo interrogatorio raccontando di aver contattato direttamente il dottor Lembo per cercare un aiuto per il fratello, il boss Iano, caduto in disgrazia, al quale era stato revocato il servizio di protezione: "Lembo mi disse che mio fratello era gestito da incompetenti e buoni a nulla, parlando dei dottor Mango e Langher (all´epoca sostituti procuratori, ndr), e mi chiese se nel carcere si parlava di lui e contro di lui. Mi propose, io che non ero collaboratore di giustizia, il rito abbreviato, cosa che ottenni. Un altro giorno lo feci chiamare e gli dissi chiaramente che il detenuto Pietro Trischetta diceva che lo teneva in pungo perché sapeva che era il mandante del tentato omicidio Ricciardi. Lembo sbiancò in faccia e sdrammatizzò...". Pochi giorni prima dell´interrogatorio un quotidiano aveva pubblicato la notizia che un altro pentito, Antonio Cariolo, aveva raccontato che dietro l´agguato all´avvocato di Patti c´erano il dottor Lembo e l´imprenditore Alfano. E, dunque, le rivelazioni di Ferrara potevano essere considerate "non genuine", apprese dalla lettura del quotidiano, "pilotate" o "millantate". Ma adesso la cassetta della telefonata registrata tra il pentito e il magistrato rappresenta un indizio importante: nel 1995 Carmelo Ferrara aveva già raccontato quell´intreccio perverso tra magistrati e imprenditori mafiosi. E, soprattutto, lo aveva raccontato all´attuale procuratore aggiunto di Messina che ritenne di non verbalizzare quelle rivelazioni, anzi lo avvertì che se avesse parlato di quei fatti la sua collaborazione sarebbe stata compromessa.

Francesco La Licata ha cominciato nel 1970 lavorando in cronaca per ‟L’Ora di Palermo” e poi occupandosi delle più importanti vicende siciliane:...

Giudice condannato, lo sfogo degli impiegati: «Tante le toghe come lui». di Luca Fazzo il 28 Settembre 2019 su Il Giornale. La testimonianza di chi lavora negli uffici comunali: «Ogni giorno ci fanno pressioni». A Milano ci sono giudici col vizietto del «lei non sa chi sono io», toghe che sventolano il tesserino da magistrato per ottenere trattamenti di favore. Uno per questo è finito sotto processo ed è stato condannato: Giorgio Alcioni, in servizio alla settima sezione civile fino a quando, dopo la condanna a due anni e otto mesi per concussione, è stato messo sotto procedimento disciplinare. Ma proprio dalle motivazioni del processo ad Alcioni, depositate nei giorni scorsi a Brescia, si scopre che alcuni dei comportamenti attribuiti all'imputato sono condivisi da altri suoi colleghi. Negli uffici comunali che si occupano di urbanistica e edilizia accadono sgradevoli faccia a faccia tra impiegati e toghe decise a far valere il loro status. A raccontarlo in aula è il testimone Giancarlo Bianchi Janetti, dirigente del settore. Quando il tribunale gli chiede se comportamenti come quello di Alcioni si verifichino spesso, risponde: «Tutti i giorni». Fatti esposti anche all'assessore? «Tutti i giorni, sempre». Anche da parte di magistrati? «Sì». Assodato che il giudice Alcioni non è una perla rara, resta la gravità dei comportamenti che la sentenza di condanna gli attribuisce. Tutto ruota intorno al progetto del bar «Birillo» di viale Monte Nero di traslocare nei locali di fronte ed espandersi, trasformando in locale pubblico anche l'appartamento del primo piano. Ma al secondo piano abita con la moglie il giudice Alcioni che scatena una guerra personale contro il trasloco del bar e i lavori di ristrutturazione. Una guerra legittima negli obiettivi ma condotta con metodi che il tribunale di Brescia - cui la vicenda è approdata per competenza - ha ritenuto in larga parte inammissibili. Alcioni è stato assolto per l'accusa di avere minacciato Emanuele Marinoni, proprietario del «Birillo»: l'atteggiamento del giudice viene definito «inutilmente provocatorio e presuntuoso», «pedante e cavilloso», ma senza contenuto minatorio. Viene invece ritenuto colpevole - ma il reato è dichiarato prescritto - di abuso d'ufficio per l'episodio forse più sconcertante: quando per ingraziarselo nomina per otto volte consecutive come consulente in cause a lui assegnate l'ingegnere che deve dirimere la controversia tra il condominio e il bar. Quanto ai suoi attacchi agli uffici comunali, che vengono sommersi di ricorsi «inutilmente pedanti e ripetitivi», per la sentenza Alcioni supera i confini del lecito in due occasioni, quando fa irruzione pretendendo di vedere la pratica di ristrutturazione. La prima volta non raggiunge il risultato, perché anche se urla «io sono un giudice del tribunale e pretendo», il capoufficio lo mette alla porta: e qui il reato è di tentata concussione. La seconda volta ad Alcioni va meglio, perché gli impiegati terrorizzati («Sono un magistrato, voglio questo fascicolo e lo voglio vedere subito») gli consegnano la pratica. In questo modo «ha fatto un esplicito riferimento alla sua professione non soltanto per essere accolto con maggiore deferenza e solerzia, ma per ottenere un trattamento di favore che il rispetto delle procedure non avrebbe consentito (..) l'obiettivo era vincere le resistenze della funzionaria e suscitare nella sua psiche, dall'alto della sua qualifica e della sua arroganza, il timore di subire ripercussioni negative». In conclusione, «rispondeva ad un preciso intento dell'Alcioni quello di operare una continua confusione tra la professione esercitata e la veste di privato con cui si presentava agli uffici comunali». Tanto che come recapito lasciava il numero del suo ufficio in tribunale.

LE “GUERRE” FRA I MAGISTRATI DI MATERA E POTENZA NON FINISCONO MAI…Il Corriere del Giorno l'1 Maggio 2021. In Basilicata da anni è tutti contro tutti fra le due procure di Potenza e Matera ed i rispettivi magistrati. Con qualche abuso e delirio di onnipotenza. Una domanda che ci sembra legittimo farsi è questa: ma il Csm, l’Ispettorato del Ministero di Giustizia si rendono conto di quanto accade continuamente nei Palazzi di Giustizia in Basilicata? Un antipatico conflitto istituzionale fra le procure di Potenza e Matera, che ha coinvolto l’incolpevole Arma dei Carabinieri, è finito davanti al tribunale di Catanzaro, competente per le controversie che riguardano magistrati della circoscrizione lucana, e per fortuna lo scorso 19 gennaio, il Gip di Catanzaro, dr.ssa Barbara Saccà, ha definitivamente chiuso il caso, disponendo l’archiviazione. La vicenda ha avuto inizio il 14 novembre 2018, allorquando il Procuratore capo di Matera, Pietro Argentino, ha inviato alla pm Annunziata Cazzetta copia di una lettera ricevuta dal Procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, chiedendole di relazionare su alcune note di servizio inviate dai tre Carabinieri l’allora comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Samuele Sighinolfi, con il maresciallo maggiore Antonio Barnabà della Compagnia carabinieri di Policoro e l’appuntato scelto Vito Antonio Tamborrino, che si erano visti querelare per diffamazione e calunnia dalla magistrata della procura materana, e quindi erano stati indagati alla Procura potentina, a seguito del diniego opposto dalla Cazzetta al trasferimento di otto fascicoli d’indagine da Matera a Potenza. La pm Cazzetta risposte per iscritto al procuratore Argentino, spiegando che la richiesta era pervenuta circa un mese prima dalla Procura di Potenza, precisando che degli 8 fascicoli richiesti due erano assegnati al magistrato Salvatore Colella, 2 alla magistrata Rosanna Maria De Fraia, 1 alla magistrata Maria Christina De Tommasi e soltanto 1 a lei, che aveva ricevuto la richiesta il 19 ottobre scorso. Quello stesso giorno, la responsabile dell’Ufficio Registro Generale del Tribunale di Matera aveva riferito a Cazzetta di aver ricevuto una telefonata del maresciallo Barnabà della Compagnia di Policoro, nel corso della quale il carabiniere avrebbe precisato che quei fascicoli dovevano essere nella disponibilità del sostituto procuratore di Potenza dr.ssa Anna Gloria Piccininni entro il 22 ottobre. Quindi tempi strettissimi, che secondo la ricostruzione della pm Cazzetta, avrebbero messo in crisi la stessa funzionaria del Registro, in quanto nel frattempo avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione a 4 diversi magistrati. Il maresciallo Barnabà aveva aggiunto alla funzionaria di avere l’autorizzazione del procuratore a portare i fascicoli “brevi manu”. E’ stato su quest’ultimo aspetto, che sembrerebbe fosse stato anche concordato tra la pm Piccininni (della procura di Potenza) ed il procuratore capo di Matera Argentino, che si scatenato il contenzioso Infatti: quando l’appuntato scelto dei Carabinieri Tamborrino si è recato al Registro del Tribunale di Matera per ritirare i fascicoli, convinto di poter contare su un accordo raggiunto tra il suo superiore maresciallo Barnabà e la funzionaria, ha ricevuto il diniego di quest’ultima perché la pm Cazzetta non aveva ricevuto alcuna disposizione in merito dal procuratore capo Argentino, pur essendoci stato evidentemente un accordo verbale in tal senso con la Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza. Di qui la denuncia presentata dalla Cazzetta nei confronti dei militari dell’ Arma, ma il pm titolare del procedimento il 22 ottobre 2019, ha richiesto l’archiviazione per “infondatezza della notizia di reato” alla quale la pm Cazzetta si è opposta, chiedendo la testimonianza come persone informate dei fatti del procuratore di Matera Argentino, al sostituto Piccininni, al procuratore di Potenza Curcio, ed all’allora Maggiore dei carabinieri Antonio Mancini. L’avvocato difensore Il difensore della Cazzetta ha chiesto persino l’imputazione coatta, con un prosieguo delle indagini sul caso. Il Gip però , nelle sue argomentazioni, ha chiarito sostanzialmente che il reato di calunnia si configura con l’attribuzione di un preciso delitto, non semplicemente con una “condotta non corrispondente ad alcuna fattispecie legale”, evidenziando che la calunnia richiede una particolare cura nell’accertamento del dolo, così come nel caso della diffamazione, reati che peraltro si assorbirebbero l’uno nell’altro. Il Gip nel caso di specie inoltre ha chiarito che “non può ritenersi integrato né l’elemento psicologico del delitto di calunnia, né di diffamazione…perché all’epoca dei fatti gli indagati erano convinti di rappresentare i fatti come conformi alla verità”. Quindi inequivocabilmente si esclude il dolo, perché i Carabinieri in realtà stavano semplicemente adempiendo a un dovere d’ufficio, nel riferire alla Procura di Potenza che la pm Cazzetta a Matera aveva opposto diniego alla consegna dei fascicoli, nonostante l’accordo intercorso tra le due Procure del quale loro erano stati informati. In realtà i militari dell’ Arma si sono limitati esclusivamente a spiegare le ragioni della mancata consegna dei fascicoli, senza alcuna intenzione di “denunciare ipotetici reati, eventualmente commessi da Cazzetta”. Peraltro, nella richiesta formale della D.D.A. di Potenza non c’era alcun riferimento al trasferimento da effettuarsi mediante i Carabinieri. La Gip di Catanzaro, dr.ssa Barbara Saccà ha quindi archiviato definitivamente il procedimento: “L’intera vicenda può riassumersi in un difetto di comunicazione che vede protagonisti i soggetti coinvolti” in quanto, il rifiuto della pm Cazzetta sarebbe stato determinato solo da un “corto circuito” informativo dalle mancate disposizioni in merito al trasferimento brevi manu dei fascicoli chiudendo una vicenda molto delicata ed imbarazzante, con un apparente conflitto fra istituzioni giudiziarie che in realtà non si era mai configurato. Ma questa non è la prima volta che la pm Cazzetta fa parlare di se. Infatti in una dichiarazione del PM Annunziata Cazzetta in udienza del 28/11/2008 la magistrata aveva dichiarato: “Quanto all’invito all’astensione, faccio rilevare al Tribunale che questo pubblico ministero non ha alcun rapporto di grave inimicizia con nessuno dei propri indagati… sono gli indagati che, forse, hanno un rapporto di grave inimicizia con me. Ma è un rapporto unilaterale”. Una dichiarazione questa della dottoressa Cazzetta , contraria al vero, poiché proprio lei aveva presentato querela contro il giornalista  Nicola Piccenna, ben tre volte il 26/3/2007, il 30/4/2007 ed il 12/10/2007, normale quindi che il giornalista il 28/11/2008 chiedesse la sua astensione. In quanto non era vero che il rapporto fosse “unilaterale“, cioè di un indagati (nel caso in questione il giornalista Nicola Piccenna) in quanto è documentato il contrario e cioè che la Cazzetta per prima aveva querelato ripetutamente il giornalista. Reati impossibili, come spiega il decreto di archiviazione emesso dal Tribunale di Catanzaro (Giudice delle Indagini Preliminari) in data 31/7/2014 (sette anni e passa dopo l’iscrizione, e tre anni dopo la richiesta di rinvio a giudizio firmata sempre da Annunziata Cazzetta il 15/6/2011). Resta da chiedersi come avesse potuto dichiarare in udienza il 28/11/2008 la pm Annunziata Cazzetta: “Quindi non mi astengo assolutamente”, come concludeva quella sua sciagurata mendace dichiarazione . Ma le guerre fra toghe in Basilicata è all’ordine del giorno. Infatti anche l’ attuale capo della Procura di Matera Pietro Argentino , due anni fa ha chiesto di processare il numero due della Procura di Potenza, il procuratore aggiunto Laura Triassi,, il Gip Amerigo Palma dello stesso Tribunale e tre componenti del Collegio penale del capoluogo di regione, cioè i giudicanti Aldo Gubitosi, Francesco Rossini e Natalia Catena, ( trasferitasi nel Lazio) certamente rappresenta una situazione delicata e molto imbarazzante per la magistratura... Era stato lo stesso Procuratore Capo di Matera Piero Argentino, con un esposto, a chiedere ai giudici calabresi di valutare l’operato dei colleghi potentini in relazione a un procedimento che lo aveva visto prima “testimone” e poi indagato nel 2014 quando era Procuratore aggiunto a Taranto (e quindi sottoposto alla giurisdizione della Procura di Potenza), il quale a fronte di una richiesta di archiviazione dei Pm calabresi Vincenzo Capomolla e Vito Valerio, ha chiesto al Gip catanzarese di formulare l’imputazione coattiva o, almeno di effettuare altri accertamenti. Una vicenda che trae origine dal procedimento a carico del Pm Tarantino Matteo Paolo Di Giorgio condannato in via definitiva a 8 anni di carcere per l’accusa di aver abusato della toga per interferire nella vita politica del Comune di Castellaneta. Argentino venne sentito come testimone dal collegio penale a febbraio del 2014, ma quando nel successivo aprile il Tribunale pronunciò la sentenza di condanna di 1° grado al pm Di Giorgio, dispose anche la trasmissione degli atti alla procura per un’ipotesi di reato di falsa testimonianza a carico di Argentino ed un’altro magistrato andato in pensione. Fu lo stesso Argentino a sollecitare l’avvio di un fascicolo che si concluse con una richiesta di archiviazione formulata dalla Pm Laura Triassi, che venne accolta dal Gip Palma, la quale pur ritenendo non veritiere alcune dichiarazioni dell’attuale procuratore capo di Matera, basandosi sul fatto che diversamente Argentino avrebbe dovuto fare una “pacifica ammissione di aver, sia pur nel lontano 2006, ingiustamente accusato una persona” lo salvò di fatto ritenendo che “non è punibile per il delitto di falsa testimonianza, in forza dell’esimente di cui all’art. 384 comma primo del codice penale, il testimone che, come nella specie, abbia reso false dichiarazioni al fine di sottrarsi al pericolo di essere incriminato per un reato commesso in precedenza e in ordine al quale, al momento in cui è stato ascoltato, non vi erano indizi di colpevolezza a suo carico“. Una serie di fatti da cui il Procuratore di Matera a suo tempo si è sentito leso dalla decisione del Tribunale di trasmettere gli atti alla Procura senza approfondire alcuni fatti, lamentando un’ipotesi di abuso d’ufficio e calunnia. Argentino incredibilmente censurava sia la richiesta di archiviazione, che sarebbe stata strumentalmente basata sull’esimente dell’art. 384, che il relativo dispositivo del Gip fatto su un modello prestampato, avallando integralmente la richiesta del Pm, peraltro nello stesso giorno della richiesta, fatti per i quali avrebbe lamentato un abuso d’ufficio. Ma per i magistrati della Procura di Catanzaro l’esito delle indagini non avrebbe consentito di riscontrar la sussistenza dei reati, sia sotto il profilo materiale quanto per gli insufficienti riscontri in ordine alla ricorrenza dell’elemento psicologicamente normativamente richiesto, ma anche perchè mancherebbero gli elementi anche solo minimamente sintomatici di una volontà di orientar la decisione in danno di Argentino. La vicenda, insomma, sarebbe stata molto complessa e per integrare la calunnia è necessaria una piena consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato, cosa che non sarebbe stato ravvisato nella condotta dei giudici potentini. Per la Procura catanzarese analogamente non ci sarebbe reato nella condotta della Pm Triassi che, condividendo la ricostruzione di non credibilità di argentino, sulla base di un convincimento fattuale e giuridico, sia pure ritenuto non condivisibile, aveva ritenuto applicabile l’esimente per Argentino. Anche perché per i Pm calabresi non ci sono elementi tali da far ritenere una volontarietà nel fare un danno ingiusto al collega all’epoca di Taranto o un vantaggio patrimoniale a terzi. E ugualmente nessuna volontà di arrecare danno ad Argentino ci sarebbe nella decisione con cui il Gip ha disposto l’archiviazione. Ma la ciliegina sulla torta è arrivata quando a fronte di un “allegra” decisione della 5a commissione del CSM (nella legislatura in cui in consiglio sedeva Luca Palamara…) di nominare Francesco Curcio a procuratore capo di Potenza , è arrivato il ricorso amministrativo della pm Laura Triassi, che ha minato vedendo riconoscere le proprie ragioni dinnanzi al tar ed al Consiglio di Stato i presupposti di nomina effettuata in favore di Curcio che aveva incredibilmente meno titoli di lei. Ed infatti il Consiglio di Stato aveva annullato la nomina di Curcio, che è rimasto al suo posto, anche perchè nel frattempo il plenum del CSM ha “ricompensato” la Triassi nominandola Procuratore capo di Nola, ottemperando alle sentenze del TAR del 2019 e del Consiglio di Stato nel 2020 che davano ragione alla Triassi sulla nomina (poi revocata) di Annamaria Lucchetta, così “salvando” e lasciando sulla sua poltrona di procuratore capo a Potenza Francesco Curcio che aveva anche lui meno titoli della pm Triassi ! La domanda da porsi a questo punto che ci sembra legittimo farci è questa: ma il Csm, l’Ispettorato del Ministero di Giustizia si rendono conto di quanto accade continuamente nei Palazzi di Giustizia in Basilicata?

DOPO GLI ARRESTI. Ex Ilva, a Potenza è il giorno dell'interrogatorio di Capristo. Ragno nega rapporto collusivo con ex procuratore. Stamani, nel Palazzo di Giustizia si sono tenuti gli interrogatori di garanzia dell’avvocato Giacomo Ragno e di Nicola Nicoletti, consulente dell’Ilva in amministrazione straordinaria dal 2015 al 2018. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2021. E’ durato circa un’ora l'interrogatorio di garanzia dell’ex Procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, coinvolto nell’inchiesta della Procura del capoluogo lucano sulla corruzione in alcune vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva. Stamani, nel Palazzo di Giustizia si sono tenuti gli interrogatori di garanzia dell’avvocato Giacomo Ragno e di Nicola Nicoletti, consulente dell’Ilva in amministrazione straordinaria dal 2015 al 2018: entrambi, che si trovano ai domiciliari, hanno risposto alle domande del gip Amodeo. Ieri nel carcere di Potenza il principale indagato dell’inchiesta, l’avvocato Piero Amara, ha risposto per due ore alle domande del gip Antonello Amodeo. Si è invece avvalso della facoltà di non rispondere il poliziotto Filippo Paradiso, detenuto da martedì scorso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha parlato per circa due ore, durante le quali ha esposto una serie di argomenti per confutare la ricostruzione accusatoria, l’avvocato tranese Giacomo Ragno, agli arresti domiciliari dal 7 giugno scorso nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Potenza su presunte corruzioni in atti giudiziari commesse in concorso con l’ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo. A quanto si apprende, Ragno, assistito dall’avvocato Salvatore D’Aluiso, ha negato ogni rapporto collusivo di natura illecita con l’ex procuratore pugliese. L’interrogatorio di garanzia, dinanzi al gip Antonello Amodeo che ha firmato l’ordinanza d’arresto, al procuratore di Potenza Francesco Curcio e ai due sostituti che coordinano l’indagine, si è celebrato in presenza nel Tribunale di Potenza. Non si sarebbe concentrato sui singoli fatti contestati, ma sul generale rapporto di conoscenza tra Ragno e Capristo. L’avvocato arrestato ha spiegato che i due si conoscevano da molto tempo, confermando un rapporto di cordiale frequentazione ma respingendo l’accusa di aver ricevuto utilità. Per la Procura di Potenza, Ragno era «l'alter ego» di Capristo, il suo «amico personale», e grazie alla «sponsorizzazione" dell’ex procuratore avrebbe ottenuto nel 2017 quattro mandati difensivi per l’ex Ilva, con compensi per complessivi 273mila euro. Al gip Ragno ha anche precisato che negli ultimi tempi il rapporto tra i due si era affievolito. All’esito dell’interrogatorio la difesa non ha chiesto la revoca della misura cautelare, riservandosi di farlo quando avrà avuto modo di studiare le 27 mila pagine che compongono gli atti del procedimento.

Chiara Spagnolo per repubblica.it l'8 giugno 2021. Parte da Potenza il terremoto giudiziario che ha travolto l'avvocato siciliano Pietro Amara, la gola profonda che di recente ha fatto tremare la politica e il Csm. L'avvocato è destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere nell'ambito di un'inchiesta che riguarda presunti favori relativi a procedimenti che riguardavano l'ex Ilva di Taranto. Al centro dell'inchiesta l'ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, arrestato un anno fa per concussione e oggi destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora. Amara è stato consulente legale di Ilva quando l'azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti - che la Procura lucana considera illeciti - con Capristo. Agli arresti domiciliari è finito l'avvocato tranese Gaicomo Ragno (già condannato nell'ambito del processo sul "Sistema Trani", che svelò atti di corruzione degli ex magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta). In carcere anche il poliziotto Filippo Paradiso, che avrebbe fatto da tramite tra Capristo e Amara.

Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto. Giampiero Casoni l'08/06/2021 su Notizie.it. Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto. Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto, misure anche per l'avvocato Trani e il poliziotto Paradiso. Ex Ilva di Taranto, la Guardia di Finanza ha arrestato l’avvocato Pietro Amara e notificato l’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Misure di cautela anche per l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e per il poliziotto Filippo Paradiso. A chiederle ed ottenerle la Procura della Repubblica di Potenza. L’inchiesta è quella, delicatissima, per presunti favori ad un imprenditore nei rapporti di lavoro con l’azienda siderurgica. Ad operare era stata la magistratura potentina, che tutt’ora ha facoltà di esercizio di azione penale, competente per i reati attribuiti a magistrati in servizio quale Capristo era all’epoca dei fatti contestati. L’ex requirente era stato già messo ai domiciliari il 19 maggio del 2020 perché indicato come autore di di presunte pressioni a due magistrati insieme a tre imprenditori e ad un poliziotto. Per questa vicenda è in atto il relativo dibattimento presso il Tribunale di Potenza. Dal canto suo l’avvocato Amara è un po’ il “golden boy” di alcune scottantissime inchieste in corso: da quella della Procura di Milano sul cosiddetto “falso complotto Eni” a quella scaturita che in veste di gola profonda lo vede uomo innesco dello scandalo al Csm sulla cosiddetta “Loggia Ungheria”, in intreccio complicatissimo che dà la cifra quanto meno del caos che regna in alcuni settori della magistratura. La posizione dell’avvocato nel fascicolo sull’ex Ilva oggetto di un recente accordo di salvataggio fra le parti, è comunque molto più delicata, almeno a contare la gravità della misura di custodia, che è in carcere. Vuol dire che il Gip teme che il professionista inquini le prove, a contare che non è concettualmente plausibile che fugga o reiteri il reato. L’inchiesta è coordinata da Francesco Curcio, procuratore capo di Potenza. L’Ilva torna dunque a fare ingresso prepotente nelle cronache giudiziarie, dopo aver fatto capolino in quella convenzionale con l’incendio di un mese fa. Ma cosa si contesta nello specifico e per ora sono in presunzione di reato ai quattro indagati? L’inchiesta ruota tutta intorno alla “trattativa” fra magistratura e consulenti del governo dell’Ilva in amministrazione straordinaria: Amara venne scelto come consulente di Ilva in un patteggiamento che tempo prima il procuratore in carica Sebastio aveva respinto. Il commissario Laghi nominò Amara consulente e da quella nomina sarebbero emerse presunte prebende, anche a carico di Capristo, su cui la procura potentina ha indagato e chiesto le misure.

Estratto di una Dagonota l'8 giugno 2021. […] Marco Mancini è supportato anche dal suo ottimo rapporto con il pentastellato Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa del M5s, attivo frequentatore della Link Campus di Scotti dove conseguì un Master nel 2016 (sbucò pure fuori all'inaugurazione del centro di cyber security dei cinesi di ZTE), legato a sua volta a esperti come Umberto Saccone (ex Eni) e con Carlo Sibilia, il sottosegretario al Viminale che ha voluto con sé l'ispettore di polizia Filippo Paradiso, che stima e apprezza lo 007.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi e Virginia Piccolillo per il ''Corriere della Sera'' del 20 maggio 2020. […] Oltre a questo colloquio registrato, agli atti dell'indagine di Potenza - ma anche di quelle collegate di Messina e Perugia sulla presunta corruzione di altri magistrati: inchieste diverse in cui ricorrono gli stessi nomi - gli indizi sul «centro di potere» collegato a Capristo passano dal suo amico Filippo Paradiso, di cui parla l'avvocato messinese Giuseppe Calafiore. Arrestato per corruzione assieme al collega Piero Amara e all' imprenditore Fabrizio Centofanti nel febbraio 2018, con pena successivamente patteggiata, il legale dice in un interrogatorio del 6 giugno 2019: «Attualmente è nell' entourage del ministro Salvini. Paradiso veniva quasi quotidianamente nel nostro studio, vive di pubbliche relazioni tant' è che l'appuntamento tra il pm Longo legatissimo ad Amara e a me (e arrestato con loro due anni fa, ndr ) e la Casellati, all' epoca al Csm, è avvenuto tramite Paradiso. Amara mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso, e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino, o meglio deduco, che Paradiso si sia relazionato, anche, con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Il funzionario di polizia è attualmente indagato dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite, e di lui ha parlato la ex pm di Trani Silvia Curione, titolare dell'inchiesta che Capristo voleva pilotare, secondo l'accusa, a suo piacimento. Ricorda un incontro di inizio 2016: «Nel presentarci Paradiso, a casa sua, Capristo disse che era suo amico. Quest' ultimo ci disse, parlando della Procura di Taranto, che l'allora facente funzione Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera». Il marito della Curione, Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, aggiunge: «Paradiso, spinto da Capristo che aveva evidenziato come Argentino era rimasto amareggiato perché non aveva avuto alcun voto in Commissione (del Csm, ndr ) per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per fare diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale». A luglio 2017, Argentino fu nominato dal Csm procuratore di Matera, con 11 voti. Tra cui quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati e di Luca Palamara. Gli atti su Capristo (compresi i verbali di Amara, che nega quanto riferito da Calafiore, e dello stesso procuratore di Taranto, che nega anche parte di ciò che ha detto Amara) sono finiti agli atti dell’indagine perugina sull' ex componente del Consiglio superiore della magistratura indagato per corruzione. Secondo l'accusa veniva pagato con viaggi e altre regalie da Centofanti, l'amico di Amara e Calafiore, in cambio del «mercimonio della funzione» di componente del Csm. Nell' interrogatorio a Palamara, i pm umbri hanno chiesto notizie di Filippo Paradiso, e l'indagato ha risposto: «L'ho visto più volte sia con Centofanti che con altri consiglieri del Csm con cui si accompagnava, anche di rilievo». 

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" del 10 giugno 2020. […] Di quella decisione si parla pure nell'indagine potentina che ha portato all'arresto di Capristo, amico del funzionario di polizia Filippo Paradiso (inquisito a Roma per traffico di influenze illecite e con buone entrature nel Csm di Palamara) il quale riferì a un altro magistrato pugliese: «È stata durissima ma ce l'abbiamo fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera». Prevalse con 11 voti (Unicost, Mi e i tre laici di centrodestra), e il giorno dopo Palamara scrisse a Forciniti: «Mi giungono notizie pessime di Argentino. Abbiamo sbagliato?». Risposta: «No... lascia stare... non è uno scienziato, ma un lavoratore... non amato dai politici...». «Mi dicono cose turche». «Lascia stare...». 

Estratto dell'articolo di Emiliano Fittipaldi per lespresso.it del 28 giugno 2019. […] Ma come ha fatto Longo a entrare in contatto con la Casellati? Il pm ha raccontato che all’appuntamento non ando da solo. Ma che fu accompagnato da un uomo assai vicino all’attuale presidente del Senato. Si tratta di Filippo Paradiso, un dirigente della polizia di Stato che ha rapporti di alto livello con il mondo della magistratura italiana. E qualche guaio con la giustizia: Calafiore – in altri verbali consultati da L'Espresso - ha dichiarato che aveva in uso la carta di credito di Amara. Oggi il poliziotto risulta indagato a Roma per traffico di influenze. Fu Paradiso, dice dunque Longo, a organizzare il meeting tra i tavolini del bar tra lui e la Casellati. E fu sempre Paradiso, e questa e una certezza, che riuscii a entrare nell’ottobre 2018 nello staff del gabinetto della presidente del Senato. Le dimissioni, spiegano dal Senato, sono arrivate a gennaio 2019. In concomitanza con le prime notizie su un'inchiesta di di lui. Per ottenere l’appoggio della Casellati «sono andato insieme a Paradiso, che mi era stato presentato un paio di settimane prima da Giuseppe Calafiore. Con la Casellati, (Paradiso) era in ottimi rapporti... lei comunque non mi ha garantito nulla», chiosa Longo. E al cronista che gli chiede se davvero non fu preso alcun impegno dalla Casellati e da Legnini per la sua sponsorizzazione per la promozione, Longo chiarisce: «Guardi, e evidente che promesse esplicite non ne sono state fatte. Ma se organizzo un incontro con dei consiglieri (del Csm, ndr) attraverso persone considerate a loro vicine, diciamo che qualche aspettativa poteva essere implicita». Legnini - secondo quanto ha raccontato l’ex pm - avrebbe incontrato l’uomo di Amara «nel suo ufficio al Csm». Anche in questo caso Longo non si e mosso da solo: a preparare il rendez-vous con l’allora vertice del Consiglio superiore della magistratura e stato un altro intermediario. «Ha organizzato l’incontro il professor Dell’Aversana», ribadisce. Siamo sempre nella primavera del 2016. Legnini, Longo e Pasquale Dell'Aversana, stavolta, si incontrano non in un bar, ma in una sede ufficiale. «Neppure Legnini mi ha garantito alcunche. A lui e alla Casellati ho parlato di Ragusa perchè Gela era stata assegnata». Un’associazione presieduta da Dell'Aversana ha avuto stretti rapporti con i sodali di Longo Amara e Calafiore. «Il coacervo di manovre nascoste» di cui parla Mattarella parte da lontano.

Estratto dell'articolo di Antonio Massari e Valeria Pacelli per ilfattoquotidiano.it del 21 maggio 2020. Filippo Paradiso è un poliziotto, pugliese che in passato ha prestato servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi, come con Berlusconi. Ha lavorato anche al Ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, allora capo di gabinetto di Matteo Salvini e con la formazione dell’ultimo governo è passato nella segreteria di Sibilia. […] Paradiso è ancora indagato a Roma per traffico di influenze e poi il suo nome spunta – ma non è indagato – nelle carte della procura di Potenza che ha portato all’arresto ai domiciliari di Carlo Maria Capristo, procuratore di Taranto accusato di tentata induzione a dare o promettere utilità, truffa e falso. A parlare di Paradiso, dinanzi al procuratore di Potenza Francesco Curcio, sono i due pm di Bari Silvia Curione e Lanfranco Marazia, che lo incontrano proprio a casa di Capristo: “Disse che Paradiso era un suo amico – racconta Curione – e quest’ultimo ci disse, parlando in generale della Procura di Taranto, che l’allora facente funzioni Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera. Sul momento – conclude Curione – rimasi sorpresa della conoscenza di dinamiche della magistratura da parte di un dipendente di altro ministero”. Nulla rispetto alla sorpresa del pm Marazia: “Paradiso spinto da Capristo, che aveva evidenziato come (…) Argentino era rimasto amareggiato, perché non aveva avuto alcun voto in commissione per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per far diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale, come se lui e altri si sarebbero potuti impegnare in favore di Argentino. Nell’estate 2017” a un funerale “era presente Paradiso. Mi disse con aria soddisfatta che era stato durissimo ma che ce l’avevano fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera tanto che di lì a poco si sarebbe insediato”. Sentito dal Fatto, Paradiso ha smentito questa ricostruzione.

Caso Amara, per braccio destro un poliziotto. Il "relation man" Paradiso negli staff di Salvini e Casellati.  Giuliano Foschini e  Fabio Tonacci su La Repubblica il 9 giugno 2021. Arrestato con Amara, ha lavorato anche con i 5S Sibilia. Contatti con il dem Boccia e Palamara. È difficile capire chi realmente sia e che lavoro faccia l'avvocato Piero Amara senza partire da quello che la procura di Potenza, con una fortunata definizione, definisce "il suo relation man": il poliziotto Filippo Paradiso. "Appartengo - racconta Paradiso agli inquirenti - alla Polizia. E a seguito di una terribile esperienza giudiziaria, una condanna in omicidio in primo grado e assoluzione in appello, sono sempre stato comandato presso varie segreterie particolari".

Filippo Paradiso, da consulente di Maria Elisabetta Casellati a corruttore dei magistrati con Pietro Amara. Già collaboratore della presidente del Senato, il funzionario del ministero dell’Interno è stato arrestato per traffico di influenze nell’ambito dell’inchiesta Ilva. Redazione su La Repubblica il 9 giugno 2021. Un uomo cerniera tra chi poteva influire sulle scelte del Csm e la lobby di Pietro Amara interessata a governare gli interessi di Eni e Ilva, oltre gli impicci giudiziari.  Nell’ultima inchiesta che ha portato di nuovo in carcere l’avvocato siciliano, spunta tra gli arrestati il nome di Filippo Paradiso, funzionario del ministero dell’Interno, già stretto collaboratore della presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. Paradiso, già vicino a Matteo Salvini al Viminale, vicepresidente del Salone della Giustizia, un passato all’Agricoltura con il ministro Saverio Romano, era indagato per traffico di influenze a gennaio del 2019. Più o meno quando il funzionario scompare dai radar di Palazzo Madama. Era stato lui, come ha documentato l’Espresso, a propiziare nel 2016 la nomina del pm di Siracusa Giuseppe Longo, poi arrestato, per la guida della procura di Ragusa agli albori dell’intreccio che ha per protagonista l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. E lo aveva fatto procurandogli un incontro proprio con Casellati, allora componente forzista del Consiglio superiore. Più o meno lo stesso ruolo rivestito per l’agognato passaggio del procuratore di Trani Carlo Maria Capistro alla guida della procura di Taranto, direttamente coinvolta nella gestione del dossier Ilva. In entrambi i casi Paradiso si sarebbe speso per conto di Amara che lo avrebbe utilizzato come ambasciatore nel sottobosco giudiziario per la presa di contatto con i magistrati amici, da corrompere e blandire pur di portare a casa i risultati agognati.  

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per "Domani" (26 novembre 2020). I magistrati della procura di Roma non hanno dubbi. Il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati quando era membro del Csm sarebbe stata “trafficata”, dunque usata, da Filippo Paradiso. Un poliziotto suo amico chiamato come collaboratore a Palazzo Madama che avrebbe, scrivono i pm nell'avviso di conclusioni delle indagini, «sfruttato e vantato» le relazioni con lei e altri pubblici ufficiali in modo da «farsi indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione». Amara non è un imprenditore qualsiasi: ex legale dell'Eni, insieme al suo amico e socio Giuseppe Calafiore, è al centro di delicate inchieste giudiziarie in mezza Italia, e da tempo ha deciso di collaborare con gli inquirenti. Indagato insieme a Paradiso, Amara avrebbe fatto favori al funzionario del Viminale con l'obiettivo di procurarsi gli agganci giusti nelle sedi istituzionali, e in quella che è la vera stanza dei bottoni del potere giudiziario: il Consiglio superiore della magistratura, di cui Casellati è stata membro dal 2014 al gennaio 2018. Domani ha scoperto che la seconda carica dello Stato, che non è indagata, è stata sentita come persona informata sui fatti lo scorso luglio dai magistrati di Piazzale Clodio, proprio in merito ai suoi rapporti con Paradiso e con alcuni magistrati poi arrestati per corruzione: uno di questi, Giancarlo Longo, gli fu presentato proprio dall'ex consigliere. Andiamo con ordine. Paradiso oggi è distaccato al ministero dell'Interno, negli uffici del sottosegretario grillino Carlo Sibilia. Entrature importanti in Vaticano e saggista per diletto (ha pubblicato un libro su corruzione, concussione e, paradosso, sul traffico di influenze illecite) il poliziotto in passato ha lavorato con i ministri forzisti Claudio Scajola e Saverio Romano, e successivamente con l'ex capo di gabinetto di Matteo Salvini, Matteo Piantedosi. La Casellati ha per lui solo buone parole. «Paradiso? Lo conosco dal 2016. Il sottosegretario Gianni Letta me ne parlava assai bene per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi. Per tali ragioni propose la sua candidatura per il partito chiedendomi di caldeggiarla, ma non venne accettata» dice a verbale il 10 luglio. «A seguito di tale fatto, Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff. Lo accolsi a titolo gratuito a ottobre 2018, nella qualità di consigliere di convegni. In realtà avevo avevo in animo di sostituirlo con il dottor Claudio Maria Galloppi». Cosa avvenuta a gennaio 2019, quando i giornali accennano la prima volta all'inchiesta della procura sul consigliere. Ora la Guardia di Finanza, i pm Paolo Ielo, Rodolfo Maria Sabelli e Fabrizio Tucci hanno chiuso le indagini e dovranno decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione. Il documento è severo: «Paradiso sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in servizio presso ambienti istituzionali (Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consiglio Superiore della Magistratura, e in particolare con la consigliera Elisabetta Casellati) si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro e altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione», scrivono gli inquirenti. I magistrati elencano «somme di denaro per un valore non inferiore ai 2000 euro», la messa a disposizione di una carta di credito usata da Paradiso per comprare anche biglietti aerei, fino «alla messa a disposizione per più di un anno di un appartamento a Trastevere».

(ANSA l'8 giugno 2021) L'ex Procuratore della Repubblica di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, "in cambio delle “utilità” ricevute dal duo Amara-Paradiso svendeva la sua funzione in modo stabile, continuativo e incisivo". Lo ha scritto il gip di Potenza, Antonello Amodeo, nell'ordinanza con la quale ha disposto l'arresto dell'avvocato Piero Amara e del poliziotto Filippo Paradiso. Entrambi sono in carcere, mentre per Capristo è stato disposto l'obbligo di dimora a Bari. "Di particolare pregio", ha messo in evidenza il magistrato potentino, "per comprendere il livello osmotico che avevano assunto i rapporti tra Amara, Paradiso e Capristo, la circostanza che Amara avesse spostato, dopo la nomina di Capristo a Taranto nel 2016, la sede sociale delle sue società operanti nel settore ambientale da Roma alla provincia di Taranto, quasi a sottolineare plasticamente che si poneva sotto l'ombrello protettivo di Capristo". Il gip ha inoltre scritto che è emerso "un estesissimo network di rapporti e relazioni" creato da Capristo, Amara e Paradiso "anche di alto livello istituzionale e politico, finalizzato a strumentalizzare in loro favore le funzioni pubbliche".

(ANSA l'8 giugno 2021) Ci sono anche gli ex magistrati pugliesi Michele Nardi e Antonio Savasta, rispettivamente ex gip ed ex pm di Trani, tra gli 11 indagati nell'inchiesta della Procura d Potenza che ha portato oggi a quattro arresti e ad una nuova misura cautelare dell'obbligo di dimora per l'ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo. Nardi e Savasta, già condannati in primo grado dal Tribunale di Lecce rispettivamente a 16 anni e 9 mesi di reclusione e a 10 anni nell'ambito del cosiddetto processo "giustizia svenduta", rispondono nell'inchiesta lucana di corruzione in atti giudiziari e concussione. Per entrambi la Procura di Potenza aveva chiesto l'arresto (per Nardi in carcere e per Savasta ai domiciliari) ma il gip Antonello Amodeo ha rigettato la richiesta "per mancanza di attualità delle esigenze cautelari". In particolare Nardi, all'epoca in servizio all'ispettorato generale del Ministero, è accusato di aver "messo a disposizione di Capristo l'utilità consistente nel suo impegno a sostenerlo nella nomina procuratore di Trani", poi effettivamente avvenuta nel 2008, con un'attività di "raccomandazione, persuasione, sollecitazione nei confronti di chi era in grado di determinare la nomina di Capristo", ottenendo in cambio "stabile e permanente protezione dei variegati ed illeciti interessi di Nardi in vicende processuali proprie e di suo interesse, nonché la protezione e copertura in favore dei sostituti Antonio Savasta e Luigi Scimè, con i quali Nardi aggiustava i processi".

(ANSA l'8 giugno 2021) Carlo Maria Capristo "ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto". Lo hanno scritto - in una nota inviata all'ANSA - gli avvocati difensori, Angela Pignatari e Riccardo Olivo. Riferendosi alle accuse al centro dell'inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, i legali di Capristo hanno evidenziato che si tratta di "fatti per lo più già passati al vaglio di altre Autorità giudiziarie, che non ne avevano ravvisato elementi di illiceità, ed assai risalenti nel tempo". "Il più recente" dei fatti "sarebbe cessato - hanno aggiunto gli avvocati Pignatari ed Olivo - nel luglio di due anni orsono, gli altri si collocano dal 2008 al 2016". "Riservando ad una attenta disamina dell'ordinanza ogni valutazione sul merito delle accuse", i legali di Capristo hanno comunque sottolineato che "queste considerazioni, unite alle dimissioni dall'ordine giudiziario a far data dal 25 maggio 2020, rendono palese la mancanza di esigenze cautelari necessarie per giustificare nei suoi confronti l'obbligo di dimora nel comune di residenza (e non già 'presso la propria abitazione', come erroneamente riferito nel comunicato stampa diffuso dal Procuratore di Potenza. In ogni caso, nel merito - hanno concluso i due avvocati - sarà dimostrato che il dottor Capristo ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto".

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it l'8 giugno 2021. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati «si è sempre battuta per me...non dimentico». Parola del magistrato Carlo Maria Capristo, travolto dell’inchiesta della procura di Potenza insieme all’avvocato Piero Amara e a un misterioso poliziotto, Filippo Paradiso, che ha lavorato a palazzo Madama proprio come collaboratore della presidente del Senato (oggi Paradiso collabora al Viminale con il sottosegretario grillino Carlo Sibilia). La vicenda che ha portato Amara e il funzionario della polizia in carcere è basata su accuse di corruzione in atti giudiziari, nomine in procura e favori incrociati. La Casellati non è indagata, ma è più volte citata dai protagonisti dell’inchiesta (coordinata dal procuratore capo Francesco Curcio) come figura istituzionale di riferimento quando l’avvocata berlusconiana era componente laico del Consiglio superiore della magistratura.

La cricca di Taranto. La Guardia di finanza e la Squadra mobile della polizia, coordinati dal procuratore Curcio, hanno eseguito stamattina cinque misure cautelari nei confronti di avvocati e magistrati. Al centro delle trecento pagine dell’ordinanza c’è proprio Amara, che nelle scorse settimane è già finito sulle prime pagine dei giornali per le sue dichiarazioni in merito alla presunta “loggia Ungheria”, una sorta di associazione segreta costituita da toghe, professionisti, industriali e vertici delle istituzioni dedita – a suo dire – a scambi di favori, affari e nomine nella magistratura. I pm di Potenza però contestano all’ex legale dell’Eni fatti che con i verbali su “Ungheria” c’entrano marginalmente. L’accusa di Curcio è infatti quella di corruzione in atti giudiziari: Amara avrebbe “comprato” la funzione dell’allora procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (anche lui sotto inchiesta e destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora) attraverso scambi di favori e piaceri. Paradiso, anche lui in carcere, è accusato di essere stato intermediario tra i due, mentre gli altri indagati eccellenti sono Nicola Nicoletti, consulente dei commissari Ilva e socio della società di revisione Pwc, e l’avvocato Giacomo Ragno, fedelissimo di Capristo e principe del foro di Trani. La vicenda nasce e si sviluppa in Puglia, attorno al disastro dell’industria siderurgica Ilva. Capristo, procuratore di Taranto fino al 2020, avrebbe garantito una serie di incarichi e prebende ad Amara e Paradiso. Capristo avrebbe agevolato i due, scrive il gip, «per ottenere vantaggi nella sua carriera professionale». Nelle carte si legge che «tale interessamento sia di Amara che di Paradiso si manifestava in una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta in favore di Capristo dai corruttori su membri del Csm (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e su soggetti ritenuti in grado di influire sui questi ultimi in occasione della pubblicazione di posti direttivi (negli uffici giudiziari ndr) vacanti d’interesse di Capristo ( tra cui la procura della repubblica di Taranto)».

Contatto Casellati. Le indagini sulle «sollecitazioni dei corruttori» Amara e Paradiso hanno portato i detective della finanza e della polizia fino alle più alte cariche dello stato. In primis Maria Elisabetta Alberti Casellati, che all’epoca in cui Capristo cercava di sistemarsi a capo della procura di Taranto sedeva come laica in quota Forza Italia nel Consiglio superiore della magistratura. «Se fossimo stati ancora a Trani avremmo provveduto ad inviare un bel messaggio di congratulazioni alla Presidente del Senato», è il messaggio inviato a Capristo da un amico. Il magistrato replicava: «Hai proprio ragione Mimmo caro ... spero di invitarla quando potrà. E' una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me .... E io non dimentico». Casellati, che secondo la procura di Roma è stata “trafficata”, cioè usata dall’amico Paradiso a sua insaputa, ha già smentito di aver favorito la nomina di Capristo all’epoca in cui ricopriva l’importante ruolo al Csm, e sentita da Paolo Ielo aveva escluso pressioni. Domani aveva dato conto dell’interrogatorio di Casellati, in cui spiegava che «Capristo venne nominato a Taranto all’unanimità. Ma Paradiso non ha mai interloquito con me». Negli atti dell’indagine di Potenza il nome della presidente del Senato ricorre però più volte. A ricordare ai magistrati di un incontro tra Paradiso e Casellati per la nomina di Capristo è prima Giuseppe Calafiore, avvocato coinvolto in altri scandali giudiziari con il socio Amara. La squadra mobile ha depositato un’informativa in cui sembra confermare addirittura un incontro diretto tra Amara e l’allora componente del Csm: «Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomina di Capristo nel 2016, dunque, aveva incontrato Amara che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore di Capristo per il posto di Procuratore di Taranto», si legge nell’informativa di polizia citata dal giudice delle indagini preliminari. Casellati, contattata, tuttavia smentisce: «Mai visto o conosciuto». Le tracce della genesi della nomina a procuratore di Taranto e delle possibili pressioni per spingere Capristo emergono anche dalle chat sequestrate a Luca Palamara, il magistrato accusato di corruzione a Perugia nell’inchiesta che svelato il sistema della spartizione degli uffici direttivi di procure e tribunali. Palamara e un suo collega commentavano la figura di Capristo, di cui si direbbero «cose pessime». Tuttavia Palamara si giustificava scrivendo «purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato», evidentemente alludendo, precisano gli investigatori, al «peso delle pressioni ricevute per la nomina di Capristo, nonostante questi godesse di pessima reputazione». Possibile Palamara parlasse proprio della Casellati o di altri membri interni del Csm? Fatto sta che, al netto dei pregiudizi «pessimi», Capristo fu davvero votato all’unanimità per guidare la procura che doveva gestire i processi ambientali più delicati del paese.

Paradiso e l’amica presidente. Paradiso e Casellati si conoscono da tempo, come ha confermato la presidente ai pm di Roma. Il verbale è ora agli atti dell’inchiesta di Potenza. «Di lui mi parlò benissimo Gianni Letta», ha spiegato Casellati ai magistrati capitolini. «Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff...io lo accolsi a ottobre 2018 al Senato a titolo gratuito nella qualità di consigliere per organizzazione di convegni». Dal gennaio 2019, poi, Paradiso termina l’esperienza, sostituito da Claudio Galoppi che dal Csm affianca l’amica Casellati come consigliere giuridico a palazzo Madama. Paradiso si traferisce al ministero dell’Interno come collaboratore di Carlo Sibilia fino all’arresto. «Nel periodo in cui ero al Csm», ha detto Casellati ai pm, Paradiso «mi parlava di questioni di geografia giudiziaria molto generali. Non ho memoria di interlocuzioni su specifiche nomine». Casellati insomma non ha «memoria» precisa. Capristo, al contrario, «non dimentica» che l’avvocatessa che sogna il Quirinale «si è battuta per me».

Arriva Boccia. I magistrati, ordinando l’arresto di Paradiso e Amara e l’obbligo di dimora per Capristo, dunque, credono che le informazioni ottenute da Calafiore siano veritiere. L’avvocato siciliano parla con i pm non solo degli incontri con la Casellati per sostenere Capristo, ma anche di altri interventi effettuati, innanzitutto quelli su Luca Palamara, anche lui al tempo membro del Csm. «Il Calafiore rivelava l'interesse economico concreto di Amara su Taranto, sia per l'aspetto professionale sia in relazione alle società a lui riconducibili, e riferiva del comportamento fattivo tramite il Paradiso, consistito nell'intercessione presso la Casellati, nell'indicazione della persona di Fabrizio Centofanti per fare pressione su Palamara, nel consenso alla nomina prestato dalla consigliera Paola Balducci su interessamento dell'onorevole Francesco Boccia e su input di Paradiso e Capristo; rivelava inoltre che Amara aveva interessato della vicenda anche l'onorevole Luca Lotti», si legge nelle carte dell’accusa. La coppia Amara-Paradiso opera dunque per i pm a tutto campo, anche perché l’ex ministro del Pd Boccia, sentito dai pm lucani, «confermava che Capristo (o Paradiso, il politico non ricorda bene ndr) gli avevano chiesto informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm del Procuratore di Taranto, confermava di averne parlato con la Balducci, la quale gli riferiva che il Capristo era uno dei "papabili"». Boccia (non indagato) escludeva di aver fatto pressioni di sorta.

«Nessun illecito». Ma l’attività di “relazioni istituzionali” degli arrestati nei confronti delle alte cariche dell’organo di autogoverno della magistratura, secondo i magistrati di Potenza, non sono penalmente sindacabili. Tanto che l’ordinanza precisa chiaramente che «sia in fatto che in diritto, l'attivazione Amara-Paradiso con attività di lobbing per la nomina del Capristo a Taranto non implica alcuna indagine sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Csm». Una questione estranea alla richiesta del pm nel procedimento «e in relazione alla quale non viene delineato alcun profilo di rilevanza penale, che del resto esulerebbe dalla competenza di quest'ufficio». Se c’è scandalo, insomma, non è giudiziario. Ma “solo” politico: chat e interrogatori che disegnano un sistema in cui faccendieri e poliziotti sono in grado di avvicinare membri del Csm, politici e potenti per chiedere favori e raccomandazioni all’amico da far promuovere per il proprio tornaconto non sarà illegale. Ma non fa certo bene all’immagine delle istituzioni repubblicane e della magistratura.

Nicola Nicoletti, guai e affari del superconsulente che comandava all'Ilva. Collaboratore di Eni, Enel e dell'associazione degli industriali, è stato per anni il manager di fiducia dei commissari del gruppo siderurgico. E intanto, secondo i pm che indagano sul sistema Amara, ha partecipato a un'associazione per delinquere che ha insabbiato le inchieste sull'acciaieria. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 23 giugno 2021. Negli atti dell’inchiesta giudiziaria su Piero Amara e la sua rete di favori e corruzione, Nicola Nicoletti viene fotografato dagli inquirenti con due parole, «lanciato e rampante», che ne riassumono le ambizioni e il potere. Il manager di origini pugliesi, agli arresti da martedì 8 giugno, era diventato in pochi anni una sorta di direttore ombra dell’Ilva di Taranto, nonché referente diretto di Enrico Laghi, uno dei tre commissari dell’acciaieria in amministrazione straordinaria. È proprio lui, Nicoletti, a presentare Piero Amara al magistrato Carlo Maria Capristo, chiudendo così il cerchio di un’associazione per delinquere che secondo la tesi dell’accusa ha asservito la giustizia alle trame di una cricca di affaristi. Tanto potere non si spiega solo con l’abilità di un professionista, classe 1967, che in trent’anni di carriera si era fatto conoscere e apprezzare nelle maggiori aziende del Paese, dall’Eni all’Enel, e anche ai vertici di Confindustria, dove era diventato consulente per la legge 231, quella sulla responsabilità penale d’impresa. La chiave della scalata porta il marchio di Pricewaterhouse Coopers, in sigla Pwc, la multinazionale della consulenza aziendale e della revisione contabile di cui Nicoletti è partner e azionista sin dal 2007. Pwc che in Italia vanta un giro d’affari di oltre mezzo miliardo di euro, è da tempo una presenza fissa all’Ilva. Risale a pochi mesi fa, per esempio, l’incarico ricevuto da Arcelor Mittal in vista dell’ingresso dello Stato nel capitale del gruppo siderurgico. Nicoletti invece è sbarcato a Taranto nel 2013, chiamato dall’allora commissario Enrico Bondi. In quell’anno Pwc ottenne il primo mandato per «l’integrale revisione della organizzazione aziendale e del modello di gestione», come si legge in un documento dell’epoca. Negli anni successivi, almeno fino al 2018, l’incarico è stato sempre rinnovato. I commissari vanno e vengono, il consulente resta. A gennaio del 2015, Laghi e Corrado Carrubba affiancarono Gnudi, che nel frattempo aveva sostituito Bondi. Nicoletti diventa la «cinghia di trasmissione» tra i dirigenti di Ilva e la struttura dell’amministrazione straordinaria, per usare le parole, raccolte dai pm, del testimone Angelo Loreto, a lungo legale di fiducia dell’acciaieria. Nel 2016, dopo l’uscita a inizio anno del direttore generale Massimo Rosini, il potere del manager targato Pwc aumentò ancora, grazie soprattutto al rapporto diretto con Laghi. La svolta decisiva della storia, quella che secondo l’accusa porta Nicoletti a inserirsi da protagonista in una rete di favori illeciti e corruzione, arriva con la nomina di Capristo a procuratore capo di Taranto. Siamo a marzo del 2016, il magistrato che da Trani aspirava a un posto di vertice a Bari, ripiega sulla città dell’acciaieria grazie, sostengono i magistrati, al lavoro di Amara dietro le quinte del Csm. Poltrone, potere e soldi: ce n’è per tutti. Bisogna festeggiare. E infatti, con il procuratore in procinto di insediarsi a Taranto, i tre sodali si incontrano nella casa romana di Amara in piazza San Bernardo per quella che sarà definita la «cena della vittoria». Grazie al legame con Capristo, ricostruiscono i magistrati, Nicoletti riuscì ad accreditarsi con i commissari, a loro volta interessati a garantirsi buoni rapporti con la procura che indagava sul fronte ambientale e anche per la morte di due operai. Amara, da parte sua, passò all’incasso già nel 2016 quando ottenne due incarichi da Ilva. A raccomandarlo fu l’amico Nicoletti, che aveva già incrociato all’Eni di cui entrambi erano consulenti. Dalle carte dell’inchiesta emerge però che quei mandati non passarono al vaglio del comitato di sorveglianza, chiamato per legge, tra l’altro, a vagliare le nomine decise dei commissari. I magistrati sospettano, e lo mettono nero su bianco nell’ordinanza di custodia, che Laghi avesse «cinicamente intuito che la nomina di Amara significava garantirsi buoni rapporti con il procuratore Capristo». Tempo un anno e nel 2018 la stella di Nicoletti si oscura. La sua caduta coincide con quella di Amara, arrestato in un’altra indagine per corruzione giudiziaria, quella sul pm di Siracusa, Giancarlo Longo. A giugno dello stesso anno l’incarico a Pwc per la riorganizzazione aziendale non venne rinnovato dai commissari di Ilva.

Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto. L'indagine riguarda presunti favori chiesti e ottenuti da Capristo in collegamento con l'ex Ilva di Taranto. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. L’ex magistrato Carlo Maria Capristo si sarebbe «venduto» all’avvocato siciliano Pietro Amara, l’uomo al centro delle presunte trame massoniche della loggia Ungheria, ottenendo un supporto nella nomina alla guida della Procura di Taranto e anche favori dall’amministrazione straordinaria dell’ex Ilva. E’ questo il tema dell’indagine che oggi ha portato la Procura di Potenza a eseguire l’arresto in carcere del legale siciliano e di un poliziotto barese, Filippo Paradiso, ritenuto stretto collaboratore di Capristo per cui invece è stato disposto soltanto l’obbligo di dimora a Bari avendo ormai lasciato la magistratura dopo l’arresto di maggio 2020. Ai domiciliari un avvocato di Trani, Giacomo Ragno, anche lui ritenuto amico di Capristo, e il commercialista Nicola Nicoletti, delegato dei commissari straordinari Ilva. I cinque sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione in atti giudiziari. Nell’inchiesta è coinvolto a piede libero anche l’ex gip di Trani, Michele Nardi, che secondo le indagini – basate anche sui racconti dell’imprenditore Flavio D’Introno– avrebbe utilizzato la sua funzione di ispettore ministeriale sostenendo Capristo come candidato alla nomina a procuratore di Trani in cambio di una «tutela» rispetto alle indagini di interesse di Nardi aperte all’epoca a Trani. Capristo, Nardi, D’Introno, Ragno, l’ex pm tranese Antonio Savasta, il commercialista Massimiliano Soave e il ragioniere Franco Maria Balducci e il carabiniere Martino Marancia sono infine indagati a piede libero per concussione con l’accusa di aver truccato due fascicoli di indagine della Procura di Trani, imponendo alle «vittime» di nominare Ragno come avvocato o Soave e Balducci come consulenti. Le misure cautelari sono firmate dal gip di Potenza, Antonello Amodeo. L’indagine parte dall’esposto anonimo che nel 2015 Amara aveva fatto recapitare alla Procura di Trani con l’obiettivo di far emergere l’esistenza di un complotto ai danni dell’amministratore delegato dell’Eni, De Scalzi: Capristo all’epoca procuratore avrebbe disposto «lo svolgimento di indagini anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime in considerazione della natura anonima dell’esposto, anche sollecitando in tale senso i colleghi co-delegati che invitava in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi che risultavano funzionali agli interessi di Amara». L’avvocato aveva infatti l’obiettivo «di rafforzare e “vestire” la tesi del complotto», così da accreditarsi come difensore dei vertici Eni. L’esposto verrà poi trasmesso, sempre « per compiacere le richieste di Amara», alla Procura di Siracusa dove finirà nelle mani del pm Giancarlo Longo (anche lui nel frattempo arrestato). Capristo avrebbe anche favorito Amara e Nicoletti, una volta diventato procuratore di Taranto, mostrandosi «più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’Ilva» su cui era in corso l’indagine recentemente arrivata a sentenza sul disastro ambientale. In questo modo – secondo l’accusa – Capristo avrebbe rafforzato nei confronti dell’amministrazione straordinaria «il convincimento che Amara e Nicoletti, nelle loro vesti di legale il primo e consulente factotum della amministrazione straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto». Questo avrebbe portato a uno scambio di favori: incarichi legali ad Amara da parte di Nicoletti per la difesa dell’amministrazione straordinaria Ilva, e come consulente per la «trattativa» con Capristo che avrebbe dovuto condurre l’amministrazione straordinaria ad un patteggiamento della pena per l’indagine Ambiente Svenduto, richiesta poi rigettata dal gip. Capristo, secondo l’accusa «manifestava apertamente (…) la sua posizione “dialogante” con il Nicoletti e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva determinando un complessivo riposizionamento» della Procura di Taranto «rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative» impostate dal suo predecessore, Franco Sebastio: questo sarebbe avvenuto, ad esempio, sollecitando un sostituto a «concedere la facoltà d’uso» dell’Altoforno 2 «nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’Ilva alle prescrizioni». A fronte di questi «favori», Nicoletti avrebbe imposto ad alcuni dirigenti dell’Ilva di farsi difendere dall’avvocato Giacomo Ragno. Capristo, Casellati grande donna, si è sempre battuta per me -  La presidente del Senato Elisabetta Casellati «è una grande donna...e si è sempre battuta per me». E' quanto scriveva all’amico Mimmo Cotugno il 28 marzo del 2018 l'ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in relazione alla vicenda della sua nomina. La chat è stata estratta da uno dei telefoni sequestrati agli indagati ed è riportata nell’ordinanza del Gip di Potenza secondo la quale l’avvocato Amara, per sostenere la nomina di Capristo, avrebbe avvicinato tramite il poliziotto Filippo Paradiso la presidente del Senato. «Se fossimo stati ancora a Trani - scrive Capristo all’amico - avremmo provveduto ad inviare un bel messaggio di congratulazioni alla presidente del Senato». E aggiungeva: «ha proprio ragione Mimmo caro...spero di invitarla quando potrà. E’ una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me...e io non dimentico». La Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo del 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomima di Capristo nel 2016, scrive il Gip, «dunque, aveva incontrato Amara, che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore del Capristo per il posto di procuratore di Taranto». Nell’ordinanza è riportata anche un’altra chat del luglio del 2017, estratta dal telefono di Luca Palamara, in cui quest’ultimo e il consigliere del Csm Francesco Cananzi parlano di Capristo «di cui si direbbero 'cose pessime'.» Palamara, scrive il Gip, «proseguendo scriveva 'purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato', evidentemente alludendo al "peso" delle pressioni ricevute per la nomina di Capristo, nonostante questi godesse di "pessima reputazione"». Legali di Capristo: «Ha sempre agito correttamente» - Carlo Maria Capristo «ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto». Lo hanno scritto - in una nota - gli avvocati difensori, Angela Pignatari e Riccardo Olivo. Riferendosi alle accuse al centro dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, i legali di Capristo hanno evidenziato che si tratta di «fatti per lo più già passati al vaglio di altre Autorità giudiziarie, che non ne avevano ravvisato elementi di illiceità, ed assai risalenti nel tempo».  «Il più recente» dei fatti "sarebbe cessato - hanno aggiunto gli avvocati Pignatari ed Olivo - nel luglio di due anni orsono, gli altri si collocano dal 2008 al 2016». «Riservando ad una attenta disamina dell’ordinanza ogni valutazione sul merito delle accuse», i legali di Capristo hanno comunque sottolineato che «queste considerazioni, unite alle dimissioni dall’ordine giudiziario a far data dal 25 maggio 2020, rendono palese la mancanza di esigenze cautelari necessarie per giustificare nei suoi confronti l’obbligo di dimora nel comune di residenza (e non già “presso la propria abitazione”, come erroneamente riferito nel comunicato stampa diffuso dal Procuratore di Potenza. In ogni caso, nel merito - hanno concluso i due avvocati - sarà dimostrato che il dottor Capristo ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto». 

Arresti Potenza, Presidente Senato: «Paradiso era amico di Gianni Letta». Procura: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. Filippo Paradiso, il poliziotto barese stretto amico di Carlo Maria Capristo arrestato nell’ambito dell’inchiesta di Potenza, ha lavorato per i vertici dello Stato, da ultimo nello staff del presidente del Senato, Elisabetta Casellati (già componente del Csm), che sul punto è stata sentita a Roma il 10 luglio 2020. Casellati ne racconta i rapporti stretti con l’entourage di Berlusconi, in particolare con Gianni Letta. Ecco il verbale.

Domanda: conosce Filippo Paradiso. Se si quando e come lo ha conosciuto?

CASELLATI: «Conosco Filippo Paradiso. Non ho ricordi precisi, ma posso dire che il primo incontro con lui risale, credo di ricordare, all'autunno del 2015, ad una cena dell'associazione Giovanni XXIII. lo collaboravo con l'associazione e, all’epoca, anche con Don Benzi. E nell'ambito di questa collaborazione venne organizzato un convegno, credo di ricordare, nella prima parte del 2016. Filippo PARADISO è un funzionario di polizia, del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene, per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi, quando aveva lavorato alla presidenza del Consiglio. Sì manifestava come uomo dì idee riferibili al centrodestra e per tali ragioni propose la sua candidatura per il partito, chiedendomi di caldeggiarla in quanto esponente della prima ora del partito, candidatura che poi non venne accettata. A seguito di tale fatto. Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff, nel frattempo, nel marzo dei 2018, sono stata eletta Presidente del Senato. Io lo accolsi nel mio staff a ottobre del 2018 a titolo gratuito, nella qualità di consigliere, per l'organizzazione di convegni, in realtà avevo in animo di sostituirlo con il dr. Galoppi alla fine della sua esperienza al CSM come consigliere, cosa che nei fatti è avvenuta, dal gennaio 2019. Durante il periodo di nostra conoscenza, per quanto io possa ricordare, avrò incontrato il Paradiso 7-8 volte, sia nei periodo in cui ero membro del CSM (ricordo che sì è trattato di un periodo di lavoro molto intenso, con un mio impegno presso le commissioni Terza, Quarta e Quinta (quella che si occupa di nomine, ndr) anche in funzioni di Presidente della Terza, sia nel periodo successivo, più raramente. Nel periodo in cui ero al CSM mi parlava di questioni di geografia giudiziaria, molto generali. Non ho memoria di interlocuzioni su specifiche questioni o specifiche nomine. Nel periodo successivo, mi interfacciai con luì per delle partecipazioni al salone della Giustizia, del quale egli era uno degli organizzatori, e le pochissime volte in citi lo incontrai al Senato, dove non veniva quasi mai». (…)

Domanda: «Paradiso le ha mai parlato delle nomine cui era interessato il dottor Capristo?».

CASELLATI: «Premesso che sono stata relatrice delia pratica relativa alla nomina del Procuratore generale di Bari, in quell’occasione la mia proposta, che era la nomina di Capristo, risultò perdente. Poi Capristo venne nominato all'unanimità a Taranto anche se in questo caso io non ero il relatore. Paradiso anche in questo caso, per quanto io ricordi, non ha mai interloquito con me in ordine alle domande presentate dal dottor Capristo».

«In sostanza, - annota il gip Amodeo - la Presidente Casellati, nei confermare la sua conoscenza ed i suoi rapporti con il PARADISO, riferiva che, a sua memoria, Paradiso non aveva mai interloquito con lei in ordine alle nomine di Longo e Capristo e di non ricordare (né escludere) l’incontro con Longo per intermediazione del Paradiso». Tuttavia l’avvocato Giuseppe Calafiore, stretto collaboratore di Amara, ha invece riferito ai pm di Potenza che esisteva una lunga lista di persone che si era mossa per agevolare la nomina di Capristo: tra queste non solo Casellati ma anche l’ex ministro pugliese Francesco Boccia.

Anche Boccia è stato ascoltato il 21 luglio 2020 e – riassume in ordinanza il gip Amodeo - «ricordava di essersi interessato per la nomina di Capristo quale procuratore di Taranto, ma non rammentava se la sollecitazione provenisse da Capristo o da Paradiso o da entrambi. Ammetteva di avere, pertanto, chiesto alla Balducci, componente del CSM, aggiornamenti sul punto, ricevendo comunicazione che Capristo era uno dei “papabili”. [Boccia] escludeva, tuttavia, di avere fatto pressioni in tal senso su membri del Csm e di essere intervenuto su Lotti, compagno di partito, per favorire la nomina di Capristo». Il gip ha valorizzato anche i messaggi trovati nel telefonino di Capristo dalla Squadra mobile di Potenza, per concludere che «la Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomina di Capristo nel 2016, dunque, aveva incontrato Amara, che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore del Capristo per il posto di procuratore di Taranto».

«Dissequestrate Altoforno 4», così Capristo ai suoi pm. Sono alcuni degli elementi emersi dall’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza che oggi ha portato a quattro arresti e all’obbligo di dimora per l'ex procuratore. La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Nel 2016, in seguito all’incidente nell’ex Ilva di Taranto, che causò la morte dell’operaio Giacomo Campo, il Procuratore della Repubblica, Carlo Mario Capristo, "riceveva indicazioni» dall’avvocato Piero Amara per la nomina di Massimo Sorli quale consulente tecnico. Inoltre lo stesso Procuratore «sollecitava i suoi sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’Afo (Altoforno) 4, poi avvenuto in 48 ore». Sono alcuni degli elementi emersi dall’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza che oggi ha portato a quattro arresti e all’obbligo di dimora per Capristo. E, da Procuratore della Repubblica di Taranto, Capristo, "manifestava apertamente, all’esterno e all’interno del suo ufficio la sua posizione dialogante» con Nicola Nicoletti, consulente dei commissari Ilva in amministrazione straordinaria, accreditando così lo stesso Nicoletti e Amara «come elementi indispensabili» per la gestione dei rapporti con l’autorità giudiziaria. Secondo gli investigatori coordinati dalla Procura della Repubblica di Potenza, da parte di Capristo c'era inoltre una "benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale», determinando «un complessivo riposizionamento del suo ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose strategie processuali e investigative manifestate dalla Procura della Repubblica diretta dal suo predecessore». Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina».

Ex Ilva, arrestato l’avvocato Amara. su Il Dubbio l'8 giugno 2021. L'uomo al centro dello scandalo verbali che ha travolto il Csm è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria. In uno sviluppo dell’inchiesta condotta dalla Procura di Potenza sull’ex procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, sono state disposte nuove misure cautelari in un filone riguardante l’ex Ilva di Taranto per presunti favori ad un imprenditore nei rapporti di lavoro con l’azienda siderurgica. Le misure riguardano l’avvocato siciliano Pietro Amara, l’ex procuratore Capristo, l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e il poliziotto Filippo Paradiso. Nei confronti di Capristo è stato disposto l’obbligo di dimora. Amara, l’uomo al centro dello scandalo verbali che ha travolto il Csm, è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti con Capristo. L’indagine nasce dal fascicolo, di cui la Procura di Potenza è competente per il coinvolgimento di magistrati, che portò all’arresto di Capristo il 19 maggio dello scorso anno quando l’ex procuratore capo della Procura jonica finì ai domiciliari con l’accusa di presunte pressioni a due magistrati insieme a tre imprenditori e ad un poliziotto. Per questa vicenda è iniziato il processo al Tribunale di Potenza.

Csm, il sistema Amara anche sull'Ilva. "Un pm amico per fermare le indagini”. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica il 9 giugno 2021. Arrestato l'avvocato già al centro dell'inchiesta sulla loggia Ungheria: è accusato di aver corrotto l'ex procuratore di Taranto, Capristo, dopo pressioni sul Csm per nominarlo. Obiettivo: manovrare il processo sull'inquinamento. La storia è quella a cui, da qualche tempo, ci si è quasi abituati: "Giustizia svenduta", per citare le parole del gip di Potenza, Antonello Amodei, da magistrati infedeli. E acquistata da affaristi, interessati a fare soldi. Nel ruolo dell'acquirente, insegna la cronaca degli ultimi anni, si trova spesso l'avvocato Piero Amara, legale siciliano condannato per corruzione in atti giudiziari, cuore dell'inchiesta di Perugia (e prima di Milano e in parte di Roma) sulla fantomatica loggia Ungheria, e da ieri in carcere su ordine del tribunale di Potenza: per il procuratore Francesco Curcio ha corrotto pm e pubblici ufficiali per far ottenere favori processuali ai suoi clienti.

Capristo, dal Petruzzelli alle agenzie di rating. Le inchieste della toga amante del karaoke. Bepi Castellaneta l'8/6/2021 su Il Corriere della Sera. Dall’inchiesta sull’incendio del teatro Petruzzelli di Bari a quella di Trani sulle agenzie di rating con il coinvolgimento di colossi della finanza internazionale; il tutto passando tra l’altro per il settore bancario con le verifiche sulle carte di credito revolving di American Express, ma anche per lo sconfinamento in campo televisivo con gli accertamenti sulle presunte pressioni berlusconiane per chiudere la trasmissione Annozero di Michele Santoro. Non si può certo dire che gli anni in toga di Carlo Maria Capristo, 68 anni, gallipolino di nascita ma barese di adozione, in magistratura dai primi anni Ottanta, appassionato di musica e karaoke nonché amante degli animali, siano passati inosservati. Tutt’altro. E questo già prima dell’approdo al vertice della Procura di Taranto dove il 6 maggio del 2016, durante la cerimonia di insediamento, assicurò: «Sono contrario alla spettacolarizzazione del processo Ilva come di altri processi». Fatto sta che proprio a Trani, dove Capristo è stato a lungo procuratore, si sono accavallate inchieste clamorose e altrettanto fragorose, puntualmente accompagnate da aspre polemiche e scandite da giornate complicate con ripetute sfilate di testimoni eccellenti ritenuti evidentemente indispensabili. Al punto che il Palazzo di giustizia della città, gioiello incastonato in uno scenario da cartolina tra la Cattedrale e l’Adriatico a una quarantina di chilometri da Bari, in quegli anni tumultuosi schizzò ben presto sotto i riflettori nazionali e internazionali trasformandosi nell’epicentro di un terremoto giudiziario che allungava le sue scosse persino all’estero. Come nel caso dell’inchiesta sulle agenzie mondiali di rating accusate di aver manipolato il mercato danneggiando l’Italia, un’indagine finita nel 2017 con una raffica di assoluzioni; ancora prima era invece evaporata in un’archiviazione quella sulle presunte pressioni di Silvio Berlusconi per la chiusura di Annozero. In realtà Capristo si è occupato di grandi inchieste anche in precedenza, soprattutto durante gli anni da sostituto procuratore nella sua Bari dove è molto noto per aver condotto le indagini sull’incendio doloso del teatro Petruzzelli, distrutto dalle fiamme il 27 ottobre del 1991. E pure allora furono polemiche, in particolare quando decise di ascoltare in ospedale un indagato malato terminale di Aids. Al centro delle indagini c’era l’ex gestore Ferdinando Pinto: alla fine fu assolto in via definitiva.

Le mani di Piero Amara sull’Ilva di Taranto: spunta un “patto” con il procuratore sulla pelle di due operai morti sul lavoro. Nelle pieghe dell’ordinanza che ha portato all’arresto dell’avvocato corruttore di magistrati emergono le anomalie delle indagini dopo due gravissimi incidenti mortali negli impianti dell’acciaieria. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 9 giugno 2021. Un patto corruttivo che getta un’ombra sull’azione della giustizia nei confronti delle famiglie di due operai morti sul lavoro all’Ilva di Taranto. Con dissequestri lampo dopo gli incidenti, e quindi con indagini che sarebbero iniziate già con il piede sbagliato. Nelle pieghe dell’ordinanza del Gip di Potenza che ha portato agli arresti l’avvocato corruttore di giudici e aggiusta sentenze Piero Amara e all’emissione dell’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Trani, prima, e poi di Taranto Carlo Capristo, emergono le posizioni a dir poco morbide di un pezzo della procura che su quelle morti ha indagato subito dopo gli incidenti. Con una magistrata che ha poi detto ai colleghi di Potenza di essersi sentita «delegittimata» da Capristo in alcune occasioni proprio in riferimento ai due incidenti sul lavoro che sono costati la vita ad Alessandro Morricella, che il 12 giugno del 2015 è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente mentre misurava la temperatura di colata dell'altoforno 2, e a Giacomo Campo, che il 17 settembre del 2016 è rimasto schiacciato nel nastro trasportatore dell’altoforno 4. Secondo i magistrati di Potenza, coordinati dal procuratore Francesco Curcio, c’era un patto corruttivo tra Amara e Capristo, tramite il poliziotto e già componente dello staff della presidente del Senato Casellati, e poi del sottosegretario agli Interni Sibilia, Filippo Paradiso. Amara e Paradiso si sarebbero spesi, tramite le loro influenze e contatti con componenti di peso del Csm, per far nominare Capristo a Taranto, in cambio quest’ultimo avrebbe agevolato le posizioni degli enti difesi da Amara: l’Ilva, in amministrazione speciale, e l’Eni. Nelle trecento pagine dell’ordinanza si punta sul giro di influenze di questa banda di avvocati e faccendieri, con contatti che andavano da Casellati a Boccia, da Ferri ad Ermini e Verdini. E per i magistrati di Potenza, che hanno chiesto è ottenuto dal Gip Antonello Amodeo le misure cautelari non solo per Amara e Capristo, ma anche per consulenti come Nicola Nicoletti della Pwc e legali come Giacomo Ragno, in cambio Capristo si sarebbe messo a loro disposizione. Tanto che, si legge nell’ordinanza, i magistrati parlano di «stabile asservimento di Capristo e delle sue funzioni agli interessi degli indagati». Asservimenti che si sarebbero concretizzati anche in occasione delle indagini e delle azioni della procura all’indomani delle due morti sul lavoro. Come nel caso dell’operaio Campo, dipendente di una ditta esterna, che rimaneva stritolato nel nastro trasportatore che alimentava l’altoforno 4. Scrive il Gip: «In tale procedimento - nel contesto del descritto patto corruttivo con Capristo - Nicoletti aveva fatto sì che Ilva nominasse Amara quale difensore della persona giuridica (nomina del 19.9.16) e che l'interessato-indagato dirigente Ilva, Ruggiero Cola, nominasse Ragno quale difensore di fiducia». Fin qui non ci sarebbe nulla di anomalo. Ma sono le azioni di Capristo che, a dire dei magistrati di Potenza, paleserebbero il patto corruttivo. Capristo, dopo la morte di Campo, si sarebbe adoperato «in prima persona affinché́ si procedesse con massima sollecitudine al dissequestro dell’altoforno, poi avvenuto in 48 ore, peraltro sulla basa di un assunto conforme alla tesi dell'Ilva ma risultato infondato». La procura di Taranto infatti, aveva dissequestrato ritenendo che il mancato funzionamento dell'Altoforno e, quindi, il suo raffreddamento, avrebbe determinato la rottura dei refrattari che avvolgono la struttura dell'impianto con conseguente immissione di gas nell’aria. La procura ha nominato come perito un ingegnere suggerito da Amara: Massimo Sorli che «partiva da Torino la domenica stessa, 18 settembre 2016, giungendo a Taranto con volo aereo pagato da Amara tramite suo prestanome, Miano Sebastiano». Ma c’è di più. Non solo Capristo faceva questa nomina lampo, ma in conferenza stampa, poche ore dopo l’incidente, adombrava l’ipotesi che i dirigenti dell’Ilva potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno. «In particolare – si legge nell’ordinanza - insinuava esplicitamente in alcuni giornalisti il dubbio del sabotaggio e nella conferenza stampa tenuta poche ore dopo il dissequestro lasciava intendere agli organi di stampa che non si trascurava l'ipotesi investigativa secondo cui il sezionamento del nastro trasportatore potesse essere riconducibile a forze interne ed esterne all' llva che remavano contro il risanamento ambientale».  A riscontro di questa tesi i magistrati riportano il verbale di un legale dell’Ilva, Loreto, che ha detto: «I contatti con Nicoletti quel sabato furono reiterati e ricordo che ad un certo punto mi disse che aveva visto il Capristo che gli aveva assicurato che la cosa si sarebbe risolta e che l'llva e i suoi dirigenti non sarebbero stati coinvolti perché era evidente che la responsabilità  era della ditta appaltatrice, di cui Campo era dipendente e che provvedeva alla manutenzione del nastro». Solo lo scorso anno la procura di Taranto ha chiesto il giudizio di nove tra dirigenti e  responsabili dell’Ilva per la morte di Campo. L’ex procuratore Capristo, secondo la procura di Potenza,  ha un atteggiamento anomalo anche nelle indagini sulla morte dell’operaio Morricella. Il 16 giugno del 2020 viene ascoltata la magistrata Antonella De Luca: «Con riferimento ai procedimenti relativi all’Ilva di Taranto, mi sono occupata di un caso di un incidente sul lavoro - il caso Morricella. Inizialmente, con l’allora procuratore Sebastio, disponemmo d'urgenza il sequestro dell'altoforno - poi convalidalo e confermato. Successivamente venne emanato un decreto che rendeva inefficaci i sequestri di impianti di interesse nazionale. Venne sollevala questione di legittimità costituzionale della norma. Nel febbraio 2018 la Corte Costituzionale si pronunciò a nostro favore. Questo rafforzava la nostra posizione e consentiva certamente di revocare l'uso dell'altoforno. Dopo tale pronunciamento della Corte Costituzionale, ricordo vari incontri l’avvocato dell’Ilva, Loreto che erano, a mio avviso, troppo frequenti e  inopportunamente avallati dal Procuratore Capristo. Capristo spesso mi convocava in occasione di istanze difensive o di provvedimenti giurisdizionali, alla presenza del Loreto, quasi per prendere decisioni in contradditorio con lui ovvero per esternare allo stesso le nostre convinzioni in merito alle scelte processuali nostre e alle decisioni giurisdizionali prese. Con il procuratore Capristo ogni qual volta venisse presa una decisione dalla Procura seguiva un incontro con gli amministratori e soprattutto con Loreto». E si arriva al cuore della vicenda Morricella. Continua De Luca a verbale: «Nel momento cruciale del procedimento Morricella, venuta meno grazie alla Corte Costituzionale la norma che impediva il sequestro degli impianti, si doveva a mio avviso dare ordine di esecuzione dell'originario sequestro dell'Altoforno. Su questo argomento Capristo era in disaccordo. Tuttavia io ne ero convinta e lo stesso procuratore aggiunto Carbone in mia presenza disse a Capristo che era inevitabile l'ordine di esecuzione. Ripeto, Capristo mi disse che non voleva sentire parlare di spegnimento del forno e nei giorni successivi cominciò una serie di incontri con gli amministratori e Loreto. La cosa mi diede fastidio. Mi sentivo quasi delegittimata». Capristo, continua il Gip, dapprima sollecitava il pm titolare delle indagini a concedere la facoltà d'uso dell’altoforno, «nonostante l'accertata parziale inadempienza da parte dell'Ilva alle prescrizioni; poi concordava con Nicoletti, che conseguentemente esercitava pressioni sull'avvocato Francesco Brescia (dell'ufficio legale ILVA) affinché l'operatore sul "campo di colata" fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell'azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al pm titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’ingegnere Ruggero Cola, difeso dall'amico avvocato Ragno, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta archiviazione (senza raggiungere l'intento grazie alla opposizione del pm che non aderiva alla impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del pm titolare - induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facoltà d'uso”. 

Taranto: un’altra pagina Amara fatta di tresche, intrighi e toghe corrotte. La Procura di Potenza arresta l’avvocato e altri magistrati per le vicende oscure legate all’ex Ilva. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Il tappo è saltato. A quanto pare l’enigmatico avvocato siracusano Pietro Amara, implicato in diverse vicende giudiziarie dall’Eni all’Ilva ed altro ancora e che avrebbe corrotto numerosi magistrati e funzionari pubblici e che con le sue rivelazioni, da “pentito”, ha fatto tremare e continua a far tremare il Consiglio Superiore della Magistratura, alti funzionari dello Stato e delle forze dell’ordine, non avrebbe più “protezioni”. Indagato da diverse procure ma non da quella di Milano dove era considerato un testimone chiave nell’inchiesta sull’ Eni, ieri l’avvocato Pietro Amara, è finito in carcere perché destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito di un’inchiesta che riguarda presunti favori relativi a procedimenti che riguardavano l’ex Ilva di Taranto. E con lui sono finiti nell’inchiesta altri eccellenti indagati, come l’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, arrestato un anno fa per concussione e ieri destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora. Amara è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti – che la Procura di Potenza considera illeciti – con Capristo. Ed ancora, agli arresti domiciliari è finito l’avvocato tranese Giacomo Ragno (già condannato nell’ambito del processo sul “Sistema Trani”, che svelò atti di corruzione degli ex magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta) nonché Nicola Nicoletti, socio di Pwc (PricewaterhouseCoopers) e già consulente Ilva. In carcere anche il poliziotto Filippo Paradiso, che avrebbe fatto da tramite tra Capristo e Amara. Sono indagati anche l’ex pm di Trani Antonio Savasta, l’ex gip Michele Nardi (già condannati per corruzione in atti giudiziari a 10 anni e 16 anni e 4 mesi); il consulente Massimiliano Soave, l’imprenditore Flavio D’Introno; il carabiniere Martino Marancia e Franco Balducci. Le ipotesi di reato contestate a vario titolo sono abuso d’ufficio, favoreggiamento, corruzione in atti giudiziari, corruzione nell’esercizio delle funzioni, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, concussione. Gli arresti di ieri non sono un fulmine a ciel sereno, ma incredibilmente, l’avvocato Amara, con la sua presunta o vera collaborazione con la procura di Milano dove ha scatenato un vero e proprio terremoto all’interno del palazzo di giustizia del capoluogo lombardo, se l’era cavata senza troppi danni. Dei rapporti non proprio legali tra l’avvocato Amara e l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo che a quanto pare deve la sua nomina proprio all’avvocato Amara e ad alcuni componenti del Csm che avevano approvato la sua nomina, erano stati denunciati un anno fa dal coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli. Che adesso, dopo gli arresti di ieri, ricorda: “Se l’accusa fosse confermata sarebbe di una gravità inaudita, perché sono anni che come Verdi avevamo chiesto al CSM di intervenire sulla gestione Capristo a Taranto”. Ribadisce il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli che aggiunge. “Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al CSM di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo “Ambiente Svenduto” partecipava anche l’avvocato Piero Amara coinvolto nel processo Eni o sistema Siracusa, inchiesta che coinvolse il 2 luglio anche il procuratore Capristo”. E, continua ancora Bonelli: “Nonostante le vicende giudiziarie di Amara fossero pubbliche, perché coinvolto nello scandalo delle sentenze pilotate del Consiglio di Stato – continua l’esponente dei Verdi – l’avvocato partecipò a delle riunioni in procura insieme all’ufficio commissariale per analizzare la vicenda del patteggiamento su Ilva. Il Csm non intervenne mai – ricorda Bonelli – e il procuratore Capristo rispose dopo poche ore alla mia richiesta al Csm affermando che l’avvocato Amara non era stato invitato dalla procura ma dall’ufficio commissariale: perché una persona indagata per corruzione e poi arrestata poteva partecipare a riunioni negli uffici della procura che riguardavano l’andamento del processo Ambiente Svenduto? Perché dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia a Capristo, 2 luglio 2019, per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Eni la stessa inchiesta dover era coinvolto l’avvocato Amara, il Csm non adottò nessun provvedimento e Capristo continuò a guidare la procura fino al 2020?”. “Una domanda a questo punto si rende necessaria: perché il CSM nominò il dottor Capristo alla guida della procura di Taranto, una città martoriata che ha pagato e paga un prezzo drammatico di vite umane?”. Insomma l’arresto di Pietro Amara da parte della Procura di Potenza potrebbe essere un segnale che ormai l’avvocato siracusano, non godrebbe più di quelle protezioni di cui fino ad ora ha goduto. L’avvocato Amara è custode di tanti segreti e tanti intrighi, non ultime le rivelazioni che ha fatto nei mesi scorsi alla Procura di Milano al Pm Paolo Storari al quale svelò l’esistenza di una loggia supersegreta “Ungheria” della quale, secondo Amara, farebbero parte esponenti politici, di varie istituzioni e soprattutto molti magistrati. Una lista di nomi di cui Amara conferma l’esistenza ma che non ha mai svelato ai magistrati. Dichiarazioni che hanno provocato uno scontro accesissimo all’interno della Procura di Milano che ha coinvolto anche l’ex componente del Csm e del pool di Mani Pulite Pier Camillo Davigo al quale Storari, avrebbe consegnato i verbali delle dichiarazioni di Amara che poi furono inviati dall’ex segretaria al Csm di Pier Camillo Davigo, ai giornali “Il Fatto Quotidiano” e “Repubblica” che però non pubblicarono quei verbali ma che comunque sono poi venuti fuori e sui quali non è stato fatto ancora chiarezza. Il ciclone Amara ormai ha intasato varie procure, dopo quella di Milano indaga anche quella di Perugia perché sono coinvolti alcuni magistrati romani e quella di Roma. Ma qualcuno potrebbe fare chiarezza? La Procura di Potenza sembra avere rotto gli argini e le “protezioni” di cui Amara, con le sue rivelazioni che alcuni considerano devastanti e preoccupanti, sembrano essere saltate. Insomma Potenza potrebbe essere un “apripista” per fare chiarezza su queste torbidissime vicende che ancora una volta testimoniano la grande influenza e relazioni ad alto livello che Amara aveva intessuto con mezzo mondo, pilotando sentenze e nomine al Consiglio Superiore della Magistratura ed in altre istituzioni statali.

I contatti lucani del sistema Amara, per i pm al centro di tutto c'era un poliziotto materano. Nella sua rete anche la presidente del Senato, Casellati, oltre a Capristo e al procuratore della città dei Sassi, Argentino. Leo Amato su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Sarebbe stato un poliziotto originario di Matera, Filippo Paradiso, a presentare l’avvocato Piero Amara all’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. Ma anche chi teneva i rapporti con diversi esponenti del Consiglio superiore della magistratura, come l’attuale presidente del Senato Elisabetta Casellati. E chi avrebbe propiziato l’assunzione nello studio di Amara, all’epoca consulente dell’amministrazione straordinaria dell’Ilva, di uno dei magistrati che più a lungo si è occupato delle indagini sull’acciaieria. Vale a dire l’attuale procuratore di Matera, Claudio Argentino. È quanto emerge dagli atti dell’inchiesta della procura di Potenza per cui ieri sono finiti in carcere sia Paradiso che l’avvocato siciliano, alla ribalta da settimane per le sue dichiarazioni ai pm di Milano sull’esistenza di una presunta superloggia massonica segreta “Ungheria” composta da magistrati ma anche forze dell’ordine, alti dirigenti dello stato e alcuni imprenditori». Dichiarazioni che hanno acceso uno scontro senza precedenti anche all’interno del Csm. A svelare agli inquirenti il ruolo di «relation man» di Paradiso, secondo la dizione utilizzata dai magistrati, sarebbe stato un ex socio di Amara, Giuseppe Calafiore, coinvolto nell’inchiesta sulla compravendita di sentenze in Consiglio di Stato e il cosiddetto «sistema Siracusa, per cui vennero entrambi arrestati nel 2018. Ai pm di Perugia, che poi hanno trasmesso i verbali a Potenza, Calafiore aveva raccontato dei soldi che Amara passava al poliziotto curargli buone relazioni romane, e andare «a cena con diversi membri del Csm». Come pure di un incontro propiziato da Paradiso tra un magistrato, che aspirava a una nomina da parte del Csm, ed Elisabetta Casellati, all’epoca ancora soltanto membro laico dell’organo di autogoverno della magistratura. A luglio dell’anno scorso, quindi, l’attuale presidente del Senato è stata sentita come persona informata dei fatti ed ha confermato di averlo conosciuto, nel 2015. Come pure di averlo anche assunto per un periodo nel suo staff, «a titolo gratuito». Ma ha detto di non ricordare di aver parlato con lui di Capristo e delle sue aspirazioni di carriera come procuratore, prima a Bari e poi a Taranto. «È un funzionario di polizia – ha spiegato Casellati – del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi, quando aveva lavorato alla Presidenza del Consiglio (…) per quanto io ricordi, non ha mai interloquito con me in ordine alle domande presentate dal dottor Capristo». Sempre da Perugia sono stati trasmessi a Potenza anche alcuni dati estratti dallo smartphone dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, da due anni al centro dello scandalo sulle nomine pilotate al Csm. Ma «al fine di comprendere la effettiva entità della capacità relazionale» di Paradiso, il gip Antonello Amodeo, che ha firmato l’ordinanza eseguita ieri mattina dagli agenti delle Fiamme gialle di Potenza, cita anche un altro episodio «egualmente rilevante» riguardante il rapporto con Pietro Argentino, attuale procuratore di Matera ma «all’epoca procuratore aggiunto a Taranto». A raccontarlo agli inquirenti è stato uno dei legali dell’Ilva di Taranto, Angelo Loreto, che l’anno scorso, parlando con un giornalista senza sapere di essere intercettato, gli avrebbe confidato il retroscena dell’assunzione del figlio di Argentino nello studio di Amara. «Inizialmente Argentino ne aveva parlato proprio con Loreto», è riportato nel brogliaccio con la sintesi della conversazione effettuata dagli investigatori. «Successivamente proprio Loreto aveva appreso da Amara che la segnalazione (…) era andata a buon fine». «Secondo Loreto – prosegue il brogliaccio – detta comunicazione era stata fatta da Amara al telefono in modo tale da evitare qualsiasi riferimento al coinvolgimento di Paradiso. Tuttavia, così come riferitogli direttamente dal figlio del dottor Argentino, il buon esito della vicenda era da imputare proprio a Filippo Paradiso, che conosceva anche il dottor Argentino». Né il procuratore di Matera, né il figlio, né Loreto risultano iscritti sul registro degli indagati della procura di Potenza.

Il blitz della Procura di Potenza. Amara arrestato, tremano i magistrati: vuoterà il sacco? Paolo Comi su Il Riformista il 9 Giugno 2021. E adesso cosa succede? Molti magistrati, sicuramente, da ieri notte hanno bisogno di qualche dose massiccia di ansiolitico per poter prendere sonno. Piero Amara, dopo aver mandato per mesi messaggi trasversali e confidando di essere diventato il super pentito – intoccabile – di tutte le malefatte togate, è stato arrestato dalla Procura di Potenza. I pm lucani, a dire il vero, hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare da tempo i colleghi di almeno tre o quattro Procure. Amara, invece, per circostanze a questo punto tutte da verificare, era sempre stato graziato e lasciato in libertà. La doccia fredda per l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi in giro per l’Italia, è arrivata ieri mattina. Le indagini sono state condotte direttamente dal procuratore Francesco Curcio, toga progressista, il cui arrivo a Potenza, come si ricorderà, era stato alquanto travagliato. Curcio, dopo un lungo passato a Napoli, nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum. A gennaio dell’anno scorso, dopo un lungo contenzioso amministrativo, il Consiglio di Stato aveva annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Il Consiglio superiore della magistratura, allora, rimotivava la delibera di nomina, destinando nel frattempo la dottoressa Triassi alla Procura di Nola. Già magistrato della Dna, da pm a Napoli aveva indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, condividendo la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. In caso di trasferimento del procuratore di Napoli Giovanni Melillo a Milano, è uno dei candidati di punta per prenderne il posto. Amara, secondo Curcio, grazie all’appoggio dell’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, voleva farsi accreditare come legale esterno presso l’Eni e l’Ilva. Per raggiungere lo scopo aveva predisposto alcuni esposti anonimi, dalla “palese strumentalità”, prospettando “la fantasiosa esistenza di un preteso (e in realtà inesistente) progetto criminoso, che mirava, in modo ovviamente artificioso a destabilizzare i vertici dell’Eni e in particolare a determinare la sostituzione dell’amministratore delegato Descalzi che in quel momento era invece indagato dall’autorità giudiziaria di Milano”. L’avvocato siciliano si spendeva per “una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore di Capristo, su membri del Csm” insieme al poliziotto Filippo Paradiso, distaccato presso la Presidenza del Consiglio. Capristo, fino al 2016, era stato procuratore di Trani. Tale attività veniva svolta su membri del Csm, conosciuti “direttamente o indirettamente” e veniva svolta pure su “soggetti ritenuti in grado di influire su questi ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti d’interesse del Capristo”. Insieme ad Amara e Paradiso sono stati arrestati l’avvocato Giacomo Ragno e Nicola Nicoletti, già consulente esterno della struttura commissariale dell’Ilva. Solo obbligo di dimora per Capristo. Sequestrata la somma di 278.000 euro nei confronti di Ragno, pari all’importo delle parcelle professionali pagate da Ilva in suo favore. Altre cinque persone sono indagate, senza misure cautelari a loro carico. Fra questi gli ex magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi. Una storia, dunque, che ricorda in fotocopia quando accaduto a Siracusa. In Sicilia il magistrato prescelto era Giancarlo Longo che, secondo le intenzioni di Amara, doveva essere poi nominato procuratore di Gela, cittadina siciliana dove l’Eni ha una delle più grandi raffinerie del Paese. Ad Amara, circostanza molto curiosa, in questi anni nessun magistrato ha mai sequestrato un euro, essendo però evidente che le sue grandi ricchezze erano frutto di attività corruttive per aggiustare i processi. Quando il pm romano Stefano Fava aveva chiesto di arrestarlo, come raccontato nelle scorse settimane dal Riformista, il fascicolo gli era stato tolto al termine di uno scontro violentissimo con l’aggiunto Paolo Ielo e il procuratore Giuseppe Pignatone. Nel frattempo Amara, sempre a piede libero e con il conto in banca benfornito, aveva continuato a mandare messaggi trasversali. L’ultimo in ordine di tempo era quello relativo all’esistenza della loggia super segreta “Ungheria”. Sulle sue dichiarazioni a tal proposito ai pm di Milano per mesi non sono mai state fatte indagini. Circostanza che aveva determinato la consegna dei suoi verbali da parte del pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Amara, per non farsi mancare nulla, è al centro pure dell’inchiesta della Procura del capoluogo lombardo sul cosiddetto “falso complotto Eni”: ai magistrati milanesi aveva dichiarato che il presidente del collegio che ha giudicato i vertici del colosso petrolifero accusati di corruzione internazionale era stato avvicinato dai legali di questi ultimi. Da oggi si apre un altro scenario. Nessuna sorpresa intanto dall’altro fronte caldo, quello del caso Palamara. La Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, ha chiesto alle Sezioni Unite civili della Suprema Corte, di confermare la rimozione dell’ex leader dell’Anm dalla magistratura, così come deciso dal Csm lo scorso 9 ottobre. Per Salvi non ci sono motivi per rinviare la decisione definitiva sulla vicenda disciplinare di Palamara e nemmeno per mettere in discussione l’utilizzo delle intercettazioni del suo cellulare, infettato dal trojan come richiesto dalla difesa di Palamara, captazioni che hanno messo nei guai molti altri colleghi dell’ex presidente dell’Anm, che ambiva a fare l’Aggiunto nella capitale. Paolo Comi

Caso Capristo: la rete di Paradiso per l’amico giudice. Da domani interrogatori ad Amara, l'11 giugno all'ex procuratore. Ecco chi è il funzionario di polizia finito nel mirino della Procura di Potenza. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Giugno 2021. Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Filippo Paradiso è un uomo con un passato molto discusso, che lui stesso definisce «una terribile esperienza giudiziaria», ma che non gli ha impedito di frequentare le segreterie politiche dell’intero arco costituzionale. È stato lui a presentare l’avvocato Amara al procuratore Capristo. E con i suoi rapporti privilegiati - documenta l’indagine di Potenza - Paradiso è stato in grado di mettere insieme una squadra di altissimo livello per portare Capristo alla guida della Procura di Taranto. Chi è Paradiso? E perché ha «relazioni istituzionali» che gli permettono di trattare con ministri e magistrati? Chi indaga lo ha chiesto al suo ultimo datore di lavoro politico, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che per un breve periodo lo ha tenuto nel suo staff. «È un funzionario di polizia, del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene», ha detto a verbale Casellati, che lo ha ingaggiato «a ottobre del 2018 a titolo gratuito, nella qualità di consigliere, per l’organizzazione di convegni». Casellati (che dal 2014 al 2018 è stata membro laico del Csm) nega di aver fatto parte della «squadra» che ha sponsorizzato Capristo. Ma la Procura di Potenza valorizza un messaggino trovato nel cellulare di Capristo («È una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me») e un appuntamento con Amara organizzato da Paradiso, e annota che tra chi votò per Capristo, nel 2016, c’era anche la Casellati che però ieri ha smentito «di aver mai incontrato l’avvocato Amara». Secondo la Procura di Potenza non era l’unica amica. È l’avvocato Giuseppe Calafiore a fare l’elenco delle persone coinvolte nel piano dal suo ex socio Pietro Amara e da Paradiso: non solo componenti del Csm, ma anche politici e imprenditori di altissimo livello. «Emergevano, invero - oltre al più volte menzionato Palamara - i nomi dei componenti del Csm, Forciniti (Marco, togato di Unicost, ndr) e Balducci (Paola, laico ex vendoliano, ndr); gli onorevoli Boccia e Lotti; l’imprenditore Bacci, vicino alla famiglia Renzi, Sia Boccia che Bacci, sentiti sul punto, confermavano che Paradiso si era interfacciato con l’onorevole Boccia e che l’imprenditore Bacci aveva conosciuto Capristo tramite Paradiso». Anche l’ex ministro Boccia (nessuna delle persone citate in questo paragrafo è indagata) è stato sentito a Potenza come testimone, e ha confermato il suo interessamento escludendo qualunque tipo di pressione indebita: «Mi venne richiesto dal dottor Capristo o forse da Paradiso dì avere informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm per il procuratore di Taranto. In tale contesto ebbi a richiedere tali informazioni a Paola e appresi dalla Balducci stessa che Capristo era uno dei papabili per la nomina. Ben mi sono guardato, rispettando l’autonomia dell’organo, di fare pressioni o altro e semplicemente raccolsi questa informazione generica e ben nota». Nella «squadra», secondo Potenza, c’era anche l’ex gip tranese Michele Nardi. È un avvocato di Trani, Giuseppe Maralfa, a raccontare ai carabinieri un curioso episodio: a fine 2015, incontrato per caso Nardi in stazione a Barletta, il magistrato gli chiede un passaggio fino a casa e gli dice «che a breve Capristo sarebbe stato trasferito alla procura di Taranto e che al suo posto sarebbe arrivato Antonino Di Maio, sponsorizzato dallo stesso Nardi in quanto Di Maio conosceva Capristo e avrebbe garantito continuità. Maralfa replicava che non si parlava affatto di trasferimenti e di quei nomi, ma Nardi lo scherniva dicendo “ma tu che ne sai”». Una ricostruzione confermata dall’ex pm Antonio Savasta, condannato come Nardi per l’indagine di Lecce sulla giustizia svenduta. «Nardi mi riferì che sicuramente Capristo sarebbe andato a fare il procuratore a Taranto. Di seguito, con altrettanta sicurezza, Nardi mi precisò anche che a Trani sarebbe arrivato il dottor Di Maio come procuratore». E il grande accusatore dei giudici tranesi, Flavio D’Introno, racconta ancora un altro episodio: «Io aspettavo davanti la stanza dei procuratore e Nardi entrava nell'ufficio di Capristo per dare le indicazioni allo stesso Capristo».

GLI INTERROGATORI A POTENZA - Cominceranno domani dinanzi al gip di Potenza Antonello Amodeo gli interrogatori di garanzia degli arrestati nell’ambito dell’indagine su presunti episodi corruttivi per pilotare indagini penali, tra le quali quella sull'ex Ilva di Taranto, che coinvolge l’avvocato siciliano Piero Amara (finito in carcere) e l’ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo (per lui è stato disposto l’obbligo di dimora). Il primo interrogatorio fissato è quello di Filippo Paradiso, il poliziotto materano considerato il collegamento tra Amara e Capristo. Paradiso, assistito dagli avvocati Michele Laforgia e Gianluca Tognozzi, potrà rispondere domani alle domande del gip a partire dalle 10.30, collegato da remoto dal carcere. Poi toccherà ad Amara (non è noto quando), mentre non sono stati ancora fissati gli interrogatori degli altri due indagati che sono agli arresti domiciliari, l’avvocato tranese Giacomo Ragno e l’ex consulente di Ilva in AS Nicola Nicoletti, e dell’ex procuratore Capristo che è sottoposto alla misura dell’obbligo di dimora a Bari. «L'ipotesi di reato appare travisata in fatto ed erronea in diritto». Lo ha detto  l'avvocato Salvino Mondello, difensore dell’avvocato Piero Amara, arrestato ieri per corruzione in atti giudiziari nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza su vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. «La misura cautelare - ha aggiunto Mondello - non sembra giustificabile giuridicamente a fronte di fatti privi di qualsiasi attualità». Intanto si terrà domani mattina, alle ore 12, nel carcere di Potenza davanti al gip Antonello Amodeo, l'interrogatorio di garanzia dell’avvocato Piero Amara, arrestato ieri nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza su vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. La Guardia di Finanza e la Polizia ieri hanno eseguito anche una misura di custodia cautelare in carcere per il poliziotto Filippo Paradiso, e ai domiciliari per l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e per Nicola Nicoletti, che è stato consulente dei commissari dell’ex Ilva dal 2015 al 2018. La misura dell’obbligo di dimora a Bari è stata invece disposta per l’ex Procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo. 

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 9 giugno 2021. Inizia a dipanarsi la matassa che in questi anni ha avvolto la magistratura e soprattutto le inchieste collegate all' Eni. Filippo Paradiso (classe 1966), infatti - il poliziotto di Matera arrestato che lavora al Viminale insieme con il sottosegretario grillino Carlo Sibilia - era un fedelissimo di Piero Amara ma conosceva bene anche Vincenzo Armanna, il grande accusatore nel processo Opl 245 di Claudio Descalzi, l' amministratore delegato di Eni. I tre parlavano tra loro su Wickr, l' applicazione che consente messaggi criptati e non intercettabili. Lo si scopre leggendo le 306 pagine di custodia cautelare dove emerge una rete interna alle Procure di mezza Italia, che passa da Trani per arrivare fino a Milano. Era un sistema che non solo aveva l' obiettivo di controllare le nomine nei tribunali ma anche di coordinare le inchieste. Del resto l' ordinanza rivela come sarebbe stato proprio Paradiso a fornire ad Armanna i verbali secretati resi da Amara a Milano sulla loggia Ungheria, poi sventolati di fronte a Paolo Storari e Laura Pedio, prima che li ricevesse Piercamillo Davigo. «Avevo interesse a conoscere delle dichiarazioni» spiegò Armanna ai pm milanesi. «Mi sono rivolto a Filippo Paradiso attraverso Wickr». Non solo. Paradiso è anche il punto di congiunzione tra Amara e l' ex capo della Procura di Trani Carlo Capristo, nato quando uno dei falsi dossier contro Descalzi (creato da Amara) venne inviato nella Procura pugliese e che poi finì a Siracusa, all' ex pm Giancarlo Longo, altro sodale dell' avvocato siciliano. A Trani quell' esposto su Descalzi fu consegnato a mano, senza neppure il timbro postale da un anonimo, come rivela Maddalena Longo, funzionario di cancelleria della Procura. Una mossa che avrebbe garantito a Capristo l' aiuto di Amara e del suo entourage per ottenere i voti del Csm per diventare nel 2016 il nuovo procuratore di Taranto. In questi anni Paradiso - dopo la breve parentesi con il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati (fu subito sostituito nel 2019 da Claudio Galoppi) - è sempre stato considerato l' eminenza grigia del Movimento 5 Stelle. Aveva un ruolo di primo piano nel partito di Beppe Grillo, anche perché quando fu indagato il 21 maggio dopo l' arresto del procuratore di Taranto, non era stato allontanato dai grillini. Data la vasta rete di conoscenze, è stato infatti una delle anime nel dietro le quinte di Parole guerriere, una sorta di think tank a 5 Stelle dove erano di casa i vertici pentastellati, come Roberto Fico, Paola Taverna, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Nicola Morra. Gli stessi grillini che spesso, anche tramite Il Fatto Quotidiano, avevano attaccato l' Eni e Descalzi. Ma oltre alla politica, Paradiso era una pedina fondamentale di Amara. A spiegarlo è Giuseppe Calafiore, ex socio dell' avvocato siciliano, in uno degli interrogatori di fronte ai magistrati romani. «Amara utilizzava Paradiso per fare il relation man. Paradiso andava a cena con diversi membri del Csm. Lo utilizzava e lo pagava. [] gli dava anche la carta di credito a questo Paradiso». Secondo Calafiore, infatti, il poliziotto del Viminale veniva di fatto mantenuto dall' avvocato siciliano. «Lavorava cioè come applicato politico al ministero degli Interni e quindi lei si immagini uno che guadagna... sono forse 1500 euro, 2.000 euro al mese... che vive a Roma, tutte le sere a cena con chiunque cioè come fa, è tecnicamente impossibile». Una volta «l' ha foraggiato davanti a me in studio e gli ha dato 2.100 euro». La stessa moglie di Paradiso, Lucia Giuliano, era retribuita da un consorzio, proiezione della società Tecnomec che fatturava ad Eni ed Ilva e i cui affari erano seguiti da una società dell' avvocato di Augusta. Amara e Paradiso parlavano tramite l'applicazione Wickr. A rivelarlo è proprio il poliziotto in un verbale del 2 febbraio del 2020, dove di fronte a Paolo Storari e Laura Pedio nell' inchiesta sul falso complotto Eni. «Ho conosciuto Piero Amara nel periodo in cui sono stato assegnato al ministro Saverio Romano di cui Amara era molto amico». Paradiso a Milano racconta anche la sua storia, una lunga carriera nella polizia di Stato, dal 1985 al 2004, dove ricopre il grado di assistente. Ma poi, «a seguito di una terribile esperienza giudiziaria ho scelto di non tornare nel servizio attivo e sono sempre stato comandato presso varie segreterie particolari di alcuni ministeri». Da Rocco Buttiglione a Maurizio Martina fino a Nunzia De Girolamo e Matteo Salvini.

François De Tonquédec per “La Verità” il 9 giugno 2021. Dietro la nomina a procuratore di Taranto di Carlo Maria Capristo, emerge dall' ordinanza di arresto emessa dal gip di Potenza, ci sarebbe una «incessante attività di raccomandazione, persuasione e sollecitazione svolta da Amara e Paradiso su alcuni membri del Csm (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/o su soggetti ritenuti in grado d' influire su questi ultimi [...] tenendo conto che, proprio nel circondario della Procura di Taranto, Amara aveva particolare interesse a insinuarsi, in ragione del contesto giudiziario gravitante intorno ad Ilva Spa». Un' operazione che «gli avrebbe garantito come poi avvenuto nuovi incarichi, lauti guadagni professionali, sviluppi imprenditoriali connessi alle società di bonifica ambientale a lui riconducibili». Secondo il gip, ad agevolare, inconsapevolmente, il disegno di Piero Amara sarebbe stato l' ex ministro per gli Affari regionali del secondo governo Conte, Francesco Boccia. All' epoca della nomina di Capristo il deputato del Pd su sollecitazione dello stesso magistrato o del poliziotto distaccato al ministero dell' Interno Filippo Paradiso si sarebbe rivolto all' allora consigliere laico del Csm Paola Balducci, eletta nel 2014 in quota Sel, partito di cui è stata responsabile giustizia. Pugliese come Boccia, Balducci tra il 2005 e il 2006 è stata assessore regionale alla Pubblica istruzione durante la presidenza di Nichi Vendola, che aveva come suo avversario alle primarie di coalizione del 2005 e del 2010 proprio Boccia. A raccontare per primo ai magistrati di Potenza l' operazione di lobbying giudiziario portata avanti dall' entourage di Amara è stato l' avvocato Giuseppe Calafiore, che ha dichiarato a verbale: «Ho conosciuto Paradiso nel 2013-2014, me lo presentò Amara []. Paradiso aveva un grande interesse affinché Capristo andasse a Taranto». Per poi entrare nel dettaglio e raccontare un incontro tra Paradiso e Fabrizio Centofanti, lobbista romano vicino ad Amara: «Si confrontarono comunque sullo stato della pratica "Capristo a Taranto" e Paradiso spiegò che la situazione era ancora incerta proprio perché bisognava capire la posizione che Palamara (Luca Palamara, ndr) avrebbe assunto unitamente alla sua corrente ma che era stato fatto un passo avanti poiché l' avvocato Balducci, componente del Csm, a detta del Paradiso, aveva dato l' ok per la nomina di Capristo a Taranto su interessamento dell' onorevole Boccia del Pd, che non so dire se abbia agito su input di Paradiso o di Capristo o più verosimilmente di entrambi». Ma non è l'unico dettaglio svelato da Calafiore: «Nell' occasione preciso anche», ricorda l' avvocato, «che per la nomina di Capristo a Taranto venne anche interessato da Amara, su richiesta di Paradiso, l' onorevole Lotti (Luca Lotti, ndr) notoriamente molto vicino alla famiglia Renzi. Questa circostanza mi è stata raccontata da Amara. Il quale mi disse che fu fatto un incontro presso la sua abitazione [] fra lui, Capristo, Paradiso e Bacci (imprenditore fiorentino vicino alla famiglia Renzi, che aveva intensi rapporti con il nostro studio). Doveva sopraggiungere Lotti che tuttavia tardò di molte ore, fino a che non si vide con i predetti, poco prima di mezzanotte, in una trattoria romana al centro». Ma stando al racconto di Calafiore, Lotti non era entusiasta delle richieste che gli pervenivano: «Amara, particolarmente indispettito per il ritardo del Lotti, disse che quest' ultimo, quando gli venne rappresento che era necessario che lui stesso intervenisse su alcuni componenti del Csm (Amara non mi disse quali) che si opponevano e facevano ostruzionismo alla nomina di Capristo rispose risentito che anche l' onorevole Boccia si era rivolto a lui con analoga richiesta ma che lui era stanco del fatto che Boccia, la mattina, lo contrastava politicamente essendo contrario a Renzi e la sera gli chiedeva i favori». Sentito anche lui dai pm del capoluogo lucano, Boccia ha confermato il suo interessamento alla posizione di Capristo: «Se non ricordo male ma mi sfugge il contesto in cui ciò è avvenuto, mi venne richiesto dal dottor Capristo o forse da Paradiso di avere informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm per il procuratore di Taranto. In tale contesto, così come la signoria vostra mi chiede, ebbi a richiedere tali informazioni a Paola e appresi dalla Balducci stessa che Capristo era uno dei papabili per la nomina». L'ex ministro, nelle sue dichiarazioni, ha smentito di essersi rivolto a Lotti (anche lui, a quanto risulta alla Verità, smentisce in toto la ricostruzione di Amara, con il quale l'incontro sarebbe stato del tutto casuale) per la questione, e tiene a precisare i confini del suo interessamento: «Ben mi sono guardato, rispettando l'autonomia dell' organo, di fare pressioni o altro e semplicemente raccolsi questa informazione generica e ben nota». Per il gip «le richieste "informative" rivolte da Capristo-Paradiso a un politico influente come l' onorevole Boccia, sebbene formalmente estraneo alla composizione del Csm, appaiono giustificabili solo attraverso il fatto che, a sua volta, la richiesta dell' onorevole Boccia alla consigliera Balducci, pur non consistita in pressioni, era essa stessa manifestazione della circostanza che il Boccia potesse essere persona vicina al Capristo e quindi ne appoggiasse la nomina, poiché diversamente non avrebbe chiesto informazioni per suo conto, esponendosi quale nuncius (messo, ndr) di un magistrato la cui nomina non sosteneva». Niente di illecito quindi, ma un' ulteriore conferma dell' intreccio tra magistratura e politica sulle nomine ai vertici degli uffici giudiziari.

Le trame della lobby Amara con il "sistema" Capristo. Massimo Malpica il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex procuratore cercava sponsor per far carriera. Le manovre (riuscite) per la nomina a Taranto. L'oro di Taranto. Piero Amara voleva Capristo a capo della procura della città Pugliese perché dopo l'Eni puntava ad accreditarsi come legale specializzato in problem solving giudiziario anche per l'amministrazione straordinaria dell'Ilva. E se Amara seguiva i soldi, scavando nella rete dei rapporti del magistrato pugliese, la procura di Potenza ha ricostruito la storia occulta di Capristo, il patto corruttivo con i suoi «sponsor», ai quali avrebbe offerto la propria funzione in cambio di una solida spinta alla propria carriera. Ecco, secondo il gip di Potenza, la storia segreta del cursus honorum della toga.

DO UT DES/1. Fortune incrociate. La carriera di un magistrato e quelle di chi lo aiuta possono accelerare con uno scellerato patto sinallagmatico. Per la procura di Potenza è quello che succede a margine del curriculum di Carlo Maria Capristo. Che inizialmente, si legge nell'ordinanza di Potenza, è «animato da buone intenzioni», ma poi vende la propria funzione per uno sprint di carriera. Lo fa prima con l'ex gip tranese Michele Nardi, «fondamentale uomo di relazioni, con conoscenze in ambienti di potere romano», che «aveva lavorato per farlo diventare procuratore a Trani e poteva lavorare ancora per consentirgli nuove ascese e nuove relazioni importanti».

LA GITA DA CESA. Secondo il gip tranese Maria Grazia Caserta, che con Nardi aveva avuto una relazione, per spingere la nomina di Capristo a Trani, nel 2008, proprio Nardi l'aveva portato a Roma, da Lorenzo Cesa. E quando Capristo parla al suo sponsor dei suoi dubbi su due magistrati Scimé e Savasta, condannati, come Nardi, nel 2020 a Lecce per corruzione in atti giudiziari con i quali Nardi «commetteva reati», quest'ultimo lo convince a tutelarli, in cambio dei favori fatti e di quelli promessi, in modo da poter continuare ad «aggiustare, deviare, lucrare sui processi». Per gli inquirenti è il primo passo del «patto corruttivo» tra i due, che stando al capo d'imputazione dura dal 2008 al 2016.

DO UT DES/2. Nel 2015 entra in scena Piero Amara e sparisce Nardi. Capristo ha appena visto sfumare la possibilità di andare a fare il Pg a Bari, l'incarico a Trani sta per scadere e si preoccupa per il suo futuro professionale. Nasce su queste premesse, scrive il gip potentino, «l'accordo corruttivo» con cui «accettava indebitamente il fattivo contributo di Amara nello sponsorizzare e raccomandare la sua nomina» ai posti che gli fanno gola: Pg a Firenze o a Perugia, procuratore capo a Taranto. E Amara è molto ben disposto, per gli inquirenti, a favorire «la sua nomina a capo della Procura di Taranto. in cambio dello stabile asservimento agli interessi personali di Amara, che a vario titolo coinvolgevano Eni e Ilva», con i quali Amara voleva «incrementare» i rapporti professionali, accumulando ricchi incarichi. Per le «relazioni esterne» spunta Filippo Paradiso, poliziotto con una lunga serie di collaborazioni presso segreterie di ministri e sottosegretari, da Buttiglione a Maurizio Martina, da Salvini a Sibilia. Paradiso, «finanziato» da Amara, e lo stesso Amara dunque si attivano, e per i pm lucani non c'è dubbio che «si siano spesi concretamente per agevolare il Capristo nelle sue aspirazioni di carriera».

LA VIA PER TARANTO. Gli abboccamenti per portare Capristo a Taranto vengono ricostruiti dagli inquirenti lucani. L'ex socio di Amara, Calafiore, mette a verbale che l'avvocato siciliano cercava sponde nel Csm parlando con Palamara tramite Fabrizio Centofanti, e incontrando Cosimo Ferri nell'ufficio di Denis Verdini, oltre a ricordare che Paradiso aveva legami con l'allora consigliere del Csm Elisabetta Casellati (che ha smentito di aver ricevuto pressioni o segnalazioni, spiegando di aver fatto lavorare Paradiso nel proprio staff a titolo gratuito su richiesta di Gianni Letta) e con l'ex ministro Francesco Boccia (che ha ammesso di essersi informato con la consigliera Paola Balducci, ma senza interferire con la nomina). Ancora Calafiore, tra le persone «contattate o da contattare» fa i nomi dell'ex consigliere togato Massimo Forciniti, spiegando che Centofanti, in un incontro con Paradiso che gli chiedeva di caldeggiare il nome di Capristo con Luca Palamara, avrebbe risposto picche, invitandolo a rivolgersi a Forciniti, «la persona giusta per contattare Palamara». E racconta pure di un abboccamento con l'ex sottosegretario Luca Lotti per il tramite di Andrea Bacci, imprenditore amico dei Renzi e socio di Tiziano, finalizzato al posto di Pg a Firenze, risolto in un incontro serale di pochi minuti a Roma tra Capristo e l'esponente Pd. Il finale è noto. Il plenum del Csm, su proposta della relatrice Paola Balducci, vota unanime per Capristo. Ma, spiega il gip, nessuna censura «sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Csm», quello che conta è il provato lavoro di lobbing del duo Amara-Paradiso, a prescindere dagli esiti. Esiti comunque in linea con gli sforzi, siano o meno serviti.

PETER PAN E L'AMARA SEGRETEZZA. Se l'affaire Palamara ha consacrato le chat di Whatsapp, l'inchiesta di Potenza rilancia un'altra app di messaggistica, la preferita di Amara, Wickr Me, che dopo un tempo determinato fa svanire i messaggi, e quindi è «utilizzata osserva il gip - anche da chi deve nascondere i messaggi da possibili indagini» e da chi «svolge attività illecite o borderline». Niente numeri di telefono, solo nickname: Amara è Peter Pan, il suo socio Calafiore, Escobar.

Piero Amara, chat criptate e nomi in codice nella rete politica: chi è "Escobar"? Spunta il nome di Elisabetta Casellati. Libero Quotidiano il 09 giugno 2021. Il "metodo Amara" era caratterizzato da "serialità e modalità spregiudicate". E' quanto emerge dalla inchiesta di Potenza che è rilevante per diversi motivi, dall'incrocio con altre indagini (a Milano e a Roma) al metodo investigativo, che depotenzia le "mezze verità" di Amara e punta su riscontri esterni: intercettazioni, 80 testimonianze, conti correnti. E chat non criptate. Perché comunicavano sulla piattaforma Wickr con cancellazione automatica e nomi in codice: Escobar, Peter Pan, Zorro e Minc***. L'avvocato siciliano che ha parlato di una presunta Loggia Ungheria procedeva così: prima adescava un pm di provincia ambizioso poi otteneva da esso "lucrosi incarichi" per terzi e "benevoli trattamenti giudiziari" per i clienti, nonché impunità per i suoi guai. In cambio, rivela La Stampa, "con abile capacità organizzativa e manipolativa" metteva a disposizione la sua "rete romana" per "soddisfarne le esigenze di carriera" al Csm. Insomma, Amara garantiva l'accesso a "soggetti dotati di alte cariche istituzionali". Spuntano quindi i nomi di Luca Palamara, Paola Balducci ed Elisabetta Casellati, che peraltro "Capristo, a Trani, mentre la sua Procura indagava su Berlusconi, riceveva 'con un comportamento troppo ospitale', al punto da 'invitarlo a pranzo a mangiare frutti di mare"', si legge nell'articolo, "invito per cui Ghedini 'si schernì'". In Parlamento Amara arriva a Luca Lotti quando Matteo Renzi è premier, a Francesco Boccia e Denis Verdini. Fuori dal Parlamento c'è l'imprenditore Andrea Bacci, "vicino alla famiglia Renzi", Cosimo Ferri leader di Magistratura Indipendente, già membro del Csm, all'epoca sottosegretario alla Giustizia nella terra di mezzo tra Berlusconi e Renzi. E poi il poliziotto Filippo Paradiso "a libro paga" e in "simbiosi affaristica" con Amara, vicino al centrodestra, aspirante deputato, nel 2018 entrato prima nella segreteria di Salvini e del grillino Sibilia al Viminale e poi, sponsorizzato da Gianni Letta, nello staff della Casellati a Palazzo Madama con la quale era "amico" anche ai tempi del Csm "visto che nel 2016 procura al pm siciliano Giancarlo Longo (su richiesta di Amara) un «incontro informale» con lei in un bar di piazza Indipendenza. Davanti a un caffè, Longo le consegna il suo curriculum; «lei fu molto cordiale e lo inserì in una cartellina» (Casellati non ricorda)", si legge ancora. Ma non finisce qui. "La parabola di Capristo, che Paradiso presenta ad Amara e Amara a Lotti, è emblematica del «livello osmotico» di un «estesissimo rete relazionale»", scrive La Stampa. "Nel 2015, in scadenza a Trani, si muove per un nuovo incarico. Al Csm diffidano. Di Capristo si dicono «cose pessime», scrive Palamara in chat. Nonostante la relazione in suo favore della Casellati, l'appoggio del centrodestra, di Unicost e Magistratura Indipendente, Capristo perde dopo un drammatico voto la corsa alla procura generale di Bari". Quindi, poco dopo, è in lizza per la Procura di Taranto. "«Amara vive per portare Capristo a Taranto e contatta o fa contattare» mezzo Csm, dice ai pm Giuseppe Calafiore, suo socio e compagno di merende giudiziarie. Balla un voto nella commission nomine, si spacca il fronte progressista. La Balducci relazionale per Capristo. La Casellati lo difende. La «insistente operazione di raccomandazione, sollecitazione e persuasione» ha successo. In chat, Palamara commenta: «Purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato». Dopo il voto del Csm, «cena della vittoria» a casa di Amara". E questo è il metodo Amara.

Ex Ilva, "Capristo raccomandato per favorire l'avvocato Amara e lo stabilimento tarantino". All'interno il comunicato integrale della Procura di Potenza. La Voce di Manduria martedì 08 giugno 2021. L'avvocato Piero Amara è stato arrestato dalla Guardia di Finanza nell'ambito di un'inchiesta sull'ex Ilva coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza e nella quale è coinvolto anche l'ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo. In seguito il testo integrale del comunicato stampa della Procura della Repubblica di Potenza con tutti i capi d'accusa a carico degli indagati. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza - dopo avere coordinato e diretto complesse investigazioni svolte dalla Polizia Giudiziaria di seguito indicata — nella mattinata odierna ha delegato : — il Nucleo di Polizia Economico — Finanziario di Potenza, la Sezione di PG. — l’Aliquota Guardia di Finanza di Potenza di questa Procura, il GlCO di Roma, la Tenenza della GdF di Molfetta ; — la Squadra Mobile della Questura di Potenza; a dare esecuzione ad una ordinanza di applicazione di misura cautelare personale nei confronti di CAPRISTO Carlo Maria, gia Procuratore della Repubblica di Trani e Taranto, RAGNO Giacomo, avvocato del foro di Trani, AMARA Piero, gia avvocato e consulente dell’Eni e dell’ex Ilva in AS, NICOLETTI Nicola, socio PW’C e già consulente esterno della struttura commissariale dell’lLVA, PARADISO Filippo, appartenente ai ruoli della Polizia di Stato in servizio presso il Ministero degli Interni nonché a notificare ulteriori cinque informazioni di garanzia ad altri indagati. Gli arrestati sono stati ritenuti dal Giudice delle Indagini Preliminari di Potenza, gravemente indiziati dei seguenti delitti: 

CAPRISTO Carlo Maria

a) delitto p e p. dagli artt 81 cpv 323 - 378 Cp, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale Procuratore della Repubblica di Trani, al fine di consentire al funzionario di cancelleria Cotugno Domenico, responsabile della sua Segreteria e persona a lui particolarmente legata, di eludere le indagini — e, quindi di ottenere un indebito vantaggio anche patrimoniale consistente nel non essere sottoposto a procedimento penale evitando le relative spese ed il pagamento di eventuali risarcimenti: prima si auto—assegnava il procedimento penale nr 6591 /15—44 a carico di ignoti per il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio — ex art. 326 c.p., relativo ad una fuga di notizie a . beneficio dei difensori degli indagati — assisti dallo studio legale Desiderio/Papagno — riguardante le indagini e le intercettazioni di cui al p.p. penale nr 8379/13, relativo a gravi reati contro la PA (delegato al PM dott Ruggiero), poi — in violazione della normativa che impone al PM di ricercare le prove necessarie ad accertare i fatti, corollario del principio di obbligatorietà dellO’azione penale — ometteva di svolgere qualsiasi indagine ( nessuna delega , nessun accertamento svolto direttamente dal PM) al fine verificare chi, all’interno degli apparati giudiziari e di polizia, avesse propalato la notizia relativa alle indagini in corso (ed ancora segrete) nei confronti, fra gli altri, di De Feudis Sergio e Modugno Antonio, nonostante esistessero elementi indiziari che consentissero di approfondire le investigazioni in direzione del suddetto Cotugno che — sulla base dell’annotazione della Digos di Bari n.2 Sez. del 31/03/2016 — risultava frequentare lo Studio Desiderio/Papagna (vale a dire quello che aveva recepito le notizie segrete sulle indagini ed intercettazioni in-corso nel p.p. nr 8379/13 RGNR Mod. 21) ben conosciute dal Cotugno in ragione della sua funzione di Segretario del Procuratore che — come da progetto organizzativo — apponeva il visto su tutte le richieste d’intercettazione (fra cui quelle relative alle investigazioni in corso nel p.p. nr 8379/13/21). Infine, l’ultimo giorno di sua presenza in servizio presso la Procura di Trani, omessa ancora ogni investigazione, richiedeva al Gip l’archiviazione del procedimento nr 6591/15—44. 

Capristo Carlo Maria — Nardi Michele (nei cui confronti, si procede senza applicazione di misure cautelare, non essendo state ritenute sussistenti le relative esigenze) b) delitto p. e p dagli artt. 81 cpv, 319 ter, in rel. agli artt 318 e 319, 321 61 nr 2 cp, perché, in permanenza, in concorso necessario fra loro, Capristo Carlo, soggetto passivo della corruzione quale Procuratore della Repubblica di Trani e Nardi Michele, soggetto attivo della corruzione quale Magistrato in servizio all’epoca dei fatti presso l’Ispettorato Generale del Ministero nonché quale componente di una associazione a delinquere dedita alla commissione seriale di corruzioni in atti giudiziari ed all’illecito “aggiustamento” di processi (attraverso false testimonianze, calunnie, falsi ideologici, corruzioni ecc, delitto associativo in relazione alla quale, in uno con svariati reati—fine, veniva condannato dal GUP presso il Tribunale di Lecce con sentenza 349/ 2020 del 9.7.2020) composta anche dal Sostituto Procuratore di Trani Antonio Savasta, dall’Ispettore di PS Di Chiaro Vincenzo, da Flavio D’Introno usuraio operante nel Circondario di Trani, Cuomo Simona, professionista legale, nonchè, comunque, quale correo dei predetti e dell’Avv.to Giacomo Ragno e del Sostituto Procuratore di Trani Luigi Scimè in delitti di corruzione, falso, calunnia, ecc — commettendo, Nardi, il fatto al fine sia di eseguire che di occultare i delitti sopra indicati — facevano mercimonio della funzione di Procuratore della Repubblica di Trani del Capristo che, stabilmente, la vendeva al Nardi.

Segnatamente, avendo, il Nardi, messo a disposizione del Capristo l’utilità consistente nel suo impegno a sostenerlo nella nomina a Procuratore della Repubblica di Trani (nomina avvenuta nel 2008) — impegno consistente in una obbligazione di mezzi e non di risultato che si manifestava in una attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione nei confronti di chi era in grado di determinare’la nomina del Capristo — otteneva da quest’ultimo, una volta nominato Procuratore nella sede suddetta, in violazione dei suoi doveri d’imparzialità nell’esercizio dell’azione penale e dei suoi poteri d’indagine, nonché di quelli di vigilanza e sorveglianza sui Magistrati del proprio Ufficio, una totale, stabile e permanente profezia/ze dei variegati ed illeciti interessi del Nardi in vicende processuali proprie e di persone di suo interesse, nonchè la protezione favore dei Sostituti Procuratori della Repubblica Antonio Savasta e Luigi Scimè, non solo particolarmente legati al Nardi, ma con i quali, e grazie ai quali, il predetto Nardi, per un verso, ai procedimenti di suo interesse presso la AG di Trani e con i quali, per altro verso, svolgeva e avrebbe svolto lucrose attività delittuose (cosi come anche indicate nella sentenza di condanna nr 349 / 2020 del 9.7.2020 del GUP di Lecce) che ruotavano intorno ai procedimenti penali loro assegnati.  In particolare, il Capristo, in conseguenza dell’accordo corruttivo, da una parte, curava anche in prima persona e con particolare sollecitudine gli interessi del Nardi presunta parte offesa ed indagato in numerosi procedimenti penali pendenti innanzi alla AG di Trani ( ad esempio accettando che Nardi presentasse denunce di reato attraverso sms che lui poi attivava immediatamente con deleghe alla pg, ovvero rallentando la trattazione di procedimenti in cui il Nardi era indagato) e, dall’altra, pur considerando i due predetti Magistrati (Savasta e Scimè) poco affidabili in quanto dediti a perseguire interessi non istituzionali nell’esercizio delle loro funzioni, pur sapendoli coinvolti, a seguito di numerosi esposti e denunce, in vicende di rilevanza penale e disciplinare e pure in presenza ( anche perché rappresentatogli da altri colleghi dell’Ufficio) di pareri, richieste, provvedimenti, anomali di Scimè e Savasta, che prendevano in contrasto con le prassi ed i criteri generali applicati dall’Ufficio in casi simili, in contrasto con le determinazioni assunte dai titolari del procedimento — talora sostituiti per loro momentanea assenza — anziché vigilare sulla attività giudiziaria dei citati Scimè e Savasta, sulle evidenti situazioni di incompatibilità processuale ed ambientale in cui si trovavano (e che avrebbero richiesto l’astensione del PNI se non addirittura la promozione, attivazione e segnalazione per l’avvio di procedure tese ad un loro trasferimento per motivi d’incompatibilità ambientale) e, quindi, anziché vigilare sulla concreta imparzialità del loro operato, sottoponendolo ad attento vaglio, richiedendo, ove necessario, sia opportuni chiarimenti che una previa esposizione delle determinazioni che intendevano assumere, li valorizzava da un punto visto professionale, sia attribuendo loro incarichi, designazioni e deleghe di particolare rilevanza nell’Ufficio, sia con giudizi di professionalità assolutamente lusinghieri, sia, infine, tutelandoli — con azioni ed omissioni — nelle sedi competenti a valutare le condotte illegittime degli stessi. 

AMARA Piero, CAPRISTO Carlo Maria, NICOLETTI Nicola, PARADISO Filippo, RAGNO Giacomo 

e) delitto p. e p. dagli artt 110, 81 cpv, 319 ter, in rel. agli artt 318 e 319, 321 cp, perché, CAPRISTO, AMARA, PARADISO e NICOLETTI in permanenza, RAGNO con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso fra loro come specificato appena di seguito: CAPRISTO Carlo Maria in qualità di Procuratore della Repubblica di Trani dal 2008 fino al 6 Maggio del 2016 e di Procuratore della Repubblica di Taranto dal 7 Maggio 2016 al 16/ 07/ 2020, soggetto passivo della corruzione in atti giudiziari contestata in permanenza nel presente capo; Giacomo RAGNO, amico personale del CAPRISTO e avvocato penalista del Foro di Trani, concorrente del CAPRISTO in alcuni specifici episodi corruttivi di seguito specificati, nonché beneficiario di alcune delle utilità ricevute dal CAPRISTO stesso; AMARA Piero, avvocato penalista operante su tutto il territorio nazionale, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza sia a Trani che a Taranto come di seguito specificato; PARADISO Filippo funzionario della Polizia di Stato dedito a curare, previa retribuzione, le relazioni pubbliche dell’AMAKA, concorrente di AMARA, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza e di seguito specificata; NICOLETTI Nicola — consulente dei Commissari di ILVA in AS, delegato dai Commissari Straordinari a seguire e coordinare (sulla base di direttive dei Commissari ma di fatto conampia e notevole autonomia) le vicende gestionali, produttive, legali che riguardavano gli Stabilimenti ex Ilva di Taranto fra il 2015 ed 11 2018, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari compiuta in permanenza, come di seguito specificato; commettevano le seguenti attività di corruzione in atti giudiziari connesse e collegate fra lOro. Segnatamente, il CAPRISTO stabilmente vendeva ad Amara e Nicoletti, la propria funzione. giudiziaria, sia presso la Procura di Trani ( a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara e Nicoletti ) svolgendo, in tale contesto, il PARADISO, funzione d’intermediario presso il CAPRISTO per conto e nell’interesse di AMARA Piero, facendo ciò, il CAPRISTO, in cambio dell’utilità costituita dal costante interessamento di AMRA e PARADISO (il secondo stabilmente remunerato dal primo) per gli sviluppi della sua carriera (il CAPRISTO, sul punto, risultava particolarmente sensibile, in quanto, cessando definitivamente dal suo incarico di Procuratore della Repubblica di Trani nel 2016, sarebbe rimasto privo di incarichi direttivi, al cui immediato conferimento, invece, anelava). Tale interessamento sia di AMARA che di PARADISO (che agivano in sinergia e coordinandosi fra loro) - che consisteva in una obbligazione ' di mezzi e non di risultato verso il CAPRISTO — in particolare si manifestava in una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore del CAPRISTO, dai corruttori su membri del CSM (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/ o su soggetti ritenuti in grado d’influire su questi ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti d’interesse del CAPRISTO (fra cui la Procura Generale di Firenze,-la Procura della Repubblica di Taranto ed almi ancora).  

Nel dettaglio, il CAPRISTO: 

- nella sua qualità di Procuratore della Repubblica di ILni, essendo stato posto in relazione con l’AMARA dal PARADISO, al fine di accreditare presso l’ENI l’AMARA "stesso quale legale intraneo agli ambienti giudiziari tranesi in grado d’interloquire" direttamente con i vertici della Procura, ed al fine, quindi, di agevolarlo nel suo percorso professionale:

1. si autoassegnava, in co—delega con i Sostituti SAVASTA Antonio e Pesce Alessandro, 1 procedimenti penali nr 25/15/46, nr 136/15/46 scaturenti da esposti anonimi redatti dallo stesso AMARA e consegnati a mani proprie ovvero per il tramite di fiduciario, al Capristo stesso;

2. nonostante: a) la palese strumentalità degli esposti anonimi che li avevano generati (redatti dall’Avv. AMARA per accreditarsi presso i vertici ENI quale soggetto in grado di interloquire su tali procedimenti), nei quali veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso (ed in realtà inesistente) progetto criminoso — che risultava, in modo ovviamente artificioso, concepito in Barletta, (proprio affinchè il fatto fosse di competenza della Procura di Trani) — che mirava a destabilizzare i vertici dell’ENl ed in particolare a determinare la sostituzione dell’Amministratore Delegato De Scalzi, che in quel momento era invece indagato dalla AG di Mlilano per gravi fatti di corruzione, sicché con le delazioni in esame si intendeva fare apparire il De Scalzi come vittima di un complotto ordito da soggetti che avevano rilasciato presso la procura di Milano dichiarazioni indizianti a suo carico; b) la circostanza che il primo di tali esposti fosse giunto presso la Procura di Trani in modo decisamente sospetto ed apparentemente inspiegabile (recapitato a mano — pur essendo anonimo - direttamente presso l’Ufficio ricezione atti senza che risultasse chi lo avesse consegnato e chi lo avesse ricevuto e poi regolarmente protocollato, assegnato ed iscritto); 3. disponeva lo svolgimento d’indagini anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime (fra cui escussioni ed acquisizioni tabulati) in considerazione della natura anonima dell’ esposto, anche sollecitando in tale senso i colleghi co-delegati che invitava in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi che risultavano funzionali agli interessi di AMARA Piero (che aveva inviato gli esposti e che aveva necessita di rafforzare e “vestire” la tesi del complotto contro l’AD di ENI De Scalzi);

4. accettava una interlocuzione assolutamente impropria ed anomala con Piero ANLARA sulle vicende investigative in  oggetto degli esposti anonimi, in quanto: a) in primo luogo, alcun indagato o parte offesa aveva nominato AMARA quale proprio legale; b) in secondo luogo, i procedimenti, al momento di tali interlocuzioni, erano segretati e anche le stesse notizie stampa pubblicate 111 quei giorni sulla esistenza delle indagini a Trani sul cd “complotto Eni” erano del tutto inconferenti (se non sospette) e, comunque, non idonee a legittimare, su queste Vicende, una interlocuzione fra un avvocato (AMAKA) neppure nominato formalmente da un soggetto - processuale legittimato ed il Procuratore della Repubblica di Trani; c) con la predetta condotta compiacente, consentiva ad A‘MARA di proporsi e mettersi in luce presso Eni, per un verso, come punto di riferimento e tramite verso la AG in quella specifica vicenda e, per altro verso, come legale meritevole di nuovi ed ulteriori (e ben remunerati) incarichi;

5. disponeva, per compiacere le richieste di AMARA (che aveva preso accordi con il PM di Siracusa Longo Giancarlo, da lui stesso corrotto affinché si prestasse a seguire le indicazioni dell’AMARA nella conduzione di una analoga strumentale indagine preliminare avente a oggetto il descritto complotto ai danni del De Scalzi) previe irrituali intese con il predetto Sostituto Procuratore della Repubblica di Siracusa Longo (e non con il Capo di quell’Ufficio) la trasmissione, per motivi di competenza territoriale, dei procedimenti suddetti nonostante la PG delegata avesse rappresentato, non solo l’infondatezza degli esposti anonimi ma la loro connessione con le indagini preliminari condotte nei confronti del De Scalzi dalla Procura della Repubblica di Milano; - nella qualità di Procuratore della Repubblica di Taranto, al fine di accreditare l’AMARA e NICOLETTI presso l’Ilva in AS ed al fine di agevolare la loro ascesa professionale: 

1. ricevuta la descritta sponsorizzazione nella nomina a Procuratore di Taranto mostrava, apertamente, di essere sia amico che estimatore dell’Axv AMARA e del NICOLETTI e si rendeva promotore di un approccio dell’ufficio certamente più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’ILVA A.S., cosi da rafforzare nell’Amministrazione Straordinaria di Ilva — e, in particolare, nel Laghi Enrico — il convincimento che AMAR e NICOLETTI, nelle loro vesti di legale il primo e consulente “factotutm” della Amm. Straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto, consentendo al NICOLETTI di consolidare il suo rapporto fiduciario con i Commissari di Ilva in AS ed ampliare in futuro il loro ruolo all’interno di tale azienda, a cui CAPRISTO, in virtù di tali rapporti corruttivi con Amara e Nicoletti, garantiva — come meglio di seguito specificato — una gestione dei numerosi procedimenti ed indagini in cui era coinvolta ILVA in AS (sia come persona giuridica che in persona dei suoi dirigenti) complessivamente favorevole, ottenendo, altresì, in cambio da NICOLETTI — che comunque aveva sostenuto l’attività di “sponsorizzazione” del CAPRISTO quale Procuratore di Taranto svolta da Paradiso e AMARA; i favori materiali ( incarichi ad amici del Capristo — segnatamente all’avvio Giacomo ragno — che poi saranno elencati)

2. garantiva, così, con la descritta condotta compiacente verso Amara, e grazie alla fattiva collaborazione di NICOLETTI, il conferimento in favore dell’avv. AMARA di 2 incarichi, entrambi dalla persona giuridica ILVA a.s. (uno di consulenza del 29.6.16 nel processo Ambiente svenduto e l’altro del 19.9.16 nel procedimento per la morte dell’operaio Giacomo CAMPO), così fornendo anche NICOLETTI un contributo diretto alla realizzazione dell’accordo corruttivo AMARA CAPRISTO;

3. nel procedimento penale Ambiente Svenduto, per disastro ambientale ed altro, assecondava e portava a conclusione, coordinando un composito gruppo di PPMM delegati, le “trattative” svolte in diversi incontri per una applicazione della pena ex' art 444 cpp seguite alla proposta di Ilva in AS persona giuridica (che attribuiva a tale “patteggiamento” valore strategico., non solo a livello processuale, ma anche ai fini dello sviluppo economico e produttivo dell’azienda), della quale Piero AMARA era divenuto consulente esterno, e di cui NICOLETTI era pure grande fautore, richiesta che veniva poi rigettata dall’Organo Giudicante competente;

4. nel procedimento nr 7492/2016 R.G.N.R. Mod. 21 per l’incidente mortale occorso nel 2016 all’operaio Giacomo Campo il 17.9.16, nel quale AMARA veniva nominato in data 19 settembre 2016 difensore di fiducia dell’ILVA Spa in A.S., riceveva indicazioni da AMARA per la nomina di Sorli Massimo quale Consulente tecnico Che avrebbe dovuto svolgere un sopralluogo e connessi accertamenti presso il predetto impianto [Id [70sz (come poi ZIVVCIlthO, tanto che il consulente Ing. Sorli Massimo partiva da Torino domenica 18.9.16, giungeva a Taranto la domenica stessa con volo areo pagato da AMARA tramite suo prestanome, Miano Sebastiano, in serata riceveva l’incarico ex 360 cpp irripetibile, e il lunedi mattina 19.9.16 svolgeva e concludeva il sopralluogo); sollecitava i suoi Sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’AFO 4 (che poi avveniva in 48 ore, peraltro sulla base dell’impostazione difensiva dell’ILVA, rivelatasi infondata, relativa alla insuperabile necessita di alimentare, per mezzo dei macchinari coinvolti nel sinistro, l’altoforno e, quindi, impedire sbalzi di temperatura che lo avrebbero danneggiato, mentre in poca successiva emergeva come tale temperatura costante all’interni dell’altoforno potesse essere mantenuta anche attraverso altri, ma più costosi sistemi). Gestiva, subito dopo l’incidente, i rapporti con la stampa (rientranti nei suoi compiti istituzionali secondo l’ordinamento giudiziario) in modo da fare intendere, sia pure implicitamente .ma univocamente, che Ilva in As, ovvero i suoi dirigenti, potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno e comunque proponendosi quale garante delle politiche di risanamento ambientale poste in essere da ILVA in AS e quindi dai Commissari straordinari (manifestando pubblicamente, in più occasioni, che la sua Procura avrebbe a questo fine lavorato in sinergia con l’Amministrazione Straordinaria).

5. manifestava apertamente, all’esterno ed all’interno dell’Ufficio, la sua posizione “dialogante” con il NICOLETTI (che così accreditava, al pari di AMARA, presso la struttura commissariale come elemento indispensabile per la gestione dei rapporti e la AG tarantina) e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva in AS, determinando un complessivo riposizionamento del suo Ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative, manifestate dalla Procura della Repubblica diretta dal suo predecessore (che ad esempio aveva rigettato una precedente richiesta di applicazione pena presentata da Ilva in AS persona giuridica);

6. nel p.p. nr 4606/15 R.G.N.R. Mod. 21 (cd. Arianna/Al), dapprima sollecitava il PM titolare delle indagini a concedere la facoltà d’uso dell’AFO 2, nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’Ilva alle prescrizioni; poi concordava con NICOLETTI, che conseguentemente esercitava pressioni sull’avv. BRESCIA Francesco (dell’ufficio legale ILVA), affinché l’operatore sul “campo di colata” fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al PM titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’Ingegnere Ruggero Cola, difeso dall’arnico Avv. RAGNO, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta archiviazione (senza raggiungere l’intento grazie alla opposizione del PM che non aderiva alla impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del PM titolare — induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facoltà d’uso. A fronte di tali favori resi dal CAPRISTO, NICOLETTI, abusando della sua qualità di gestore di fatto degli Stabilimenti Ilva in AS di Taranto, condizionava i dirigenti Ilva sottoposti a procedimenti penali presso la AG di Taranto (procedimenti nei quali rispondevano per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni) affinché conferissero una serie di incarichi difensivi — poi remunerati dall’Ilva in AS, salva eventuale (e mai avvenuta) rivalsa della stessa società, come previsto dal contratto nazionale di lavoro dei dirigenti d’azienda — all’AVV.to RAGNO Giacomo, alter ego del CAPRISTO, in ragione dello stretto legame tra i due risalente fin dai tempi in cui CAPRISTO era Procuratore della Repubblica di Trani, e da questi sponsorizzato quale professionista da favorire anche con riferimento ad incarichi professionali da ricevere dall’Ilva, come avvenuto per ben 4 mandati difensivi (conferiti al RAGNO da De Felice Salvatore e Cola Ruggero, dirigenti Ilva in AS, che fruttavano parcelle per complessivi euro 273.000 circa):

1. mandato difensivo conferito al RAGNO, da De Felice Salvatore, dirigente llva in AS già direttore di stabilimento, nel p.p. nr 938/2010 R.G.N.R. Mod. 21 — RG ASS 1/2016 (ambien/‘d went/1170), in data 2.2.2017;

2. mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero, dirigente Ilva in AS e Direttore dello  

Stabilimento di Taranto dall’Agosto 2014 fino ad Ottobre 2016 e di nuovo da Maggio 2018 a Ottobre 2018, nel pp. cd “incide/Ile Campo” recante nr 7492/2016 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina depositata in data 10.10.2017);

3. mandato difensivo conferito al KXGNO da Cola Ruggero nel pp. cd “incide/ife (Hamra/M ’ recante nr 4606/2015 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina depositata in data 01.03.2017);

4. mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero nel p.p. cd “Loppcf’ recante nr 8836/2015 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina effettuata il 30.9.2017).

CAPRISTO Carlo Maria, RAGNO Giacomo, nonché SOAVE Massimiliano, SAVASTA Antonio, D’INTRONO Flavio, NARDI Michele e BALDUCCI Franco Maria (nei confronti degli ultimi cinque si procede senza applicazione di misure cautelari per l’assenza delle relative esigenze).

d) delitto p. e p dagli artt 81 cpv, 110, 317 Cp, perché, in concorso e previo accordo fra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, Capristo quale Procuratore della Repubblica di Trani e mandante, Savasta quale PM del predetto Ufficio delegato alle indagini ed ai procedimenti ... e quale mandante, Nardi Michele quale Magistrato in servizio presso l’ispettorato generale e mandante, Nardi e D’Introno, quali intermediari fra i predetti mandanti e Balducci che aveva il compito di avvinare le parti offese e indurle, come poi meglio descritto, a piegarsi alla volontà dei suddetti PPUU, Ragno Giacomo avvocato operante nel Foro di Trani e Soave Massimiliano dottore commercialista e consulente tecnico in materia contabile, quali materiali esecutori (ubitamente a Balducci) e beneficiari del delitto, abusando delle qualità. dei suddetti Pubblici Ufficiali Capristo e Savasta e del notorio strettissimo rapporto preferenziale che il Ragno aveva con i predetti Magistrati (notorietà alimentata dai comportamenti concludenti ed ostentati del Capristo, del Savasta e del Ragno) sicchè le vittime si figuravano che unica possibilità per ottenere giustizia presso gli Uffici Giudiziari di Trani fosse quella di affidarsi a difensori e professionisti di gradimento del Capristo e dello stesso Savasta, costringevano Zucaro Sergio e Zucaro Massimo, indagati per il delitto di riciclaggio nel procedimento penale 2599/ 2072 RGNR mod 27, a dare mandato al Ragno quale difensore di fiducia e al Soave quale consulente di parte e ad erogare agli stessi, solo quale anticipo e senza che alcuna concreta attività difensiva fosse svolta, la complessiva somma di euro 15.000 (di cui euro 10.000 a Soave ed euro 5.000 al Ragno).

Le accuse mosse da questo Ufficio agli indagati — che, allo stato ed in questa fase procedimentale hanno trovato conferma a livello di gravità indiziaria nell’ordinanza cautelare del Gip — si fondano su complesse indagini che hanno comportato l’audizione di circa 80 testimoni (tutti ascoltati da questo Ufficio coadiuvato dalla citata polizia giudiziaria),sull’acquisizione di copiosa documentazione cartacea ed informatica (ottenuta anche attraverso lo scambio di atti ed informazioni con le Procure di Milano, Roma, Messina, Lecce e Perugia) su indagini finanziarie e bancarie, sulla acquisizione di atti processuali presso gli Uffici Giudiziari di Trani e Taranto, ottenuti grazie alla indispensabile cooperazione delle AAGG dei predetti capoluoghi.

 Le investigazioni hanno amro inizio nel Giugno del 2020, dopo le prime indagini nei confronti di Carlo Maria Capristo (sfociate in una prima misura cautelare nel Maggio 2020 e nel successivo rinvio a giudizio degli imputati) . Dunque si tratta di un filone d’indagine che rappresenta un ulteriore sviluppo; ancorchè con nuove contestazioni, della primigenia investigazione.

All’esito delle richieste cautelari di questo Ufficio, il Gip presso il Tribunale di Potenza, in particolare, ha disposto:

nei confronti dell’axwrocato Giacomo RAGNO e del dr. Nicola NICOLETTI la misura cautelare degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni;

nei confronti dell’aW'ocato Piero AMARA e dell’appartenete alla Polizia di Stato Filippo PARADISO ha disposto la custodia cautelare in carcere;

nei confronti dell’ex Procuratore Carlo CAPRISTO la misura dell’obbligo di dimora presso la propria abitazione.

Questo Ufficio inoltre, ha disposto il sequestro preventivo di euro 278.000 nei confronti del’Avv.to Giacomo Ragno -— pari all’importo delle parcelle professionali pagate da i Ilva in A5 in suo favore a seguito degli incarichi professionali che il Ragno otteneva (nei procedimenti a carico di dirigenti di tale società pendenti innanzi alla AG di Taranto) nel contesto del patto "corruttivo" sopra riportato.

Tali somme sono state, infatti, ritenute — sulla base degli indizi raccolti — provento del delitto di corruzione in atti giudiziari (per 273.000 euro) e del delitto di concussione (per un importo di 5000 euro) sopra indicati.

Sono state eseguite perquisizioni presso le abitazioni e luoghi di lavoro dei suddetti cinque indagati attinti da misura cautelare personale.

Potenza, 08/06/2021 - II Procuratore della Repubblica Francesco Curcio

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 10 giugno 2021. L'inchiesta della procura di Potenza che ha portato Amara e Paradiso in carcere disegna un sistema corruttivo che seguiva questo schema: il magistrato Carlo Maria Capristo (prima a Trani poi capo della procura di Taranto) «in cambio del costante interessamento di Amara e Paradiso per gli sviluppi della sua carriera» garantiva all'avvocato della fantomatica loggia Ungheria «utilita, vantaggi e agevolazioni professionali». Il procuratore di Potenza Francesco Curcio sostiene che, mentre Amara e Paradiso mettevano in piedi una «incessante attivita di raccomandazione, persuasione e sollecitazione» a favore di Capristo «sui membri del Csm da loro conosciuti direttamente o indirettamente», il magistrato corrotto garantiva all'ex legale di Eni «utilità, vantaggi ed agevolazioni professionali». Secondo l'accusa Capristo, quando era capo procuratore a Trani, per aiutare Amara nei suoi rapporti con l'Eni prima ha dato credito ad alcuni esposti anonimi redatti pero dallo stesso Amara, che cerco attraverso un depistaggio di danneggiare il processo dei magistrati milanesi sulla presunta tangente in Nigeria (dibattimento in primo grado si e recentemente concluso con un'assoluzione).Una volta, poi, arrivato a capo della procura di Taranto grazie alla sponsorizzazione di Amara e Paradiso, Capristo «si rendeva promotore di un approccio dell'ufficio certamente più aperto e dialogante alle esigenze di Ilva».

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 10 giugno 2021. Chi è davvero Filippo Paradiso? Un semplice assistente di polizia, come segnalano dal Viminale, che ha lavorato nelle segreterie di politici di ogni partito? O un lobbista pagato sottobanco dall’avvocato dei misteri Piero Amara per fare pressioni su membri del Csm, compresa l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati? Un referente dei servizi segreti? Oppure un trait d’union tra ecclesiastici e pezzi delle istituzioni? Paradiso, arrestato per una presunta corruzione dell’ex capo della procura di Taranto Carlo Maria Capristo e ad Amara, è tutte queste cose insieme. Un “facilitatore”, in grado – ipotizzano i pm – di congiungere il mondo di sopra del potere romano e quello di sotto, dove vivono faccendieri, imprenditori e professionisti che talvolta provano ad agganciare chi è più in alto attraverso mediatori. Paradiso, ha scoperto Domani, non è solo un novello poliziotto-lobbista, ma pure un pubblico ufficiale con uno stipendio da poco più di duemila euro al mese che, in appena dieci anni, è riuscito a creare un tesoretto personale di oltre due milioni di euro. Denaro dall’origine misteriosa custodito in una polizza assicurativa finita nel mirino dell’antiriciclaggio. Poliziotto «relation man» L’amico della presidente del Senato non ama essere definito assistente di polizia. Anche perché lui su una volante ci è salito solo da giovanissimo. Paradiso è innanzitutto un «relation man», come lo definisce un testimone nei verbali agli atti dell’indagine della procura di Potenza guidata da Francesco Curcio. Non a caso Paradiso è stato preso nella squadra di Casellati (per tre mesi: alle prime avvisaglie di tsunami giudiziari gli uscieri di palazzo Madama gli hanno indicato l’uscita) per organizzare eventi. La carriera dell’agente segue due binari. Uno ufficiale e uno ufficioso. Direttrici che spesso si incrociano. Poliziotto arrestato negli anni Novanta con l’accusa di omicidio volontario durante una rapina (accusato da un pentito, fu del tutto scagionato tanto da ricevere 270mila euro dallo stato per ingiusta detenzione), nel tempo si è creato ottime entrature anche Oltretevere. Ostentando pure, si legge nelle carte dell’inchiesta di Potenza, «solide entrature nei servizi di sicurezza». Amico di Marco Mancini, caporeparto del Dis “pensionato” da Mario Draghi e Franco Gabrielli, e di politici di destra e sinistra (Francesco Boccia ha ammesso di conoscerlo da anni) e magistrati di rilievo di varie correnti (da Luca Palamara a Cosimo Ferri), Paradiso appena uscito dal carcere comincia a collaboratore nelle segreterie di ministeri e palazzi del potere. Parte nel 2004 dagli uffici dell’ex ministro Rocco Buttiglione, passando poi a quelli dell’ex portavoce di Berlusconi Paolo Bonaiuti, fino a quelli dell’ex ministro Saverio Romano e – nel 2018 – alla segreteria di Matteo Salvini: più volte Paradiso ha raccontato ai suoi interlocutori delle sue buone entrature (millantava?) con l’ex capo di gabinetto del leghista, l’attuale prefetto di Roma Matteo Piantedosi. Dopo la breve esperienza a palazzo Madama su chiamata di Casellati (in un’altra inchiesta, il poliziotto è accusato con Amara di traffico di influenze proprio per aver “usato” a sua insaputa la presidente del Senato per fini privati) Paradiso è planato nella segreteria del grillino Carlo Sibilia, il sottosegretario dall’Interno che l’ha voluto con sé nonostante il suo nome fosse già accostato a pregiudicati e affaristi. Il prezzo dei contatti Camaleontico e trasversale, per gli inquirenti Paradiso nasconde più di un segreto. Uno dei più rilevanti è quello della sua enorme capacità di risparmio. Come fa il poliziotto ad avere nel portafoglio una polizza da oltre due milioni di euro? Secondo le procure di Potenza e di Roma, infatti, Amara lo foraggiava. Ma con piccole somme e altre micro-utilità: c’è chi ha messo a verbale di aver visto l’ex legale dell’Eni consegnare 2.100 euro in contanti, si parla di un appartamento usato senza pagare il canone, agli atti c’è pure qualche viaggio gratis sulla tratta Roma-Bari. Robetta. Anche il risarcimento da 270 mila euro incassato dallo Stato nel 2007 non spiega come mai un agente che prende 2.200 euro al mese abbia potuto accumulare una fortuna simile. «La polizza assicurativa tuttora in essere, è stata accesa in data 26 giugno 2007. Il totale dei premi versati ammonta a € 2.160.650,00, tutti corrisposti con addebito sul conto corrente n. 1149 intrattenuto da Paradiso presso la Banca Popolare di Puglia e Basilicata», si legge in una relazione dell’Uif, l’unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. In pratica, il poliziotto-lobbista che ha lavorato per Amara, negli anni in cui collaborava nei gabinetti e negli uffici di ministeri e in Senato, versava di continuo somme a cinque zeri, che andavano a costituire il capitale di una polizza diventata milionaria in meno di dieci anni. Gli investigatori finanziari riportano un elenco dei versamenti divisi per anno: nel 2007, l’anno in cui Paradiso sostiene di aver percepito il primo risarcimento da 160mila euro, ne versa 250 sulla polizza; l’anno dopo ben mezzo milione; tra il 2016 e il 2017, periodo delle trame con Amara, altri 130mila accrescono il capitale. Ogni anno l’investimento garantisce così a Paradiso anche un rendimento, una sorta di stipendio extra sulla base di quanto ha reso la polizza: si passa dai quasi 4mila del 2007 agli oltre 24mila del 2019. I sospetti Anche i pm di Potenza hanno più di un sospetto e scrivono che la polizza «di gestione patrimoniale» è «incompatibile con il suo regime reddituale». La domanda è semplice: come ha fatto un semplice agente di polizia a mettere da parte una cifra del genere? Come e da chi ha ottenuto somme così rilevanti? Un anno fa, davanti ai magistrati di Roma che gli chiedevano conto dell’origine del tesoro milionario, Paradiso si è avvalso della facoltà di non rispondere. Quello della polizza è solo l’ultimo dei segreti di un assistente di polizia dai mille volti. Un poliziotto che secondo qualcuno vendeva quello che a Roma vale più della Fontana di Trevi: l’agenda telefonica e le capacità relazionali.

Aveva capito tutto ma gli fu tolto il fascicolo. Voleva arrestare Amara tre anni fa, ma è finito indagato: la beffa per il Pm Fava. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Oltre il danno la beffa per l’ex pm romano Stefano Rocco Fava. La Procura di Potenza questa settimana ha arrestato l’avvocato Piero Amara e lui, che avrebbe voluto farlo già agli inizi del 2019, finisce sul banco degli imputati proprio a causa di questo mancato arresto. La storia di Fava, attualmente giudice civile al Tribunale di Latina, ricorda molto da vicino la trama di un film di Luis Bunuel. Fava, prima di essere trasferito, ha prestato servizio per anni presso il dipartimento reati contro la pubblica amministrazione della Procura di Roma, a oggi coordinato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. Sul finire del 2018 il pm in una sua indagine si imbatte in Amara, allora un avvocato di provincia divenuto famoso per aver creato il “Sistema Siracusa”, l’associazione di professionisti, imprenditori e magistrati, nata per pilotare i processi e aggiustare le sentenze, soprattutto al Consiglio di Stato. Amara, classe 1969 da Augusta, dal 2002 era legale esterno per l’Eni con incarichi tutti molto ben retribuiti. A settembre del 2016 8 pm su 11 della Procura di Siracusa avevano scritto al Ministero della giustizia evidenziando “gravi anomalie nelle gestione dei fascicoli” e mettendo fine a questo periodo professionalmente felice per Amara. Con l’aiuto dal pm Giancarlo Longo, che crea fascicoli “specchio” con cui controllava quello che facevano i colleghi, fascicoli “sponda” che servivano a tenere in piedi attività in vista di eventuali sviluppi, e fascicoli “minaccia” aperti nei confronti di chi intralciava i piani criminosi, Amara non aveva concorrenti. A febbraio del 2018 Amara e Longo vengono dunque arrestati in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma. In carcere Amara rimane poco e, tornato in libertà, inizia una “collaborazione” con i magistrati rendendo “ampie confessioni”. Anche se il pg di Messina Felice Lima descriverà l’accaduto come una delle più estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate nella storia italiana. Il patteggiamento lo mette al riparo da sequestri e confische. Fava non crede che Amara stia dicendo tutto ciò di cui è a conoscenza. E, pertanto, chiede un nuovo arresto per altre corruzioni. È “reticente verso i soggetti con cui si interfaccia”, scrive il pm, che evidenzia anche rapporti poco chiari con il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, quelli che saranno alla base dell’arresto di questa settimana da parte della Procura di Potenza. “Sulla vicenda Capristo non mi sembrano spendibili”, scriverà Ielo in risposta a Fava. Amara, in particolare, aveva ricevuto ingenti somme, circa 25 milioni di euro, di cui non era in grado di giustificare la ragione e che nessuno gli sequestrerà mai. «Ritengo utile risottoporre a intercettazioni Amara perché è iniziato l’accertamento tributario su Napag (una sua società, ndr) da parte dell’Agenzia delle Entrate e per le attività di indagine che dovremo compiere presso Eni. Analogamente si potrebbe procedere con Fabrizio Centofanti (altro faccendiere, ndr) per capire se mantiene la sua rete relazionale», fa presente Fava. Ielo, e l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, la pensano in modo diverso e non danno il loro assenso. Seguono momenti di grande tensione in Procura. Fava evidenzierà anche i legami di Amara con i fratelli di Pignatone e di Ielo, entrambi avvocati. Sembrerebbe che il fratello di Pignatone, Roberto, abbia ricevuto importati pagamenti per attività professionali da Amara. Amara viene assistito dall’avvocato Salvino Mondello in rapporti di amicizia con Ielo, che aveva avanzato a tal riguardo istanza di astensione, rigettata da Pignatone. Il 5 marzo il fascicolo a carico di Amara viene definitivamente tolto a Fava. Il magistrato, allora, decide di segnalare al Csm quanto sta accadendo. L’esposto a Palazzo dei Marescialli, di cui si sono perse le tracce – l’unica cosa certa è che dovrebbe essere presso la Settima commissione – diventa il segno di una campagna di delegittimazione di Pignatone e Ielo. Fava che voleva solo segnalare anomalie nel modo in cui gli era stato tolto il fascicolo avrebbe quindi agito per conto di Luca Palamara che era intenzionato a vendicarsi nei confronti dei due magistrati per altre vicende. Ed ecco che Fava, espropriato dell’indagine, si trova ora indagato a Perugia con l’accusa di aver posto in essere un dossieraggio. Domani è in programma l’udienza preliminare. Nel procedimento Ielo e Pignatone sono parti offese. Fava viene chiamato in causa per degli articoli usciti a maggio del 2019 in cui si faceva riferimento ad asseriti conflitti di interesse di Ielo e Pignatone. Gli autori degli articoli, sentiti dai pm, negheranno di aver avuto notizie da Fava. Oltre al procedimento penale Fava è poi anche sotto disciplinare al Csm. La vicenda sorprendente è che Amara ha commesso reati “ininterrottamente dal gennaio del 2015 al 23 luglio 2019”, come come scrivono i pm di Potenza. E in quel periodo Amara, il principale teste d’accusa nei confronti di Palamara, era sotto intercettazione del Gico della guardia di finanza di Roma. Amara parlava tantissimo, centinaia le conversazioni intercettate, ma per il Gico nulla di interessante sotto il punto di vista investigativo. Sul fronte Csm si segnala ieri la decisione di archiviare il fascicolo relativo all’altro procuratore aggiunto di Roma, Antonello Racanelli, che era stato aperto nell’ambito della valutazione sulle posizioni dei magistrati coinvolti nelle conversazioni e nelle chat di Palamara. La decisione, che quindi fa venire meno un provvedimento di trasferimento d’ufficio, è stata approvata a maggioranza con 15 voti a favore, 2 contrari, i laici Stefano Cavanna (Lega) e Fulvio Gigliotti (M5s) e 6 astensioni, quasi tutti i togati di Area. Il consigliere Giuseppe Cascini, ex aggiunto a Roma, non ha partecipato al voto. Nella delibera approvata si legge: “Non risulta che attualmente vi sia una perdita di imparzialità ed indipendenza di Racanelli tale da compromettere l’esercizio della giurisdizione nella sede”. Paolo Comi

Fava capì che Amara bluffava e disse di fermarlo, ma Ielo e Pignatone lo ignorarono. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Il pm Stefano Rocco Fava aveva ragione nel definire la collaborazione di Piero Amara con i magistrati un tarocco. Non era, dunque, un mitomane come qualcuno ha voluto far credere in questi anni. Nella settimana dell’arresto dell’avvocato siciliano da parte della Procura di Potenza, emergono nuovi inquietanti particolari, come la mail che pubblichiamo nella foto, sulla gestione del procedimento penale che gli era stato aperto a Roma. Amara era stato arrestato la prima volta nel febbraio del 2018 a seguito di una operazione congiunta della Procura della Capitale e di quella di Messina che indagavano sul famoso “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti nata per aggiustare i processi. Dopo qualche settimana in carcere, Amara decide che è giunto il momento di “collaborare” con i pm. La collaborazione gli varrà, qualche mese più tardi, un patteggiamento a tre anni di reclusione e qualche decina di migliaia di euro di multa. Un “obolo” se si pensa che era accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, alle false fatturazioni e alla corruzione in atti giudiziari in quanto in grado di pilotare le sentenze fino al Consiglio di Stato. A giugno del 2019, per la cronaca, il patteggiamento romano diventerà definitivo. A Messina gli va anche meglio, patteggiando in continuazione la pena di un anno e due mesi di reclusione. Patteggiamenti regalati, dirà il sostituto pg di Messina Felice Lima rivolgendosi alla Cassazione per uno dei coindagati di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore. «Come emerge dalla lettura dei capi di imputazione – aveva scritto Lima nel ricorso – si tratta di una delle più spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate. Stupisce che la Procura di Messina abbia ritenuto legittimo tale patteggiamento». Lima aveva ricordato, a proposito di pene, che sempre a Messina «ad un ladro di uova di Pasqua erano stati dati quattro anni di carcere». Torniamo però a Roma. Fava partecipa con il suo capo, il procuratore aggiunto Paolo Ielo, agli interrogatori di Amara e si accorge subito che l’avvocato siciliano non dice molto ed è anche reticente chiamando in causa quasi solo magistrati in pensione. Nessun accenno, poi, al prezzo del suo silenzio per coprire i vertici Eni. Fava, indagando su una delle società di Amara, la Napag, che, fondata a Gioia Tauro nel 2012 per l’import/export di succhi di frutta si era data ai prodotti petroliferi, scopre che il fatturato è cresciuto a dismisura in pochissimi anni: dall’iniziale capitale di 10mila euro, ai 107 milioni del 2018. Solo Eni avrebbe versato alla Napag Italia srl e alla Napag Trading Limited 80 milioni di euro. Perché? Mistero. Amara, oltre a incassare da Eni, in quei giorni decide di spostare la sede legale delle sue aziende a Martina Franca, in provincia di Taranto. Perché? I rapporti con il procuratore Carlo Maria Capristo. Fava aveva ipotizzato subito che era tutta una manovra per evitare l’accusa di bancarotta. Con il trasferimento di sede si bloccherebbe tutto. Il problema è che lo spostamento è finto. La guardia di finanza, mandata da Fava in Puglia, non aveva trovato nulla. Neppure il nome delle società sul citofono. Fava decide quindi di scrivere una mail a Ielo e a Rodolfo Sabelli, l’altro aggiunto. In copia il colonnello Gerardo Mastrodomenico e Fabio Di Bella, gli ufficiali del Gico che l’anno dopo svolgeranno le indagini contro Luca Palamara. Risposta? Nessuna. Anzi, no: alla sua richiesta di arresto di Amara per queste imputazioni, dopo qualche mese, il fascicolo gli verrà tolto. Fava chiederà chiarimenti al Csm per questa “sottrazione”, evidenziando che il procuratore Giuseppe Pignatone e Ielo avrebbero dovuto astenersi perché i loro rispettivi fratelli, Roberto e Domenico, avrebbero avuto rapporti economici proprio con Amara e con l’Eni. Roberto Pignatone, in particolare, professore associato di diritto tributario all’Università di Palermo, era stato nominato da Amara come consulente fiscale in un procedimento a Siracusa contro Sebastiana Bona, moglie dello stesso Amara, e venne anche inserito nella sua lista testimoniale «affinché riferisca nella qualità di consulente tecnico di parte, sulla relazione tecnica fiscale dallo stesso redatta». «Quindi nel periodo in cui stanno per iniziare – scriverà Fava – le indagini che coinvolgeranno Amara, questi ha come consulente difensivo il fratello del capo della Procura che chiedeva il suo arresto» e che poi avallerà il patteggiamento. Nel procedimento romano Amara, come scritto nelle scorse settimane dal Riformista, era stato assistito dall’avvocato Salvino Mondello, in stretti rapporti di amicizia proprio con Ielo, la cui astensione sul punto era stata respinta da Pignatone. Risposta del Csm alle osservazioni di Fava? Nessuna. Paolo Comi

LO SHOW GIUDIZIARIO-MEDIATICO DEL PROCURATORE DI POTENZA CONTINUA. NUOVI ARRESTI, MA NESSUNO E’ DI POTENZA …Il Corriere del Giorno l'8 Giugno 2021.  Effettuate delle perquisizioni domiciliari nei confronti delle persone colpite dall’ordinanza del procuratore di Potenza Curcio, che per quanto riguarda la vicenda Capristo, potrebbe condizionare in qualche modo il corso del processo in corso, la cui prossima udienza si terrà il 18 giugno dinnanzi al Tribunale di Potenza. Nuove misure cautelari sono state richieste dalla Procura di Potenza, convalidate dal gip del Tribunale di Potenza, Antonello Amodeo nell’ambito di un’inchiesta che riguarda presunte irregolarità che sarebbero state commesse dall’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, nel corso di indagini sull’ex ILVA. Le nuove misure riguardano l’avvocato siciliano Pietro Amara arrestato a Roma verrà trasferito a Potenza, l’ex procuratore di Taranto Capristo, arresti domiciliari per Giacomo Ragno avvocato del Foro di Trani a cui è stata sequestrata la somma di 278.000 euro pari all’importo delle parcelle professionali pagate in suo favore da ILVA in amministrazione straordinaria, il poliziotto Filippo Paradiso dipendente del Ministero dell’Interno e nei ruoli della Polizia di Stato, attualmente distaccato presso lo staff del sottosegretario all’ interno Carlo Sibilia (M5S) nonché Nicola Nicoletti, socio della società Pwc – PricewaterhouseCoopers. Nei confronti di Capristo che è attualmente sotto processo per la prima vicenda giudiziaria che l’ha colpito, è stato disposto l’obbligo di dimora. Amara secondo le ipotesi accusatorie del procuratore Francesco Curcio avrebbe avuto rapporti frequenti con Capristo. Rapporti che Capristo ha sempre smentito e chiarito in tutte le sedi. In realtà l’avvocato Amara è stato soltanto consulente del prof. Laghi, che era uno dei tre commissari di ILVA in amministrazione straordinaria, ed insieme a lui ha partecipato solo a poche riunioni presso la Procura di Taranto, in quanto il legale dell’ILVA che interloquiva con la procura è sempre stato l’avv. Angelo Loreto come tutti i magistrati di Taranto che indagavano sull’ ILVA ben sanno. Effettuate delle perquisizioni domiciliari nei confronti delle persone colpite dall’ordinanza del procuratore di Potenza Curcio, che per quanto riguarda la vicenda Capristo, potrebbe condizionare in qualche modo il corso del processo in corso, la cui prossima udienza è fissata per il 18 giugno dinnanzi al Tribunale di Potenza. Durante la prima inchiesta sul caso Capristo, il procuratore di Potenza Curcio si è recato più volte a Taranto per interrogare dei dirigenti ILVA all’ interno del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, alla ricerca di ipotetici reati accusatori nei confronti di Capristo. Le voci circolanti (che non possiamo confermare in quanto non eravamo presenti) parlavano di presunte pesanti pressioni del procuratore Curcio esercitate sui dirigenti dell’ILVA. I cinque sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione in atti giudiziari. Nell’inchiesta è coinvolto anche l’ex gip di Trani, Michele Nardi, incredibilmente a piede libero, che secondo le ipotesi degli inquirenti basate sulle dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno l’imprenditore coratino delle ceramiche arrestato nel 2007 per usura ai danni di commercianti del Nord Barese, condannato dalla Corte di Cassazione a 5 anni e 6 mesi di reclusione (per reati per i quale è previsto l’arresto) e 16.500 euro di multa. Secondo le dichiarazioni di D’ Introno, Michele Nardi avrebbe utilizzato il suo ruolo di ispettore ministeriale sostenendo Capristo come candidato alla nomina a procuratore di Trani, pretendendo in cambio una “tutela” rispetto alle indagini nei confronti di Nardi aperte all’epoca a Trani. Capristo, Nardi, D’Introno, Ragno, l’ex pm tranese Antonio Savasta, il commercialista Massimiliano Soave e il ragioniere Franco Maria Balducci e il carabiniere Martino Marancia sono stati indagati a piede libero per “concussione” con l’accusa di aver truccato due fascicoli di indagine della Procura di Trani, inducendo le “vittime” di nominare come avvocato difensore Ragno e Balducci o Soave come consulenti. Secondo la Procura di Potenza Capristo diventato procuratore di Taranto avrebbe anche favorito Amara e Nicoletti, , mostrandosi “più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’ILVA“. In questo modo secondo l’ ipotesi accusatoria Capristo avrebbe rafforzato nei confronti dell’amministrazione straordinaria “il convincimento che Amara e Nicoletti, nelle loro vesti di legale il primo e consulente factotum della amministrazione straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto“. L’ex procuratore di Taranto Capristo, secondo l’accusa “manifestava apertamente (…) la sua posizione “dialogante” con il Nicoletti e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva determinando un complessivo riposizionamento della Procura di Taranto rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative impostate dal suo predecessore, Franco Sebastio: questo sarebbe avvenuto, ad esempio, sollecitando un sostituto a «concedere la facoltà d’uso dell’Altoforno 2 nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’ILVA alle prescrizioni». A Capristo i pm di Potenza contestano anche “la benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di ILVA, determinando un riposizionamento del suo ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali e investigative manifestate dal suo predecessore”. Inoltre Capristo avrebbe fatto pressioni su alcuni pm di Taranto (ma incredibilmente non c’è traccia di alcuna denuncia da parte di questi pm) per valutare positivamente le posizioni di alcuni indagati o addirittura chiederne l’archiviazione. Ed avrebbe contemporaneamente “condizionato i dirigenti di ILVA, sottoposti a procedimenti penali, affinché concedessero incarichi difensivi all’avvocato Ragno”. Ipotesi questa che però al momento non trova riscontro in alcuna denuncia di questi dirigenti alla magistratura. E’bene informare i nostri lettori che il procuratore di Potenza Francesco Curcio dopo il primo arresto di Capristo, aveva presentato una querela nei confronti del nostro direttore Antonello de Gennaro per un suo articolo (leggi QUI) , ma il pm dr. Pierluigi Cipolla della Procura di Roma dopo aver acquisito dalla procura lucana tutti gli atti necessari per capire la situazione ed accertare la verità, non ha ritenuto diffamatori i nostri commenti sull’operato del dr. Curcio sulla vicenda giudiziaria che coinvolge l’ex-procuratore di Taranto. Conseguentemente il procuratore di Potenza è stato denunciato dal nostro direttore dinanzi alla Procura di Catanzaro, guidata da un signor procuratore capo, Nicola Gratteri, il quale non si piega o lascia condizionare dalle logiche “correntizie” di Area, il movimento dei magistrati di sinistra a cui appartiene Curcio ed il procuratore aggiunto facente funzione di Taranto Maurizio Carbone. La domanda che gli avvocati di Napoli che ben conoscono Curcio, che ha a lungo operato nella procura napoletana, è la seguente: “ Ma se tutto questo alla fine si rivelasse un altro “flop” come lo è stata l’inchiesta sulla P4, cosa diranno al CSM ? Promuoveranno ancora una volta il magistrato Curcio senza averne i titoli ?”. Un pubblico ministero che conosce molto bene Capristo in maniera confidenziale ci ha affidato una sua domanda “aperta”: “Ma se Capristo dovesse provare la sua innocenza, chi gli chiederà scusa e restituirà l’onore della sua lunga carriera macchiata da una discutibile inchiesta giudiziaria di una Procura di provincia che ama stare sempre al centro dell’attenzione mediatica ?” Ai posteri l’ardua sentenza.

LA PROCURA DI POTENZA ED IL GIP A CACCIA DI CONFESSIONI DEGLI ARRESTATI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'11 Giugno 2021. Il “teorema” della Procura di Potenza per quanto riguarda Amara e Paradiso, è stato condiviso dal gip Antonello Amodeo sarebbe quello di aver fatto attività di lobbyng per agevolare la carriera di Capristo , ma di fatto non vengono identificate ed indicate nell’ordinanza le persone che concretamente lo avrebbero favorito, nè tantomeno provato come lo avrebbero fatto. La linea difensiva dell’avvocato Piero Amara con il Gip ed i pubblici ministeri che lo hanno fatto arrestare, nell’interrogatorio di ieri mattina durato due ore si è confrontato con il magistrato,  è stato quello di ricondurre la propria attività a “lobbying” professionale ed imprenditoriale negando ogni presunto favore ricevuto da Capristo, che peraltro allo stato degli atti d’indagine non risulta comprovato, in quanto prove e riscontri oggettivi allo stato attuale sono assolutamente assenti . L’avvocato siciliano, diventato famoso per le sue rivelazioni sulla fantomatica “loggia Ungheria”, ha escluso di aver avuto un “interesse personale alla nomina a Taranto di Capristo” ed un’attenta lettura dell’ordinanza, per chi conosce la storia dell’ILVA, del processo Ambiente Svenduto, sembrerebbe dargli ragione. Il poliziotto Filippo Paradiso attualmente detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, si è avvalso della facoltà di non rispondere “non essendo nelle condizioni fisiche per farlo e non conoscendo ancora gli atti”, ed attraverso il suo difensore l’ avv. Michele Laforgia del Foro di Bari, ha negato di avere fatto quanto gli viene contestato “Che ci fosse una relazione con Amara risulta agli atti, che fosse illecita è un altro problema” ed ha assicurato che anche lui “spiegherà le proprie ragioni ” riservandosi di chiedere di essere ascoltato nei prossimi giorni. Il “teorema” della Procura di Potenza per quanto riguarda Amara e Paradiso, è stato condiviso dal gip Antonello Amodeo sarebbe quello di aver fatto attività di lobbyng per agevolare la carriera di Capristo, ma di fatto non vengono identificate ed indicate nell’ordinanza le persone che concretamente lo avrebbero favorito, nè tantomeno provato come lo avrebbero fatto. Questa mattina viene ascoltato l’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, destinatario di un obbligo di dimora nella sua abitazione di Bari. Secondo la difesa dell’ex-procuratore le contestazioni della Procura di Potenza altro non sarebbero che “frutto di congetture, supposizioni e millanterie di faccendieri”. Seguirà l’interrogatorio dell’avvocato Giacomo Ragno e dell’ex consulente Ilva Nicola Nicoletti, entrambi agli arresti domiciliari dallo scorso 8 giugno. Costoro insieme agli ex magistrati tranesi Michele Nardi ed Antonio Savasta, vengono ritenuti dalla procura lucana “il cerchio magico di Capristo”. Nell’ipotesi investigativa delle pm Valeria Farina e Annagloria Piccinni coordinate dal procuratore Francesco Curcio, vengono contestati reati di abuso d’ufficio, concussione, corruzione in atti giudiziari, favoreggiamento. Ma qualcuno dimentica, giornalisti locali compresi, che nelle lunghe approfondite indagini sul “sistema Trani” della Procura di Lecce (che coinvolgeva i magistrati Nardi, Scimè, Savasta) competente per territorio sugli uffici giudiziari di Trani, e sugli approfondimenti della sezione disciplinare e del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, nei confronti di Capristo non è mai emersa alcuna responsabilità. Amara assistito dagli avvocati Salvino Mondello e Francesco Montali, non ha minimamente condiviso l’impianto accusatorio della procura di Potenza, pressochè quasi integralmente riportato nell’ordinanza di custodia cautelare del Gip, precisando alcuni fatti e fornendo una diversa ricostruzione di altre contestazioni a suo carico. Una posizione molto chiara e ben diversa dall’atteggiamento collaborativo che sta tenendo con altre Procure. Secondo la Procura di Potenza si tratterebbe di “una strategia delle mezze verità, che depistano più di quelle vere “dall’esame delle dichiarazioni rese dall’avvocato Amara alle procure di Messina, Roma e Milano, nelle quali avrebbe ammesso ciò che non poteva negare ma nascosto parte rilevante dei fatti e circostanze importanti”. A noi al momento l’attuale impianto accusatorio riportato nell’ordinanza del Gip, ricorda invece un analogo “teorema giudiziario” del procuratore Curcio (all’epoca dei fatti soltanto sostituto procuratore) sull’ inchiesta sulla presunta P4 condotta insieme al pm Heny John Woodcock , che nel corso del giudizio in Tribunale si è dissolta come neve sotto al sole. “Una associazione segreta a delinquere fatta da una sola persona. La terribile P4” – scriveva Luca Fazzo su IL GIORNALE – “l’associazione che infettava il paese, “organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e la amministrazione della giustizia”, “interferendo su organi costituzionali”, trafficando notizie segrete e manovrando nomine, non esisteva. L’unico condannato, l’uomo d’affari Luigi Bisignani (che ha patteggiato la pena a un anno e sette mesi) era evidentemente associato solo con se stesso. Una auto-associazione a delinquere”. In quell’occasione vennero incriminati come “sodali” di Papa e Bisignani persino il capo di Stato maggiore Michele Adinolfi e il generale Vito Bardi comandante in seconda della Guardia di Finanza (ora presidente della Regione Basilicata n.d.a. ) . Tutti e due poi archiviati, quando ormai le carriere erano finite in discarica. Nel frattempo, Papa sopravviveva a Poggioreale, pressato dai pm perché scegliesse di collaborare. Alla fine perse la pazienza, e scrisse una lettera a un amico senatore: «Il pm Woodcock mi ha fatto sapere che sarebbe disponibile a farmi scarcerare se ammettessi almeno uno degli addebiti e rendessi dichiarazioni su Berlusconi e Lavitola e almeno su Finmeccanica». Papa non accontentò i pm, e quando venne scarcerato dal giudice preliminare la Procura fece (invano) ricorso per rispedirlo in carcere. “Dopo nove anni, tutto finisce in niente. – scriveva IL GIORNALE – Certo, rimane la condanna patteggiata “per gravi motivi familiari» da Luigi Bisignani, unico colpevole di una associazione inesistente. «Mi dispiace – diceva Bisignani – che mia madre non ci sia più. A quasi novant’anni aveva subito una perquisizione corporale alla ricerca di floppy disk. Ovviamente come mi consente la legge, chiederò la revisione: che arriverà, mi dicono, fra molti anni». Sulle presunte pressioni e contatti con la presidente del Senato Elisabetta Casellati, all’epoca componente del Csm, per arrivare alla nomina di Capristo riportate negli atti del Gip e della procura, lo stesso procuratore di Potenza Francesco Curcio con una nota diffusa ieri (ma non pervenuta al nostro giornale) ha precisato che non è “confermata la circostanza che l’allora componente del Csm, Elisabetta Casellati, (attuale Presidente del Senato) abbia avuto un incontro diretto e personale con l’avvocato Piero Amara“ evidenziando che la precisazione è stata fatta “per garantire una informazione aderente alle attuali emergenza investigative, ferme restando la perdurante sussistenza delle circostanze di fatto e diritto poste a sostegno della ordinanza cautelare adottata contro gli indagati”.

Ma il procuratore Curcio evidentemente non deve essersi informato molto bene con i suoi colleghi e compagni di corrente di Area al Csm. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto, che la Casellati non è stata relatore della proposta di nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Ed avrebbe scoperto tante altre cose che di fatto scagionano l’ex procuratore capo di Trani e Taranto dalle ipotesi accusatorie lucane.

DIETRO LE QUINTE DELLA NOMINA DEL PROCURATORE FRANCESCO CURCIO A CAPO DELLA PROCURA DI POTENZA. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 19 Giugno 2021. L’allora procuratore aggiunto della procura di Potenza Basentini – è l’11 gennaio 2018 – scriveva a Palamara su whatsapp: “Luca, ho saputo che oggi la Comm. proporrà Curcio. ahimè… Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”. Palamara rispondeva: “Si purtroppo è così”. Era il 14 marzo del 2019 quando la nomina di Francesco Curcio 65 anni originario di Polla ma nato a Bari, come procuratore capo della Procura di Potenza venne annullata dal TAR Lazio accogliendo il ricorso presentata dal pm potentino Laura Triassi contro le valutazioni compiute tra la fine del 2017 e gli inizi del 2018 dal Consiglio superiore della magistratura nell’assegnazione dell’ incarico direttivo a capo della Procura del capoluogo lucano, nomina particolarmente ambita e da sempre oggetto di attenzioni “correntizie”. La Triassi che a sua volta aveva presentato domanda, si rivolse ai giudici amministrativi evidenziando, in particolare, la mancata valutazione da parte della 5a Commissione del CSM, della propria esperienza maturata come procuratore facente funzioni a Potenza, che è anche sede distrettuale antimafia, tra il 2012 e il 2014 che all’epoca aveva dovuto anche gestire l’accorpamento dell’ufficio potentino con quello della soppressa procura della Repubblica di Melfi, gestendone la riorganizzazione. Quindi la magistrata aveva titoli più che a sufficienza per ottenere l’incarico desiderato, considerato dal momento che terminata l’esperienza come “facente funzioni” è tornata al lavoro come semplice sostituto antimafia. Incarichi di peso, sopratutto se comparati con quello del concorrente Curcio che all’atto della sua nomina non aveva mai avuto esperienze direttive o semi-direttive, mentre la Triassi sì. Solo che l’organo di autogoverno (o “lottizzazione” correntizia) della magistratura aveva scelto diversamente. Nacque da qui il ricorso e le pronunce dei giudici amministrativi che hanno dato pienamente ragione alla Triassi, smascherando le solite manovre di lottizzazione vigenti nella 5a commissione del CSM. Un malcostume recentemente ammesso e confermato dall’ex pm Luca Palamara già presidente dell’ANM, l’Associazione nazionale magistrati, in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Repubblica‘. “Perché Palamara non si è svegliato una mattina e ha inventato il sistema delle correnti. Ma ha agito e ha operato facendo accordi per trovare un equilibrio e gestire il potere interno alla magistratura – ha affermato Palamara -. La Costituzione ha voluto che la magistratura fosse autonoma e indipendente. Per esercitare questo potere i magistrati hanno scelto di organizzarsi in correnti che nascono con gli ideali più nobili, ma che storicamente hanno poi subito un processo degenerativo…“. Il Tar Lazio nella sua sentenza parla di omissioni che “appaiono incomprensibili, per la rilevanza delle esperienze, e certamente integrano un importante difetto di istruttoria che inficia, ex se, il giudizio finale” ricordando la presenza di una circolare del Csm che nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, impone “una attività di natura valutativa che non può risolversi nella semplice enunciazione delle esperienze dei candidati, dovendo estrinsecarsi in un apprezzamento di esse, alla luce della rilevanza che possono avere con riferimento al posto da ricoprire“. Il collegio del tribunale amministrativo del Lazio presieduto da Carmine Volpe (estensore Roberta Ravasio e Lucia Brancatelli referendario) proseguiva spiegando che “nel caso di specie si deve rilevare che effettivamente gli atti impugnati sono assolutamente carenti nella disamina dei requisiti attitudinali specifici vantati dalla dottoressa” (Triassi n.d.a.). Un anno dopo, il 10 gennaio 2020 il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato dal dr. Curcio contro la decisione del TAR Lazio evidenziando, nella sua pronuncia sulla nomina come procuratore di Potenza, che il suo sindacato non si spinge a sostenere l’irrilevanza delle funzioni svolte da Curcio “quale sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo” criticando e stigmatizzando “l’assenza di una comparazione esplicita, ed in quanto tale misurabile secondo gli usuali canoni della ragionevolezza e proporzionalità“, tra questa e quella da procuratore facente funzioni di Triassi, che invece risulta del tutto obliterata nelle valutazioni del suo profilo da parte del Csm. Il collegio di Palazzo Spada composto dal presidente Giuseppe Severini, estensore Stefano Fantini, e consiglieri Giovanni Grasso, Anna Bottiglieri e Elena Quadri) bocciarono anche la difesa d’ ufficio ( o di “corrente” ?) del Consiglio superiore della Magistratura che si era costituito in udienza per contestare “la necessità di un’analitica valutazione dei profili dei candidati con riferimento alle attitudini ed al merito“, a favore di una “tecnica di redazione di maggiore concisione sia nella presentazione (od elencazione) dei candidati, che nel giudizio comparativo, in assenza di una prescrizione normativa specifica che lo precluda“. Nel caso in questione, più che di “concisione” bisognerebbe parlare di una grave “omissione” di una circostanza rilevante che ne aveva inficiato la completezza. “La valutazione analitica non può, per definizione, essere implicita, basandosi sulla mera affermazione dell’avvenuta disamina dei fascicoli personali degli aspiranti –evidenziava il Consiglio di Stato – trovando il proprio epilogo in un giudizio complessivo ed unitario, frutto della valutazione integrata e non meramente cumulativa degli indicatori”. Il Csm colpito da continui scandalo conseguenti alle vergognose manovre correntizie di alcune proprie nomine, avrebbe dovuto tornare sul suo operato, “rivalutando – come scriveva il Tar del Lazio – la posizione della ricorrente e poi comparandola”. Il Fatto Quotidiano nell’edizione di sabato 23 maggio 2020 riportava una conversazione in chat del gennaio del 2018 fra l’ex-capo del DAP Basentini con il presidente dell’Anm alla vigilia della nomina del procuratore capo di Potenza. Secondo la ricostruzione del Fatto, Basentini avrebbe chiesto a Palamara di fare qualcosa in favore di Luigi D’Alessio (procuratore capo di Locri dal 2013), protagonista dell’indagine contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, preferito a Francesco Curcio (poi nominato dal Csm). L’allora procuratore aggiunto della procura di Potenza Basentini – è l’11 gennaio 2018 – scriveva a Palamara su whatsapp: “Luca, ho saputo che oggi la Comm. proporrà Curcio. ahimè… Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”. Palamara rispondeva: “Si purtroppo è così”. Palamara aggiungeva “Ti devo parlare però” e Basentini prudente: “Quando vuoi, chiamami su whatsapp”. Soltanto 5 mesi dopo il 4 giugno 2020, con relatore il consigliere Giuseppe Cascini, coordinatore della corrente di “Area”, guarda caso… il Csm ha nominato Laura Triassi procuratore capo a Nola, sollevando dall’incarico il magistrato Anna Maria Lucchetta che si era insediata nel 2017, e che quindi non aveva neanche completato il proprio primo quadriennio di incarico direttivo. Una decisione presa a seguito di un altro ricorso al TAR presentato dalla dottoressa Triassi contro le nomine “allegre” e lottizzate del CSM, dove antichi usi ed abitudini di lottizzazione non sono mai cambiati neanche dopo lo scandalo esploso dal caso Palamara! Resta normale chiedersi: come mai il Csm non ha rimosso immediatamente Curcio dalla guida della Procura di Potenza visto che per il TAR Lazio ed il Consiglio di Stato avevano accertato e stabilito che il magistrato (appartenente alla “sinistrorsa” corrente di “Area”, la stessa di Cascini membro del del CSM) non era in possesso dei requisiti, comparati a quelli della dottoressa Laura Triassi ? Semplice. Con la nomina della Triassi a capo dalla procura di Nola, del piccolo centro ai confini dell’area metropolitana di Napoli, è venuta automaticamente meno l’interesse per la “contestata” procura lucana, e la conferma di Curcio sulla sua poltrona a Potenza diventava una pura formalità e così è stato. E’ forse un caso la precisazione di Curcio sul CSM nella recente vicenda che ha colpito l’ex-procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (senza alcuna prova concreta) ? leggere “Deve essere tuttavia precisato, sia in fatto che in diritto, che l’attivazione Amara-Paradiso con attività di lobbing per la nomina di Capristo a Taranto non implica alcuna indagine sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, questione estranea alla richiesta del pm nel presente procedimento e in relazione alla quale non viene delineato alcun profilo di rilevanza penale, che del resto esulerebbe dalla competenza di questo ufficio“. Come dire in altre parole: non mi metto contro chi mi fatto diventare procuratore senza averne titolo e merito (rispetto ai concorrenti all’epoca della nomina!) O vogliamo parlare della precisazione di Curcio sul presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Non è confermata la circostanza che l’allora componente del CSM, Elisabetta Casellati, abbia avuto un incontro diretto e personale con l’avvocato Piero Amara”. Ma allora se non è confermata, come mai la Sen. Casellati, attuale Presidente del Senato e quindi la 2a carica dello Stato, viene citata in lungo e largo nelle carte dell’inchiesta? Tutto questo Curcio però non lo spiega nei suoi vari comunicati…. Infatti in una nota (inviata solo alla stampa “amica”) il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, ha evidenziato che la precisazione è stata fatta solo “per garantire una informazione aderente alle attuali emergenza investigative, ferme restando la perdurante sussistenza delle circostanze di fatto e diritto poste a sostegno della ordinanza cautelare adottata contro gli indagati” nell’inchiesta sulle vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. Quello che Curcio ed i suoi sostituti procuratori della procura di Potenza dovranno provare in tribunale a Potenza, e dalla lettura degli atti ci sembra un compito arduo, ben più difficile della fallimentare inchiesta sulla P4 a Napoli. Come avrebbero fatto i vari Amara, Paradiso, Nardi ecc. a far eleggere Capristo a procuratore a Taranto, visto che lo hanno votato ben 15 magistrati, membri del CSM all’epoca della sua nomina? Se esiste un corruttore, conseguentemente per logica ci deve sempre essere un “corrotto”. In questo i corrotti sarebbero 15 e tutti con la toga, la stessa che indossa Curcio in aula. Ma negli atti di Potenza di questi magistrati corrotti non si vede ombra alcuna. Chissà come mai…

Ex Ilva, a Potenza è il giorno dell'interrogatorio di Capristo. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2021. E’ in programma nella tarda mattinata, nel Palazzo di giustizia di Potenza, l’interrogatorio di garanzia dell’ex Procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, coinvolto nell’inchiesta della Procura del capoluogo lucano sulla corruzione in alcune vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva. Tre giorni fa Guardia di Finanza e Polizia hanno notificato all’ex magistrato (in pensione da alcuni mesi) l'obbligo di dimora a Bari. Stamani, inoltre, si terranno gli interrogatori di garanzia dell’avvocato Giacomo Ragno e di Nicola Nicoletti, consulente dell’Ilva in amministrazione straordinaria dal 2015 al 2018: entrambi si trovano ai domiciliari. Ieri nel carcere di Potenza il principale indagato dell’inchiesta, l’avvocato Piero Amara, ha risposto per due ore alle domande del gip Antonello Amodeo. Si è invece avvalso della facoltà di non rispondere il poliziotto Filippo Paradiso, detenuto da martedì scorso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Potenza, processo a ex procuratore Capristo: ascoltati primi testimoni. Sono stati ascoltati i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni, si svolgerà il 16 giugno. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2021. E’ entrato nel vivo oggi, a Potenza, il processo nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata: nel corso dell’udienza, durata circa sei ore, sono stati ascoltati i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia, primi testimoni dell’accusa. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni, si svolgerà il 16 giugno. I due testimoni ascoltati oggi hanno ripercorso - rispondendo alle domande della pm Anna Gloria Piccininni e dei legali presenti in aula - le attività svolte nelle Procura di Trani e di Taranto, il «clima" negli uffici e dei rapporti con Capristo e con altre persone coinvolte nelle indagini. Entrambi hanno spiegato di essere stati stimati da Capristo per un lungo periodo, ma i rapporti sarebbero poi cambiati nel tempo. L’ex procuratore è accusato di presunte pressioni sulla pm Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell'ufficio. Marazia, marito di Curione e ora pm a Bari (stessa sede della moglie), era invece in servizio a Taranto quando Capristo era stato chiamato a guidare quella Procura, dopo Trani. Capristo è imputato con i tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l’accusa, in concorso con l'ispettore di Polizia Michele Scivittaro (la cui posizione è stata stralciata perché ha patteggiato la pena a un anno e dieci mesi di reclusione), avrebbero tentato di indurre Curione a procedere in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti, contro una persona che gli imprenditori avevano "infondatamente denunciato per usura in loro danno». L’ex procuratore fu arrestato il 19 maggio 2020, ed è tornato in libertà ad agosto, dopo circa tre mesi agli arresti domiciliari. 

PROCESSO CAPRISTO: DENTRO LE CARTE IL NULLA. Antonello De Gennaro il 19 Aprile 2021 su Il Corriere del Giorno. L’ex procuratore Capristo risponde delle accuse di presunte pressioni sulla pm Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell’ufficio. Oltre a Capristo imputati nel processo anche tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Si è tenuta oggi dinnanzi al Tribunale Penale di Potenza la prima udienza del processo nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, durata circa sei ore, in cui sono stati ascoltati i due accusatori: i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia, rispettivamente marito e moglie, chiamate a testimoniare dal pubblico ministero dr.ssa Anna Gloria Piccinini. L’ex procuratore Capristo risponde delle accuse di presunte pressioni sulla pm Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell’ufficio. Oltre all’ex procuratore, sono imputati nel processo anche tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Il collegio giudicante è composto dal presidente dr. Rosario Baglioni a latere dr.ssa Marianna Zampoli e dr. Francesco Valente.

Gli imputati secondo l’accusa mossa dalla Procura di Potenza, in concorso con l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro che è uscito dal processo dopo aver patteggiato una pena ad 1 anno e 10 mesi di reclusione, avrebbero cercato di indurre la pm Curione a procedere in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti, contro una persona che gli imprenditori avevano “infondatamente denunciato per usura in loro danno“. I due testimoni ascoltati oggi hanno ripercorso le rispettive attività svolte nelle Procura di Trani ( pm Silvia Curione) e di Taranto (pm Lanfranco Marazia) , ed i reciproci rapporti intercorsi con Capristo. I due magistrati incalzati dalle produzioni documentali esibite e depositate dal collegio difensivo comporto dall’avvocatessa Angela Pignatari del Foro di Potenza e dall’avv. Riccardo Olivo del Foro diRoma, hanno dovuto ammettere di essere stati stimati da Capristo per un lungo periodo, salvo cambiare idea senza alcun ragionevole serio motivo, ed alla luce delle loro testimonianze non sembrano aver portato alcun contributo all’impianto accusatorio che si è rivelato allo stato attuale fragile e lacunoso. Verso la fine dell’udienza vi sono state delle schermaglie fra il collegio della difesa di Capristo ed il pm Piccinini, la quale si è vista contestare dal presidente del collegio giudicante dr. Rosario Baglioni , di aver depositato una lista di testimoni senza indicare su cosa dovranno rispondere. “Questo non è e non sarà mai un processo alla gestione ed organizzazione degli uffici delle procure di Taranto e Trani, sia chiaro” ha chiarito con fermezza il presidente Baglioni. L’ex procuratore venne arrestato il 19 maggio 2020, nonostante i suoi noti e gravi problemi di salute, dalla Procura di Potenza e rimesso in libertà ad agosto, dopo circa tre mesi agli arresti domiciliari. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni dell’ accusa, si svolgerà il prossimo 16 giugno. Chissà se appariranno nel corso del processo gli interrogatori dei dirigenti dell’ ex-ILVA svolti dal procuratore Capo di Potenza dr. Francesco Curcio tenutisi nelle ore serali presso la caserma della Guardia di Finanza di Taranto, alla ricerca di prove contro Capristo. Sarà interessante capire in questo processo sulla base di quali reali elementi probatori sia stato possibile arrestare un procuratore capo. Anche perchè al momento dagli atti dell’inchiesta sembra l’ennesima follia giudiziaria di una magistratura “manettara” smaniosa dalla voglia di protagonismo mediatico più che della ricerca della giustizia.

Potenza, processo a ex Procuratore Capristo: i 2 Pm accusatori saranno i primi testi. Oggi la prima udienza dibattimentale dopo i rinvii. Carlo Maria Capristo è imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata. La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Febbraio 2021. Saranno i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia i primi testimoni dell’accusa nel processo davanti al Tribunale di Potenza nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto Carlo Maria Capristo, imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata. Dopo due rinvii, a ottobre e a dicembre 2020 per motivi di salute dell’imputato e la costituzione del Ministero dell’Interno come parte civile, oggi in aula si è formalmente aperto il dibattimento con l’ammissione delle prove e la fissazione del calendario delle prossime udienze per la trascrizione delle intercettazioni e per l’audizione dei primi testi. L’ex procuratore è accusato di presunte pressioni sulla pm barese Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell'ufficio. Secondo l’accusa, in concorso con l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro (la cui posizione è stata stralciata perché ha patteggiato la pena a un anno e dieci mesi di reclusione) e con i tre imprenditori di Bitonto (Bari) Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, co-imputati, Capristo avrebbe tentato di indurre la pm Curione a procedere in sede penale contro una persona che gli imprenditori avevano «infondatamente denunciato per usura in loro danno». I primi due testimoni chiamati dall’accusa, il prossimo 19 aprile, saranno proprio la pm Curione e il marito Lanfranco Marazia, anche lui adesso pm a Bari ma in servizio a Taranto quando Capristo era diventato - dopo Trani - capo della Procura jonica.

Brindisi, giudice arrestato: pm ricorre a Riesame contro arresti negati. Appello anche della difesa per annullamento misura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Febbraio 2021. La Procura di Potenza ha impugnato dinanzi al Tribunale del Riesame parte dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Lucio Setola che il 28 gennaio scorso ha disposto l’arresto del giudice civile di Brindisi Gianmarco Galiano, del commercialista Oreste Pepe Milizia e di altre quattro persone. L’udienza in camera di consiglio è stata fissata per il 23 febbraio prossimo. In particolare è stato contestato il rigetto delle richieste di arresti domiciliari nei confronti di due indagati, l’imprenditore agricolo Vincenzo Francioso, di Latiano, e la commercialista Concetta Alessandra Lapadula oltre che la qualificazione giuridica di alcune contestazioni riferite a Galiano, a Pepe Milizia e alla ex moglie del primo, l’avvocata Federica Spina. Nell’inchiesta sono contestate a vario titolo ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio ed estorsione. Il giudice Galiano nel corso dell’interrogatorio di garanzia aveva scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Si trova tuttora nel carcere di Melfi. Il suo avvocato, Raul Pellegrini, ha presentato a sua volta ricorso al Riesame per chiedere l'annullamento dell’ordinanza e quindi la scarcerazione. Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, e il sostituto Sarah Masecchia nella richiesta di misura accolta dal gip hanno parlato di quadro probatorio «granitico» costruito sulla base degli accertamenti della Guardia di finanza e hanno descritto un "quadro complessivo di comportamenti non solo penalmente illeciti, ma anche ostentati, arroganti, plateali specie da parte del capo e promotore del sodalizio, Galiano, un magistrato, che appaiono propri di chi per anni si è sentito intoccabile e al di sopra di ogni legge».

Brindisi, giudice arrestato: «Nessuna estorsione, solo compensi per mia moglie avvocato». Il magistrato Galiano respinge le accuse di corruzione. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Febbraio 2021. «Solo compensi professionali per mia moglie avvocato» e non estorsioni sui risarcimenti del danno. Il giudice civile del Tribunale di Brindisi Gianmarco Galiano, finito in carcere con l’accusa di aver fatto parte di un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, si è difeso per la prima volta dinanzi al Tribunale del Riesame di Potenza attraverso le memorie difensive presentate dal suo legale, Raul Pellegrini. Particolare rilievo, nella difesa, è stato dato alla vicenda, qualificata come estorsione, in cui secondo l’accusa Galiano avrebbe intascato una quota parte di risarcimento destinato ai genitori di un bimbo disabile e di una ragazza morta in un incidente stradale. Il legale di Galiano ha fatto presente che più volte il magistrato, in virtù di rapporti diventati confidenziali, aveva prestato ai genitori del bambino il proprio suv Range Rover «per recarsi più comodamente a Roma, in occasione delle visite mediche che il piccolo doveva sostenere presso l’ospedale Bambin Gesù». Secondo quanto affermato, i 150.000 euro incassati sarebbero l'onorario dell’avvocato Federica Spina, ex moglie di Galiano, attualmente ai domiciliari. L’avvocato Francesco Bianco, per cui pure sono stati disposti i domiciliari, ha rinunciato al Riesame. La decisione dei giudici sulle richieste del giudice e del consulente è attesa nelle prossime ore. L’udienza si è tenuta oggi anche per Oreste Pepe Milizia, commercialista e consulente del Tribunale che pure, come Galiano, si trova nel carcere di Melfi. Entrambi hanno chiesto l'annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare. 

Brindisi, mazzette in Tribunale: 6 arresti. Coinvolti anche 2 magistrati. Blitz della Gdf. L'accusa è associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2021. Professionisti e magistrati della Fallimentare di Brindisi sono stati arrestati stamattina dalla Gdf su ordine della Procura di Potenza con le ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Tre presone in carcere e altre tre ai domiciliari. Coinvolti anche 2 magistrati in servizio nella sezione Fallimentare del capoluogo dove si trova il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio.

In carcere il giudice che incassava tangenti dalle famiglie di ragazzi morti negli incidenti o nati con malformazioni. Chiara Spagnolo,  Lucia Portolano su La Repubblica il 28 gennaio 2021. I genitori di un bambino disabile minacciati di perdere la patria potestà se non avessero corrisposto 150mila euro dei 2 milioni di danni liquidati dall’assicurazione al giudice civile di Brindisi Gianmarco Galiano, che li aveva aiutati a vincere la causa. E non è l'unico caso. I genitori di un bambino disabile minacciati di perdere la patria potestà se non avessero corrisposto 150mila euro dei 2 milioni di danni liquidati dall’assicurazione al giudice civile di Brindisi Gianmarco Galiano, che li aveva aiutati a vincere la causa. Il magistrato è stato arrestato insieme ad altre cinque persone in un’inchiesta su corruzione in atti giudiziari. Dalle indagini svolte dalla guardia di finanza di Brindisi, e coordinate dalla Procura di Potenza, emerge un sistema di malaffare, basato anche sulla disperazione e il dolore. Come quello delle famiglie di giovani deceduti o di bimbi nati con malformazioni, che sarebbero state aiutate a vincere cause civili milionarie, con l’obbligo di versare una parte del risarcimento al magistrato. Nel caso del bimbo nato con traumi per colpa medica si sarebbe trattato di 150mila euro, 300mila invece per la morte di una 23enne in un incidente stradale. In entrambi i casi - hanno ricostruito gli investigatori - il denaro sarebbe transitato sul conto corrente della suocera di Galiano (indagata) e le cause sarebbero state curate dalla moglie (oggi ex), l’avvocatessa Federica Spina, finita agli arresti domiciliari con l’accusa di estorsione. Oltre ai due ex coniugi sono stati arrestati l’imprenditore Massimo Bianco, titolare della Soavegel; il commercialista di Francavilla Fontana Oreste Milizia Pepe (entrambi in carcere); Annalisa Formosi, presidente dell’ordine degli ingegneri di Brindisi; l’avvocato Francesco Spina. Sono  indagati anche i giudici Francesco Giliberti (in servizio a Brindisi) e Giuseppe Marseglia  (in servizio al Tribunale civile di Bari e segretario del Consiglio giudiziario). Ventuno in totale le persone coinvolte nell'inchiesta, che dovranno rispondere a vario titolo, dei reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, estorsione. Secondo le ipotesi accusatorie, Galiano avrebbe “abusato delle sue funzioni giudiziarie” distribuendo incarichi di consulenza per oltre 440mila euro presso il Tribunale fallimentare a professionisti amici e avrebbe inoltre pilotato cause, ottenendo in cambio somme di denaro. Le indagini bancarie effettuate dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Brindisi (guidato dal colonnello Gabriele Gargano) hanno documentato un’enorme mole di movimenti di denaro e anche un tenore di vita sproporzionato rispetto alle reali possibilità. Oltre all’attività di giudice, Galiano avrebbe gestito aziende agricole e agrituristiche, compreso un b&b aperto con quelli che vengono considerati i proventi delle attività illecite. Gli imprenditori amici, dal canto loro, avrebbero effettuato sponsorizzazioni gonfiate (Massimo Bianco, in particolare avrebbe pagato 220mila euro) per la sua imbarcazione a vela, la Kemit, che partecipava a importanti regate, come la Brindisi-Corfù. Insieme alle ordinanze di custodia cautelare, è stato notificato ad alcuni degli indagati il sequestro di beni per 1,2 milioni.

Brindisi, giudice in carcere per giro di mazzette e favori. In tutto gli indagati sono ventuno. Arrestato anche il commercialista del magistrato e ai domiciliari la presidente dell'ordine degli ingegneri di Brindisi. Emanuela Carucci, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Finisce in manette un giudice del tribunale di Brindisi. È Gianmarco Galiano di 48 anni originario di Manduria, un Comune in provincia di Taranto, e residente a Oria, in provincia di Brindisi. Si tratta di un giudice civile presso la sezione contenzioso ed era a capo di una associazione a delinquere. Il gip ha disposto anche il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, di denaro e beni per 1,2 milioni di euro. A portare avanti le indagini gli agenti della guardia di finanza che hanno scoperto affidamenti dati da Galiano ad amici professionisti in cambio di regali, come orologi di valore, e buste in denaro contante. In soli tre anni il giudice avrebbe ricevuto circa 400mila euro e questo denaro sarebbe stato investito anche nell'acquisito di una masseria. L'uomo, come detto, era a capo di un'associazione per delinquere di cui avrebbero fatto parte tredici persone. I reati commessi sono corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi in atti d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni, in tutto o in parte inesistenti. Il giudice è stato condotto in carcere dai finanzieri in esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare ottenuta dalla procura della Repubblica di Potenza. Gli indagati sono in tutto ventuno e tra loro c'è anche la ex suocera del magistrato. A finire in manette anche un commercialista di Francavilla Fontana, un Comune in provincia di Brindisi, Oreste Pepe Milizia, che secondo gli inquirenti era il "braccio destro del giudice" e l'amministratore di una società di Francavilla Fontana che produce e vende all'ingrosso prodotti alimentari, Massimo Bianco. In merito a quest'ultimo caso, come si legge sul giornale locale "BrindisiOggi", l'azienda di alimentari, la Soavegel, ha dichiarato di avere "piena fiducia nell’estraneità del nostro amministratore". Ai domiciliari è finita anche la presidente dell'ordine degli ingegneri di Brindisi, Annalisa Formosi,e due avvocati. Altri due giudici del tribunale di Brindisi, invece, sono rimasti a piede libero. L'inchiesta nasce da una perquisizione nello studio di Milizia del 4 luglio 2017 sotto il coordinamento della procura di Brindisi che ha ceduto il testimone a quella di Potenza, per competenza funzionale quando è emerso il nome del magistrato. Dalle indagini è emerso che il commercialista "si prestava a predisporre per conto di Galiano le motivazioni di una serie di sentenze di processi tributari in seno ai quali il magistrato era relatore", come ha scritto nell'ordinanza il giudice per le indagini preliminari. Le indagini incrociate sono iniziate anche in concomitanza di un altro fatto. Il funzionario di una banca segnalò l'apertura di un conto corrente in favore della suocera del giudice, indagata a piede libero, con una provvista di 150mila euro. Da qui è emerso che dopo alcuni contenziosi civili c'erano degli accrediti. Più nello specifico, in un episodio, sul conto della suocera arrivarono 300mila euro. Il caso giudiziario era il risarcimento di un 1,1 milione per i genitori di una ragazza di 23 anni morta in un incidente stradale. Poi un altro bonifico di 150mila euro che, secondo l'accusa, sarebbero stati estorti dal giudice ai genitori di un bambino nato con traumi permanenti per colpa dei medici. "In tali procedure era nominata l'ex moglie del giudice, l'avvocato Federica Spina, come legale patrocinante", spiega in una nota il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio. "Nel primo caso, il giudice otteneva anche che la moglie fosse nominata erede testamentaria, in cambio della protezione giudiziaria, mentre nel caso del bambino, le somme erano state ottenute con la minaccia di sottrarre la potestà sul figlio nei confronti di genitori che avevano un bimbo disabile" ha aggiunto, ancora, Curcio. In un altro caso, poi, un imprenditore che aveva procedimenti pendenti dinanzi al tribunale di Brindisi "Aveva concesso somme a Galiano per mezzo della sua azienda sotto forma di sponsorizzazioni fittizie ad associazioni sportive create da Galiano stesso". Le associazioni gestivano sulla carta una barca a vela di Galiano. Ci sono una serie di intercettazioni poi, anche delle chat su "WhatsApp", che avrebbero incastrato il giudice. In una conversazione Massimo Bianco e Oreste Pepe Milizia organizzavano un viaggio a Bari per comprare un orologio del valore di 13mila euro da dare evidentemente al magistrato. Bianco sosteneva di avere la disponibilità di sette-otto bottiglie di vino, ma ne servivano tredici. Si accordano per portare ciascuno una cassa da sette bottiglie. A Galiano, Bianco avrebbe regalato un orologio da 25mila euro e una busta con 5mila euro, a titolo di omaggio, per l'influenza che il giudice era in grado di esercitare nei processi che lo vedevano coinvolto.

Gia. Gre. per brindisireport.it il 28 gennaio 2021. In un caso avrebbe estorto 150mila euro ai genitori di un bambino nato con traumi permanenti causati da colpa medica, che avevano promosso un contenzioso civile contro una compagnia assicurativa. In un altro avrebbe ottenuto 300mila euro dai genitori di una 23enne morta a seguito di incidente stradale, sempre nell’ambito di un contenzioso civile contro una compagnia assicurativa. Gianmarco Galiano, giudice civile presso la sezione Contenzioso del tribunale di Brindisi, si sarebbe fatto erogare indebitamente somme di denaro, in cambio del buon esito delle cause risarcitorie. Questa una delle accuse che gli sono state mosse dalla Procura di Potenza, competente per giurisdizione sui giudici del tribunale di Brindisi, nell’ambito di una inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziarie della guardia finanza di Brindisi e dalla sezione di polizia giudiziaria della procura lucana (aliquota locale) che stamattina (giovedì 28 gennaio) ha portato all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale di Potenza, nei confronti di sei indagati.

Gli arrestati. Lo stesso Galiano, figura apicale nell'inchiesta, è stato condotto in carcere. Medesima misura cautelare è stata adottata anche nei confronti di Oreste Pepe Milizia, commercialista di Francavilla Fontana, e Massimo Bianco, amministratore della ditta Soavegel, con sede a Francavilla Fontana, operante nel settore della produzione e vendita all’ingrosso di prodotti alimentari. Sono stati arrestati in regime di domiciliari, invece, Annalisa Formosi, di Francavilla Fontana presidente dell’Ordine degli ingegneri di Brindisi; l’avvocato Francesco Bianco, di Francavilla Fontana; l’avvocato Federica Spina, di Francavilla Fontana. Altre 15 persone sono indagate a piede libero. Fra queste anche altri due magistrati del tribunale di Brindisi: Francesco Giliberti, di Martina Franca (Taranto) e Giuseppe Marseglia, di Bari. A vario titolo vengono contestate le accuse di estorsione, corruzione passiva in atti giudiziari, corruzione attiva, associazione per delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Oltre alle misure cautelari, il gip ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro e beni per un valore complessivo pari a circa 1,2 milioni di euro. Nelle attività di notifica del provvedimento restrittivo e nelle perquisizioni sono stati impiegati circa 100 finanzieri del comando provinciale di Brindisi. Da quanto appurato dagli inquirenti, il giudice Galiano avrebbe abusato delle sue funzioni giudiziarie, “facendone in alcuni casi moneta di scambio o strumento di indebita pressione, coinvolgendo in parte nelle sue attività illecite imprenditori e liberi professionisti che ricevevano nomine e incarichi presso il tribunale di Brindisi, quale giudice civile o fallimentare. Tramite indagini svolte anche presso istituti bancari, i finanziari hanno scoperto “rilevanti movimentazioni di denaro per centinaia di migliaia di euro in entrata sui conti correnti nella disponibilità di Galiano, nonché cospicui investimenti dello stesso in diverse attività economiche, fra cui l’acquisto di una masseria”. Galiano avrebbe condotto un tenore di vita sproporzionato rispetto alle sue entrate ufficiali, “risultando altresì dedito – si legge in una nota della Procura di Potenza – ad attività economiche quali la conduzione di imprese agricole ed agrituristiche, gestione di attività di bed and breakfast, che avviava in seguito e nel corso della sua attività giudiziaria”.

"Minacce per ottenere somme di denaro". In particolare alcuni accrediti risulterebbero provenire, attraverso complesse operazioni bancarie, dalle somme erogate a titolo di risarcimento danni riconosciuti da compagnie assicurative. Nel 2007 una ragazza di 23 anni perse la vita in un incidente stradale. I genitori, al termine della causa promossa contro la compagnia assicurativa, ottennero un risarcimento pari a circa 1,1 milioni di euro, di cui 300 mila sarebbero giunti, da quanto accertato dai finanzieri, nella disponibilità di Galiano, attraverso il conto intestato alla suocera, indagata a piede libero per riciclaggio. Non solo. Nel 2011 un bambino nacque con traumi permanenti causati da colpa medica. Anche in questo caso il contenzioso civile aperto dai genitori contro la compagnia assicurativa culminò con il riconoscimento di un risarcimento pari a 2 milioni di euro, di cui 150 mila sarebbero stati estorti dal giudice, transitando sempre dai conti correnti della suocera. Galiano quindi, attraverso condotte “corruttive ed estorsive” e “con minacce o in cambio del buon esito delle cause risarcitorie, si faceva erogare – si legge ancora nella nota della Procura – somme di denaro. In tali procedure, tra l’altro, risultava nominata l’ex moglie, l’avvocato Federica Spina, quale legale patrocinante, anche lei raggiunta da misura cautelare con gli addebiti di estorsione, corruzione ed altro”. Nel caso del bambino con traumi permanenti, inoltre, Galiano avrebbe ottenuto le somme di denaro con la minaccia di sottrarre la potestà sul figlio, nei confronti dei genitori”. Nel caso del contenzioso scaturito dal decesso della 23enne in un sinistro stradale, invece, non solo il giudice avrebbe ottenuto la somma pari a 300 mila euro in cambio della protezione giudiziaria da lui assicurata, ma avrebbe altresì ottenuto che sua moglie fosse nominata dai corruttori quale erede testamentaria.

Sponsorizzazioni fittizie da parte dell'imprenditore Bianco. Per quanto riguarda il ruolo dell’imprenditore Massimo Bianco, gli investigatori sono risaliti a elargizioni per complessivi 220mila euro che l’indagato, tramite la sua azienda Soavegel, avrebbe concesso al giudice Galiano (quale corrispettivo della protezione giudiziaria da questi assicurata) sotto forma di quelle che, sulla base di gravi indizi, si è ritenuto essere sponsorizzazioni “fittizie” o “gonfiate” che l’azienda avrebbe assicurato ad associazioni sportive (create ad arte da Galiano e da Pepe Milizia), che gestivano (solo sulla carta) un veliero di proprietà di Galiano (ma, come detto, fittiziamente nella disponibilità di tali associazioni) che in sostanza, non solo consentivano al giudice di utilizzare e godersi l’imbarcazione senza oneri a proprio carico, ma che di fatto rappresentavano una ulteriore entrata per il magistrato. Secondo gli inquirenti tali erogazioni dell’industriale rappresentavano la contropartita di una tutela giudiziaria che Galiano avrebbe assicurato a Bianco che, “per ovvie ragioni- si legge nel comunicato della Procura – aveva, sia attraverso le sue imprese che attraverso suoi congiunti, numerosi procedimenti civili pendenti davanti al tribunale di Brindisi”.

La genesi dell'inchiesta. Ma come sono iniziate le indagini? L’input è arrivato nel luglio 2017, quando le fiamme gialle brindisine, nell’ambito di un altro procedimento penale incardinato presso la Procura della repubblica di Brindisi, hanno effettuato delle perquisizioni presso lo studio del commercialista Milizia, durante le quali è stata sottoposta a sequestro numerosa documentazione cartacea e digitale. Le indagini hanno consentito di appurare che Milizia si sarebbe prestato a “predisporre, per conto di Galiano, le motivazioni di sentenze pronunciate in esito a processi tributari nell’ambito dei quali il predetto ricopriva l’incarico di giudice presso la ‘Commissione tributaria regionale Puglia”. Galiano, Milizia ed altri professionisti della provincia di Brindisi che hanno prestato la loro opera presso il tribunale dii Brindisi devono rispondere del reato di associazione per delinquere finalizzata al mercimonio degli incarichi e dei provvedimenti giudiziari. Si tratta di un sodalizio “nel cui ambito – si legge nella nota della Procura – da una parte Galiano distribuiva incarichi ai suoi amici professionisti e, dall’altra, questi ultimi si prestavano ad agevolare il giudice nelle sue diverse attività di occultamento/reinvestimento di proventi illeciti”. In tale contesto, in particolare, è stato accertati l’affidamento, da parte di Galiano, alla ristretta cerchia di amici e sodali, di numerosi e remunerativi incarichi professionali (per circa 400mila euro complessivi di quelli individuati).

Nota della Soavegel. "Il Consiglio di Amministrazione della Soavegel S.r.l., nel prendere atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica competente che, nell’ambito di una più ampia e variegata inchiesta giudiziaria, afferiscono alla persona del dott. Massimo Bianco, Amministratore Delegato della Soavegel S.r.l., esprime piena e convinta fiducia dell’assoluta estraneità dello stesso dott. Bianco ai fatti in corso di indagine che, comunque, risultano non interessare l’operato della Società. Nell’auspicare che la Magistratura possa fare piena luce sull’intera vicenda nel più breve tempo possibile, acclarando la verità dei fatti che escludano la responsabilità del dott. Bianco, si precisa che la Soavegel S.r.l. continua a svolgere tutte le proprie attività con operatività assolutamente piena ed immutata".

Inchiesta di Potenza, il ruolo di Gianmarco Galiano. Corruzione in Tribunale: il ruolo del magistrato e la rete di amicizie. Il giudice Galiano avrebbe estorto 150mila euro a una famiglia che aveva un figlio con gravi problemi: "Conosco i buoni e i cattivi". Emmanuele Lentini il 29 gennaio 2021 su BrindisiReport.it. Si sarebbe vantato di conoscere “i buoni e i cattivi”, il giudice Gianmarco Galiano. E' stato arrestato ieri (28 gennaio) nell'inchiesta che si è rivelata un terremoto per il Tribunale di Brindisi e per la città di Francavilla Fontana. Un giudice, professionisti stimati e noti imprenditori: tutti finiti nella rete degli inquirenti. Ma per capire la magnitudo del sisma, occorre leggere attentamente l'ordinanza di applicazione delle misure cautelari del gip del Tribunale di Potenza Lucio Setola. In 167 pagine scritte fitte emergono gli elementi a carico dei soggetti arrestati. Si trovano in carcere Massimo Bianco, imprenditore francavillese; Oreste Pepe Milizia, commercialista sempre di Francavilla Fontana; Gianmarco Galiano magistrato originario di Latiano. Ai domiciliari: Federica Spina, avvocato; Francesco Bianco, avvocato francavillese; Annalisa Formosi, ingegnere di Francavilla Fontana. Poi sono ci sono altri indagati, tra cui anche altri due magistrati. A vario titolo vengono contestate le accuse di estorsione, corruzione passiva in atti giudiziari, corruzione attiva, associazione per delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Oltre alle misure cautelari, il gip ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro e beni per un valore complessivo pari a circa 1,2 milioni di euro. Nelle attività di notifica del provvedimento restrittivo e nelle perquisizioni sono stati impiegati circa 100 finanzieri del comando provinciale di Brindisi. 

L'estorsione ai danni di una famiglia. C'è un caso emblematico che riguarda il giudice Galiano, l'avvocato Federica Spina (nella foto sotto) e una famiglia che ha conosciuto il dolore: a causa di un errore medico, il figlio nasce con problemi gravissimi. I coniugi si rivolgono dapprima a un avvocato, poi scelgono come legale Federica Spina, che sembra prendere a cuore la vicenda. Spina è compagna di Galiano, che viene trasferito al Tribunale di Brindisi. Quindi non è il caso che l'avvocato Spina segua i clienti, che hanno un contenzioso con l'Asl per chiedere un congruo risarcimento per i danni subiti dal figlio. Così si rivolgono a un terzo avvocato, estraneo ai fatti addebitati agli indagati. Alla fine la famiglia ottiene il risarcimento, sono due milioni di euro. Un giorno, che non dimenticheranno mai, si presentano a casa il giudice Galiano e l'avvocato Spina. Comincia il racconto dei coniugi davanti agli inquirenti: il giudice Galiano avrebbe preteso non solo la parcella per la prestazione di Federica Spina, ma anche 150mila euro. E perché? Lo spiega il padre del bambino agli inquirenti: “E' stato uno dei momenti più brutti della mia vita. […] A lui proprio dovevamo dare 150mila euro. Disse in modo arrogante e sprezzante che anche in considerazione del fatto che abitavamo in una piccola casa in campagna non certamente arredata in modo lussuoso e che lui, conoscendo il sindaco, […] conoscendo i servizi sociali, la polizia e chiunque contasse, ci avrebbe fatto togliere il bambino perché non eravamo in grado di assisterlo adeguatamente. Disse che lui conosceva i buoni e i cattivi. […] Vi dico la verità, ora che vi ho detto queste cose ho ancora paura. Ho paura che questo Galiano possa farci qualcosa di brutto”. I coniugi cedono alla richiesta, letteralmente terrorizzati. 

Causa civile e testamento. Il pm verga parole durissime a proposito del giudice Galiano: “Un'ulteriore (e squallida) vicenda, emblematica della spregiudicata disinvoltura con cui il Galiano era solito speculare sulle tragedie umane e sfruttare indebitamente, per fini di arricchimento personale, la sua carica di giudice in servizio presso la sezione distaccata di Francavilla Fontana” è quella che concerne un contenzioso giudiziario che vede coinvolti una coppia di coniugi che hanno perso la giovane figlia in un incidente stradale e una compagnia assicurativa. I genitori chiedono di ottenere un congruo risarcimento per la scomparsa della ragazza. Per il pm di Potenza è una vicenda assolutamente peculiare, in quanto la toga non si limita “a percepire tangenti – si legge – per agevolare le pretese di una parte, ma fa anche nominare sua moglie erede dei corruttori”. La vicenda viene ricostruita nel 2020 dalla madre della ragazza davanti agli inquirenti. Il padre della giovane deceduta è morto. E' lui, insieme a Galiano, il protagonista della vicenda. Stanco della lentezza della causa, con la mediazione dell'allora comandante della stazione dei carabinieri di Latiano Massimo Ribezzo, contatta il giudice Galiano. Obiettivo, secondo gli investigatori: ottenere una definizione del processo rapida ed economicamente congrua al danno subito in seguito alla tragica perdita della figlia. Passaggio obbligato: farsi difendere dalla moglie di Galiano, l'avvocato Spina. La famiglia della ragazza deceduta riuscirà a farsi riconoscere un risarcimento di oltre un milione e 400mila euro. Non finisce qui: i due avrebbero fatto testamento in favore dell'avvocato Federica Spina, quale ricompensa per il “lavoro” operato da Galiano. Poi, oltre 300mila euro sarebbero confluiti nelle tasche del magistrato, su un conto gestito di fatto dalla suocera, madre dell'avvocato Spina, quale ricompensa per le manovre che il magistrato avrebbe effettuato.

Il magistrato, il commercialista e gli imprenditori. Ma l'inchiesta è ricca di altri elementi: il magistrato Galiano si sarebbe fatto predisporre le sue sentenze dal commercialista Oreste Pepe Milizia (nella foto sopra); c'è anche l'esistenza “di un accordo corruttivo tra Galiano (con la partecipazione in qualità di concorrente di Pepe Milizia) e Rocco Palmisano, secondo il quale il magistrato si impegnava ad agevolare la posizione della ditta "Francavilla Carburanti" (riconducibile a Palmisano) nei procedimenti in cui la stessa era coinvolta in cambio della consegna della somma di 50mila euro”. Poi Galiano avrebbe alzato il tiro, chiedendone a Palmisano il doppio. Il fulcro delle indagini, per il gip, è il rapporto a tre tra Galiano, Pepe Milizia e la famiglia di imprenditori francavillesi Bianco: “Gli accertamenti – scrive il gip – hanno fatto emergere l'esistenza di una consolidata prassi illecita che vede tali soggetti pronti a collaborare per la realizzazione di qualsiasi attività illecita possa consentire loro di vivere agiatamente e godere delle proprie passioni”. Le indagini si soffermano su un arco di tempo che va dal 2012 al 2018: i tre fulcri si sarebbero aiutati a vicenda con favori e condotte illecite. Galiano sarebbe stato il garante in sede giudiziaria degli interessi del gruppo, gli altri avrebbero fatto ottenere al primo consistenti vantaggi economici. Un caso su tutti: quello dello yatch Kemit, del magistrato Galiano, “ma di fatto mantenuto – scrive il pm – […] grazie ai proventi generati da un congegno criminogeno architettato e condotto da Galiano col contributo dei sodali Massimo Bianco e Pepe Milizia, in seno al quale si combinavano, secondo un ben articolato disegno speculativo, condotte corruttive, false fatturazioni ed evasione fiscale”. Il ruolo centrale di Galiano è evidente: avrebbe coinvolto in parte nelle sue presunte attività illecite imprenditori e liberi professionisti che ricevevano nomine e incarichi presso il tribunale di Brindisi, quale giudice civile o fallimentare.

Inchiesta giudice Galiano: le dichiarazioni del procuratore Rescio. "Persone provate e impaurite dalle minacce del giudice Galiano". Alcuni aspetti dell'inchiesta che ha scosso il tribunale di Brindisi illustrati dal procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio. Gianluca Greco il 29 gennaio 2021 su BrindisiReport.it. “Il dottor Galiano venne trasferito in altra sezione del tribunale. Questo dà l'idea di una magistratura brindisina che non era complice di questo soggetto, anche se nella prima fase notiamo come l’attività di sorveglianza non sia stata adeguata”. Il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, ha incontrato stamattina (venerdì 29 gennaio) la stampa per spiegare come è nata e come si è articolata l’inchiesta che ha scosso il tribunale di Brindisi, sfociando nell’arresto del giudice Gianmarco Galiano, ritenuto figura centrale di un presunto sistema corruttivo che avrebbe coinvolto diversi professionisti della provincia di Brindisi e altri due magistrati (indagati a piede libero). La conferenza stampa si è svolta presso il tribunale di Potenza, in presenza anche del comandante provinciale della Guardia di finanza di Brindisi, il colonnello Nicola Bia, e del comandante del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Brindisi, tenente colonnello Gabriele Gargano. Gli arresti, come noto, sono stati eseguiti ieri mattina, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale lucano, competente per giurisdizione sui magistrati del tribunale di Brindisi. Oltre a Gianmarco Galiano, prima in servizio presso la sezione distaccata di Francavilla Fontana del tribunale di Brindisi e successivamente presso la sezione fallimenti ed esecuzioni del tribunale del capoluogo, dalla quale è stato poi trasferito, altre due persone sono state condotte in carcere: Oreste Pepe Milizia, commercialista di Francavilla Fontana, e Massimo Bianco, amministratore della ditta Soavegel, con sede a Francavilla Fontana, operante nel settore della produzione e vendita all’ingrosso di prodotti alimentari. Sono stati arrestati in regime di domiciliari, invece, Annalisa Formosi, di Francavilla Fontana presidente dell’Ordine degli ingegneri di Brindisi; l’avvocato Francesco Bianco, di Francavilla Fontana; l’avvocato Federica Spina, di Francavilla Fontana. Sei, dunque, le persone arrestate, a fronte di 12 richieste di custodia cautelare (5 in carcere, 7 ai domiciliari) avanzate dalla procura.  Altre 15 sono indagate a piede libero.

La corruzione e le richieste estorsive. Il procuratore Rescio ha spiegato che l’inchiesta si è sviluppata in due filoni: quello su corruzione e richieste estorsive e quello sugli incarichi in ambito di procedimenti giudiziari elargiti ad amici che rientravano nella cerchia di Galiano. Rientrano nel primo filone due episodi particolarmente drammatici che riguardano una coppia di genitori la cui figlia era deceduta nel 2017 in un incidente stradale e altri due genitori di un figlio con gravi disabilità permanenti, a causa di traumi riportati alla nascita per colpa medica. In entrambi i casi Galiano, da quanto appurato dagli inquirenti, avrebbe intascato una parte dei risarcimenti danni ottenuti dalle famiglie (300mila euro su un risarcimento complessivo di 1,1 milioni di euro nel primo; 150mila euro su un risarcimento di 2 milioni di euro nel secondo), al culmine di contenziosi aperti contro le compagnie assicurative. Il procuratore ha parlato di “accanimento contro due genitori che vedono il figlio ridotto a uno stato vegetale” da parte di Galiano, che si recò presso l’abitazione dei coniugi insieme all’ex moglie, l’avvocato Federica Spina, asserendo di conoscere delle persone che avrebbero potuto sottrarre ai genitori la patria potestà, per il sol fatto che vivevano in un’abitazione modesta. Nel secondo caso di corruzione, oltre ad incamerare la somma di 300mila euro, Galiano sarebbe riuscito a far nominare la stessa Spina quale erede testamentaria. 

La questione dell'incompatibilità. Emerge inoltre, nel 2013, “una evidente incompatibilità di Galiano – afferma il procuratore – a svolgere le funzioni nella stessa sede (la sezione distaccata di Francavilla Fontana del tribunale di Brindisi, ndr) dove vi era la moglie avvocato. Non è una situazione che appare trasparente: che possa indurre fiducia nella giustizia. Il giudice - sostiene il procuratore - non può avere rapporti con le parti in causa. E’ grave che non ci si renda conto di questo”. Inizialmente, come spiegato dal procuratore, tale situazione di incompatibilità viene alla luce ma “non porta alle conseguenze necessarie”. I controlli effettuati fra il 2017 e il 2018, invece, “hanno svolto funzione di rilievo poiché è stata accertata l’incompatibilità, con trasferimento di Galiano in un’altra sezione”. In questo modo gli illeciti sono stati arginati. Nell’ambito del secondo filone, dunque, emerge “una cerchia di professionisti – afferma Curcio - con cui Galiano faceva viaggi insieme”. Si tratta delle stesse persone a cui avrebbe garantito incarichi importanti in procedure giudiziari. “Poi abbiamo verificato - spiega il procuratore – che, a fronte di questi incarichi, queste persone si prestavano a simulare prestazioni d’opera”. 

Le sentenze scritte dal commercialista. Le indagini sono partite nel 2017, da una perquisizione fatta nei confronti di Pepe Milizia, “nome ricorrente - spiega il procuratore - fra i curatori fallimentari del tribunale di Brindisi”, già “attenzionato dai procuratori di Brindisi per le modalità con cui svolgeva questo compito”. I finanzieri, durante la perquisizione, “trovano un mucchio di sentenze del giudice Galiano”. Stando al teorema accusatorio, queste sentenze, scritte da una persona estranea alla giustizia, integrerebbero il reato di falso ideologico, “perché la sentenza era apparentemente scritta dal giudice Galiano – afferma Curcio – ma era in realtà scritta da Pepe Milia”. A detta del gip, però, “nel momento in cui il giudice Galiano le firma, è come se quelle sentenze le avesse fatte lui”. I finanzieri si sono avvalsi di numerose testimonianze. Preziosissima, in particolare, quella dei genitori del bambino disabile. Ma il Procuratore rimarca che “non saremmo arrivati ai testimoni, se non ci fosse stato il lavoro della polizia giudiziaria che ha consentito di individuarli. Noi siamo arrivati ai soggetti attraverso le indagini fatte. Quando ci siamo fatti un quadro su questo, siamo andati a sentire le persone interessate. Non ci aspettavamo nemmeno che si potesse arrivare a minacce come quelle descritte". Minacce ai danni di "persone provate, psicologicamente impaurite”.

L'inchiesta sulla sezione Fallimentare di Brindisi coinvolge anche dei latianesi. La Voce di Latiano venerdì 29 gennaio 2021. La "Voce di Latiano", già "Latiano.Splinder": il blog che parla di Latiano. Notizie, cronaca, politica, sport, cultura, teatro, concerti, eventi, news e comunicati stampa dalla città di Latiano (Brindisi). Anche Latiano è stata scossa dal terremoto giudiziario che ha coinvolto la sezione Fallimentare, e più in generale il Tribunale di Brindisi. La cittadina tutta latianese ha appreso con sgomento e incredulità la notizia. Ieri mattina sono state eseguite dagli agenti della Guardia di Finanza sei ordinanze di custodia cautelare (3 in carcere e 3 ai domiciliari), ma più ampio appare il panorama investigativo, dal momento che sono più di 20 le persone che risultano indagate. In esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Potenza, sono state arrestate sei persone, tra cui un giudice e alcuni noti professionisti (tre dei quali condotti in carcere, gli altri ai domiciliari). In totale 21 le persone finite nell'inchiesta coordinata dal Procuratore capo di Potenza dott. Francesco Curcio, 13 dei quali con l’accusa di associazione a delinquere. Vale ovviamente, come in tutti i casi, lo ricordiamo la presunzione di innocenza. La notizia, per il coinvolgimento diretto di un magistrato, ha avuto come c'era da immaginare un'eco nazionale, ripresa da notiziari e quotidiani, sia cartacei che online e televisivi. A finire in carcere il 49enne giudice latianese Gianmarco Galiano, l’imprenditore di Francavilla Fontana Massimo Bianco ed il commercialista di Francavilla Fontana Oreste Pepe Milizia. Ai domiciliari, invece, l’ing. Annalisa Formosi, l'avv. Federica Spina e l'avv. Francesco Bianco. Galiano, che avrebbe favorito l’assegnazione di incarichi a professionisti a lui vicini, risponde di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari in una inchiesta in cui sono ipotizzati anche altri reati: abuso d’ufficio, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. Le indagini avrebbero avuto inizio a partire da “rilevanti movimentazioni di denaro su conti bancari”. I nominativi degli indagati: Ada Argentieri (69enne, di Francavilla Fontana, madre di una ragazza morta in un incidente stradale), Francesco Bianco (47enne, avvocato di Francavilla Fontana), Massimo Bianco (50enne, imprenditore di Francavilla Fontana), Federica Spina (48enne, ex moglie di Galiano, già avvocato, attualmente impiegata al Comune di Latiano), Maria Della Croce Brunetti (78enne di Manduria, suocera di Galiano), Mauro Calò (44enne, avvocato di Porto Cesareo), Marina Peluso (44enne, agente di Polizia Municipale di Porto Cesareo), Antonio De Giorgi (50enne, commercialista, già sindaco di Latiano), Alessia Modeo (49enne, anche lei consulente di Latiano), Olga Desiato (41enne, avvocato e docente, di Francavilla Fontana), Annamaria Di Coste (44enne di Francavilla Fontana), Pietro Di Coste (47enne, imprenditore nel settore turistico, di Francavilla Fontana), Annalisa Formosi (43enne, ingegnere di Francavilla Fontana, presidente Ordine degli Ingegneri), Vincenzo Francioso (54enne, imprenditore di Latiano), Concetta Alessandra Lapadula (52enne, commercialista di Latiano), Francesco Giliberti (59enne, giudice presso il Tribunale di Brindisi), Giuseppe Marseglia (43enne, giudice presso il Tribunale di Bari), Rocco Palmisano (58enne, imprenditore di Francavilla Fontana), Oreste Pepe Milizia (48enne, commercialista di Francavilla Fontana), Massimo Ribezzo (58enne, militare, di Oria).  Oltre ai citati provvedimenti cautelari, il G.I.P. di Potenza ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro e beni per un valore complessivo di circa 1,2 mln di euro. Per le attività svolte, sono stati impiegati circa 100 finanzieri appartenenti al Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Brindisi. 

 “MAZZETTE” NEL TRIBUNALE DI BRINDISI : 6 ARRESTATI FRA CUI UN GIUDICE. 21 PERSONE INDAGATE COMPRESI DUE MAGISTRATI. Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2021. Le indagini per associazione a delinquere e su presunti favoritismi nelle vendite fallimentari inizialmente sono state coordinate dal sostituto procuratore di Brindisi Raffaele Casto, e successivamente in seguito al coinvolgimento dei magistrati sono state trasferite a Potenza, per competenza funzionale, coinvolge avvocati, ingegneri e altri professionisti. Anche il giudice Gianmarco Galiano del Tribunale fallimentare di Brindisi tra le sei persone arrestate su mandato del gip di Potenza, nell’ambito di un’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, che coinvolge altri due magistrati al momento indagati. Galiano era stato coordinatore della sezione distaccata di Francavilla Fontana e successivamente giudice della sezione Fallimentare del Tribunale di Brindisi. L’inchiesta era partita nel 2017 in seguito alla richiesta di concordato preventivo avanzata da una società del Brindisino. Le indagini inizialmente sono state coordinate dal sostituto procuratore di Brindisi Raffaele Casto, e successivamente in seguito al coinvolgimento dei magistrati sono state trasferite a Potenza, per competenza funzionale. Tra il 2017 e il 2018 sono state eseguite una serie di perquisizioni negli studi dei professionisti coinvolti nelle procedure fallimentari. Questa mattina su ordine della Procura di Potenza che ha ereditato l’inchiesta iniziale avviata dalla Procura di Brindisi, sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza con le ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, oltre al giudice Gianmarco Galiano, anche l’imprenditore Massimo Bianco e il commercialista Oreste Pepe Milizia. Posti agli arresti domiciliari: l’avv. Federica Spina ex moglie del giudice Galiano, l’avv. Francesco Bianco e Annalisa Formosi ex presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brindisi, moglie del commercialista Pepe Milizia . Risultano essere cugini l’imprenditore Massimo Bianco e e l’avv. Francesco Bianco , legati quindi anche da rapporti di parentela. L’associazione sarebbe stata finalizzata a compiere reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni in esistenti. Il “malaffare” giudiziario ruotava intorno alle consulenze ed incarichi giudiziari che sarebbero stati assegnati illecitamente. Sono 21 le persone indagate al momento, tra i quali due magistrati in servizio nella sezione Fallimentare del capoluogo brindisino: Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia, “indagati a vario titolo e secondo la rispettiva responsabilità” . Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, si è recato personalmente a Brindisi per coordinare il lavoro della Guardia di Finanza, che sta effettuando delle perquisizioni.

Brindisi, mazzette in Tribunale: un giudice tra i 6 arrestati. Indagate 21 persone, anche due magistrati. Tutti i nomi. Blitz della Gdf . L'accusa è associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2021. Professionisti e magistrati della Fallimentare di Brindisi sono stati arrestati stamattina dalla Gdf su ordine della Procura di Potenza con le ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Tre persone in carcere (il giudice Gianmarco Galiano, l'imprenditore Massimo Bianco e il commercialista Francesco Pepe Milizia) e altre tre ai domiciliari: l'ex moglie di Galiano, l'avv. Federica Spina, l'avv. Francesco Bianco e Annalisa Formosi, moglie di Pepe ed ex presidente ordine ingegneri Brindisi. L'imprenditore Massimo Bianco e e l'avv. Francesco Bianco sono legati da rapporti di parentela (cugini). Ci sono 21 persone indagate, tra cui due magistrati: Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia, «indagati a vario titolo e secondo la rispettiva responsabilità», in servizio nella sezione Fallimentare del capoluogo dove si trova il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio. Per quanto riguarda Marseglia, la sua «posizione sembrerebbe assolutamente marginale rispetto al complesso delle condotte contestate»

I NOMI DEGLI INDAGATI 

-  Ada Argentieri, 69enne di Francavilla Fontana

-  Francesco Bianco, 47enne di Francavilla Fontana

-  Massimo Bianco, 50enne di Francavilla Fontana

-  Maria della Crove Brunetti, 78enne di Manduria

-  Mauro Calò, 44enne di Galatina

-  Antonio De Giorgi, 50enne di Brindisi

-  Olga Desiato, 41enne di San Pietro Vernotico

-  Annamaria Di Coste, 44enne di Francavilla Fontana

-  Pietro Di Coste, 47enne di Francavilla Fontana

-  Annalisa Formosi, 43enne di Francavilla Fontana 

-  Vincenzo Francioso, 54enne di Mesagne

-  Gianmarco Galiano, 49enne di Manduria

-  Francesco Giliberti, 59enne di Martina Franca

-  Concetta Alessandra Lapadula, 52enne di Francavilla Fontana

-  Giuseppe Marseglia, 43enne di Bari

-  Alessia Modeo, 49enne di Manduria

-  Rocco Palmisano, 58enne di Francavilla Fontana

-  Marina Peluso, 44enne di Nardò

-  Oreste pepe Milizia, 44enne di Brindisi

-  Massimo Ribezzo, 58enne di Oria 

-  Federica Spina, 48enne di Mesagne

FALLIMENTI PILOTATI E INCARICHI SPARTITI - Ruota attorno a incarichi giudiziari e consulenze, che sarebbero stati «spartiti" illecitamente l’inchiesta della procura di Potenza sull'attività della sezione fallimentare del Tribunale di Brindisi che ha portato all’arresto di un giudice civile, Gianmarco Galiano, e di altre cinque persone. Tra i 21 indagati, tredici sono coloro che sono accusati di avere partecipato a una associazione per delinquere. Secondo quanto contestato, l’associazione sarebbe stata composta da professionisti e consulenti e finalizzata a compiere reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni in esistenti. Ruolo di capo e promotore è attribuito al giudice Galiano, già coordinatore della sezione distaccata di Francavilla Fontana e poi giudice della sezione Fallimenti del Tribunale di Brindisi, che con Oreste Pepe Milizia (con ruolo di organizzatore) commercialista e l'imprenditore Massimo Bianco, oltre ad altri imprenditori e professionisti, avrebbero influito o dato la disponibilità a influire sulle decisioni giurisdizionali. Nel mirino anche sponsorizzazioni «gonfiate» per la barca a vela di Galiano che sarebbe stata utilizzata anche da altri componenti dell’associazione per delinquere.

GALIANO: AVREBBE PRESO SOLDI PER CAUSA DANNI A NEONATO - Avrebbe incassato parte dei risarcimenti concessi dalle assicurazioni in giudizi civili, il giudice Gianmarco Galiano, arrestato e condotto in carcere stamattina in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Potenza nei confronti anche di altre cinque persone. Si parla di una causa del 2007 sulla morte di una ragazza di 23 anni, e di un giudizio riguardante un bambino nato con traumi permanenti per colpa medica. Nel primo caso 300mila euro sarebbero stati messi a disponibilità del giudice attraverso il conto intestato alla suocera, indagata a piede libero. Nel secondo si tratta di 150mila euro.

BENI SEQUESTRATI - Il gip di Potenza ha disposto il sequestro preventivo di 1,2 milioni di euro nell’ambito dell’inchiesta che riguarda il giudice civile Gianmarco Galiano, in servizio a Brindisi e condotto in carcere questa mattina. Il magistrato avrebbe ricevuto denaro sui propri conti correnti e avrebbe potuto acquistare una masseria con soldi ricavati dalla gestione illecita di procedimenti civili. Avrebbe gestito imprese agricole e agrituristiche, gestito bed and breakfast. I soldi sarebbero finiti sul conto corrente della suocera, che risulta indagata a piede libero per riciclaggio. Ai domiciliari anche la ex moglie, del giudice Federica Spina, che sarebbe stata nominata patrocinante legale nelle cause finite sotto la lente degli investigatori. E in un caso sarebbe stata nominata «dai presunti corruttori come erede testamentaria». Galiano avrebbe inoltre ricevuto sponsorizzazioni fittizie o gonfiate per la sua barca a vela (che era falsamente nella disponibilità di associazioni sportive) da parte dell’azienda Soavegel, dell’imprenditore Massimo Bianco, in cambio di tutela giudiziaria in alcuni procedimenti civili pendenti dinanzi al Tribunale di Brindisi. L'inchiesta è partita da alcune perquisizioni eseguite nel luglio del 2017 nello studio del commercialista Oreste Pepe Milizia, accusato di essersi prestato a scrivere le motivazioni di sentenze tributarie per conto di Galiano, giudice della commissione tributaria regionale della Puglia. Galiano avrebbe inoltre conferito incarichi per 400mila euro ai suoi «amici» professionisti.

Terremoto giudiziario al Tribunale di Brindisi, tangenti al giudice dai parenti delle vittime di incidenti stradali. Redazione su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Un terremoto giudiziario ha travolto il Tribunale di Brindisi e la città di Francavilla Fontana. Un giudice, professionisti e noti imprenditori sono finiti nella rete degli inquirenti. Contestate a vario titolo le accuse di estorsione, corruzione passiva in atti giudiziari, corruzione attiva, associazione per delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Tra questi compare anche il giudice Gianmarco Galiano, 48 anni e la sua compagna Federica Spina. Galiano avrebbe chiesto denaro per agevolare vari contenziosi giudiziari e in un caso in particolare sarebbe riuscito a fare nominare sua moglie erede testamentaria di una vittima di incidente stradale. Contro di lui il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, ha lanciato parole durissime: “Il giudice non si è limitato a percepire denaro per agevolare un contenzioso giudiziario, riuscendo ad avere 289mila euro dai genitori di una ragazza morta in un incidente stradale, ma è riuscito a far nominare sua moglie erede testamentaria: un episodio unico nel panorama delle corruzioni giudiziarie, forse non solo italiano, la corruzione morti causa”. “Chi ha il compito di giudicare gli altri, deve essere prima di tutto intransigente verso se stesso”, ha detto Curcio. “L’impianto accusatorio è solido: gli accertamenti bancari dei finanzieri mostrano in maniera inequivocabile che ci sono state consistenti somme di denaro sui conti correnti riferibili al giudice”, ha aggiunto. La somma più importante, secondo quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, di cui LaPresse ha potuto prendere visione, si riferisce al periodo in cui Galiano era giudice nella sezione staccata a Francavilla Fontana. Galiano avrebbe ottenuto denaro dalla tranche finale del risarcimento danno che una compagnia di assicurazioni aveva liquidato ai genitori di una ragazza morta a 23 anni nel 2007, in un incidente stradale. “C’è stata l’intermediazione di un maresciallo dei carabinieri della provincia di Brindisi”, ha spiegato Curcio. Il militare è a piede libero. In totale gli indagati sono 21. La procura ha presentato appello al Riesame per chiedere altri due arresti in carcere e quattro ai domiciliari. Ci sarebbero stati tentativi di inquinare le prove con operazioni bancarie e concordando con alcuni testi le versioni da fornire ai finanzieri di Brindisi. Ma ci sarebbe altro. “L’esame di alcuni testimoni è stato drammatico, hanno pianto impauriti per le minacce”, ha detto Curcio. Sono i genitori di un bimbo che, per colpa medica, aveva subito danni alla nascita: hanno ottenuto un risarcimento di 2 milioni di euro, 150mila euro pretesi dal giudice, dietro minaccia di far revocare la patria potestà per le precarie condizioni della casa in cui vivevano. I genitori avrebbero raccontato di aver avuto paura che il giudice potesse fare qualcosa di brutto perché disse di conoscere sindaco e assistenti sociali. Galiano, inoltre, avrebbe chiesto ai coniugi di comprare, con il denaro del risarcimento, una casa in Grecia. L’avrebbe usata quando arrivava con la barca a vela. Sono stati sequestrati orologi di valore, quote immobiliari e due auto. Il gip ha ordinato il sequestro, finalizzato alla confisca, per 1,2 milioni di euro.

Scontro treni, la pm in foto con l'avvocato di un indagato, Csm la boccia ma si spacca. La magistrata di Trani era già stata sazionata perché non si era astenuta dal processo sullo scontro fra treni pur essendo in confidenza con il legale di uno degli indagati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Gennaio 2021. Nel 2018 era stata condannata alla censura dalla Sezione disciplinare del Csm per non essersi astenuta sin dal principio dalla trattazione dell’inchiesta sullo scontro tra due treni della Ferrotramviaria che in Puglia il 12 luglio 2016, causò la morte di 23 persone e il ferimento di altri 51 passeggeri, nonostante l’amicizia con il difensore di uno degli indagati per la strage, l’avvocato Leonardo de Cesare. Oggi, sempre per quella vicenda, il plenum del Csm, con una decisione travagliata, passata con un solo voto di scarto, ha «bocciato» la allora pm di Trani Simona Merra, che era sottoposta alla seconda valutazione sulla professionalità. Uno stop che ha conseguenze pratiche, visto che a questi periodici "esami» sono collegati gli avanzamenti di carriera e di stipendio dei magistrati. Il plenum si è spaccato: 12 i voti a favore ,mentre 11 sono andati alla proposta alternativa, favorevole alla «promozione». Merra lasciò l’inchiesta sul disastro solo dopo le polemiche scoppiate in seguito alla pubblicazione sui giornali di una foto (risalente al 2013)che la ritraeva ad una festa, mentre sorridente accettava un bacio simulato al piede da De Cesare. E venne condannata dalla Sezione disciplinare anche per alcune dichiarazioni pubblicate dal Corriere della Sera in cui liquidava come «pettegolezzi e chiacchiericcio da mercato» le riserve espresse sul suo conto, dopo quella foto. Per il tribunale delle toghe con quelle parole avrebbe violato il dovere di correttezza verso i familiari delle vittime, anche se la magistrata ha sempre detto che non intendeva riferirsi a loro e che era stata vittima di una distorsione giornalistica. Secondo lo schieramento di maggioranza (capeggiato dalla togata di Area Alessandra Dal Moro) e il Consiglio giudiziario di Bari con questa vicenda Merra avrebbe dimostrato una carenza di imparzialità ed equilibrio. Per la minoranza (guidata da Paola Braggion di Magistratura Indipendente ) invece non si trattava di fatti così gravi (anche perchè «non c'è stato alcun pregiudizio» per l’inchiesta sul treno), ma di una vicenda isolata nella carriera di un magistrato che, come ha detto tra gli altri Nino Di Matteo, «ha lavorato con impegno dimostrando capacità e labororiosità».

Favori in cambio di sesso, condannato a nove anni ex pm di Lecce e a 5 anni dg Asl. Arrestato nel 2018, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Gennaio 2021. Il Tribunale di Potenza ha condannato a nove di anni di reclusione l’ex pm di Lecce Emilio Arnesano, che il 6 dicembre 2018 fu arrestato con l’accusa di aver aggiustato alcuni procedimenti giudiziari e di aver fatto favori in cambio di benefici e rapporti sessuali. Arnesano - che era stato sospeso dal CSM nel gennaio 2019 - è stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed è stato dichiarato «in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena». Nell’ambito dello stesso procedimento l’avvocata Manuela Carbone è stata condannata a un anno e quattro mesi di reclusione (pena sospesa). Con la sentenza emessa dal presidente del Collegio B della sezione penale del Tribunale di Potenza, è stata confiscata anche una barca di 12 metri che era stata sequestrata ad Arnesano nell’ambito dell’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati salentini. Carlo Siciliano, dirigente dell’Asl di Lecce, è stato condannato dal Tribunale di Potenza a cinque anni di reclusione nell’ambito del procedimento in cui è imputato anche l’ex pm di Lecce Emilio Arnesano, accusato di aver aggiustato alcuni procedimenti giudiziari e di aver fatto favori in cambio di benefici e rapporti sessuali. E’ stato invece condannato a tre anni e otto mesi di reclusione un altro dirigente dell’Asl di Lecce, Ottavio Naracci. Sia Siciliano sia Naracci sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici. Con la sentenza emessa stamani dal Tribunale del capoluogo lucano, sono stati invece assolti Giuseppe Rollo (primario del reparto di Ortopedia dell’ospedale Fazzi di Lecce) e gli avvocati Augusto Conte, Mario Salvatore Ciardo e Federica Nestola. IL COMMENTO DEI LEGALI - “In questi casi si spendono parole banali ma vere: rispettiamo la decisione del tribunale, prendiamo atto, senza esultare, delle cinque assoluzioni, restiamo convinti delle nostre ragioni. Arnesano non è un corrotto. Confidiamo di dimostrarlo definitivamente nel prosieguo del processo”, commentano i legali di Arnesano Luigi Covella e Luigi Corvaglia.

L’EX PM ARNESANO CONDANNATO A 9 ANNI: CHIEDEVA SESSO IN CAMBIO DI FAVORI. Il Corriere del Giorno il 23 Gennaio 2021. La sentenza di primo grado nasce dalla vicenda che aveva coinvolto anche avvocati, medici , è stata pronunciata dal presidente della Corte Federico Sergi. Il magistrato Arnesano era stato sospeso dal CSM nel gennaio 2019, è stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed è stato dichiarato “in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena”. Il Tribunale di Potenza ha condannato a nove di anni di reclusione l’ex pm di Lecce Emilio Arnesano, arrestato il 6 dicembre 2018 con l’accusa di aver fatto favori in cambio di benefici e rapporti sessuali ed aver “aggiustato” alcuni procedimenti giudiziari . Per alcuni capi di imputazione Arnesano è stato assolto. Condannata a 1 anno e 4 mesi, (pena sospesa) l’avvocatessa Manuela Carbone. Per lei la pm Anna Gloria Piccinni, aveva chiesto due anni. Il procedimento si è incardinato a Potenza, quale distretto giudiziario competente territorialmente per i magistrati di Lecce. La Procura aveva chiesto una condanna 12 anni e sei mesi per Emilio Arnesano difeso dagli avvocati Luigi Covella e Luigi Corvaglia, sostenendo che il pubblico ministero Arnesano abbia chiesto l’assoluzione nel processo che lo ha visto imputato di peculato d’uso dell’auto blu e che ne avrebbe avuto come tornaconto uno sconto di 17mila sull’acquisto della barca di Siciliano usata poi come alcova, nonché due battute gratuite di caccia al daino maschio in una riserva della Basilicata. La sentenza di primo grado nasce dalla vicenda che aveva coinvolto anche avvocati, medici , è stata pronunciata dal presidente della Corte Federico Sergi. Il magistrato Arnesano era stato sospeso dal CSM nel gennaio 2019, è stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed è stato dichiarato “in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena”. Il Tribunale ha ordinato la confisca dell’imbarcazione che era stata al centro dell’indagine e che Arnesano aveva acquistato con uno sconto di 17mila euro dal direttore del Dipartimento di Medicina del Lavoro e Igiene Ambientale Carlo Siciliano: La barca secondo l’accusa sostenuta dalla pm Piccininni, sarebbe stato il prezzo della corruzione, per la quale è stato condannato con rito abbreviato a 5 anni . Condannato a 3 anni e 8 mesi Ottavio Narracci, ex direttore della Asl di Lecce, che aveva optato anch’egli per il rito abbreviato. Assolti il primario di Ortopedia e Traumatologia del Fazzi Giuseppe Rollo “perché il fatto non sussiste”, e gli avvocati Mario Ciardo, Augusto Conte (ex presidente dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi) e Federica Nestola.

L'intervista all'avvocato Morenghi. “Gli rifiutai un prestito e mi perseguitò, giusta la condanna al giudice Esposito Jr.”, la soddisfazione dell’avvocato Michele Morenghi. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. «Grazie alla mia denuncia il dottor Ferdinando Esposito è fuori dalla magistratura», dichiara soddisfatto l’avvocato Michele Morenghi. Ferdinando Esposito, già pm alla Procura di Milano e poi trasferito al Tribunale di Torino come giudice del dibattimento, è stato “rimosso” giovedì scorso dall’ordine giudiziario dalla Sezione disciplinare del Csm, presieduta da David Ermini. La notizia è stata data questa settimana da Il Giornale. Il magistrato, figlio di Antonio, presidente del collegio che aveva condannato Silvio Berlusconi in Cassazione, era finito sotto processo per una vicenda di prestiti. Al termine di un iter giudiziario lungo e complesso, l’ex pm era stato condannato a 10 mesi e 20 giorni per “tentata induzione” ai danni dell’avvocato Morenghi.

Avvocato Morenghi, adesso che il processo penale si è concluso (la Cassazione ha dichiarato inammissibile nelle scorse settimane l’ultimo ricorso presentato da Esposito, condannandolo anche al pagamento di 3000 euro di spese processuali, ndr), può raccontarci cosa è successo? Innanzitutto quando ha conosciuto il dottor Esposito?

«Avevo conosciuto il dottor Esposito a una festa a Budapest, dove ho un ufficio, nel 2012. Tornato in Italia iniziai a frequentarlo in amicizia».

Non aveva problemi di incompatibilità professionale, essendo lei avvocato ed Esposito un magistrato?

«Io non esercitavo la professione a Milano dove lui prestava servizio ma a Piacenza».

Poi cosa accadde?

«Un giorno Esposito mi chiese un prestito, circa 7000 euro, perché doveva fare delle vacanze. Soldi che dopo mi restituì».

Non si era insospettito che un magistrato le chiedesse dei soldi? Anche se eravate amici?

«No, perché sapevo che aveva chiesto soldi anche ad altre persone. Mi sono insospettito per dei suoi comportamenti».

Quali?

«Quando mi chiese un passaggio in auto per andare ad Arcore da Silvio Berlusconi. Non penso sia opportuno che un magistrato vada a casa dell’ex premier».

In che periodo siamo?

«Era qualche mese che ci conoscevamo, era la primavera del 2013».

Cosa le disse di questa visita?

«Che aveva intenzione di entrare in politica».

Sa chi l’aveva presentato a Berlusconi (in quel momento l’ex Cav era indagato dalla Procura di Milano nel processo Ruby, ndr)?

«Penso fosse stata l’onorevole Maria Vittoria Brambilla».

Quando avete litigato?

«L’anno successivo, nel 2014. Io avevo una società che vendeva integratori alimentari».

Che fece Esposito?

«Lui abitava in affitto in un super attico di oltre cento metri quadri nel centro di Milano con vista sul Duomo. Mi chiese di pagargli il canone di locazione».

La cifra?

«Circa 32mila euro l’anno».

E lei?

«Mi sono rifiutato categoricamente».

Ed Esposito?

«Come le ho detto, nel 2014 avevo questa società di integratori e lui mi prospettò che in Procura “può capitare di tutto alle aziende con l’inchiesta "sbagliata"”».

Ha reagito?

«Certo. Andai in Procura e raccontai tutto a Bruti Liberati (Edmondo, ex procuratore di Milano) e a Ilda Boccassini (procuratore aggiunto)».

Venne interrogato?

«Sì e poi trasferirono tutti gli atti a Brescia (competente per i reati commessi dai magistrati in servizio a Milano, ndr)».

Si è aperto il procedimento?

«Certo. Ed è successo di tutto».

Ad esempio?

«Guardi, le dico solo che mia hanno anche accusato di far parte dei Servizi segreti e aver ordito un complotto contro Esposito. Poi lui mi ha più volte denunciato dicendo che le mie dichiarazioni erano inattendibili».

E invece la Cassazione le ha dato ragione?

«».

Non aveva paura di denunciare un magistrato dal cognome importante? Oltre al padre, lo zio, Vitagliano, è stato procuratore generale della Corte di Cassazione, quindi membro di diritto del Csm e titolare dell’azione disciplinare per tutti i magistrati.

«No».

Si è costituto parte civile nel processo?

«No. Io non voglio i soldi di un magistrato. Volevo solo giustizia. E l’ho ottenuta».

·        I Colletti Bianchi.

Giuliano Aluffi per “il Venerdì – la Repubblica” il 16 gennaio 2021. Dietro l' aspetto rassicurante e anonimo dei colletti bianchi, possono nascondersi voragini in cui spariscono denaro, sia privato che dei contribuenti, e posti di lavoro. Lo racconta nel saggio Big Dirty Money: the Shocking Injustice and Unseen Cost of White Collar Crime (Denaro sporco: la scioccante ingiustizia e il costo invisibile dei crimini dei colletti bianchi, ed. Viking, pp. 298, euro 25,75) Jennifer Taub, docente di Giurisprudenza alla Western New England University. Puntando l' indice su un aspetto comune a quasi tutti i reati - non solo finanziari - commessi dalle aziende: la loro difficoltà a suscitare un genuino allarme sociale. «Negli Stati Uniti i crimini finanziari costano alle vittime tra 300 e 800 miliardi di dollari all' anno, secondo stime dell' Fbi. E non si tratta nemmeno di tutti i crimini finanziari: la stima comprende solo la frode e l' appropriazione indebita. Invece i crimini "da strada" come furti e rapine costano agli americani molto meno: circa 16 miliardi di dollari» spiega Taub. «Quello che è molto meno quantificabile è il danno che i reati dei colletti bianchi apportano alla nostra fiducia verso le imprese e verso il governo che ci rappresenta. Ad esempio il fatto che diverse grandi compagnie farmaceutiche siano state incriminate per falsi proclami riguardanti i loro prodotti oggi alimenta il movimento antivaccinista, e questo è un problema particolarmente grave in periodo di pandemia». Uno scandalo in cui i reati finanziari sono stati così estesi da gettare un' ombra di sospetto su tutto il settore, in questo caso quello creditizio, è la frode su vastissima scala perpetrata ai danni degli americani da Wells Fargo. «È una grande banca che nel 2009, per iniziativa dell' amministratore delegato John Stumpf, lanciò una campagna (Eight is great) il cui intento era affibbiare a ogni cliente almeno 8 prodotti o servizi bancari. Ad esempio: se qualcuno aveva stipulato un mutuo con Wells Fargo, allora bisognava cercare di indurlo a richiedere una carta di credito, un altro mutuo per l' auto, e così via». Sotto la forte pressione esercitata dei manager, gli impiegati finirono per aprire 3,5 milioni di conti e di carte di credito all' insaputa dei clienti. I dipendenti onesti che avevano remore nell' eseguire questi ordini dall' alto venivano puniti duramente. «Quando nel 2016 scoppiò lo scandalo, Stumpf venne torchiato in due audizioni nel Congresso e costretto a dimettersi». Si scoprì che molti impiegati, con Stumpf al comando dell' azienda, avevano solo due opzioni: agire in modo disonesto o essere licenziati. Basta leggere cosa scrisse l' Occ, l' Agenzia federale del governo preposta alla vigilanza sulle banche per farsi un' idea: «La banca aveva sistemi e strumenti migliori per identificare impiegati che non raggiungessero irrealistici obiettivi di vendita, di quelli che aveva per identificare chi volesse truffare i clienti». Le conseguenze per Stumpf? «Non c' erano prove che lui sapesse dei conti aperti all' insaputa dei clienti, e il consiglio d' amministrazione gli pagò lo stesso 134 milioni di dollari di buonuscita» chiosa Taub. Non male per essere stato alla guida di un' azienda che ha commesso una frode massiccia. Pratiche fraudolente, soprattutto a livello di comunicazione, sono quelle che hanno portato all' ascesa repentina e poi al crollo di una delle startup più chiacchierate del nuovo millennio, l'americana Theranos, fondata dalla giovane Elizabeth Holmes. Nel 2015 Theranos raggiunse una valutazione di 9 miliardi di dollari millantando una rivoluzionaria tecnologia in grado di diagnosticare una vasta serie di malattie da una goccia di sangue. «Elizabeth Holmes nelle pubblicità sosteneva che la sua tecnologia fosse usata dall' esercito in Afghanistan e che l' azienda, nel 2014, avrebbe ricavato 100 milioni di dollari» spiega l'autrice del libro. «In realtà la Holmes non possedeva nessuna tecnologia innovativa. L'esercito Usa non commissionò nulla a Theranos e i guadagni del 2014 furono di appena 100 mila dollari. Nel 2018 si scoprì la verità e Theranos fallì. Lasciando sul campo molte vittime. Oltre agli investitori anche gli americani che avevano ricevuto esami del sangue fittizi e quindi dal responso ingannevole rispetto al reale stato di salute». Ancora più ingannevoli - e con effetti assai più dannosi per i consumatori - le pratiche seguite da Purdue, l' azienda farmaceutica che ha lanciato l' antidolorifico OxyContin (un derivato della morfina), dando il via alla diffusione di massa della dipendenza da antidolorifici. «OxyContin fu sviluppato, in origine, per le cure palliative dei tumori, ma Purdue immaginò un mercato molto più grande: quello degli americani che soffrivano di dolore cronico, ovvero quasi il 20 per cento della popolazione adulta». Iniziarono allora le falsità: «Purdue sosteneva che a differenza di tutti gli altri derivati dalla morfina, il loro prodotto non dava dipendenza». Nel 2000 le vendite di OxyContin superarono il miliardo di dollari. Solo nel 2007 intervenne la leg tre dirigenti dell' azienda vennero riconosciuti colpevoli per avere mentito sulle caratteristiche del farmaco. I dirigenti sborsarono 34,5 milioni di dollari di penale a cui si se ne aggiunsero altri 600 dell' azienda. «Ma gli unici a finire in carcere furono i più disagiati tra i consumatori di Oxycontin» conclude Taub. «Una contea in Virginia stimò che la dipendenza da OxyContin era la ragione di almeno l' 80 per cento dei crimini che erano stati commessi lì nel 2000».