Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2021
LA GIUSTIZIA
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le condanne.
Cucchi e gli altri.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Massimo Bossetti è innocente?
Il DNA.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Colpevoli per sempre.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Morire di TSO.
Parliamo di Bibbiano.
Nelle more di un divorzio.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
L’alienazione parentale.
La Pedofilia e la Pedopornografia.
Gli Stalker.
Scomparsi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?
La Giustizia non è di questo Mondo.
Magistratura. L’anomalia italiana…
Il Diritto di Difesa vale meno…
Figli di Trojan: Le Intercettazioni.
A proposito della Prescrizione.
La giustizia lumaca e la Legge Pinto.
A Proposito di Assoluzioni.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Verità dei Ris
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Le Mie Prigioni.
I responsabili dei suicidi in carcere.
I non imputabili. I Vizi della Volontà.
Gli scherzi della memoria.
Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.
La responsabilità professionale delle toghe.
Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Adolfo Meciani.
Alessandro Limaccio.
Daniela Poggiali.
Domenico Morrone.
Francesca Picilli.
Francesco Casillo.
Franco Bernardini.
Gennaro Oliviero.
Gianni Alemanno.
Giosi Ferrandino.
Giovanni Bazoli.
Giovanni Novi.
Giovanni Paolo Bernini.
Giuseppe Gulotta.
Jonella Ligresti.
Leandra D'Angelo.
Luciano Cantone.
Marcello Dell’Utri.
Mario Marino.
Mario Tirozzi.
Massimo Luca Guarischi.
Michael Giffoni.
Nunzia De Girolamo.
Pierdomenico Garrone.
Pietro Paolo Melis.
Raffaele Chiummariello.
Raffaele Fedocci.
Rocco Femia.
Sergio De Gregorio.
Simone Uggetti.
Ugo de Flaviis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’uso politico della giustizia.
Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.
Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Avvocati specializzati.
Le Toghe Candidate.
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Le Intimidazioni.
Palamaragate.
Figli di Trojan.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Magistratopoli.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giornalistopoli.
Le Toghe Comuniste.
Le Toghe Criminali.
I Colletti Bianchi.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della Moby Prince.
Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.
L’affaire Modigliani.
L’omicidio di Milena Sutter.
La Vicenda di Sabrina Beccalli.
Il Mistero della morte di Christa Wanninger.
Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.
Il Mistero di Marta Russo.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero delle Bestie di Satana.
Il Mistero di Charles Sobhraj.
Il Mistero di Manson.
Il Caso Morrone.
Il Caso Pipitone.
Il Caso di Marco Valerio Corini.
Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.
Il Caso Claps.
Il Caso Mattei.
Il Mistero di Roberto Calvi.
Il Mistero di Paola Landini.
Il Mistero di Pietro Beggi.
Il Mistero della Uno Bianca.
Il Mistero di Novi Ligure.
Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.
Il mistero del delitto del Morrone.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Mistero del Mostro di Milano.
Il Mistero del Mostro di Udine.
Il Mistero del Mostro di Bolzano.
Il Mistero della morte di Luigi Tenco.
Il Giallo di Attilio Manca.
Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.
Il Mistero dell’omicidio Varani.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il Mistero di Viviana Parisi.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il Mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Cranio Randagio.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.
Il Mistero di Saman Abbas.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.
Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.
Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.
Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.
Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.
Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.
Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.
Il Mistero di Roberto Straccia.
Il Mistero di Carlotta Benusiglio.
Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.
Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.
Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.
Il Giallo di Sebastiano Bianchi.
Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.
Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il Mistero della "Signora in rosso".
Il Mistero di Polina Kochelenko.
Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.
Il Mistero di Giulia Maccaroni.
Il Mistero di Tatiana Tulissi.
Il Mistero delle sorelle Viceconte.
Il Mistero di Marco Perini.
Il Mistero di Emanuele Scieri.
Il Mistero di Massimo Manni.
Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.
Il Mistero di Bruna Bovino.
Il Mistero di Serena Fasan.
Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.
Il Mistero della morte di Vittorio Carità.
Il Mistero della morte di Massimo Melluso.
Il Mistero di Francesco Pantaleo.
Il Mistero di Laura Ziliani.
Il Mistero di Roberta Martucci.
Il Mistero di Mauro Romano.
Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Il Mistero di Wilma Montesi.
Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.
Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.
Il Mistero di Maurizio Gucci.
Il Mistero di Maria Chindamo.
Il Mistero di Dora Lagreca.
Il Mistero di Martina Rossi.
Il Mistero di Emanuela Orlandi.
Il Mistero di Gloria Rosboch.
Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".
Il Mistero del delitto di Garlasco.
Il Mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.
Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.
Il giallo di Stefano Ansaldi.
Il Giallo di Mithun.
Il Mistero di Stefano Barilli.
Il Mistero di Biagio Carabellò.
Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.
Il Caso Imane.
Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il Mistero di Serena Mollicone.
Il Mistero di Teodosio Losito.
Il Caso di Antonio Natale.
Il Mistero di Barbara Corvi.
Il Mistero di Roberta Ragusa.
Il Mistero di Roberta Siragusa.
Il Caso di Niccolò Ciatti.
Il Caso del massacro del Circeo.
Il Caso Antonio De Marco.
Il Giallo Mattarelli.
Il Giallo di Bolzano.
Il Mistero di Luca Ventre.
Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.
Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.
Il Mistero di Federico Tedeschi.
Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.
Il Mistero di Gianmarco Pozzi.
Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della strage di Bologna.
LA GIUSTIZIA
SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Magistratopoli.
«Complici di Palamara». La conferma del Csm: il sistema esiste. Depositate le motivazioni della sospensione dei cinque ex consiglieri presenti alla famosa cena all’Hotel Champagne: per i sei giudici della sezione disciplinare tutti avrebbero agito nella piena consapevolezza del disegno guidato da Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Con il loro comportamento, i cinque ex togati del Csm sospesi dalla funzione per aver partecipato alla famosa cena all’Hotel Champagne avrebbero non solo trasgredito le regole, ma anche «prodotto una grave lesione dell’affidamento che l’ordinamento e la collettività necessariamente devono riporre in coloro che sono chiamati a svolgere quella funzione costituzionalmente prevista, al fine di preservare al meglio la funzione giurisdizionale cui è preposto l’ordine giudiziario». A dirlo è la sezione disciplinare del Csm, che lunedì scorso ha depositato le motivazioni della decisione con la quale lo scorso 14 settembre ha disposto la sospensione di un anno e mezzo per Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Luigi Spina e di nove mesi per Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli. Una decisione arrivata dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Luca Palamara che per la Corte di Cassazione avrebbe agito da solo e per vendetta. La decisione del Csm, però, si muoverebbe in senso opposto: un sistema esiste, se è vero com’è vero che per i sei giudici della sezione disciplinare tutti avrebbero agito nella piena consapevolezza del disegno che vedeva come principale manovratore Palamara, con l’intenzione di «interferire in segreto sulla libera formazione del convincimento dei componenti del Consiglio superiore della magistratura rimasti estranei alla discussione, come pure dei candidati al posto di procuratore della Repubblica di Roma, in riferimento a loro eventuali revoche delle domande presentate».
Insomma: avrebbero arrecato «un sicuro pregiudizio alle funzioni proprie dell’organo di rilevanza costituzionale che (…) in prima persona, avevano essi stessi innanzitutto l’obbligo giuridico di preservare». Secondo l’accusa, Palamara pianificò attività per condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito.
Il collegio disciplinare pone in evidenza proprio la presenza di Lotti: le conversazioni intercettate dal trojan inoculato sul telefono di Palamara dimostrerebbero, infatti, come «il parlamentare partecipasse alla riunione non in veste istituzionale – si legge – ma allo scopo di influenzare, o almeno mostrarsi capace di influenzare i lavori del Consiglio mediante un utilizzo strumentale della propria carica e delle proprie conoscenze». Un’intenzione che emergerebbe con chiarezza dalle conversazioni e che «non poteva non risultare parimenti cristallina agli occhi degli interlocutori, ed anche di coloro che assumono aver avuto una conoscenza solo superficiale dell’onorevole Lotti».
I consiglieri presenti, dunque, «non solo mostrano di ricevere tranquillamente i suggerimenti e le offerte di intervento del parlamentare – senza manifestare in alcun momento, né la volontà di dissociarsene, né di respingere l’ingerenza nel funzionamento della vita consiliare da parte di un soggetto esterno, ma neppure meravigliandosene -, ma addirittura manifestano ringraziamento ed incitazione». Comportamenti che avrebbero effetti di «estrema gravità» anche «sulla stima del singolo magistrato e sulla fiducia nel suo operato di appartenente all’ordine giudiziario». Per la sezione disciplinare, i cinque consiglieri avevano un «notevole livello di consapevolezza (…) in ordine alla riprovevolezza che siffatti comportamenti potevano avere, trattandosi proprio di magistrati prescelti elettivamente nella loro funzione per attuare l’ordinamento giudiziario».
Sarebbe stato Spina il consigliere ad avere «maggiore intensità di rapporti con il dottor Palamara, con il quale manifesta una piena e consapevole comunione di intenti e del quale, nella vicenda, si pone come una sorta di longa manus ». Nessun dubbio, da parte del Csm, sulla sua «piena responsabilità», essendo del tutto evidente «una partecipazione consapevole e diretta alla perpetrazione di una illecita strategia che si andava delineando e che mirava deliberatamente ad incidere sulla libera formazione della volontà» del Csm, con lo scopo di «assecondare disegni estranei alle responsabilità consiliari, per di più anche evidentemente asserviti alle intenzioni di chi aveva un concreto interesse nella scelta dell’organo requirente presso il quale era stato indagato e imputato». Anche Morlini, secondo la sezione disciplinare, «condivideva pienamente l’occulto obiettivo strategico dei partecipanti alla riunione: quello di far nominare procuratore di Roma il dottor Viola». Così il suo sostegno a Giuseppe Creazzo sarebbe stato solo di facciata e destinato «a venir meno subito dopo il voto in Commissione, anche sulla base del lavoro di diplomazia di una parte della corrente di riferimento, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto adoperarsi per indurre il dottor Creazzo a revocare la domanda». Da parte sua, dunque, ci sarebbe stata «piena partecipazione ed effettiva e consapevole adesione agli illeciti propositi».
E pienamente partecipe sarebbe stato anche Lepre, «essendo anche in questo caso evidente non solo la consapevolezza e volontà di adottare un comportamento connotato da un notevole grado di scorrettezza, ma anche di agire, peraltro in violazione dell’obbligo di segreto e del dovere di riserbo, turbando deliberatamente la trasparente e libera formazione della volontà dell’organo al quale apparteneva». Partecipe silente sarebbe stato, nell’ottica della difesa, Criscuoli, ma tale circostanza, per la sezione disciplinare, non certificherebbe la sua estraneità alle manovre relative alla nomina del procuratore di Roma: «Posto che, quando gli altri procedono alla conta dei voti a favore del dottor Viola, quello del dottor Criscuoli viene sempre annoverato senza che quest’ultimo abbia qualcosa da ridire a riguardo, deve escludersi che sia rimasto silente per tutto il corso della riunione», dando per scontato che l’unica voce non identificata non potesse che essere la sua. Infine, per quanto riguarda Cartoni, «l’elevato livello di confidenzialità» con Lotti «emerge da una serie di scambi, da cui si desume che l’incolpato forniva al primo informazioni di vita consiliare, anche relative alla Sezione disciplinare, affinché il parlamentare le utilizzasse al fine di assoggettare il vicepresidente Ermini alla loro sfera di influenza (benché quest’ultimo non vi si prestasse). Si tratta dunque, anche in questo caso, di una consapevole partecipazione a quell’evento».
FAVORI IN PROCURA A TORINO. CHIESTI 3 ANNI DI CARCERE PER L’EX PM PADALINO: “HA DISONORATO LA TOGA”. Il Corriere del Giorno il 9 Novembre 2021. Al centro dell’indagine ci sono un giro di favori e prebende che erano emersi nel 2018 facendo finire nei guai il magistrato Padalino che si era contraddistinto per le indagini sui No Tav e ancor prima come gip di Milano nel periodo delle inchieste “Mani Pulite”. Secondo la procura di Milano, l’ex pm Andrea Padalino oggi giudice civile a Vercelli, ha “disonorato la toga” e commesso il reato di corruzione in atti giudiziari. Questa la motivazione della richiesta dei pm Laura Pedio ed Eugenio Fusco della procura di Milano al processo con rito abbreviato alla “cricca dei favori” che si sta celebrando nel capoluogo lombardo. Accuse che sono state sempre respinte con forza dalla difesa dell’ex magistrato e degli altri protagonisti. Al centro dell’indagine ci sono un giro di favori e prebende che erano emersi nel 2018 facendo finire nei guai il magistrato Padalino che si era contraddistinto per le indagini sui No Tav e ancor prima come gip di Milano nel periodo delle inchieste “Mani Pulite”. Cene, viaggi e trattamenti di favore, oltre a fascicoli trattati con corsie preferenziali a seconda delle situazioni che erano finiti nel calderone di una maxi inchiesta trasferita per competenza da Torino a Milano. Per questo oltre a loro, l’accusa ha chiesto la condanna a 2 anni e 10 mesi per l’oculista Raffaele Nuzzi e a 2 anni e 8 mesi per il carrozziere Angelo Morello. L’indagine è partita da Torino e rappresenta la parte più spinosa, dell’inchiesta che ha smascherato la cosiddetta “cricca dei favori”: un sistema basato su piccole e grandi prebende che coinvolgeva l’appuntato Dematteis e un noto penalista (ora deceduto). I magistrati hanno ricostruito il rapporto tra gli indagati e svelato un romanzo clientelare di piccoli e grandi favori. Alcuni dei quali coinvolgerebbero anche il pm Padalino, per il quale ora è stata chiesta la condanna. I pubblici ministeri milanesi accusano l’ex gip di “Mani Pulite” di abuso d’ufficio e di tre episodi di corruzione. Tra i casi più eclatanti ricordati in aula c’è la vicenda che mette in luce i rapporti tra Padalino (difeso dall’avvocato Massimo Di Noia) e Pettinicchio. I fatti risalgono all’autunno del 2017, quando l’ex finanziere deve affrontare il processo di appello dopo la condanna in primo grado. In quella circostanza, Padalino si sarebbe reso disponibile a dare una mano “fornendo informazioni con modalità riservate il suo supporto e il suo consiglio” come riportato nel capo d’imputazione, in incontri a Roma e Torino. Negli atti dell’indagine sono presenti delle fotografie che immortalano il magistrato in “gita” sul lago D’Orta e altre immagini che documentano una cena a Villa Crespi ospite dello chef stellato Antonino Cannavacciuolo: secondo l’accusa, le cene ed il weekend gratis sarebbero stati la ricompensa per i “suggerimenti” legali forniti al Pettinicchio. La pena più alta 4 anni di carcere è stata chiesta per l’ex finanziere Flavio Pettinicchio sospeso dal servizio per essere stato condannato per alcuni reati connessi a un giro di prostituzione, mentre 3 anni e sei mesi sono stati chiesti per Renato De Matteis, il carabiniere inserito nella squadra di polizia Giudiziaria del pm, insieme al maresciallo Cesare Amori, per i quali sono stati chiesti sei mesi. Il processo è stato rinviato al 18 novembre, quando a parlare saranno le difese.
Caro Davigo, ma non pensa che lo scandalo “toghe sporche” abbia minato la credibilità della magistratura? Il controllo sulla magistratura è inadeguato perché consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari. Parla Rosario Russo, già sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione. Il Dubbio il 7 novembre 2021. Spiace non potere condividere i dati e le considerazioni contenuti nel rassicurante articolo pubblicato il 29 ottobre 2021 sul giornale a firma del dottor Pier Camillo Davigo, per le seguenti ragioni.
1. In primo luogo, per contestare il generale compiacimento palesato dal dottor Davigo sull’attuale stato della Magistratura, basta rammentare che, secondo il rapporto 2020 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia ( CepeJ) da lui citato, su ventisei Paesi europei la giustizia civile italiana è censita al penultimo posto quanto a procedimenti pendenti ed è stata la più lenta nel 2018.
2. Inoltre Davigo ha esaltato, con la laboriosità e la correttezza dei giudici italiani, anche l’efficacia del sistema disciplinare che li riguarda. Qui il dato statistico è importante. Con riferimento al periodo 2012- 2018 ( sette anni) mediamente il Procuratore Generale presso la Suprema Corte ha ogni anno archiviato n. 1264 notizie disciplinari ed esercitato n. 116 azioni disciplinari. Nel 2020 soltanto in 24 casi ( pari al 21,9% di tutte le 114 incolpazioni) l’azione disciplinare si è conclusa con la condanna dei magistrati inquisiti. L’effettiva portata di tali archiviazioni non si comprende se non si tiene conto di due circostanze, sfuggite al dottor Davigo.
In primo luogo, il Procuratore generale ha il dovere di agire disciplinarmente, ma le sue archiviazioni passano al vaglio ( non del Consiglio Superiore della Magistratura, ma) soltanto del ministro della Giustizia, il quale ha la facoltà, ma non il dovere, di opporsi ( art. 107, 2° Cost.). Consegue che, a differenza di quanto avviene nel processo penale, il Pg astrattamente ha il potere, giuridicamente insindacabile, di ‘ insabbiare’ qualunque notizia disciplinare con il tacito consenso del ministro: e, come si è osservato, si tratta mediamente di 1264 archiviazioni annue.
In secondo luogo, e come se non bastasse, con proprio editto n. 44 del 2019 il Pg ha stabilito autonomamente che, a differenza di quella penale (art. 116 c. p. p.), l’archiviazione disciplinare non può essere comunicata al cittadino (o all’avvocato) che ha segnalato l’abuso disciplinare del magistrato, riservandosi il potere di interdirne la conoscenza anche al magistrato indagato, all’Anm e perfino al Csm. Non è così in altri più trasparenti ordinamenti giuridici, ma anche in altri settori del nostro. Infatti, nel procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati e dei giudici amministrativi, al cittadino denunciante è sempre comunicato integralmente il provvedimento di archiviazione. Le 1264 archiviazioni annue emesse mediamente dal Pg nel settennio 2012- 2018 costituiscono dunque un absurdissimum «buco nero».
3. Ma stupisce ancor di più che il dottor Davigo opponga che talune proposte di riforma del sistema disciplinare insidiano l’indipendenza dei magistrati, senza proporne alcuna, come se lo scandalo delle Toghe Sporche non fosse sopravvenuto. Eppure, avendo inizialmente partecipato al giudizio disciplinare nei confronti del dottor Palamara, nessuno meglio di lui dovrebbe sapere che quella indipendenza molti tra i magistrati più impegnati in sede associativa hanno tradito, attuando da anni il sistema clientelare e spartitorio. Il dottor Luca Palamara ha rivendicato – e rivendica – di avere ‘ gestito’, anche quale membro togato del Csm, le ‘ raccomandazioni’ con cui tanti magistrati ordinari imploravano ( e assai spesso) ottenevano promozioni e trasferimenti. Pubblicamente – e in sede giudiziaria – egli ha proclamato di avere ‘ mediato’ tra le correnti dell’Anm, con i membri laici del Csm e con i partiti politici; che si è fatto sempre così e così è giusto che sia, anche se – come non teme di ammettere – il suo ‘ sistema’ pregiudicava i magistrati più meritevoli. Ebbene dopo due anni, radiato dalla magistratura e dall’Anm il «sommo sensale» ( ma soltanto per la cospirazione consumata nella «notte della magistratura» ), egli e i magistrati da lui ‘ raccomandati’, istigatori e utilizzatori finali dei gravi abusi d’ufficio perpetrati, non sono stati sanzionati né in sede disciplinare e associativa né penalmente!
È questa l’indipendenza che sta a cuore del dottor Davigo? Sembra esaustiva sul tema la delibera approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura il 13 gennaio 2021 su una pratica avviata per incompatibilità ambientale o funzionale. Su di essa ha riferito il Consigliere Di Matteo, affermando testualmente che: «dall’analisi della messaggistica WhatsApp e di conversazioni intercorse fra il dottor Liguori [nr. Procuratore della Repubblica di Terni] e il dottor Palamara, emerge l’esistenza di un rapporto particolarmente confidenziale tra i due, tale da consentire al dottor Liguori di manifestare in un primo momento il proprio disappunto per la proposta di nomina del dottor Carpino quale Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza effettuata dalla Quinta Commissione» ; – «nel momento in cui si ebbe notizia della proposta della Quinta Commissione, il dottor Liguori si lamentava con il dottor Palamara dicendo ‘ così non va’ e sottolineando anche che quella scelta avrebbe comportato per il gruppo di riferimento una perdita di almeno 25 voti su 39 nel circondario di Cosenza»; sull’altra concorrente, la dottoressa Lucente, il dottor Palamara comunicava al dottor Liguori il raggiungimento di un accordo con la componente togata dei consiglieri in quota ad altro gruppo associativo, in base al quale la dottoressa Lucente sarebbe stata proposta su un altro posto vacante di Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza» ; – «le conversazioni sono state oggetto di pubblicazione sulla testata La Verità ».
Il Plenum del Csm ha disposto l’archiviazione della pratica perché «La propalazione di conversazioni provenienti da un magistrato che lavora in Umbria sulle proposte di nomina di un posto semidirettivo in Calabria non appare determinare, anche in astratto, un appannamento al corretto esercizio della funzione di Procuratore della Repubblica di Terni». Il dottor Davigo, e forse anche il lettore, potrà convenire sul fatto che: – l’indipendenza e l’imparzialità – al pari della correttezza disciplinare – sono attributi personali del magistrato e, al pari della sua reputazione, non hanno perciò confini territoriali; dovunque residenti, gli Utenti finali del servizio Giustizia non possono confidare nell’imparzialità e nella correttezza di un P. R., se apprendono dal giornale che egli abbia illegittimamente patrocinato la nomina dell’amicus, in danno di altro candidato non raccomandato ( il dottor Nessuno), ad un ufficio giudiziario messo a concorso, ovunque esso sia ubicato; – ai sensi della Circolare deliberata dal Csm il 26 luglio 2017, il Plenum avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Procuratore Generale, avendo ravvisato la violazione disciplinare di cui all’art. 2, 1° lett. d) del D. lgs. n. 109 del 2006; – nessuno dei ventitré pubblici ufficiali che hanno approvato la delibera ha rilevato che i fatti esaminati potevano integrare il reato di abuso aggravato d’ufficio ( artt. 110 e 323, 1° e 2° c. p.), sicché avevano l’obbligo di farne denuncia all’Autorità giudiziaria: non è dato comprendere perché soltanto gli illeciti accordi per l’assegnazione di talune cariche pubbliche ( tipicamente quelle universitarie) sono sanzionati penalmente… proprio dai magistrati!
4. In conclusione, il controllo sulla magistratura ordinaria è fortemente inadeguato se consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari, pertanto rimesse alla incontrollabile discrezione del Pg, e se è capace di produrre una deliberazione liberatoria come quella adottata dal Csm il 13 gennaio 2021. A differenza dello scandalo di Mani Pulite, quello delle Toghe Sporche, invece di provocare l’epurazione, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza ( too big to fail: troppo grande per crollare). In questo senso quello proclamato da Palamara sarà destinato a perpetuarsi come vivente e vincente "Sistema", se quanto prima non venga radicalmente riformato, ovviamente nel pieno rispetto dell’indipendenza della Magistratura.
Congresso di Area: trovato il responsabile. Magistratura nel caos, per le toghe di Area il responsabile è l’ex ministro Castelli…Paolo Comi su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Roberto Castelli, ingegnere meccanico specializzato nel controllo del rumore nelle aziende, brianzolo doc di Lecco, ministro della Giustizia nel secondo e nel terzo governo Berlusconi, leghista di stretta osservanza fin dalla prima ora: è lui il principale “responsabile” della perdita di fiducia dei cittadini nella magistratura italiana e dei recenti scandali che hanno travolto il Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare, ovviamente, dal “Palamaragate” che ha avuto l’effetto di determinare le dimissioni di ben sei componenti togati a Palazzo dei Marescialli e di far espellere con ignominia dalla magistratura Luca Palamara, ex zar delle nomine e degli incarichi. Cosa aveva fatto di così terribile Castelli? Aveva messo la firma su due riforme “sciagurate” per le toghe: l’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi e la modifica del sistema elettorale del Csm, con la previsione del maggioritario uninominale. Fortemente voluto nel 2001 da Umberto Bossi a via Arenula, pur senza alcuna competenza giuridica, Castelli avrebbe allora portato nel pantano la magistratura. Erano quelli anni di scontri furiosi fra politica e toghe. I commentatori ricordano sempre le “leggi ad personam” approvate in quel periodo dal Parlamento perché il premier Silvio Berlusconi, sotto procedimento penale un giorno sì e l’altro pure, era alla disperata ricerca di scappatoie per uscire dal gorgo giudiziario in cui l’avevano precipitato. Non è dato sapere se anche alla base di queste due riforme ci fossero i guai giudiziari di Berlusconi. Fatto è che, come ricordato ieri a Cagliari dal pm romano Eugenio Albamonte, segretario generale di Area, nella relazione di apertura del terzo congresso nazionale della magistratura progressista, queste due riforme hanno stravolto la magistratura, favorendo le migliori condizioni per la cena dell’hotel Champagne dove si doveva scegliere il nuovo procuratore della Capitale. Albamonte ne ha ricostruito gli effetti micidiali. Fino al 2002, anno dell’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi, i magistrati venivano nominati a capo di una Procura o di un Tribunale per anzianità. Era sufficiente aspettare il proprio turno per essere nominati dal Csm. Non bisognava fare assolutamente nulla: il magistrato, infatti, doveva solo non avere “demeritato”. Con Castelli l’anzianità lasciò il campo al merito. Ma le conseguenze furono deleterie. La temporaneità degli incarichi mise in moto il “carrierismo sfrenato” dei magistrati che pur di prendere una nomina diventarono pronti a tutto. La dirigenza venne intesa come “privilegio”, con la creazione di carriere parallele di toghe che saltavano da un incarico all’altro, senza soluzione di continuità. Una casta nella casta. Le chat di Luca Palamara hanno messo plasticamente in luce le pressioni, le raccomandazioni, e le contro raccomandazioni per raggiungere l’agognato incarico. E qui si innesta l’altra riforma, varata nel 2006, del sistema elettorale del Csm. Tale riforma ha dato un potere senza precedenti alle correnti della magistratura che iniziarono dunque a scegliere i candidati per Palazzo dei Marescialli, supportando poi la loro elezione. Il collegio unico nazionale rese impossibile per un magistrato candidarsi senza l’aiuto del gruppo associativo. I togati eletti al Csm erano così in uno stato di sudditanza nei confronti dei capi delle correnti che avevano garantito la loro elezione. La forte concentrazione di potere determinò un rapporto strettissimo fra eletto ed il suo sponsor. Il Palamara di turno. Il clientelismo, con la logica di mutualità e scambio fu l’inevitabile punto di arrivo e riguardò tutti. Nessun gruppo associativo, ha ricordato Albamonte, può tirarsi fuori da questo sistema. Come uscirne? Albamonte non ha la soluzione in tasca. Ed ha rivolto un appello alla politica e al ministro della Giustizia Marta Cartabia. La nemesi: la magistratura che chiede aiuto alla tanta vituperata politica. «Il legislatore metta mano alle riforme prima delle elezioni per il rinnovo del Csm (previste per il prossimo anno, ndr): è in gioco la sua sorte. Un Csm eletto con l’attuale sistema sarebbe delegittimato fin dal primo giorno», ha puntualizzato Albamonte. È importante che il Csm «torni ad essere custode dell’autonomia e indipendenza» delle toghe, occupando il posto che la Costituzione gli ha assegnato. La Guardasigilli, nel suo indirizzo di saluto al congresso di Area, ha tranquillizzato Albamonte annunciando che nei prossimi mesi «sarà fatta la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario», ma “la fiducia” nei confronti delle toghe da parte del cittadino è stata logorata. Per questo, ha affermato la ministra «non confidiamo in un effetto taumaturgico delle riforme, che di certo servono, ma occorrerà un lavoro in cui ciascuno, goccia a goccia, porta il suo fardello». Se Albamonte ha chiesto aiuto alla politica, la ministra ha allora chiesto aiuto alle toghe: «Sarà decisivo anche il processo di autoriforma che è già in atto nella magistratura». I «fatti sconcertanti ci sono, ma – ha sottolineato ancora Cartabia – non devono distogliere lo sguardo dal lavoro di numerosi magistrati che operano nel loro quotidiano». Oggi il congresso prevede due appuntamenti importanti. Il primo dedicato proprio alle riforme alla rifondazione etica della magistratura con gli interventi di Giulia Bongiorno, del togato Giuseppe Cascini, del professore di diritto costituzionale dell’Università di Torino Enrico Grosso, della vice presidente del Senato Anna Rossomando, del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, e del sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Il secondo, invece, sulle ragioni del no delle toghe progressiste ai referendum sulla giustizia. Domani, infine, conclusione dei lavori. Paolo Comi
Giuseppe Legato per "La Stampa" il 16 settembre 2021. È un addio amaro. «Avevo più titoli io. Sono deluso da questo mondo e quindi vado via. A queste condizioni non ci sto». Da ieri Massimo Terzi, 65 anni, non è più il presidente del Tribunale di Torino, ma non è più neanche un togato. Si è dimesso da tutto, quindi anche dalla magistratura andando in pensione in anticipo di 5 anni rispetto alla reggenza che la sua età gli avrebbe consentito di ricoprire dentro il mondo della giustizia. Ha sbattuto la porta lasciandosi alle spalle un mondo per cui per decenni ha prestato servizio nei vari ruoli ricoperti, ultimo quello a capo dell'ufficio torinese. Il motivo è chiaro e noto anche se non se ne troverà traccia nella domanda inviata un mese fa - e ieri accolta - al plenum del Csm. Terzi si è sentito estraneo a un contesto che per decenni lo ha visto al lavoro. Tradito - a suo avviso - da meccanismi di merito e di riconoscimento di competenze che pure è convinto di aver dimostrato nel tempo di possedere. «Ho fatto 17 anni di ruoli direttivi e mi hanno preferito un altro che non aveva questi numeri. Cosa dovrei pensare?». La mancata nomina a presidente della Corte d'Appello di Milano è il punto finale di un disagio che in parte aveva confidato a pochissimi diventato ferma decisione dopo la bocciatura avvenuta a giugno. Per anzianità e per titoli appariva il candidato favorito per ottenere quell'incarico rimasto vacante dall'agosto 2020, ma il Consiglio superiore della magistratura gli aveva preferito Giuseppe Ondei. Pur senza attaccare mai il rivale, in privato, non aveva omesso di ricordare ad alcuni colleghi come «il tempo trascorso a dirigere uffici non potesse non essere tenuti in considerazione» nella scelta lasciando aperto più di un dubbio sul ruolo giocato dalle correnti togate. I tempi, i modi e le ragioni con cui è maturata questa scelta, propendono nettamente per rafforzare un personale interrogativo che riaprirà la ferita all'interno della magistratura dopo lo scandalo che ha travolto il Csm negli ultimi tempi. Ondei, 60 anni, già vicario della Corte d'appello di Milano, era il candidato "interno" a ricoprire quel ruolo dopo aver guidato una delle sezioni penali prima a Brescia (dove era stato anche presidente) e poi nella stessa Milano. Terzi invece era già alla guida del Tribunale di Torino dal 2015 e prima ancora aveva diretto l'ufficio giudiziario di Verbania distinguendosi per una riforma dei meccanismi del processo civile intrisi di lungaggini e di burocrazie. Fu pionieristica - rispetto ai tempi - la sua scelta di portare i processi del civile on line praticamente al 100% in tutte le sue fasi: dalla costituzione delle parti fino alla sentenza. L'idea fu estesa a Torino diventata presto un modello per molti altri uffici giudiziari. Nel capoluogo subalpino alla luce del rilevante arretrato che si ritrovò sulla scrivania fin dai tempi dell'insediamento, ha cercato di porre rimedio con una serie di misure tra le quali l'estensione delle udienze del penale anche al pomeriggio: il meccanismo non ha ancora raggiunto il suo massimo potenziale per via della crisi pandemica che ha rallentato tutti gli uffici italiani. Terzi credeva e sentiva di poter portare la sua esperienza negli uffici milanesi e di meritarlo per anzianità e titoli. Area e Unicost lo avevano votato (oltre a due laici), Magistratura Indipendente (a cui era stato vicino anni fa) e Autonomia e Indipendenza gli hanno preferito Ondei. "Sono stato tradito da un meccanismo che non premia esperienza e competenze» ha detto ai colleghi. A Torino, al momento, non ci sono commenti ufficiali alla vicenda, ma i dubbi di Terzi che hanno accompagnato la scelta di lasciare in anticipo la toga e l'incarico sono conosciuti e in larga parte rispettati. Si sa che dal prossimo primo ottobre, sarà Modestino Villani, stimato giudice, già presidente della sesta sezione penale, scelto da Terzi come vicario ad assumere la reggenza dell'ufficio anche sul settore civile. Ci vorrà poi un bando e i primi nomi si affacciano sulla corsa a uno scranno che nessuno pensava si liberasse cosi presto.
Dopo la sentenza ribollono le mailing list...Non solo Hotel Champagne, ecco tutti gli accordi tra le toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Luca Palamara, dunque, era il male assoluto della magistratura italiana, una sorta Belzebù in toga. I cinque consiglieri del Csm che gli fecero compagnia all’hotel Champagne la sera del 9 maggio del 2019, invece, erano solo dei piccoli demoni. A cui, però, bisognava mandare necessariamente un segnale per evitare che un domani qualcuno di loro potesse prendere il posto del principe delle tenebre. «Provo delusione e turbamento per una sentenza manifestamente esemplare, priva di sufficiente capacità di discernimento, che parla esclusivamente la lingua dell’accusa, tacendo su quella della difesa», è stato il commento del professore Mario Serio, avvocato di Paolo Criscuoli, condannato a nove mesi di sospensione dalle funzioni. Serio ha anche fatto notare la perfetta proporzione fra le richieste della Procura generale e le pene comminate dalla disciplinare: 25 per cento in meno per tutti. «Il mio rammarico è che questa sentenza ha stravolto irrimediabilmente la vita di una persona e della sua famiglia», ha poi aggiunto Serio. Cacciato Palamara e bastonati i cinque commensali, per la magistratura italiana dovrebbe essere iniziato un nuovo corso. Ovviamente non è così. A non crederci sono gli stessi magistrati. «Ma hanno fatto tutto da soli? Oppure agirono in rappresentanza di altrettanti gruppi di interesse?», si domanda un giudice sulla mailing list. «La facile risposta – prosegue – si trova nei 140 capitoli testimoniali formulati dalla difesa di Palamara, dove, illustrando un vero pezzo di storia della magistratura italiana, si parlava di un centinaio di nomine frutto di altrettanti accordi ‘extra moenia’, preconfezionati e poi semplicemente ratificati dal Csm». «Accordi non dissimili da quello dell’Hotel Champagne. Insomma e in breve, il “Sistema” che non ha ammesso quelle istanze di prova e che, per assolvere gattopardescamente se stesso, punisce i soli cinque», continua il magistrato, auspicando che tutti consiglieri del Csm, togati e laici, mostrino il contenuto dei «telefonini utilizzati negli ultimi cinque anni». A conferma che gli accordi spartitori ci sono sempre stati, e che l’incontro dell’hotel Champagne, dove si discusse del futuro procuratore di Roma, non è stata una eccezione, ecco arrivare un nuovo annullamento da parte del Consiglio di Stato di una nomina. Questa volta si è trattato del presidente della sezione penale del Tribunale di Rimini, incarico andato a Sonia Pasini nel plenum del 6 giugno 2018. I giudici amministrativi hanno accolto nei giorni scorsi il ricorso presentato da Fiorella Casadei. La nomina di Pasini è una delle nomine di cui parlarono Palamara e l’ex togato Gianluigi Morlini, presidente della Commissione per gli incarichi direttivi. Morlini, uno dei partecipanti all’incontro all’hotel Champagne, aveva scritto a Palamara di Pasini dicendo che era uno dei nomi da tenere “sotto controllo”. I due si erano poi complimentati a vicenda per le nomine di Lucia Russo, Silvia Corinaldesi, Marco Mescolini e appunto Pasini, magistrati legati alla corrente di Unicost, a capo di uffici dell’Emilia-Romagna. Un successo senza precedenti per la corrente di centro che aveva occupato un numero di posti senza precedenti. Pasini, poi, chattando con Palamara gli aveva chiesto di integrare la relazione al Plenum, indicando anche un ulteriore requisito che fino a quel momento non era stato adeguatamente valorizzato. Dopo il ricorso, il giudizio comparativo tra le due candidate era stato svolto dalla dal Csm l’8 febbraio scorso, proponendo la nomina di Casadei. Il Tar aveva sottolineato come la valutazione comparativa avesse “appiattito” il profilo di Casadei, «per ricordarne solo quelle esperienze» sulle quali poteva essere fatto un «giudizio comparativo diretto» con Pasini, «in tal modo incorrendo in evidente travisamento e difetto di istruttoria, e comunque nel difetto di motivazione». Era poi “pacifico”, per il Tar, che Casadei «abbia circa 10 anni di attività in più» nel settore penale rispetto alla collega. Salvo i casi finiti sotto la lente del tar, tutti i magistrati nominati con il sistema “Palamara” sono ancora al proprio posto. E ci rimarranno. Mandarli via significherebbe terremotare la metà degli uffici giudiziari del Paese. È meglio, allora, che paghi solo Palamara e i suoi cinque compagni di sventura dell’hotel Champagne. Paolo Comi
Grasso, ex presidente Anm: «Ora noi toghe abbiamo 6 capri espiatori: troppo comodo…». Parla il magistrato, attualmente giudice del Tribunale di Genova, al vertice dell’Associazione all’epoca del dopocena all’Hotel Champagne per il quale il Csm ha sospeso i 5 ex togati che vi parteciparono. «Sulle nostre mailing list c’era da anni la consapevolezza che il sistema del Csm sulle nomine fosse quello emerso con la vicenda del 2019». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. C’è un nodo da sciogliere che neppure la sentenza disciplinare del Csm rende meno intricato: come deve regolarsi, ora, la magistratura? Dopo la radiazione di Luca Palamara, e le “sospensioni differenziate” dei 5 ex togati riuniti con lui nel dopocena all’Hotel Champagne, di cosa si deve tener conto? Della verità processuale o di quella storica, che non dovrebbe ridursi a quel fatale happening? E se vale la prima delle due risposte, e cioè che i colpevoli di tutto sono Palamara più altri 5, quale accertamento va considerato? Il processo a carico dell’ex presidente Anm, giunto a sentenza definitiva dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la radiazione? Oppure la pronuncia arrivata ieri sera a Palazzo dei Marescialli, che ha punito Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Luigi Spina a 18 mesi di stop e Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli a una sospensione di 9 mesi? Non sono decisioni del tutto compatibili fra loro, come ricordato dal Dubbio già ieri. Perché la Suprema Corte, a Sezioni unite, ritiene che «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Quindi per vendetta e essenzialmente al di fuori di un disegno strategico intercorrentizio. Piazza Indipendenza, con la decisione assunta due giorni fa, è convinta invece che i 5 ex componenti dell’organo di autogoverno cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata. C’è un contrasto evidente. Al momento, neppure è confermato che gli ex consiglieri Csm sospesi impugneranno la condanna: tutti e 5, a quanto risulta, aspetteranno di leggere la sentenza prima di sbilanciarsi. E in teoria, finché non ci sarà un giudicato disciplinare, potrebbe finire congelata pure la valutazione storica Ma è impensabile, per la magistratura italiana, che si resti sospesi a quell’interrogativo: si può davvero archiviare la stagione della “correntocrazia”, come la definisce Giovanni Maria Flick, come una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece come una gravissima e distinta patologia? O si dovrebbe invece riconoscere che le esuberanze del cosiddetto re delle nomine furono in effetti un po’ eccessive, ma rappresentavano solo la punta dell’iceberg? Si deve ammettere o no, insomma, che il sacrificio di Palamara è una scorciatoia fuorviante e pericolosa? E che forse radiare l’epitome di una prassi consolidata è un po’ troppo comodo? Il giorno dopo la magistratura non fa sentire voci ufficiali. Non si nota una folla di vertici delle correnti che tentano di offrire una chiave. E forse è anche comprensibile. D’altra parte uno dei gruppi associativi più importanti, Area, andrà a congresso fra una decina di giorni e avrà modo di discuterne. Ma interpellata dal Dubbio, c’è una voce autorevole che offre una prospettiva persino rovesciata, sull’effetto della sentenza di ieri: Pasquale Grasso, presidente dell’Anm all’epoca dell’incontro all’Hotel Champagne, uscito da Magistratura indipendente per la durezza con cui invitò alle dimissioni i consiglieri del suo gruppo coinvolti, in rotta anche con Area e Unicost al punto da lasciare poi il vertice dell’Associazione, fino alla ricucitura con la corrente moderata. «Con la sentenza della sezione disciplinare non credo affatto si favorisca un riconoscimento storico più approfondito», dice subito Grasso, attualmente giudice presso il Tribunale di Genova. Quindi spiega: «Si prosegue nella traiettoria segnata con le sentenze su Palamara, si puniscono con inedita durezza i protagonisti di quel pur esecrabile singolo evento. Ma si rimuove così ancora una volta un’inevitabile realtà non accettata, e che mai lo sarà: era quella emersa nelle vicende del 2019, la normalità dei rapporti che intercorrevano al Csm». Grasso è stato al vertice dell’Associazione magistrati ma ha solo sfiorato l’attuale consiliatura, e comunque non ha mai fatto parte dell’organo di autogoverno. «Ciononostante, secondo la vox dei, c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list di noi magistrati: sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Certo, all’Hotel Champagne», nota Grasso, «si è arrivati forse allo zenit, per la presenza di un soggetto indagato dall’ufficio sulla cui dirigenza si discuteva nell’incontro (Luca Lotti, deputato allora del Pd, che era al dopocena insieme con Cosimo Ferri, pure lui in quel momento parlamentare dem, ndr). Ma non è che quella specificità segni anche un’estraneità dell’episodio rispetto al contesto generale». Insomma, rischiamo semplicemente di avere non uno, cioè Palamara, ma 6 capri espiatori, con la condanna degli ex togati arrivata ieri sera? «È esattamente così. Eppure non vedo come si possa ridurre la questione delle nomine e dei rapporti fra le correnti a quell’episodio. Oltretutto», aggiunge Grasso, tuttora fra i leader della magistratura moderata, «a me sembra che non vi sia stata neppure un’efficace gradazione delle sanzioni rispetto alle condotte dei singoli: le condanne sono tutte fortissime, senza precedenti. Soddisfano le esigenze di sangue, non di conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni». E rispetto all’impressione che si ricava dalla lettura della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la radiazione di Palamara, quella di un uomo solo al comando dei misfatti, Grasso ha un’ultima chiosa: «Vorrei sia ripetuto tre volte: non ho letto, non ho voluto leggere la sentenza delle Sezioni unite, ma se davvero ne risultasse un artefice unico degli accordi sulle nomine, si tratterebbe di una prospettazione poco condivisibile. Palamara non può aver inventato e alimentato il sistema da solo. È una lettura molto consolatoria, quella della singola mela marcia. O delle 5 o 6 che, una volta condannate, dovrebbero soddisfare l’esigenza di verità e soprattutto di purezza del sistema».
Scandalo procure: sospesi 5 ex togati. Federico Garau il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Arriva la decisione della sezione disciplinare del Csm per le toghe coinvolte nel caso Palamara: un anno e sei mesi di sospensione per Lepre, Morlini e Spina, 9 mesi per Cartoni e Criscuoli. Dopo ben nove ore di camera di consiglio, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha deciso di sospendere dalle funzioni i cinque ex magistrati Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni, tutti rimasti coinvolti nel caso Palamara. È stata dunque accolta la sanzione richiesta dalla Procura generale, in particolare si parla di uno stop di un anno e sei mesi per Lepre, Morlini e Spina, mentre Cartoni e Criscuoli dovranno invece rispettare una sospensione di nove mesi. Si tratta di un provvedimento comunque inferiore rispetto a quanto effettivamente richiesto dalla Procura, che nella requisitoria di luglio aveva inizialmente proposto 2 anni per Lepre, Morlini e Spina, ed un anno per Cartoni e Criscuoli.
Le accuse. Le cinque toghe sono finite al centro di un'inchiesta dopo lo scoppio del caso che ha visto coinvolto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, accusato di corruzione in atti giudiziari. Il caso ha provocato grande imbarazzo in tutta la magistratura.
Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni avevano preso parte ad una riunione notturna tenutasi tra l'8 e il 9 maggio del 2019 presso l'hotel Champagne di Roma. Un incontro al quale avevano naturalmente partecipato lo stesso Luca Palamara ed i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. In quella circostanza furono stretti accordi, e si parlò anche della successione di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma. Nella sua requisitoria la Procura aveva mosso nei confronti dei cinque ex togati le accuse di"comportamento gravemente scorretto, in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio" nei confronti degli altri colleghi magistrati e consiglieri del Csm, oltre che di violazione del dovere di riservatezza sull'iter delle nomine. Nel giugno del 2019, scoppiato lo scandalo relativo alle intercettazioni che hanno visto come protagonista Luca Palamara, i cinque magistrati si erano dimessi.
Il verdetto. Oggi la decisione della sezione disciplinare del Csm. Dopo nove ore di camera di consiglio, è arrivato il verdetto nei confronti dei cinque ex magistrati, che potranno in ogni caso presentare ricorso alle sezioni unite civili della Cassazione.
All'udienza di questa mattina hanno partecipato Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni. Assente, invece, Luigi Spina, mentre Paolo Criscuoli era collegato in videoconferenza.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dov
La sentenza dopo 10 ore di Camera di Consiglio. Palamaragate, il Csm condanna 5 ex togati: sospesi per la cena all’Hotel Champagne. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Procure nel caos, magistratura nella bufera: e il Palamaragate non finisce mai. È arrivata nella serata di oggi la sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che, al termine di una lunga camera di consiglio, di circa 10 ore ha condannato alla sospensione dalle funzione cinque ex togati. Si tratta di Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni. Il procedimento riguardava la riunione del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne a Roma, alla quale avevano partecipato Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e membro del Csm, lo “zar delle nomine”, radiato nel 2020 dal Consiglio a seguito di un indagine sul sistema nelle correnti della magistratura. Alla riunione anche i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. La Procura Generale della Cassazione aveva chiesto il massimo della sospensione, due anni e un anno a seconda. I legali il proscioglimento degli assistiti. Il “tribunale delle toghe” ha sanzionato Lepre, Morlini e Spina – all’epoca rispettivamente capogruppo di Unicost, presidente della Commissione sugli Incarichi direttivi e relatore della nomina sul procuratore di Roma – con la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per un anno e 6 mesi. Per Cartoni e Criscuoli ha invece disposto la sospensione per nove mesi. Verrà corrisposto un assegno alimentare. Contro il verdetto emesso dalla disciplinare i 5 ex togati potranno presentare ricorso davanti alle sezioni unite civili della Cassazione. La sospensione, per gravità, è la seconda sanzione dopo la rimozione dall’ordine giudiziario, inflitta quasi un anno fa a Palamara, che quindi paga più di tutti. “Non ha partecipato ad accordi – ha riferito l’avvocato Mario Serio, difensore di Criscuoli – non ha tradito la propria funzione e nulla prova che facesse parte di una conventicola che trattava affari riservati. Si è trovato nel vortice delle ambizioni incontrollate di due potenti esponenti della magistratura associata, quelle di Palamara e Ferri”. Secondo il legale l’ex togato fu “accalappiato” da Ferri con un “invito strumentale” a cena e che la partecipazione di Criscuoli – che ha emesso la sentenza del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996 da alcuni esponenti di Cosa Nostra come atto intimidatorio nei confronti del padre collaboratore di giustizia – all’incontro fu “silente e inattiva”. Spina ha invece negato di aver fatto il “doppio gioco” a sostegno del Procuratore Generale di Firenze Marcello Viola con i colleghi di Unicost, di cui era capogruppo, e con i quali aveva concordato l’appoggio al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. E ha negato qualsiasi “programma comune” con Palamara, definendosi piuttosto un “ostacolo” per la sua fermezza nel supportare Creazzo. I cinque ex togati secondo la sentenza avrebbero preso parte a quella riunione all’Hotel Champagne. All’epoca Palamara era già stato messo sotto controllo dal trojan. All’albergo in via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, usato spesso come appoggio dai magistrati non romani, l’incontro con Lotti e Ferri. Al centro di quel vertice da “risiko delle nomine” la Procura di Roma: la poltrona contesa era quella del Procuratore Capo Giuseppe Pignatone. Nonostante quel gruppo avrebbe sostenuto il Pg di Firenze Marcello Viola, quella poltrona sarebbe diventata di Michele Prestipino – il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare con la quale proprio Prestipino aveva chiesto la sospensione della sentenza che ha sancito l’illegittimità della sua nomina a procuratore di Roma; il Consiglio ha anche accolto il ricorso di due dei candidati esclusi, il Pg di Firenze Viola (sul quale puntavano a sua insaputa in quella riunione Lotti e Palamara in nome della “discontinuità” con Giuseppe Pignatone) e il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Del caos su Roma il Csm tornerà a occuparsi la prossima settimana. Tre settimane dopo quell’incontro la Procura di Perugia, competente per i magistrati in servizio a Roma, consegnava un avviso di garanzia per corruzione a Palamara. Era l’inizio del Palamaragate, Magistratopoli, il “Sistema” della magistratura, più grande di certo di Palamara (che lo scorso luglio è stato intanto rinviato a giudizio per corruzione).
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il “Sistema” esiste: per il Csm Palamara non ha agito da solo. Sospesi gli ex togati che presero parte insieme all’ex capo dell’Anm alla cena all’Hotel Champagne, dove si discusse della nomina del procuratore di Roma alla presenza dei parlamentari Lotti e Ferri. Simona Musco su Il Dubbio il 15 settembre 2021. Il Sistema esiste. A stabilirlo, ieri sera, è stata la sezione disciplinare del Csm, che dopo una camera di consiglio durata 10 ore ha dichiarato responsabili degli addebiti mossi dalla procura generale gli ex togati che hanno preso parte alla cena all’hotel Champagne a Roma, assieme all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, cena durante la quale si discusse di alcune nomine, tra le quali quella alla procura di Roma. Per Lepre, Morlini e Spina la sezione disciplinare ha disposto la sospensione dalle funzioni per un anno e mezzo, contro i due chiesti dall’accusa, mentre per Cartoni e Criscuoli l’arrivederci alla toga durerà soltanto nove mesi, a fronte dell’anno preteso dalla procura generale. Le incolpazioni mosse nei loro confronti riguardavano il «comportamento gravemente scorretto» tenuto, «in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio», nei confronti degli altri consiglieri del Csm e dei magistrati che si erano candidati alla nomina di capo della procura della Capitale, nonché la violazione del «dovere di riservatezza» sull’iter della pratica relativa a tale nomina. Questo procedimento disciplinare si era aperto poco più di un anno fa: i cinque si erano dimessi dall’incarico a Palazzo dei Marescialli nel giugno 2019, dopo le intercettazioni, captate dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara ed emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia, delle conversazioni avvenute all’hotel Champagne. Una decisione importante, quella presa ieri, che arriva dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Palamara che per la Corte di Cassazione, però, avrebbe agito da solo e per vendetta. Una versione diversa da quella sostenuta dal sostituto procuratore generale Simone Perelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, che hanno invece indicato presunti ruoli e responsabilità di ognuno in quello che è passato alla storia come il mercato delle nomine. Spina, aveva affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, sarebbe stato infatti «il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare – ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Sarebbe stato, dunque, «la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare», mentre Morlini e Lepre – all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo – «ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave – ha detto Gaeta – la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne». Come si concilia questa versione con quella data dal Palazzaccio? Per i giudici di piazza Cavour, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Una sorta di vendetta personale, dunque, che escluderebbe l’esistenza di un metodo e di altri partecipanti e che renderebbe l’ex consigliere del Csm una mela marcia. Ma è stato lo stesso Palamara a spiegare che invece non avrebbe agito affatto a titolo personale: «Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto», aveva dichiarato al Dubbio. Anche se le persone coinvolte, stando ai sottintesi e ai continui inviti dell’ex capo dell’Anm ai colleghi che hanno «beneficiato» di quelle cene a raccontare quanto sanno, sembrano essere molte di più di quelle finite sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la famosa cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri, all’epoca anche lui del Pd. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito. Quella conversazione, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. E in quella sede a discutere di questi temi, secondo l’accusa, c’erano anche i magistrati finiti davanti al banco degli imputati di Palazzo dei Marescialli. Per questo la loro posizione non è affatto secondaria. Nel corso del procedimento i cinque hanno voluto fornire una versione diversa della vicenda: tra i primi a parlare proprio il presunto braccio destro di Palamara, Spina, che rilasciando dichiarazioni spontanee ha rivendicato la sua fedeltà a Unicost (di cui all’epoca era capogruppo), decisa a sostenere la candidatura di Giuseppe Creazzo. «Quello che si decideva era sacro e lo rispettavamo – ha dichiarato -. Conoscevo Palamara, ma non facevo parte del suo mondo, non avevo mai partecipato a incontri, non avevo un programma comune con lui e semmai io per quel programma sono stato un ostacolo», ha sottolineato Spina. «Ho sempre detto chiaramente che non avrei lasciato l’appoggio a Creazzo, non ho mai avuto nessuna volontà di danneggiarlo né di provare a fargli ritirare la candidatura. Avevo espresso fastidio per l’invadenza di Palamara – ha aggiunto -, doveva avere rispetto per le decisioni del gruppo, tanto che da altre intercettazioni emerge la sua volontà di cercare strade alternative, perché con Spina “non c’è stato verso”, aveva detto». Per il suo difensore, Donatello Cimadomo, l’accusa nei confronti di Spina sarebbe indeterminata e contraddittoria. «L’unica cosa che si può imputare a Spina è di essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato – ha detto – se il problema è che non si è alzato e non è andato via al massimo si può applicare la sanzione della censura per comportamento inopportuno ma non certo una sanzione per avere tradito le sue funzioni istituzionali». Prima che i membri della sezione disciplinare si riunissero, a prendere la parola ieri è stato Lepre, che ha parlato di una «vicenda dolorosa che rappresenta un travaglio e una sofferenza devastanti» e ha ricordato di non essere stato a conoscenza della riunione, «di non conoscerne oggetto e partecipanti» ma di essere stato «colto alla sprovvista» rientrando dopo cena con la moglie in albergo, lo stesso dove si è tenuto l’incontro, e vedendo i colleghi in una saletta attigua alla hall «di non essere stato invitato, di essere rimasto il tempo necessario per non apparire scortese e di essere andato via per primo». Quanto ai candidati per la procura di Roma, riferendosi al sostegno a Viola di cui si era discusso quella sera, «personalmente, in virtù degli oggettivi e robusti titoli di Viola, confidavo in quell’ampia maggioranza che effettivamente si concretizzò poi in commissione», ha sottolineato. A difendere Criscuoli è stato il professor Mario Serio, secondo cui l’ex consigliere sarebbe stato «attratto in un vortice nel quale era completamente estraneo», quello delle «ambizioni incontrollate di Palamara e Ferri», e «del quale non poteva preventivamente controllare le modalità di svolgimento» e quindi «non poteva respingere il pericolo». Inoltre «il silenzio continuamente serbato» nel corso della riunione attesta che «capacità offensiva della sua condotta è del tutto insignificante e non meritevole di sanzione». Per Cartoni l’avvocato Carlo Arnulfo ha chiesto il proscioglimento: non avrebbe commesso «nessuna grave scorrettezza», l’unica pecca è «la presenza impropria all’hotel Champagne. Poteva andare via quando si iniziava a parlare di nomine», ha detto. «La riunione non l’aveva programmata, poteva solo interromperla. Ma poi nella pratica è difficile pensare che una persona si alzi e se ne vada. Ha ascoltato le conversazioni ma non era partecipe del piano» relativo alla nomina del capo della procura di Roma. Morlini, invece, ha rivendicato la sua autonomia: «Tutte le decisioni sulla nomina del procuratore di Roma, come sulle altre nomine, le ho prese io. Non c’è stata nessuna eterodirezione, né suggerimenti. E non c’è stato nessun doppio gioco o bluff», ha affermato. Per il suo difensore, Vittorio Manes, Morlini «non ha partecipato né come burattinaio né come burattino al risiko delle nomine». L’«insussistenza delle incolpazioni» è stata evidenziata anche da Domenico Airoma, difensore di Lepre, che, ha ricordato, «non ha partecipato ad alcuna attività preparatoria della riunione e alla stessa ha partecipato per una ventina di minuti. Per il suo comportamento scorretto Lepre ha già pagato con le dimissioni, ma la responsabilità disciplinare deve rispondere ad altri parametri, guai a trasferire sul piano disciplinare valutazioni di carattere etico. Questo sarebbe travolgere ogni garanzia». Ora per conoscere le ragioni della decisione bisognerà attendere 90 giorni.
Il procuratore Cantone: «Il magistrato corrotto è un traditore». Cantone, capo della procura di Perugia, ritiene che la magistratura abbia perso i valori etici ed esprime note critiche anche sulla riforma della giustizia. Il Dubbio il 24 agosto 2021. In un’intervista rilasciata a “Nazione Toscana”, il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, torna a parlare dei guai delle toghe italiane, dovendosi occupare nel suo distretto, tra le altre cose, del caso Palamara. «La corruzione in magistratura è un reato gravissimo: il magistrato che si fa corrompere dovrebbe essere giudicato per tradimento, perché il danno per l’istituzione giudiziaria è inestimabile. Noi dobbiamo chiedere con forza che nella categoria ci sia un livello molto alto di etica. Se vuoi fare il magistrato non puoi fare la stessa vita del cittadino comune e nei rapporti personali devi avere attenzione. E poi si, siamo ben pagati e abbiamo tantissimi privilegi che hanno senso se la nostra è una scelta di rigore» aggiunge il capo dei pm di Perugia.
Cantone e il sistema giudiziario. Cantone, quindi, si dice molto preoccupato sul rapporto incrinatosi tra la magistratura e il mondo sociale. «Ci sono segnali di grande sfiducia. lo sono molto preoccupato, a Perugia che è una procura di importanza strategica per la competenza su Roma, mai avrei immaginato un flusso tale di esposti quotidiani nei confronti dei magistrati romani». Poi critica il sistema giudiziario. «funziona malissimo. lo non augurerei al mio peggior nemico di essere parte civile in un processo: significherebbe non avere giustizia. Ma nemmeno a un indagato, se innocente. Il tempo del processo diventa così, esso stesso, una pena».
Le critiche alla riforma Cartabia. Sulla riforma Cartabia, invece, si esprime così. «lo credo che opporsi alle riforme in materia di giustizia sia sbagliato pensando di dire “va tutto bene”. Ma l’attuale previsione non risolve il problema e il paradosso è che potrebbe allungare i tempi delle sentenze di primo grado che sono già fuori controllo. Se la concussione può arrivare a prescriversi in 14 anni significa che per la sentenza di primo grado posso impiegarci il massimo visto che non c’è alcuna previsione sui tempi del primo grado. Solo dopo, scatta la questione dell’improcedibilità in Appello e Cassazione». «Questo disegno di legge potrebbe far sì che ci si preoccupi meno dei tempi del primo grado: se ci hai messo un giorno o 10 anni diventa uguale». E conclude: «lo credo che questa riforma sia stata pensata molto male». Infine, la parte che riguarda l’udienza preliminare. «Sono assolutamente favorevole, come a tutti i procedimenti speciali e all’introduzione della causa di esclusione per la particolare tenuità del fatto: la giustizia penale non può essere mobilitata per tutto. Dobbiamo avere il coraggio di andare a dibattimento per le questioni che meritano e che siamo sicuri si chiuderanno con una condanna».
"La magistratura è al punto più basso: il sistema Palamara non è stato toccato". Stefano Zurlo il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Il pm candidato sindaco del centrodestra a Napoli: le correnti decidono ancora tutto e il Tar del Lazio ha appena annullato due nomine. Non gira intorno al tema: «Siamo al punto più basso nella storia della magistratura. Catello Maresca è il candidato sindaco del centrodestra a Napoli ma parla da magistrato: pm di lungo corso, è stato per più di dieci anni impegnato nella lotta alla camorra e ai casalesi. Ora osserva con preoccupazione l'interminabile sequenza di scandali che sconvolgono il potere giudiziario: «Spero che la magistratura superi al più presto questa crisi di credibilità senza precedenti».
Intanto i giornali sono pieni di titoli e storie non proprio edificanti. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Il caso Palamara?
«Ha fatto emergere un sistema noto da tempo. Le promozioni nei ruoli apicali sono decise dalle correnti: questi meccanismi opachi devono essere spazzati via. Non è possibile andare avanti così, con gli sconfitti che si rivolgono spesso al Tar, spingendo i giudici amministrativi ad annullare le scelte del Csm».
Qualcosa sta cambiando?
«Per ora direi di no. Il Tar del Lazio ha appena annullato la nomina di due procuratori aggiunti a Napoli e l'ha fatto con motivazioni dure».
Sono in arrivo le riforme della Cartabia.
«Ben vengano, ma non bastano: io ho firmato per i due referendum sul Csm e quello sulla separazione delle carriere».
Ma in questo modo non si affossa il lavoro del Parlamento?
«Al contrario. Io credo che la spinta dal basso sia utile per smuovere i parlamentari. Sono anni e anni che siamo impantanati sulle riforme della giustizia. E poi, per dirla tutta, i quesiti referendari toccano questioni che la Cartabia nemmeno sfiora».
Ora si litiga sulla prescrizione.
«Quando son stato sentito in Commissione giustizia alla Camera mi sono scagliato contro la riforma Bonafede».
Perché?
«Perché non si può tenere un imputato sotto processo a vita».
Adesso è soddisfatto dalla mediazione sull'improcedibilità dei procedimenti che sforano i tempi?
«Mi lasci dire che è una soluzione non proprio convincente e poco chiara. Per esempio che succede sul pianeta civilistico?».
Allora hanno ragione i 5 Stelle?
«Ha ragione il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho: i processi contro i mafiosi devono essere salvaguardati».
Il ministro della Giustizia ha replicato che non c'è alcun pericolo di non arrivare a sentenza.
«Una soluzione tecnica si può trovare: io sono per il doppio binario. Ci possono essere regole diverse a seconda del nemico che lo Stato si trova a combattere. Glielo dico da magistrato e da professore, visto che insegno Diritto e Legislazione antimafia alla Vanvitelli».
Altra questione: ha fatto bene il pm Paolo Storari a dare i verbali dell'avvocato Amara a Davigo?
«È un'altra pagina sconcertante: io non avrei fatto così e anche il comportamento di Davigo non mi pare, per quel che leggo sui giornali, in linea con le norme stabilite».
Lei come si sarebbe mosso?
«Io come chiunque altro: si deve procedere per via gerarchica e ufficiale. Prima scrivi al procuratore, poi se non hai risposta ti rivolgi al procuratore generale, infine bussi al consiglio di presidenza del Csm. Non è che alla spicciolata fai vedere verbali, che non possono essere divulgati, a un consigliere che a sua volta li mostra ad altri».
Lei intanto prova a diventare sindaco della sua città.
«A Napoli manca un progetto d'insieme da almeno trent'anni. È ora di cambiare».
Ma lei era stufo di fare il pm?
«La mia carriera andava benissimo. Pm, poi pm all'Aantimafia sulla prima linea della Terra dei fuochi, infine alla procura generale».
Adesso?
«Sono in aspettativa non retribuita. Mi mantiene mia moglie».
Un magistrato che apre le porte girevoli ed entra in politica. Non è un controsenso?
«Io ho messo in gioco la mia carriera e i miei affetti. Se mai dovessi tornare, andrò lontano dalla mia città. E poi per me questa è la prosecuzione di un impegno di lunga data: con l'associazione Arti e mestieri abbiamo aiutato tanti ragazzi in difficoltà; ho sempre avuto una grande passione civile e ora è arrivato il momento di metterla al servizio della città. Anche se la toga rimane la mia seconda pelle». Stefano Zurlo
Corruzione nei fallimenti: chiuse le indagini per il giudice Rana. Chiuse le indagini anche per altri dieci professionisti indagati. Da quotidianodellumbria.it il 13 Novembre 2020. La Procura di Firenze ha decretato la chiusura delle indagini per il Giudice Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del tribunale di Perugia, indagato per corruzione, falso e abuso di ufficio. Il magistrato, molto conosciuto a Perugia per aver salvato nel 2017 la vita ad una collega Francesca Altrui, aggredita in tribunale da un imprenditore destinatario di un'esecuzione immobiliare, è stato accusato di aver ricevuto, tra il 2018 e il 2019, diverse agevolazioni, come favori personali o buoni acquisto, in cambio di consulenze ad amici e conoscenti. La difesa del Giudice Rana, affidata all'avvocato fiorentino Francesco Maresca, ha definito le accuse “fumose” dal momento che le ipotesi appaiono come “vaghe e il falso si basa non su fatti ma su valutazioni”. Oltre al giudice sono state chiuse le indagini anche per altri 10 indagati di varie professionalità, ai quali sono stati contestati reati a vario titolo che vanno dalla corruzione, per alcuni, fino all’abuso e al falso per altri.
LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI E IL CASO DUCHINI. L’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze sui presunti illeciti da parte del Tribunale fallimentare di Perugia sarebbe partita da un'altra inchiesta, quella relativa al caso Duchini, secondo cui l'ex procuratore aggiunto avrebbe rivelato notizie sottoposte a segreto istruttorio durante le indagini sul procedimento penale riguardante Franco e Giuseppe Colaiacovo, nel periodo a cavallo tra il 2016 e il 2017. A carico del giudice Rana, è stato infatti ipotizzato il reato di abuso d’ufficio in merito alla vicenda del caso Colaiacovo, in cui sono coinvolti anche Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri (professionisti incaricati da Giuseppe Colaiacovo di presentare il ricorso per l'ammissione al concordato), e Andrea Nasini: il giudice li avrebbe suggeriti infatti all'imprenditore al fine di garantire il buon esito del suo procedimento. Secondo la ricostruzione da parte della Procura di Firenze (procuratore Luca Turco e sostituto Leopoldo De Gregorio), il giudice Rana avrebbe fornito “un ingiusto vantaggio patrimoniale permettendo a Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri di prospettare all'imprenditore l'accoglimento del ricorso solo nel caso egli avesse incaricato alcuni professionisti”, che avrebbero quindi indotto Colaiacovo “a rinunciare ai suoi abituali professionisti”.
Luca Fazzo per ilGiornale.it il 27 giugno 2021. È possibile che un pedone venga investito mentre cerca di salire sulla sua vettura, e l'investitore se la cavi senza conseguenze? Che a quest'ultimo non venga fatto l'alcol test, che ormai è la prassi anche negli investimenti senza vittime? Che un infortunio devastante, una gamba frantumata in più punti, venga definito «di lieve entità» nei rapporti della polizia locale, e che il pm incaricato del fascicolo chiuda a tempo di record l'indagine senza fare alcuna inchiesta e chiedendo il proscioglimento dell'automobilista? E, soprattutto, questo trattamento ha qualcosa a che fare con il fatto che anche l'investitore sia un pubblico ministero? Sono queste le domande che si fanno i difensori di Lorenc, un fattorino delle consegne, uno delle migliaia lavoratori della logistica. Lorenc è fuori servizio da quasi dieci mesi per l'incidente del 2 ottobre scorso a Busto Arsizio, vicino Varese. Per questi mesi di inattività non vedrà un euro, a meno che il ricorso dei suoi legali non venga accolto dal giudice sul cui tavolo è arrivata la richiesta di archiviazione firmata il 22 febbraio dalla Procura di Brescia, competente a indagare sui reati dei colleghi del distretto di Milano. Il 2 ottobre a Busto pioveva molto. Intorno alle 13 Lorenc arriva in via General Cantore, consegna una busta, fa per risalire sul furgone. Passa una piccola Toyota che anche se la strada è larga viaggia rasente al furgone: quando Lorenc sbuca per tornare a bordo viene centrato. Quello che i vigili verbalizzeranno come un «urto di lieve entità» gli manda in frantumi lo stinco, il referto parla di «frattura scomposta del piatto tibiale», le foto successive all'operazione sono pulp. Lui viene portato in ospedale, quando arrivano i vigili si trovano davanti la conducente della Toyota, una giovane donna che dirà di non avere neanche visto l'uomo: «All'altezza della parte anteriore del furgoncino sentivo un gran botto». Solo a quel punto si ferma e vede Lorenc barcollante per il dolore. La donna non è una cittadina qualunque: è un pubblico ministero in servizio presso la Procura di Busto. Non si sa se è lei a presentarsi come tale o se sono i vigili a riconoscerla, sta di fatto che già nel primo verbale viene identificata come «magistrato». Gli agenti raccolgono la sua versione dei fatti e lì si fermano. Non interrogano altri testimoni, che pure sono presenti. Non le chiedono perché, in una strada larga quasi sette metri, viaggiasse rasente alle auto in sosta. Le risparmiano l'onta dell'etilometro. E mandano in Procura il rapporto che dà la colpa di tutto al ferito: era lui, dicono, ad avere posteggiato in divieto di sosta. Così impara, potrebbero aggiungere. Il procuratore di Busto, quando arriva il fascicolo che riguarda la sua sostituta, lo trasmette per competenza alla Procura di Brescia. Qui la pm bustocca viene indagata per lesioni personali gravi e già il 22 febbraio viene proposta per l'archiviazione, «deve escludersi qualsivoglia profilo colposo nella condotta dell'indagata». E alla richiesta di trovare un accordo per un indennizzo, la pm risponde ai legali dell'investito: neanche per sogno.
Giustizia, il giudice Valea trasferito da Catanzaro a Milano: il suo nome in alcune inchieste giudiziarie. u Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2021. Il Consiglio superiore della Magistratura ha disposto il trasferimento a Milano di Giuseppe Valea, presidente del Tribunale del Riesame di Catanzaro. Il giudice Valea aveva chiesto il trasferimento in prevenzione per l’avvio di un procedimento per incompatibilità. Il suo nome, infatti, era finito in alcuni fascicoli giudiziari rispetto a ipotesi di procedimenti che sarebbero stati aggiustati. Sulle vicende, al momento, non ci sono però sviluppi concreti. Nel procedimento nato dopo la richiesta di trasferimento, la prima commissione aveva espresso parere favorevole al trasferimento del giudice Valea in una sede che garantisse “discontinuità netta dall’attività giudiziaria della sede di provenienza”, escludendo quindi l’ipotesi di Messina che era stata indicata dallo stesso giudice. Subito dopo la terza commissione ha rilevato che il punteggio del concorso virtuale avrebbe consentito l’attribuzione del punteggio utile per l’assegnazione al tribunale di Milano in una delle funzioni per le quali, pur avendo pubblicato l’avviso, non sono pervenute domande. Conferma che è arrivata oggi.
Da "il Giornale" il 22 giugno 2021. Non si sono mai amati, in realtà. Ma la guerra è scoppiata dopo la pubblicazione del libro «Il Sistema» di Palamara, scritto con Alessandro Sallusti. Le frasi contro Ielo sono state ritenute così offensive che il pm ha querelato Palamara. Non è stata l'unica s'intende. La notizia è, però, che Ielo ha ritirato la querela. Non è proprio pace ma almeno non si faranno la guerra davanti a un giudice. Il motivo? Palamara ha chiesto pubblicamente scusa a Ielo per alcune parole che dovevano rimanere riservate e invece sono finite su tutti i giornali. L' ex capo dell' Anm ha riconosciuto la correttezza professionale e il valore della nomina del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, parte civile nel procedimento. In una nota afferma: «Palamara come già dichiarato in sede di interrogatorio a Padova, non ha mai voluto mettere in discussione la professionalità di Ielo che da sempre stima come magistrato capace e di alta professionalità»
Tra Palamara e Ielo pace fatta: il pm romano ritira la querela. L’ex presidente dell’Anm “corregge” in aula alcuni passaggi del suo libro. Il procuratore aggiunto di Roma revoca la costituzione di parte civile nel processo contro Fava. Simona Musco su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Luca Palamara e Paolo Ielo fanno “pace”. La riconciliazione è avvenuta ieri, a Perugia, dove l’ex presidente dell’Anm ha “rettificato” il contenuto del suo libro, “Il Sistema”, ottenendo la revoca della costituzione di parte civile da parte del procuratore aggiunto di Roma. In aula, nel corso dell’udienza preliminare del processo che lo vede imputato assieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, Palamara ha depositato un documento, spiegando di non aver «mai voluto mettere in discussione la professionalità di Paolo Ielo» che, ha spiegato, n «da sempre stima come magistrato capace e di alta professionalità anche con riferimento alla vicenda Consip». Il riferimento è, dunque, a quanto contenuto nel suo libro, in relazione alla nomina di Ielo a procuratore aggiunto a Roma. «Riguardo all’incontro avvenuto a piazzale Clodio, nessuna richiesta è pervenuta da Ielo, al contrario Palamara in quella circostanza ha fatto riferimento alla possibilità che Ielo concorresse come procuratore aggiunto per la procura di Firenze, con un invito a meglio sviluppare la propria carriera al di fuori di Roma. Consiglio dettato dalla necessità per Palamara di tener presente le logiche di corrente cui Ielo era estraneo e non dalla messa in discussione dei titoli indiscutibilmente vantati da quest’ultimo tanto è vero che al Csm si è speso nel sul gruppo di appartenenza per la sua nomina», si legge ancora. «Anche per quanto riguarda la cena, che nei ricordi di Palamara, è avvenuta prima della nomina di Ielo si intende precisare che il racconto descritto nel libro è riferito al rapporto intercorrente tra Palamara e Pignatone, con il quale in plurime occasioni era stato affrontato il tema degli aggiunti a Roma e della migliore organizzazione dell’ufficio. In questi casi non era presente Ielo», precisa Palamara. Inoltre, per quanto riguarda il procedimento penale che vede imputato Palamara per rivelazione del segreto d’ufficio, «dopo attenta lettura degli atti del procedimento – si legge nel documento depositato dall’ex consigliere del Csm – precisa di essere stato male informato in relazione alla doverosa trasmissione degli atti da parte di Ielo nella sua qualità di procuratore aggiunto alla procura di Perugia nonché in merito alla gestione del fascicolo di indagine da parte del medesimo procuratore aggiunto e alla precedente astensione di Ielo e alla corretta cronologia degli incarichi ricevuti dall’avvocato Ielo». «Tali circostanze unitamente allo stress emozionale della sottoposizione a procedimento penale presso la procura di Perugia – prosegue il documento hanno portato Palamara ad esprimere sul conto di Ielo espressioni verbali profondamente sbagliate e che peraltro stridono con la correttezza dei rapporti che all’interno della procura di Roma ha da sempre caratterizzato le relazioni tra i due». Palamara si è anche impegnato a introdurre queste precisazioni nella prossima edizione del libro ’ Il Sistema”. Ielo ha anche manifestato l’intenzione di rimettere la querela presentata per diffamazione nei mesi scorsi a Padova in relazione ad alcuni passaggi riportati nel libro.
Il gip si pronuncerà il prossimo 23 giugno. La nomina di Ielo “l’ha voluta Pignatone”, la rivelazione di Palamara e la faida per bruciare le carriere. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Giugno 2021. La nomina di Paolo Ielo a procuratore aggiunto a Roma? Ha fatto tutto il procuratore Giuseppe Pignatone, Ielo non ha mai in alcun modo condizionato la decisione di Luca Palamara. Sarebbe questa una delle precisazioni alla base dell’accordo sottoscritto fra l’ex zar delle nomine e Ielo affinché quest’ultimo ritirasse la costituzione di parte civile a Perugia. Ielo si era costituito nei giorni scorsi nel processo a carico di Palamara e dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava in corso nel capoluogo umbro per rivelazione del segreto d’ufficio. I due magistrati, secondo l’accusa, avrebbero posto in essere una campagna denigratoria per screditare sia Ielo che Pignatone. In particolare, Palamara avrebbe istigato Fava a presentare un esposto al Consiglio superiore della magistratura dove si evidenziavano delle mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in alcuni procedimenti penali. Lo scopo sarebbe stato quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti: Ielo, poi, doveva essere colpito in quanto l’anno prima aveva trasmesso proprio a Perugia una nota in cui erano indicati i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Da quella nota era scaturito il procedimento penale per corruzione che aveva stoppato la corsa di Palamara a procuratore aggiunto a Roma. Tolta la costituzione nei confronti di Palamara, rimane in piedi quella nei confronti di Fava. Alla scorsa udienza era stata respinta quella presentata da Piero Amara: 500mila euro era stata la cifra richiesta dall’ideatore del Sistema Siracusa per essere risarcito dell’ingente “danno morale che ha causato sofferenza interiore” provocato dal comportamento di Fava e Palamara. Durante l’udienza di ieri Fava si è sottoposto all’interrogatorio del pm di Perugia Mario Formisano, rilasciando anche delle spontanee dichiarazioni. Fava ha negato di aver dato, come affermato dall’accusa, materiale per due articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità che rientravano nella “campagna mediatica” di diffamazione contro Ielo e Pignatone. L’ex pm, ora giudice a Latina, ha affermato di «essersi premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi». Respinta, quindi, l’accusa di essersi, per redigere l’esposto, «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento». Un episodio che secondo i pm umbri sarebbe avvenuto «per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita». Fava ha insistito sul fatto di non essere stato istigato da Palamara e di aver voluto solo segnalare agli organi competenti, “nel rispetto della legge”, quanto era accaduto. Ad iniziare dalla revoca del procedimento contro Amara. I cronisti del Fatto Quotidiano e della Verità, ascoltati dai pm umbri, non avevano inteso avvalersi del segreto professionale, negando di aver ricevuto informazioni da Fava sull’esistenza dell’esposto. L’iniziativa per la pubblicazione degli articoli era stata autonoma, senza pressioni da parte di Fava e Palamara. I giornalisti avevano fatto mettere a verbale che le informazioni poste a base dei loro articoli, quindi i particolari sulle mancate astensioni di Ielo e Pignatone, non erano state fornite dai due magistrati. I giornalisti avevano dichiarato di avere dialogato con più persone (ed anzi magistrati), altri soggetti che erano a conoscenza di questi episodi. La Procura non ha prodotto elementi nuovi per smentire il contenuto di tali dichiarazioni e provare che siano stati Fava e Palamara a fornire il materiale per gli articoli. La deposizione di Fava è durata circa 9 ore. Il gip Angela Avila deciderà il prossimo 23 giugno se rinviare a giudizio o archiviare. Paolo Comi
Magistratopoli e i suoi scandali. Esposto di Fava contro Pignatone: il Csm lo ha seppellito da più di due anni. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Giugno 2021. Qualcuno sa che fine abbia fatto l’ormai celebre esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava al Consiglio superiore della magistratura oltre due anni fa? La circostanza è tornata d’attualità proprio in questi giorni. Nelle prossime settimane, infatti, il gup di Perugia dovrà decidere se rinviare o meno a giudizio Fava, ora giudice a Latina, per aver posto in essere una azione denigratoria nei confronti dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo. Alla base di questa azione il contenuto di quell’esposto, poi riportato anche da alcuni giornali, circa delle mancate astensioni di Pignatone e Ielo in alcuni procedimenti. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la pubblica amministrazione di piazzale Clodio, stava svolgendo delle indagini nei confronti dell’avvocato Piero Amara, noto alle cronache, dopo aver ideato il “Sistema Siracusa”, per aver svelato l’esistenza della loggia super segreta “Ungheria” e recentemente riarrestato dalla Procura di Potenza. Amara, arrestato la prima volta agli inizi di febbraio del 2018 in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma, era tornato dopo poco in libertà e aveva iniziato a collaborare con i magistrati. Fava, però, non aveva creduto al pentimento di Amara e aveva chiesto che fosse nuovamente arrestato per una ipotesi di bancarotta. I vertici della Procura di Roma furono contrari e gli tolsero il fascicolo. Il pm, allora, decise di raccontare tutto al Csm. Per i pm di Perugia, invece, Fava sarebbe stato “istigato” da Luca Palamara a orchestrare una campagna mediatica contro Ielo e Pignatone. Da qui anche l’accusa di essersi, per redigere l’esposto, “abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento”. Un episodio che secondo i pm umbri sarebbe avvenuto “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Con Fava è indagato anche l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio accusato di avere riferito a Palamara “l’arrivo al Comitato di presidenza del Csm dell’esposto e di avergli comunicato le iniziative che il Comitato intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti indicati nell’esposto”. Il Riformista ha cercato di riavvolgere il nastro degli eventi. L’esposto arrivò al Comitato di Presidenza del Csm il 2 aprile 2019 e venne così rubricato: “Pratica n. 139/RE/2019. Esposto del dott. Stefano Rocco Fava, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, concernente una missiva a lui indirizzata dal dott. Giuseppe PIGNATONE, Procuratore della Repubblica presso il medesimo Tribunale, circa la mancata astensione di quest’ultimo nei procedimenti riguardanti Piero AMARA e Ezio BIGOTTI”. Secondo quanto dichiarato a novembre del 2020 dal togato Sebastiano Ardita ai pm di Perugia che hanno svolto gli accertamenti, questo esposto sarebbe rimasto presso il Comitato di Presidenza “fino al 7 maggio”. Il Comitato di Presidenza è composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente e dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
La delibera di trasmissione alla prima Commissione, competente su “rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati”, è del successivo 17 aprile. Quindi ci sarebbero voluti circa 20 giorni per fargli raggiungere la Prima commissione dal Comitato di Presidenza, fra loro distanti un paio di rampe di scale. Sempre Ardita ha raccontato che l’esposto arrivò con attività istruttoria già fatta da parte del procuratore generale di Roma. L’istruttoria compiuta dal Comitato di Presidenza rappresentava “un unicum” per Ardita che è stato anche presidente della Prima commissione. Perché procrastinare l’invio dell’esposto alla Prima commissione? L’8 maggio era stato l’ultimo giorno di servizio di Pignatone. Comunque, arrivato in Prima commissione i componenti discussero su cosa fare. Molti erano concordi per ascoltare Fava. Il presidente Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia, non era contrario, di diverso avviso la togata di Area Alessandra Dal Moro. Ardita, sempre ai pm, disse che era una operazione trasparenza, necessaria, sentire Fava. Passano i mesi e non succede nulla. Alla vigilia di Natale dello scorso anno il Comitato di Presidenza dirama un comunicato per assicurare il corretto svolgimento delle pratiche a Palazzo dei Marescialli. Il comunicato riprendeva quasi alla lettera le dichiarazioni rilasciate dal segretario generale Paola Piraccini a Perugia sentita sulle procedure circa la corretta gestione dell’esposto. Da allora, più nulla. È cambiata la composizione del Comitato di Presidenza e quella della Prima commissione. L’esposto, però, è sempre “pendente” e Fava non è stato mai convocato. Come mai? Possibile che dopo due anni nessuno abbia la curiosità di sapere cosa sia successo alla Procura di Roma in quei giorni? Paolo Comi
Troppo marcio in magistratura, la Giustizia va commissariata. Dopo certi scandali qualunque ente pubblico sarebbe commissariato, mentre i palazzi di giustizia ne escono indenni. Dopo le rivelazioni di Amara e Palamara, attesa per le dichiarazioni di Montante, ex vice di Confindustria. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 12 giugno 2021. Se in una Asl, in un piccolo Comune, in una Regione, in una Provincia, in qualunque ente pubblico avvengono, accertate o sospettate, irregolarità, anche penali, che si fa? Vengono commissariati. Sono centinaia in Italia i Commissari di vari enti pubblici e privati, aziende piccole e grandi che vengono affidate ad amministratori giudiziari. Ma se tutte queste magagne, intrallazzi e anche reati penali accadono nei palazzi di giustizia, ma soprattutto al Consiglio superiore della magistratura, che succede? Niente o quasi. Qualche espulsione, qualche altro provvedimento disciplinare che quasi sempre viene aggirato con varie formule, molte con l’anticipata pensione dei magistrati coinvolti, nei confronti dei quali si interrompe la cosiddetta “azione disciplinare”.
L’INDICE DI CREDIBILITÀ. È vero che i “pannicelli sporchi” dovrebbero essere “puliti in famiglia”, ma quando è troppo e troppo. Ci sono interi palazzi di giustizia in Italia, con in testa il Consiglio superiore della magistratura, che sono stati sconvolti da scandali incredibili che, a memoria d’uomo, forse non hanno precedenti nella storia giudiziaria del nostro Paese, che dovrebbero essere “commissariati” come avviene per altri enti e istituzioni pubbliche e private. Ma il potere giudiziario, che costituzionalmente è indipendente dalla politica e spero che lo rimanga, non si deve toccare. Si fanno giustizia da soli, ma non vera giustizia. È una giustizia che fa acqua da tutte le parti e fino a quando non dimostreranno (il potere giudiziario) che possono fare pulizia da soli, l’indice di credibilità della magistratura, è purtroppo destinato a scendere ancora più in basso davanti a una opinione pubblica (soprattutto davanti alle persone oneste) a dir poco sconcertata e senza fiducia nei confronti di chi, invece, dovrebbe proteggerli. È chiaro che non si deve fare di tutta un’erba un fascio, perché ci sono molti magistrati che fanno coscienziosamente il proprio lavoro e il proprio dovere, spesso, come purtroppo è accaduto, anche a rischio della loro vita. E questa giustizia dovrebbe, proprio per onorare i propri caduti, impegnarsi a essere una giustizia giusta e vera. Qualche esempio? Per la verità sono molti e non c’è spazio in questa pagina per elencarli tutti, ma ci limitiamo agli ultimi avvenimenti provocati dal “duo” Luca Palamara, ex magistrato, componente del Csm (Consiglio superiore della magistratura) e dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e dall’avvocato Pietro Amara, ex legale dell’Eni e di tanti altri enti: con le loro dichiarazioni e rivelazioni, hanno svelato il marcio che esiste all’interno della magistratura (soprattutto dentro il Csm) deputata a difendere i cittadini onesti del nostro Paese.
L’ATTACCO DI PALAMARA. Luca Palamara è andato giù duro sull’amministrazione della Giustizia (in casi rarissimi è stato querelato) rivelando tra l’altro che anche l’attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo contattò in una terrazza di un albergo romano per chiedere un sostegno per le proprie aspirazioni. E lui, Salvi, che ha fatto appena diventato procuratore generale della Cassazione? Ha emanato una circolare chiedendo di fatto una “amnistia” per i magistrati finiti nelle chat per aver brigato con l’ex leader dell’Anm. Sostenendo che «l’autopromozione non è un illecito». Dove di fatto dice che chi ha chiesto una “raccomandazione” o “intervento” (come lui ndr) non ha commesso un reato e neanche un illecito disciplinare. Ma se lo fa il sottoscritto o qualunque altro cittadino normale, finisce quanto meno in carcere o ai domiciliari. La circolare ha fatto indispettire centinaia di magistrati che sarebbero al di fuori dei traffici di Palamara, che hanno chiesto a Salvi e ad altri magistrati coinvolti, di fare «chiarezza». Ma ancora aspettano. Ma torniamo ai giorni nostri, a ieri e all’altro ieri, con tre palazzi di Giustizia letteralmente “in confusione”. Partiamo da quello di Milano, dove l’attuale procuratore, Francesco Greco, è subissato da scandali che non riescono a fermarsi.
I PM INDAGATI A BRESCIA. L’ultimo è quello dell’iniziativa della Procura di Brescia (competente per eventuali reati commessi da magistrati milanesi) che ha indagato tre magistrati. Il pm Paolo Storari (che, se posso permettermi, è una persona per bene, ma forse si è fidato dei suoi ex capi e colleghi) è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver mostrato all’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Con lui sono stati indagati i suoi colleghi Fabio de Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio nell’ambito del processo Eni-Nigeria. Secondo l’ipotesi accusatoria, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro non avrebbero depositato un video che avrebbe potuto minare la credibilità di un testimone d’accusa e avrebbero depositato chat manomesse. In buona sostanza, i due magistrati avrebbero nascosto delle prove a favore degli imputati del processo Eni che sono stati tutti assolti, anche per questa ragione. Perché Pietro Amara aveva registrato di nascosto una conversazione con un testimone del processo Eni che confessava che le sue accuse non erano veritiere. Tutta questa storia è adesso nelle mani del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che è, purtroppo o per fortuna, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei tre magistrati indagati da Brescia. Indagini, quelle di Brescia, che potrebbero influire sulla nomina del nuovo Procuratore di Milano dove sono in corsa il pm romano Paolo Ielo e il milanese Maurizio Romanelli. Ma in corsa c’è anche un altro magistrato, Nicola Gratteri, percepito, come ha detto qualcuno, come il “papa straniero” e indipendente dalle dinamiche correntizie, quindi al di fuori del “sistema” di Luca Palamara e dell’avvocato Pietro Amara. E, proprio per questa ragione, sarà difficile che Gratteri possa essere nominato, salvo cambi di fronte dell’ultimo momento, come spesso accade per rifarsi una verginità. L’altro caso spinoso per la magistratura e per il Csm è il “caso Verbania”, dove il Gip che aveva scarcerato alcuni degli indagati per la strage della funivia del Mottarone (una decina di morti) è stata scippata del fascicolo d’indagine affidato a un’altra collega. Una scelta molto discutibile, perché è stata interpretata come una scelta garantista che non è andata a genio ai pm che indagano sulla vicenda. E quindi si è aperto un grande scontro sul quale sono intervenuti, a ragione, due componenti del Csm, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, provocando anche la protesta degli avvocati della difesa che hanno annunciato uno sciopero, con l’Unione delle Camere penali che torna a chiedere la separazione delle carriere in magistratura. Insomma, il fascicolo è stato tolto a un gip e assegnato a un altro che non se n’era potuto occupare perché oberato di lavoro e che, improvvisamente, adesso se ne può occupare perché con una bacchetta magica avrebbe smaltito il lavoro pregresso. Miracoli della giustizia, anzi della magistratura.
GLI ULTIMI SCANDALI. E, come detto, la lista è lunga, ma ricordiamo l’ultimo scandalo, quello del palazzo di giustizia di Taranto e anche quello di Trani che ha visto coinvolto l’ex procuratore Carlo Mario Capristo, sottoposto all’obbligo di dimora su decisione della Procura di Potenza. La stessa ha anche disposto misure cautelari nei confronti dell’avvocato siciliano Pietro Amara (carcere), dell’avvocato di Trani, Giacomo Ragno (arresti domiciliari), del poliziotto Filippo Paradiso (carcere), e dell’ex consulente di Ilva in amministrazione straordinaria, Nicola Nicoletti (domiciliari). L’inchiesta verte su un presunto scambio di favori nell’ambito di procedimenti per l’ex Ilva, con il procuratore Capristo che, secondo l’ accusa, «ha venduto la sua funzione giudiziaria». La Procura di Potenza, guidata da Francesco Curcio, dice che «Capristo stabilmente vendeva ad Amara e Nicoletti, la propria funzione giudiziaria, sia presso la Procura di Trani (a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara e Nicoletti ) svolgendo, in tale contesto, Paradiso, funzione d’intermediario presso Capristo per conto e nell’interesse di Amara». Un Amara che aveva sponsorizzato e ottenuto la nomina di Capristo a Procuratore della Repubblica di Taranto. Ne volete ancora? Sì, forse un’ultima chicca. Ieri Antonello Montante, ex vicepresidente di Confindustria ed ex paladino dell’Antimafia, già condannato, ha parlato in aula a Caltanissetta. I giornalisti non sono stati ammessi. Ma credetemi, se Montante parlasse, Amara e Palamara, sarebbero dei dilettanti perché Montante potrebbe sconvolgere più di loro, gli apparati giudiziari e istituzionali. Staremo a vedere.
Da mani pulite a toghe macchiate. Altri due magistrati nei guai a Milano. Inquisiti per non aver esibito carte che avrebbero scagionato gli imputati (assolti) nel processo Eni-Shell Nigeria. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Altri due magistrati milanesi nel mirino della giustizia. Dopo Paolo Storari, questa volta tocca a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I due pm milanesi sono indagati dalla Procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio in relazione al processo Eni/Shell-Nigeria di cui ieri il Tribunale ha depositato le motivazioni dell’assoluzione di tutti gli imputati. Cioè, secondo i loro colleghi, avrebbero volutamente evitato di considerare delle prove che scagionavano gli accusati. Un’ipotesi pesante perché mette in cattiva luce tutta la mega inchiesta sulle presunte tangenti di Eni in Nigeria, un processo su cui la Procura di Milano aveva puntato molto, ma che appunto si è risolto con una sfilza di assoluzioni. E mentre il tribunale sanciva la sconfitta dei pm milanesi, ecco arrivare anche la notizia dei due magistrati indagati dai colleghi di Brescia. L’iscrizione risalirebbe a una decina di giorni fa dopo l’interrogatorio del pm Paolo Storari, pure lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell’avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio. Un gran brutto momento per la giustizia milanese, già scossa di recente dalle rilevazioni su una presunta congrega segreta di magistrati chiamata “Loggia Ungheria”. E dallo scandalo del fascicolo che sarebbe passato dalle mani del pm Storari a quelle di Piercamillo Davigo che nelle scorse settimane ha provato l’imbarazzante ruolo di chi distingue tra un fascicolo ufficiale e un file word. Lo stesso atteggiamento che di solito hanno avuto molti imputati negli anni d’oro della magistratura e veniva stigmatizzato dalla stampa. Un’inversione dei ruoli che è sistemica: se negli ultimi vent’anni è stata la magistratura a evidenziare e combattere ogni stortura degli altri poteri dello Stato, ora si trova nello scomodo ruolo di protagonista della crisi. E, come dice un avvocato di lungo corso del Tribunale di Milano, “non è un bene per la democrazia che la reputazione della magistratura sia così svilita”. Ma le ultime inchieste e rivelazioni hanno dipinto anche il mondo dei magistrati come un insieme di correnti e fazioni politiche che si combattono senza esclusione di colpi per la spartizione del potere. Un quadro finora riservato solo ai politici. E secondo alcuni il caos in cui versa la Procura di Milano è dato proprio da una serie di cambiamenti in corso: diversi componenti della squadra del procuratore capo Francesco Greco sono in partenza per la Procura europea. E già a livello di organico sarebbe un problema perché si tratta della squadra più esperta in reati finanziari. Inoltre nello stesso tempo lo stesso Greco sta andando in pensione. E questo apre una corsa per una delle poltrone di potere più ambite d’Italia. E c’è un altro dato essenziale in questa complessa matematica del potere: questa volta il procuratore capo di Milano non sarà di sinistra. Dopo gli ultimi due in particolare, Bruti Liberati e Greco, sarebbe un vero cambio di musica. Secondo i maligni la vicinanza dell’attuale Procura agli ambienti di sinistra come l’Amministrazione Sala ha favorito i buoni rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Al punto che il capo dei vigili di Milano sarebbe stato preso dagli uffici investigativi del Tribunale proprio su sollecitazione dei vertici della magistratura milanese. Una ricostruzione contestata dal Comune che ha annunciato cause legali, ma anche questo genere di procedimento potrebbe prendere tutta un’altra strada con un diverso capo della Procura. Per ora sembra che i nomi di cui si parla sono quelli di Nicola Grattieri, procuratore di Catanzaro, Giovanni Melillo, già procuratore aggiunto di Napoli, e il più giovane Giuseppe Amato, attuale procuratore di Trento. Improbabile la successione interna con Alberto Nobili al posto di Greco perché il clan Boccassini è in discesa. Né sembra molto papabile il nome di Grattieri perché non sembra gradito agli stessi magistrati in servizio. L’unica opzione che pare valida sarebbe Melillo, ma sulle nomine lo stesso Csm messo duramente in crisi negli ultimi mesi va cauto. Per Milano sarebbe una notizia perché a quel punto sia la Prefettura che la Procura di Milano sarebbero guidati da un uomo del Sud. E visto l’apprezzato lavoro di Renato Saccone come Prefetto, potrebbe essere l’inizio di una sinergia interessante per la terra amministrata dai leghisti. In fondo Milano è composta in gran parte di persone che ci si sono trasferite. Persino il presidente dello storico Asilo Mariuccia è pugliese.
La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Magistratura, il giudice nomina il suo amico? Non c'è nessun reato: la sentenza è uno schiaffo. Paolo Ferrari Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Se un cittadino chiede un favore di qualsiasi tipo ad un politico, quest' ultimo risponde nella migliore delle ipotesi di abuso d'ufficio, altrimenti di corruzione. Se un favore, come una nomina o un incarico, lo chiede un magistrato ad un componente del Csm non succede nulla trattandosi di "autopromozione". È il "doppio binario" che assolve i signori in toga e punisce con l'arresto i comuni mortali. «La legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta», diceva Giovanni Giolitti che aveva già capito tutto un secolo prima di Luca Palamara. Un esempio di applicazione del diritto per coloro che non hanno il privilegio di indossare la toga viene dalla recente sentenza numero 21006 della Cassazione. In estrema sintesi, risponde di concorso in abuso d'ufficio chi "convince" il pubblico ufficiale a non compiere il proprio dovere, non trattandosi di una semplice segnalazione che lascia libertà di agire, bensì di una istigazione determinante per la decisione finale. I cultori del diritto potranno obiettare che nel caso affrontato dalla Cassazione, una multa non elevata dalla stradale, si configura un vantaggio patrimoniale. Per i magistrati, differenziandosi fra loro solo per funzioni, non ci sarebbe alcun incremento di stipendio fra chi, a parità di anzianità di servizio, viene nominato procuratore e chi resta pm. Però c'è il danno ingiusto: il meccanismo emerso dalle chat ha danneggiato chi non aveva santi in paradiso, quindi al Csm. Palamara, in segno di "pacificazione", dopo l'esplosione dello scandalo sulle nomine si è affrettato a chiedere scusa ai colleghi penalizzati dal mercato delle nomine. Ma oltre a non incorrere in reati, le toghe dedite al "self marketing" sono state esonerate dal fastidio di affrontare un disciplinare. Il pg della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare, con una circolare dell'anno scorso ha stabilito che il magistrato non commette illeciti caldeggiando il proprio nome per un incarico al Csm. «L'attività di autopromozione - secondo Salvi - effettuata direttamente dall'aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Per le Sezioni unite della Cassazione, invece, le condotte che danno vita al sistema clientelare, mediante qualunque interferenza nella valutazione del Csm, «sono in ogni caso disciplinarmente sanzionabili», diversamente da quanto previsto dalle linee di Salvi. A due anni dalla pubblicazione delle chat di Palamara, dunque, nessuna Procura ha aperto un fascicolo nei confronti dei magistrati che spingevano per una nomina, nessun procedimento disciplinare è stato avviato per sanzionare il self marketing togato, e nessuno è stato trasferito per incompatibilità ambientale. Insomma, tranne Palamara sono tutti al proprio posto. Nei mesi scorsi, senza successo, alcuni magistrati "dissidenti" del gruppo anticorrenti Articolo 101, hanno invitato Salvi a ritirare la direttiva, chiedendogli le dimissioni se non avesse fornito spiegazioni convincenti su un episodio di self marketing, quindi non punibile, che lo aveva visto coinvolto ed era stato raccontato nel libro Il Sistema. Per la precisione un aperitivo alla presenza dell'allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini durante il quale si sarebbe "sponsorizzato" proprio per il posto di pg della Cassazione.
Giulia Merlo per editorialedomani.it il 6 maggio 2021. Il libro “Il Sistema” firmato da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, che racconta il meccanismo delle nomine dentro la magistratura, verrà modificato. Il caso è significativo non solo viste le polemiche sollevate dal libro-intervista, ma perchè si tratta di un caso probabilmente unico di casa editrice (in questo caso la Mondadori), che modifica le pagine di un libro già diffuso e venduto in oltre 100 mila copie. Le modifiche, che riguarderanno tutte le ristampe del libro cartaceo, l’ebook e l’audiolibro, riguardano i riferimenti sull’attività dell’ex procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro. «Alcuni riferimenti inclusi nelle pagg. 53, 54 e 55 del libro “Il Sistema" alla attività del dottor Armando Spataro quale membro del Csm nel periodo 1998-2002 e quale dirigente della corrente dell’Anm, Movimento per la Giustizia, hanno generato equivoci che il dottor Palamara intende chiarire, avendo sempre nutrito alta stima personale e professionale per Spataro, da lui considerato un magistrato di elevato profilo», si legge nel comunicato che accompagna la notizia. Palamara, denunciando le criticità del sistema correntizio, «non ha mai inteso attribuire al dottor Spataro alcun comportamento eticamente scorretto, sia quale magistrato, sia quale membro del CSM, sia sul piano associativo». Per questo sono state modificate tre pagine, «modificando o eliminando» dal testo «i riferimenti che avrebbero potuto determinare» distorte interpretazioni. Spataro, preso atto delle modifiche, si è dichiarato «d’accordo e soddisfatto».
Anna Maria Greco per Il Giornale il 28 aprile 2021. Al Csm, invece di fare passi avanti sul caso Palamara, se ne fanno parecchi indietro. Le audizioni di questi due giorni ingarbugliano la ricostruzione principe del sistema delle correnti, quella dell'incontro del 2019 all' hotel Champagne, tra i togati e i renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti, per l'accordo sul nuovo procuratore di Roma. E si fa più pesante la spada di Damocle dell'irregolarità delle intercettazioni dell'ex presidente dell'Anm, che potrebbe far saltare processi disciplinari e penali. Viene rinviata l'audizione di Duilio Bianchi, della società che inoculò il trojan nel cellulare di Palamara, che si è contraddetto sulla gestione delle intercettazioni da Roma a Napoli e ritorno prima di arrivare ai pm di Perugia. Ora a Firenze e Napoli si indaga sullo strano «giro» dei file e su «buchi» di ascolto, soprattutto quello della cena dell'ex procuratore di Roma Pignatone con Palamara e altri, la sera dopo l'incontro all' hotel Champagne. Ieri, al processo disciplinare contro i 5 ex togati del Csm (Morlini, Spina, Lepre, Cartoni e Criscuoli) che parteciparono a quella riunione notturna, al maresciallo della Gdf Roberto D' Acunto viene chiesto come fu gestito il trojan. «Non decidevo io - risponde -, seguivo indicazioni dei superiori. Della programmazione non viene redatto verbale, ma resta la traccia informatica. Non mi occupavo dei rapporti con la procura e l'ascolto avveniva da remoto, presso la sala della Gdf». Per la difesa del deputato di Iv Ferri, magistrato fuori ruolo e sotto accusa disciplinare, se le intercettazioni non sono state trasmesse direttamente alla sede dovuta, come vuole la legge e sono quindi a rischio manipolazione, sono inutilizzabili nei processi. Nelle audizioni del giorno prima, sia il procuratore generale di Firenze Viola, candidato di Palamara per Roma, che l'ex togato Forciniti, fanno un quadro ben diverso da quello dipinto finora sulle manovre per il dopo Pignatone. «Spina mi disse che i 5 consiglieri di Unicost avevano deciso di sostenere Creazzo e si lamentava dell'invadenza di Palamara, che invece insisteva su Viola, anche perché si trattava dell'ufficio dove era sostituto», racconta Forciniti, ex togato della corrente di centro. Con Spina, aggiunge, era presente Morlini (ambedue di Unicost). Ricorda bene la data dell'incontro a Reggio Calabria per un convegno: 17 maggio. La riunione dell'hotel Champagne è della notte tra l' 8 e il 9 maggio e, secondo le accuse, fu il momento in cui si strinse il patto scellerato tra Unicost e Magistratura indipendente, benedetto da una parte politica, per portare Viola a Roma. Forciniti ripete, invece, che i suoi colleghi al Csm puntavano su un altro candidato. Quasi 10 giorni dopo il confronto notturno, rimanevano divisioni, l'accordo non c'era. Si trattò solo di uno dei tanti incontri preliminari, per cercare un accordo tra correnti, rompendo l'asse che prima legava Unicost ai gruppi di sinistra? Per Palamara, poteva poggiare sulla scelta comune di Viola, in discontinuità con Pignatone. Dice Forciniti: «I rapporti tra Palamara e Pignatone prima erano ottimi, poi ci fu freddezza. E Palamara si avvicinò a Ferri, una volta su posizioni contrapposte». Molti incontri informali, sulla nomina nella capitale, avvennero anche dentro Palazzo de' Marescialli. Lo conferma lo stesso Viola all' udienza. «A maggio passai al Csm e ci vedemmo nella stanza del consigliere Criscuoli. Non contemporaneamente vennero Lepre, Spina, Cartoni, Davigo...». Anche Cascini (Magistratura democratica), aggiunge dopo una domanda. «Si parlò anche della nomina alla procura di Roma, ma non si entrò nel dettaglio. Mi dissero che erano passati anche altri candidati, Creazzo, Lo Voi...». D' altronde, l' autopromozione non è né illecito né reato, afferma il Pg della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell' azione disciplinare. «Nessuno mi disse: voterò per te», conclude Viola.
Palamaragate e le responsabilità della magistratura. Palamara chi? I magistrati fanno gli gnorri sul sistema e sorridono ai giornalisti…Valerio Spigarelli su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Capita spesso, nel corso dei convegni che da un anno a questa parte si fanno via web sui temi giuridici, i mitici webinar, di confrontarsi con magistrati di gran calibro che evitano accuratamente di prendere posizione su tutto quello di catastrofico che, pandemia a parte, è accaduto negli ultimi dodici mesi alla magistratura italiana. Quando qualcuno – e a me capita spesso – stravolgendo il birignao da conferenza, mette i piedi nel piatto e si permette di tirare in ballo la questione Palamara, il meglio che gli può capitare è una ostentata indifferenza da parte dei magistrati invitati. “Palamara chi?” sembra che dicano guardando all’insù o all’ingiù verso il video; e il pensiero corre alle schiere di reietti, da Trotsky in poi, trattati come incidenti della storia delle organizzazioni complesse fino ad essere cancellati dalle fotografie ufficiali. Il che, sia detto con simpatia, nel caso di specie non sarebbe neppure un dramma estetico ma sul versante della verità storica sì. A quel punto, per non urtare la suscettibilità dei conferenzieri, e nel dubbio che la reazione sia dovuta al fatto che la sterminata rubrica, e le relative chat, dell’ex presidente dell’Anm possano essere fonte di imbarazzo per qualche partecipante, succede che qualcuno – a me capita spesso – chieda conto ai depositari della cultura della giurisdizione degli attacchi che, da Catanzaro a Milano, proprio la giurisdizione ha subito dall’interno negli ultimi tempi. In genere la cosa viene vissuta come una provocatoria mancanza di garbo e dalle finestrelle telematiche dei webinar si vedono gli interlocutori alzare gli occhi al cielo come se si stesse parlando di fatti successi a Tongatapu. «Ancora con sta’storia» sembra che dicano a microfono spento «parliamo dei problemi veri, non degli episodi» celiano quando poi hanno la parola. A quel punto succede – a me capita sempre più spesso – di cominciare a perdere la pazienza, ma per non mettere a disagio l’organizzatore del webinar ci si trattiene e si cerca educatamente di dirottare il discorso su temi meno urticanti, magari sull’irrefrenabile voglia di intercettazioni che sembra possedere gli inquirenti italiani come il demonio abitava il povero corpo di Linda Blair ne L’Esorcista. Fenomeno testimoniato non solo dalla significativa quota di risorse che si destinano allo strumento, ma anche dal numero impressionante di ore di intercettazione contenute nei fascicoli processuali che per ascoltarle tutte ti ci vorrebbero due vite. Questo, cioè parlare di intercettazioni per sciogliere un po’ l’atmosfera, lo si fa negli ultimi tempi anche per assaporare la sottile perversione di essere, per una volta, dalla parte della gloriosa stampa giudiziaria nazionale che comincia a preoccuparsi, secondo me giustamente, della propria libertà di comunicazione perlomeno quanto se ne è infischiata di quella degli altri fin qui. Il che merita – in queste settimane mi è capitato spesso – il primo sorriso convegnistico, da trent’anni ad oggi, da parte del giornalista/moderatore che in genere tratta l’avvocato come lo zio matto che si invita per dovere sotto le feste ma ora che se lo ritrova da parte della libertà di stampa gli sorride dal web manco fosse Cronkite reincarnato con la toga addosso. Per la verità sull’argomento intercettazioni il muro di indifferenza magistratuale ogni tanto perde qualche mattone e succede di ascoltare – mi è capitato spesso da un anno in qua – qualche timido ripensamento da parte dei giudici conferenzieri che in questo si distinguono dai pm conferenzieri, che invece respingono ogni accusa di abuso dello strumento. Ogni volta che accade gli avvocati partecipanti pensano malignamente che forse qualcosa di buono il Trojan, sia pur mal funzionante, piazzato nel telefono di Palamara l’ha prodotta. Il fatto è che a sentir dire – mi è accaduto anche questo – dai giudici/convegnisti che questi problemucci, come il complessivo squilibrio del processo, dipendono dal “gigantismo del pm”, cui si deve educatamente rispondere con qualche ritocco al codice ma – Dio ce ne scampi – non certo con riforme costituzionali, in primis la separazione delle carriere, finisco per perdere le staffe. «Come sarebbe a dire?» comincio a urlare alla telecamerina, «il gigantismo dei pm lo avete creato voi, con la vostra giurisprudenza, i politici hanno copiato nelle leggi quello che le vostre sentenze, in qualche caso molto creative, avevano già affermato e i giornalisti lo hanno incensato perché il Terzo potere, quello vero, sta nelle Procure. È da sempre che va avanti così. È avvenuto per il giusto processo, nel ’92, per il doppio binario sempre più allargato, per le intercettazioni, per la custodia cautelare, per i processi a distanza. È successo perché siete voi ad avere una idea sbagliata del processo e del sistema giudiziario. Lo vivete come una scopa della storia destinata a raddrizzare torti sociali, se siete di sinistra, o come lo strumento per raddrizzare i molli costumi se state dall’altra parte. Tutto meno quello che dovrebbe essere. Anche per questo, coccolati da una stampa che fa il cane da guardia agli altri poteri ma col terzo si comporta come i corgi di casa Windsor, avete costruito a forza di voti un sistema interno di progressione in carriera di cui oggi vi vergognate ma che non volete discutere in piazza, perché pensate che la giustizia, i processi, le regole, il Csm, siano di vostra proprietà, come gli arredi di casa. Siete voi che di fronte alle schiere di innocenti conclamati, in precedenza sottoposti a custodia cautelare, avete inventato una giurisprudenza salvifica per lo Stato in tema di indennizzo. Siete voi che prorogate le intercettazioni per anni. Siete stati voi, in tutto questo maledettissimo anno di Covid, a scrivere decine e decine di ordinanze con le quali avete negato a gente malmessa di andarsene ai domiciliari, mettendo giù in giuridichese ciò che Travaglio aveva teorizzato, e cioè che in galera si sta più al sicuro che fuori. Sono trent’anni che invocate il sostegno del Popolo ogni volta che vi serve, ben sapendo che è dinamite quando si tratta di questioni giudiziarie, e ve ne accorgete solo quando assediano i Tribunali perché avete assolto qualcuno già condannato dalla ghigliottina dei processi mediatici paralleli. Sono anni che per sentirvi discutere di riforme strutturali bisogna aspettare che andiate in pensione…». Generalmente, però, non riesco a terminare l’invettiva perché qualcuno avverte che il tempo è tiranno e il webinar si deve concludere. E così, mentre i miei collaboratori escono dalle stanze vicine per entrare nella mia commentando «Avvocato, prima o poi questi webinar le saranno fatali…» chiudo il collegamento e rifletto su quanto erano meglio i convegni di una volta. Valerio Spigarelli
Magistratura e politica. Stavolta tocca alla politica indagare sulle magagne della magistratura. Matilde Siracusano su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Mi stupisce osservare che lo scandalo Palamara, esploso con l’uscita del libro-bomba di Alessandro Sallusti, stia giorno dopo giorno sfumando i suoi contorni. L’attenzione mediatica sembra adesso si stia concentrando sul problema relativo alle ingiustizie subìte dai magistrati in contrasto con le correnti e sugli effetti nefasti del disallineamento ai partiti del CSM, che ha compromesso la carriera di molti giudici che oggi si sentono legittimati alla ribellione collettiva contro il sistema malato del quale fanno parte. Si tratta di dinamiche e retroscena deprecabili, soprattutto perché il concetto di indipendenza della magistratura dovrebbe essere una precondizione assoluta, ma ciò che dovrebbe suscitare vero terrore è l’ingerenza politica nel CSM e soprattutto l’ingerenza della magistratura nella politica. Come si coniuga questa commistione di interessi con l’attività giurisdizionale, con le sentenze e con le inchieste eclatanti? Com’è possibile che non siano stati aperti fascicoli per indagare su questi fatti dettagliati nelle dichiarazioni rese da Palamara, che hanno tutte le sembianze delle confessioni di un pentito? Come si fa a non vedere chiaramente che in certi casi la legge non è uguale per tutti? Se le rivelazioni di Palamara avessero investito politici o imprenditori ci sarebbe stata una maxi inchiesta con titoloni da Colossal americano e con centinaia di interviste pop di Pm sullo sfondo di trailer editati con effetti cinematografici. Da giorni osservo trasmissioni televisive che ospitano Palamara ed altri magistrati i quali denunciano gli inciuci correntizi che hanno compromesso le loro carriere, ma che glissano totalmente sulla questione centrale: quanti innocenti sono stati coinvolti ingiustamente in procedimenti viziati da logiche ben lontane dalla ricerca della verità e della giustizia? Quanti leader politici sono stati perseguitati perché ritenuti nemici del sistema? Se è realistico che “un procuratore della Repubblica con un paio di aggiunti svegli ed un ufficiale di polizia giudiziaria bravo e ammanicato con i servizi segreti insieme ad un paio di giornalisti amici hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo”, allora l’indignazione collettiva non è affatto sufficiente. Serve un’operazione verità che rivoluzioni un sistema di potere smisurato che ha fatto e continua a fare a pezzi la nostra democrazia ed occorre urgentemente una commissione parlamentare d’inchiesta perché chi rappresenta le istituzioni democratiche ha il dovere di intervenire per preservarle. In fondo, non sarebbe peccato mortale se per una volta fosse la politica ad indagare sulla magistratura ma forse lo strumento idoneo all’assoluzione affinché la degenerazione del potere giudiziario non diventi il peccato originale. Matilde Siracusano
Giustizia, centrodestra e Iv in pressing per la commissione d'inchiesta sulla magistratura. Ma la maggioranza si spacca. Liana Milella su La Repubblica il 19 aprile 2021. Oltre al partito di Renzi e Salvini, anche Forza Italia e Azione vogliono aprire il "processo" alle toghe. Favorevole Fratelli d'Italia. Pd e M5S sono contrari. La politica vuole mettere "sotto processo" la magistratura. Senza confini, né di tempo né di spazio. Di una commissione d'inchiesta si parla da un anno. È stata messa sul tavolo a ridosso dell'uscita delle chat di Palamara. Era maggio 2020. Ma adesso, anche a costo di spaccare la maggioranza, il centrodestra di governo - Forza Italia, Lega, Azione - e il centrodestra d'opposizione - Fratelli d'Italia - pretendono di far partire subito la commissione d'inchiesta sulla magistratura.
La proposta. Commissione d’inchiesta sulla giustizia, Labocetta lancia la petizione: “Basta zone d’ombra”. Redazione su Il Riformista il 18 Aprile 2021. Una petizione popolare per chiedere l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla giustizia, o per meglio dire sulla malagiustizia, sulle storture emerse negli anni da parte del “partito dei pm” e rilanciate dal cosiddetto Palamaragate. A lanciare l’appello è Amedeo Laboccetta, presidente di Polo Sud e parlamentare di Forza Italia. “I fatti gravissimi contenuti nel mio libro, nel libro di Fabrizio Cicchitto “L’uso politico della giustizia e” in quello a dir poco esplosivo “Il Sistema”, di Palamara e Sallusti, rendono necessaria una presa di posizione forte da parte di tutti coloro che hanno a cuore l’agibilità democratica del nostro Paese”, spiega Laboccetta. Per questo, sottolineando “il muro di gomma che si è creato per ovattare la notizia e tenere il più lontano possibile la consapevolezza della necessità di una riforma della giustizia che ridia lustro e autorevolezza alla magistratura e assicuri ai cittadini italiani una giustizia equa e celere”, Labocetta lancia l’appello per una “petizione popolare per raccogliere firme per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni affinché il parlamento istituisca d’urgenza una commissione parlamentare d’inchiesta sulla giustizia. Affinché non rimangano zone d’ombra e per far luce fino in fondo su quanto è accaduto. Così da poter ripartire e dare linfa alla riforma della giustizia”.
"In ogni seduta in Aula chiederò al Parlamento l'inchiesta sul Sistema". Anna Maria Greco il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Maratona oratoria della deputata azzurra "Palamara deve poter parlare all'Antimafia". Giusi Bartolozzi Armao, deputata di Forza Italia e componente della commissione Antimafia, promette di intervenire in ogni seduta della Camera per ricordare l'urgenza di far luce sulle vicende rivelate dall'ex presidente dell'Anm Luca Palamara.
Lo scandalo Palamara ha confermato i sospetti su un sistema di intrecci pericolosi tra magistratura e politica, ma le richieste di una commissione d'inchiesta parlamentare si scontrano contro il muro della sinistra.
«Uno spaccato allarmante che il Paese aveva diritto di conoscere. Ma siamo ancora alle prime battute ed è necessaria la piena conoscenza dei fatti. La magistratura sta dimostrando di avere i necessari anticorpi, consiglieri del Csm dimissionari, procedimenti disciplinari e penali prontamente attivati. Mentre una parte del mondo politico pare dormiente. Nel luglio 2020 abbiamo presentato una proposta di legge per costituire una Commissione d'inchiesta ma, dopo quasi un anno e nonostante le tante molteplici in Ufficio di Presidenza, la proposta non è stata calendarizzata. Stesso ingiustificabile epilogo per la richiesta di audizione di Palamara in commissione nazionale antimafia».
Lei dice che la magistratura ha dimostrato di avere anticorpi, con processi penali e disciplinari, mentre la politica non vuole fare la sua parte. Perché?
«In parte è codardia, pur comprensibile forse. Un pubblico ministero può indagare chi vuole e come vuole, senza doverne rispondere. Una tale concentrazione di potere sulla vita delle persone nelle mani di un organo inquirente, svincolata da effettive responsabilità, non è più tollerabile. L'informazione di garanzia è poi divenuta, di fatto, una condanna anticipata, che autorizza qualche avversario, intriso da cultura del sospetto, a richiedere le dimissioni del politico indagato. Il caso Palamara ha svelato un intreccio di relazioni ed accordi tra parte della magistratura e parte del mondo politico. E nessuno probabilmente, da una parte e dall'altra, vuole andare sino in fondo».
Come sono percepite dai politici le rivelazioni di Palamara su come la magistratura si sia mobilitata in varie occasioni per influenzare la vita di governi e istituzioni?
«Il caso Palamara rivela qualcosa di molto più allarmante della semplice relazione, fatto ovvio, tra magistratura e politica. È la prima volta che conosciamo che cosa avviene direttamente, da trascrizioni di chat tra alcuni magistrati, su procedimenti giudiziari pendenti a carico di qualche politico e sulle pressioni esercitate per condizionarne negativamente l'esito. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi ne sono solo gli ultimi esempi e tutto questo è inaccettabile».
Crede che sia possibile trovare una maggioranza trasversale ai partiti per approfondire questi temi scottanti?
«Mi auguro di sì ed è per questo che in aula, da martedì, ho iniziato una maratona di interventi di fine seduta per sensibilizzare tutti i parlamentari sulla necessità di costituire al più presto la commissione di inchiesta. Inutile trincerarsi dietro conflitti tra poteri dello Stato, perché la potestà delle Camere di disporre inchieste su materie di pubblico interesse è esercitabile solo attraverso commissioni ad hoc. Abbiamo già raccolto diverse disponibilità e contiamo che si trasformino in fatti concreti».
Quanto pesa il caso Palamara sulla prossima riforma della giustizia e in particolare su quella del Csm?
«Spero non sia l'ennesima occasione sprecata. Negli ultimi vent'anni il tema della giustizia è stato al centro del dibattito pubblico, scatenando i più aspri contrasti tra le forze politiche, con disagio tra gli operatori e sconforto tra i cittadini. Oggi occorre da un lato assicurare l'indipendenza della magistratura, specialmente quella giudicante ed evitare che essa si estranei completamente dalla vita del Paese, divenendo un corpo autoreferenziale. La separazione della carriere dei magistrati, la riforma del Csm, la rivisitazione dell'obbligatorietà dell'azione penale sono temi che non consentono un approccio emotivo o populistico. Ne va dell'essenza delle Istituzioni, dei fondamenti dello stato di diritto. In questo momento s'impone un serio confronto su questi grandi temi».
La proposta del centrodestra e Iv. Commissione d’inchiesta su Magistratopoli, chi la vuole e chi la teme: i nomi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Aprile 2021. “Il sistema” compie tre mesi e continua a suscitare sdegno, pagina dopo pagina. Ma alla grande indignazione segue il magnifico nulla e i sovrumani silenzi con cui la magistratura tenta di difendere se stessa, provando con la sperimentatissima mossa dello struzzo. A stanare gli struzzi ecco che a Montecitorio approda la proposta di istituzione di una Commissione d’inchiesta. Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia ma anche Italia Viva chiedono di indagare sul Sistema. Sulla lottizzazione, sugli accordi di potere, sulle trame che hanno troppe volte condotto i giudici ad assumere decisioni pregiudizievoli, preconcette. Alla Camera quattro gruppi chiedono di istituire la prima Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della magistratura. Dettagliano gli azzurri in una nota: «Forza Italia e tutto il centrodestra hanno chiesto di calendarizzare nelle commissioni prima e seconda di Montecitorio la proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia a prima firma Gelmini, Molinari e Lollobrigida. Pare surreale che a fronte degli scandali emersi il Parlamento continui a guardare da un’altra parte. Ci aspettiamo già dalla prossima settimana un preciso calendario dei lavori». La prima firmataria non è una deputata semplice ma l’attuale ministra per gli affari regionali e le autonomie nel governo Draghi. «La divisione dei poteri non è un optional – argomenta la deputata Matilde Siracusano, FI – e l’indagine parlamentare è necessaria proprio per far luce su vicende nelle quali appaiono evidenti ingerenze della magistratura nella politica». E la proposta istitutiva è caldeggiata anche dai renziani e da Azione, tramite Enrico Costa. Il Pd prova a buttarla in burletta: «È una boutade», spera la responsabile Giustizia Pd, Anna Rossomando. I Cinque Stelle provano a scardinare la proposta, sabotandola dall’interno. Mario Perantoni, M5S: «Durante l’ufficio di presidenza congiunto degli Affari costituzionali abbiamo discusso la richiesta, osservo che non rientrano nel perimetro delle commissioni d’inchiesta temi che possono provocare un conflitto tra poteri dello Stato». E rincara il dem Michele Bordo: «Non si è mai vista una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare su un altro potere dello stato. Il Parlamento non può fare un’indagine sul lavoro fatto dalla magistratura in questi anni, come invece stanno ora proponendo alcune forze politiche. A meno che Forza Italia, Lega e FdI non vogliano che deputati e senatori rifacciano i processi dell’ultimo ventennio». Il nuovo corso del Pd non si intravede, insomma. La vecchia subalternità, sì. E temendo i numeri in commissione, perché il centrodestra più Italia Viva, Azione e i transfughi del misto avrebbero la maggioranza, i dem provano a scoraggiare con la moral suasion: «Tutte le commissioni di inchiesta parlamentare hanno svolto approfondimenti su avvenimenti o fenomeni specifici – aggiunge – mai sull’attività svolta da un altro potere dello Stato. Sarebbe allora il caso che i partiti della destra abbandonassero questa iniziativa, che diversamente rischierebbe di diventare solo uno strumento per provare a condizionare la magistratura. Alle forze di centrodestra mi permetto di ricordare, sommessamente, che qua siamo in Italia non in Ungheria. Da noi la magistratura è indipendente dal potere politico». Il quale però, è facile chiosare, non è affatto indipendente dalla magistratura. Ci sono dunque parlamentari che non ipotizzano neanche di poter disturbare troppo certi poteri, ammettendo la subalternità della politica al Sistema, proprio come descritto da Palamara e Sallusti. Ma il tentativo di eludere il tema suona stridente, e lo fa notare Enrico Costa: «Chi non condivide la proposta di una commissione sulle criticità del sistema giustizia può legittimamente respingerla o emendarla: non può pretendere che l’atto parlamentare sia escluso “a forza” dall’ordine del giorno. Pd e M5S pretendono invece di costringere il Parlamento a non discutere le proposte sgradite, grazie ai Presidenti delle commissioni Giustizia ed Affari Costituzionali abilissimi a buttare la palla in tribuna», sottolinea il responsabile Giustizia di Azione. 67 magistrati scrissero al Presidente della Repubblica a fine gennaio: quelli elencati da Palamara nel libro sono «fatti troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati. Storie che imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza», segnalavano, chiedendo una commissione d’inchiesta, appunto. Se la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso la democrazia parlamentare, non dovrebbe essere un tabù pretendere la verifica della verità dagli atti e dalle notizie da accertare.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Gli scandali nella magistratura visti dalla Campania. Sì all’inchiesta sulle toghe: la chiedono 3mila persone. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Ieri è stata la giornata internazionale della libertà di stampa. La censura ha sempre risparmiato i corvi e tormentato le colombe. Quanti corvi e quante colombe ci siano tra i magistrati non spetta a me dirlo, ma di certo, alla luce del caso Palamara e delle ultime vicende, un cospicuo numero di entrambe le categorie deve pur esserci. In ogni dappertutto, peraltro, esistono i “buoni” e i “cattivi”. Questi ultimi, con la “scoperta” (o l’emersione, che dir si voglia) del “sistema Palamara”, pensavano (o avranno pensato) di mettere a posto la loro coscienza e – perché no – qualche magagna di “affiliazione” all’ex pm. Strani misteri, al punto che non c’è solo il tentativo di stoppare chi intende riportare correttamente la verità dei fatti – i giornalisti, per l’appunto – ma anche il “bavaglio” (anzi le “mani legate”) a chi cerca di istituire la Commissione parlamentare di inchiesta e di “raccontare” nitidamente cosa sia successo in questi anni e quanto accada tuttora nelle aule dei Tribunali. Come se fosse, per capirci, un vero e proprio triangolo “perverso”, con i lati costituiti da certa stampa e certa politica e una base, lo zoccolo duro, formato da determinati pm e giudici. L’alternativa alla Commissione? Probabilmente l’autoscioglimento del Csm, ma appaiono peregrini il pensiero e l’opzione di mandare a casa quei componenti del “governo autonomo della magistratura italiana ordinaria” che spesso “vedono”, sovente ignorano e talvolta si girano dall’altra parte. Il caso Amara docet. Senza questo scatto di orgoglio, ecco che la Commissione resta un faro e un baluardo della democrazia, lo strumento decisivo per comprendere la crisi della giustizia, in attesa di una riforma vera. Palamara non sarà certo un santo, ma nemmeno il demonio come si è sbrigativamente voluto far credere. Non a caso le carte che stanno venendo fuori dimostrano che c’è dell’altro e che il “mostro” ha più teste e testine. Luigi Labruna, su Repubblica di ieri, ha cercato di bacchettarmi sostenendo che la Commissione di inchiesta non serve a nulla. È inutile. Labruna sbaglia e pesantemente. La Commissione contribuirebbe a “studiare” e debellare quello che lui stesso definisce «lercio groviglio Csm-corvi-politica» (e, aggiungerei, avvocati pentiti). È questo il punto: mancano atti e documenti, a eccezione di quelli che spesso marciscono proprio nei bagni dei tribunali o giacciono inevasi nelle scrivanie dei magistrati, per capire gli errori e coprire altri insabbiamenti (il caso Davigo docet due volte) e storture. Dicevo che ieri si è celebrata la giornata della libertà di stampa: i professionisti dell’informazione sono sempre più vittime di pressioni finanziarie e politiche. E di certo non “brillano” i rapporti con settori della magistratura. E se si istituisse la giornata della giustizia? I giornalisti sono chiamati a un’informazione costruttiva: scrivere notizie senza sensazionalismo, polemiche, “bufale” che aiutino le persone a comprendere gli atti e i fatti. La giustizia giusta non avrà mai nulla da temere. È evidente che, ormai da molto tempo, l’intero sistema giudiziario italiano è gravemente malato. Il corpo dell’ordine giudiziario è invaso da pericolose metastasi. L’unico che può curarlo è il detentore della sovranità popolare (e questo non lo dico io, ma lo afferma a chiare lettere la Costituzione italiana), cioè il Parlamento. Lasciamolo lavorare dando vita a una Commissione di inchiesta che sia effettivamente bipartisan e non, come sembra, appannaggio esclusivo del Partito democratico e di Liberi e Uguali (Stefano Ceccanti e Federico Conte sarebbero i relatori). Concludo dicendo che è altamente significativo che la forte e convinta richiesta di una Commissione di inchiesta parlamentare sia partita da Napoli, attraverso Polo Sud: le adesioni hanno superato quota 3mila e 500 in soli sette giorni). Nella nostra città, infatti, il numero di errori giudiziari è altissimo, come il Riformista ha puntualmente segnalato nei giorni scorsi, e la magistratura non ha sempre offerto una buona prova di sé. Ma questo è un altro capitolo che presto affronteremo. Amedeo Laboccetta
Flick: «Commissione sulle toghe? Macché, è inutile: pensino a riformare il Csm». Intervista al presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, che diffida della possibilità di risolvere i problemi della magistratura grazie a «clamorose quanto improbabili rivelazioni nascoste nei verbali». Errico Novi su Il Dubbio il 5 maggio 2021. «Sono passati due anni dalla vicenda rivelata dai trojan nel 2019, anche se già allora a molti nota. Qualcuno vede per caso maturare una autoriforma, tra i magistrati? Non credo ci si possa ancora illudere in una rigenerazione endogena, né del Csm né dell’ordine giudiziario nel suo complesso. Lo conferma l’ultima, deprimente questione dei “verbali avvelenati”. È chiaro che la magistratura ha bisogno di un intervento normativo capace di riformarne l’autogoverno, e l’intervento non può che provenire dall’esterno, dunque dal Parlamento. L’importante è che non si risolva in una commissione d’inchiesta, che invece ridurrebbe tutto a un inutile e forse pericoloso regolamento di conti politico». Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, oltre a sollecitare un’accelerazione sull’ormai leggendaria riforma del Csm, si rifiuta di «fare il pur minimo sforzo per comprendere come siano andate le cose in quest’ultimo conflitto fra il Consiglio e un suo ex componente, o cosa ci sia di attendibile nei verbali. Non mi interessa e non vale la pena di inoltrarsi nell’intrigo, di capire se è una vendetta, o una calunnia, o un maldestro tentativo di intorbidire le acque per difendersi. Di sicuro la gran parte delle persone resta smarrita e confusa come il sottoscritto. Credo basti. Aggiungo solo che insistere nella curiosità febbrile per l’investigazione dei presunti segreti, per l’attesa di una clamorosa rivelazione nascosta nei verbali, tutto questo, al di là delle strumentalizzazioni, di cui anche i media fanno un uso disinvolto, mi pare riproponga l’errore di guardare al dito anziché alla luna. L’unica cosa sicuramente vera è che due anni dopo la vicenda del 2019 qualcuno infligge un ulteriore, grave colpo alla credibilità e autorevolezza della magistratura. Compromette ancora di più la fiducia dei cittadini nella giustizia. Ce n’è abbastanza per smettere di soffermarsi sui dettagli e guardare alla luna anziché al dito».
Perché è un errore dare importanza al caso dei verbali?
Intanto perché la cosiddetta verità su quei verbali potrebbe rivelarsi assai deludente. Non so se vi sia granché, ma non mi aspetto rivelazioni sconvolgenti. È uno scontro di potere, ed è proprio questo il problema. Il Csm rischia di non riflettere più il modello disegnato dai costituenti. Che avevano immaginato un organismo di alta amministrazione dell’ordine giudiziario, dotato di un proprio spazio di discrezionalità e di un potere anche politico definito da limiti rigorosi, ma reso poi indeterminato dalla mancanza di una legge rinnovata sull’ordinamento giudiziario. Da quel modello siamo passati a una crescita abnorme. Siamo passati a un gigante malato?In un certo senso sì. Intanto è il caso di sottolineare la crescita della disinvoltura rispetto all’inosservanza delle regole. Negli ultimi due anni trascorsi dal noto caso del trojan non si è percepito un cambiamento. Mentre per quasi un terzo la componente togata del Consiglio è stata sostituita. Parlo di un potere che nella sostanza è politico e in quanto tale rischia di diventare anomalo. Una distorsione che cresce di pari passo perché strettamente connessa alla crisi di legalità e alla crisi del ruolo del giudice. Assistiamo al continuo ingigantirsi dell’autoreferenzialità della categoria e dei singoli magistrati. Nel segno della correntocrazia, mi pare il termine più congruo. Ma il fenomeno non è comprensibile se non si aggiunge un tassello decisivo.
Quale sarebbe?
Oggi il Csm è un luogo di potere che ha mutuato alcuni aspetti assai negativi dalle prassi della politica. Si pensi alle nomine per gli uffici doppie o triple per accontentare tutti: uno a me, uno a te e il terzo a lui. La scarsa chiarezza nei rapporti fra centro e periferia, la gestione personalistica che prevale sul mandato istituzionale, quando non il vero e proprio abuso. Aspetti che sembrano emergere anche con l’ultima vicenda dei verbali. Certo che un pm è tutelato dalle norme, anche nel senso di potersi rivolgere al Consiglio superiore, ma certo le modalità per ottenere quella tutela non coincidono con quando sembra essere avvenuto.
Però lei dice che il vizio è importato dalla politica.
La patologia si alimenta anche nel rapporto altrettanto anomalo con la politica. E uno dei fattori dell’anomalia è proprio nella scelta dei consiglieri non togati. Secondo la Costituzione devono essere individuati in base all’alto profilo, alle competenze e invece spesso sono scelti fra chi è sì avvocato o professore, ma è innanzitutto organico alla politica tout court. Al di là della composizione dell’attuale Consiglio, a cui non intendo riferirmi in modo specifico, sta di fatto che la parziale elusione del dettato costituzionale ha finito negli anni per trasmettere appunto alcune cattive prassi dalla politica alla gestione della magistratura.
Il mancato rispetto delle regole non si può spiegare solo col cattivo esempio.
Trae origine infatti anche dalla scarsa applicazione della giustizia interna, anche se parzialmente e lentamente migliorata negli ultimi tempi. Già il rispetto dei princìpi deontologici, che attengono alla legalità sostanziale dei comportamenti, potrebbe cambiare le cose. Accanto alla giustizia disciplinare e a quella penale, alcuni comportamenti andrebbero prima ancora sanzionati sul piano deontologico, della cultura della vergogna e della reputazione. Aiuterebbe. Si riferisce all’ultimo caso dei verbali? Assolutamente non mi riferisco ad alcunché di specifico tra le vicende che emergono con preoccupante frequenza. Non mi interessa e non spetta a me indicare colpevoli o distribuire torti e ragioni su casi che oltretutto non conosco. Mi interessa l’impressione di un potere eccessivo e di una sua gestione anomala e autoreferenziale che se ne può trarre da parte dell’opinione pubblica. Mi interessa anche far notare come l’ultima vicenda segnala la difficoltà che la correntocrazia guarisca da sé. La magistratura da sola non ce la può fare.
Ma la politica non è messa meglio: come ci si può attendere che il risanamento arrivi da lì?
Deve arrivare per forza da una riforma approvata in Parlamento, semplicemente non ci sono alternative. A due anni dalla vicenda della primavera 2019 non mi pare che possa ancora esserci chi abbia il coraggio di scommettere sull’autoriforma del Csm.
E se invece lo sdegno suscitasse una risposta dalla base della magistratura?
Certamente la maggior parte dei magistrati italiani lavora con dedizione ed è disgustata dai fenomeni di cui parliamo. D’altra parte non mi pare saggio sperare che l’ordine giudiziario nel suo complesso riesca a rinunciare al grande potere che ha raggiunto.
Serve il sorteggio dei togati?
Serve probabilmente un meccanismo elettorale che riduca il più possibile l’estensione delle circoscrizioni in modo da favorire chi gode della personale fiducia dei colleghi piuttosto che della sponsorizzazione delle correnti. Intendiamoci, non tutte le attività del Csm sono compromesse dalla patologia dell’eccesso di potere, ma quella distorsione, nell’immagine pubblica, appare prevalente sulle tante attività svolte nel rispetto delle regole.
È utile una commissione d’inchiesta parlamentare sulla magistratura?
No. Sa solo di regolamento di conti, alimenta la confusione e nient’altro. Accresce, se possibile, l’anomalia politica in cui versa la magistratura. Crea conflitto fra i gruppi in Parlamento, che ovviamente hanno fra loro idee diverse sul passato dei rapporti fra politica e giustizia. Insomma, complica il quadro. Dal Parlamento dovrebbe invece venire semplicemente una riforma seria dell’ordinamento giudiziario.
Qual è la ricetta?
Guardare al futuro della giustizia anziché al passato dei conflitti. Diffondere un’idea di giustizia basata sulla ricerca paziente della verità, attraverso il dubbio, la consapevolezza dei propri limiti e il bilanciamento degli interessi. Ricordarsi della favola dei porcospini, trovare cioè la giusta misura che consenta di confrontarsi senza farsi male. Di scaldarsi un po’ senza pungersi troppo. Infine, guardarsi dalle suggestioni tecnologiche.
A cosa si riferisce?
Alla cosiddetta giustizia predittiva, all’intelligenza artificiale. Strumenti essenziali ma non valori fini a se stessi. In molti di fronte alla crisi del giudice pensano ci si possa rifugiare negli algoritmi. Ma la funzione giurisdizionale deve sempre tener conto di variabili innanzitutto umane non ripetibili. Proprio perché non ci sono alternative robotiche alla crisi del giudice, essa va risolta in altro modo.
Il Parlamento sarà all’altezza?
Credo si possa intanto riporre fiducia nell’attuale ministra. Non conosco gli esiti della commissione Luciani, non è un compito facile ed è chiaro che il lavoro del Parlamento sarà decisivo. Ma se una cosa buona si può fare subito, è la rinuncia alla commissione d’inchiesta. Confonderebbe solo le idee. E di confusione, sul ruolo e sul potere del Csm ce n’è già così tanta che aggiungerne ancora sarebbe controproducente.
La commissione su toghe e politica? Che bella, inutile, idea…La maggioranza si divide sulla commissione d'inchiesta che deve indagare su magistratura e politica. Ma le commissioni parlamentari non hanno mai, mai, mai risolto nulla. di Aldo Varano su Il Dubbio il 4 maggio 2021. Prosegue, anche se comincia a prendere colpi come fosse già stanco, il dibattito sulla richiesta d’istituire di una Commissione parlamentare d’indagine sulla magistratura per uscire dal caos crescente in cui s’è ficcata. Caos esaltato dal doppio pugno in faccia dei casi Palamara e Amara, ma già evidente da molto tempo con tendenza al peggioramento. A sostegno della Commissione sono intervenuti giuristi prestigiosissimi come Cassese (sul Corsera) e politici con lunga esperienza parlamentare come l’avvocato Giuseppe Gargani (sul Dubbio). Ma non sfugge a nessuno che la proposta, apparsa ormai su molti giornali, sia mescolata a una stanchezza che nasconde male la convinzione che anche questa volta, pur di fronte a una crisi verticale e inquietante, potrebbe non farsene nulla. Sia chiaro, una Commissione parlamentare è sempre legittima. Ma, purtroppo è altrettanto noto e storicamente verificato che quasi sempre è inutile. Sulle circa novanta Commissioni, di Camera, Senato e/o Bicamerali, che abbiamo conosciuto dalla nascita della Repubblica pochissime hanno lasciato tracce decisive sui temi affrontati se si escludono montagne di documenti, spesso preziosi per storici e studiosi ma mai utilizzati per risolvere i problemi in discussione. Ogni Commissione si è conclusa (quando si è conclusa: il fine legislatura, talvolta improvviso, ne decreta comunque la fine e l’automatico scioglimento) con un documento di maggioranza e uno di minoranza dove gli estensori consegnano ai posteri (che difficilmente andranno a leggerle), le proprie posizioni politiche e culturali sull’argomento trattato. E se è vero che ci sono stati casi di Commissioni utilissime che hanno inciso sulla storia del paese facilitando soluzioni e strategie politiche di ampio respiro, come le Commissioni “Sulla disoccupazione”, “Sulla miseria”, “Sulle condizioni dei lavoratori” (rispettivamente di Camera, Senato e Bicamerale) tutte tra il 51 e il 52 del secolo scorso) non si ricordano molti altri analoghi casi positivi. Le Commissioni su P2, disastro del Vajont, terrorismo e stragi, delitto Moro e altre decine ancora hanno lasciato tracce interessanti, ma non hanno mai offerto soluzioni. Un caso a parte è poi quello della Commissione parlamentare antimafia che viene ininterrottamente rieletta a ogni inizio di legislatura diventata appannaggio di politici sul viale del tramonto. Giuseppe Pisanu non può far più il ministro dell’Interno di Fi? Diventerà Presidente della Commissione dell’Antimafia sostituendo Francesco Forgione, Bertinottiano doc eletto per uno strapuntino a Rifondazione comunista. Dopo, avendole giurato guerra Matteo Renzi che pose un veto a qualsiasi suo ingresso al governo, l’Antimafia verrà rifilata a Rosy Bindi. Avrà come successore l’on. Morra del M5s, lì spedito per bloccargli l’aspirazione a ministro dell’istruzione. Diego Gambetta, uno dei più autorevoli studiosi di mafia del Novecento, firmando da Oxford la prefazione a una sua ristampa della Mafia Siciliana (Einaudi) già nel ’93, dopo aver salvato la presidenza di Violante, avvertiva: “Si ha l’impressione che questo istituto, di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia, sia servito come una palestra in cui le forze al governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. Insomma, pare sbagliato pensare che una commissione d’inchiesta sulla magistratura, possa risolvere il problema. O interviene direttamente il legittimo potere della politica o la questione continuerà ad aggrovigliarsi sempre più.
Commissione d’inchiesta sui magistrati, Zanettin: «Tentativo di sabotaggio». I relatori saranno Ceccanti (Pd) e Conte (LeU). Un tentativo di «far abortire» l'iniziativa, secondo il forzista. Ma lo stesso sta accadendo con la legge Zan, il cui relatore è Ostellari (Lega). Il Dubbio il 4 maggio 2021. «I presidenti delle Commissioni riunite prima e seconda di Montecitorio hanno nominato relatori della proposta di legge per la istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della Giustizia gli onorevoli Ceccanti e Conte. Entrambi i parlamentari, appartenenti al gruppo del Partito Democratico e di Liberi ed Uguali, si sono già espressi nelle scorse settimane contro tale commissione di inchiesta. Pare evidente l’intento di far abortite la nostra iniziativa. Di fronte ai gravissimi scandali che coinvolgono la magistratura italiana, c’è chi continua a fare lo struzzo e guarda altrove. Con queste premesse il cammino verso riforme condivise sulla Giustizia appare sempre più arduo e complicato». È quanto afferma in una nota Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia a Montecitorio. La sua paura, dunque, è che sia in atto un tentativo di ammorbidire, se non di cancellare completamente, l’iniziativa di Maria Stella Gelmini, prima firmataria della proposta forzista per indagare sull’uso politico della Giustizia, con particolare riferimento ai processi che hanno riguardato l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma le accuse rivolte ora da Zanettin a Pd e LeU sono le stesse che, nei giorni scorsi, M5S, Pd e LeU hanno rivolto alla Lega, a causa della scelta del presidente della Commissione Giustizia al Senato, il leghista Andrea Ostellari, di autonominarsi relatore del ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia che tanto sta facendo discutere e che il centrodestra ha tentato di ostacolare, ritardando la sua calendarizzazione al Senato a colpi di polemiche. La Commissione sulla magistratura, nel fine settimana, è tornata a far discutere dopo la notizia del dossieraggio interno al Csm. Si tratta dei verbali delle testimonianze rese dall’avvocato Piero Amara, il principale accusatore a Perugia dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e poi, dalla sua segretaria, Marcella Contrafatto, a Repubblica e Fatto quotidiano, che hanno consegnato i plichi anonimi ricevuti in Procura. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e da Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni- Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta – la loggia Ungheria – composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare a Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela. La legge istitutiva della Commissione d’inchiesta verrà calendarizzata la prossima settimana in Commissione giustizia alla Camera. Ma M5S e Pd saranno disponibili a trattare soltanto a patto che non si tratti di una revisione degli ultimi 25 anni di storia politica, riletti con la lente delle vicende giudiziarie che hanno scandito ascesa e crollo dei vari governi. «Abbiamo espresso la nostra preoccupazione soprattutto alla luce della proposta Gelmini – ha spiegato al Dubbio Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia -. È un testo che si presta a molti rischi, perché più che una Commissione d’inchiesta sembra una Commissione di natura inquisitoria nei confronti della magistratura, destinata ad una verifica dei rapporti tra politica e magistratura degli ultimi 20- 30 anni, con la malcelata volontà di rimettere in discussione anche alcune vicende giudiziarie che hanno colpito alcuni esponenti politici». Una cosa pericolosa, secondo il Pd, sia per la necessità di rispettare in maniera rigorosa il principio di separazione dei poteri, ma anche per il rischio di innescare un «conflitto» tra politica e magistratura, anziché disinnescarlo. «In questo momento, tornare indietro alle lacerazioni che ha conosciuto il nostro Paese sotto questo profilo non ci pare una cosa utilissima», aggiunge Bazoli. A preoccupare è soprattutto la relazione introduttiva della proposta Gelmini, di natura «provocatoria», in quanto rappresenta quasi «un atto d’accusa nei confronti della magistratura che avrebbe fatto fuori i leader di centrodestra. Quella relazione rappresenta in modo molto evidente l’uso politico della giustizia».
Scontro sulla commissione. I relatori tutti di sinistra. Lodovica Bulian il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Inchiesta parlamentare sulle toghe: nominati solo esponenti giallorossi. Il centrodestra insorge. L'ultimo terremoto sulla magistratura scuote anche la politica con la richiesta di una commissione di inchiesta fortemente voluta dal centrodestra. Lo scontro all'interno della maggioranza si innesca sulla nomina dei due relatori espressione della sinistra al governo: l'incarico è stato affidato a Stefano Ceccanti (Pd) per la commissione Affari costituzionali e a Federico Conte (Leu) per la commissione Giustizia. Forza Italia, Lega e Fdi insorgono. Così come Enrico Costa di Azione: «Il presidente 5 stelle della Commissione Giustizia ha nominato i seguenti relatori: al ddl penale un deputato Pd ed uno M5s, al ddl riforma del Csm un Pd ed un M5s, per la commissione d'inchiesta sui magistrati un Pd ed un Leu - dice - Non vogliono che altri ci mettano le mani. O non si rendono conto della gravità del momento o hanno qualcosa da nascondere». Ora il rischio è che lo scontro si sposti anche sul terreno già incandescente della riforma della giustizia: «Due relatori su due di sinistra rappresentano un precedente pericoloso. La scelta assurda di nominare uno del Pd e uno di Leu per le proposte di legge di Lega, Fi e Fdi sull'avvio di una Commissione d'inchiesta sull'uso politico della magistratura è una follia - attaccano il capogruppo della Lega in Commissione Giustizia Roberto Turri e Igor Iezzi, capogruppo in commissione Affari costituzionali - Peraltro il duo Conte-Ceccanti aveva già espresso parere contrario all'istituzione di questa commissione. Il presidente Fico non ha nulla da dire? Una infrazione dei rapporti parlamentari all'interno della maggioranza che sostiene un governo di unità nazionale di cui terremo sicuramente conto». A esprimere i due relatori sono stati il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia (M5s) e della commissione Giustizia Mario Perantoni (M5s). Che replicano a stretto giro: «I relatori svolgeranno il loro lavoro per le commissioni e non per parti di esse, è scorretto un giudizio preventivo di alcuni colleghi su quanto andranno a fare - dicono in una nota congiunta -. Noi confermiamo la nostra fiducia in Federico Conte e Stefano Ceccanti e siamo certi che faranno un ottimo lavoro». Non basta, perché ormai il fuoco è divampato. Il capogruppo azzurro a Montecitorio Roberto Occhiuto ricorda che «noi sostentiamo convintamente un governo di unità nazionale, ma non siamo azionisti di minoranza all'interno della maggioranza: pretendiamo rispetto e pari dignità». E Maurizio Gasparri (Fi) chiede chiarezza sul ruolo dell'ex magistrato Piercamillo Davigo: «Una faida che coinvolge protagonisti di primo piano della storia giudiziaria italiana. I nomi sono sui giornali da giorni e giorni. La vicenda che ha visto protagonista Greco, Davigo ed altri, giunge a lambire il Quirinale. Davigo dice di avere informato chi di dovere. Vogliamo sapere con chi ha parlato e cosa ha detto». E ancora: «Salvi (procuratore generale della Cassazione, ndr) ha fatto un comunicato, ma deve spiegare di più, anche dei suoi rapporti precedenti con Palamara. Il Quirinale è stato informato? Ha agito?».
L'Anm contro la commissione d'inchiesta sulla giustizia. Sabrina Cottone il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Il presidente Santalucia: "Chat di Palamara? Mai insabbiato". La commissione parlamentare d'inchiesta sulla magistratura trova una forte resistenza tra i giudici rappresentati dall'Associazione nazionale magistrati. A parlare è il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, che lancia un vero e proprio attacco alla nascita dell'organismo che divide il Parlamento: «Si pretende di ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato, nutrendo l'opinione pubblica del malizioso sospetto, ad arte enfatizzato, che la magistratura in tutti questi anni sia stata al servizio di una parte politica per avversarne, con metodi eversivi, un'altra». È lui stesso a ricordare come una parte delle forze politiche presenti in Parlamento (ovvero Lega, Fi, Fdi e Iv, ndr) si favorevole mentre «opinion leader di peso ne legittimano l'opera e le finalità». Santalucia teme un isolamento e una delegittimazione dell'operato dei giudici e parla di «una farlocca ricostruzione dei rapporti con la politica, alimentata da quanti da troppo tempo insidiano l'autonomia e l'indipendenza della magistratura», in nome della quale «si vuole un'inchiesta parlamentare che dovrebbe sostanzialmente mettere sotto accusa i magistrati che si sono impegnati in difficili processi». Secondo il presidente dell'Anm, che ha aperto la riunione del comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe, è il contrario: proprio questi processi hanno costretto i magistrati a «ingiuste e pesanti sovraesposizioni personali, che infine si sono conclusi con accertamenti irrevocabili nel rispetto delle regole e dei diritti». Santalucia ha poi respinto le accuse di «insabbiamento» relative ai documenti ricevuti dall'Anm sulle chat di Palamara e sul modo in cui lui ha deciso di gestirne i contenuti, ovvero evitando di consegnarne una copia integrale. «Trovo inaccettabile, e segno del deprecabile degrado del linguaggio e dei comportamenti, che per questa vicenda io sia stato pubblicamente accusato di insabbiamento» ha detto, ricordando che nei giorni scorsi è stato «investito da una polemica» che non gli ha risparmiato «offese e contumelie personali», «con toni diffamatori e con una progressione violenta che dovrebbe restare estranea alla vita associativa dei magistrati». Il gruppo Articolo 101 aveva infatti richiesto una copia della documentazione ricevuta dall'Anm sulle chat di Palamara nell'inchiesta di Perugia. Santalucia ha invece invitato a frenare le polemiche sulla riforma del Csm e della giustizia, così da avere un ruolo costruttivo in cambiamenti ritenuti necessari. «Trovo avvilente - le sue parole - che la polemica violenta di alcuni sappia monopolizzare la scena, facendo sì che il dibattito rischi di essere rinchiuso in una bolla di accuse infondate e di ripicche personali, mentre fuori fervono i lavori ai tavoli di riforma del giudizio civile, del giudizio penale, del Consiglio superiore della magistratura».
Le toghe contro la commissione d’inchiesta: «A rischio la nostra indipendenza». Il Dubbio il 24 aprile 2021. Anm e Area contro l'iniziativa assunta a Montecitorio di una commissione parlamentare d’inchiesta sull'uso politico della giustizia. «In nome di una farlocca ricostruzione dei rapporti con la politica, alimentata da quanti da troppo tempo insidiano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si vuole una inchiesta parlamentare che dovrebbe sostanzialmente mettere sotto accusa i magistrati che si sono impegnati in difficili processi, processi che li hanno costretti a ingiuste e pesanti sovraesposizioni personali, che infine si sono conclusi con accertamenti irrevocabili nel rispetto delle regole e dei diritti». A dirlo è il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, aprendo la riunione del comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe. «C’è chi tra noi plaude a questa iniziativa, che mostra di non comprendere la palese strumentalizzazione del momento di oggettiva difficoltà in cui versa la magistratura da parte di chi pensa che possa realizzarsi l’obiettivo storico di ridimensionarne il ruolo e lo statuto costituzionale di garanzie», avverte Santalucia ricordando che «una parte delle forze politiche presenti in Parlamento vuole istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura, e opinion leader di peso indiscusso ne legittimano l’opera e le finalità». Secondo il presidente del sindacato delle toghe, «si pretende di ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato nutrendo l’opinione pubblica del malizioso sospetto, ad arte enfatizzato, che la magistratura in tutti questi anni sia stata al servizio di una parte politica per avversarne, con metodi eversivi, un’altra». «Io scorgo in queste posizioni associative una forma, consapevole o meno non importa, di pericoloso collateralismo con la politica», conclude Santalucia. «L’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia confligge con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (voluti dal legislatore costituente a beneficio non dei magistrati ma della collettività), soprattutto se volta a riscrivere o, peggio, a piegare la verità storica di venti anni di attività giudiziaria alle mistificazioni di un instant book», scrive in un documento il Coordinamento di Area democratica per la Giustizia, il gruppo delle toghe progressiste, secondo le quali «si tratta di un’operazione di pura strategia mediatica che vorrebbe accreditare, con affermazioni apodittiche e indimostrate, che nei processi riguardanti leader nazionali e partiti del centro destra, l’azione giudiziaria sia stata condizionata dal presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano e, addirittura, orientata verso la persecuzione di parti politiche avverse, paralizzando, così, qualsiasi iniziativa ai danni dei partiti di sinistra». I magistrati di Area, dunque, si dicono «fermamente convinti» che «una simile ricostruzione non abbia alcuna credibilità pubblica, nè possa fondare la ragion d’essere di un organo istituzionale come una commissione d’inchiesta che voglia essere autorevole e consapevole della storia. Ovvie – aggiungono – sono le finalità di tale iniziativa: riscrivere l’esito di vicende giudiziarie suggellate da sentenze definitive, utilizzando qualsiasi argomento, ancorché lontano dalla verità storica e giudiziaria, per mettere in discussione l’indipendenza di pensiero di quei tanti magistrati se ne sono occupati, mai omologabili in quelle tesi precostituite che la manipolazione mediatica vorrebbero accreditare». In tale quadro, proseguono le toghe progressiste, «è inaccettabile che tale iniziativa sia apertamente sostenuta da rappresentanti della lista 101 che siedono nel cdc dell’Anm, e che questo gruppo, aderendo apertamente, a simili mistificazioni, tradisca il ruolo nel quale ha sempre affermato di riconoscersi, ossia di contribuire alla tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura. Tale contraddittoria scelta dimostra, semmai – conclude il documento di Area – un inaccettabile collateralismo con le forze politiche che sostengono un simile progetto di mistificazione della storia giudiziaria del Paese e che AreaDg respinge con determinazione».
Articolo 101: «Non abbiamo chiesto noi una commissione, ma necessario indagare sul correntismo». Il J'accuse della corrente ribelle delle toghe: «Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze». Il Dubbio il 25 aprile 2021. «La lista ArticoloCentouno non ha nulla a che fare con nessuna proposta di commissione d’inchiesta. E vero invece che, nell’ambito di considerazioni di portata molto più vasta, una commissione di inchiesta sulla materia del correntismo e sulla degenerazione correntocratica dell’autogoverno della magistratura è stata considerata auspicabile nella lettera aperta al Presidente della Repubblica che qualche mese fa è stata sottoscritta da oltre cento magistrati». E quanto precisa una nota a firma dei quattro componenti eletti nella lista Articolo Centouno al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, Maria Angioni, Giuliano Castiglia, Ida Moretti e Andrea Reale, replicando a quanto sottolineato in un documento di Area democratica per la giustizia che «mistifica slealmente la realtà». «Istituire commissioni di inchiesta su materie di interesse pubblico è una prerogativa costituzionale del Parlamento» ricorda la nota, ed «è evidente» che «una commissione d’inchiesta giammai potrà servire a rifare in altra sede processi o a ribaltare sentenze definitive». «Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze – denuncia Articolo Centouno- Rifuggiamo il collateralismo politico nei fatti e respingiamo il ricatto morale secondo cui non si devono denunciare e affrontare i gravissimi problemi che affliggono l’autogoverno perché vi è il rischio che tali denunce possano essere strumentalizzate». «La degenerazione correntocratica ha raggiunto livelli gravissimi e rende detto ricatto, sempre deleterio, ancor più intollerabile. E semplicemente risibile, poi – incalzano i componenti di Articolo Centouno- che l’accusa di collateralismo politico provenga da chi, all’interno della magistratura, ha storicamente rappresentato l’alter ego di partiti politici e, definendosi espressamente “soggetto politico” e così tradendo platealmente il dovere di indipendenza esterna e di imparzialità della giurisdizione, ha sempre sostenuto, in palese contrasto con la Costituzione, il ruolo “politico” del Consiglio superiore della magistratura». «Comprendiamo che recenti eventi che hanno visto negativamente coinvolta AreaDG, come la sconfitta elettorale nelle ultime elezioni suppletive del Csm e la pubblica emersione di condotte censurabili nei confronti dei componenti del Comitato direttivo centrale compiute dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia (appartenente ad AreaDG), possano aver generato un certo nervosismo e la scomposta aggressività che contrassegna gli ultimi interventi di quel gruppo e dei suoi appartenenti. L’invito, a tutti – conclude il gruppo di Articolo Centouno – è a recuperare un minimo di controllo della realtà, constatando che se le istituzioni giudiziarie sono giunte al minimo storico della loro credibilità non è certo per colpa delle dita di quattro componenti del Cdc che indicano la luna; l’invito a tutti è a rimboccarsi le maniche e a decidere, finalmente, che è il momento di intraprendere la strada che possa effettivamente porre rimedio a quei mali che ormai non possono più essere nascosti sotto i tappeti dell’ipocrisia».
«Commissione d’inchiesta? Quella su noi toghe è destinata alla paralisi». Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, stronca la commissione parlamentare d’inchiesta che sta per essere istituita a Montecitorio, con l’accordo di tutti i partiti di maggioranza: «È legittimo che il primo potere, il Parlamento, indaghi su noi magistrati, che siamo il terzo, ma la legge istitutiva non indica i casi concreti su cui fare luce, richiesti dalla Costituzione». Errico Novi su Il Dubbio il 24 aprile 2021. Legittima? «Certo». Utile? «Dipende: se ci si sofferma sugli obiettivi dichiarati nella proposta di legge per istituirla, quella sull’uso politico della giustizia sembra tutto fuorché una commissione d’inchiesta». Edmondo Bruti Liberati è stato procuratore della Repubblica a Milano proprio negli anni delle grandi tensioni sulle inchieste che hanno riguardato la politica, e Berlusconi innanzitutto. Rappresenta insomma una “controparte naturale” dell’iniziativa appena assunta a Montecitorio sotto la spinta del centrodestra. Ma non nasconde le proprie perplessità.
Vede vizi di legittimità, in questa commissione?
La giustizia è senz’altro una “materia di interesse pubblico” su cui, come previsto dall’articolo 82 della Costituzione, il Parlamento può istituire una Commissione di inchiesta. Ciò è accaduto, con esiti diversi, in molte occasioni. Hanno riguardato grandi tematiche come la mafia o le stragi, o un oggetto più specifico come quella sul “rapimento e sulla morte di Aldo Moro”. Queste commissioni d’inchiesta hanno indagato su fenomeni e accadimenti oggetto anche di indagini e processi.
E si sono rivelate utili per l’attività giudiziaria?
In non pochi casi hanno fornito spunti e impulsi all’azione della magistratura e anche argomentate critiche su indagini e processi. E infine, cosa non marginale, hanno sollecitato al legislatore stesso opportune riforme. Nessuna preclusione quindi che il “primo potere”, il Parlamento, indaghi sul “terzo potere”, la magistratura.
E quindi qual è il suo giudizio sulla commissione che partirà a breve?
Si tratta di vedere qual è il compito di una Commissione che, come ancora detta l’articolo 82 Costituzione, per il fatto di procedere “alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria” deve avere oggetto ben definito. È stato detto che “il Parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna”. Ma una Commissione d’inchiesta è, appunto, una commissione di “inchiesta”. Non è un dibattito parlamentare, non è una analisi sociologica o politologica, non è un seminario di studi.
È questo il rischio che vede?
Quella proposta con atto Camera numero 2565, prima firmataria onorevole Gelmini, è tutto tranne che una “commissione d’inchiesta”: lo tradisce già il titolo che ne fissa l’oggetto “sull’uso politico della giustizia”. E se non bastasse, basta leggere i compiti attribuiti all’articolo 1: “Lo stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura” ( lettera a) nonché “lo stato dei rapporti fra la magistratura e i media” ( lettera b). Temi oggetto in Italia, in Europa e nel mondo di una letteratura sterminata, e bene potrebbero essere oggetto di tesi di dottorato, ove brillanti ricercatori apportino nuovi approfondimenti su temi mai sufficientemente arati. Ma una commissione d’inchiesta è altra cosa.
Teme insomma che la genericità degli obiettivi vanifichi l’iniziativa?
L’articolo 1 della proposta, con l’apparenza di prefigurare indagini su “casi concreti” sembrerebbe voler rientrare nei limiti della commissione d’inchiesta. Ma i “casi concreti” la cui esistenza si dovrebbe accertare riguardano di tutto e di più. “Esercizio mirato dell’azione penale o di direzione od organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale”. Quali procedimenti? Scelti a campione? In quali sedi? Sorteggiati?
Dice che non si può lavorare su presupposti simili?
“Mancato o ritardato esercizio dell’azione penale a fini extragiudiziari, in violazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale” ( lettera g). Ancora più ampio il campo: esercizio ritardato in quali procedimenti? E soprattutto “mancato esercizio”: qui si indaga non su ciò che comunque è stato, ma su ciò che non è stato. Sollecitare tutti i cittadini insoddisfatti a riproporre le loro denunzie? Non è finita qui.
Cos’altro ha notato?
“Influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale, nella composizione degli organi giudiziari e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti penali nei quali siano coinvolti capi politici e esponenti politici di partiti” ( lettera h). Anzitutto selezioni dei procedimenti: “Capi politici”, ma perché non anche i peones, e perché non anche gli amministratori locali? E all’esito di questa difficile selezione inizierebbe il compito immane di ridiscutere la competenza territoriale, magari già oggetto di decisione in primo grado, in appello e in cassazione e poi addirittura di riesaminare i calendari di udienza e quindi il presupposto, la complicata materia delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari.
Lei stronca senza appello.
Non sono mancate nella storia repubblicana anche recente, commissioni d’inchiesta che non hanno approdato a nulla o che, pur istituite, non hanno di fatto operato. Se questa commissione volesse davvero investigare sui “casi concreti” come sopra in- definiti sarà destinata alla paralisi.
Però è indiscutibile l’urgenza di guardarsi negli occhi e superare la crisi, che dura da trent’anni, nei rapporti fra politica e ordine giudiziario. O no?
Nessuno vuole eludere problemi della giustizia e cadute nella magistratura. Ma vi sono proposte di legge pendenti in Parlamento, e la ministra Cartabia ha istituito una commissione di studio proprio sul tema dell’ordinamento giudiziario e della riforma del Csm. Questi sono temi “concreti” sui quali il Parlamento sarà chiamato a pronunziarsi, e sui quali si aprirà un dibattito e un confronto tra le diverse posizioni. E infine, non credo sia parlar d’altro, il ricordare che sulla nostra affannata macchina della giustizia si sono abbattuti gli ulteriori ritardi e problemi dovuti alla pandemia. Riorganizzare la ripresa che speriamo prossima, portare a regime le esperienze utili di semplificazione indotte dalla pandemia, abbandonare quelle meramente emergenziali. Proporre quali investimenti nel quadro del Recovery si debbano fare per la giustizia. Ecco terreni di impegno ineludibili e urgenti. Molte sono le proposte in campo tra le quali segnalo quella, molto “concreta”, elaborata da magistrati, avvocati, professori ed esperti di organizzazione, tradotta nel “Libro Bianco Giustizia 2030”, visitabile su www. giustizia2030. it, presentato in questi giorni.-
«Altro che commissioni d’inchiesta: bisogna togliere al Csm la funzione disciplinare». Uso politico della giustizia, intervista all'avvocato Gaetano Pecorella, ex presidente della Commissione giustizia alla Camera. Simona Musco su Il Dubbio il 24 aprile 2021. «L’uso politico della Giustizia è una fenomeno che ha attraversato il mondo da Cicerone ad oggi. Le Commissioni d’inchiesta possono servire, ma che il Parlamento si metta a indagare sui giudici rispetto a sentenze politiche mi pare una di quelle iniziative che sfociano in niente. Perché non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni?». A parlare è Gaetano Pecorella, avvocato – difensore, tra gli altri, dell’ex premier Silvio Berlusconi – ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera dal 2001 al 2006. Convinto che indagare sull’uso politico della Giustizia, così come proposto da Mariastella Gelmini, prima firmataria del progetto di legge per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, non porti a nulla. Piuttosto, spiega al Dubbio, sarebbe necessario intervenire sul Csm, con la creazione di una Corte Suprema in grado di giudicare in maniera davvero imparziale l’operato dei magistrati. «Palamara ha scoperto l’acqua calda – sottolinea -. Ma fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. È compito degli storici e dei giornalisti indagare su come sono andate le cose».
Professore, cosa ne pensa della proposta di una Commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura?
Credo sia una di quelle iniziative destinate a sfociare nel nulla. Può essere utile, ma alla fine il risultato sarebbe una bella relazione che nessuno leggerebbe e diventerebbe occasione di scontro politico. Come andrebbe, si chiamerebbero a testimoniare i magistrati che hanno emesso sentenze politiche? Il Parlamento ha cose più serie di cui occuparsi in questo momento e non vicende come quella di Grillo o processi del passato. Un conto è Mani Pulite, che ha tagliato alle radici un intero sistema politico, un altro un singolo processo.
La proposta a prima firma Gelmini parte dal caso Palamara e dalle rivelazioni emerse con riferimento alle vicende che, nel 2013, hanno portato alla condanna di Silvio Berlusconi e alla sua decadenza da senatore per frode fiscale.
Secondo me fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. Il processo c’è stato, andrebbe lasciato allo storico, al giornalismo, il compito di fare queste cose. Io ero difensore di Berlusconi, potrei essere ben contento che si dimostrasse che è stata studiata a tavolino la condanna a tutti i costi, però francamente, fare un processo politico sul processo politico mi sembra una classica invenzione italica. Se si vuole fare un’inchiesta la si faccia sul cattivo o buon funzionamento della Giustizia. Anche questa mi sembra una di quelle iniziative che fanno rumore al momento e poi scompaiono. Poi chi bisognerebbe sentire, oltre Palamara? Tutti quelli che hanno messo sotto processo Berlusconi? Mi pare un’iniziativa inutile, soprattutto in questo momento, in cui ci vorrebbe una grande unità delle forze politiche per tirarci fuori da questa situazione drammatica. Andare a creare momenti di frizione politica non mi pare proprio una buona idea, in generale.
Ma dato quanto emerso con il caso Palamara non sarebbe il caso di fare un approfondimento?
Palamara ha scoperto l’acqua calda. Le cose che scrive in alcuni casi sono elementi specifici, ma il sistema noi avvocati lo abbiamo denunciato da tempo. Gli intrighi tra magistratura e politica sono cose note. Quando mai si può pensare che le correnti non siano collegate ai partiti se addirittura hanno una collocazione politica? Ora, in un libro, ci sono cose che abbiamo conosciuto o immaginato o in qualche modo già saputo. Per un avvocato, che la scelta della dirigenza di uffici importanti è in mano alla politica è una cosa pacifica. La magistratura non vuole essere separata tra inquirenti e giudicanti mica per un fatto tecnico, ma perché vuole essere un corpo politico, una forza che va dalla Cassazione fino all’ultimo giudice singolo. Scoprire oggi, grazie a Palamara, l’uso politico della Giustizia mi pare una sciocchezza. Ogni processo che tocca l’area politica diventa un processo politico o viene creato apposta per colpire quell’area politica. I politici se ne sono accorti oggi e vorrebbero interrogare chi, i magistrati? Si può pensare che vengano ad ammettere responsabilità simili? Palamara lo ha fatto perché è stato buttato fuori. È la sua vendetta, ma certamente tutti quelli che sono in magistratura non diranno mai nulla, tranne casi sporadici. Ma se uno che ha fatto Mani Pulite diventa senatore del Pd, se un magistrato diventa presidente del Senato o presidente di una casa editrice, questo non ci dice niente?
Per fare luce su questo uso politico della Giustizia quale dovrebbe essere il metodo?
Ha funzionato bene il metodo Palamara, ovvero il lavoro di un bravo giornalista d’inchiesta. Ma non credo che i politici che sono stati l’oggetto di questa politicizzazione della magistratura possano indagare. Mi pare che siamo un po’ al grottesco. Probabilmente ci sono altri sistemi. Se si vuole fare un po’ di polverone questa commissione d’inchiesta si può anche fare, ma che la politica messa sotto processo dai giudici metta sotto processo i giudici mi sembra una cosa da commedia all’italiana.
Pd e M5S hanno contestato il fatto che esiste già il Csm per “indagare” sul comportamento della magistratura. Hanno ragione?
È un’obiezione senza alcun fondamento. E lo sappiamo prima di tutto dal fatto che anche i componenti del Csm sono stati coinvolti nella vicenda Palamara, in secondo luogo perché sappiamo che la grandissima parte degli esposti contro i magistrati vengono tendenzialmente archiviati. Ma soprattutto sappiamo che la giustizia domestica è fatta in modo da proteggere e non da punire. C’era una mia proposta di legge costituzionale, che era anche l’idea di Violante, di fare la Corte Suprema di Giustizia, composta per un terzo da magistrati, un terzo da professori universitari, un terzo da avvocati, con una funzione disciplinare distinta dal Csm. Il Csm non può essere un organo disciplinare: finché ci sarà la commistione tra chi deve punire e chi fa le nomine non potrà giudicare, perché una cosa condizionerà l’altra. E poi chi mai emetterebbe una sentenza che domani potrebbe essere applicata a se stesso? Ci sarà sempre una mano molto leggera.
Durante questo dibattito, era stata proposta anche una commissione “mista”. Potrebbe essere una soluzione?
Tutte le commissioni d’inchiesta hanno al loro interno consulenti esterni. Si può fare, ma alla fine chi decide che cosa mettere nelle relazioni è sempre il Parlamento. Non può essere la componente esterna. Il Parlamento lo sa benissimo che il Csm funziona a modo suo e che deve fare un organo con una maggioranza esterna alla magistratura e basterebbe questo. Quello sì che potrebbe fare le inchieste. Un organo costituzionale, con tutte le garanzie. Ma non un organo nominato dal Parlamento.
Quindi ciò che serve è la riforma del Csm.
La riforma da fare è togliere al Csm la sezione disciplinare, da affidare ad un altro organo. Modificare le forme elettorali, perché finché le correnti domineranno il Csm lo stesso sarà un organo politico. Sono contrario all’estrazione a sorte, perché non si estrae a sorte l’intelligenza o la preparazione, ma oggi il Csm non è espressione della magistratura, ma delle sue correnti politiche e quindi è un organo politico. E come tutti gli organi politici non è imparziale, ma segue le esigenze politiche. Perché il Parlamento non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni? Faccia una riforma costituzionale, istituendo una Corte Suprema, con il compito di giudicare magistrati e avvocati.
Secondo il giurista Cassese una commissione d'inchiesta che indaghi sulla magistratura è legittima: "In questi anni ha sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità". Il Dubbio il 24 aprile 2021. “Non è solo in Italia che si discute dei rapporti tra la politica e le toghe e non è solo in Italia che si conta su una commissione per studiarli”. Inizia così il lungo articolo che Sabino Cassese ha dedicato alla “commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura” che in queste settimane ha diviso la maggioranza. “È quindi utile fare qualche riflessione sia sulla legittimità, sia sull’opportunità di un’inchiesta parlamentare sulla giustizia”, spiega Cassese. Il quale tira immediatamente in ballo l’articolo 82 della Costituzione che “prevede che ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse”. E non c’è dubbio che quella dei rapporti tra politica e giustizia sia tale. “L’argomento che il Parlamento non possa indagare sulla giustizia – spiega Cassese – perché questa appartiene ad un altro potere, dimostra troppo. Se fosse corretto, i giudici, a loro volta, non potrebbero indagare né parlamentari, né amministratori pubblici, che sono parte, rispettivamente, del potere legislativo e di quello esecutivo”. Ma poi Cassese si spiega: “Se è legittimo che il Parlamento avvii una inchiesta sui rapporti tra politica e giustizia, è anche opportuno farlo? La situazione della giustizia, oggi, in Italia è peculiare. Da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro ad una crescente inefficacia della giustizia.Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della «governance» nazionale; che vi sia una indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingenetiche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione, con una presenza continua nello spazio pubblico.Nella situazione ora descritta, un posto particolare hanno acquisito le procure, tanto che molti esperti parlano di una «Repubblica dei pm», divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, rubando la scena mediatica, avvalendosi della «favola» dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una «Repubblica giudiziaria»” “Dall’altra parte, mentre la magistratura continua la politica malthusiana di reclutamento e sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità, il processo è in crisi per la sua lentezza. La Commissione sull’efficacia della giustizia, del Consiglio d’Europa, ha valutato che per concludere un processo civile nei tre gradi sono necessari più di 7 anni e per un processo penale più di 3.” “Il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto. Conclusione: è consigliabile avviare una inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia”, conclude Cassese.
La stoccata ai pasdaran delle toghe. La sciabolata di Cassese: “Serve commissione d’inchiesta sulla magistratura”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Aprile 2021. Se negli Stati Uniti, dove esiste una reale solida inossidabile separazione tra i poteri dello Stato, il presidente Biden ha potuto istituire una commissione di inchiesta sulla Corte suprema, potrà ben il Parlamento italiano votare un istituto analogo sui rapporti tra la magistratura e la politica, o no? Il quesito è posto, come domanda retorica, dal giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, che fa propria, arricchendola di argomenti che discendono direttamente dalla sua competenza “professionale”, la proposta di legge dell’intero centrodestra di un anno fa, cui si sono ora associati i deputati di Italia Viva e Azione. Dopo un vero braccio di ferro con quelli che si possono ormai definire gli ambienti più conservatori del Parlamento in tema di giustizia, cioè Pd, Movimento cinque stelle e Leu, i capigruppo dei partiti sostenitori della necessità di creare una commissione speciale su politica-giustizia, hanno ottenuto che per lo meno si metta in calendario la proposta. Se ne parlerà nelle commissioni giustizia e affari costituzionali ai primi di maggio. Sabino Cassese ha dato intanto una sciabolata di quelle che non consentono replica agli argomenti più banali e superficiali dei partiti di sinistra. Tralasciamo le proteste degli indignati Cinque Stelle, che con Travaglio e l’ex magistrato Giancarlo Caselli parlano di un torbido tentativo di “regolamento dei conti”, una sorta di vendetta di una classe politica, che si suppone sempre impura e corrotta, che cercherebbe di mettere la mordacchia alle toghe. E diamo per scontato anche l’argomento un po’ trito e ritrito di un altro magistrato, Nino di Matteo il quale, pur dicendosi in linea generale sempre favorevole a “inchieste e approfondimenti in sede parlamentare”, non solo ritiene la sede naturale per questo tipo di indagini il Csm (e in teoria avrebbe ragione) ma paventa sempre l’attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura. Mai che si parli di imparzialità. Il discorso è sempre lo stesso: giù le mani dalle toghe. Ma quel che preoccupa è che la sinistra intera, cioè il Pd e Leu, faccia proprie queste tesi così difensive, così fuori dal tempo e dallo spazio, come se nel settore giustizia non fosse successo proprio niente in questi anni, da mostrare come in questa parte intera della politica non ci siano neppure più le contraddizioni che un tempo erano terreno di confronto tra garantisti e giustizialisti. Quando si sente un deputato del Pd come Michele Bordo, una carriera tutta nel partito fin dal Pci in cui entrò sedicenne, dire che non si è mai visto un potere dello Stato che indaga su un altro, e che c’è il sospetto che Forza Italia, Lega e FdI vogliano rifare i processi dell’ultimo ventennio, vien voglia di rispondergli “magari!”, pur sapendo che non è quello il compito della commissione d’inchiesta. Ma la cosa migliore è fargli rispondere da Sabino Cassese. E anche dal Presidente degli Stati Uniti, uno come Biden che dovrebbe piacergli, si suppone. Che sia legittimo da parte di ciascuna Camera poter disporre inchieste su temi di pubblico interesse lo dice a chiare lettere l’articolo 82 della Costituzione. E qualcuno potrebbe negare che il rapporto tra la giustizia e la politica rientri tra gli argomenti di pubblico interesse? E per quale motivo un potere dello Stato come il Parlamento non dovrebbe poter svolgere indagini su un altro, visto che la Magistratura lo fa continuamente nei confronti di deputati e senatori? Viviamo momenti in cui pure se la classe politica non è alle stelle nel gradimento dei cittadini italiani, lo sconcerto suscitato dalle notizie uscite dall’affaire Palamara, con le toghe che appaiono ogni giorno interessate più a tessere trame e complotti e a occuparsi più della propria carriera che non di garantire una giustizia giusta ai cittadini, fa sì che giudici e pubblici ministeri non godano più di grande stima. Siamo tornati ai tempi di Enzo Tortora e di un referendum sulla responsabilità civile il cui risultato fu poi svilito da una inutile legge che non ha mai fatto tremare nessun magistrato. Certo, dovrebbe essere il Csm a disporre una bella inchiesta sull’uso politico della giustizia. Ma non solo non ha nessuna intenzione di farla, ma si arrocca nella protezione della specie, dopo aver espulso l’unico corpo estraneo, il reprobo Palamara che ha osato rompere la solidarietà di casta. Grazie a questa serrata autodifesa corporativa e a un’enfatizzazione smisurata del potere dei pubblici ministeri, ci troviamo in una situazione paradossale, per cui mentre l’amministrazione della giustizia è a livelli infimi nell’opinione pubblica, il potere delle toghe, giudicanti o requirenti che siano, appare sempre più smisurato. Un potere ormai disabituato a misurarsi con la competenza e con i risultati. Fa parte della conoscenza ormai di tutti il fatto che la lunghezza dei processi, civili e penali, scoraggia gli imprenditori di altri Paesi dal venire a investire in Italia. E anche –le statistiche sono da film dell’orrore- che quasi nessun magistrato paga per i propri errori o le proprie negligenze. Se un pubblico ministero americano uscisse sconfitto in tutte o quasi le cause, dopo aver fatto perdere tempo e denaro allo Stato, sarebbe immediatamente cacciato. Già ma lì i pm sono in gran parte eletti. Qui sono autonomi e indipendenti. Non devono rendere conto a nessuno e fanno carriera comunque si siano comportati. E il fatto che i vertici della magistratura vengano nominati dal Csm in base alle appartenenze politiche o di corrente sindacale, non fa parte dell’uso politico della giustizia? E siamo sicuri che certe trascuratezze, certe dimenticanze, certe moratorie concesse a qualche amministratore o parente di leader di partito, oppure al contrario certe accelerazioni quando l’indagato è un politico non gradito, siano così innocenti? Stiamo parlando di un potere che forse non sarebbe cresciuto in modo così smisurato senza il sostegno benevole ed entusiastico del grande circo barnum dell’informazione. Lo abbiamo visto anche nei giorni scorsi. Una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia dovrebbe suscitare l’entusiasmo di tutti quei giornalisti che continuamente definiscono se stessi come persone “con la schiena diritta”, che non prendono ordini da nessuno e che si trasformano in cani da tartufo ogni volta che c’è da annusare il marcio. Dovrebbero essere tutti schierati in prima fila a gridare che a loro non la si può fare sotto il naso, che se quel che ha denunciato Palamara fosse vero anche solo in piccola parte, loro vorrebbero vederci chiaro, e vorrebbero subito una commissione d’inchiesta. Invece: il cinghialone, il cavaliere nero, il truce da una parte, le Sante Toghe dall’altra. In una commistione da Stato etico che sempre più, nelle ordinanze e nelle sentenze così come negli editoriali di direttori virtuosi, confonde il reato con il peccato, mentre i pubblici ministeri d’assalto vanno in cerca di reati da attribuire a soggetti già individuati (il famoso “tipo d’autore”), in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, naturalmente. E in questo quadro desolante, che cosa concludere, che cosa fare? «È consigliabile avviare un’inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia», suggerisce Sabino Cassese. E noi con lui, non da oggi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il rapporto tra magistratura e politica. Giancarlo Caselli deve capire che indagare sulle toghe non è un attentato ma è doveroso. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 18 Aprile 2021. Chissà cosa penserebbero Palmiro Togliatti, Giovanni Leone, Gaspare Ambrosini, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini, Giorgio La Pira, Aldo Bozzi, Luigi Einaudi, Tomaso Perassi, Aldo Moro, Ferdinando Targetti, Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Grassi, Giuseppe Bettiol, Orazio Condorelli, Egidio Tosato, Francesco Dominedò e gli altri costituenti che dibatterono della disciplina della magistratura nella Costituzione italiana se leggessero le preoccupazioni di chi ritiene che il legislatore non possa occuparsi dello stato della giustizia con una commissione d’inchiesta parlamentare. L’argomento autorevolmente sostenuto da ultimo da Gian Carlo Caselli si fonda sull’assunto che un’indagine parlamentare, di per sé solo, costituirebbe un attentato all’indipendenza della magistratura. Una motivazione piuttosto sorprendente, alla quale si sarebbe tentati di rispondere come spesso ci è accaduto di sentire da parte di esimi esponenti del giustizialismo nostrano per giustificare iniziative giudiziarie clamorose: “Male non fare, paura non avere”. In realtà il tema merita un approfondimento, anche per l’indiscussa autorevolezza del suo sostenitore. Il rapporto tra politica e magistratura è naturalmente un rapporto complesso. Una complessità di cui i costituenti, che ho sopra citato, erano assolutamente consapevoli. Le loro scelte, alcune delle quali volutamente provvisorie (come quella relativa alla mancata separazione delle carriere in attesa della trasformazione in senso accusatorio del processo penale), mossero, infatti, dalla constatazione dell’esistenza di una irriducibile tensione tra due obiettivi egualmente fondamentali: da un lato assicurare che la magistratura, in particolare quella giudicante, non fosse condizionata e influenzata da interferenze dell’esecutivo e, più in generale, degli altri poteri; dall’altro, però, evitare che essa divenisse un corpo separato, chiusa in se stessa e autoreferenziale. Tutti i costituenti, dunque, anche se ciascuno a proprio modo, consideravano centrale l’esigenza di assicurare l’indipendenza della giurisdizione, prevedendo allo stesso tempo dei meccanismi di raccordo con gli altri poteri, per evitare che l’ordine giudiziario si estraniasse completamente dalla vita della nazione. Come ebbe a rilevare Giovanni Leone, che fu anche uno dei relatori nella Commissione dei 75 e rappresentante della Commissione stessa nel dibattito in Assemblea costituente, «lo scopo da raggiungere è quello di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura». In presenza di tale duplice rischio il dibattito costituente non fu affatto ideologico, ma ispirato a una consapevolezza laica della complessità e all’approccio pragmatico, fatto di approssimazioni progressive. Ad esempio, per la composizione del Csm il progetto di Costituzione prevedeva una composizione paritaria di membri laici e togati (proposta, tra gli altri da Calamandrei e Dossetti) sulla base della motivazione “di sottrarre la carriera dei magistrati all’influenza del Governo, e, poiché non si può farne una casta chiusa, di ammettere un controllo popolare”. Fu solo in Assemblea, in forza di un emendamento di Scalfaro e Nobile, che si introdusse la soluzione attuale, per altro, con una votazione molto risicata. Peraltro, come si sa, a fronte della garanzia di indipendenza della magistratura quegli stessi costituenti previdero un sistema di equilibrio fondato sulla previsione dell’immunità parlamentare. In poche parole, così come si temeva che la politica influenzasse la magistratura, si temeva che la magistratura potesse condizionare la politica. Quest’ultima soluzione, notoriamente, è stata superata con la riforma costituzionale del 1993. Sarebbe auspicabile che anche oggi si recuperasse quell’approccio laico e non ideologico, consapevole che l’equilibrio tra i poteri è un obiettivo sempre precario, che può e deve richiedere anche degli aggiustamenti progressivi. A questo servono innanzitutto le commissioni di inchiesta di cui all’articolo 82 della Costituzione (non a caso inserito nella sezione: “La formazione delle leggi”). Offrire elementi conoscitivi al Parlamento, supremo organo legislativo, per valutare lo stato dell’arte in un certo settore dell’ordinamento ed eventualmente adottare riforme e correttivi. Confondere una simile attività, per il solo fatto di essere posta in essere (al di là del come essa verrà realizzata), come un attentato alla magistratura costituisce un’interpretazione che contrasta sia con la lettera della Costituzione, che con lo spirito dei costituenti. La cui laicità ed equilibrio, in questo settore, è forse la cosa di cui si sente di più la mancanza. Giovanni Guzzetta
Anm, il presidente Santalucia: "La magistratura italiana non merita la commissione d’inchiesta”. Liana Milella su La Repubblica il 14 aprile 2021. Il leader dell'associazione nazionale delle toghe contro il pressing di centrodestra e Iv. Per evitare il giudizio dei probiviri alcuni magistrati starebbero lasciando il sindacato. Presidente Santalucia buon pomeriggio. Alla Camera si discute di una commissione d’inchiesta sulla magistratura. Con un testo dai toni durissimi. E Giusi Bartolozzi di Forza Italia, giudice nella vita, ha iniziato alla Camera anche una maratona in aula per sostenerla. Nelle stesse ore Giuliano Castiglia, gip a Palermo, del gruppo Articolo Centouno, all’opposizione della sua giunta, la accusa di “insabbiare” le chat di Palamara.
L’anm sulle accuse a Santalucia: «Nessun insabbiamento». Il Dubbio il 18 aprile 2021. La Giunta esecutiva esprime «dissenso» rispetto alle accuse mosse da Articolo 101 a Santalucia, presidente del sindacato delle toghe, in merito al caso procure. La Giunta esecutiva centrale dell’Anm esprime il proprio «dissenso» rispetto all’accusa rivolta dal gruppo di Articolo 101 al presidente Giuseppe Santalucia «di aver mirato ad “insabbiare”, “eludere”, “rallentare” l’attività di disvelamento che sta svolgendo in totale autonomia il collegio dei probiviri» sulle chat estrapolate dal telefono di Luca Palamara nell’ambito delle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia sul caso procure. La Giunta, dunque, «prende atto» che il presidente Santalucia «si è assunto l’esclusiva paternità delle decisioni in ordine al rilascio di copie di atti e all’oscuramento di parti di essi, ritenendole afferenti alle sue prerogative di titolare del trattamento dei dati» ed evidenzia che «l’insorta questione in ordine all’applicazione della disciplina sulla privacy, rivestendo carattere di novità nella vita dell’associazione, richiederà un dibattito nel comitato direttivo centrale esteso anche alle modalità del raccordo informativo tra Collegio dei probiviri e organi interni all’associazione». La Giunta quindi, confermando la «fiducia» al presidente Giuseppe Santalucia, intende «proseguire l’azione associativa secondo le linee programmatiche approvate, nella rinnovata consapevolezza dell’importanza del metodo della collegialità e del confronto tra tutti i componenti».
"Almeno 35 toghe in fuga per evitare la disciplinare. Adesso il capo Anm lasci". Stefano Zurlo il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. La corrente Articolo 101 contro Santalucia: "Insabbiati i nomi dei coinvolti nelle chat". Accuse sempre più pesanti e alla fine una sola parola: dimissioni. Articolo 101, la lista che sta scombinando la geografia delle correnti, insiste: il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia deve lasciare l'incarico. I quattro componenti del comitato direttivo centrale - terminologia un po' vintage, ma quella è dell'Anm - hanno firmato nei giorni scorsi un documento durissimo. Una pagina senza sconti per denunciare il tentativo dei vertici dell'Anm di «insabbiare» le questioni drammatiche poste dal caso Palamara. Ora Maria Angioni, oggi giudice del lavoro ma a suo tempo il pm che cercò di far luce sulla scomparsa della piccola Denise, e Andrea Reale, gip a Ragusa, escono allo scoperto, rispondendo alle domande dell'Adnkronos. «Basta con l'ipocrisia - attacca Reale - due anni fa il presidente della repubblica ci ha invitato a voltare pagina, ma qui si torna indietro. Ci sono magistrati che rivestono ancora ruoli apicali pur essendo direttamente coinvolti nei gravi fatti resi pubblici». I fatti, naturalmente, sono quelli raccontati da Luca Palamara e Alessandro Sallusti nel libro Il sistema. La lottizzazione che arriva fin dentro il Csm e poi gli accordi e gli scambi di favori e poltrone fra le diverse correnti che penalizzano la competenza e premiano l'appartenenza alla cordata giusta. Da mesi i quattro giudici di Articolo 101, che ci tiene a definirsi solo una lista in contrapposizione alle altre sigle storiche, chiedevano a Santalucia di bussare al gip di Perugia per recuperare le carte dell'intrigo. Ma l'Anm, questa è la critica acuminata, avrebbe temporeggiato inspiegabilmente a lungo e ha infine recuperato quei faldoni solo dopo molte insistenze. Anzi, come ha svelato al Giornale Giuliano Castiglia, membro del quartetto e gip a Palermo, qualcosa è arrivato ai magistrati di Articolo 101 coperto da omissis. Tagli decisi da Santalucia e non dal gip di Perugia che ha rimandato tutto senza sbianchettare nemmeno una sillaba. «Il presidente Santalucia - rincara la dose Angioni - omissando quegli atti ha sbagliato. E quegli omissis riguardavano un fatto politicamente grave, cioè il fatto che molti magistrati coinvolti nelle chat di Palamara si stanno dimettendo per sottrarsi in questo modo al procedimento disciplinare interno. Questo tema non è mai stato portato al cdc, il nostro parlamentino. E il nostro parlamentino può bloccare le dimissioni». Invece, sarebbe in corso un vero e proprio esodo. «Sono almeno 35 - chiarisce Angioni che nei giorni scorsi ha ripercorso l'inchiesta su Denise al programma Ore14 di Rai2 - i colleghi che hanno lasciato l'Anm». A quanto pare, alla chetichella. Insomma, per i quattro - oltre a Castiglia, Angioni e Reale, Ida Moretti - ci sarebbe la volontà di insabbiare una storia che sta provocando sconcerto e sporca l'immagine dell'Anm. «Santalucia - riprende Reale - ha tradito la nostra fiducia. Per noi è difficile continuare in questo modo. Ma lo ha voluto lui». La strada di una possibile ricomposizione pare sbarrata. E Articolo 101 va avanti per la sua strada. In particolare, come Castiglia ha spiegato al Giornale, il grimaldello per far saltare il correntismo dovrebbe essere l'introduzione del sorteggio per l'accesso al Csm. Un'eresia per gran parte dei leader storici dell'Anm. Ma i tempi cambiano. E oggi una minoranza agguerrita conduce una battaglia che solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile, anzi lunare, nel mondo delle toghe.
Palamaragate e i suoi scandali. Magistrati in fuga dall’Anm per sfuggire alle sanzioni, Articolo 101 chiede dimissioni di Santalucia. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia deve dimettersi quanto prima. La richiesta, senza precedenti, viene dalle toghe di Articolo 101, il gruppo “antisistema” favorevole al sorteggio dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura e alla rotazione degli incarichi direttivi. Il motivo? Le famigerate chat dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. A distanza di quasi due anni dai fatti, l’Anm non ha ancora un quadro completo sui magistrati che chiedevano favori e nomine a Palamara. Sembra incredibile, ma è così. Pur essendo state pubblicate su diversi giornali, fra cui Il Riformista, i vertici dell’Anm non hanno “ufficialmente” portato a conoscenza del loro contenuto tutti i componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm. «Traspare chiaramente – scrivono i rappresentanti di Articolo 101 all’interno dell’Anm – una volontà di insabbiamento e di elusione delle questioni generali poste dal disvelamento delle chat di Palamara e di fatto si agevolano gli interessati a sottrarsi alle specifiche responsabilità conseguenti ai fatti emergenti dalle chat». Parole durissime che aprono ad una resa dei conti all’interno del sindacato unico togato dagli esiti incertissimi. Le toghe di Articolo 101 ripercorrono le tappe “dell’insabbiamento”. «Santalucia – scrivono – ha ostinatamente negato che le chat fossero state poste a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Palamara e perciò trasmesse, insieme alla predetta richiesta, al gup del Tribunale di Perugia, con conseguente possibilità del titolare dei diritti della persona offesa, quale è stata qualificata l’Anm dalla stessa Procura della Repubblica di Perugia, di visionarle ed estrarne copia senza limitazione alcuna». Quindi ha «sottoposto a una certosina operazione chirurgica di espunzione di alcuni assai rilevanti passaggi, invocando del tutto inopinatamente e infondatamente un’esigenza di tutela di dati personali e un ruolo decisionale in tal senso autonomo». Alla fine, «per ottenere quanto ingiustamente negatoci dal nostro presidente, ci siamo visti costretti a rivolgerci direttamente all’Autorità giudiziaria perugina». La quale, il 6 aprile scorso, su autorizzazione del giudice, ha trasmesso gli atti richiesti. Senza omissis. «L’Anm non può permettersi di continuare a essere guidata da chi ha tenuto una condotta lesiva di regole basilari della democrazia interna all’Associazione e, al contempo, oggettivamente accondiscendente verso chi intende sottrarsi alle proprie responsabilità», concludono le toghe di Articolo 101. L’insabbiamento togato si accompagna in questi giorni anche alla grande fuga dall’Anm da parte di alcune toghe finite nelle chat. L’esodo è per evitare l’ignominia del procedimento disciplinare davanti ai probiviri per violazione del codice deontologico. Per il magistrato iscritto all’Anm non è possibile intercedere o far intercedere alcuno con il consigliere del Consiglio superiore della magistratura che decide sulle nomine. Ed è anche vietato chiedere informazioni per velocizzare l’iter della pratica. Un concetto che ha ripetuto spesso, evidentemente inascoltato, lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche presidente del Csm. Appena arriva l’avviso della contestazione, è sufficiente stracciare la tessera ed il gioco è fatto: non risultando più essere l’iscrizione all’Anm viene meno l’oggetto del contendere. Alcune toghe hanno deciso di anticipare le mosse dei probiviri, con una cancellazione preventiva dall’Anm. Vedasi Donatella Ferranti, ex potentissima presidente della Commissione giustizia della Camera eletta nel Pd, esponente della sinistra giudiziaria, ed ora giudice della Cassazione. Ferranti aveva chiesto a Palamara lumi sulla nomina di Francesco Salzano ad avvocato generale in Cassazione. Riassumendo. Santalucia rallenta l’attività dei probiviri. Nessun procedimento penale risulta essere stato aperto sul contenuto delle chat. Quelli disciplinari sono poco più di una decina, grazie alla circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che ha sdoganato l’auto promozione togata. Nessuna nomina, poi, è stata annullata pur essendo evidenti i vizi di legittimità degli atti con i pareri taroccati da Palamara, Lo scenario finale, quindi, è che pagherà solo Palamara per tutti. Bella roba.
Caos Palamara, Santalucia (Anm): «Contro di me accuse infondate». Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia «esprime forte indignazione» dopo la lettera della lista Articolo 101 che ne chiedeva le dimissioni. Il Dubbio il 13 aprile 2021. «Esprimo forte indignazione per le gratuite e infondate accuse, gravemente offensive anche della mia professionalità e credibilità personale, che mi vengono mosse da quattro componenti del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati di cui sono presidente». Lo dichiara il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, dopo il comunicato diffuso ieri dalla lista Articolo 101 che ne chiedeva le dimissioni. «Il mio comportamento – aggiunge Santalucia – è stato sempre ispirato al massimo rispetto dello Statuto dell’Associazione, delle leggi, degli atti normativi sovranazionali, delle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali, oltre che della piena autonomia del collegio dei probiviri e del suo lavoro. Grazie al mio impegno, in linea con quello della Giunta esecutiva precedente, il collegio dei probiviri è stato posto nelle migliori condizioni per operare». Nessun altro commento, conclude Santalucia, «intendo riservare alle scomposte accuse dei quattro componenti del Comitato direttivo centrale, le cui richieste ho già motivatamente riscontrato». Con il documento diffuso ieri, i rappresentanti della lista Articolo 101 che fanno parte del direttivo del sindacato delle toghe – Giuliano Castiglia, Maria Angioni, Andrea Reale e Ida Moretti – hanno firmato la richiesta di dimissioni prendendo «atto con profonda amarezza del comportamento tenuto dal Presidente dell’Anm Santalucia». Al centro della questione le chat estrapolate dal telefono di Luca Palamara nell’ambito dell’inchiesta della procura di Perugia. «Con una scelta senza precedenti – scrivono nel loro documento le toghe di Articolo 101 – il presidente dell’Anm Santalucia ha deciso di comprimere il nostro diritto di componenti del cdc, e con esso quello di tutti gli altri, alla piena conoscenza di atti di pertinenza dell’Associazione e nella disponibilità della stessa, realizzando una palese violazione delle regole di funzionamento dell’Anm e un gravissimo vulnus alla democrazia interna alla stessa». «Prima, senza ragione alcuna, si è respinta l’idea naturale che l’Anm potesse servirsi del contenuto delle chat del telefono di Luca Palamara pubblicate su fonti aperte, sia per valutazioni e determinazioni di carattere generale sia per eventuali procedimenti disciplinari endo-associativi, come pure era sempre accaduto in passato, anche all’indomani della divulgazione dei fatti dell’Hotel Champagne», scrivono i magistrati. «Poi – contro la logica, contro le conoscenze basilari di ogni magistrato con esperienza del procedimento penale e contro gli elementi di conoscenza disponibile, sia di fonte aperta che di fonte ufficiale – si è ostinatamente negato che le chat fossero state poste a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Luca Palamara e perciò trasmesse, insieme alla predetta richiesta, al G.u.p. del Tribunale di Perugia, con conseguente possibilità del titolare dei diritti della persona offesa, quale è stata qualificata l’Anm dalla stessa Procura della Repubblica di Perugia, di visionarle ed estrarne copia senza limitazione alcuna». «Nel percorso di recupero rispetto all’enorme discredito che “Magistropoli” ha comportato, tra l’altro, per la magistratura associata, l’Anm non può permettersi di continuare a essere guidata da chi ha tenuto la condotta sin qui riferita, tra l’altro lesiva di regole basilari della democrazia interna all’Associazione e, al contempo, oggettivamente accondiscendente verso chi intende sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti della stessa Anm», conclude la nota.
Magistratopoli e i suoi scandali. Palamaragate, il Gip chiede ai Pm di Firenze di non insabbiare la fuga di notizie. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Aprile 2021. “Sussiste senza dubbio” il reato di rivelazione del segreto, gli autori sono stati dei “pubblici ufficiali” e la Procura deve compiere gli “opportuni approfondimenti investigativi” per individuare “i responsabili della indebita propalazione”. È quanto scrive Sara Farini, gip del Tribunale di Firenze, a proposito della fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia, rispondendo a una nota dei pm della locale Procura. A distanza di quasi due anni dai fatti, dunque, siamo ancora a questo punto: da Erode a Pilato. I fatti sono stranoti. Il 29 maggio 2019, Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono la notizia dell’indagine della Procura umbra, gestione Luigi De Ficchy, a carico dell’ex zar delle nomine. “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, scrisse Repubblica; “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Corriere; “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”, il Messaggero. Gli articoli erano tutti molto dettagliati. Il pezzo di Repubblica, in particolare, riportava alcuni elementi che erano emersi grazie alle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Ad esempio, i colloqui fra quest’ultimo e Cosimo Ferri, deputato allora del Pd ed esponente di spicco della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente, relativi alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Il Corriere, invece, non era bene informato come Repubblica, limitandosi a scrivere che la Procura di Perugia aveva notiziato il Consiglio superiore delle magistratura dell’indagine nei confronti di Palamara, ricordando poi che l’ex presidente dell’Anm aveva fatto domanda per diventare aggiunto a Roma. Il giorno dopo, il 30 maggio, Palamara venne perquisito all’alba dal Gico della guardia di finanza. Insieme a lui erano indagati anche l’allora togato del Csm Luigi Spina e il pm romano Stefano Rocco Fava. Il Corriere in edicola quella mattina, recuperando il parziale buco del giorno prima, dava la notizia dei motivi della perquisizione, informando i lettori anche che Palamara negli ultimi mesi era stato costantemente “monitorato” duranti i suoi incontri notturni. Da allora Corriere e Repubblica iniziarono una campagna pancia a terra pubblicando per giorni stralci di intercettazioni ambientali che riguardano anche la sfera privata di Palamara, non trascurando i consiglieri del Csm che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne e che poi furono costretti alle dimissioni. Un romanzo a puntate. Il risultato fu che la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, a procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm il precedente 23 marzo e pronta per andare in plenum in quei giorni, saltò, per poi essere definitivamente annullata nelle settimane successive. Vale la pena di ricordare che al Csm vennero, fino alla chiusura delle indagini di Perugia avvenuta il 20 aprile 2020, trasmessi pochissimi atti. Nonostante ciò, il 5 luglio 2019 il Corriere riportò alcuni passi degli interrogatori di Palamara avvenuti il 30 e il 31 maggio davanti ai pm di Perugia. E lo stesso fece Repubblica. Un filone investigativo, poi, finì in tempo reale sui giornali, con le dichiarazioni di alcuni imprenditori che avevano effettuati dei lavori edili, frutto di una presunta corruzione, per un’amica di Palamara. Gli imprenditori erano stati interrogati a giugno del 2019 mentre erano sottoposti ad intercettazione telefonica. Uno di loro verrà risentito a luglio, modificando la testimonianza in modo da renderla più aderente a quanto riportato dai giornali. La Procura di Perugia ha sempre sottolineato che gli atti d’indagine non fossero “ostensibili” per il segreto istruttorio. Il 26 luglio 2019 il pm di Perugia Mario Formisano, titolare del fascicolo insieme alla collega Gemma Miliani, come riportato dalla Verità, affermerà che le fughe di notizie avevano “rovinato l’inchiesta”. Palamara, pur essendo la rivelazione del segreto procedibile d’ufficio, ha presentato lo scorso novembre un esposto alla Procura di Firenze, competente per i reati commessi dai magistrati umbri, chiedendo di svolgere accertamenti. Fra le richieste, il sequestro dei telefoni e l’acquisizione dei tabulati telefonici nei confronti dei “soggetti interessati” alla fuga di notizie: “giornalisti, operatori di polizia, ecc”. Il gip Farini, con una nota del 27 gennaio scorso, ha respinto, come richiesto dalla Procura, le istanze di Palamara, evidenziando però che non risultano essere mai stati compiuti atti d’indagine per i soggetti “che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete”. Da qui, dunque, l’invito alla Procura a “circoscrivere” la platea di questi soggetti e ad effettuare gli “opportuni approfondimenti investigativi”. La tempistica gioca, ovviamente, a favore degli autori della fuga di notizie: dopo due anni i tabulati vengono cancellati per legge dai gestori telefonici. Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, come si ricorderà, è attualmente sotto disciplinare al Csm per presunte molestie nei confronti della pm antimafia Alessia Sinatra.
Il "caso Roma" fa scuola. Procuratori zar e la deriva della magistratura: dal disastro della legge Castelli agli aggiunti imposti al Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Aprile 2021. «Quando si discute delle nomine dei procuratori ci sono sempre ‘fibrillazioni’ in Plenum», disse qualche tempo fa Alessio Lanzi, consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia. Concetto ribadito anche nel libro di Luca Palamara, Il Sistema, dove i capitoli relativi alle nomine dei numeri uno delle Procure sono quelli più "effervescenti". Il procuratore della Repubblica è da sempre uno dei ruoli più prestigiosi e importanti in magistratura. La sua influenza è aumentata notevolmente grazie al codice di procedura penale del 1989 con cui gli è stato dato il “controllo” assoluto della polizia giudiziaria. La riforma Castelli del 2006, con la ‘gerarchizzazione’ delle Procure, è stata poi la classica ciliegina sulla torta, concentrando in una persona un potere senza precedenti in qualsiasi Paese occidentale. Silvio Berlusconi, come sempre mal consigliato in queste cose, pensava che sarebbe stato più facile controllare 10 procuratori che 100 sostituti. Il “lavoro sporco”, tenere a bada i pm irruenti che potevano fare qualche colpo di mano, sarebbe stato affidato ai capi. Questa riforma ricordava molto una teoria di Napoleone Bonaparte: “La truppa si lamenta, aumentate la paga ai generali”. Ovviamente Berlusconi aveva fatto i conti senza l’oste. Perché le Procure sono sempre rimaste, per la maggior parte, nelle fidate mani delle “odiatissime” toghe di sinistra. Ad iniziare da quella di Milano. Nel 2018 nacque addirittura il gruppo dei super procuratori. I “big Five”: Francesco Greco a Milano, Francesco Lo Voi a Palermo, Giovanni Melillo a Napoli, Giuseppe Pignatone a Roma e Armando Spataro a Torino. I fantastici cinque si erano proposti come un soggetto “politico” alternativo all’Anm per riforme e proposte sui temi della giustizia. Dopo lo scontro, abbastanza scontato, con l’Anm, non se ne fece però più nulla. Ma un altro scatto verso il potere pressoché assoluto del procuratore lo si ebbe proprio a Milano dopo lo scontro, nel 2014, fra l’allora numero uno della Procura Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Oggetto del contendere la conduzione delle mitiche indagini nei confronti dei colletti bianchi. Le uniche che contano veramente in questo Paese e danno visibilità e gloria. Stiamo parlando, nel caso in questione, delle indagini su Expo, sui derivati del Comune di Milano, e su quelle – immancabili – che coinvolgevano la Regione Lombardia. Un evergreen. Lo scontro fu ferocissimo. Bruti Liberati fece domanda per andare in pensione in anticipo ed evitò il disciplinare. Robledo, invece, venne trasferito dal Csm a Torino come giudice e “degradato” delle funzioni semidirettive. Nella questione milanese era intervenuto il capo dello Stato Giorgio Napolitano ricordando proprio la riforma dei poteri dei “capi degli uffici” che ne aveva fatto una sorta di monarchi assoluti. Come evitare, quindi il ripetersi di situazione simili? Semplice: “appaltando” le scelte degli aggiunti direttamente al Procuratore. Sarà lui ad indicare al Csm i fedelissimi che non creeranno intralci. Milano ha fatto scuola. Con un accordo, come ha sottolineato Palamara, che non ha scontentato nessuno: procuratore e correnti. E poi Roma con Giuseppe Pignatone e le sue preferenze per gli attuali aggiunti. A dire il vero a Roma c’è un aggiunto “fuori sacco”: si chiama Antonello Racanelli ed è di Magistratura indipendente, corrente di Cosimo Ferri, toga prestata alla politica non gradita per statuto a molti suoi colleghi. Ed infatti Ferri parlando di Racanelli con Palamara e Luca Lotti disse che lo volevano “inc….”. Racanelli ha una pratica di trasferimento aperta per incompatibilità ambientale a causa di alcune interlocuzioni avute proprio con Palamara. Che le Procure siano diventate delle grandi famiglie lo dimostrano, poi, i rapporti in chiaro, come quello fra Stefano Pesci e Nunzia D’Elia, marito e moglie, entrambi nominati aggiunti a Roma, o non in chiaro ma accettati da tutti nel trionfo dell’ipocrisia nostrana. Anche sui coniugi Pesci e D’Elia era intervenuto Palamara sottolineando la particolarità di queste due nomine nello stesso ufficio. Ora una riforma in discussione in Parlamento dell’Ordinamento giudiziario vorrebbe diminuire il potere dei procuratori. Siamo certi che non andrà in porto e tutto rimarrà come adesso.
Csm, laici contro il "sistema". Oggi interviene Palamara. L'ex capo dell'Anm convocato dalla commissione che esamina le chat. I radicali: udienza pubblica. Lodovica Bulian - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. L'ex presiedente dell'Anm Luca Palamara stamattina alle nove varcherà l'ingresso del Csm. L'ha convocato a sorpresa in audizione la prima commissione, quella che sta esaminando le chat che coinvolgono un centinaio di magistrati e che sono agli atti della procura di Perugia. Una ventina le toghe che sono sotto procedimento disciplinare e a rischio trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale per i rapporti emersi con l'ex pm. Protestano i radicali che chiedono l'audizione sia pubblica: «Oggi per domani Palamara è stato convocato dalla prima commissione del Csm per essere audito. Non si conosce il motivo, né l'oggetto dell'audizione. Come da regolamento del Csm l'audizione sarà riservata, niente mezzi di informazione, niente pubblico, niente registrazione. Chiediamo ai membri della prima commissione del Csm di superare la clausura dei loro lavori. Per il futuro ci attiveremo per rendere pubblico, con legge, ogni anfratto della giustizia che viene amministrata in nome del popolo italiano». Ieri il Consiglio superiore della magistratura che ha nominato all'unanimità Alfredo Pompeo Viola nuovo segretario generale si è diviso invece sulle nomine dei fuori ruolo e su quelle dei magistrati segretari. Questi ultimi oggetto anche delle rivelazioni di Palamara nel libro di Alessandro Sallusti: «Prendiamo i magistrati segretari del Csm - dice l'ex pm - colleghi tra i cui compiti c'è anche quello di dover motivare le nomine, cioè scrivere perché Tizio è più bravo di Caio e quindi ha diritto a quel posto. Chi li nomina? I capicorrente, ovviamente». E sulle tre nomine dei magistrati segretari all'ordine del giorno di ieri il laico Stefano Cavanna si è astenuto ricordando che il meccanismo di selezione non è regolato da concorso, come era stato richiesto invece proprio dai consiglieri laici all'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all'indomani dello scandalo Palamara. Le chat dell'ex numero uno dell'Anm hanno svelato come anche quei ruoli fossero appannaggio delle logiche spartitorie delle nomine. Tanto che la modifica è stata inserita nel testo di riforma del Csm. Finora i candidati al ruolo svolgono una semplice audizione. «Non posso votare a favore di un sistema che è ancora discrezionale», ha detto Cavanna. Durissimo è stato invece Nino Di Matteo sulla nomina a fuori ruolo di Giuseppe Corasaniti, magistrato in servizio al Massimario, e chiamato dal sottosegretario alla Giustizia Sisto a capo della sua segreteria. Di Matteo ha puntato il dito sul semaforo verde concesso dal plenum a ogni fuori ruolo che venga richiesto, e ha parlato di «servile accondiscendenza a ogni richiesta» dell'esecutivo. Il nodo irrisolto è ancora nei rapporti tra magistratura e politica: «Parliamo sempre della necessità di distinguere l'attività dei magistrati da quella politica, di porre dei paletti per il rientro in ruolo dei magistrati che si candidano. Da una parte siamo feroci censori, dall'altra parte però troviamo sempre l'eccezione alle regole per consentire che questi rapporti attraverso il sistema delle nomine e degli incarichi continuino». L'eccezione è data dal fatto che l'ufficio di provenienza del magistrato Corasaniti ha una scoperta di organico superiore al 20%, soglia che non permetterebbe il fuori ruolo. Ma nelle stesse condizioni di scopertura è stato concesso un mese fa il fuori ruolo anche a Elisabetta Cesqui, sostituto procuratore della Cassazione chiamata dal ministro del lavoro Orlando, Pd, a fare il capo di gabinetto. Non concedere il via libera, è stato detto in plenum, sarebbe stata una scortesia istituzionale. «Tutto questo interesse che ha la magistratura a spedire magistrati nei ministeri è da valutare bene», la protesta del laico Cavanna.
(ANSA il 25 marzo 2021) - Vicende specifiche legate alle chat con i colleghi magistrati estrapolate dal suo telefonino, sequestrato nell'ambito dell'inchiesta di Perugia a suo carico. Di questo ha parlato per un'ora e mezza l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, davanti alla Prima Commissione del Csm, che ieri lo ha convocato a sorpresa per stamattina. L'audizione è stata segretata. "Al Csm ho parlato di fatti specifici e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano" . Lo ha dichiarato all'Ansa Luca Palamara, a proposito della sua audizione davanti alla Prima Commissione del Csm. "Al Csm ho parlato di quanto emergeva dalle chat, ma il discorso si è poi allargato anche al trojan". Lo ha detto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara a proposito dell'audizione di stamattina al Csm, riferendosi al trojan che era stato inserito nel suo cellulare su ordine della procura di Perugia. "Mi metto a disposizione di chiunque voglia sentirmi, è mio dovere ricostruire la verità su come sono andate le cose". Lo ha detto l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, dopo la sua audizione davanti alla Prima Commissione del Csm.
Caos Procure, Palamara: «Sentito su chat e non solo». L'ex capo dell'Anm audito in Prima Commissione al Csm. Ma ha l'obbligo di mantenere il segreto sui contenuti. Il Dubbio il 25 marzo 2021. L’ordine è di rimanere in silenzio e non rivelare i contenuti dell’audizione di oggi, la prima dell’ex presidente dell’Anm dopo la radiazione inflitta lo scorso 9 ottobre dall’organo di autogoverno delle toghe. Luca Palamara, ex consigliere del Csm, è entrato questa mattina alle 9 a Palazzo dei Marescialli, uscendone circa due ore dopo. Davanti alla Prima Commissione, competente per i procedimenti di incompatibilità delle toghe e presieduta da Elisabetta Chinaglia, l’ex pm romano ha riferito sui contenuto delle centinaia di chat intrattenute con i colleghi, ma anche di altro, ha spiegato uscendo dalla sede del Csm, «fatti da me documentabili», ha sottolineato. Il Partito Radicale aveva chiesto che l’audizione fosse pubblica, ma senza successo. «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia, come accade in udienza preliminare nel processo penale, debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più – ammonisce il Partito radicale -. Anche la magistratura se ne deve rendere conto per non essere sempre più lontana dal mondo reale e chiusa nelle proprie torri di avorio». Il contenuto di quelle chat – oltre 60mila pagine – da circa un anno, è sotto la lente di ingrandimento della Commissione. Conversazioni acquisite agli atti dell’inchiesta che vede Palamara indagato a Perugia e che ora rischia di creare un ulteriore terremoto all’interno della magistratura. Sono circa un centinaio i colleghi con i quali Palamara ha intrattenuto conversazioni, ma sono circa una ventina quelli attualmente sotto procedimento disciplinare e, dunque, a rischio trasferimento. La procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex consigliere del Csm, accusato di diversi episodi di corruzione. La procura ha avanzato la stessa richiesta per l’imprenditore Fabrizio Centofanti, l’amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi. A firmare la richiesta il procuratore Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano.
Il testimone Palamara torchiato sulle nomine a Roma e a Milano. L’ex capo dell’Anm in audizione davanti al Csm, che secreta tutto. Intanto Michele Prestipino ha presentato ricorso contro la sentenza del Tar Lazio che ha annullato la sua nomina a procuratore della capitale. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Sotto torchio per novanta minuti, Luca Palamara si è tolto più di un sassolino dalle scarpe ieri mattina davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle “incompatibilità” delle toghe. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati era stato convocato il giorno prima per essere sentito dai suoi ex colleghi. Pur non essendo specificato il motivo, era evidente che l’oggetto dell’audizione avrebbe riguardato il sistema delle nomine in magistratura, come emerso dai messaggi che Palamara scambiava a ritmo frenetico con le centinaia di magistrati che aspiravano ad un incarico di vertice. L’audizione è stata secretata. «È una audizione riservata per la quale ho ricevuto la consegna del silenzio», ha detto all’uscita dal Csm Palamara, accompagnato dai suoi legali, precisando comunque che «è stato tutto registrato». «Mi sono impegnato a chiarire ogni vicenda», ha poi aggiunto il magistrato. La decisione di secretare l’audizione era stata fortemente criticata il giorno prima dai Radicali, i quali per stigmatizzare l’assenza di trasparenza avevano diramato un duro comunicato: «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più». Da indiscrezioni, comunque, pare che siano stati accesi i riflettori su Roma e Milano, in particolare sulle nomine dei locali procuratori aggiunti che sarebbero state effettuate su indicazioni dei rispettivi capi: Francesco Greco e Giuseppe Pignatone. Con i due magistrati Palamara aveva sempre avuto ottimi rapporti. Nel libro intervista “Il Sistema”, il magistrato racconta a tal proposito che Pignatone non avrebbe voluto Racanelli (Antonello, ndr) «ma insisteva pesantemente per Ielo (Paolo, ndr) e Sabelli (Rodolfo, ndr)». L’audizione è stata diretta dalla presidente della prima commissione Elisabetta Chinaglia. Attentissimo sembra sia stato l’ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha formulato più di una domanda. All’audizione erano presenti anche consiglieri non componenti della commissione. Altro argomento incandescente è stato l’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava, a distanza di due anni ancora pendente al Csm. Fava aveva depositato alla fine di marzo del 2019 un esposto a Palazzo dei Marescialli in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte del suo procuratore Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche ai togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Fava parlò dell’accaduto durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Davigo. L’esposto in questione era stato poi causa di procedimenti disciplinari e penali. Secondo l’accusa, sarebbe stata una mossa escogitata da Palamara per screditare sia Pignatone che Ielo. Ricostruzione sempre negata da Fava che aveva prodotto anche una telefonata fra l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini e lo stesso Palamara, in cui emergeva come si fosse trattato di una sua autonoma iniziativa. L’audizione di Palamara segue quella di Raffaele Cantone di lunedì scorso, durante la quale il procuratore di Perugia aveva cercato di chiarito la conduzione dell’indagine nei confronti dell’ex togato. E sul fronte della Procura di Roma, si segnala ieri la presentazione del ricorso di Michele Prestipino nei confronti della sentenza del Tar Lazio che aveva annullato nelle scorse settimane la sua nomina a procuratore della Capitale. Anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, che aveva presentato l’iniziale ricorso contro la decisione del Csm di preferirli Prestipino, si è costituito innanzi al Consiglio di Stato chiedendo il rigetto dell’appello. Nei prossimi giorni verrà fissata l’udienza per la trattazione della domanda di sospensione, anche a fronte della decisione del Csm di impugnare la sentenza. Il Tar del Lazio, come si ricorderà, aveva rilevato che Viola era stato escluso dalla commissione per gli incarichi direttivi del Csm pur essendo totalmente estraneo alle “macchinazioni o aspirazioni di altri”. In particolare a quanto emerso durante l’ormai famoso dopo cena all’hotel Champagne la sera dell’8 maggio del 2019 fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque consiglieri del Csm.
A processo in Prima Commissione. Interrogatorio di Palamara a porte chiuse, il Csm impone la censura: le toghe tremano. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Il grande giorno è arrivato: questa mattina la prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle inchieste riguardanti i magistrati, sentirà Luca Palamara, zar senza eredi delle nomine e degli incarichi a Palazzo dei Marescialli. Era stato lo stesso Palamara nei giorni scorsi a chiedere di essere sentito sulle vicende che, nate dall’indagine della Procura di Perugia nei suoi confronti, avevano terremotato la magistratura costringendo anche alle dimissioni ben sei consiglieri superiori. Un record senza precedenti. La decisione di ascoltare l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stata molto sofferta. Da quanto ha potuto apprendere Il Riformista diversi consiglieri di piazza Indipendenza non erano particolarmente favorevoli all’audizione di Palamara, ritenendo che potesse trasformarsi in un “j’accuse” collettivo nei confronti della magistratura. Fra i più contrari, pare, i togati della sinistra giudiziaria rappresentata da Area e da Magistratura democratica. Non essendo noto il motivo dell’audizione, si possono al momento formulare solo delle ipotesi. Palamara, ormai personaggio televisivo e autore del bestseller Il Sistema, cercherà verosimilmente di affrontare il tema delle chat dei suoi ex colleghi della scorsa consiliatura. Se esisteva una “sistema” per spartire gli incarichi, la responsabilità, è la tesi di Palamara, non può essere solo di un singolo. Le chat valutate ai fini disciplinari e per le incompatibilità ambientali sono, infatti, solo quelle di Palamara. Una visione parziale che non rende giustizia a quanto effettivamente accaduto. Il magistrato, forse, cercherà di affrontare anche il modo relativo alla conduzione dell’indagine di Perugia che ogni giorno riserva una sorpresa. Questa settimana, sempre davanti alla prima commissione, era stato ascoltato il procuratore di Perugia Raffaele Cantone. L’ex presidente dell’Anac ha cercato di fugare i dubbi avanzati al riguardo da più parti in questi mesi. Oltre agli ascolti “discrezionali” del trojan, un aspetto molto controverso era che fosse stato intercettato solo Palamara e non i suoi coimputati, a iniziare dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, ritenuto il suo corruttore. Centofanti «non era facilmente intercettabile perché parlava in codice», aveva dichiarato Cantone. Difficile, però, intercettare una persona non indagata. Centofanti, infatti, venne iscritto nel registro degli indagati solo il 27 maggio del 2019. Praticamente poco più di 24 ore prima della fuga di notizie che fece saltare l’inchiesta di Perugia. Purtroppo l’audizione avverrà a porte chiuse, senza neppure la possibilità di una diretta radio. E questo ha già fatto sobbalzare i Radicali che hanno subito diramato un duro comunicato. «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più», scrivono i Radicali. «Anche la magistratura – proseguono – se ne deve rendere conto per non essere sempre più lontana dal mondo reale e chiusa nelle proprie torri di avorio». Concludono, quindi, con «l’invito ai membri della prima commissione di superare la clausura dei loro lavori. Per il futuro ci attiveremo per rendere pubblico, con legge, ogni anfratto della giustizia che viene amministrata in nome del popolo italiano».
Nuova manovra per sabotare Palamara. Corriere e Repubblica dopo Viola vogliono la testa di Lanzi: killer per conto dei Pm. Paolo Comi su il Riformista il 27 Marzo 2021. Alessio Lanzi è finito nel mirino, “under fire” come direbbero i marines. I giornali che a maggio del 2019 fecero saltare con una provvidenziale fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, hanno puntato questa settimana il professore milanese di diritto penale e attuale consigliere del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia. L’obiettivo finale sembrerebbe essere quello di costringerlo alle dimissioni. Un déjà-vu di quanto è successo all’inizio dell’estate di due anni fa quando una micidiale campagna stampa riuscì a imporre le dimissioni di tutti i togati che avevano partecipato, insieme a Luca Palamara, all’incontro all’hotel Champagne con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti dove si discusse del successore di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma. Ma cosa ha fatto di talmente grave Lanzi da meritare ieri due articoli – fotocopia – su Corriere e Repubblica? Si è recato lo scorso mercoledì nello studio romano del collega Roberto Rampioni per una visita di cortesia. “Un clamoroso passo falso”, esordisce Repubblica, “sospetti su una fuga di notizie”, rincara la dose il Corriere, il giornale che fu l’autore, come detto, della fuga di notizie sul Palamaragate. Rampioni, oltre a essere ordinario di diritto penale a Tor Vergata, è il difensore di Luca Palamara nel procedimento a Perugia. La circostanza dell’incontro fra accademici finisce in tempo reale al Csm e viene “discussa”, secondo quanto riportato dai due giornali, al Comitato di presidenza, composto dal vice presidente David Ermini e dai due capi di Corte: il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, entrambi di Magistratura democratica. Ci sarebbero allora stati, sempre secondo il racconto dei due giornali, “malumori” dal momento che il giorno dopo, giovedì, Palamara doveva essere ascoltato a proposito delle chat dalla Prima commissione, di cui fa parte Lanzi, accompagnato da Rampioni. Subito è scattata la caccia alla talpa che aveva rivelato la notizia di un incontro privato. Nello stesso palazzo del quartiere Prati, dove ha lo studio Rampioni, abita il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, uno dei tre componenti del comitato di presidenza del Csm. E gli incontri sul pianerottolo o in ascensore fra i due, come dichiarato dallo stesso Rampioni, sono “frequenti”. Nella giornata di ieri il professore romano ha diramato un duro comunicato: «Corriere della Sera e Repubblica parlano della vicenda Palamara. Ma come lo fanno? Deviando il lettore su una notizia che notizia non è, attribuendole valore di scoop!”. “Oscurano, tuttavia, i temi oggetto dell’audizione di Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato, con il gossip», aggiunge Rampioni. «Piuttosto che tentare di “imbrattare” professionisti – si passi l’immodestia – veri, sarebbe bello pensare che giornali autorevoli si dedicassero ad approfondire, sicuramente destando maggior interesse nel lettore, l’esame dell’operato, della pratica di quei tanti “giocolieri, mezzani, trafficanti” di cui il Sistema pullula», conclude, quindi, il professor Rampioni. Salvi, secondo la ricostruzione contenuta nel libro Il Sistema, per caldeggiare la propria nomina a procuratore generale della Cassazione, nel 2016 avrebbe alla presenza dell’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini invitato Palamara, zar delle nomine a Palazzo dei Marescialli, “su una splendida terrazza di un lussuoso albergo nei pressi di Corso Vittorio Emanuele”. La nomina non andò in porto in quanto Palamara decise di puntare su “baffetto”, alias Riccardo Fuzio. Tornando invece a Lanzi, la domanda è perché sia finito nel mirino. Diverse le ipotesi. Lanzi è fra i consiglieri che in questi mesi sta cercando con fatica di definire la posizione di Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma, finito nel procedimento Palamara a proposito dell’esposto presentato dall’ex pm Stefano Rocco Fava contro Pignatone e Ielo. A differenza di Lanzi sono in molti quelli che vorrebbero cacciarlo quanto prima da piazzale Clodio. Racanelli, ex segretario nazionale di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, è molto legato a Cosimo Ferri. In passato era stato osteggiato proprio da Pignatone che come aggiunti voleva, sempre secondo il racconto di Palamara, Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli.
Da “La Verità” il 27 marzo 2021. Roberto Rampioni, legale di Luca Palamara, attacca Corriere e Repubblica dopo gli articoli sul suo incontro con Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm, prima dell'audizione dell'ex pm: «Finalmente anche Corriere e Repubblica parlano della vicenda Palamara. Ma come lo fanno? Deviando il lettore su una notizia che notizia non è, attribuendole valore di scoop! Oscurano, tuttavia, il contenuto informativo reale, i temi oggetto della audizione di Luca Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato, con il gossip. L'incontro non è "singolare", avviene alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali; e in un momento antecedente di circa 13 ore all'individuazione da parte della commissione disciplinare, tenutasi nel pomeriggio, dei temi "segreti" da affrontare il mattino successivo».
Dagospia il 26 marzo 2021. A CIASCUNO IL SUO - SE PER “LA VERITÀ” E “IL GIORNALE” LA NOTIZIA E’ PALAMARA CHE DICHIARA DAVANTI AL CSM CHE IL PROCURATORE DI MILANO FRANCESCO GRECO GLI CHIESE IL FAVORE DI AIUTARLO A FAR NOMINARE GLI “AGGIUNTI” DI SUO GRADIMENTO, PER IL “CORRIERE” E “REPUBBLICA” LA NOTIZIA È L’INCONTRO TRA L’AVVOCATO DI PALAMARA E UNO DEI COMPONENTI DEL CSM, ALESSIO LANZI, ALLA VIGILIA DELL'INTERROGATORIO...
Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 marzo 2021. Luca Palamara show ieri ha fatto tappa al Consiglio superiore della magistratura. Con un certo coraggio i membri della prima commissione, quella che si occupa di incompatibilità ambientale, lo hanno convocato come testimone su alcune delicate questioni, che non erano mai state trattate nel procedimento disciplinare che ha portato alla sua espulsione dalla magistratura. Al centro dell' audizione, quindi, non sono stati i mai dimostrati casi di corruzione, ma il suk degli incarichi, nella sua accezione correntizia e spartitoria. E su questi temi, Palamara, già ingranaggio di un sistema perfettamente oliato, non si risparmia. E così, in un' ora e mezza di serrato botta e risposta, ha svelato le logiche che determinano le nomine degli aggiunti nelle due più importanti procure d' Italia, quelle di Roma e Milano, e ha risposto a domande su alcuni riferimenti, contenuti nelle intercettazioni del procedimento penale a suo carico, a Stefano Erbani, consigliere per gli Affari dell' amministrazione della giustizia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infine, Nino Di Matteo, con un suo quesito, ha consentito a Palamara di rispolverare un tema tabù, l' esposto del pm Stefano Fava contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Una segnalazione che verteva sul presunto conflitto d' interesse dell' ex capo degli inquirenti capitolini, il cui fratello Roberto è stato consulente di diversi indagati della Procura di Roma. Ma partiamo dal Colle. Palamara lo aveva tirato in ballo lo scorso 13 gennaio, nel suo ultimo interrogatorio perugino, davanti al procuratore Raffaele Cantone e ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano. «Come emerge dalle intercettazioni nella cena del 28 maggio 2019 viene detto che uno di noi aveva il trojan []» aveva detto. «In quel contesto Ferri (Cosimo, ex consigliere del Csm, ndr) mi aveva riferito [] che Antonio Lepre (all' epoca consigliere del Csm, ndr) gli aveva detto che Stefano Erbani aveva confidato a Gianluigi Morlini (pure lui ex membro del parlamentino dei giudici) che sul mio apparecchio era installato un trojan». Ieri i consiglieri hanno mostrato interesse a capire meglio come abbia funzionato questo presunto telefono senza fili. Anche se Erbani ha già decisamente smentito di aver riferito una simile notizia a chicchessia, versione confermata con noi da Morlini. Certo il trojan ha registrato altri passaggi in cui viene citato il consigliere. Per esempio in un' intercettazione Palamara sostiene che «Erbani terrorizza Morlini» e si lamenta che «siccome è molto amico di Cascini (Giuseppe, consigliere del Csm e aggiunto della Procura di Roma, ndr) gli raccontano le cose mie». Altra questione spinosa è quella che riguarda le nomine alla Procura di Milano. I consiglieri si sono concentrati su una chat tra il giudice Nicola Clivio, all' epoca consigliere del Csm in quota Area (il cartello delle toghe progressiste), e Palamara. La mattina del 21 settembre a poche ore dal voto in commissione Clivio è preoccupato perché vede in pericolo la nomina di Tiziana Siciliano e la cosa non gli sembra giusta. Spiega, infatti, che ha la sensazione che la stessa possa essere fatta fuori non perché meno qualificata, ma solo perché meno inserita nel sistema delle correnti. «È la meno schierata e quindi la più vulnerabile» dice. Nello scambio che ne segue, Palamara prova a sondare il terreno per verificare se ci sia la possibilità di inserire un suo candidato. Sia all' inizio che alla fine della conversazione Clivio sollecita Palamara a farsi due chiacchiere con il procuratore meneghino Francesco Greco per «chiarirsi il quadro» della situazione e Palamara a un certo punto sembra convincersi a farlo («Ora ci parlo»). Clivio e Palamara discutono anche di una candidata considerata vicina a Greco, Laura Pedio. L' ex pm annuncia di volere «rompere le palle su quel nome». Clivio lo sconsiglia: una tale mossa «fa incazzare Greco e tutto il mondo». Che Palamara e il procuratore si siano sentiti nel breve lasso di tempo intercorso tra questo scambio di messaggi e il voto in commissione non è provato e probabilmente su questo punto Palamara è stato chiamato a rendere chiarimenti, anche se l' 1 ottobre 2017 l' ex pm e Greco si danno appuntamento a Roma. «Al solito posto» specifica il procuratore. Forse l' hotel Montemartini di Roma. Alla fine i nominati saranno esattamente quelli sostenuti dal gruppo di Area (quello di Greco), compresa la Pedio, mentre Palamara riuscirà a far entrare nella cinquina dei promossi una sua candidata, Letizia Mannella, dando la sensazione che un accordo possa esserci stato. Colpisce che il Csm si interessi a questa vicenda a distanza di tre anni mezzo dai fatti e un anno dopo la pubblicazione delle chat da parte di questo giornale. Non si può non notare come la posizione di Greco sia più debole rispetto al passato: è sulla via del pensionamento e in questi giorni con i suoi pm è finito al centro delle polemiche, anche interne al suo ufficio, per la sconfitta della Procura nel processo Eni, i cui vertici sono stati assolti dall' accusa di aver pagato tangenti in Nigeria. Palamara, sollecitato su Greco, ha preso i commissari in contropiede e ha spostato l' attenzione sulle nomine degli aggiunti di Roma. Ha spiegato che il sistema di lottizzazione delle nomine che emerge dal dialogo con Clivio è stato applicata, con le stesse identiche logiche e modalità, anche per la Procura di Roma. Palamara ha ricordato alcune specifiche nomine trattate al tavolo con lui, in particolare quelle di Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Stefano Pesci. In particolare, l'ex pm ci ha tenuto a sottolineare come Pesci non fosse candidabile, dal momento che la moglie, Nunzia D' Elia, era aggiunto dello stesso ufficio. Eppure Pesci, nonostante questa presunta incompatibilità, è stato promosso dall' attuale Csm depalamarizzato. Palamara si è detto disponibile a un confronto su questi tempi con il consigliere Cascini. Un annuncio che ha certamente fatto tremare più di una sedia. Il consigliere Di Matteo si è mostrato, invece, incuriosito da una conversazione di Palamara con il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli in cui si faceva riferimento all' esposto di Fava. Un' interlocuzione probabilmente inedita. Ricordiamo che in un' intercettazione del 16 maggio 2019 Racanelli criticava il comportamento del segretario generale del Csm Paola Piraccini che, a suo giudizio, stava facendo ostruzionismo sulla segnalazione di Fava: «Sta facendo un casino per la prima non vuole dare gli atti». Cioè gli allegati dell' esposto. Palamara ipotizzava: «Questa è omissione di atti d' ufficio». L' esposto giunse in prima commissione il 7 maggio 2019, alla vigilia del pensionamento del procuratore Pignatone, dopo un percorso travagliato e un' anomala attività istruttoria da parte del comitato di presidenza. Ieri il consigliere Mario Suriano ha chiesto a Palamara il motivo per cui Fava avesse aspettato la fine della carriera del procuratore per accusarlo. Ma l' ex presidente non è la persona più adatta a rispondere. Forse prima o poi al Csm qualcuno troverà il coraggio di convocare Fava e di chiedere a lui delucidazioni sulla sua denuncia, ormai una specie di lettera scarlatta.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 26 marzo 2021. Una delle Procure più importanti d' Italia viene investita in pieno dalle ondate del caso Palamara alle nove e mezza di ieri mattina, quando l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati va a sedersi in un' aula del Consiglio superiore della magistratura. È l' istituzione su cui Palamara ha regnato a lungo, prima, durante e dopo il periodo di cui ne faceva formalmente parte. E che lo ha radiato dopo lo scandalo che lo ha investito. Ieri mattina, Palamara compare, convocato con poche ore di preavviso dalla prima commissione del Csm senza indicazione dell' argomento. E lì scopre che il tema dell' interrogatorio è quanto avvenne quasi quattro anni fa, quando il Consiglio di cui faceva parte nominò i cinque procuratori aggiunti di Milano. Una informata di nomine senza precedenti, che doveva ridisegnare il volto della Procura di Mani Pulite dopo la faida che l' aveva attraversata negli anni precedenti. Nel telefono sequestrato a Palamara, le chat raccontano per filo e per segno come vennero scelti i cinque «vice» del capo Francesco Greco. Ieri mattina, al Csm, a Palamara viene chiesto di spiegare quelle chat e quelle nomine. Lui va giù piatto: «È stata una lottizzazione tra le correnti». Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire. Ma il problema è un altro. Perchè la commissione che interroga Palamara è quella che si occupa delle «incompatibilità ambientali» dei magistrati. È lo strumento che permette di cacciare dalla loro carica magistrati che, anche senza illeciti disciplinari, non possano più stare lì. L' ultimo è stato Marco Mescolini, rimosso dalla Procura di Reggio Emilia proprio per il caso Palamara. Chi c' è ieri, nel mirino del Csm? La risposta, racconta chi ha partecipato alla riunione segreta e a porte chiuse, è netta: Francesco Greco, il capo della Procura milanese. A Greco non è stato finora notificato nulla di ufficiale, d' altronde tecnicamente i lavori della commissione contro di lui sono nella fase «preistruttoria». Ma l' insistenza con cui ieri la commissione ha insistito sulle nomine dei cinque aggiunti ha un significato difficilmente equivocabile. E non può essere casuale che l' apertura del fronte milanese del «caso Palamara» avvenga in un momento drammatico per la giustizia nel capoluogo lombardo, dove le spaccature e i veleni seguiti ai processi sull' Eni hanno investito anche la gestione dell' ufficio da parte di Greco. Oggi Greco è un capo indebolito, anche perché prossimo alla pensione. E gli attacchi influiranno inevitabilmente sulla scelta, che si annuncia lunga e cruenta, del suo successore. Greco non compare direttamente nelle chat. A parlare delle nomine milanesi con Palamara è Nicola Clivio, all' epoca consigliere del Csm per la corrente di Area. Si discute di un pacchetto di cinque nomi già pronto, che Palamara cerca invano di mettere in discussione. Su alcuni dei candidati fioccano giudizi impietosi. Ma alla fine passa il pacchetto precotto. E il ruolo del procuratore aleggia su tutta la conversazione. Quando Palamara cerca di escludere un nome, Clivio risponde: «Fa incazzare Greco e tutto il mondo. È sua». Ieri a Palamara viene fatta la domanda cruciale: parlò con Francesco Greco della nomine? «Sì», risponde lui. Anche se colloca il discorso in un confronto col procuratore di Milano su problematiche più vaste. Qualcuno, in Csm, non voleva che a Palamara venisse dato modo di dare la sua versione sull' infornata di nomine. Alla fine, però, ci si è arresi all' inevitabile. E ieri, in aula, Palamara conferma tutto e riassume: è stata una lottizzazione, con un occhio fisso sulla tessera di corrente dei candidati. Questa era la regola, d' altronde, prima e dopo che arrivassi io: è il mantra di Palamara, la sua linea di difesa. Milano, dice, non ha costituito eccezione. Ma se si parla di Milano, dice, bisogna parlare anche del resto. Di Roma, per esempio. Non solo della tormentata vicenda della nomina del procuratore capo Michele Prestipino, al cuore dell' indagine di Perugia. Come per Milano, dice l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati, bisogna scavare anche su come le gerarchie della Procura vennero decise con la nomina degli aggiunti: e fa i nomi di Paolo Ielo, Stefano Pesci, Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli, tutti nominati dal Csm attualmente in carica. Dopo di me, dice Palamara, non è cambiato niente.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2021. L'audizione di Luca Palamara torna a scuotere il Consiglio superiore della magistratura. Non tanto per ciò che ha detto ieri l' ex consigliere davanti alla prima commissione del Csm, quanto per il singolare incontro, alla vigilia dell' interrogatorio, tra il suo avvocato e uno dei componenti di quella stessa commissione. Si tratta di Alessio Lanzi, avvocato anche lui e consigliere «laico» in rappresentanza di Forza Italia, che dà una spiegazione del tutto banale e lecita della visita effettuata nello studio di Roberto Rampioni, uno dei legali che assiste Palamara imputato di corruzione a Perugia. Tuttavia quando al Consiglio s' è venuto a sapere, in maniera casuale, di questa curiosa coincidenza, i malumori sono arrivati fino al Comitato di presidenza, che ha incontrato la commissione prima dell' audizione di Palamara. La convocazione dell' ex presidente dell' Associazione magistrati espulso dall' ordine giudiziario (nel quale spera di essere riammesso, dopo aver presentato ricorso in Cassazione contro la radiazione) era stata decisa e comunicata all' interessato mercoledì, senza svelare gli argomenti sui quali gli sarebbero state fatte domande. Poi, all' ora di pranzo, Lanzi è andato a trovare il collega che difende Palamara, e nel pomeriggio la commissione che si occupa degli eventuali trasferimenti d' ufficio per presunte incompatibilità ambientali, s' è riunita nuovamente deliberando a maggioranza (con il voto favorevole pure di Lanzi) di allargare l' oggetto dell' audizione: non solo la posizione del procuratore di Milano Francesco Greco, come inizialmente previsto, ma anche quella del procuratore aggiunto di Roma Angelo Racanelli. Due pratiche aperte da tempo e apparentemente destinate all' archiviazione (per Racanelli c' era già una proposta che il plenum ha rimandato in commissione), che però potevano fornire a Palamara lo spunto per tornare su argomenti affrontati spesso nelle interviste televisive seguite alla pubblicazione del suo libro intitolato Il sistema . A decisione presa, al Csm s' è venuto a sapere dell' incontro tra Lanzi e Rampioni, e nel palazzo c' è chi l' ha messa in relazione all' audizione di ieri, nonché all' Operazione politico-editoriale innescata dal libro di Palamara. Una fuga di notizie anticipata, insomma, che Lanzi invece ha negato con decisione. E anche dopo l' interrogatorio dell' ex magistrato ribadisce: «Con il collega Rampioni c' è un' antica amicizia e frequentazione, abbiamo parlato di problemi legati all' università dopo che lui è andato in pensione. Palamara non c' entra niente, e nell' audizione io ho avuto un ruolo del tutto passivo, tant' è che non ho fatto alcuna domanda». Il comitato di presidenza e la prima commissione hanno preso atto della versione di Lanzi, ma il disappunto della presidente della commissione Elisabetta Chinaglia (che fa parte di Area, il gruppo della «sinistra giudiziaria») e di altri consiglieri resta ed è «agli atti». Se ci saranno strascichi e conseguenze si vedrà nelle prossime settimane. Sul contenuto dell' audizione, svoltasi a porte chiuse come avviene normalmente, Palamara - giunto a palazzo dei Marescialli con Rampioni - si limita a dire: «Ho parlato di fatti specifici, e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano; ho parlato di quanto emergeva dalle chat, ma il discorso si è poi allargato al trojan». Durante la deposizione l' ex consigliere si sarebbe soffermato più sulle vicende romane che su quelle milanesi, e il riferimento al trojan (che trasformò il suo telefonino in una microspia) riguarderebbe soprattutto un' intercettazione tra lui e Racanelli alla vigilia del voto del Csm per la successione all' ex procuratore Giuseppe Pignatone.
Csm, pressing su Lanzi perché lasci la prima commissione dopo l’incontro con l’avvocato di Palamara. di Liana Milella, Conchita Sannino su La Repubblica il 27 marzo 2021. Sarà il comitato di presidenza a decidere sul destino del laico di Forza Italia. È stato il Pg Salvi, che abita nel palazzo dove ha lo studio l'avvocato Rampioni, a scoprire casualmente l'incontro. In cui non c'era Palamara. Un ampio fronte di consiglieri togati e laici vuole lo spostamento. Cresce, al Csm, il caso Lanzi. Perché un ampio fronte - Area, Unicost, Autonomia e indipendenza, ma anche molti laici - chiede adesso che l'avvocato milanese lasci subito la Prima commissione, che decide quali magistrati devono essere trasferiti per incompatibilità ambientale. No, a questa ipotesi, dall'ex pm Di Matteo. Il comitato di presidenza - composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, dal procuratore generale Giovanni Salvi - si sarebbe riunito già oggi se non fosse stato assente, per suoi impegni, Curzio. Il vertice del Csm avrebbe dovuto affrontare il comportamento di Alessio Lanzi, il laico indicato da Forza Italia che mercoledì, un'ora dopo la convocazione di Luca Palamara in prima commissione, si è recato nello studio di Roberto Rampioni, nel quartiere Prati. Non era presente Palamara, sotto inchiesta a Perugia, ex, nell'ordine, dell'Anm, del Csm, della procura di Roma dov'è stato pm e dove correva per procuratore aggiunto. Ma quell'incontro tra l'interrogante e il difensore dell'interrogato, tra il componente del Csm e l'avvocato del protagonista del "Sistema" delle correnti, alla vigilia della prima e probabilmente unica audizione di Palamara al Consiglio per entrare nel merito delle sue chat, è apparso subito del tutto inopportuno. Un clamoroso passo falso. Una sgrammaticatura istituzionale scoperta per caso, ma che ha turbato fortemente un Consiglio che porta tuttora le ferite dello stesso caso Palamara e degli incontri impropri tra componenti del Csm e figure estranee, come quelle dei politici Luca Lotti (renziano rimasto nel Pd e a processo per il caso Consip) e Cosimo Maria Ferri (magistrato fuori ruolo, ex sottosegretario alla Giustizia con tre governi, deputato prima Pd e poi di Renzi). Un incontro peraltro ricostruito per una pura coincidenza, perché in quel palazzo dove Rampioni ha lo studio, vive invece il Pg Giovanni Salvi. Un suo parente che era andato da lui gli ha chiesto se per caso avesse visite, avendo incrociato Lanzi. E così l'incontro è venuto alla luce. La notizia, al Csm, ha creato sin da subito - era mercoledì pomeriggio - sconcerto e preoccupazione. Ma non ha influito sulla seduta della commissione di giovedì, che si è tenuta ugualmente e nella quale Lanzi (per effetto del turbamento provocato tra i colleghi membri) si è astenuto dal porre domande. Furibonda invece la reazione di Rampioni che, in agenzia, parla di "un incontro alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali". Incontro che lo stesso Lanzi, durante la commissione, ha minimizzato. Ma il giorno dopo, gli umori al Consiglio sono pessimi nei suoi confronti. La sinistra di Area, Unicost, una parte di Autonomia e indipendenza, molti consiglieri laici, sono convinti che - almeno - Lanzi debba lasciare il suo posto in prima commissione, avendo tenuto un comportamento improprio per un membro del Csm, soprattutto nei confronti dei suoi colleghi. Perché comunque, a poche ore dall'audizione dell'ex leader Anm, oggi imputato a Perugia, è quantomeno ipotizzabile il sospetto che tra Rampioni e Lanzi si sia affrontato l'argomento Palamara, tra temi e domande giuste da fare. Per questo il caso finisce all'attenzione dell'Ufficio di presidenza del Csm. Che dovrà decidere la linea da seguire. Anche senza fretta, tenendo conto che la prossima settimana, a Palazzo dei Marescialli, è "bianca": cioè non vi sono lavori, tranne quelli della commissione disciplinare. Dove, proprio da lunedì, vengono giudicati i cinque consiglieri, poi dimessisi, che erano all'hotel Champagne, la sera dell'8 maggio, con Palamara, Lotti e Ferri. Una coincidenza negativa per Lanzi, perché chi oggi lo critica e ne chiede la testa, ragiona sul fatto che questo Csm, proprio per il suo coinvolgimento nel caso Palamara, dovrebbe avere un surplus di attenzione e di cautela nei contatti con l'esterno. Saranno Ermini, Curzio e lo stesso Salvi in prima battuta a dover verificare se il comportamento dell'avvocato in quota Fi deve essere censurato, e quindi stabilire in che modo farlo, e in quale misura. Nell'immediatezza del fatto c'è chi ha parlato anche di sue dimissioni dal Csm. Alcuni ritengono sia necessario discuterne. E già l'idea che il caso Lanzi finisca in plenum, di fronte al medesimo consigliere laico, sarebbe davvero imbarazzante.
L'avvocato di Palamara smonta i veleni sul laico Lanzi. "L'incontro? Vedo anche Salvi tutti i giorni, stiamo nello stesso stabile". Anna Maria Greco - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Luca Palamara va al Csm e la prima commissione, in particolare la presidente Elisabetta Chinaglia (di Area) gli fa domande molto delicate su presunte trattative con il procuratore di Milano, Francesco Greco, per la nomina degli aggiunti e, questa volta Nino Di Matteo (di Autonomia e indipendenza), su come capì del trojan nel cellulare, tirando in ballo il Quirinale. Ci sarebbe molto da capire sui due capitoli affrontati a porte chiuse ma, a testimoniare il clima incandescente al Csm, l'attenzione se la prende la notizia di un incontro, alla vigilia dell'audizione, tra il laico di Fi Alessio Lanzi e uno dei legali di Palamara, l'avvocato Roberto Rampioni. Sospetti di fughe di notizie, fibrillazioni al vertice di Palazzo de' Marescialli, riferiscono Corriere della Sera e Repubblica. Il legale interessato parla di «falso scoop», di «gossip», per «deviare il lettore su una notizia che notizia non è» e «oscurare il contenuto informativo reale, i temi oggetto della audizione di Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato». Rampioni precisa che non c'è alcuna «curiosa coincidenza» e «casuale conoscenza» tra lui e Lanzi. «L'incontro - dice- non è singolare, avviene alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali; e in un momento antecedente di circa 13 ore all'individuazione da parte della commissione, tenutasi nel pomeriggio, dei temi segreti da affrontare il mattino successivo». Poi rilancia: «Cosa mai si potrebbe pensare dei frequenti, direi giornalieri, incontri tra il Procuratore generale, Giovanni Salvi, e il sottoscritto, difensore del dottor Palamara, coinquilini dello stesso stabile?». In effetti, al di là dell'obiettiva inopportunità dell'incontro, se Rampioni e Lanzi volevano parlare di segreti perché farlo nel palazzo dove potevano essere visti da uno dei membri della presidenza del Csm? «Piuttosto che tentare di imbrattare professionisti veri - attacca l'avvocato -, sarebbe bello pensare che giornali autorevoli si dedicassero ad approfondire l'esame dell'operato, della pratica di quei tanti giocolieri, mezzani, trafficanti di cui il Sistema pullula». Lanzi tace, conferma solo la correttezza del suo comportamento e il fatto che l'incontro col collega universitario non avesse nulla a che fare con l'audizione al Csm. Quanto al nocciolo, sembra che Palamara non abbia coinvolto Greco nei traffici sulle nomine e abbia spiegato che non fu il renziano Cosimo Ferri a rivelargli del trojan ma lui a capirlo quando seppe che il consigliere di Sergio Mattarella, Stefano Erbani (che smentisce), raccomandò a Gianluigi Morlini di procedere al Csm con audizioni in piena regola per il nuovo procuratore Roma, perché non girava solo l'informativa di Perugia sulla sua presunta corruzione ma voci di incontri fuori da Palazzo de' Marescialli. Si chiude così una settimana iniziata con l'audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone e anche quella lascia aperte molte domande su com'è nata l'inchiesta. Soprattutto sul perché non fu intercettato Fabrizio Centofanti, presunto corruttore di Palamara (spiato dal trojan dal 3 maggio 2019). Per Cantone era difficile perché l'imprenditore stava molto attento a non farsi spiare, ma le carte dimostrano che venne iscritto nel registro degli indagati solo il 27 maggio, ben dopo l'ex presidente dell''Anm e gli altri incriminati, Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Quale fu, dunque, il primo input per i pm?
Anna Maria Greco per "il Giornale" il 31 marzo 2021. A tempo di record il Csm rimuove dalla prima commissione il laico di Forza Italia Alessio Lanzi, «reo» di aver incontrato il legale di Luca Palamara prima della sua audizione. Non sono valse spiegazioni e assicurazioni che il colloquio nulla avesse a che fare con il caso che ha terremotato la magistratura italiana. Il vertice dell'organo di autogoverno delle toghe, a pochi giorni dall'accaduto e dopo che il caso è stato sparato con risalto su Corriere della sera e Repubblica, decide il trasferimento di Lanzi alla quinta commissione. A sostituirlo in quella che si occupa delle incompatibilità e valuta trasferimenti dei coinvolti nelle chat di Palamara, arriva Michele Cerabona, avvocato sempre di area Forza Italia.Il decreto è dell'ufficio di presidenza, guidato dal numero due del Csm, David Ermini, dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e dal primo presidente Pietro Curzio. Dei primi due si parla più volte nelle famose chat sequestrate a Palamara, ma i giudici inflessibili di oggi non hanno ritenuto «inopportuno» rimanere ai loro posti a Palazzo de' Marescialli, proprio mentre si giudicava il Sistema degenerato emerso dalle intercettazioni dei pm di Perugia. Eppure, la nomina del democratico Ermini, una volta renziano, a vicepresidente è una di quelle che sarebbe stata frutto dei traffici dell'ex presidente dell'Anm. Con i suoi accordi correntizi Palamara avrebbe danneggiato proprio Lanzi, che ambiva allo stesso posto. Quanto a Salvi, il Pg ha denunciato l'incontro avvenuto nello studio del legale Roberto Rampioni, che si trova nello stesso palazzo di casa sua, ma nelle chat si racconta di un colloquio che lui stesso chiese a Palamara 4 anni fa su una terrazza romana, per averne il sostegno nella nomina al vertice della procura generale del Palazzaccio. Ora che il «dominus» del Sistema, descritto nel libro con Alessandro Sallusti, è stato radiato dalla magistratura ed è sotto processo a Perugia per corruzione giudiziaria, la domanda è se questo Csm abbia le carte in regola per fare davvero pulizia. O se tutto continuerà come prima. Lo scomodo garantista Lanzi, fautore della separazione delle carriere e da avvocato contrario al corporativismo delle toghe, viene «punito» per essere inciampato in un incidente di percorso, ma il caso si ricompone in fretta per evitare troppo clamore, non si porta al plenum come altre volte. E al suo posto va un laico anche lui azzurro, per rispettare gli equilibri politico-giudiziari. Intanto Rampioni, indignato, scrive a Sergio Mattarella che presiede il Csm, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e ai vertici dell'avvocatura, per denunciare la «strumentale e squallida aggressione mediatica» dei due quotidiani, basata su una «notizia spudoratamente falsa» e sottolinea che Lanzi «non era in possesso di alcuna informazione riservata «sull'audizione che potesse interessare la difesa di Palamara». Si ribella, Rampioni, alla «logica del sospetto» e a chi l'ha alimentata facendo uscire dal Csm la notizia, per deformarla.
Il laico del Csm trasferito ad un'altra commissione dopo l'incontro con l'avvocato dell'ex pm poco prima della sua audizione. su Il Dubbio il 31 marzo 2021. Il consigliere del Csm Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia, lascia la prima commissione, quella che si occupa dei trasferimenti d’ufficio dei magistrati e che ha al vaglio il materiale delle chat di Luca Palamara. La decisione di trasferirlo, a quanto si apprende, è stata assunta dal vicepresidente del Csm, David Ermini, su proposta del comitato di presidenza, a seguito delle notizie di stampa che hanno riferito di un incontro di Lanzi con il difensore di Palamara, Roberto Rampioni, la sera prima dell’audizione dell’ex pm davanti alla prima commissione, di cui Lanzi era vicepresidente. Ermini oggi ha modificato la composizione delle commissioni spostando Lanzi dalla prima alla quinta commissione e mettendo al suo posto Michele Cerabona, altro laico di Fi. Una decisione, si sottolinea da Palazzo dei Marescialli, per rasserenare il clima e garantire tranquillità nei lavori. Lanzi aveva spiegato che si era trattato di un incontro banale con un collega a cui è legato da un’antica amicizia e frequentazione e aveva assicurato che non si era affatto parlato dell’audizione di Palamara. «Ciò che emerge, e con assoluta chiarezza, è che non è mai esistito un interesse della difesa Palamara ad informazioni relative ad un procedimento disciplinare che riguarda altri – ha scritto Rampioni sulle colonne de Il Giornale, puntando il dito contro Repubblica e Corriere, che hanno diffuso la notizia dell’incontro -, ma che vi è – come è dato evincere da quanto sostenuto dagli articolisti – il diverso interesse, almeno di parte della Commissione, di silenziare il più possibile il teste, di “non offrirgli lo spunto per tornare sugli argomenti” trattati nel noto libro e inibire le iniziative, lecite e doverose, di quei membri (si apprende Lanzi, Di Matteo, Basile) tese ad “ampliare il più possibile il perimetro dell’audizione”, come del resto richiesto dai numerosi magistrati che non si riconoscono nelle correnti. Ovvero, ottenere che Lanzi lasci la Commissione, così da scongiurare preoccupanti voti di parità».
Il Csm: «Lanzi parlò del caso Palamara». Ma il suo avvocato nega: «Non mi disse nulla». Il Comitato di presidenza del Csm: «inopportuna» la presenza del consigliere laico in Prima Commissione. Ma Rampioni, legale dell’ex pm, nega di aver parlato dei contenuti dell’audizione. Simona Musco su Il Dubbio il 2 aprile 2021. «Inopportuna». Viene definita così dal Comitato di Presidenza del Consiglio superiore della magistratura la permanenza del consigliere laico Alessio Lanzi in Prima Commissione, competente in procedimenti di incompatibilità dei magistrati. Un’inappropriatezza determinata dall’incontro intercorso tra l’avvocato forzista e Roberto Rampioni, difensore dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara proprio il giorno prima dell’audizione dell’ex pm come testimone sui contenuti delle centinaia di chat intrattenute con altri magistrati. La polemica generata da quell’incontro – di cui Repubblica e Corriere della Sera hanno dato notizia raccontandolo come off limits – ha quindi spinto Lanzi a lasciare la Prima Commissione alla volta della Quinta, quella per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. «Sono stato io a chiedere di cambiare Commissione – ha chiarito mercoledì con una nota -, poiché avevo perso ogni senso di fiducia nei confronti di due consigliere; due su cinque, che però hanno trovato la sponda del pronto avvicendamento da parte del Comitato». E circa il contenuto dell’incontro, Lanzi ha spiegato che si è trattato di un appuntamento «professionale», su temi accademici e editoriali «che ci uniscono. Ma la nota lapidaria diffusa oggi dal vicepresidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi propone un punto di vista diverso: «Lo stesso consigliere Lanzi – affermano – ha riferito che nel colloquio intercorso con l’avvocato Roberto Rampioni, sia pure marginalmente, è stato affrontato il tema dell’audizione del dottor Luca Palamara, fissata per il giorno seguente». Un’affermazione che confligge con quanto dichiarato, invece, dagli stessi protagonisti della vicenda. E ciò per un semplice motivo: l’incontro tra i due, durato 30 minuti, è avvenuto prima della riunione della Sezione disciplinare nel corso della quale sono stati individuati i temi da trattare durante l’audizione, avvenuta poi la mattina successiva. «In tale riunione, la proposta di ampliare il tema dell’audizione non fu mia ma di altro consigliere; non venne poi approvata e l’audizione si limitò solo a taluni aspetti», ha aggiunto Lanzi. Che sulla nota del Comitato di Presidenza preferisce non commentare: «Con la dichiarazione di ieri (mercoledì, ndr) ritengo chiusa la questione». Ma a ribadire che nulla di sconveniente sia accaduto è ancora una volta Rampioni: «Ribadisco al riguardo che nel corso del colloquio non sarebbe stato possibile parlare di alcun tema “oggetto” dell’audizione – spiega il legale al Dubbio -, in quanto, come a tutti ormai noto, i temi in discorso sono stati individuati in un momento successivo al “colloquio”». D’altronde, Palamara si trovava davanti alla Prima Commissione non in veste di accusato, ma di testimone, senza alcun bisogno, dunque, di conoscere in anticipo i contenuti dell’audizione, alla quale non ha partecipato il suo legale. Anzi, è stato lo stesso pm ad affermare più volte pubblicamente di voler «raccontare tutto», andando oltre il contenuto del suo libro, dal titolo “Il Sistema”. «Non vi era alcun interesse da parte del mio assistito a ricevere “informazioni preventive”, dal momento che in qualità di semplice “audito” avrebbe potuto essere sentito soltanto sul contenuto delle proprie chat – aggiunge Rampioni -. E perché la sua presenza (quella di Lanzi, ndr) non è stata ritenuta “inopportuna” al momento dell’audizione? Non amando (meglio, rifiutando) le ambiguità linguistiche e gli artifici verbali, cosa si intende affermare con l’espressione “sia pure marginalmente, è stato affrontato il tema dell’audizione”? – conclude – Alla luce del “dato” che il tema non può essere dislessicamente individuato nella convocazione per l’audizione, ma solo nel possibile (e, purtuttavia, ignoto) oggetto dell’audizione».
Lanzi sbatte la porta «Ho lasciato io, avevo perso fiducia in alcuni consiglieri». Il professore di diritto penale, componente laico del Csm replica alle accuse di poca trasparenza per aver incontrato il legale di Palamara. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'1 aprile 2021. «Ho perso ogni senso di fiducia nei confronti di due consigliere che hanno trovato sponda per il mio avvicendamento presso il Comitato di presidenza». Alessio Lanzi, componente laico del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia, si toglie qualche sassolino dalle scarpe e smonta le polemiche che in questi giorni lo hanno travolto. Il professore milanese di diritto penale, nel 2018 fra i candidati a diventare vice presidente del Csm, incarico che poi andrà al dem David Ermini, era stato “accusato” di aver tenuto un comportamento poco trasparente: il giorno prima dell’audizione di Luca Palamara davanti alla Prima Commissione del Csm di cui faceva parte, Lanzi si era recato nello studio romano del collega Roberto Rampioni, difensore dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati nel procedimento aperto a suo carico dalla Procura di Perugia per corruzione. La visita di Lanzi non sarebbe passata inosservata. Secondo ricostruzioni giornalistiche, la moglie del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, che vive con il marito nello stesso stabile dove ha lo studio Rampioni, dopo aver notato la presenza di Lanzi, avrebbe subito notiziato il consorte. Salvi, sempre ricostruzioni giornalistiche, a sua volta avrebbe informato dell’accaduto il Comitato di presidenza del Csm, di cui fa parte insieme ad Ermini e al primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio. «L’incontro con Rampioni ha riguardato temi accademici ed editoriali», puntualizza Lanzi, smentendo quindi ogni possibile collegamento con l’audizione di Palamara a Palazzo dei Marescialli. Su tale aspetto, in particolare, Lanzi precisa che Palamara è stato “audito” dalla Prima Commissione del Csm e non “interrogato”. La differenza è importante perché il testimone non necessita dell’assistenza di un difensore. E quindi della presenza di Rampioni. I problemi per il laico forzista sono, dunque, solo con Elisabetta Chinaglia, presidente della Prima Commissione ed esponente delle toghe progressiste di Area, e con Ilaria Pepe, davighiana di Autonomia& indipendenza, che avrebbero immediatamente insistito per allontanarlo dalla Commissione. «Non si comprende chi sarebbero gli altri consiglieri che avrebbero chiesto il mio allontanamento», puntualizza il professore milanese. Gli altri componenti della Commissione, appresa la notizia, poi amplificata da Repubblica e Corriere, non hanno avuto nulla da obiettare, ritenendola ‘ irrilevante’ dice ancora Lanzi riferendosi al pm antimafia Nino Di Matteo, al laico della Lega Emanuele Basile e alla togata di Magistratura indipendente, la corrente moderata, Paola Maria Braggion. Lanzi ricorda anche che la proposta di ampliare l’audizione di Palamara non venne approvata. «Ho fatto io domanda – ripete – per essere spostato dalla Prima Commissione poiché avevo perso ogni senso di fiducia nelle due consigliere che hanno trovato sponda da parte del Comitato di presidenza. La vicenda mi ha insegnato a conoscere compiutamente e fino in fondo le persone con cui lavoro», aggiunge Lanzi, ricordando «la necessità di un profondo impegno a tutela degli irrinunciabili principi in cui credo per assicurare alla comunità civile una giustizia nel rispetto dei principi costituzionali». Lanzi andrà ora alla Quinta commissione, competente per le nomine, ed il suo posto sarà preso dall’avvocato napoletano Michele Cerabona, anch’egli laico in quota Forza Italia. «Resta l’amarezza – aggiunge infine – di non aver potuto completare le pratiche rilevanti in via di definizione». E ieri è arrivato anche il commento del professore Roberto Rampioni, secondo cui si vuole “silenziare” Palamara. Nell’ora e mezza di audizione a piazza indipendenza lo scorso lunedì, l’ex numero uno dell’Anm aveva affrontato il tema delle nomine degli aggiunti a Roma e Milano, concentrandosi anche sull’esposto del collega Stefano Rocco Fava nei confronti di Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo.
Il complotto contro Lanzi: troppo garantista per le truppe forcaiole che occupano il Csm. Chi ha ordinato il pedinamento del consigliere del Cms Alessio Lanzi? E per quale motivo? Di certo, per le sue idee, non si era fatto molti amici tra le truppe giustizialiste. Davide Varì su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Lasciateci fare i complottisti, almeno per una volta. E come in ogni complotto che si rispetti dobbiamo provare a rispondere alla domanda delle domande: a chi giova? E per mantenere un certo mistero – ché gli articoli complottisti, è noto, vivono nella penombra, fioriscono nel non detto o nel detto tra le righe – potremmo prima chiederci il contrario, ovvero: a chi non giova, chi vuol colpire e chi mira a delegittimare questo complotto? Ecco, di certo il dossieraggio contro il consigliere laico Alessio Lanzi, perché è di quello che stiamo parlando, colpisce l’ala più garantista del Csm. E questo è un fatto. Ora, una volta seminati un po’ di interrogativi, passiamo ad elencare gli eventi. La Repubblica di ieri pubblica un lungo articolo nel quale parla di un incontro tra il consigliere Lanzi e Roberto Rampioni. Il Rampioni in questione, veniamo a sapere, è un avvocato, ma non un avvocato qualsiasi: è il legale difensore di Luca Palamara. E qui si spalanca un universo. È sufficiente citare quel nome, Palamara, per evocare in chi legge il grumo mediatico giudiziario che ha paralizzato la nostra Giustizia, la tossina che ha avvelenato la magistratura italiana, il groviglio correntizio che in questi anni ha giocato al risiko delle procure nei salotti dei più esclusivi hotel romani. Ora, sembra che l’incontro tra i due sia avvenuto poche ore prima che Palamara venisse ascoltato – “torchiato”, abbiamo titolato noi – dal Csm. E dunque la domanda è legittima: perché mai un membro del Csm decide di incontrare il legale difensore di Palamara alla vigilia “dell’interrogatorio” del suo assistito? E qui ognuno può trovare la risposta che più lo soddisfa anche perché difficilmente sapremo con certezza di cosa abbiano parlato i due. E allora passiamo a porci la seconda interessantissima domanda: chi ha ordinato il pedinamento dell’avvocato di Palamara e Lanzi? E a quale scopo è stato deciso? E chi ha passato l’informazione a Repubblica? E infine: è normale che un membro del Csm, organo di rilevanza Costituzionale sacro quasi quanto il nostro Parlamento, subisca questo genere di pedinamenti? E qui occorre fare un passo indietro e tracciare un breve profilo del professor Alessio Lanzi. Avvocato e giurista di altissimo livello, Lanzi era il nome più accreditato per diventare vicepresidente del Csm. Poi è intervenuto qualcuno o qualcosa che ne ha frenato la corsa e quando venne proposto il nome di Ermini – questo lo scrive Palamara nel suo libro – i “poteri forti” della magistratura (vedete come siamo complottisti?) reagirono stupiti: “Ermini chi?”. Ma alla fine “l’anonimo Ermini” vinse sul profilo decisamente troppo garantista dell’avvocato Lanzi. Il quale, però, ha portato la sua formazione, la sua sensibilità di giurista e le sue battaglie a palazzo dei Marescialli. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e così via. Lanzi finì poi nel mirino delle toghe milanesi e del Fatto di Travaglio quando osò criticare le perquisizioni mediatiche ordinate dalla procura di milano nelle Rsa Lombarde. Una lesa maestà intollerabile che spinse Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area a Palazzo dei Marescialli, a tuonare indignato: «Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente». Poi la “minaccia”: se Lanzi non smentisce le «dichiarazioni chiederemo l’apertura di una pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano». Insomma, a questo punto del racconto complottista dovrebbe essere chiaro a tutti che Lanzi è stato scelto come bersaglio per delegittimare e zittire una delle poche voci di dissenso e non arruolate nel variegato esercito guidato dalle procure di cui Palamara parla nel suo libro. Ma ripetiamo, questo è solo becero complottismo. La realtà è senza dubbio più semplice: qualcuno passando casualmente dalle parti dello studio romano di Lanzi deve aver riconosciuto il legale di Palamara decidendo di avvisare Repubblica. La quale ha deciso di darne conto non perché sia un giornale arruolato ma per puro amore della verità giornalistica. In ogni caso è facile prevedere che il risultato del complotto sarà esattamente opposto: chi intendeva delegittimare Lanzi ben presto si renderà conto che avrà contribuito a gettare una nuova manciata di fango contro la magistratura italiana. Si chiama eterogenesi dei fini.
«Contro Lanzi le logiche di quel “Sistema” descritto da Palamara». Parla l'avvocato Roberto Rampioni, legale dell'ex presidente dell'Anm. Che scrive a Mattarella per denunciare «l'aggressione mediatica» che ha travolto il laico del Csm. Simona Musco su Il Dubbio l'1 aprile 2021. Una rappresentazione plastica del «sistema». Si potrebbe sintetizzare così il pensiero di Roberto Rampioni, avvocato di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e al centro dello scandalo che ha terremotato la magistratura. Lo si evince dalla lettera inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, quattro pagine dense di significato, che delineano un quadro a tinte fosche su quanto accaduto ad Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm, che da due giorni ha lasciato la prima Commissione – quella per le incompatibilità – per passare alla quinta – quella per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Una decisione presa dopo l’incontro del forzista con Rampioni, avvenuto 24 ore prima dell’audizione dell’ex pm proprio davanti alla prima Commissione, di cui Repubblica e Corriere della Sera hanno dato notizia raccontandolo come off limits. Ed è questo, per Rampioni, l’elemento cruciale della vicenda. Si tratterebbe di «una strumentale e squallida aggressione mediatica», afferma nella lettera. La tesi dei due quotidiani è chiara: l’incontro avrebbe avuto come scopo quello di conoscere in anticipo le richieste che il Csm avrebbe fatto a Palamara. La notizia, precisa con enfasi Rampioni, è però «spudoratamente falsa». «È stato montato qualcosa che non esiste – racconta al Dubbio -. Palamara è stato sentito come teste su argomenti che non conoscevamo, ma che erano in ogni caso risaputi dall’ex presidente dell’Anm, perché riguardavano le sue chat. Che cosa mai avrebbe dovuto dirmi Lanzi? È una mascalzonata per tirarlo fuori dalla prima Commissione. Il timore di chi ha orchestrato tutto è chiaro: che Di Matteo e Lanzi, i più vivaci della Commissione, potessero chiedere troppe cose e che quindi il Csm diventasse una specie di cassa di risonanza». La tesi di Rampioni è, dunque, che Palamara sia stato “silenziato”. «Hanno l’interesse di ascoltarlo il meno possibile sul minor numero possibile di casi. Ma le pare normale che hanno aperto un numero minimo di procedimenti disciplinari rispetto a quella montagna di chat? – spiega ancora – Questo era l’interesse e infatti ci sono riusciti». Ciò che al legale, cresciuto professionalmente con i giganti del foro, pesa di più è l’obliquità: «Passano da me per arrivare a Lanzi», sottolinea. Ma allora chi sono i “mandanti” di quello che definisce un «pizzino»? «Non lo so – replica -, io sono abituato a ragionare sui fatti». E i fatti sono quelli che racconta nella lettera. L’incontro, spiega, è tra due amici, nessun argomento sensibile viene trattato. Si tratterebbe, dunque, di una notizia «costruita, “almeno” da parte del suo artefice, veicolata alle due testate, già rivelatesi compiacenti al cosiddetto “Sistema”, ed offerta ai media per raggiungere uno scopo “ulteriore”». L’appuntamento era stato programmato per il 24 marzo, molto prima della convocazione di Palamara, dopo diversi rinvii causati dalla pandemia. E proprio per evitare rischi, i due decidono di incontrarsi nello studio dell’avvocato, alla luce del sole, nello stesso stabile in cui vive il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Nessuna riunione carbonara, che sicuramente sarebbe stato sciocco tenere in un posto così “pericoloso” per qualsiasi affare losco, nessun atteggiamento sospetto, al più un problema di opportunità. L’incontro dura 30 minuti, dalle 13 alle 13.30. I due parlano di questioni accademiche e nulla più, spiega Rampioni. Anche perché la riunione della Sezione disciplinare nel corso della quale vengono individuati i temi da trattare durante l’audizione avviene nel pomeriggio. Nessuna soffiata, dunque, sarebbe potuta arrivare dal laico del Csm. L’avvocato si concentra sui termini usati da Repubblica e Corriere: Palamara, scrivono le due testate, sarebbe stato «interrogato», termine che, associato alla presunta «fuga di notizie», avvalora la tesi di ulteriori trame all’ombra di Palazzo dei Marescialli. Ma anche in questo caso si tratta di un termine che storpia la questione: l’ex pm è stato audito per chiarire circa le ormai famose chat in relazione alla posizione di altri magistrati. «Il suo procedimento innanzi al Csm – spiega infatti Rampioni – è da tempo chiuso, i temi attualmente in discussione innanzi alla Prima commissione, per giunta, non attengono minimamente alla vicenda penale ancora pendente presso il Tribunale di Perugia». La notizia dell’incontro arriva al Csm la sera prima dell’audizione. A portarla al comitato di presidenza è proprio Salvi, che il giorno dopo la riferisce alla Commissione. Ma si decide comunque di svolgere l’audizione. Prova questa, secondo Rampioni, del fatto che nulla di disdicevole fosse accaduto. E si tiene con la partecipazione del professor Lanzi «che, tuttavia, per scongiurare polemiche, non rivolge domande». «Ciò che emerge, e con assoluta chiarezza, è che non è mai esistito un interesse della difesa Palamara ad informazioni relative ad un procedimento disciplinare che riguarda “altri” – continua Rampioni -, ma che vi è – come è dato evincere da quanto sostenuto dagli articolisti – il diverso interesse di almeno parte della Commissione di “silenziare” il più possibile il “teste”, di “non offrirgli lo spunto per tornare sugli argomenti” trattati nel noto libro». Nessuno, dunque, si pone il problema di opportunità che quell’audizione si tenesse comunque. Dunque quell’incontro nessun problema ha creato al Csm. Ma la notizia viene comunque veicolata all’esterno. Ed è questo, secondo Rampioni, che avvalora il sospetto di «quell’interesse “ulteriore”, quella strumentalizzazione dell’incontro, che porta ad aggredire la onorabilità e la reputazione professionale di posizioni terze pur di inibire le iniziative, lecite e doverose, di quei membri (si apprende, Lanzi, Di Matteo, Basile) tese ad “ampliare il più possibile il perimetro dell’audizione”, come del resto richiesto da quei numerosi magistrati che non si riconoscono nel “Sistema” delle correnti; o, meglio, l’interesse ad ottenere che il prof. Lanzi lasci la Commissione, così da scongiurare “preoccupanti” voti di parità». Obiettivo, appunto, raggiunto. Un’operazione tipica del “Sistema”, conclude Rampioni, che per funzionare necessita «di una sponda mediatica, di qualcuno che si presti – anche contro il dato storico – ad offrirla in modo ingannevole al lettore». Chi ha veicolato all’esterno la notizia? «Non lo so – dice ancora al Dubbio -, il fatto è che la notizia che sarebbe stato prudente non far uscire è uscita. Se avessero avuto qualche sospetto avrebbero potuto fermare l’audizione. Ma non l’hanno fatto. Ma a questi giochi io non ci sto. Non ho certe idee in testa, non mi sarei mai permesso di incontrare Lanzi, se ci fosse stato un interesse. Questo io non lo accetto. Questo è il sistema»
Csm, le tensioni su Lanzi legate alle verifiche sui pm di Milano. Luca Palamara verrà audito presto in Commissione Antimafia. E l’Ucpi si schiera con Lanzi e il collega Rampioni, difensore dell’ex pm. Simona Musco su Il Dubbio il 4 aprile 2021. Non è chiaro chi, a Piazza dell’Indipendenza, abbia messo sul tavolo della discussione le nomine alla Procura di Milano. Quel che è certo è che la questione ha suscitato non poche tensioni. E il caos che si è scatenato attorno al consigliere laico Alessio Lanzi, passato dalla prima alla quinta commissione dopo il suo «inopportuno» – così è stato definito dal Comitato di presidenza del Csm – incontro con l’avvocato di Luca Palamara, Roberto Rampioni, secondo alcuni, potrebbe nascere proprio dalle differenti posizioni attorno a questo delicatissimo argomento. Che ora si arricchisce di un’ulteriore ipotesi, lanciata ieri dal quotidiano Domani: la possibilità che sul procuratore Francesco Greco sia stato aperto un fascicolo per incompatibilità ambientale.
LE NOMINE A MILANO. Il nodo centrale riguarda la nomina dei procuratori aggiunti a Milano. Nel corso dell’audizione dello scorso 25 marzo, la presidente della prima commissione, Elisabetta Chinaglia, ha chiesto all’ex presidente dell’Anm Palamara se fosse stato il procuratore Greco a suggerirgli i nomi delle persone da nominare. Domanda alla quale l’ex pm ha risposto negativamente: le nomine, ha ribadito, sono avvenute sulla base degli accordi con le correnti, a Milano come altrove. L’interlocuzione con Greco, dunque, avrebbe riguardato altro. Ma l’insistenza, nel corso dell’audizione, sulla procura di Milano c’è stata ed è stata evidente a tutti. La tensione, nei dintorni del Palazzo di Giustizia meneghino, è alta. E gli strascichi della sentenza Eni, con il botta e risposta tra Procura e Tribunale, poi sedato da una nota congiunta, sono la prova che qualcosa, negli uffici di via Freguglia, non va. E a pochi mesi dal pensionamento di Greco – che lascerà il 12 novembre prossimo e per la cui poltrona sono già in fila, tra gli altri, Nicola Gratteri e Paolo Ielo – la prospettiva di un procedimento per incompatibilità ambientale appare, ai più, inutile.
NESSUNA COMUNICAZIONE DALLA PROCURA GENERALE. Quel che è certo, allo stato attuale, è che al plenum del Csm non è arrivata alcuna comunicazione da parte della procura generale della Cassazione: improbabile, dunque, che si possa parlare di un procedimento disciplinare a carico del procuratore. Ma in prima commissione, quella deputata alle procedure di incompatibilità, è in corso una fase di pre- istruttoria su tutte le chat di Palamara, ovvero un faldone contenente 60mila conversazioni che riguardano circa cento magistrati. Alcuni orientamenti sono già chiari: per alcuni magistrati si va verso l’archiviazione de plano, per altre pratiche più complesse potrebbe arrivare la richiesta d’archiviazione da sottoporre comunque al plenum, ma senza troppe difficoltà. Altri casi, invece, risultano ben più complicati. I tempi, dunque, sono lunghi. E un possibile fascicolo su Greco – alcune fonti parlano già di «fase istruttoria» – richiederebbe, comunque, una lunga analisi, che potrebbe arrivare a ridosso del pensionamento. Ma dall’audizione del 25 marzo, stando alle informazioni trapelate, nessun elemento fornito da Palamara porterebbe sostegno a tale tesi.
PALAMARA IN ANTIMAFIA. L’ex pm, nei prossimi giorni, sarà audito anche dalla commissione parlamentare Antimafia in una data «che verrà stabilita quanto prima», ha annunciato il presidente della commissione Nicola Morra. Dal canto suo, Palamara ha già annunciato di essere «a disposizione di tutte le istituzioni». Ma trattandosi di «argomenti delicati», l’ex capo dell’Anm ha suggerito l’opportunità di avere di fronte «il legittimo contraddittore, per vedere in che modo avere un confronto, per vedere se il racconto che io faccio, ad esempio, su come si sono svolte determinate nomine, sia vero o no».
PENALISTI SOLIDALI CON LANZI E RAMPIONI. La vicenda Lanzi ha intanto suscitato la reazione dell’Unione delle Camere penali. Che «censura» l’iniziativa che ha determinato il suo addio alla prima commissione: «Il componente laico del Csm Alessio Lanzi è stato messo all’indice, sulla stampa», per l’incontro con Rampioni. Un incontro «tutt’altro che inconsueto tra due amici che si frequentano, si stimano e collaborano, professionalmente ed accademicamente, da decenni», fissato «ben prima che venisse disposta l’improvvisa convocazione». Pur non entrando nelle dinamiche del Csm, la Giunta dell’Ucpi ha sottolineato come, ancora una volta, «abbia avuto il sopravvento quella odiosa cultura del sospetto che sempre accompagna l’operato dell’avvocato difensore. La gratuità della illazione e la tetragona indifferenza ad ogni spiegazione alternativa offerta dai due illustri e stimati Colleghi confermano come alberghi anche in Piazza dei Marescialli l’idea malsana che l’avvocato difensore sia sempre complice del proprio assistito, e perciò univocamente sospettabile di operare, in ogni occasione ed in ogni luogo, a tutela di oscuri interessi, indifferente ad ogni regola di correttezza e di legalità».
Il testimone Palamara torchiato sulle nomine a Roma e a Milano. L’ex capo dell’Anm in audizione davanti al Csm, che secreta tutto. Intanto Michele Prestipino ha presentato ricorso contro la sentenza del Tar Lazio che ha annullato la sua nomina a procuratore della capitale. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Sotto torchio per novanta minuti, Luca Palamara si è tolto più di un sassolino dalle scarpe ieri mattina davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle “incompatibilità” delle toghe. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati era stato convocato il giorno prima per essere sentito dai suoi ex colleghi. Pur non essendo specificato il motivo, era evidente che l’oggetto dell’audizione avrebbe riguardato il sistema delle nomine in magistratura, come emerso dai messaggi che Palamara scambiava a ritmo frenetico con le centinaia di magistrati che aspiravano ad un incarico di vertice. L’audizione è stata secretata. «È una audizione riservata per la quale ho ricevuto la consegna del silenzio», ha detto all’uscita dal Csm Palamara, accompagnato dai suoi legali, precisando comunque che «è stato tutto registrato». «Mi sono impegnato a chiarire ogni vicenda», ha poi aggiunto il magistrato. La decisione di secretare l’audizione era stata fortemente criticata il giorno prima dai Radicali, i quali per stigmatizzare l’assenza di trasparenza avevano diramato un duro comunicato: «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più». Da indiscrezioni, comunque, pare che siano stati accesi i riflettori su Roma e Milano, in particolare sulle nomine dei locali procuratori aggiunti che sarebbero state effettuate su indicazioni dei rispettivi capi: Francesco Greco e Giuseppe Pignatone. Con i due magistrati Palamara aveva sempre avuto ottimi rapporti. Nel libro intervista “Il Sistema”, il magistrato racconta a tal proposito che Pignatone non avrebbe voluto Racanelli (Antonello, ndr) «ma insisteva pesantemente per Ielo (Paolo, ndr) e Sabelli (Rodolfo, ndr)». L’audizione è stata diretta dalla presidente della prima commissione Elisabetta Chinaglia. Attentissimo sembra sia stato l’ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha formulato più di una domanda. All’audizione erano presenti anche consiglieri non componenti della commissione. Altro argomento incandescente è stato l’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava, a distanza di due anni ancora pendente al Csm. Fava aveva depositato alla fine di marzo del 2019 un esposto a Palazzo dei Marescialli in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte del suo procuratore Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche ai togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Fava parlò dell’accaduto durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Davigo. L’esposto in questione era stato poi causa di procedimenti disciplinari e penali. Secondo l’accusa, sarebbe stata una mossa escogitata da Palamara per screditare sia Pignatone che Ielo. Ricostruzione sempre negata da Fava che aveva prodotto anche una telefonata fra l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini e lo stesso Palamara, in cui emergeva come si fosse trattato di una sua autonoma iniziativa. L’audizione di Palamara segue quella di Raffaele Cantone di lunedì scorso, durante la quale il procuratore di Perugia aveva cercato di chiarito la conduzione dell’indagine nei confronti dell’ex togato. E sul fronte della Procura di Roma, si segnala ieri la presentazione del ricorso di Michele Prestipino nei confronti della sentenza del Tar Lazio che aveva annullato nelle scorse settimane la sua nomina a procuratore della Capitale. Anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, che aveva presentato l’iniziale ricorso contro la decisione del Csm di preferirli Prestipino, si è costituito innanzi al Consiglio di Stato chiedendo il rigetto dell’appello. Nei prossimi giorni verrà fissata l’udienza per la trattazione della domanda di sospensione, anche a fronte della decisione del Csm di impugnare la sentenza. Il Tar del Lazio, come si ricorderà, aveva rilevato che Viola era stato escluso dalla commissione per gli incarichi direttivi del Csm pur essendo totalmente estraneo alle “macchinazioni o aspirazioni di altri”. In particolare a quanto emerso durante l’ormai famoso dopo cena all’hotel Champagne la sera dell’8 maggio del 2019 fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque consiglieri del Csm.
Le trattative per Milano e Roma. La rivelazione di Palamara: “Pignatone e Greco chiesero favori e nomine gradite”. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Marzo 2021. “Luca Palamara show” ieri mattina davanti alla prima Commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente per le investigazioni nei confronti delle toghe. L’ex zar delle nomine era stato convocato, il giorno prima, per essere sentito dai suoi ex colleghi. Nell’atto di convocazione non era, però, indicato il motivo. Al termine dell’audizione, durata circa novanta minuti, è trapelato poco o nulla. A Palamara è stata imposta la consegna del silenzio e tutto è stato “secretato”, nelle migliori tradizioni italiche e alla faccia della tanto invocata “casa di vetro”, come dicono i vari vice presidenti del Csm per descrivere l’asserita trasparenza che dovrebbe contraddistinguere l’operato dell’Organo di autogoverno delle toghe. Tuttavia qualcosa il Riformista è riuscito a sapere delle domande, non molte per la verità, rivolte a Palamara e che sembra riguardassero soprattutto il sistema nomine, ampiamente descritto nel libro Il Sistema che il magistrato ha scritto con Alessandro Sallusti, e l’esposto dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina, contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il presidente della Commissione, la togata progressista Elisabetta Chinaglia, pare abbia cercato di contingentare sia gli argomenti che le domande. Di diverso avviso, invece, i laici Alessio Lanzi (FI) ed Emanuele Basile (Lega) che hanno insistito per affrontare più tematiche. Molto interessato alle vicende della Procura di Roma pare sia stato il pm antimafia Nino Di Matteo, con domande precise e puntuali. Prendendo spunto dalle celeberrime chat di Palamara, la discussione si è inizialmente indirizzata sulle vicende degli uffici giudiziari milanesi e sulla persona del procuratore del capoluogo lombardo Francesco Greco, ormai prossimo alla pensione e al centro di molte polemiche recenti per via dell’assoluzione nel processo Eni–Nigeria di tutti gli imputati. Processo che ha lasciato uno strascico con il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi. Oggetto del contendere, in questo caso, l’utilizzo delle dichiarazioni del solito Pietro Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti finalizzata a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani, contro il presidente del collegio Marco Tremolada. Davanti ai pm milanesi Amara aveva raccontato di aver saputo dal capo dell’ufficio legale di Eni che i difensori dei vertici del colosso petrolifero, come la professoressa Paola Severino che assisteva l’amministratore delegato Claudio Descalzi, “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Greco con l’altro aggiunto Laura Pedio, in pieno dibattimento Eni-Nigeria, aveva trasmesso alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe milanesi, il verbale di Amara con la testimonianza nei confronti di Tremolada. A Brescia venne subito aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. Fabio De Pasquale, l’aggiunto che aveva condotto le indagini contro Eni, omissando parte del verbale di Amara, tentò anche di produrlo all’udienza del 15 febbraio senza riuscirci. Gli avvocati dell’Eni, ascoltati poi a Brescia, negheranno di aver mai detto nulla di ciò ad Amara. Un tentativo maldestro di condizionare il processo che ha mandato questa settimana su tutte le furie Bichi. Palamara, essendo il tema molto scivoloso, ha dirottato la discussione sulle ben più gravi vicende romane. Come le nomine degli attuali procuratori aggiunti della Capitale e l’esposto di Fava. Riguardo alla nomine degli aggiunti avrebbe ribadito quanto risultante dalle intercettazioni e dalle chat sugli interventi sistematici di Pignatone, e comunque anche di Greco a Milano, per ottenere nomine a lui gradite – poi effettivamente ottenute – quali quelle di Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini. Nei confronti di quest’ultimo, che aveva già negato questa ricostruzione, Palamara si è anche dichiarato pronto ad un pubblico confronto. Circa l’esposto, il magistrato ha chiarito ai consiglieri che lui sollecitava soltanto i doverosi approfondimenti di una situazione oggettivamente grave poiché era risultato che Pignatone avesse coassegnato il fascicolo di Fava su Amara ad altri tre magistrati – per pura coincidenza Ielo, Cascini e Sabelli – ed Amara aveva conferito incarichi al fratello dello stesso Pignatone. I documenti avrebbero dimostrato che Pignatone aveva anche scritto a Giovanni Salvi, allora procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, molto tempo dopo aver adottato gli atti e neppure comunicando tutte la situazioni di incompatibilità. In particolare non risulterebbe nessuna indicazione del rapporto di Pignatone con il giudice del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, poi arrestato con l’accusa di aver pilotato delle sentenze a Palazzo Spada, e dell’incarico ricevuto dal fratello da Pietro Balistreri, altro indagato del procedimento e socio di alcuni imputati per mafia in Sicilia. Salvi, pur essendo a conoscenza che Pignatone aveva comunicato con ritardo e parzialmente, avrebbe invece scritto al Csm e a via Arenula che il procuratore di Roma aveva fatto la dichiarazione di astensione tempestivamente e segnalando tutte le situazioni pregiudicanti. L’esposto, presentato a marzo del 2019, è ancora pendente a Palazzo dei Marescialli. Un altro caso segnalato da Palamara, infine, riguarderebbe moglie e marito che svolgono entrambi il ruolo di procuratore aggiunto a Roma: Stefano Pesci e Nunzia D’Elia. Pesci aveva preso il posto che era stato lasciato libero da Cascini in quanto eletto al Csm.
Risposta alle tesi del professor Ainis. Il processo a Palamara sarà un bagno di sangue, mette in discussione tutto il sistema. Alberto Cisterna su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Un importante articolo del professor Ainis (Le correnti senza ideali su Repubblica del 12 marzo) solleva questioni di grande rilievo sulla crisi della magistratura italiana o, meglio, di quella sua specifica rappresentanza professionale che sono le cosiddette correnti. La trama fitta delle osservazioni che l’illustre studioso svolge a proposito dell’identità delle fibrillazioni che toccano, insieme, la magistratura associata e un importante formazione politica del Paese (il PD) trova un punto di convergenza nell’azione, a suo dire nefasta, che le correnti hanno svolto e svolgerebbero in seno a formazioni – la magistratura e i partiti – di primario rango costituzionale. Il punto di caduta del ragionamento è, in buona sostanza, che proprio attraverso la degenerazione correntizia si siano tralignati gli scopi e le ragioni che avevano previsto l’inserimento nella Carta fondamentale di un Csm su base elettiva (articolo 104) e che avevano legittimato l’organizzazione spontanea della politica attraverso lo strumento dei partiti (articolo 49). L’analisi del professore Ainis non si sottrae certo a valutazioni estremamente severe circa l’associazionismo correntizio definito come un insieme di «lobby, cricche, camarille. Al servizio dei propri affiliati, non di un ideale. Anche se contraffatte con nomi suadenti: la democrazia, le riforme, l’indipendenza, la giustizia. Ma in realtà impegnate in una guerra per bande, fra eserciti nemici che però indossano la medesima divisa. II bottino? La prossima nomina in un ufficio giudiziario, se sei un magistrato». Se così fosse, par chiaro che se ne imporrebbe l’immediato scioglimento d’autorità poiché organizzazioni tendenzialmente eversive dell’ordine costituzionale e capaci di minacciare il regolare svolgimento delle attività di organi di primario rilievo per la Repubblica. Nessuno, e neppure l’illustre costituzionalista, giunge ovviamente a questa conclusione, ben consapevole del fatto che non si possono criminalizzare correnti giudiziarie e correnti partitiche sulla base di deviazioni, pur massicce e significative, dalle ragioni ideali che ne giustificano l’esistenza. Però l’analisi pone in esergo un profilo importante, e totalmente sottostimato nel dibattito che si sta sviluppando sul sistema di potere venuto a galla dopo l’affaire Procura di Roma: ovvero se per porre rimedio a quanto successo sia sufficiente un’azione di mera autorigenerazione morale dei gruppi associativi o se sia bastevole una riforma del sistema elettorale del Csm oppure se occorra metter mano alla Costituzione attraverso una più radicale riforma dell’ordinamento giudiziario e delle carriere. Non è necessario star qui a ricordare quali componenti del dibattito in corso si schierino sull’uno o sull’altro versante delle varie opzioni. Certo ai sostenitori della rivoluzione morale e ai fautori dei codici deontologici non si può fare a meno di ricordare che non è bastato il codice penale per infrenare comportamenti deviati e prassi devianti, per cui non guasterebbe un certo realismo al riguardo. La tesi del professore Ainis è che la palude correntizia sia una «malattia che non è figlia della Costituzione» e che «per rompere questo circolo vizioso, non serve una Costituzione tutta nuova, bensì nuove norme d’attuazione dei principi costituzionali. Quanto alle correnti giudiziarie, attraverso un sorteggio pilotato fra i magistrati più laboriosi, per designare i 16 togati del Csm». Certamente l’idea del sorteggio, da sempre avversata dalla maggioranza delle correnti dell’Anm e per ragioni ideologiche non trascurabili, si pone come una soluzione d’emergenza resa, per giunta, impellente dalla scadenza del Csm in carica nel 2022. In mancanza di altre soluzioni che non siano origami elettorali tanto incomprensibili quanto discutibili (mini collegi, sminuzzamenti della base elettorale e via seguitando), il pre-sorteggio dei candidati al Csm da sottoporre, poi, al voto delle toghe offre una via d’uscita rapida e, tutto sommato, non particolarmente penalizzante per la corporazione. In fondo siamo in presenza di meno di 10.000 aventi diritto al voto e non si deve certo metter mano alle Tavole della legge come una sorta di ego ipertrofico della corporazione pretende che sia, ma solo di indicare la maggioranza dei componenti di un Organo prevalentemente dedito alla amministrazione dei magistrati italiani e che non rappresenta in alcun modo il vertice della giurisdizione. Resta il dubbio che questa soluzione possa rappresentare una reale svolta nell’assetto della magistratura italiana e possa, d’un colpo, sopire le acque agitate dai carrierismi e dai cacicchi elettorali. Le toghe italiane sono in ebollizione da molto tempo e un nuovo coperchio elettorale non impedirà al malessere e alle critiche di prendere forma in altro modo e attraverso altre vie. Occorre essere lungimiranti in proposito. È sempre più evidente, anche agli occhi dei meno intranei al sistema tratteggiato sommariamente dal dottor Palamara, che il processo a suo carico che andrà a svolgersi a Perugia sarà un gigantesco bagno di sangue per la magistratura italiana. Vedremo se le telecamere saranno ammesse in aula e se gli epigoni del giornalismo giudiziario si stracceranno le vesti come ora sta accadendo per altre vicende giudiziarie che si assumono oscurate mediaticamente da divieti di ripresa. Una scelta, questa, non da poco perché terrebbe i riflettori permanentemente accesi su un susseguirsi di testimonianze e di racconti che minacciano di intaccare non la credibilità dei singoli (che poco importa invero se non sono stati probi), quanto l’autorevolezza dell’intera magistratura italiana agli occhi dei cittadini i quali vedrebbero crollare l’indispensabile fiducia verso la caratura morale dei propri giudici e senza che si possano fare troppe distinzioni o praticare curiali sottigliezze. Un lungo ed estenuante “Giorno in pretura” in cui gli imputati sarebbero, per la prima volta, i pretori; anzi i pretoriani di una casta, incistati in qualche caso nei vertici più alti della magistratura. Da questo punto di vista il processo, se come pare probabile ci sarà, andrà per forza documentato e studiato come si esamina un cadavere su un tavolo settorio. Una lunga, crudele autopsia per scoprire le cause del decesso e le tracce degli autori del delitto. Che questo accada dipende, comunque, da scelte insindacabili di quel tribunale e staremo a vedere. In questo probabile scenario una riforma costituzionale ad ampio compasso potrebbe rappresentare l’unico strumento adeguato per rassicurare la collettività e le istituzioni circa la reale tenuta democratica della giurisdizione che svolge un compito difficile per il quale il consenso e l’adesione dei consociati sono indispensabili. Una vera e propria rifondazione costituzionale del processo e della magistratura per immunizzarla per sempre da rischi del genere. Purtroppo le degenerazioni correntizie rischiano di portare a fondo tutte le toghe, anche le tantissime che spalano fascicoli e sudano ogni giorno per rendere giustizia e a cui sembra consegnato, se non si cambia radicalmente strada, un cupo monito: «lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Matteo 8, 18-22).
Perché la Costituzione Italiana ha fallito, e ha fatto nascere uno Stato privo di autorevolezza. Alberto Cisterna su Il Riformista il 20 Marzo 2021. L’affermazione del professor Ainis (La Repubblica, 12 marzo) secondo cui la degenerazione correntizia della magistratura, al pari di quella che affligge i partiti, «non è figlia della Costituzione» appare così importante, nella discussione in corso in questi tempi così travagliati, da suggerire qualche ulteriore riflessione (v. Il Riformista 16 marzo). Se la tesi fosse corretta se ne dovrebbe ricavare la convinzione, che l’autorevole commentatore ha esplicitato, per cui basterebbe qualche aggiustamento alla legge elettorale che regola la composizione della parte togata del Csm (i 2/3 del tutto) per porre rimedio ai tanti mali della corporazione che, a occhio e croce, sono sopravvissuti ad almeno tre decenni di leggi, profluvi di circolari e, persino, modifiche costituzionali (l’articolo 111) volte a tentare un riequilibrio dei rapporti di forza processuali e ordinamentali dentro e fuori della magistratura. Discorso complesso ovviamente e che purtroppo impone un certo schematismo e qualche inevitabile approssimazione. Che la Costituzione del 1948, secondo la retorica rinfocolata dal referendum costituzionale del 2016, sia la «più bella del mondo» è in verità largamente opinabile. A occhio e croce: 67 Governi in circa 70 anni, gli ultimi 3 in meno di 3 anni; un presidente della Repubblica che, ben oltre le funzioni previste, ha dovuto in almeno 3 occasioni (Ciampi, Monti, Draghi), costruire una maggioranza parlamentare e indicare il premier da votare con il relativo programma di governo; una Corte costituzionale che, ben oltre le funzioni previste, ha espanso il proprio intervento sino a imporre al Parlamento tempi e modi della legislazione e a esautorarlo su questioni cruciali per la società (eutanasia, fecondazione assistita, carceri e molto altro); una società malata di una denatalità cronica, malgrado la famiglia sia stata innalzata a «società naturale» che lo Stato «riconosce»; una «eguaglianza morale e giuridica dei coniugi» strangolata senza rimedi da una legislazione che penalizza il lavoro femminile e lo priva di assistenza pubblica; una scuola «aperta a tutti» e in cui ai «capaci e meritevoli» è riconosciuto «il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi», sbeffeggiata dalla fuga all’estero dei migliori alla ricerca di opportunità di studio e di lavoro; l’autonomia universitaria tante volte trasformata in escamotage per assunzioni familistiche e per la moltiplicazione di cattedre in cui allocare congregati e affiliati; un sistema tributario, giustamente, «informato a criteri di progressività» che tuttavia – proprio a causa di questo suo connotato ideale – è divenuto la ragione prima dell’evasione e dell’elusione fiscale dei redditi più alti inevitabilmente inclini alla flat tax; un assetto regionalista che ha trasformato l’Italia in un caleidoscopio di inefficienze e sprechi; una pubblica amministrazione esautorata da commissari e generali persino per svolgere la più elementare delle funzioni in tempi di pandemia; un parlamento surrogato dai Dpcm per mancanza di una minima regola costituzionale sui poteri d’emergenza. E si potrebbe proseguire a lungo, quasi articolo per articolo, per dimostrare che la Costituzione più bella del mondo ha finito per agevolare lo sviluppo di un modello di società consociativa, ipergarantita, corporativa, insofferente allo Stato, vocazionalmente anomica, esosa per le finanze pubbliche, riottosa ai propri doveri, rancorosa per i diritti negati. Sarà stata anche bella la Carta, ma appare oggi un compendio di troppe inefficienze che proprio il suo scudo rende quasi insormontabili e praticamente ineliminabili. Poi, per carità, la parte dei diritti fondamentali e delle libertà è un inno alla gioia, ne possiamo andare fieri come una Venere di Milo, splendida, ma senza braccia per agire. Se le regole sugli apparati pubblici e sulle sue articolazioni sociali ne impediscono o ne ostacolano la piena attuazione, allora la beffa consumata dai costituenti appare ancora più grande. Temevano, giustamente, uno Stato autoritario e hanno posto le radici per la nascita di uno Stato privo di autorevolezza, sfiduciato alla fine dai suoi stessi cittadini, tante volte indotti a costruire circuiti alternativi – vere e proprie corporazioni, spesso, se non lobby e cosche – attraverso cui esercitare le proprie pretese, tutelare i propri diritti, soddisfare le proprie aspettative; tutte cresciute e prosperate al riparo della tutela accordata alle «formazioni sociali» che costituiscono l’ossatura politica della Nazione (articolo 2) e ne sono divenute, una volta di troppo, la pietra d’inciampo. Lunga, quanto sommaria, premessa per tornare al tema se la degenerazione correntizia della magistratura sia o meno «figlia della Costituzione», se si possa davvero ritenere che la sua bellezza sia stata sfigurata da figli degeneri e irriguardosi. Oppure se sia lecito dubitare che l’architettura costituzionale della giurisdizione, anche dopo la riforma del 1999, portasse con sé e in sé i germi di una inevitabile corrosione interna. Si faccia il caso: affiancare al principio di obbligatorietà dell’azione penale il precetto della ragionevole durata del processo (1999-2001) è equivalso a innescare una miccia esplosiva che ha fatto definitivamente deragliare un treno già reso ondivago e traballante dalla previsione di un rito processuale di stampo accusatorio (1988). È chiaro che la prescrizione sia uno scempio morale e costituzionale, ma è resa inevitabile dall’enormità del carico penale che è generato proprio dal principio di obbligatorietà dell’azione penale per giunta da attuare in un processo accusatorio. Una miscela talmente instabile da aver consentito a taluno di affermare che, purtroppo, le prove granitiche acquisite durante le indagini evaporano in dibattimento; quasi che, se non ci si mettessero di mezzo i difensori, avremmo il processo perfetto. La Prima Repubblica mitigava il tutto grazie a un rito di stampo inquisitorio (1930) e, soprattutto, dispensando diffusamente amnistie e indulti. Poi il parlamento, sotto il cielo giustizialista (1992), si è privato anche di questo strumento di regolazione politica delle pendenze processuali e di depurazione delle aule di giustizia – prevedendo un’irraggiungibile maggioranza dei due terzi per approvarle – e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. L’ultimo provvedimento deflattivo è del 2006, mentre dal 1948 al 1992 erano stati adottati oltre 40 leggi clemenziali. Donde l’ergersi di un pm che, senza prescrizione, può condannare l’imputato alla pena del processo eterno e senza che nessuno possa porvi rimedio. È chiaro, ancora, che prevedere un Csm elettivo esaltava l’autogoverno della magistratura (non la sua autonomia), svincolandola dal ministro della Giustizia, ma si doveva immaginare che – nella pressoché totale inerzia del legislatore, incapace di mettere mano in modo radicale a un ordinamento giudiziario del 1941 – Palazzo dei Marescialli avrebbe finito per svolgere un ruolo decisivo e attrattivo verso le toghe, totalmente soggette al potere dell’organo di autogoverno e sotto ogni profilo della loro carriera. Tanto da costringere la Corte costituzionale a dover ricordare che «nel patrimonio di beni compresi» nello status professionale dei magistrati «vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura» (sentenza 497/2000); un argine alle stesse funzioni consiliari previste dalla Costituzione e da rendere ancor più insuperabile nella crisi clientelare con un’adeguata «rivoluzione costituzionale».
La giustizia lumaca del sindacato dei pm: acquisite le (già note) chat di Palamara. I probiviri potranno valutare le eventuali violazioni dei giudici coinvolti. Luca Fazzo - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. Ci siamo quasi, fa sapere il segretario dell'Associazione nazionale magistrati Salvatore Casciaro: le chat succhiate dal telefono di Luca Palamara sono state consegnate quasi per intero all'Anm, e ora i probiviri del sindacato potranno iniziare a valutare se gli iscritti che bussavano alla porta di Palamara abbiano violato i principi deontologici. L'aspetto singolare della comunicazione di Casciaro non è solo che si tratta dell'ennesimo annuncio in cui l'Anm si dichiarava pronta a tirare le fila dell'inchiesta interna. Il problema è che le chat sono di pubblico dominio da quasi due anni, tanto che alcuni dei magistrati coinvolti hanno già lasciato spontaneamente l'associazione e alcuni non sono più nemmeno magistrati. La giustizia interna dell'Anm rischia insomma di arrivare fuori tempo massimo, e soprattutto di muoversi in un contesto di norme - cosa può o non può fare un magistrato - quanto mai aleatorio. I probiviri dell'Anm sono in una situazione complicata: basti pensare che uno di loro si è dovuto rapidamente defilare perché coinvolto in una nomina bocciata dal Consiglio di Stato. D'altronde se si dovesse usare il pugno di ferro, si salverebbero in pochi: gli 84 capi di tribunali e di procure che (secondo una analisi del Giornale mai smentita) devono il loro posto all'intervento decisivo di Palamara sono ancora tutti al loro posto e hanno in tasca la tessera dell'Anm, nonostante non pochi di loro compaiano con nome e cognome nelle chat. Per salvare i reprobi, l'Anm ha a disposizione un parere autorevole come quello di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione (a sua volta autorevole dirigente di Magistratura democratica) che ha ritenuto non perseguibili disciplinarmente gli atti ci «autopromozione», ovvero i comportamenti di chi implorava da Palamara un posto per se stesso. In questo modo a venire colpiti potrebbero essere solo i membri dell'Anm che partecipavano attivamente alla spartizione delle poltrone: ma come distinguere questi comportamenti dal legittimo esercitare l'attività di corrente, che l'Anm ha sempre difeso come lecita e anzi meritoria? Partenza in salita, insomma. Resa ancora più complessa da un tema solo in apparenza procedurale: le chat possono essere utilizzate senza il consenso degli interessati? La domanda può sembrare oziosa, essendo tutto ormai arcinote. Ma formalmente il problema esiste, soprattutto da quando il principale indagato, Luca Palamara, ha formalmente diffidato il Csm a acquisire e rendere note le chat, promettendo una richiesta di risarcimento di danni A maggior ragione, anche l'Anm (che è un organismo di diritto privato) potrebbe subire la stessa diffida. Nella sua denuncia, Palamara aveva rilevato come «chiunque può accedere sul Csm e tranquillamente leggere il contenuto delle chat senza che le stesse siano in qualche modo secretate o omissate anche quando riportano per intero messaggi privati tratti dal mio cellulare che nulla hanno a che fare con i reati che mi vengono contestati». Lo stesso tipo di obiezione potrebbero rivolgerla gli iscritti all'Anm ai probiviri. Ma il confine tra privacy e comportamenti poco deontologici è impervio. Basti pensare alla vicenda che vede coinvolti il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e il pm palermitano Alessia Sinatra, la seconda accusa il primo di averla aggredita sessualmente e chattando con Palamara lo riempie di insulti. Sia Creazzo che la Sinatra sono iscritti all'Anm, ma come faranno i probiviri ad occuparsi di loro senza entrare nella loro vita privata? Nella sua dichiarazione di ieri il segretario Casciaro assicura che «l'attività di verifica delle condotte di rilievo disciplinare endo-associativo saranno svolte nel rispetto del regolamento dell'Unione europea che impone di ispirare il trattamento dei dati ai principi di proporzionalità e di necessitá, e quindi di limitare la disamina ai soli dati indispensabili per l'accertamento degli illeciti deontologici». Più facile a dirsi che a farsi.
Antonio D’Orrico per La Lettura – Corriere della Sera l'8 marzo 2021. Mettete tutto al condizionale (e con la condizionale). L' inizio è da John le Carré de noantri. Una notte all' hotel Champagne politici e magistrati brindano, come nella canzone di Peppino di Capri, al nuovo organigramma del potere giudiziario. Il Sistema (che è anche il titolo del libro) si regge sulla legge quadro di ogni sistema: io do una cosa a te, tu dai una cosa me. Nel Sistema vige la regola del tre: una Procura indaga, un giornale amico pubblica, un partito politico gode. Funziona sempre, da Berlusconi a Renzi. Nei tribunali gira la battuta: «La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti». Luca Palamara, figlio d' arte, presidente più giovane nella storia dell' Associazione nazionale magistrati, supertrafficante giudiziario e politico, accusato da Francesco Cossiga in diretta tv di avere una faccia da tonno («tonno Palamara»), fondatore del Metodo che porta il suo nome (il manuale Cencelli dei giudici), ora declassato a Moggi del Consiglio superiore della magistratura e radiato, si confessa ad Alessandro Sallusti. Anche Palamara, come tutti ormai, ha la sua narrazione. Gli avrebbero fatto pagare il tentativo di far alleare i magistrati di centro e di destra contro quelli di sinistra, alfieri del massimalismo giustizialista. Quanto ai suoi maneggi, Palamara parla in terza persona: «Solo uno stupido può pensare che Palamara abbia fatto tutto da solo». Muoia Sansone con tutti i Filistei: «Perché io non solo ero in prima fila. Avevo il potere, insieme ad altri, di decidere chi doveva stare in prima fila». Come Jep Gambardella della Grande bellezza , Palamara non voleva solo partecipare alle feste, voleva avere il potere di farle fallire. La storia di un crac, quello di un sistema politico-giudiziario, è al primissimo posto dei bestseller con distacco abissale. Merita tanto successo? Sì, è una ottima spy story con un protagonista all' Alberto Sordi. E fa paura.
Luca Fazzo per “il Giornale” l'8 marzo 2021. A ottomila chilometri di distanza dall' Italia. A cinque anni dalla fine di un incubo. Oggi Ilaria Capua, la virologa che il mondo ci invidia, lavora in Florida. Di come nel 2014 pm e giornali la fecero a pezzi dipingendola come una spietata trafficante di virus vorrebbe dimenticarsi. Ma poi accade che le capiti in mano Il Sistema, il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara sul lato oscuro della giustizia italiana. Ed è come una cicatrice che si riapre. Perché in un passaggio cruciale del libro si parla di un magistrato che la Capua conosce bene. Si chiama Giancarlo Capaldo, ed è il procuratore aggiunto della Repubblica che la incriminò per delitti terribili: «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all' abuso di ufficio e per il traffico illecito di virus». Scoprì di essere indagata da una copertina dell' Espresso. Non era vero niente. Per venire prosciolta, dovette aspettare due anni. Il giorno dell' assoluzione disse: «Mi sento sfregiata come se mi avessero buttato addosso l' acido. E certe ferite non se ne vanno». Adesso la Capua dirige One Health, centro di eccellenza dell' Università della Florida. Ma quel nome, Capaldo, la riporta brusco di qua dall' Oceano. Cosa dice, Il Sistema, del magistrato romano? Semplicemente, di come nel 2011 fosse a un passo a diventare capo della Procura, e come la sua candidatura fosse stata azzerata da una soffiata alla stampa. Saltò fuori una sua cena con l' allora ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il suo braccio destro Marco Milanese, coinvolto nell' inchiesta su Finmeccanica che Capaldo stava conducendo in quei giorni. Secondo Palamara, la soffiata fu opera di uno dei «cecchini», che spesso entrano in scena quando il Csm deve affrontare nomine importanti. Ma la scena surreale di Capaldo che nel bel mezzo di una inchiesta delicata si attovaglia con Tremonti e Milanese resta impressa. Capaldo ammette, il Csm apre un fascicolo, lui deve abbandonare l' inchiesta. Una decisione amara, anche se il Csm lo grazia e lo lascia al suo posto. La passione per le indagini clamorose, però, fa parte del suo Dna. Un anno prima, nel 2010, sulle prime pagine è finita un' altra indagine di Capaldo: 56 arresti, nell' ordinanza di cattura viene definita «una delle frodi più colossali mai poste in essere nella storia nazionale». Nel mirino ci sono Sparkle, controllata da Telecom Italia, e Fastweb, stella della new economy. Il fondatore, Silvio Scaglia, si trova all' estero al momento della retata, torna in Italia spontaneamente per spiegare, invece Capaldo lo mette in galera. È imputato di riciclaggio, lo tengono per tre mesi a Rebibbia, un altro anno ai domiciliari. Però poi, nel 2013, arriva il processo. E Scaglia insieme a quattro manager di Sparkle e Fastweb viene assolto con formula piena. Per Capaldo è un uppercut al mento. Ma la riscossa è dietro l' angolo. Sul tavolo del procuratore aggiunto di Roma arriva un fascicolo dall' America, si parla dell' epidemia di aviaria del 2005 e delle dosi che il governo di allora (ovviamente a guida Berlusconi) comprò per fronteggiare il virus. Il boccone più ghiotto è fin dall' inizio Ilaria Capua: non è solo una scienziata di fama internazionale, ha fatto anche lo sbaglio di mettersi in politica, candidandosi con Mario Monti, è stata eletta e nominata sottosegretario alla Cultura. Tra i tanti nomi finiti nel registro degli indagati, è il suo - inevitabilmente - a finire sulle prime pagine. Anche lì, come per il povero Scaglia, non c' è mezza prova. Ma anche lì prima che la giustizia ammetta i suoi errori ci vorranno due anni. Tanto non cambia mai niente, le fughe di notizie continuano, la vita delle persone continua a venire fatta a fette. E quando la Capua prova a querelare il settimanale che l' aveva chiamata trafficante di virus si sente rispondere dal giudice che il «testo dell' articolo è una fedele ricostruzione delle risultanze investigative acquisite dalla procura della Repubblica di Roma». Tutte sbagliate, ma che importa?
Magistratopoli e i suoi scandali. “Dopo Palamara solo parole e nessuna riforma”, parla Michele Vietti. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Michele Vietti, avvocato e giurista, in politica prima nel Ccd e poi nell’Udc, ha assunto la carica di vicepresidente del Csm dall’agosto 2010 al 2014, dopo esserne stato componente laico sin dal mandato 1998-2001. Il suo nome ricorre in diverse pagine del libro Il Sistema, in cui Alessandro Sallusti raccoglie le confessioni di Luca Palamara.
Il sistema Palamara che cos’era?
«Una degenerazione delle correnti della magistratura che, messa in secondo piano la loro vocazione ad essere luoghi di elaborazione e confronto di idee e proposte di politica giudiziaria, si sono concentrate sulla spartizione di incarichi».
Sì, ma possiamo parlarne al passato?
«Credo che la tentazione dell’autoreferenzialità sia forte, nella magistratura come in tutte le corporazioni e che non ci si possa affidare solo a predicozzi moralistici per invertire una tendenza che si è rivelata molto radicata e dagli effetti dirompenti. Solo una riforma che sia frutto finalmente dell’assunzione di responsabilità da parte della politica, può porre rimedio alle distorsioni che il “caso Palamara” ha portato alla luce e che non ci si può illudere di superare, come è successo in passato, affidandosi a patetiche “autoriforme” del CSM».
E questo in concreto come si traduce?
«Certo se ci si continua a scandalizzare per quello che è successo senza fare assolutamente nulla, tra qualche tempo non dovrà stupire lo scoppio di una nuova puntata. Sono quasi due anni che si parla di Palamara ma non ho visto un solo intervento riformatore messo in campo da chi ne aveva la titolarità».
Nel libro di Palamara lei viene citato più volte. Quali furono i rapporti tra voi?
«Non esito a dire che gli sono stato amico e l’ho frequentato a lungo nei vari ruoli istituzionali che ho ricoperto. Ne ho apprezzato la passione per il suo lavoro associativo e la capacità di rappresentare le istanze dei suoi colleghi. Avevamo sensibilità e stili diversi, ma questo non ci ha impedito di collaborare. Comunque il giudizio di onestà che mi rivolge in quella sede lo considero un complimento».
Anche lei fu parte di un sistema, era possibile andarvi contro?
«Continuo a pensare che le correnti possano essere governate e non necessariamente subite: certo ci vuole autorevolezza, senso istituzionale e dignità del ruolo. E ci vogliono riforme incisive».
Una cosa che lei avrebbe dovuto fare e invece non ha fatto, all’epoca?
«Avrei voluto convincere i miei consiglieri ad essere più rigorosi nelle valutazioni periodiche, nelle progressioni in carriera e nel giudizio disciplinare: la legittimazione dei magistrati non viene dal consenso, come per gli esponenti degli altri due poteri, ma dalla selezione, dalla professionalità, dall’equilibrio, in una parola dalla credibilità, che l’organo di governo autonomo deve preservare come il bene più prezioso».
Una riforma complessiva del Csm è possibile? Quale?
«Riforma della legge elettorale, incompatibilità tra ruolo amministrativo e disciplinare del consigliere, snellimento dei pareri, norma primaria sintetica per la nomina degli uffici direttivi che consenta di scegliere i migliori in forza di un atto politico e non di uno slalom tra requisiti contraddittori che giustificano forzature in nome di un ossequio formale, attribuendo al giudice amministrativo il ruolo di ultima istanza rispetto alle decisioni di chi la magistratura ordinaria dovrebbe governare. Queste e tante altre proposte sono sul tavolo. Non vedo però la volontà politica di attuarle».
Questo suo impegno di oggi in Finlombarda segna un taglio col passato?
«Per la verità di diritto dell’economia mi sono occupato all’epoca della riforma del diritto societario e di quello fallimentare. Essere alla guida della prima finanziaria regionale italiana nonché dell’Associazione di tutte le finanziarie regionali mi onora e mi stimola per il grande ruolo che questi istituti potranno avere per la ripresa economica del Paese, anche veicolando le ingenti risorse del Recovery fund».
La Lombardia rappresenta ancora un esempio di innovazione?
«La Lombardia è una tra le prime regioni d’Europa per produttività, innovazione, movimentazioni finanziarie, investimenti, ricerca e sviluppo».
Storia di un magistrato troppo bravo ma ignorato dal Csm perché non appartenente a correnti. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Questa è una storia di magistrati e di nomine, brutta e bella allo stesso tempo. Che fa indignare, ma è capace anche di far pensare che non è tutto perduto, che finché esistono persone di questo tipo c’è una speranza. Non farò il nome del giudice coinvolto e nemmeno del luogo di cui si parla. Lui, fedele ai tre principi tramandatigli dal suo maestro – pensiero libero, azione muta, obbedienza cieca – non lo vorrebbe. Chi lo conosce capirà; per gli altri rappresenterà una storia emblematica, una vicenda di umana miseria, da una parte, e di libertà, dall’altra. Il giudice in questione non fa parte di nessuna corrente. È presidente della sezione penale di un tribunale dove, in mancanza del presidente, ne ha anche assunto le funzioni. Poteva fare semplicemente il suo mestiere di giudice e sarebbe stato apprezzato. Ma lui ha fatto di più. Durante la sua reggenza ha riorganizzato l’attività del tribunale, che è passato da uno degli ultimi posti in regione per tempi e pendenze a uno dei primi, con tempi per i processi penali paragonabili agli standard europei. Già questo sarebbe di per sé un successo. Ma lui ha fatto anche di più: ha portato avanti un progetto, facendo lavorare i detenuti e pagando il materiale di tasca sua, per ristrutturare gli uffici giudiziari, un’opera che il Consiglio superiore della magistratura ha indicato come esempio di buone pratiche. Al momento di scegliere il nuovo presidente del tribunale, il magistrato ha deciso di presentare la sua candidatura. Non pensava di poter vincere, ci mancherebbe. Sapeva che altri colleghi molto qualificati avevano avanzato la stessa domanda. Ma di certo non si aspettava di non ricevere nemmeno un voto dai membri del Csm. Ignorato completamente, come se i buoni risultati ottenuti non gli potessero valere nemmeno un minimo riconoscimento anche da uno solo dei membri dell’organo di governo autonomo. Troppo libero? Non supportato da alcuna corrente? Non abbastanza titolato? Eppure se è stato reputato tanto incapace da non ottenere nemmeno una preferenza, come ha fatto a portare tanti oggettivi miglioramenti al tribunale che ha retto fino ad ora? Lo dice Palamara nel suo libro: se promuovi un magistrato al di fuori del sistema, il sistema smette di alimentarsi, se ne promuovi uno al suo interno arriva il momento di ricambiare il favore. Con questo non voglio dire che chi è stato proposto all’unanimità per il posto come presidente del tribunale sia parte del sistema o sia meno titolato. Il giudice "ignorato" certamente non fa parte del sistema, non ha amicizie politiche e non ricerca visibilità. E qui comincia la parte positiva della vicenda, perché se quotidianamente leggiamo storie di nomine, di favori, di influenze politiche sulla magistratura (e viceversa), non bisogna perdere fiducia nella magistratura perché esistono ancora Magistrati (con la M maiuscola) degni di questo nome, lontani dai riflettori, ma ben presenti nella realtà della giustizia che amministrano.
Il Csm regala il fuori ruolo a Cesqui: è amica di Salvi, può fare il capo di gabinetto di Orlando in violazione delle regole. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. Premessa. La dottoressa Elisabetta Cesqui è un magistrato di altissima esperienza e professionalità. Durante la sua lunga carriera ha condotto tante inchieste importanti, come quella sulla loggia massonica di Licio Gelli. Sostituto presso la Procura generale della Cassazione, a marzo del prossimo anno lascerà la magistratura per sopraggiunti limiti di età. La scorsa settimana la magistrata è stata scelta da Andrea Orlando (Pd) come suo nuovo capo di gabinetto al Ministero del Lavoro. La dottoressa Cesqui aveva già svolto l’incarico di capo di gabinetto di Orlando quando quest’ultimo era ministro della Giustizia nella precedente legislatura. Le scelte dei ministri sono, giustamente, insindacabili: ogni ministro è libero di affidare l’incarico di capo di gabinetto, essendo un ruolo di strettissima fiducia, a chi vuole. Fra Cesqui e Orlando, poi, c’è anche la condivisione di comuni esperienze valoriali, essendo la magistrata una storica esponente di Magistratura democratica, la corrente “rossa” delle toghe, e il ministro un rappresentate di primo piano della sinistra dem. Il Csm in casi come questo provvede ad autorizzare il “fuori ruolo” di default. L’unico paletto, dice la norma, è la scopertura dell’organico nell’ufficio dove il magistrato presta servizio. Scopertura che non deve superare il venti per cento. Nel caso della Procura generale della Cassazione la scopertura è adesso superiore al venti per cento. Quindi la dottoressa Cesqui non poteva essere collocata fuori ruolo. Il Csm questa settimana è stato di diverso avviso e ha dato il via libera al neo capo di gabinetto. Il dibattito è stato molto acceso. Contrarissimo Nino Di Matteo che ha invitato tutti a “rispettare le norme”. All’ex pm antimafia va dato atto di essere fra i pochi consiglieri del Csm a cui non si addice la storica frase di Giovanni Giolitti: «Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». La delibera è passata con dodici voti a favore, sette contrari, tre astensioni. A favore i cinque togati della sinistra giudiziaria di Area, i tre di Unicost, i laici Filippo Donati (M5s) e Michele Cerabona (FI), e i capi della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il pg Giovanni Salvi, entrambi della stessa corrente della dottoressa Cesqui. Contrari i tre togati ex davighiani, l’indipendente Di Matteo, i due laici della Lega, il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato. Si sono astenute le due togate di Mi e l’altro laico pentastellato Fulvio Gigliotti. Se invece di astenersi questi tre consiglieri avessero votato come i loro colleghi di schieramento, il voto di Salvi, il capo ufficio della dottoressa Cesqui, sarebbe stato determinante. La dottoressa Cesqui ieri, ultimo giorno di servizio, ha salutato tutti colleghi con una mail e in particolare “Giovanni Salvi, amico di una vita, che mi ha incoraggiato generosamente ad accettare la proposta, pure in un momento non facile per l’Ufficio”. Un “consolidato rapporto di stretta amicizia” è stata, settimane addietro, causa di una delle tante incolpazioni disciplinari da parte della Procura generale della Cassazione nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il motivo è non essersi “astenuto” in un procedimento disciplinare al Csm a carico della collega Mara Mattioli nel 2018. Nel procedimento, per la cronaca, la magistrata era stata condannata. Come prova del “risalente rapporto comunicativo e di frequentazione”, la Procura generale della Cassazione aveva prodotto la chat fra i due magistrati. Una chat molto scarna se confrontata con altre. Ma tant’è. «Buongiorno Luca, sono Mara Mattioli. Come va? Rientrato dalle ferie? Volevo passare alla ripresa del lavoro. Quando posso venire?», esordisce la magistrata. «Cara tutto bene. Ci vediamo domani alle 11 da me?», risponde subito Palamara. Mattioli: «Ok, grazie. All’entrata devo chiedere di te?». Palamara: «Appena arrivi mi squilli». Il tenore della conversazione non pare caratterizzare un rapporto di “stretta amicizia”. È un caso più unico che raro, infatti, che fra amici ci si scambi messaggi presentandosi all’inizio con nome e cognome. Alla Procura generale della Cassazione sono stati, però, di diverso avviso. Seguendo tale impostazione, quella dell’intensità dei rapporti, cosa potrà allora succedere a Salvi che ha caldeggiato e votato la nomina di una sua amica di vecchia data? O l’affidamento degli incarichi agli amici, se non riguarda Palamara, non fa testo?
La rivolta della magistratura. Salvi, Gaeta e Salvato hanno stabilito i criteri di valutazione delle chat di Palamara: ma i loro nomi sono ricorrenti. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi non può rimanere al proprio posto. È quanto si legge – tra le righe – in un appello, firmato da un settantina di magistrati “indipendenti” e a cui ha subito aderito il Partito Radicale, indirizzato ieri al capo dello Stato Sergio Mattarella. Alla base della richiesta delle toghe “non correntizzate” le rivelazioni, al momento non smentite, contenute nel libro-intervista “Il Sistema” di Luca Palamara. Rivelazioni che hanno appannato l’immagine del procuratore generale della Cassazione, il “primo pm” d’Italia. Salvi, mai nominato in maniera esplicita nell’appello, secondo quanto riportato nel libro, per caldeggiare la propria nomina a procuratore generale della Cassazione, nel 2016 avrebbe, presente l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini, invitato Palamara, in quel periodo signore indiscusso delle nomine a Palazzo dei Marescialli, “su una splendida terrazza di un lussuoso albergo nei pressi di Corso Vittorio Emanuele” a Roma. La vicenda di Salvi, così come raccontata, rappresenta il classico caso di “autopromozione” togato. Il problema, però, è che Salvi, titolare dell’azione disciplinare, ha emanato la scorsa estate una circolare con la quale sono stati indicati i “criteri di valutazione” delle famigerate chat di Palamara, escludendo l’illecito per i magistrati che si erano “autosponsorizzati”. “Questi criteri sono stati elaborati dal gruppo di lavoro che è composto dal procuratore aggiunto Luigi Salvato e dall’avvocato generale Piero Gaeta”, disse Salvi in una conferenza stampa. Il “piccolo” problema è che i nomi di Gaeta e di Salvato ricorrono spessissimo nelle chat di Palamara. Gaeta, in particolare, esponente di Magistratura democratica, come Salvi, aveva poi rappresentato l’accusa nel processo al Csm nei confronti di Palamara. Un classico “corto circuito”: i titolari dell’azione disciplinare, Salvi, Gaeta e Salvato, indagano colui al quale avrebbero chiesto di essere nominati. Tornando, invece, al Palamaragate, la Procura di Perugia ieri ha modificato il capo di imputazione, come suggerito dal gip, nei confronti dell’ex presidente dell’Anm. Il nuovo reato è “corruzione in atti giudiziari” in relazione a un’inchiesta che vedeva coinvolto l’imprenditore Fabrizio Centofanti a Messina e a Roma. Il procuratore Raffaele Cantone ha depositato durante l’udienza preliminare una informativa del Gico della guardia di finanza dopo aver interrogato per l’ennesima volta gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Un tormentone a puntate quello delle testimonianze di Amara, noto al grande pubblico per essere l’ideatore del Sistema Siracusa, l’associazione creata per aggiustare i processi e pilotare le sentenze al Consiglio di Stato grazie a giudici compiacenti.
Magistratopoli e i suoi scandali. “Mai favori a Palamara, anzi sì”, dopo due anni Calafiore ritrova la memoria…Paolo Comi su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. «Perché non avete riferito prima che Centofanti vi aveva detto delle informazioni sulle indagini?», chiedono i pm di Perugia all’avvocato siciliano Giuseppe Calafiore. «Nessuno ce lo aveva chiesto in questi termini», risponde secco Calafiore. Il mistero è chiarito: è stato tutto un problema di “formulazione” delle domande. Può succedere. Il 30 luglio del 2019, esploso il Palamaragate, Calafiore viene interrogato a Perugia dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, con l’ausilio del maggiore Fabio Di Bella e del maresciallo Maurizio Gianfrate del Gico della guardia di finanza. Palamara è indagato nel capoluogo umbro per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, assieme a Calafiore e all’avvocato Piero Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. In particolare, Palamara, nel periodo in cui era lo zar indiscusso delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, avrebbe ricevuto “varie e reiterate utilità consistenti in viaggi e vacanze a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”. L’attività corruttiva sarebbe stata portata avanti «per fare in modo che Palamara mettesse a disposizione, a fronte delle utilità, la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore». La domanda dei pm è secca e non si presterebbe a dubbi interpretativi: «Sa se qualcuno abbia dato delle utilità a Palamara?». «Io posso sapere di Amara che era mio collega di studio. E non sono a conoscenza di utilità a lui elargite da Amara», risponde senza tentennamenti Calafiore, aggiungendo: «perché quest’ultimo non me lo ha mai detto». «Centofanti ha rapporti di amicizia con Palamara, si frequentano con le compagne», prosegue Calafiore. E poi: «Io non ho mai avuto una esigenza diretta di chiedergli di intercedere presso Palamara». «Quindi io non so nulla del loro rapporto al di fuori dell’amicizia che era circostanza nota. Se a me mi fosse servito con Palamara o con altri sarei andato da Centofanti e gli avrei chiesto di procurarmi un appuntamento. Non essendomi mai servito nulla, non ho mai fatto una richiesta del genere», conclude l’avvocato siciliano. Passa un anno e mezzo, le indagini a Perugia vengono chiuse e inizia l’udienza preliminare. All’udienza dell’8 febbraio 2021 il gip Piercarlo Frabotta chiede ai pm di “precisare” meglio le accuse nei confronti di Palamara. I pm di Perugia decidono, allora, di effettuare un nuovo giro di interrogatori. Ad iniziare proprio da Calafiore. Il nuovo interrogatorio dell’avvocato siciliano avviene il successivo 19 febbraio, sempre davanti ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, insieme al solito maggiore Fabio Di Bella. Ed è in quell’occasione che a Calafiore torna la memoria e diventa loquacissimo, fornendo altri scenari. «Amara si era rivolto a Centofanti affinché lo stesso raccogliesse delle informazioni tramite Palamara. Fu proprio Centofanti a riferire ad Amara che c’era un’indagine presso la Procura di Roma che lo riguardava. Centofanti affermò di aver ricevuto tale informazione da Palamara che, a sua volta, aveva appreso tale circostanza da Fava (Stefano Rocco, pm a Roma, autore nel 2019 dell’esposto al Csm contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, ndr)», esordisce subito Calafiore. «Un’altra volta Centofanti rivelò di aver appreso tramite Palamara che si trattava di una indagine coordinata tra tre Procure», continua Calafiore, precisando che «anche questa informazione proveniva da Fava. I due Palamara e Fava, secondo Centofanti erano amici per la pelle e spesso giocavano insieme a tennis. Proprio nel corso di tali incontri Palamara riceva delle informazioni». «Tali confidenze furono fatte nel corso del tempo nell’anno 2017», precisa Calafiore, un circostanza che, un anno e mezzo prima, aveva ignorato. «Centofanti le ha mai fatto confidenze sulle utilità date a Palamara?», chiedono allora i pm. «Erano amici. Erano sempre insieme. Il loro era un rapporto simbiotico ed ostentato. Palamara era uno degli uomini più importanti d’Italia e Centofanti aveva anche un interesse a frequentarlo», sottolinea l’ex “smemorato” Calafiore. Cosa avrà fatto tornare la memoria all’avvocato siciliano? La lettura del libro di Palamara pubblicato il mese scorso?
Il giudice anti Berlusconi a Mattarella: "Il vice presidente del Csm è illegittimo?" Esposito: ispezione sulle toghe coinvolte nelle rivelazioni dell'ex capo dell'Anm. Luca Fazzo - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Mentre in Parlamento si discute della istituzione di una commissione d'inchiesta sul caso Palamara, ecco un appello al capo dello Stato e al neoministro della Giustizia Marta Cartabia perché sia quest'ultima a prendere l'iniziativa: facendo scattare una ispezione interna nei confronti di due pesi massimi della magistratura, il membro del Csm Giuseppe Cascini e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, entrambi pesantemente chiamati in causa dal libro Il Sistema, scritto da Palamara insieme a Alessandro Sallusti. A lanciare l'appello alla Cartabia, dalle colonne del Fatto Quotidiano, è un altro (ex) nome di spicco del mondo giudiziario. Si tratta di Antonio Esposito, il magistrato che quando presiedeva la sezione feriale della Cassazione condannò Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv. E che una volta lasciata la toga fa il commentatore per il Fatto. Dalle colonne del quotidiano di Marco Travaglio, ieri Esposito ricorda che Mattarella - cui 67 magistrati hanno chiesto un intervento risolutivo - «può sollecitare il ministro della Giustizia, anch'egli titolare del potere di iniziativa disciplinare, a disporre una inchiesta, all'esito della quale formulare le sue proposte anche di ordine disciplinare». A Salvi secondo Esposito gli ispettori ministeriali dovrebbero chiedere di spiegare l'incontro con Palamara «su una splendida terrazza di un lussuoso albergo romano» per sponsorizzare la propria candidatura. A Salvi, secondo Esposito, il capo dello Stato dovrebbe contestare, facendone oggetto di una riunione del Csm, la direttiva con cui ha garantito l'incolumità disciplinare ai magistrati che si rivolgevano a Palamara per «autopromozione» Mentre Cascini, leader della corrente di sinistra Area, dovrebbe spiegare se davvero riferì a Palamara l'esistenza di una intercettazione dell'allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini relativa al pm napoletano Henry John Woodcock. Non è tutto. Esposito se la prende anche con il vicepresidente del Csm David Ermini, invitando il presidente Mattarella a far sapere se intenda ancora farsi rappresentare da lui in seno al Csm, dopo avere scoperto che la sua designazione alla carica «ha trovato la sua genesi in un accordo improprio, fuori dal Csm e tra persone non legittimate (Palamara, Ferri, Lotti)». Esposito ricorda anche che Ermini fu eletto vicepresidente grazie al voto di sette componenti del Csm poi costretti a dimettersi proprio in seguito al caso Palamara. Per questo chiede a Mattarella se considera Ermini ancora legittimato a coprire la carica. (Esposito non dice se a suo avviso il ministro o il capo dello Stato dovrebbero svolgere accertamenti anche sugli episodi che riguardano lui medesimo e suo figlio, anch'essi ampiamente citati nel libro di Palamara e Sallusti).
Altro che rinnovamento delle toghe: la galassia Palamara è ancora lì…Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 24 Feb 2021. E se per ridare credibilità alla magistratura dopo lo scandalo emerso con l’affaire “Palamara”, all’indomani della pubblicazione delle sue chat con i colleghi che aspiravano ad un incarico e con le successive rivelazione contenute nel libro- intervista “Il Sistema”, fosse necessario effettuare un gigantesco “reset” dei vertici degli uffici giudiziari? Il tema è stato affrontato questa settimana nell’appello al capo dello Stato Sergio Mattarella, anche nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, firmato da una settantina di toghe “dissidenti” che non si riconoscono nelle tradizioni correnti delle toghe. Toghe bollate, dai detrattori, come i “grillini” della magistratura. «Siamo da tempo e restiamo fermamente convinti – si legge in uno dei passaggi dell’appello che la via per il ripristino della credibilità della giurisdizione, oltre che per un’inequivoca e pubblica risposta agli appelli alla trasparenza ( troppo spesso elusi, strumentalizzati o del tutto inevasi), passi ineludibilmente per una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario». «Tra coloro che sono stati investiti dalle rivelazioni dei mezzi di informazione, infatti, solo una parte, pur significativa ma certamente non completa, ha liberato l’Istituzione che rappresentava dal peso di una situazione divenuta oggettivamente insostenibile, facendo un passo indietro, con le dimissioni da taluni incarichi ricoperti o con l’anticipato abbandono dell’Ordine giudiziario», prosegue l’appello delle toghe. La maggior parte dei vertici degli uffici giudiziari coinvolta nelle chat o nelle rivelazione di Palamara è, infatti, sempre al proprio posto. Se si vuole dar retta all’esistenza di un “Sistema”, come indicato dal titolo del libro di Palamara, l’attuale dirigenza degli uffici giudiziari sarebbe allora il frutto di accordi spartitori fra le correnti. Se poi si considera che la maggior parte delle nomine è stata effettuata proprio durante la gestione Palamara al Csm, il cerchio si chiude. Il motivo è noto. Nel 2014, governo Matteo Renzi, l’età pensionabile dei magistrati venne portata da 75 a 70 anni. Fu un passaggio repentino, senza che fossero previsti periodi transitori, tranne una proroga per i vertici della Corte di Cassazione. La conseguenza fu che durante lo scorso Csm, quadriennio 2014- 2018, venne effettuato il numero più elevato di nomine della storia dell’organo di autogoverno delle toghe per coprire le scoperture che si erano venute a creare. Furono oltre mille gli incarichi assegnati dal Csm durante la “gestione” Palamara. Una quota rilevantissima di nomine venne fatta all’unanimità in Plenum. Che, sempre seguendo il ragionamento dell’ex presidente dell’Anm, sarebbe la prova della lottizzazione degli incarichi fra le correnti. Le cd nomine ‘ a pacchetto’. L’attuale Csm, invece, al termine del mandato avrà effettuato, salvo imprevisti, solo duecento nomine. Ad impedire una seria riflessione su quanto accaduto, poi, la tanto discussa circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che non ha ritenuto di sanzionare i tanti magistrati che si erano ‘ auto sponsorizzati’ con Palamara. Nel mirino da tempo delle toghe “dissidenti”, il tema della circolare verrà riaffrontato quasi certamente alla prossima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Ad oggi, comunque, l’unico ad aver "pagato" è stato solo Palamara.
Luca Palamara, 67 magistrati scrivono a Sergio Mattarella: "Commissione d'inchiesta sulle sue rivelazioni". Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Fatti «troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati». Storie che «imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza». Alla cui pubblicazione è seguita «una diffusa inerzia». È passato un mese dall'uscita de "Il Sistema", il libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, e «lo scandalo continua a imperversare». La grande indignazione seguita dal nulla. Come se la giustizia italiana fosse fatta di due mondi paralleli, l'etica e la realtà, l'uno indifferente all'altro. Così, ieri, 67 magistrati hanno inviato una lettera aperta al capo dello Stato, «anche nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura». La rivolta di chi non si rassegna.
La richiesta. Chiedono a Sergio Mattarella di intervenire affinché l'autogoverno dei magistrati non sia più la vergogna che è adesso, l'ordinamento giudiziario recuperi legittimità, siano cacciati «coloro che non sono risultati all'altezza del compito». Mario Draghi e il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, non sono chiamati in causa per nome, ma la questione riguarda pure loro. Si può «garantire un funzionamento più efficiente dei tribunali», come ha promesso il premier in parlamento, se nomine e promozioni sono distribuite secondo la logica delle correnti e della connivenza politica anziché sulla base del merito? Il governo intende davvero lasciare la pratica nelle mani dei partiti, incapaci sinora di affrontare la questione? (Due volte, nel 2019 e nel 2020, Mattarella ha chiesto al parlamento una riforma del Csm. Inascoltato). Ci sono nomi noti, tra quei 67. Alcuni sono vittime del "sistema Palamara". Clementina Forleo, ad esempio. Ora è giudice per le indagini preliminari a Roma, ma nel 2007 svolgeva lo stesso ruolo a Milano, dove si occupò della scalata alla Bnl da parte di Unipol, la "cassaforte" del Pds (la famosa intercettazione di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: «Ma abbiamo una banca?»). Chiese di mettere agli atti certe telefonate di Fassino e Massimo D'Alema, voleva che fossero indagati. Risultato: ritenuta «un pericolo» e trasferita «di peso» al tribunale di Cremona, come ricorda Palamara. C'è Desirée Di Geronimo, oggi pm nella capitale: condusse l'indagine sul governatore pugliese Nichi Vendola (poi assolto), si trovò isolata nella procura di Bari e chiese il trasferimento.
C'è del marcio. Adesso Palamara ha scoperchiato il verminaio. Non tutto ciò che dice è oro, ovviamente: alcune storie - raccontano i magistrati che facevano parte del suo giro - sono state un po' imbellettate, per vanità del personaggio o altri motivi. Ma il marcio è enorme e fingere che non esista non è possibile. O forse sì? Comunque ci stanno provando e sinora ci sono riusciti. I 67 denunciano che «non solo difettano le doverose iniziative delle autorità competenti ma, sotto il profilo disciplinare, si è anche registrata l'adozione di una generale direttiva assolutoria», col rischio che comportamenti del genere, «anziché essere sanzionati, siano avallati e ulteriormente incentivati». Chiedono persino «l'intervento di una commissione parlamentare di inchiesta, volta a fare definitiva chiarezza». I magistrati che si rivolgono ai politici affinché compiano quelle indagini sul "sistema Palamara" che il Csm non intende fare è un inedito nella storia italiana, a conferma che il degrado delle toghe non è secondo a quello dei partiti. Se ne esce solo tramite «una radicale riforma dell'ordinamento giudiziario», avvertono i firmatari. Da fare, spiegano, attraverso «due punti imprescindibili». Il primo è la selezione dei componenti del Csm tramite elezione di un numero predeterminato di candidati estratti a sorte. Il secondo è la rotazione delle cariche direttive e semi-direttive, «l'antidoto più efficace contro la degenerazione correntizia, che nella distribuzione degli incarichi secondo criteri di appartenenza trova la sua più intensa e frequente espressione». Al capo dello Stato chiedono quindi di provarci ancora, intervenendo per avviare «l'azione di recupero della fiducia di cui l'ordine giudiziario e la gran parte dei magistrati meritano di godere, e della credibilità della giurisdizione». Come dire che oggi non c'è fiducia nelle toghe e che certe loro sentenze non sono credibili. Tutto vero e arcinoto, per carità: ma vederlo scritto lì, controfirmato da 67 giudici e pm, fa una certa impressione.
Procure nel caos, 67 magistrati scrivono a Mattarella: «Al Csm ci vuole il sorteggio». Il Dubbio 22 Feb 2021. Dopo il caso Palamara. Tra i firmatari il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. Sessantasette magistrati che scrivono una lettera accorata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e gli chiedono un «intervento immediato nel suo ruolo di garante della Costituzione, «affinché sia finalmente intrapreso il cammino per l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno ripristinando la legalità delle sue dinamiche». Per uscire dal caos e recuperare trasparenza i magistrati firmatari della lettera ritengono che serva «il sorteggio perla selezione dei componenti del Csm». I togati si rivolgono dunque direttamente al Capo dello Stato per chiedere «che siano rimosse le cause che hanno condotto alla grave delegittimazione di articolazioni essenziali dell’Ordinamento Giudiziario e del Sistema di autogoverno della Magistratura e che sia assicurato l’allontanamento da tali ruoli di coloro che non sono risultati all’altezza del compito». In una lettera resa pubblica dall’Adnkronos, i 67 giudici scrivono a Mattarella, anche in qualità di Presidente del Csm. Tra i firmatari ci sono il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. «Le chiediamo, signor Presidente, di tornare a intervenire con la Sua autorevolezza, per avviare finalmente l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’Ordine Giudiziario e la gran parte dei Magistrati meritano di godere, e della credibilità della Giurisdizione, baluardo prezioso ed essenziale dello Stato di diritto delineato dai nostri Costituenti», scrivono i magistrati. I magistrati fanno poi riferimento all’intervento di Mattarella, il 19giugno del 2019 al Csm, quando « esprimeva, con fermezza, il grave sconcerto e la riprovazione per la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati, evidenziando come tali fenomeni avessero pesantemente compromesso il prestigio e l’autorevolezza dell’Ordine Giudiziario». E al nuovo intervento, un anno dopo, il 29 maggio 2020, quando, «imperversando e intensificandosi ulteriormente lo scandalo che sta abbattendo completamente la credibilità delle istituzioni giudiziarie, attraverso una nota del Suo Ufficio stampa, nell’evidenziare come in quel momento non potesse farsi luogo allo scioglimento del CSM, Ella ha ribadito come sia compito del Parlamento quello di predisporre e approvare una legge che preveda un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi». E proseguono poi nella lettera: «Oggi, un altro anno è passato ma, con grande rammarico, dobbiamo prendere atto che il Suo accorato auspicio è rimasto inevaso e che le iniziative legislative, pur annunciate come imminenti, sono ben lungi dal tradursi in realtà. Nel frattempo, lo scandalo continua a imperversare e, lungi dal placarsi, è costantemente alimentato dall’uscita di nuove e allarmanti notizie che rendono il quadro complessivo sempre più inquietante e inaccettabile». E ancora: «Al netto di ogni tentativo di strumentalizzazione, di cui siamo pienamente consapevoli, riteniamo che i fatti, come pubblicamente esposti dagli organi di informazione, siano troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati». «Si avverte, inoltre, una profonda contraddizione rispetto all’esigenza di trasparenza e completa conoscenza di quanto risultante dagli atti. Ufficialmente, essi sono confinati nelle mani di poche Autorità; di fatto, però, sono nella disponibilità di tantissimi, a cominciare dai media. Così, in questo contesto delicatissimo, il rischio di un loro uso strumentale e distorto, condizionato da convenienze e scopi particolari, è straordinariamente grave», denunciano i 67 magistrati. «Il vano trascorrere del tempo, inoltre, anche in ragione dei termini normativamente previsti per l’accertamento delle condotte dei singoli, pone a rischio ogni possibilità di futura verifica, tanto da farci ritenere auspicabile l’intervento di una Commissione Parlamentare di inchiesta volta a fare definitiva chiarezza – chiedono poi i magistrati- E tuttavia, pensiamo di non potere rassegnarci alla inerzia». «Siamo da tempo e restiamo fermamente convinti che la via per il ripristino della credibilità della Giurisdizione, oltre che per un’inequivoca e pubblica risposta agli appelli alla trasparenza(troppo spesso elusi, strumentalizzati o del tutto inevasi), passi ineludibilmente per una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario- concludono – Avvertiamo, in questo, perfetta sintonia con quanto Ella, purtroppo finora inascoltata, ha così autorevolmente e ripetutamente sollecitato. Due dovrebbero essere, a nostro giudizio, i punti essenziali e imprescindibili di tale iniziativa l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del CSM e la rotazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Lungi dall’essere in contrasto con la Carta costituzionale, specie ove seguito da una elezione successiva tra un numero predeterminato di candidati estratti a sorte (e non il contrario, come, forse non a caso, alcuni esponenti delle c.d. correnti hanno in passato proposto),il sorteggio rappresenta l’unico sistema idoneo a garantire l’imparzialità della funzione di autogoverno e l’effettività dei principi di distinzione dei magistrati soltanto per diversità disfunzioni, di indipendenza dei magistrati e di soggezione dei giudici soltanto alla legge». «La rotazione, a sua volta, è in grado di eliminare in radice il carrierismo e la concentrazione di potere in mano a pochi, fenomeno preoccupante e dei cui effetti distorsivi e dannosi le recenti cronache ci hanno resi tutti ancor più consapevoli».
Il caso riletto dopo il Palamaragate. Sequestro Shalabayeva, perché hanno condannato i poliziotti e salvato Pignatone e il Pm Albamonte? Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti). La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”. Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”. Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte. Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali. De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso. Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini. Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare. A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina – racconta – “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratiche per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso. Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo – racconta Albamonte – che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”. Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce – poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore – di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”. Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”. Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali. Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi – si legge – per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”. Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco? La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento.
SE DILAGA L’ABUSO DI POTERE. Luciano Violante su Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2021. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso.
UN FILO NERO. unisce i fatti di Piacenza, i pestaggi nelle carceri di Torino, le vicende nelle quali è coinvolto il dottor Palamara. Si tratta dell’abuso di potere. Funzionari ai quali la Repubblica ha consegnato poteri rilevanti sulla vita, l’integrità fisica, la reputazione, il patrimonio dei cittadini, al fine di garantire il rispetto delle regole, le hanno violate ripetutamente per trarne vantaggi personali o economici o di prestigio o di altro genere. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso. Nei casi indicati il potere è stato esercitato in modo difforme dalle finalità per le quali è stato concesso. Di qui l’abuso. Poco conta dire che si tratta di mele marce. Se non fossero eccezioni non saremmo in democrazia. Il problema centrale è diverso. La nostra società sta assumendo caratteri che consentono e tollerano comportamenti abusivi. Una cultura egocentrica ha posto l’esercizio del potere e la sua ostentazione al centro delle aspirazioni delle persone. Ha conseguentemente indotto ad ignorare la funzione del limite nella organizzazione delle società democratiche e ha animato una cultura del consumo per l’affermazione individuale. Basta seguire alcune raffinate pubblicità per cogliere l’ invito frequente a superare i limiti per essere veramente sé stessi. In sostanza quella pubblicità ci dice che non puoi essere te stesso se resti nelle regole della comunità; per essere te stesso devi superare quelle regole e io ti offro il prodotto per farlo. Una seconda caratteristica è la cultura del successo. Conta quello che si ottiene, indipendentemente da come lo si ottiene. Se si ottengono risultati soddisfacenti si possono chiudere gli occhi sui metodi usati per ottenerli. Il successo è di per sé motivo di soddisfazione e lo si dimostra con il possesso. Le vacanze in alberghi di lusso che sarebbero state offerte al dottor Palamara e ai suoi cari da ricchi questuanti o l’esibizione di champagne di marca da parte dei Carabinieri di Piacenza stanno a segnalare il raggiungimento di uno status sociale superiore. Nei tre casi citati gli abusi non sono avvenuti in segreto; ma non sono stati fermati. A Piacenza perché consentivano di alimentare le statistiche, a Torino perché mantenevano nelle carceri un ordine seppure dettato dal terrore, a Roma perché permettevano ai magistrati consenzienti di accedere a benefici di carriera che altrimenti sarebbero stati preclusi. Il principio che sembra prevalere è: se posso farlo, lo faccio. Sembra un principio liberale. È in realtà la tomba del liberalismo e può diventare l’agonia dei regimi democratici. Perché il liberalismo senza regole accresce le iniquità. Si è visto con l’esperienza del Covid. I leader che più caratterizzano sé stessi per la predicazione liberale, Trump, Bolsonaro, Johnson, non sembra abbiano adottato efficaci politiche di contenimento del virus perché ispirati ad una radicale diffidenza per le regole. Si sono rivelate più efficaci le risposte italiana e tedesca perché frutto di un buon equilibrio tra la cultura dei diritti, propria del liberalismo e il senso del dovere, proprio invece della cultura repubblicana. Una severa e rapida punizione nei casi citati, qualora le responsabilità fossero accertate, sarà necessaria. Ma è altrettanto necessario un impegno da parte delle classi dirigenti per introdurre nella nostra società il senso del limite e il senso del dovere.
Il Sistema, le toghe secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. Il libro dell’ex presidente dell’Anm è pieno di rivelazioni scomode che gettano luci sinistre sulla vita associativa dei magistrati. Molto rumore per nulla? A scorrere la pagine de Il Sistema si direbbe proprio di no…Il gatto e la volpe, potrebbe malignare (anzi: ha già malignato) qualcuno. O peggio, visto che le malignità si autoalimentano: il lupo e lo sciacallo. La strana coppia, più semplicemente diciamo noi: Luca Palamara e Alessandro Sallusti, autori de Il Sistema che, uscito a gennaio per i tipi di Rizzoli, vanta l’indubbio primato di essere il libro più sfogliato, citato ma forse non del tutto letto di questo primo scorcio del 2021. Luca Palamara (il gatto). Ma tant’è: Il Sistema è un libro facile, un’intervista-fiume di poco meno di trecento pagine (nel formato cartaceo), concepito e scritto con estrema fluidità e a tempo di record (in pochi giorni del novembre 2020, stando alla dichiarazione di Sallusti riportata a pag. 12 del libro). Ancora: Il Sistema è un libro ready made, fatto per essere letto a colpo d’occhio e bombardare il lettore di fatti, sensazioni e immagini sparate con velocità e confusione voluta, che ripete su carta lo stile delle docufiction televisive. Tuttavia, Il Sistema è un libro che funziona: centra il bersaglio sin dalle prime pagine e fa arrivare il suo messaggio in maniera netta. Senza fronzoli, direbbe qualche cronista vintage. Soprattutto, è un libro a modo suo sincero: la confessione di un ex magistrato che non ha più nulla da perdere nell’immediato futuro e spera di ottenere la propria rivalsa dal ricorso contro la radiazione dall’Ordine giudiziario. Ma è anche la rivincita di un giornalista da sempre molto critico verso lo strapotere (presunto…) delle toghe. Un cocktail forte, che però tra i suoi pregi non ha l’originalità né la novità. Infatti, passate le sbornie del post-Tangentopoli, gli italiani hanno iniziato a capire da almeno vent’anni le distorsioni del mondo della magistratura. Su queste aveva già messo un punto fermo il compianto Stefano Livadiotti col suo Magistrati. L’ultracasta (Bompiani, Milano 2009), che conteneva già una denuncia forte e approfondita dei meccanismi correntizi che regolano da oltre cinquant’anni la giustizia italiana. Il reale motivo d’interesse de Il Sistema sta nel ruolo di Palamara: testimone eccellente, verrebbe quasi da dire pentito (absit iniuria verbis…) di un apparato di potere da cui ha avuto tanto, a cui ha restituito molto ma dal quale è stato scaricato senza troppi complimenti alle prime, importanti difficoltà. Insomma non conta quel che si dice, specie se altri l’hanno detto con più coraggio (quello richiesto ai non magistrati quando si occupano delle toghe, magari con le spalle non sufficientemente coperte) e più efficacia – è il caso dell’ex toga eccellente Piero Tony autore del notevole Io non posso tacere (Einaudi, Milano 2015 -, ma chi lo dice. In cosa consiste la denuncia di Palamara? Il magistrato caduto in disgrazia dopo l’ennesimo azzardo politico, è tutto tranne che un fesso: non casca nella trappola del rancore e fornisce a Sallusti un quadro lucido e realistico come può fornirlo solo una persona che ha sviluppato un bel popò di pelo sullo stomaco a furia di vederne e combinarne. Il Sistema raccontato nel libro è l’incastro perenne delle cordate, storicamente tre e oggi diventate quattro, che fanno e disfanno: carriere, inchieste e processi. Questo Sistema, per fortuna, non ingloba tutta la magistratura: lo stesso autore ammette che molti magistrati «vivono del loro e non partecipano al grande gioco del potere». E ammette che questi magistrati, a differenza dei colleghi più politicizzati si meravigliano ancora di alcuni sconfinamenti nella politica. Ad esempio, quello dell’estate 2019, operato a dire dell’ex magistrato da Luigi Patronaggio, Procuratore di Agrigento in quota Magistratura democratica, con l’inchiesta a carico dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Per tacere di altre inchieste, poi crollate al vaglio del dibattimento o della Cassazione, come l’affaire Ruby, che diede una mazzata micidiale al già traballante Berlusconi, o, per restare nel perimetro azzurro, la vicenda del Lodo Mondadori, in cui il capo di Mediaset fu condannato a pagare un risarcimento che lo stesso Palamara definisce abnorme.
Al riguardo, è doveroso ribadire una cosa: l’ex magistrato non entra mai nel merito delle inchieste né si sbilancia in dichiarazioni colpevoliste o innocentiste: di sicuro non dice che Berlusconi sia innocente, ma dichiara che è stato bersagliato oltre le sue colpe da un congegno (non del tutto) giudiziario in cui non molti potevano fargli la morale su alcunché. Più sfumato il discorso sulla vicenda De Magistris. In questo caso, Palamara ammette senz’altro, assieme a un Sallusti più sogghignante che mai, che chi tocca la sinistra muore. E il suo riferimento al fatto che l’ex pm di Catanzaro abbia pagato oltremisura l’aver toccato con l’inchiesta Why Not il centrosinistra targato Prodi non potrebbe essere più chiaro. Certo, l’ex big dell’Anm non si rimangia alcuna delle critiche espresse all’epoca nei confronti del collega che operava in Calabria: l’inchiestona era pasticciata e il decreto di perquisizione (1.700 pagine, di cui si sono nutriti per mesi tutti i giornalisti d’Italia) eccessivo. Ma la morale di quest’altra favolaccia resta inequivocabile: De Magistris ha pagato oltremisura il dato politico più che gli errori giudiziari. Se le cose stanno così, non è difficile capire ciò che il Sistema di cui parla Palamara non è solo giudiziario: è il risultato di due equilibri, quello tra le attuali quattro correnti dell’Anm (Area più Magistratura democratica a sinistra, la centrista Unicost, Magistratura indipendente a destra e Autonomia e indipendenza, gli outsider di Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo) e quello tra l’Anm e la parte più ideologizzata del Pd (per capirci, quella ancora postcomunista). Il tutto con la benedizione del Quirinale, entrato più volte a gamba tesa e l’avallo di una fetta consistente della stampa che conta. Questa macchina da guerra, tutt’altro che gioiosa ma parecchio efficiente, avrebbe tritato secondo l’ex re delle correnti chiunque si mettesse di traverso. Non solo De Magistris, Berlusconi e Salvini. Ma anche Renzi. E, alla fine, lo stesso Palamara, che avrebbe pagato salato il tentativo di sovvertire, durante la famosa cena dell’Hotel Champagne, l’egemonia dell’ala progressista proprio facendo leva sulla componente renziana, all’epoca non ancora distaccatasi dal partito di Zingaretti. Ma l’ex magistrato ammette di più: il meccanismo di potere su cui si regge il Sistema è autofago, come esemplifica alla grande il capitolo dedicato alla guerra milanese tra Robledo e Bruti Liberati: divora prima i corpi estranei, poi le parti impazzite e infine sé stesso. Ma, soprattutto, il Sistema si alimenta a ciclo continuo, seguendo (e spesso condizionando) sempre i magistrati, dalla culla, a volte pilotando il temutissimo concorso, fino alla fine della carriera. Già: senza le correnti non si fa carriera e si rischia troppo, con le correnti si sale, a volte ci si ferma ma si arriva comunque. E la morale, in tutto questo? Non tocca a Palamara né a Sallusti farla, specie quando i fatti parlano da sé. E poco importa se le domande del direttore de Il Giornale a volte sono troppo mirate (e decisamente capziose) e se il racconto dell’ex leader di Unicost risulta, come ha notato anche Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, non poco selettivo e chirurgico. Mica si può pretendere da Palamara che dica tutta la verità: ci si accontenti della sua verità, che non è poca né leggera. Né si può pretendere da Sallusti che faccia l’avvocato di tutti i diavoli, quando il diavolo (sempre absit iniuria verbis…) con cui ha a che fare, cioè lo stesso Palamara, non è sicuramente piccolo. È davvero uguale per tutti? Quella dell’ex pm di Roma non è un’ammissione di colpevolezza e quindi non può essere una chiamata di correo nei confronti dei suoi colleghi. È la critica lucida, spietata e a modo suo imparziale di un meccanismo di potere che mette a repentaglio la giustizia e la sua credibilità. A chi si rivolge realmente Palamara? Di sicuro non agli avvocati (o non solo), perché l’ipergarantismo delle Camere penali c’entra poco con il j’accuse dell’ex consigliere del Csm. Né si rivolge (solo) agli ex colleghi, ai quali non lesina siluri, stoccate, frecciate, doppisensi o semplici allusioni. «L’ho fatto per tutti i cittadini», ha dichiarato Palamara di recente a Libero. E c’è da credergli perché risulta più sincero lui, con la sua verità parziale e senz’altro di parte, di tanti sermoni sull’autonomia della magistratura.
By: Saverio Paletta. Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest.
Il Sistema, le raccomandazioni secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. Pubblichiamo integralmente uno stralcio impressionante del libro in cui l’ex presidente dell’Anm racconta la “sua” verità sui retroscena dell’associazionismo dei magistrati. In questo caso, si parla del concorso in magistratura…Luca Palamara racconta ne Il Sistema (Rizzoli, Milano 2021) uno dei possibili meccanismi attraverso cui le correnti dell’Anm “piloterebbero” in parte il temutissimo concorso in magistratura. Queste dichiarazioni, rese al direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti gettano una luce ulteriore (e sinistra) sui sospetti coltivati da tanti ma esplicitati quasi da nessuno emersi in seguito ad alcuni scandali “recenti”, che riguardano proprio il concorso…
[Palamara] Per esempio, come il «Sistema occupa il potere. Non ci crederà, ma le correnti sono come una squadra di calcio: serve un buon vivaio, senza il quale non si va da nessuna parte. Non per nulla c’è la corsa, e non solo per il gettone economico, a fare il commissario nei concorsi per magistrati. A decidere è la terza commissione del Csm, cioè un organo lottizzato dalle correnti che a sua volta lottizza i commissari, e di questo sulla mia chat c’è ambia documentazione. Ciò serve, non solo ma anche, a garantire le raccomandazioni: basti pensare che con questo meccanismo nella mia consiliatura due figli di componenti del Csm sono diventati magistrati».
[Sallusti] Raccomandazioni?
[Palamara] Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli.
[Sallusti] Bella partenza per un neomagistrato.
[Palamara]Appunto, tutto il mondo è paese e la magistratura non sfugge alla regola. Ma il bello viene dopo.
[Sallusti] Dopo quando?
[Palamara]L’obiettivo del «Sistema» è accaparrarsi il neomagistrato. Come? Facendolo iscrivere il prima possibile alla propria corrente. Funziona così: quando entri in servizio vieni affiancato per un certo periodo a un magistrato anziano e «chi va con chi» lo decide una commissione apposita in base ai rapporti di forza delle correnti. Se entrano in sessanta, trenta andranno a fare tirocinio da un anziano di Unicost, venti da uno di Magistratura democratica, dieci da uno di magistratura indipendente. È ovvio che, nel calcolo delle probabilità, questi ragazzi si iscriveranno alla corrente del loro tutor, soprattutto se questo spingerà in tal senso. È la linfa per alimentare il «Sistema» delle correnti, che anche per questo si battono per mettere uomini propri nelle procure più importanti e popolose, come Milano, Roma, Napoli, Palermo e Catania. E così sarà a ogni passaggio della vita professionale, sempre che tu voglia fare carriera.
[Sallusti] Mi faccia degli esempi.
[Palamara] Quanti ne vuole. Prendiamo i «magistrati segretari» del Csm, colleghi tra i cui compiti c’è anche quello di dover motivare le nomine, cioè scrivere perché Tizio è più bravo di Caio e quindi ha diritto a quel posto. Secondo lei chi li nomina?
Non lo so, me lo dica lei.
[Palamara] I capicorrente, ovviamente. Così avviene per i membri dell’Ufficio studi, dove vengono elaborati i pareri che danno la linea politica alle decisioni del Csm, ma soprattutto questo vale per gli «assistenti di studio» dei giudici della Corte Costituzionale.
[da Il Sistema, cap. Il vivaio, pp 59-61]
Il “livello superiore”: incontri giornalisti-giudici, raccomandazioni per i figli e le inchieste politiche. Palamara racconta. Da zonedombratv.it il 27 gennaio 2021. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e ex membro del Csm, Luca Palamara, torna a raccontare quel mondo giudiziario di cui ha fatto parte fino a poco tempo fa. Il “livello superiore”. Fino a quando non è stato radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura. Palamara torna sulla vicenda e racconta ad Alessandro Sallusti, nel libro “Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” cosa sia il ‘Sistema’ che ha pesantemente influenzato la politica italiana.
“Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all’inferno”. Una carriera brillante avviata con la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. Palamara a quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l’emblema del malcostume giudiziario. “La sinistra orienta i giudici e la stampa non è libera”: parola di Luca Palamara. “Tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo”, sostiene Palamara. Il “Sistema” di cui si parla nel libro “è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l’elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta”. “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, dice l’ex presidente dell’Anm. E i segreti sono tutti in questo libro.
Il modello Firenze. “In questa corsa senza freni provo il colpo della vita: applicare il modello Firenze per conquistare il vertice della magistratura italiana”, racconta Palamara. “Siamo nel 2017, ci sono da eleggere i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione, fondamentali non solo per il destino delle vicende processuali ma anche perché siedono di diritto nel plenum del Csm, dove si decide tutto, dalle nomine alle sanzioni”. Era “un azzardo – riconosce Palamara -, perché nel frattempo è iniziata la parabola discendente di Renzi”.
Complicità di pm e giudici. Tra pm e giornalisti c’è “complicità professionale”, “si usano a vicenda”, sostiene Palamara. “Prendiamo l’informazione, che nella vicenda Berlusconi di quegli anni ha avuto un ruolo fondamentale. Tra di noi girava la battuta: ‘La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti’. Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica. È inevitabile che una frequentazione assidua porti a una complicità professionale, a volte anche a un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo tra i colleghi”. E, aggiunge Palamara, “c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate…”.
“Non rinnego il passato”. “Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, racconta l’ex pm.
Le chat. “Il contenuto di quelle trascrizioni, come pure le chat e i messaggi estratti dal cellulare, è ormai noto, i giornali ne hanno pubblicati centinaia. C’è di tutto, ma non c’è tutto” e Luca Palamara fa un elenco di nomi.
Il patto tra i pm e Fini. “Quando nel dicembre del 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità”, racconta ancora nel libro intervista. “Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi – spiega l’ex pm – Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo”.
Nomine e patteggiamenti. “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile”, racconta Palamara. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, aggiunge l’ex pm.
Legnini e l’umiliazione. “Dopo la votazione al Csm che incorona Fuzio raggiungo il vicepresidente Legnini a Chieti per partecipare a un convegno. Mi insulta, si sfoga: ‘Tu mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla, non finirà qui'”, racconta ancora nel libro.
Le raccomandazioni. “Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli”, afferma l’ex pm.
Il caso De Magistris. Quando il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di Luigi de Magistris, spiega ancora Palamara, “io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito”.
Le cene con Ferri e Lotti. Il 25 settembre “c’è una cena a casa di Giuseppe Fanfani, membro del Csm in quota renziana. Siamo invitati io, Ferri ed Ermini per chiudere il cerchio. Io e Ferri chiediamo all’ultimo al padrone di casa se può venire anche Lotti, lui non obietta né tantomeno obietta il vicepresidente in pectore Ermini”, racconta Palamara. E sottolinea, “il futuro, oggi in carica, vicepresidente del Csm è a tavola con un politico indagato, Luca Lotti, con un magistrato del Csm, il sottoscritto – che lui ben sapeva essere indagato, perché, anche se la notizia non era ancora stata pubblicata dai giornali, nel nostro mondo era stranota –, e con un fresco onorevole del Pd, Cosimo Ferri”.
Il potere di Magistratura democratica. “Magistratura democratica è l’embrione del sistema”, precisa ancora Palamara nel libro. L’ex pm spiega anche il suo ingresso in Md: “Noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”. A un certo punto “capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel ‘Sistema’”. Poi, compreso che Md è una “corrente ideologica e non scalabile con la mia storia”, matura la scelta di passare a Unicost.
Il j'accuse del libro di Palamara. La magistratura è inquinata ma nessuno fa nulla e il sistema affonda. Alberto Cisterna su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. È forse giunto il tempo di distogliere lo sguardo dalle miserie umane e istituzionali compendiate nel noto libro di Palamara e tornare a una discussione meno intralciata da singoli destini e minute controversie al limite, qualche volte, del pettegolezzo. La virata non è né facile, né si può negare che si presti a qualche sospetto da parte dei girondini di turno ora a caccia di scalpi. Tra l’altro, l’azione di bonifica è appena iniziata sia in sede disciplinare (Csm) che deontologica (Anm) e ci vuole pazienza, ma è innegabile che già se ne intuiscono gli inevitabili limiti. Per carità, non è poca roba. Ma non si può fare a meno di constatare che – salvo un paio di casi, uno dei quali connesso a una scabrosa, quanto controversa vicenda personale – a rotolare nel canestro sembrano destinate poche teste coronate e molte terze e quarte file della magistratura italiana. I clientes, per intendersi, quelli più adusi alle lusinghe dei potenti e, ora, più esposti alla minuziosa rilettura di grappoli di chat. Mentre i boss stanno in disparte, si godono posti di prestigio lucrati, spesso, senza passare dall’infido Whatsapp del reprobo e attendono furbescamente, come giunchi sulle rive del fiume agitato, che passi la piena. Certo sovviene alla mente il fatto che già da tempo i più avveduti complottisti prediligessero Telegram e non si può escludere che risalenti origini e oblique propensioni abbiano indotto altri persino ad adoperare i più tradizionali pizzini. Quale che siano state le mille forme delle interlocuzioni clientelari è del tutto evidente che solo una parte del fondale fangoso è stata smossa e che troppi “scampati” attendono che l’acqua torni limpida e meno perigliosa per riprendere a dipanare le proprie trame. Un’operazione di risanamento, quella in corso su vari fronti, inevitabilmente destinata a un drenaggio incompleto delle scorie venute a galla e che pone l’urgenza di comprendere se quanto accaduto sia il frutto di un’occasionale inquinamento delle pure e limpide acque dell’associazionismo togato, ovvero se a essere contaminate siano state le falde più profonde dell’ordine, le sorgenti stesse della vita associativa e, con esse, purtroppo, le fonti della giurisdizione. Perché, a ben guardare, resta un cifra oscura in tutta questa vicenda: sinora chat e conversazioni sono state prese in esame volgendo lo sguardo in modo pressoché esclusivo alle carriere e alle connesse faide. Il J’accuse di Palamara, nello stesso titolo del libro (Il Sistema), è uno squarcio nel drappo pesante che celava la costruzione e la gestione di queste carriere. Ma non è ancora chiaro quale riflesso tutta questa convulsa azione clientelare abbia potuto avere nella gestione di indagini e processi. In fondo, ma non troppo, ai cittadini potrebbe anche non interessar nulla di come Caio sia divenuto procuratore o Tizio presidente, purché siano resi sicuri che i protocolli delle nomine non abbiano avuto e non avranno alcuna incidenza sui loro processi e sulle loro vicende. Non sarà certo la magistratura l’unico ramo di quel lago opaco che è la pubblica amministrazione italiana in cui troppi dirigenti e capibastone hanno provenienze improbabili di origine politica, massonica o legate a consorterie varie. Di questo profilo ovvero dell’inquinamento della giurisdizione, in queste settimane, si discute poco o nulla. Certo si è scoperto che esistono cordate di pubblici ministeri, appartenenti alla polizia giudiziaria e giornalisti che prendono in carico i propri nemici, interni ed esterni, per abbatterli. Fatto inquietante – noto a tutti da anni con tanto di nomi e cognomi – rispetto al quale però nessun provvedimento legislativo o organizzativo è stato mai seriamente messo in campo, perché il Cerbero ha tre teste tutte capaci di azzannare e far male a chiunque. Ma non basta. A sprazzi, e con molta cautela, emergono nel racconto del ripudiato Palamara anche le interferenze di certi magistrati su certi processi, la costruzione artefatta delle fonti di prova, le manipolazioni investigative, le complicità poliziesche. Il tutto pare giustificato da una sorta di stato di belligeranza della corporazione con settori della politica che, ahimè, costringeva quelle toghe a una certa disinvoltura. Ma come stare tranquilli che i solerti regicidi e tirannicidi non fossero disposti anche a tagliar gole a qualsiasi altro malcapitato non è ben chiaro. Messo da parte l’intento nobile che ispirava i novelli Bruto, resta forte l’impressione di un uso improprio della giurisdizione, di una confidenza disinvolta con l’obliquità, della giustificazione postuma di un atto non consentito. Dopo l’assassinio Bruto tessé un discorso di grande rilievo: «Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? … Ma fu troppo ambizioso, ed io l’ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere!» (W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II). Sappiamo com’è andata a finire dopo il discorso di Antonio e quanto lieve peccato sia stata considerata l’ambizione di Cesare. Parimenti nessuna abiezione politica o morale può giustificare l’esercizio improprio della giurisdizione. Ci saranno pur altre storie, altre vite, altre vittime che hanno pagato la stessa colpa di Cesare. Ma non è lecito attendersi che il racconto del magistrato vada oltre. Ha già troppi impicci perché sia lecito pretendere che ammetta fatti di reato ancora nascosti di cui potrebbe essere stato parte o che potrebbe aver subito e non denunciato. Troppo poco perché possa trovare una risposta tranquillizzante la domanda «ma se hanno liquidato Mevio o Sempronio perché non dovrebbero averlo fatto altre volte?». La questione resta lì sul tappeto, in tutta la propria inquietante dimensione etica e giuridica, ma inesplorata. Eppure questo interessa, eccome, i consociati i quali avrebbero il diritto di sapere se – sia pure occasionalmente e sia pure a macchia di leopardo – quella separazione tra coniugi, quella causa di risarcimento, quella lite condominiale, quella denuncia o quel fallimento abbiano visto agire la consorteria clientelare venuta a galla in queste settimane o altre omologhe. La linea di galleggiamento del sistema giudiziario è alle soglie dell’affondamento, a dispetto delle centinaia di toghe oneste, capaci e laboriose che, comprensibilmente, vorrebbero che tutto questo passasse in fretta per tornare a lavorare e rendersi utili al paese. Ma il corpo morale della magistratura è inscindibile dal suo corpo istituzionale perché interamente costruito sulla fiducia dei cittadini e sul credibile esercizio di una enorme autonomia e dell’indipendenza. Se il corpo morale imputridisce per una cancrena circoscritta, ma non sanata, anche il corpo istituzionale rischia di soccombere. Ma di questo discuteremo un’altra volta abusando della pazienza di queste pagine.
Magistratura a rischio crac. Palamara come Craxi, con lui la magistratura può essere travolta così come la politica lo fu da tangentopoli. Alberto Cisterna su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Una citazione in esordio non è proprio rispettosa del bon ton giornalistico, però a certe condizioni può agevolare la riflessione. Il libro è un capolavoro del misticismo politico (E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, 1989, trad.it.) e a noi bastano poche righe dell’introduzione di Alain Boureau: «Agli inizi del XVI secolo un giurista elisabettiano, Plowden, afferma che il sovrano dispone di due corpi distinti: il suo corpo naturale, soggetto all’azione del tempo e della fragilità umana, può perire, mentre il suo corpo politico, perpetuo, passa da un individuo all’altro sfuggendo alla comune miseria e mortalità». La monarchia (inglese e francese) fonda così la ragione della sua perpetuità immanente». Il delicato rapporto tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano è tutto racchiuso in questa chiara enunciazione risalente ad alcuni secoli or sono. La corruttibilità umana non scalfisce l’imperturbabile grandezza del corpo politico che l’accoglie. Un parlamento, un capo dello Stato, un governo, una corte vive di questa immutabile forza che trascende le miserie, per fortuna transitorie, dei singoli e gli sopravvive. Per la magistratura le cose, a occhio e croce, dovrebbero stare allo stesso modo. La percezione di una crepa, più o meno vistosa, nelle condotte di singoli non dovrebbe essere capace di mettere in discussione la legittimazione politica e sociale dell’intera giurisdizione. Le cose hanno funzionato, bene o male, sempre in questo modo e per molto tempo; tra alti e bassi, tra eroi e traditori, tra fini giuristi e cialtroni semianalfabeti l’istituzione è comunque sempre sopravvissuta ai singoli peccatori. Ora però è forte la sensazione che le cose si siano messe in altro modo. Se si passa dalla denuncia della singola trasgressione alla condanna di comportamenti collettivi, il problema assume una dimensione diversa che non è solo quantitativa, ovviamente. Condotte diffuse, prassi condivise, connivenze generalizzate possono ledere il corpo politico dell’istituzione e privarlo in modo irrimediabile della propria regalità costituzionale. È già successo altre volte: a esempio le istituzioni politiche non sono più riuscite a mantenere quella centralità e quell’autorevolezza che pur la Costituzione assegnava loro, travolte, come sono state, da Tangentopoli, finanche abbattute da un solo libro (La casta) e ancora oggi sono fumanti le macerie di quel crollo. Settori importanti e accorti della magistratura – che un ruolo decisivo ha avuto, non solo nel perseguire i singoli reati (come giusto), quanto nel denudare il corpo esangue e infetto della politica e nell’elaborare una propria visione della legalità e del relativo controllo a prescindere dall’involucro formale delle leggi – percepiscono con lucidità quale pericolo si profili all’orizzonte in questi mesi di tempesta. In fondo la battaglia di queste settimane si incentra tutta intorno alla svestizione del corpo politico della giurisdizione. Lo scontro, a occhio e croce, è tra quanti ritengono di poter denudare il corpo umano del Re per colpire così la regalità dell’istituzione e quanti vogliono preservare la perpetuità solenne del suo corpo politico. Certamente il conflitto si immiserisce in espressioni anche volgari e in contumelie ai limiti del dileggio, ma la sostanza del problema resta tutta lì. Con l’ineguagliabile singolarità, tuttavia, che a privare il corpo politico delle sue stimmate regali sia stato lo stesso Re o, meglio, quello che sino a poco tempo or sono era considerato uno dei monarchi assoluti della corporazione. Chi grida alla “delegittimazione” compie un’operazione, tutto sommato, di scarsa lungimiranza politica e istituzionale, perché non coglie la dimensione più profonda della lesione “morale” inferta alla corporazione. Lesione che non proviene – come altre volte – dall’esterno delle mura ed era perciò destinata a fallire, ma dal suo interno con un gesto di abdicazione che (come la Storia italiana insegna) non è detto che lasci intatta la monarchia. Perché se è vero che il dottor Palamara è stato formalmente destituito dalla magistratura è anche vero che la sua appare piuttosto come una deposizione, l’esilio inflitto al Re ritenuto indegno e compromesso. Ma il corpo politico del Re sopravvive alla decomposizione del suo corpo umano alla sola condizione che non sia lo stesso Re a mettere a nudo la propria fragilità e, con essa, a denunciare la corruzione dell’istituzione che incarna. Quando ciò è accaduto gli effetti sono stati enormi: «questa crisi non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato». Era il 3 luglio 1992, a parlare era un altro Re, Bettino Craxi. Con lui cadeva senza più rialzarsi un intero sistema e il corpo umano trascinava con sé il corpo politico anche in ragione di quell’ammissione di colpe collettive e condivise che nessuno voleva udire e a cui però nessuno si poteva sottrarre: «Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». A volte la Storia consuma le proprie vendette in modo singolarmente audace ed imprevisto.
Magistratopoli e i suoi scandali. La luna di miele della maggioranza durerà finché la questione giustizia non chiederà di schierarsi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Tutti a prendersela con la burocrazia, sempre pletorica e lenta, ma si tratta in realtà di un inganno, un trompe-l’oeil come i panorami dipinti sui muri settecenteschi. La burocrazia in Italia è quel che è perché nasce dalla paura. Paura di mettersi prima di tutto al riparo dai capricci e dalle assenze e vuoti della magistratura. La magistratura italiana è prima di tutto lenta in modo sconosciuto in qualsiasi altro Paese civile. E poi agisce ideologicamente. Naturalmente, ci riferiamo sempre a quel minoritario ma potente settore della magistratura, eccetera, come è sempre doveroso ripetere per non offendere tutti i magistrati bravi e buoni, che sarebbero forse anche maggioranza. Parliamo sempre di quel settore, di quei pochi “few, happy few, band of brothers” che però rendono poco felice la vita e il funzionamento della società. Dopo le confessioni di Palamara a Sallusti e i successivi dibattiti e interviste, si è aperto un filone ricchissimo di pepite, misteriosamente negletto da quella stampa e televisione che avevano fino a poche settimane fa retto la coda al governo più bello del mondo, il governo dell’avvocato venuto dal nulla. Palamara ha detto cose gravissime e terribili, ma poi sembra che si siano tutti distratti per la crisi di governo, senza aver afferrato il punto principale: Palamara ha detto – fra l’altro – che i processi contro il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi avvenivano in un “contesto” – parola illuminata da Leonardo Sciascia – in cui gli inquirenti traevano ispirazione per le loro azioni da un presidente della Repubblica che dirigeva il ballo. Palamara ha anche sottolineato che ciò è tutto sommato normale, cioè rientra nella norma, perché nella nostra Costituzione più bella del mondo il Capo dello Stato è anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dunque – sostiene Palamara – quando il Quirinale si impiccia, fa solo il suo mestiere e i magistrati eseguono, sempre secondo Palamara, senza parole, per allusioni, ci siamo capiti. Questa spiegazione-confessione ha acceso i riflettori su un mostro: quello di un conflitto extracostituzionale e non dichiarato e attivo, fra due poteri: quello del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio, quando il primo, nella sua autorità esente da controllo, sospetta o teme che il capo del governo minacci (dice Palamara) l’autonomia della magistratura. Facciamola corta: esiste alcun Paese moderno e occidentale, ma anche orientale purché democratico, in cui sia possibile un tale conflitto fra un eletto dagli eletti (il Capo dello Stato che gode di una legittimazione democratica di secondo grado rispetto a chi viene eletto direttamente come qualsiasi sindaco) e il capo del governo che dovrebbe essere l’espressione degli eletti? Domanda retorica. No, non esiste da nessuna parte. Ma da noi sì. Ma questo in fondo, pur non essendo affatto un dettaglio, è comunque un tassello di un puzzle che va guardato nella sua interezza. E che cosa mostra il puzzle? Che l’intero Paese è fermo perché terrorizzato sia dall’inazione che dall’azione della magistratura. Processi lentissimi che ammazzano fisicamente i contendenti secondo l’antico principio della Sacra Rota degli annullamenti matrimoniali che dovevano durare almeno vent’anni perché così, nel frattempo, uno dei tre protagonisti di un matrimonio in crisi, muore. La lentezza ammazza e questo lo sappiamo. Poi, oltre la lentezza c’è l’ideologia che appartiene a quella fetta di magistrati che non sono l’intero corpo, ma quanto basta per causare danni irreparabili. L’ideologia è punitiva, presume la colpa e nelle cause civili tutto dipende dalla voglia e tempo che il singolo magistrato ha da dedicare al dossier. L’ideologia prevalentemente sinistrese tende istintivamente a castigare il merito, equiparando gli ultimi ai primi specialmente là dove il merito costituisce la fonte energetica del progresso industriale. Quando gli stranieri valutano i rischi che correrebbero investendo in Italia, si fanno fare un rapporto sul funzionamento e i tempi della giustizia, poi dicono no, grazie, e se ne vanno, oppure restano infilandosi in una giungla di cavilli e spese supplementari che fanno passare la voglia. Lo stesso fanno le imprese italiane che, pur di non affrontare la pianta carnivora della giustizia, preferiscono produrre in Croazia o in Asia. Oltre a non favorire lo sviluppo dei virtuosi, questi atteggiamenti ideologici di una parte della magistratura lasciano prosperare tutto ciò che è sciatto, inadempiente, menefreghista, perché non esistono sanzioni a breve in un mondo il cui motto è: “e tu, fammi causa”. Tutto ciò il professor Mario Draghi lo sa benissimo e durante i due giri di consultazioni ha scelto di restare impassibile di fronte entrambe le parti: quella populista manettara e quella liberista. Quanto potrà durare l’atteggiamento che risponde alla fase della Sfinge? La formula di governo basata sulla maggioranza d’emergenza con dentro tutti, difficilmente permetterà a Draghi di dare immediati segnali di urgenza per una riforma della giustizia che finora, con la linea del DJ Guardasigilli Bonafede, è andata nel senso inverso rispetto a quello necessario per far ripartire l’economia. L’idea è che l’economia italiana fosse soltanto a corto di contanti, ma che appena arrivato il tesoro dei pirati, tutta la baracca riparta, alla festosa maniera degli anni Sessanta. Non è così non soltanto per l’economia, ma anche per la cultura, la scuola in mano agli incompetenti, l’università infestata dalle cosche accademiche e la ricerca che quando vuole davvero raggiungere risultati preferisce emigrare, così come fanno tutti i giovani talenti dopo aver annusato l’aria di casa e aver visto che non c’è giustizia, non c’è premio per chi è bravo, ma soltanto oscurantismo, lentezza, incertezza, castigo per i bravi e premi con cotillon per la massa dei mediocri dell’uno vale uno e anche mezzo. Il tema della ripresa è nel calendario delle urgenze ed è inevitabile che la questione del funzionamento della giustizia alla maniera dei Paesi normali balzi automaticamente ai primi posti facendo emergere un conflitto aperto fra le forze politiche dei volenterosi costruttori che si sono messi a disposizione di un premier che nasce con la camicia di un consenso a prima vista miracoloso. Non resta che stare a vedere, sperare e segnalare, nel nostro piccolo. Ma onestamente ci spaventa questa smargiassata mediatica dei pentastellati sul super-ministero fantasma scopiazzato da quello francese che ha prodotto più guai e tumulti di gilet gialli che occupazione e buona ecologia. Siamo pronti a scommettere che la luna di miele della maggioranza durerà fino a quando la questione economica della giustizia – prima ancora di quella etica e costituzionale – richiederà a tutti di decidere da che parte stare e a quale punto qualcuno dovrà perdere e qualcun altro dovrà vincere, come nelle vere partite e l’Italia dovrebbe finalmente essere autorizzata a giocare la propria senza trucchi, che poi sarebbe se non abbiamo capito male lo scopo del governo di Mario Draghi.
La testimonianza di un pm napoletano. I magistrati dimostrino coraggio: è ora di ribellarsi al sistema Palamara. Paolo Itri su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Nel mio recente romanzo Il Monolite (edizioni Piemme, ottobre 2019) ho descritto il mastodontico Palazzo di giustizia come la spettrale parodia del semidesertico territorio lunare dove gli ominidi di 2001 Odissea nello Spazio si scontrano tra di loro per il controllo di una fonte d’acqua. Il misterioso oggetto kubrickiano che dà il titolo al libro, così granitico e immutabile, non è altro, in effetti, che una metafora del potere, così come esso ci appare, fuori e dentro quel Palazzo e particolarmente dentro la Magistratura, dove il Monolite rappresenta l’incontrastato dominio delle correnti interne alla potentissima Associazione nazionale magistrati. Quelle stesse correnti che – secondo l’ormai famoso best seller a firma del direttore Alessandro Sallusti – hanno esercitato per decenni una subdola forma di prevaricazione nei confronti dei magistrati “disallineati” dal Potere o che si collocavano comunque fuori dal “Sistema”. Quando, nell’estate del 2019, completai il mio romanzo – all’epoca del mio autoesilio alla Procura di Vallo della Lucania -, ero ben consapevole che a causa di quel libro mi sarei fatto degli altri nemici (cosa che si è puntualmente verificata), eppure mai mi sarei immaginato il cataclisma che di lì a poco si sarebbe invece scatenato sull’onda del libro-intervista di Luca Palamara. In effetti il mio romanzo può per certi versi essere considerato l’antesignano dell’opera di Sallusti, laddove l’enigmatico Monolite rappresentava nient’altro che la materializzazione in termini metaforici dello stesso identico “Sistema” palamariano. E ne ho potuto parlare proprio in quanto ho provato sulla mia pelle cosa voglia dire essere emarginati da un tale “Sistema” di potere al quale non ho mai inteso sottomettermi né piegare le mie funzioni e la mia indipendenza, anche a costo di passare – nella migliore delle ipotesi – per un soggetto “originale” o un “cane sciolto”. Il prezzo che ho pagato è stato alto e non poche sono state le umiliazioni che mi è toccato subire sul piano professionale, per colpa di un Csm servo del potere delle correnti (questo lo dice Palamara, non io) e nonostante avessi un curriculum più alto della stessa statura fisica di alcuni dei colleghi che sedevano intorno a quel tavolo. Eppure io dico che ne è valsa la pena. Pare che oggi qualcosa si stia finalmente muovendo. E non mi riferisco di certo né alla politica e né alle varie istituzioni o articolazioni dello Stato che pure avrebbero il dovere di intervenire a fronte a uno sfascio del genere di quello descritto da Palamara, giacché la loro inerzia – peraltro del tutto prevedibile – costituisce forse il maggior riscontro alla esistenza del “Sistema”. E nemmeno all’imbarazzante silenzio della maggior parte degli organi di informazione – tranne alcune encomiabili eccezioni come Il Riformista -, poiché anche quello si spiega secondo la stessa identica logica omertosa. Ma bensì al fermento che sta in questi giorni montando in alcuni ambienti esterni all’Anm, quegli ambienti frequentati dalle anime più pure e genuine della magistratura italiana come Gabriella Nuzzi, Clementina Forleo e altri, dove è tutto un fiorire di iniziative, di progetti e di rinnovato entusiasmo e ai quali la soffocante e ottusa mano del potere non si è mai avvicinata perché sapeva di non trovare terreno fertile. Alcune di tali proposte sono già ben note, come quelle del sorteggio temperato per la elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura e della rotazione degli incarichi direttivi, proposte entrambe dirette a scardinare la malapianta del consociativismo associativo, che proprio sul mercato delle nomine fondava e fonda il suo immenso potere. Altre iniziative sono ancora allo studio, come la istituzione di una nuova associazione di magistrati destinata, dopo quasi 80 anni, a soppiantare l’Anm, il sindacato dei magistrati, che da istituzione nata anche con lo scopo di favorire il dibattito culturale e dialettico tra le diverse anime della magistratura è diventata, nel corso degli anni, sempre di più un vecchio arnese nelle mani di alcune ben individuate cricche di potere. Questo per quanto riguarda il futuro (auspicabile) della magistratura italiana. Ma per quanto riguarda invece le responsabilità, morali (o di altro genere) ascrivibili a coloro che hanno trasformato per anni una delle istituzioni fondamentali della Repubblica nel luogo di foschi ricatti, doppiogiochismi e minacce dipinto da Palamara? Allo stato, non sembra che la magistratura sia in grado di fare pulizia al proprio interno. Anzi. Appare perciò ineludibile che a occuparsi della faccenda – anche per consegnare alla storia nomi e cognomi di coloro che portano la responsabilità di un simile sfacelo – non possa essere che una Commissione parlamentare d’inchiesta di cui, affidandoci anche alla saggezza del presidente Sergio Mattarella, auspichiamo al più presto l’istituzione. Spetta infatti a noi, che abbiamo conosciuto e sperimentato il “Sistema” sulla nostra pelle, il compito di consegnare ai cittadini e alle future generazioni di magistrati una istituzione finalmente libera, indipendente e depurata dalle vecchie scorie della degenerazione correntizia.
Magistratopoli e i suoi scandali. Caso Palamara, punirne uno per salvarne tanti. Bartolomeo Romano su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. La metafora ciclistica dell’uomo solo al comando: questa sembra essere stata la semplice linea difensiva del sistema. Un uomo, solo, a guidare la potente Anm; un uomo, solo, nei corridoi, nelle stanze e nel Plenum del Csm. A volte, in effetti, la linea difensiva più semplice è anche la migliore. A volte. Non mi iscrivo nelle liste di innocentisti o di colpevolisti: noto, però, che Palamara è stato segretario e presidente dell’Associazione nazionale magistrati (2007-2012), e poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura (2014-2019). Difficile pensare che, da solo, percorresse corridoi e prendesse decisioni. Ho l’impressione che vi sia stata una certa voglia di “pena esemplare” (al di là e oltre le eventuali responsabilità individuali). Ma non per punire uno al fine di educare tanti; piuttosto, per punire uno e salvare tanti. Palamara è stato fulmineamente espulso dalla Anm e, con un procedimento disciplinare non consueto, è stato radiato dalla magistratura, credo di poter dire senza troppi approfondimenti e senza ascoltare i molti testimoni che avrebbe voluto citare. E nel collegio giudicante ha tenuto a rimanere Davigo, nonostante stesse per andare in pensione, probabilmente nel quadro del puro che emenda il più puro (o quello che una volta si riteneva tale: qualcuno ricorderà lo scontro Cossiga-Palamara…). Può accadere, però, che l’esemplare risposta del sistema si inceppi, anche a dispetto di un certo efficientismo punitivo. È quello che mi sembra sia accaduto in quello che è stato generalmente etichettato come “il caso Palamara” e che invece tende a nascondere, dietro il semplicistico capro espiatorio, un problema di sistema, come il libro-intervista di Sallusti a Palamara crudelmente rivela. Certo, occorrerà verificare se le verità di Palamara sono tutte verità effettive; ma l’impressione è che non si potrà più fare finta di niente. Mi viene alla mente la rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che – in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo – ha visto una corsa del puro superato dal più puro, con molte teste cadute sulla gigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti. Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota. Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi perché non mi sembra così lontana. Dopo la radiazione di Palamara, il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha preso atto della intervenuta pensione da magistrato di Davigo e ha concluso, secondo me a ragione, che egli non potesse continuare a rimanere al Csm quale Consigliere “togato”. Anche il puro più puro è stato dichiarato decaduto dal Csm… Invece, in un Paese serio, da quanto accaduto sarebbero derivate conseguenze serie. Sarebbe dovuta intervenire una riforma della legge elettorale del Csm che impedisse alle correnti di regnare (io ho sempre pensato a un sistema misto, con un ampio sorteggio e poi una votazione tra i sorteggiati). Certo, neppure questa sarebbe una riforma radicale, poiché toccherebbe il solo sistema elettorale; ma qualcosa è meglio di niente. Per essere chiari, a mio modo di vedere, una seria riforma dovrebbe attuare l’art. 111 della Costituzione, con l’ovvia e naturale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (ma evitando che i p.m. possano dipendere dall’esecutivo). Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i pubblici ministeri e uno per i giudici. Analogamente, occorrerebbe affrontare anche le diverse, ma connesse, questioni delle cosiddette porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e del numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal Csm, su richiesta della politica o di vari organi, e di loro stessi, a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia). Se non saremo capaci di comprendere cosa è accaduto, e perché è accaduto, ci limiteremo – al massimo – a colpire la punta dell’iceberg. E la nave della giustizia tenderà sempre a galleggiare, riuscendoci solo a volte. E tutto sembrerà mutare, ma non cambierà nulla. Forse non è un caso, come ricordai ai miei Colleghi durante una seduta del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che a Roma, a pochi metri dal Palazzo dei Marescialli, sia morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mio illustre concittadino.
Palamara, la lepre. Liana Milella su La Repubblica il 7 febbraio 2021. Lui, il reprobo della magistratura, corre avanti. Loro, gli immacolati della giurisdizione, tentano di inseguirlo. Ma lui conosce i nomi di chi non ha rigato dritto (perché hanno parlato con lui), mentre loro non sanno (anche se tra di loro c’è chi sa). Quindi sono destinati alla sconfitta. Lui è Luca Palamara. Loro sono quelli dell’Anm e del Csm. Volete un esempio? L’Anm trascorre un sabato e una domenica dividendosi e contorcendosi su come reagire al libro di Palamara. Un fatto è certo, il libro l’hanno comprato e l’hanno letto. Lui, nello stesso weekend, distribuisce altre pillole di fatti, va dai Radicali, parla con La verità, e chiude la domenica con la seconda performance da Giletti a Non è l’arena. Forse pensa già a un secondo libro, “Il sistema” numero due. E loro? I poveri, quasi ex, colleghi (perché la rimozione dalla magistratura di Palamara decisa dal Csm non è definitiva, attende il verdetto delle Sezioni unite della Cassazione), litigano su come punire chi ha sbagliato. Ma la lepre, prima di cucinarla (purtroppo, perché io non mangio chi ha un cuore), bisogna prenderla. Prima di verificare quali violazioni sono state inflitte al codice etico bisogna conoscere nomi e fatti. Soprattutto analizzare i fatti. Bisogna avere le carte. E come sappiamo, l’Anm ancora non ce le ha. E qui, prim’ancora di cominciare, già ci si divide. Perché il sindacato dei giudici non è una cosa sola, c’è una maggioranza che lo governa, composta da quattro correnti - la sinistra di Area, la destra di Magistratura indipendente, il centro di Unicost, i davighiani di Autonomia e indipendenza - che contano ben 32 seggi su 36. Ma poi c’è Articolo Centouno, quattro colleghi (Andrea Reale, Giuliano Castiglia, Maria Angioni, Ida Moretti) che rifiutano le logiche di corrente, ma sono essi stessi una corrente. All’opposizione però. Sono quelli del sorteggio per il Csm. Adesso sono per andare fino in fondo, ma il prima possibile, sui colleghi che hanno sbagliato. Acquisendo subito le chat seguendo ogni strada. Puntano anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per via di quella circolare del 22 giugno in cui, fissando i criteri per valutare le chat, ha escluso che l’autopromozione fosse perseguibile. In realtà, a leggere bene il testo, la decisione deriva dalle norme sul disciplinare stesso. Lui, Salvi, scrive: “L’attività di autopromozione effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari, non essendo “gravemente scorretta” nei confronti di altri e in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari”. Ovviamente Articolo Centouno non è d’accordo, anche perché Palamara, in una pagina del suo libro, accenna a un incontro con Salvi alla vigilia di una sua promozione. Palamara corre avanti. Di certo non animato da buoni sentimenti verso chi gli ha strappato la toga di dosso. Ma c’è modo e modo di corrergli dietro. E soprattutto bisognerebbe correre...
Luca Palamara, i dubbi di Francesco Storace: "Perché parlava con Marco Minniti sulla nomina di Cafiero De Raho?" Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Luca Palamara arriva fino in commissione Antimafia. Attorno all'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ruota un altro mistero per cui il grillino Nicola Morra vuole andare fino in fondo. A svelarlo é il Tempo che definisce una vera e propria "rissa" quanto starebbe accadendo tra ex e tutt'ora alleati. Morra infatti vuole Palamara in commissione per sentirlo su alcune intercettazioni riguardanti quelli che Francesco Storace definisce "inquietanti dialoghi con l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, esponente del Pd, che al telefono appariva come il grande protettore di Federico Cafiero de Raho, asceso poi a capo della procura antimafia". E ancora, rincara la dose "conversazioni imbarazzanti ma altro deve essere - sostiene più di un membro della commissione - il boccone ghiotto cui punta Morra". Cerca di starsene ben alla larga invece il Partito democratico, che teme le Intercettazioni da discutere visto e considerato che coinvolgono un suo esponente di spicco. Il quotidiano romano parla di fatti "discutibili scoperti solo dopo l'emersione del caso Palamara", che ha portato il magistrato fuori dal Csm. Ma quando tutto ciò non sembrava minimamente possibile, nel lontano 2017, Palamara vantava numerosi colloqui. Soprattutto in occasione delle nomine importanti della magistratura. Come quella di Cafiero De Raho, procuratore a Reggio, che aspirava alla procura di Napoli. Di lui Palamara parla con Minniti. "Situazione su Cafiero ancora in evoluzione ma faticosissima spero trovare ultima mediazione a dopo". "Perfetto. Grazie" risponde a sua volta Minniti. Ma niente Cafiero de Raho non riesce a diventare procuratore di Napoli. Palamara scrive a Minniti i voti: "9 voti Cafiero, 14 Melillo, 2 astensioni, Votato ora". "Perfetto" risponde Minniti, "Cerchiamo adesso di salvare il soldato de Raho. Il risultato in qualche modo lo consente". E ancora Palamara conferma: "Si il mio intervento in plenum è stato in questo senso". "Perfetto. Lavoriamoci" rimane d'accordo Minniti. Le conversazioni tornano assidue il 5 ottobre quando la commissione incarichi direttivi del Csm propone Cafiero de Raho procuratore nazionale antimafia. Palamara torna a fornire i voti a Minniti. Questa volta l'obiettivo è raggiunto. "Eccellente. Grazie", risponde Minniti. C'è qualcosa però che Storace non si spiega, perché il dem chiamava De Raho "soldato"? In che rapporti erano? Domande a cui Morra vuole dare risposte, ma il Pd storce il naso.
Palamara: “Mi impediscono di parlare in Antimafia. Avrei molto da dire su Borsellino”. Nuova bordata dell'ex presidente dell'Anm: "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Il Dubbio lunedì l'1 marzo 2021. ”Io mi sono messo a disposizione, anche io ho letto i giornali e ho letto che ci sono state addirittura richieste da parte alcuni esponenti politici, anche ex magistrati, di fare la conta per evitare di farmi andare”. Lo ha affermato l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, intervenendo a ‘Non è l’Arena’, a proposito dell’audizione saltata in Commissione Antimafia. ”Quello che dovevo raccontare del mio libro – ha aggiunto – non ho nessuna difficoltà a raccontarlo in sede di audizione antimafia. Anzi, potrebbe essere anche quella l’occasione per affrontare dei temi che nell’ambito dell’esperienza consiliare abbiamo trattato sui rapporti Stato-mafia, sui mandanti delle stragi, su importanti esposti fatti dalla famiglia Borsellino”.
Borsellino e il “ricatto alla palermitana”: perché non ascoltare Palamara? L'ex presidente dell'Anm Palamara : "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Damiano Aliprandi su Il Dubbio martedì 2 marzo 2021. «Io mi sono messo a disposizione della commissione Antimafia, potrebbe essere una occasione per affrontare dei temi che, nell’ambito della mia esperienza consiliare, abbiamo esaminato come i rapporti tra Stato e mafia, i mandanti delle stragi e gli importanti esposti dalla famiglia Borsellino. Penso che sia l’occasione giusta per potermi consentire di parlare». Così ha dichiarato Luca Palamara durante la trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti, a proposito dell’audizione saltata in commissione Antimafia per la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, accanto al quale si è schierato non solo il Pd ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione. Il problema è che se dovesse essere convocato nuovamente, c’è il rischio che venga ascoltato solo per la vecchia storia sulla mancata nomina al Dap del magistrato Nino Di Matteo. Roba già fin troppo sviscerata, ma nulla sulla vicenda delle deviazioni emerse all’interno delle correnti della magistratura e del Csm. Non solo.
Il rischio è che non venga sentito sugli esposti di Fiammetta Borsellino. Il rischio è che non venga nemmeno sentito per i temi che ha annunciato da Giletti. Parliamo soprattutto degli esposti presentati da Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” da parte dei magistrati che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ricordiamo che il gip ha archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, rilevando che «ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino», ma non è stata «individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati». Quindi per il gip, gli allora pm di Caltanissetta non hanno avuto alcuna responsabilità penale nel depistaggio accertato. Ma resta sullo sfondo, come ha scritto recentemente l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di alcune di quelle persone condannate innocentemente per la strage, che i pm sono stati «scarsamente aderenti ai criteri di valutazione della prova» e che purtroppo non tennero conto neppure dell’instabilità psicologica di Scarantino.
Non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni di Scarantino. Fatti che il Csm non ha voluto esaminare per una eventuale azione disciplinare, nemmeno simbolica tipo come la “censura” che equivale a un buffetto sulla guancia. C’è Luca Palamara che, prima di essere radiato, è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Anche quando in seno alla prima commissione Csm si stava discutendo dell’opportunità di svolgere accertamenti nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio nel primo processo Borsellino. Forse potrebbe fare chiarezza, capire esattamente quale sia stato il vero motivo per cui si è deciso di non dare seguito all’esposto presentato dalla figlia di Borsellino. La verità ufficiale è che ciò sarebbe stato determinato dal troppo tempo trascorso che toglierebbe ogni efficacia all’intervento disciplinare del Csm. Tutto quindi si è fermato e non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni del falso pentito: ovvero Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva e Ilda Boccassini, come aveva deciso invece il precedente Csm, il cui unico atto istruttorio era stata l’audizione del magistrato e ora membro del Csm Nino Di Matteo, oltre che l’acquisizione delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater. Se Palamara ha annunciato che ha qualcosa da dire, forse dietro la verità ufficiale si nascondono ben altre motivazioni? Un motivo in più per essere audito in commissione Antimafia, ma forse non basta. Per i temi annunciati ci vorrebbe una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc, altrimenti c’è il rischio che si riveli del tutto inutile. A questo si aggiunge un altro aspetto che dovrebbe essere chiarito sempre per il rispetto dei familiari di Borsellino che chiedono con forza la verità.
L’interessamento di Borsellino a mafia-appalti. Uno di quelli è il discorso del procedimento mafia-appalti archiviato dopo la strage di Via D’Amelio. Oramai sono agli atti, per ultimo la sentenza di secondo grado del Borsellino quater, che la causa dell’accelerazione della strage è da ricercarsi nell’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti, lo scopo è di «cautela preventiva». Un fatto richiamato in diverse sentenze, ma mai approfondito fino in fondo. Ebbene nelle intercettazioni tra Palamara e il pm Stefano Fava si parla di un «ricatto alla palermitana». Si tratta dell’informativa della Guardia di finanza relativa ad attività tecniche rit. n 120/19 e 175/ 19. Riportiamo i passaggi in causa.
Le intercettazione dei colloqui tra Palamara e Stefano Fava. Palamara: «Però dopo lo sai che facciamo, facciamo un libro, io faccio un libro, no non sto scherzando…», Fava: (ride), Palamara: «’na specie di ricatto tu me dai le co…eh…e tutto… e diciamo quello che cazzo è successo…», Fava: «Il titolo è Ricatto alla Palermitana…», Palamara: «Questa adesso è una cosa che va oltre, no? Totalmente», Fava: «Ma se tu leggi quel libro là di… Gli intoccabili inc. le… cioè tu vedi come tutta la carriera di Pignatone è una fuga di notizie…», Palamara: «È così!», Fava: «Dall’ indagine mafia-appalti del ’91 in tutti i procedimenti dove c’era lui, gli indagati, lì era Felice Lima (all’epoca pm di Catania che raccolse la collaborazione di Li Pera e dove rivelò con precisione tutto il sistema appalti ndr), poi c’era Siino (fonetico), c’era Li Pera (fonetico) sempre avevano le informative, cioè sempre in tutti i procedimenti, poi arriva Cuffaro e Cuffaro nella vicenda Guttadauro, nella vicenda Aiello è andato a dire perché è stato condannato Cuffaro, perché Cuffaro dà un incarico a suo fratello Roberto Pignatone, il mio stesso Roberto Pignatone…perché Cuffaro ha dato la notizia a Guttadauro che era un medico e ad Aiello che era un altro medico che avevano le ambientali», Palamara: «Eh!», Fava: «Perciò è stato condannato, giusto?», Palamara: «Esatto», Fava: «e questi procedimenti chi c’era, Pignatone, perché all’epoca era braccio destro…», Palamara: «Secondo me pure per loro se lo mandano in Prima è un boomerang che se io le vado a fa ste dichiarazioni, no ipoteticamente mi chiamano, cioè saltano in area sia Cascini che Manci…cioè quelli che poi si devono dimette…».Precisiamo che sono solo intercettazioni, scambi privati tra due magistrati. Da sottolineare che Pignatone, in realtà, non è l’unico che si occupò del procedimento mafia-appalti: fu coassegnatario del procedimento soltanto sino alla data del 5 novembre del ’91. Non partecipò nemmeno alla stesura della richiesta di archiviazione inerente gli esponenti della politica e della imprenditoria, oggetto di attenzione da parte del Ros. L’aspetto che più colpisce è il “ricatto alla palermitana”, come se esistessero soggetti ricattabili a causa del loro passato. Sarebbe importante fare chiarezza su tutti questi aspetti, in particolar modo i primi anni 90 e ciò che sarebbe accaduto all’interno dell’allora procura di Palermo. Ricordiamo che la sentenza del Borsellino quater di secondo grado suggerisce di indagare anche su quel versante. La Corte ricorda che «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dottor Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo». A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito «le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita».
I 5S: «Palamara in Antimafia? No alle influenze dei media, ci interessano le “scarcerazioni”» Per i componenti grillini della commissione Antimafia la priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”: il caso mediatico per eccellenza. Damiano Aliprandi su Il Dubbio mercoledì 3 marzo 2021. «Riteniamo che non ci si debba far trascinare nel vortice mediatico portando in audizione qualcuno soltanto perché va di moda o qualche giornale lo richiede». Il riferimento è al caso Palamara e lo dicono i commissari del Movimento5 stelle della commissione Antimafia. Parole sagge quelle dei grillini, conosciuti per non seguire gli umori e sondaggi del momento, che non assecondano le indignazioni popolari scaturite dalla propaganda mediatica che insinua complotti e retropensieri. Sì, certo. Infatti nel loro comunicato, subito dopo dicono con toni autorevoli che hanno ben altro da seguire. L’audizione di Luca Palamara non è una priorità per loro, perché, dichiarano «abbiamo in sospeso tante altre audizioni urgenti che non richiamano l’attenzione dei media». Quali? Per caso l’esposto al Csm di Fiammetta Borsellino in merito all’indagine irrituale svolta dai magistrati di allora che si sono fatti passare sotto il naso il depistaggio sulle indagini di Via D’Amelio? Oppure i rapporti tra Stato e mafia, l’interessamento di Paolo Borsellino su mafia-appalti, tanto che alla sua ultima riunione alla procura di Palermo del 14 luglio 1992 ne chiese conto e ragione? Tutte questioni che i mass media non riportano con la giusta enfasi e per questo sconosciute all’opinione pubblica. No, nulla di tutto questo. Per i grillini della commissione Antimafia, la loro priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”.Parliamo esattamente del caso mediatico per eccellenza. Chi non è a digiuno di diritto penitenziario sa che il tema del differimento pena per gravi problemi di salute, soprattutto durante il periodo pandemico, non è qualcosa di oscuro o indicibile, ma la messa in pratica della Costituzione italiana. La commissione Antimafia ha svolto numerose audizioni, molte incentrate sul discorso della famosa nota circolare che tanto ha destato scandalo grazie ai tanti giornalisti che sono a digiuno delle regole penitenziarie. Forse non è bastata nemmeno la voce autorevole del Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, che ha ritenuto utile e doverosa la “famigerata” nota del 21 marzo 2020 del Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ha sottolineato che il contenuto della circolare è coerente con le disposizioni di legge e regolamentari in materia e peraltro anticipato dalle indicazioni di alcuni presidenti dei tribunali di sorveglianza, inoltre «risulta finalizzato a far prontamente conoscere ai giudici le situazioni di vulnerabilità, suscettibili delle loro indipendenti determinazioni». Ma i media non ne hanno parlato, quindi per i commissari grillini – i quali dicono però di essere immuni dalle propagande mediatiche – non è degno di nota. Ribadiscono che convocare Palamara non è una priorità: «L’Antimafia deve essere improntata ad un lavoro meticoloso, pianificato, finalizzato al raggiungimento degli obiettivi che ci si è prefissati e non dettata da improvvisazione». La commissione è stata così meticolosa che ancora non si è accorta che i tre reclusi al 41 bis “scarcerati” e poi rientrati dopo il decreto ad hoc dell’allora ministro Bonafede, in realtà erano e sono davvero gravemente malati. Due di loro, tra l’altro, sono prossimi alla fine della pena. Uno invece, come rilevato da Il Dubbio, ha gravi patologie psicofisiche. Eppure, al contrario di ciò che dicono, i grillini preferiscono seguire l’agenda dettata dai mass media.
"Il sistema ha la regola del 3": ecco l'ultima verità di Palamara. Luca Palamara è tornato da Massimo Giletti, dove ha svelato altre verità sul caos procure e sulla mancata audizione in Commissione antimafia. Francesca Galici - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Luca Palamara è tornato a parlare in diretta a Non è l'Arena dopo la pubblicazione del libro Il sistema, scritto da Alessandro Sallusti, in cui il direttore de Il Giornale ha raccolto le verità del magistrato sui retroscena della magistratura italiana. Luca Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha generato il coas nelle procure del Paese. Dopo aver raccontato le sue verità, il magistrato si è detto disponibile a mettersi completamente al servizio della magistratura per ridare dignità e credibilità all'organizzazione e fare finalmente luce su tutte le zone d'ombra. "Io mi sono messo a disposizione, anche io ho letto i giornali e ho letto che ci sono state addirittura richieste da parte alcuni esponenti politici, anche ex magistrati, di fare la conta per evitare di farmi andare", ha dichiarato Luca Palamara da Massimo Giletti a proposito dell'audizione saltata in Commissione antimafia. "Quello che dovevo raccontare del mio libro non ho nessuna difficoltà a raccontarlo in sede di audizione antimafia. Anzi, potrebbe essere anche quella l'occasione per affrontare dei temi che nell'ambito dell'esperienza consiliare abbiamo trattato sui rapporti Stato-mafia, sui mandanti delle stragi, su importanti esposti fatti dalla famiglia Borsellino", ha proseguto il magistrato a Non è l'Arena. Luca Palamara ha anche confermato il cambio di capo di imputazione a suo carico da parte della Procura che sta conducendo l'indagine: "Sì, la procura di Perugia ha modificato il capo d'imputazione nei miei riguardi, ora è corruzione in atti giudiziari. Ma non ne voglio parlare". L'indagine è stata possibile grazie all'utilizzo di un trojan installato nel telefono di Luca Palamara, che però nutre qualche dubbio in merito al suo corretto funzionamento: "È uno strumento che rischia di funzionare a intermittenza, alcune volte la voce si sente chiara e altre volte no, alcune cene le riprende e altre no. Io ho il massimo rispetto di chi indaga e di chi ha svolto indagine. La guardia di finanza è fatta da persone perbene, può capitare di sentire male le persone". Il funzionamento delle nomine nelle procure del Paese è stato spiegato da Luca Palamara nel libro scritto con Alessandro Sallusti e anche da Massimo Giletti è stato molto chiaro: "In una pagina del libro che abbiamo fatto con il direttore Sallusti diciamo che il meccanismo è spiegato molto bene. Si parlava della regola del 3: uno a me, uno a te, uno a lui. Quindi io non ci troverei nulla di male se il sistema continuasse in questo modo".
Lo sfogo del magistrato anticamorra. Così il sistema Palamara ha provato a negarmi la nomina in DDA. Paolo Itri su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. La lettura del libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara sconvolge le nostre coscienze. Sembrerà strano ma, da magistrato, quel che più mi inquieta del racconto di Palamara non sono tanto le pure e semplici malefatte delle “correnti”. Il suk delle nomine, gli indegni accordi spartitori, il baratto delle prebende e i collegamenti con la politica sono fatti che, per quanto deprecabili, erano comunque più o meno noti. Che questo fosse l’andazzo era il segreto di Pulcinella (anche se il racconto dell’ex presidente dell’Anm ha il pregio di aprire squarci di verità su fatti e vicende specifici finora ignoti all’opinione pubblica e alla gran parte dei magistrati). Ma quello che più allarma è il clima di violenza che si respira, dalla prima all’ultima pagina del libro. Finora avevamo creduto che i contrasti tra le diverse correnti della magistratura associata si risolvessero pur sempre in una “semplice” lotta per il potere, per quanto aspra e condotta con metodi ampiamente illegali. Adesso, invece, con un senso di angoscia, apprendiamo di episodi di vero e proprio killeraggio e di strategie mirate alla delegittimazione dei magistrati più incontrollabili o invisi al Sistema. A sentire Palamara, puntualmente, in questi casi, la macchina del fango si metteva in moto per neutralizzare il malcapitato di turno, ovvero per impedirgli di concorrere a questo o quel posto di procuratore. E questo solo perché lo sventurato aveva avuto la sfortuna di essere inviso al brutale Sistema di potere delle correnti. È inutile girarci attorno: questa si chiama violenza. Una violenza odiosa, ignobile e ingiusta. Accanto alle spartizioni e alle miserevoli raccomandazioni, dal racconto di Palamara emergono poi diversi episodi di vera e propria bullizzazione in danno di non pochi magistrati. Chi non si piegava al Sistema, chi si dimostrava troppo indipendente o troppo poco sensibile alle lusinghe del potere veniva immediatamente emarginato o allontanato e delegittimato. È evidente che ci troviamo di fronte solo alla punta dell’iceberg. C’è un episodio di cui fui protagonista quasi venti anni fa e che, alla luce delle recenti rivelazioni, mi sembra emblematico. Ne faccio parola adesso per la prima volta. La vicenda (a cui faccio soltanto un breve accenno nel mio libro Il Monolite – Storie di camorra di un giudice antimafia) risale all’aprile del 2002, quando l’allora procuratore di Napoli Agostino Cordova decretò il mio ingresso nella Direzione distrettuale antimafia. La mia nomina fece particolarmente scalpore, non certo per una questione di mancanza di esperienza (nonostante la mia giovane età, infatti, potevo già vantare un notevole curriculum, avendo nell’aprile del 2001 ottenuto la prima condanna, a circa 500 anni di reclusione, di 41 tra capi e gregari del potentissimo clan Sarno di Ponticelli), quanto piuttosto per il fatto che non ero legato ad alcuna corrente e non avevo nessun santo in Paradiso a cui appellarmi, a fronte di altri candidati, ben più anziani di me, che aspiravano allo stesso posto e che erano molto più ammanigliati al Sistema delle correnti. Pare che la decisione di Cordova non venne presa molto bene, in particolare negli ambienti di una delle correnti, tanto che – per come mi fu successivamente riferito – uno dei concorrenti, deluso per il mancato incarico, si rivolse per interposta persona addirittura all’allora procuratore nazionale antimafia per cercare di bloccare la mia nomina che, proprio a causa di tale indebito “intervento”, subì un rallentamento di diversi giorni. All’epoca la cosa mi lasciò piuttosto indifferente, ma oggi, alla luce delle rivelazioni di Palamara, mi viene il dubbio che in quei giorni qualche “cecchino” abbia passato al setaccio la mia storia personale e professionale (senza però, a quanto pare, trovare nulla di interessante). Laddove l’episodio ricevesse conferma, sarebbe l’ulteriore riscontro al fatto che le capacità e il merito individuali non vanno d’accordo col potere, così nella società civile come in magistratura: il Sistema preferisce i servi sciocchi. La fedeltà al sodalizio della corrente è evidentemente un “valore” di fronte al quale il talento e l’indipendenza dei singoli magistrati cedono il passo, con conseguente irreparabile danno per l’istituzione e i cittadini. Nel frattempo, aumentano sempre di più le adesioni al recente appello trasmesso al Capo dello Stato affinché, con la sua autorevolezza, intervenga per avviare l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’ordine giudiziario e la gran parte dei magistrati meritano di godere. A oggi sono 120 i colleghi che hanno sottoscritto il documento, nella speranza che qualcosa possa finalmente cambiare.
Parla l'ex magistrato anticamorra. “Meno indagini show e più trasparenza sulla crisi della magistratura”, la giustizia secondo Raffaello Magi. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. L’ago della bilancia è sempre più spostato dalla parte delle indagini, come se quello fosse il momento in cui la giustizia dà la sua risposta certa, infallibile e imparziale. E così accade che le inchieste vengano spettacolarizzate o finiscano per incidere sul corso della vita politica di una città, di una regione, del Paese, o ancora che le nomine dei capi delle Procure diventino il centro d’interesse di logiche di potere come emerso dal cosiddetto caso Palamara.
Perché?
«Purtroppo è anche il frutto di una particolare velocità delle informazioni e della identificazione dell’indagine come luogo in cui già si stabilisce la verità dei fatti. È un fenomeno ormai antico ma devastante», spiega Raffaello Magi consigliere della prima sezione penale della Corte di Cassazione e già giudice presso il Tribunale di Santa Maria Maria Vetere dove ha firmato, tra le tante, la famosa sentenza del processo Spartacus, verdetto che definì il primo maxi processo al clan dei Casalesi.
Quanto influisce il protagonismo del singolo magistrato e quanto il sistema per come è strutturato?
«C’è sempre una componente umana e, se si smarrisce il senso del limite e della funzione, il protagonismo, quello del singolo ma anche quello mediatico che ci ha afflitto nell’ultimo ventennio, porta ad amplificare il ruolo della Procura e dell’indagine come luogo in cui si dà già una soluzione, cosa che ovviamente non è: quella che si forma in sede di indagini è un’ipotesi che ha un suo fondamento, altrimenti neanche sarebbe formulata, ma non la possiamo ritenere ancora una verità. A ciò si aggiunga un dato essenzialmente culturale, per cui occorrerebbe affidarsi a una migliore gestione del rapporto tra indagine e mezzi di informazione e a una sorta di opportuno senso del limite da parte di chi gestisce questa fase».
Il tema si collega alla crisi di immagine e di fiducia che la magistratura sta attraversando dopo il caso Palamara.
«L’idea che sta passando, e su cui bisognerebbe riflettere, è che certi incarichi di vertice in alcuni uffici, soprattutto in alcune Procure, siano il frutto di mediazioni dove al di là della competenza e della professionalità prevalgono altre logiche. Il che sta creando un effetto preoccupante di attacco alla credibilità generale della istituzione e degli uomini che in qualche modo la impersonano. È un aspetto serio sul quale bisogna intervenire innanzitutto al nostro interno per fare in modo che il desiderio di carrierismo e la volontà di emersione, che non appartengono a tutti – sono in magistratura da trent’anni e posso dire che moltissimi colleghi lavorano in condizioni di difficoltà e di anonimato avendo come unica stella polare l’affermazione dei diritti -, vengano contrastati da noi stessi magistrati, recuperando ciò che c’è già e cioè il piacere di risolvere i piccoli casi che tanto contano nella vita delle persone. Questa è la grande sfida da raccogliere. Parallelamente è necessaria una riorganizzazione degli uffici con la possibilità di figure intermedie che aiutino il giudice a svolgere una serie di attività e rendano più produttivi gli uffici in termini quantitativi. Siamo un Paese estremamente complesso e litigioso e questa tendenza sarà amplificata dalla crisi. Cerchiamo di fare in modo che non sia importante chi fa il procuratore capo di Roma o Milano e rimbocchiamoci tutti le maniche affinché le opportunità economiche che arriveranno servano a ridurre i tempi di trattazione dei processi e organizzare meglio gli uffici».
Sullo sfondo resta però il grande tema delle nomine, delle logiche di potere delle correnti in seno al Csm. Come evitare un nuovo caso Palamara per il futuro?
«Il nodo centrale resta quello delle Procure, infatti non mi risulta che ci siano state grandi questioni sulle nomine degli uffici giudiziari di tipo giudicante che invece hanno un’importanza strategica enorme perché sono quelli che offrono il servizio diffuso ai cittadini. Sulle nomine dei procuratori influisce un’idea sbagliata anche della componente laica della politica di poter in questo modo influenzare la linea futura di chi farà il procuratore capo indirizzando secondo certe strategie di priorità le attività di indagine. Serve innanzitutto un’operazione trasparenza con la pubblicazione, in maniera accessibile a tutti, delle pratiche di maggior interesse come quelle che riguardano le nomine degli uffici più grandi di Italia. Inoltre, strategie di decentramento delle funzioni, innalzamento dei requisiti di partecipazione al Csm da parte dei laici, autoriforma della magistratura associata che deve passare, e lo sta già facendo, per delle grosse forme di autocritica. Siamo in una fase di transizione estremamente delicata per la tenuta degli equilibri sociali, economici e della democrazia, quindi bisogna utilizzare le risorse in arrivo per mettere in campo delle riforme strutturali che riguardano i tempi della giustizia. Poniamoci soprattutto il problema di un recupero di credibilità che passi attraverso una risposta più rapida della giustizia, soprattutto di quella civile».
Magistratopoli e i suoi scandali. Commissione di inchiesta, perché è un istituto inutile e non va utilizzata per il Palamaragate. Frank Cimini su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Se il vero problema è la debolezza della politica, dubito che una commissione parlamentare di indagine su quanto avvenuto in magistratura di recente e anche prima possa restituire alla politica quella forza che aveva perso soprattutto per sua responsabilità. Dell’istituto della commissione di inchiesta è stato fatto un uso che ha finito per svuotarlo e renderlo poco credibile. A mio parere la sua utilità ed efficacia si ferma storicamente alla prima volta, quando nel Paese intero e non solo al Sud si negava l’esistenza stessa della mafia e quindi la commissione parlamentare di indagine fu lo strumento per sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutto il resto della storia non convince. Porto l’esempio della commissione sulla loggia P2, quando strumentalmente si scelse di criminalizzare oltre ogni limite una lobby di potere al fine di autoassolversi per dimostrare di essere diversi dai “cattivi”. Con la commissione di indagine sul terrorismo e sul caso Moro è stato toccato il fondo. Le varie stagioni della commissione nelle sue diverse composizioni sono sfociate in mera propaganda, soprattutto per merito degli eredi di un partito che non c’è più, al fine di depistare dalla verità. L’obiettivo è stato unicamente quello di dimostrare che dietro c’era chissà chi, servizi segreti di mezzo mondo, per non fare i conti con la storia del Paese e con un fenomeno politico che ci si ostina ancora oggi a fare di tutto per non ricostruire nei suoi tratti fondamentali. C’è stato, in tempi di spending review, uno spreco enorme di denaro pubblico. Sono andati, anche per volontà della Procura generale di Roma, in via Fani con il laser quarant’anni dopo per scoprire che a sparare erano state solo le Brigate rosse e non tiratori scelti arrivati da un’altra galassia. Nel cosiddetto caso Palamara, che poi è il caso magistratura, la politica ha già avuto modo di brillare per la sua assenza, a cominciare da quei partiti che in anni recenti pure erano stati protagonisti di polemiche e di scontri con le toghe. Chi era arrivato a occupare con i parlamentari i corridoi del Palazzo di giustizia di Milano in occasione del processo per un pelo di quella lana poi – nel momento dell’emergere, alla luce del sole di un trojan, di traffici e inguacchi che di solito portano i comuni mortali in galera – è stato in pratica zitto. I politici avrebbero potuto saltare al collo quantomeno della magistratura associata intimando di tacere “perché siete come noi, anzi peggio”. L’istituzione di una commissione parlamentare di indagine non sembra in grado di portare risultati. Soprattutto in tempi di pandemia, con il prevalere della preoccupazione di non contagiarsi e per moltissimi di sopravvivere, le vicende della commissione sarebbero seguite dai più con distrazione. La politica, se ne ha volontà, può benissimo recuperare la sua forza senza ricorrere a uno strumento ormai sputtanato. Ma ne ha voglia?
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 26 febbraio 2021. Terzo tempo dell' operazione Palamara. Dopo la ribalta editorial-mediatica (il libro stravenduto come un romanzo d' appendice e pompato da Mediaset e Giletti) e la mobilitazione dei magistrati anti-corrente (che lo paragonano a Buscetta e si appellano a Mattarella per un repulisti nella categoria), chat e connesse «rivelazioni» aleggiano sulle massime istituzioni. Il presidente della commissione parlamentare antimafia Morra e il membro del Csm Di Matteo vogliono convocarlo. Ma non la spuntano. La commissione parlamentare si riunisce dopo sei mesi, ma Morra non ha più la maggioranza. Il M5S non lo difende più, il centrodestra lo detesta, il Pd vuole sostituirlo con Grasso. Al Csm la proposta Di Matteo ottiene solo tre voti su sei. Stallo. Dunque, come in un reality, per ora le audizioni di Palamara proseguono in tv.
Luca Fazzo per "il Giornale" il 10 febbraio 2021. Una convocazione a sorpresa, che toglie il caso Palamara dai talk show televisivi e dalle mailing list della magistratura e lo trasforma in caso istituzionale. Il prossimo 23 febbraio Luca Palamara verrà sentito davanti alla commissione parlamentare antimafia per decisione del suo presidente, il grillino Nicola Morra. Lì Palamara dovrà rispondere come sotto giuramento. E gli aspetti rilevanti ai fini della Commissione si annunciano più d' uno. È una svolta che arriva a poche ore dal segnale giunto da Catania dove ieri i magistrati i magistrati votano per eleggere i dirigenti locali dell' Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe di cui Luca Palamara è stato per anni il leader, prima di trasformarsi nel suo grande accusatore. Nel capoluogo etneo la corrente egemone è da sempre Unicost, il segretario generale Mariano Sciacca ha qui il suo feudo personale. Ebbene, ieri Unicost a Catania prende gli stessi voti della lista civica «Partecipazione e rappresentanza»: dietro c' è Articolo 101, il movimento che tutte le correnti storiche odiano perché lo considerano un gruppo di scriteriati antisistema, e che a Catania si presenta con proposte rivoluzionarie, come il sorteggio degli eleggibili al Csm e la rotazione dei capi delle procure e dei tribunali. Sono proposte che azzererebbero o quasi il potere delle correnti, e che per questo vengono fieramente osteggiate. Ma proprio per questo fanno il pieno: 103 voti, appena cinque in meno dei 108 di Unicost. La sinistra, Area, quasi non pervenuta: 30 voti. È il segnale che le accuse di Palamara sulla degenerazione del sistema, che Articolo 101 ha in larga parte fatte proprie, ormai hanno fatto breccia. A dare fiato al dissenso verso i vertici ci sono le testimonianze che in questi giorni arrivano dai magistrati che nel libro di Palamara e Alessandro Sallusti, Il Sistema, vedono ricostruite e spiegate le loro vicissitudini per non avere fatto parte delle cordate correntizie: da Clementina Forleo a Luigi de Magistris, fino a Alfredo Robledo, già procuratore aggiunto a Milano. Robledo va ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica e racconta per filo e per segno come sarebbe stato estromesso dalle indagini su Expo da parte di Edmondo Bruti Liberati, leader di Magistratura democratica e procuratore a Milano: «Siccome non sono mai stato controllabile doveva eliminarmi (...) mi vedeva bene lontano dalle indagini sulla pubblica amministrazione perché sono stato sempre indipendente e non ho mai abbassato la testa». Sono vicende di cui prima o poi dovranno occuparsi le inchieste giudiziarie: se non altro nei processi scaturiti dalle querele che alcune toghe hanno preannunciato in questi giorni contro Palamara: ieri è arrivata quella di Davigo nei confronti dell' ex pm e di Sallusti. Palamara per ora continua a mostrarsi sicuro del fatto suo, e incamera nel frattempo un risultato importante. A Perugia, dove l' ex presidente dell' Anm è imputato di corruzione e altri reati, il giudice preliminare Piercarlo Frabotta, chiamato a vagliare la richiesta di rinvio a giudizio spiccata dal procuratore Raffaele Cantone, invece di accoglierla - come spesso accade - senza andare per il sottile, la blocca spiegando in sostanza che non si capisce di cosa sia accusato Palamara per il periodo in cui non faceva ancora parte del Csm, ed era in sostanza solo il leader della sua corrente. Frabotta chiede a Cantone di «precisare il capo di imputazione» in relazione a questo periodo. Cantone avrà tempo ora fino al 22 febbraio per spiegarsi meglio. «Rispettiamo il lavoro della procura - commenta il legale di Palamara, Benedetto Buratti - ma da tempo sosteniamo l' indeterminatezza dell' accusa». D' altronde strada facendo l' indagine di Perugia aveva già perso per strada un pezzo rilevante, quando era caduta l' accusa di avere incassato 40mila euro per orientare la nomina del procuratore di Gela.
Morra indagato per le frasi dopo la morte di Jole Santelli: «Notizia dopo annuncio dell'audizione di Palamara». Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2021. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, è indagato in un’inchiesta della Procura di Cosenza per diffamazione. Morra è stato querelato dalle sorelle di Jole Santelli, Paola e Roberta, dopo la frase pronunciata dal senatore del Movimento 5 Stelle subito dopo la morte della governatrice. Morra, infatti, aveva detto: «Sarò politicamente scorretto, era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Espressioni che avevano indotto Paola e Roberta Santelli, sorelle della governatrice, a sporgere querela. Dopo avere appreso di essere indagato, Morra ha affermato: «Dopo due giorni dall’aver divulgato la notizia della prossima l’audizione del Dott. Palamara in Commissione Antimafia, apprendo da un’agenzia di essere indagato per diffamazione». Attraverso i social, Morra ha aggiunto: «Ho il dovere-diritto della trasparenza, sarà un caso, certamente, due giorni fa ho dato la notizia della prossima audizione del dottor Luca Palamara in Commissione Antimafia, sarà forse qualche altra cosa, però, tutto potrebbe essere. Io adesso provvederò a segnalare la notizia, per come sono le regole del Movimento, a chi di dovere, ai Probiviri, al garante, e procederò tranquillamente, perché se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato». Il presidente della Commissione Antimafia ha sostenuto: «Mi sembra francamente irrituale che quelle parole, che sono state oggetto di polemiche formidabili all’epoca, possono produrre un’inchiesta con l’ipotesi di diffamazione aggravata e continuata, però sarà la magistratura a dover decidere. Io intanto continuo e cercherò certamente di audire il dottor Palamara». L?avvocato Sabrina Rondinelli, legale delle sorelle Santelli, ha confermato all’Adnkronos: «Confermo che Morra è stato querelato, una volta a novembre e una a dicembre, e che c’è un’indagine della procura di Cosenza».
Gli insulti alla governatrice scomparsa. Nicola Morra indagato per le frasi diffamatorie su Santelli: ma il grillino evoca complotti e Palamara. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Parole che costano caro. Il presidente della della commissione parlamentare antimafia, il grillino Nicola Morra, è indagato dalla Procura di Cosenza per il reato di diffamazione aggravata e continuata. Il fascicolo su Morra si riferisce alle frasi espresse dal parlamentare dopo la morte della presidente della Regione Calabria Jole Santelli (“scelta e votata malgrado fosse risaputa la sua malattia oncologica” disse Morra a novembre). Frasi che innescarono la querela da parte delle sorelle della governatrice, Paola e Roberta, tramite l’avvocato Sabrina Rondinelli. Morra, nel prendere atto di essere indagato, evoca complotti. Per il presidente dell’antimafia non sarebbe un caso che la notizia della sua indagine esca due dopo quella sulla imminente audizione in commissione antimafia dell’ex giudice Palamara. “Un caso? Forse, chi lo sa – ha detto Morra in un intervento su Facebook – ne risponderò se ho sbagliato, altrimenti tutto verrà archiviato”. Quanto alle parole spese su Jole Santelli, Morra non fa marcia indietro: “Era noto a tutti che la presidente della Calabria Regione Santelli fosse una grave malata oncologica. Se però ai calabresi questo è piaciuto è la democrazia, ognuno deve essere responsabile delle proprie scelte”, queste le frasi dopo le quali le sorelle Santelli, Paola e Roberta, parti offese, presentarono querela. Morra ha ribadito che “provvederà a segnalare la notizia, secondo le regole del Movimento a chi di dovere, ai probiviri, al garante, e procederò tranquillamente perché, se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato”.
Caos Csm, Morra: “L’origine di tutti i mali? La presenza dei laici in Consiglio”. Il Dubbio il 14 maggio 2021. Il presidente della commissione antimafia dopo lo scontro con l'ex consigliere del Csm sul caso verbali: «Ho sempre avuto stima di Davigo, stima che rimane immutata. Sono convinto che tutto si chiarirà positivamente per le parti coinvolte». «Sono convinto che la magistratura debba essere un potere indipendente: l’origine di tutti i mali è che un terzo dei componenti del Csm sia di nomina parlamentare, permettendo l’inquinamento tra potere legislativo e giudiziario». Parole e musica di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, che interrogato sulla proposta di una Commissione di inchiesta sulla magistratura sferra un attacco non troppo velato alla componente laica del Csm, e quindi anche anche agli avvocati. Le parole di Morra non suonano nuove. Si tratta infatti dello stesso presidente della commissione antimafia che voleva introdurre un “bollino blu” per gli avvocati che certificasse la loro moralità e tenuta etica. E lo stesso Morra che in un impeto erdoganiano, aveva deciso che gli avvocati italiani erano troppi e andavano un po’ sfoltiti per risollevare le sorti della giustizia. Una passione, quella per gli avvocati, che Morra ha sempre condiviso con Piercamillo Davigo. Prima che le strade dei due si separassero a seguito dell’ultimo scandalo che ha travolto la magistratura. Parliamo del noto “caso verbali” di Piero Amara, quei verbali che Morra racconta di aver ricevuto da Davigo, secondo una versione dei fatti poi smentita dall’ex consigliere del Csm. Lo psicodramma è andato in scena in diretta Tv negli ultimi giorni. «Non gli ho mostrato nessun verbale», ha tuonato Davigo in studio da Giovanni Floris, a Di Martedì, smentendo dichiarazioni rilasciate da Morra solo poche ore prima, dallo studio di Massimo Giletti. Ma proprio oggi, a margine della conferenza stampa di presentazione della proposta di legge sull’apologia di mafia depositata dalla deputata M5s Stefania Ascari, Morra ha dichiarato: «Ho sempre avuto stima di Davigo, stima che rimane immutata. Sono convinto che tutto si chiarirà positivamente per le parti coinvolte».
«Morra dice che il guaio siamo noi laici? Sappia che il Csm non è l’Anm». Parla Alessio Lanzi, componente laico del Consiglio superiore della magistratura, dopo l’anatema scagliato dal vertice dell’Antimafia Nicola Morra. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 14 maggio 2021. «Mi sembra una dichiarazione dal contenuto semplicemente incredibile», afferma Alessio Lanzi, professore di Diritto penale all’università di Milano Bicocca e attualmente laico, indicato da Forza Italia, al Consiglio superiore della magistratura, a proposito delle dichiarazioni rilasciate dal presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra secondo il quale «l’origine di tutti i mali è che un terzo dei componenti del Csm sia di nomina parlamentare». Un curioso tentativo, in effetti, di additare la politica persino in una cornice in cui emergono piuttosto le degenerazioni del correntismo all’interno della magistratura, dunque casomai della componente togata all’interno dell’organo di autogoverno. Le considerazioni di Morra vedono conteso il “titolo” di notizia del giorno, nel campo della magistratura, dalla richiesta di pensionamento anticipato che sarebbe in arrivo da parte di Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze che era fra i candidati alla nomina di capo dei pm di Roma, e che ora è sotto procedimento disciplinare a palazzo dei Marescialli per via di presunte molestie nei confronti di una collega, emerse dall’uso proceduralmente irrituale delle solite chat di Palamara. In ogni caso colpisce che un esponente del Movimento 5 Stelle come Morra riesca a vedere il “male assoluto” nella politica persino adesso che emerge in modo chiaro una grave crisi tutta interna all’ordine giudiziario. Dell’anatema scagliato dal vertice dell’Antimafia contro i laici del Csm chiediamo appunto a uno di quelli attualmente in carica, il professor Lanzi.
Professore, cosa si sente di aggiungere alle affermazioni di Morra?
Guardi, dico solo che la presenza dei laici, e quindi di professori e avvocati, al Csm consente il corretto esercizio dell’autogoverno della magistratura.
Se non ci fossero i laici che tipo di Consiglio superiore avremmo?
Il Csm sarebbe la fotocopia dell’Associazione nazionale magistrati. Con in più i poteri di gestione delle toghe in tema di nomine e sotto il profilo disciplinare. Il tutto, però, senza alcuna legittimazione costituzionale. Veda un po’ lei.
Qual è il valore aggiunto dei laici?
I laici sono i rappresentanti della società civile eletti dal Parlamento. Vorrei ricordare che l’autogoverno della magistratura è finalizzato all’interesse del corretto esercizio della giurisdizione. Quando si discute di autonomia e indipendenza della magistratura è questo il senso.
Pensa che Morra non abbia ben presente questo carattere di garanzia che il Csm detiene?
Il suo è un discorso molto semplicistico di chi evidentemente non conosce la Costituzione. Il presidente dell’Antimafia potrebbe risentire di un pregiudizio nei confronti degli avvocati? L’avvocato al Csm, ripeto, è un professionista di area culturale designato dal Parlamento, è un rappresentate della società civile. Il Csm gestisce la magistratura nell’interesse della cittadinanza, non dei magistrati.
Bisognerebbe pensare sempre che l’interesse da tutelare è quello dei cittadini, insomma.
Esatto. Il Csm, tutelando l’interesse dell’amministrazione della giustizia, consente che la cittadinanza abbia una giustizia come si deve. Non mi stancherò mai di ripetere che il Csm non deve essere autoreferenziale, non è una corporazione.
D’altronde i laici sembrano essere rimasti fuori, in questi mesi, dalle polemiche sulle nomine e sugli incarichi.
Certo: nelle ormai celebri chat del dottor Luca Palamara non c’è un laico. Ci sono sempre e soltanto magistrati. Se non ci fossero i laici il correntismo dilagherebbe. Morra avrebbe incontrato l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo vicino alla tromba delle scale di Palazzo dei Marescialli…L’episodio si commenta da sé.
Il Pd vuole zittire Palamara: "Non parli con l'Antimafia". Il capogruppo dem in Commissione Mirabelli si oppone all'audizione dell'ex numero uno. Csm: "È inopportuno". Luca Fazzo, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Cosa importa all'Antimafia se il pm antimafia più famoso d'Italia fu osteggiato dalle istituzioni? Se poteri forti si mossero per impedire che Nino Di Matteo scavasse sul «livello occulto», vero o presunto, delle stragi? Luca Palamara nel libro-intervista di Alessandro Sallusti lancia flash inquietanti sui retroscena di quelle vicende. Eppure il Partito democratico si oppone alla sua audizione da parte della Commissione parlamentare antimafia, decisa l'altro ieri dal presidente grillino Nicola Morra. Quelli sollevati da Palamara per il Pd sono «temi che sulla lotta alla mafia c'entrano relativamente. Anzi, non c'entrano per nulla». A parlare è Franco Mirabelli, vicepresidente del Senato e capogruppo dem in commissione Antimafia. L'audizione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati secondo Mirabelli è «inopportuna», e pertanto il Pd chiederà di ripensarci nel corso della prossima riunione del Comitato di presidenza. Ma Morra fa già sapere che andrà avanti per la sua strada. Convocare Palamara è doveroso, dice, perché i fatti che racconta «rappresentano un quadro desolante nell'azione di contrasto alle mafie da parte della magistratura italiana». Nel libro Il Sistema, Palamara racconta di come avvenne la revoca di tutti gli incarichi a Di Matteo da parte del procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho, dopo una intervista televisiva del sostituto. Palamara (che pure non nasconde di non amare Di Matteo) spiega che de Raho, «che di suo non è un cuor di leone», non fu il vero autore di quella estromissione. Lo stesso vale per il ripensamento successivo, quando de Raho rimette in sella Di Matteo: «Escludo che si tratti di farina del suo sacco». Palamara non indica il mandante, anche se ricorda l'irritazione di Napolitano per le indagini del pool di Di Matteo. In ogni caso è chiaro che se davvero scelte così delicate sono state eterodirette la cosa è clamorosa. Non secondo il Pd, però. E il senatore Mirabelli spiega bene quale sarebbe il rischio della convocazione di Palamara all'Antimafia: «Non capisco bene perché dobbiamo offrire una sede istituzionale a una persona che comunque ha subito provvedimenti disciplinari», dice l'esponente dem. Il problema, si intuisce, è evitare di fare da cassa di risonanza alle accuse di un reprobo. Ma anche su questo Morra ha una risposta: il rischio che Palamara strumentalizzi la commissione parlamentare c'è, «ma noi questo rischio lo dobbiamo correre». Perché la necessità primaria è capire se quello che racconta il libro è vero. La palla adesso passa ai componenti di centrodestra dell'Antimafia, che però da mesi non partecipano più ai lavori della commissione: è la protesta contro il presidente Morra e le sue battute disdicevoli sul defunto governatore della Calabria, Jole Santelli. Un Aventino che potrebbe rientrare una volta risolta la crisi di governo, e a quel punto è facile ipotizzare che la convocazione di Palamara sia condivisa dall'attuale blocco di opposizione. Che il fosco quadro dipinto dall'ex pm non sia frutto di fantasia, lo ammette ieri d'altronde anche Area, la corrente di sinistra della magistratura. Al termine di un comunicato assai duro verso Palamara, che viene tacciato di «gravissima disinvoltura», di omissioni faziose e di voler «lucrare un ricollocamento in politica», Area poi ammette che «la caduta etica del Csm, piagato dalle correnti e dai potentati personali», non l'ha inventato Palamara. Era ora.
Luca Palamara, il Pd si oppone all'audizione in Antimafia: "Non opportuna". Il sospetto: c'entrano le rivelazioni su Napolitano? Libero Quotidiano l'11 febbraio 2021. Il Partito democratico si oppone alla audizione di Luca Palamara da parte della Commissione parlamentare antimafia: decisione presa dal presidente grillino Nicola Morra. Per il Pd quelli di Palamara sono "temi che sulla lotta alla mafia c'entrano relativamente. Anzi, non c'entrano per nulla, spiega Franco Mirabelli, vicepresidente del Senato e capogruppo dem in commissione Antimafia. L'audizione, secondo Mirabelli, "è inopportuna". Il presidente Morra però ha già fatto sapere che non cambierà idea. "Convocare Palamara è doveroso, perché i fatti che racconta rappresentano un quadro desolante nell'azione di contrasto alle mafie da parte della magistratura italiana". Palamara, racconta nel libro di Alessandro Sallusti, come non fu il procuratore antimafia de Raho a revocare tutti gli incarichi del pm Di Matteo. Lo stesso vale per il ripensamento successivo, quando de Raho rimette in sella Di Matteo: "Escludo che si tratti di farina del suo sacco", scrive il Giornale. Palamara inoltre ricorda l'irritazione di Giorgio Napolitano per le indagini del pool di Di Matteo. Ma Mirabelli spiega il rischio della convocazione di Palamara all'Antimafia: "Non capisco bene perché dobbiamo offrire una sede istituzionale a una persona che comunque ha subito provvedimenti disciplinari". Arriva ancora la replica di Morra: "Il rischio che Palamara strumentalizzi la commissione parlamentare c'è, ma noi questo rischio lo dobbiamo correre", precisa. Anche Area, la corrente di sinistra della magistratura, al termine di un comunicato duro verso Palamara tacciato di "gravissima disinvoltura, di omissioni faziose e di voler lucrare un ricollocamento in politica", ammette che "la caduta etica del Csm, piagato dalle correnti e dai potentati personali, non l'ha inventato Palamara". Adesso la decisione dell'audizione di Palamara è nelle mani degli esponenti di centrodestra dell’Antimafia, i quali da mesi non partecipano perché in protesta contro il presidente Morra e le sue battute su Jole Santelli. Finita la crisi di governo è molto probabile che la convocazione di Palamara sia chiesta anche dai componenti di centrodestra dell'Antimafia.
Anche il "Corriere" scopre il caso Palamara. E il giudice che condannò il Cav attacca il Csm. Esposito querela l'ex magistrato ma chiede la testa del vice presidente Ermini. Massimiliano Malpica, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Palamara boom. Pian piano anche i più distratti e i più insospettabili si accorgono della portata devastante delle rivelazioni dell'ex numero uno dell'Anm, tornate alla ribalta con nuovi episodi e particolari con il libro-intervista all'ex magistrato Il Sistema, firmato dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti. Si è accorto del pasticcio pure il Corriere della Sera che ieri, con un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, ha messo la riforma della giustizia in cima alle priorità dell'agenda del nuovo governo. Ricordando che dalla soluzione della «questione giustizia» dipendono molte cose, la più importante delle quali è «la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto». Una fiducia, insiste Galli della Loggia, che è «da anni ridotta ai minimi termini» sia per le distorsioni nella giustizia penale che per il «contrasto permanente tra magistratura e politica con il reciproco effetto di reciproca delegittimazione». Con un rapporto di forza sbilanciato, perché i magistrati «hanno in ogni momento il potere di mettere sotto accusa questo o quel politico». Insomma, lo squilibrio a favore dei magistrati è evidente. E porta diritto al problema-Csm che, insiste Galli della Loggia, voluto dai costituenti come «organo a presidio dell'indipendenza dei magistrati» è divenuto «il presidio degli interessi dei magistrati stessi () della loro virtuale intoccabilità. Cioè del loro potere in generale». Proprio il caso Palamara ha mostrato «la realtà del Csm: feroci lotte interne tra le correnti, spartizione spregiudicata degli uffici in base alle simpatie politiche dei candidati, predeterminazione perlomeno tentata dell'esito di alcuni procedimenti giudiziari (...) collusioni abituali con tutti i poteri della Repubblica». Insomma, urge «una radicale riforma del Csm», e sta a Mattarella dare la «spinta decisiva» per quella riforma, magari approfittando della fase di «buona volontà» che si è aperta, con il governo Draghi, tra le forze politiche. Ma pure Antonio Esposito, il magistrato che condannò Berlusconi, e che ha annunciato di voler querelare Palamara per le sue rivelazioni su quella sentenza e sul successivo procedimento disciplinare contro lo stesso Esposito, in un articolo sul Fatto Quotidiano sembra invece credere all'ex numero uno dell'Anm quanto alle rivelazioni sulla nomina di David Ermini a vice del Csm, decisa a tavola a casa di Fanfani alla presenza di Luca Lotti. Tanto che l'ex giudice ora si chiede «quale legittimazione abbia un vicepresidente eletto» con quelle modalità così poco ortodosse, domandandosi anche come Ermini «la cui elezione ha trovato la genesi in un accordo improprio, fuori del Csm, tra persone non legittimate di cui, in quel momento, due di esse (Lotti, deputato Pd, e Palamara) indagate» possa «sostituire e rappresentare al vertice del Csm il capo dello Stato». Intanto, Fdi ha presentato un suo disegno di legge per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta per far luce sulle rivelazioni di Palamara, primo firmatario il senatore Alberto Balboni, vicepresidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama.
Parla l’ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. “Palamara è un ciclone, ma stampa e politica fanno finta di nulla”, parla Luigi Bobbio. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. «La questione non può restare isolata nella sua dirompente evidenza, anche se la stragrande maggioranza degli organi di informazione sembra aver steso un sudario su questa storia. Questa questione non può essere lasciata a qualcosa di estraneo e di esterno al tema generale di un’indifferibile e ormai urgentissima riforma non solo della magistratura, ma del sistema giustizia in generale». Luigi Bobbio è magistrato, ex senatore ed ex sindaco. Dopo la lunga esperienza come pm nel pool della Direzione distrettuale antimafia di Napoli è entrato in politica. «Dalla parte “sbagliata” – sottolinea tra virgolette -, cioè con la destra». Una scelta di campo per la quale ritiene di essere stato vittima «non dico di una volontà di colpirmi, ma della pesante suggestione negativa che la mia appartenenza politica poteva aver ispirato su alcuni magistrati», afferma ricordando i processi per corruzione e abuso d’ufficio dai quali è stato assolto con formula piena in Appello. «Non mi posso sottrarre a questa suggestione, a questa preoccupazione», aggiunge ripensando alla sua storia. E la preoccupazione di possibili finalità politiche sottese a una qualsivoglia indagine, un processo o sentenza torna a farsi strada adesso alla luce delle rivelazioni sul sistema di strapotere denunciato da Luca Palamara e descritto nel libro Il Sistema che l’ex esponente della magistratura ha scritto con il giornalista Alessandro Sallusti. «È un sospetto legittimo, un aspetto ulteriore della questione e certo non secondario», ribadisce Bobbio intervenendo al dibattito sollevato dal Riformista sul silenzio calato attorno ai retroscena rivelati da Palamara. Gran parte della stampa tace, la politica non interviene. «Mi sarei aspettato che tutti i vertici degli uffici giudiziari nominati da questo Csm e da quello precedente rassegnassero le dimissioni per consentire di sgomberare il campo da qualsivoglia dubbio o sospetto circa la legittimità delle loro nomine, invece non è accaduto. Solo qualcuno ha fatto ricorso e sarà interessante sapere come sono andati a finire questi ricorsi», dice Bobbio. Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora facendo rivelazioni su nomine e retroscena che hanno riguardato le Procure di tutta Italia – Roma, Milano e Napoli comprese – e spingendo la magistratura in una crisi di credibilità dinanzi all’opinione pubblica. «Ora ci vuole una commissione d’inchiesta, sono stato tra i primi a dirlo – spiega Bobbio – Una commissione modellata sul tipo di quella bicamerale Antimafia, quindi con poteri inquirenti pieni, totali, assoluti, che possa acquisire gli atti, le intercettazioni e tutto il materiale che non è stato valutato. Ma chissà se c’è intenzione di valutarlo», aggiunge riflettendo sull’urgenza di una riforma. «Va attuato pienamente l’articolo 107 della Costituzione – osserva il giudice – Bisogna arrivare non solo alla separazione delle carriere ma andare oltre, fare in modo che dell’ordine giudiziario facciano parte solo i giudici mentre il pm deve diventare un organo amministrativo». Confinare la pubblica accusa in un ambito non più giurisdizionale comporterebbe una responsabilità automatica dei pm. Inoltre, secondo Bobbio, sono maturi i tempi anche per ragionare su una responsabilità diretta dei magistrati e su sanzioni per limitare il potere di interpretazione delle norme. «Ci vorrebbero un Parlamento e un Governo non legati alla difesa dell’establishment giudiziario, che non ne siano vittime o sudditi – ragiona Bobbio – E bisogna spezzare i legami con l’informazione che vive di Procure e con le Procure. Quella della normalizzazione del sistema giustizia è la madre di tutte le battaglie: nessun governo, anche con una maggioranza che ha ottenuto il cento per cento dei voti, potrà fare leggi senza che prima o poi una di queste passi per l’imbuto giudiziario rischiando di essere cancellata se non gradita a un certo tipo di magistratura». E sulla questione morale delle toghe? «Il magistrato deve uscire da questa dimensione corale e collettiva, deve tornare a essere solo con il fascicolo e applicare la legge al fatto concreto. Basta con questa visione organicistica della magistratura. Per difendere ruolo e potere si finisce per perdere considerazione e credibilità».
La provocazione del decano degli avvocati. Basta magistrati narcisi, serve un po’ di sana autocritica. Salvatore Prisco su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Seguo sempre con interesse il dibattito che su questo giornale, fin dalla nascita e tanto nell’edizione nazionale quanto nelle pagine napoletane, si svolge sui problemi della giustizia e che è stato rinfocolato in questi giorni dalla pubblicazione dell’intervista del libro-intervista di Luca Palamara, già pm della Procura di Roma, presidente dell’Anm e membro del Csm, quindi radiato dall’ordine. La sua colpa, ossia l’avere assecondato la deriva correntizia e clientelare nella corsa agli incarichi al vertice degli uffici giudiziari, sarebbe – è la tesi autodifensiva – se non inesistente, certo condivisa da molti colleghi tuttavia non espulsi (insomma, “mal comune, mezzo gaudio e invece ho pagato per tutti”) perché era questo “il sistema”, che poi è anche il titolo del libro. Alcuni episodi toccano anche vicende che coinvolgerebbero magistrati partenopei, inquirenti e giudicanti. Vorrei sparigliare, non parlando di casi singoli, e riassumere invece le linee di una nota premessa a un numero speciale a mia cura e fra poco in uscita della Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, dedicato appunto alla riforma del Csm. La Costituzione, onde garantire il governo autonomo dell’ordine giudiziario, costituì questo collegio del tutto particolare, formato anche da membri nominati dal Parlamento ma in maggioranza da magistrati ancora attivi ed eletti dai loro stessi colleghi, per vegliare sul corretto andamento delle carriere e giudicare gli illeciti disciplinari degli appartenenti alla corporazione: un consiglio di amministrazione delle vicende professionali di un corpo speciale di impiegati pubblici, insomma, né più né meno. Complice, peraltro, il progressivo indebolimento della politica rispetto ai poteri a essa esterni e di profilo tecnico e con una crescente delega alla magistratura dell’accusa a fare autoreferenzialmente pulizia nei campi prima del terrorismo, poi della criminalità organizzata, quindi della corruzione in tutti i settori della vita collettiva da essa inquinabili, l’organo è diventato invece nel tempo l’espressione para-parlamentare della degenerazione correntizia, alimentata dall’immagine di “militanti della pubblica virtù” dei loro aderenti, spesso solleticati in ambizioni personali dalla medesima politica che, attenta alla popolarità dei personaggi, li ha cercati per volgerla a suo vantaggio: anche in questo caso, se si parla di narcisismo e si guarda anche a certi uffici giudiziari napoletani di oggi, non si sbaglia. Non so se il prossimo Governo – dovendo gestire l’emergenza vaccinale e il Recovery Fund – se ne occuperà, ma una disarticolazione del potere delle correnti, riformando la Costituzione con la previsione del sorteggio per comporre l’organo e col portare fuori di esso la giustizia disciplinare, mentre si dovrebbe anche separare le carriere di magistrati dell’accusa e giudicanti, sarebbe il presupposto per avviare una sana spoliticizzazione dell’ordine, che beninteso non riguarda chi è intento alla quotidiana amministrazione della giustizia, ma i vertici delle sue correnti. I partiti sono stati oggi commissariati dall’azione combinata del capo dello Stato e di un “papa straniero”, per essersi delegittimati da soli; i magistrati hanno bisogno di una seria e profonda autocritica, per ritrovare la fiducia del popolo, il che è l’opposto che continuare a sollecitarne un’acclamazione giustizialista.
L'appello al Presidente della Repubblica. Il Palamaragate ha scoperchiato una magistratura fuori dalla Costituzione. Armando Mannino su Il Riformista il 4 Febbraio 2021.
Al Presidente della Repubblica Prof. Sergio Mattarella
Alla Presidente del Senato
Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati
Al Presidente della Camera, On. Roberto Fico
Con i Suoi ampi e motivati interventi del 21 giugno 2019 all’Assemblea plenaria straordinaria del Consiglio Superiore della Magistratura sul “caso Palamara” e del 18 giugno 2020 in occasione del quarantesimo anniversario dell’uccisione dei magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e del trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino, Lei ha ribadito i principi costituzionali di autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, essenziali in un ordinamento democratico per perseguire il primato della legge; ma ha al contempo deplorato con il primo intervento la convinzione di alcuni magistrati di “poter manovrare il Csm” e la conseguente “pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi” (cioè di precostituire decisioni giudiziali non conformi alle prescrizioni legislative e quindi contrarie alla Costituzione); con il secondo le disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che hanno minato “la credibilità e la capacità di riscuotere fiducia” da parte dei cittadini, i quali hanno il diritto di “poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione”. La Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati nella sua intervista pubblicata dal Corriere della sera il 30 maggio 2020, ha affermato con estrema sintesi ed efficacia che «non esiste solo il problema Palamara…, ma esiste il problema della giustizia italiana… È in gioco il nostro Stato di diritto»! Secondo le due più alte cariche dello Stato è quindi incerta nel nostro ordinamento l’effettività dei valori che stanno a fondamento della convivenza civile: il principio di legalità, la certezza del diritto, la tutela dei diritti dei cittadini, il principio di uguaglianza: valori che dovrebbero essere perseguiti da un corpo di magistrati autonomi e indipendenti, subordinati alla legge, cioè incaricati di interpretarla e applicarla ai casi concreti non arbitrariamente, ma con razionalità e coerenza nel rispetto dei consolidati canoni ermeneutici. Se si ritiene che una conquista di civiltà come lo Stato di diritto sia quanto meno a rischio nel nostro ordinamento, vuol dire che almeno una parte della Magistratura, che ha il compito di applicare la legge nei rapporti sociali, non lo adempie, ma sostituisce ad essa la propria volontà. La pretesa dei magistrati di “essere la legge”, è purtroppo diffusa. Franco Coppi, decano dei penalisti, professore emerito, ha amaramente rilevato che «accade sempre più spesso, purtroppo, che certi pronunciamenti risultino incomprensibili all’uomo della strada e pure a noi avvocati… Certi episodi sono talmente inverosimili che temo di non essere creduto» (intervista a Il Foglio del’1 agosto 2019), mentre addirittura agghiacciante è la sua risposta alla domanda se avesse paura di farsi giudicare da questa giustizia: «Sì, avrei paura di farmi giudicare dalla giustizia italiana. Faccio mie le parole di un vecchio criminalista: “Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa scapperei immediatamente”. Lo diceva Francesco Carrara. Mi ritrovo» (intervista a Il Giornale del 19.06.2020). La tecnica con la quale i magistrati si sottraggono alla legge, negando giustizia, è ben nota, diffusa e collaudata. Fra i numerosi espedienti utilizzati ricordo, a solo titolo esemplificativo, quelli di non valutare prove rilevanti depositate in giudizio; di interpretare i contratti omettendo le clausole “non gradite” perché contrarie alla decisione che si intende prendere; di desumere da una disposizione lo stesso contenuto normativo di quella appena abrogata; di fondare la decisione su un presupposto di fatto la cui esistenza è smentita dalla documentazione depositata in giudizio; di non applicare senza alcuna motivazione la giurisprudenza consolidata della Cassazione, pur avendola richiamata; di non tener conto dei fatti incontroversi tra le parti, ecc.Questi esempi sono solo alcuni di quelli desumibili da 16(!) decisioni adottate da giudici diversi del Tribunale e della Corte d’Appello di Firenze, relative alle stesse parti e allo stesso rapporto: decisioni che tra l’altro non hanno tenuto conto, benché documentati, in un caso dell’omissione in un rendiconto di entrate per l’importo di circa € 48.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, sentenza n. 1007/2017) e in un secondo del ripetuto inserimento con artifici contabili di medesime spese in esercizi diversi per l’importo di circa € 69.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, decreto n. 9179/2018 del 28.05.2018, privo di una pagina di motivazioni (!), confermato dalla Corte d’Appello, Sez. 1, decreto depositato il 14.05.2019, numero illeggibile, in entrambi i casi senza valutare le irregolarità contabili di carattere generale e specifico rigorosamente documentate). Queste decisioni, incomprensibili alla luce del riconosciuto “alto livello di qualificazione professionale” dei magistrati, sono emblematiche delle disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che alcuni magistrati fanno risalire alle correnti interne dell’Associazione Nazionale Magistrati. È stato rilevato a questo proposito che «le correnti sono diventate cordate di potere non solo interne, ma anche esterne alla magistratura e condizionano la carriera e talvolta il lavoro quotidiano del magistrato» (A. Di Matteo, Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2019); che «la magistratura è governata da una oligarchia che non ha il minimo interesse per l’efficienza e l’indipendenza, ma persegue a qualsiasi prezzo solo i propri interessi. Primi tra tutti il controllo degli uffici con le nomine dei dirigenti e l’uso deviato del disciplinare…» (F. Lima, 4 giugno 2019); che «le correnti con la loro forza e la loro riconosciuta degenerazione hanno ostacolato l’effettiva indipendenza del singolo magistrato, creando centri di potere interni sinergici con settori della politica. Il tutto con comprensibile pericolo non solo per l’equilibrio tra i poteri costituzionali dello Stato ma addirittura per l’imparzialità stessa dell’azione giudiziaria» (Appello al Ministro di Grazia e Giustizia di 30 Magistrati, Italia Oggi, 31 luglio 2017). Anche Lei ha riconosciuto che «questo è il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati». Accolgo l’invito e metto le mie riflessioni e la mia esperienza a disposizione Sua, delle Camere, del Governo in via di formazione, delle forze politiche e specialmente di tutti quei cittadini che ogni giorno subiscono l’ingiustizia della nostra “Giustizia”, affinché ne conoscano le cause e possano pretendere l’adozione di misure urgenti per un radicale cambiamento. Interrogarsi sul ruolo e sull’utilità delle correnti (e quindi della stessa Anm di cui le prime sono componenti interne), ritenute causa dell’inefficienza e della mancanza di credibilità del sistema giudiziario, significa interrogarsi sulla libertà di associazione, che ne costituirebbe il fondamento. Per quanto diffusa, o addirittura unanime, non si possono tuttavia nascondere, specialmente alla luce delle disfunzioni sopra richiamate, le perplessità sulla conformità alla Costituzione di questa interpretazione. Ciascun magistrato, singolarmente considerato, è infatti un “Potere dello Stato”, abilitato a sollevare conflitto di attribuzioni presso la Corte Costituzionale. Non mi sembra, specialmente in mancanza di una norma costituzionale esplicita che lo consenta, che i Poteri dello Stato possano associarsi tra loro. Non a caso la Costituzione riconosce e garantisce la libertà di associazione ai “cittadini” (art. 18 cost. ). A ciò si aggiunge che le associazioni possono perseguire qualsiasi fine, anche di natura politica, che non sia vietato ai singoli dalla legge penale. Non vi è chi non veda il pericolo di un’associazione costituita da magistrati, in quanto tali dotati di poteri coercitivi della libertà personale dei cittadini, che potrebbero essere sviati dalla loro funzione per motivi politici. La Costituzione definisce ancora la magistratura come un “Ordine”, sottolineando così la sua natura “diffusa” e priva di un “vertice”. Ogni associazione, invece, ha una struttura organizzativa che esercita il potere al suo interno e che trasforma la pluralità di iscritti in un’entità che agisce unitariamente. Costituendosi in associazione i magistrati si sono pertanto trasformati da “Ordine” diffuso in un vero e proprio “Potere”, di fatto oligarchico, costituito dalle sfere dirigenti dell’ Anm e delle sue correnti interne. I magistrati costituiti in associazione, e per essi le loro correnti interne, facendo eleggere i propri candidati nel Csm – cioè nell’organo di rilevanza costituzionale rappresentativo di tutto l’Ordine Giudiziario in quanto eletto dalla totalità dei suoi componenti-, si sono appropriati di fatto, com’è noto, dei suoi poteri. Poiché dal Csm dipende tutta la carriera dei magistrati (dalle assegnazioni ai trasferimenti, dalle promozioni ai procedimenti disciplinari), le correnti sono in condizione, come lamentato da alcuni di loro, di incidere sulla loro autonomia e indipendenza, influenzando l’esercizio delle loro funzioni in violazione dei principi di autonomia, di imparzialità e di subordinazione alla legge. Mentre infine un “Ordine diffuso” per la sua parcellizzazione può essere difficilmente controllato da singoli individui, gruppi, centri di potere di qualsiasi genere, ecc., l’influenza sui vertici associativi da parte di soggetti esterni può essere molto più facile, rapida ed efficace. È stata giustamente ricordata a questo proposito (G.C.Caselli, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2020) la radiazione dall’ordine giudiziario da parte del Csm dell’allora segretario della corrente “Magistratura Indipendente”, con il quale la P2 aveva stretto un “accordo programmatico” sorretto da “concreti aiuti”. Questo fenomeno eversivo, innestatosi sulla struttura associativa dei magistrati, è ormai lontano nel tempo. L’attenzione deve però rimanere vigile, perché sempre latente, se non addirittura effettiva, è la possibilità che si verifichi l’infiltrazione in essa degli interessi più diversi, la cui soddisfazione potrebbe essere facilitata e attuata con il controllo capillare sui singoli magistrati mediante le designazioni agli uffici direttivi disposte dal Csm su indicazione di soggetti privati: le sfere dirigenti dell’Anm e delle sue correnti interne. L’ulteriore controllo degli stessi soggetti sul procedimento disciplinare, privo tra l’altro di trasparenza, consente di non sanzionare le responsabilità che dovessero emergere. L’Ordine Giudiziario si è quindi radicalmente trasformato rispetto alle previsioni costituzionali in una struttura unitaria e oligarchica, vero e proprio Potere di fatto, privo di legittimazione democratica e di controlli. Questa trasformazione, da tempo divenuta di pubblico dominio, oggetto di preoccupati richiami da parte di Organi costituzionali, di interventi critici quotidiani sulla stampa e di proposte di riforma, fa seriamente dubitare dell’esistenza nel nostro Ordinamento dei requisiti di indipendenza e imparzialità del giudice previsti dall’art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dall’art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici. Non sorprende pertanto che la fiducia dei cittadini nella credibilità dell’Ordine Giudiziario sia oggi profondamente attenuata, benché, come da Lei giustamente ammonito, sia “indispensabile al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”. Occorre ricordare a questo proposito che la Corte Costituzionale, pronunciandosi sull’autonomia costituzionale delle Camere, ha affermato che «nello Stato costituzionale nel quale viviamo la congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli istituti di autonomia che presidiano la sua libertà» (Corte costituzionale, sentenze n. 379 del 1996 e n. 375 del 1997). È noto inoltre che il protrarsi della violazione dei diritti della persona, derivante da un uso arbitrario da parte delle Camere dell’istituto dell’insindacabilità, ha spinto la Corte Costituzionale a restringerne drasticamente l’interpretazione, in applicazione dei suddetti principi, rispetto a quella storicamente consolidata. Queste decisioni si estendono anche all’autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, il cui abuso non solo incide sulle libertà e sui diritti dei cittadini in modo più intenso di quanto in passato avrebbero potuto mai fare le Camere, ma addirittura sullo stesso principio democratico. Non si deve dimenticare da un lato che la giustizia è amministrata in nome del popolo, la cui volontà si esprime nella legge, alla quale il magistrato è formalmente soggetto, ma da cui si può svincolare a sua discrezione e senza alcun timore; e dall’altro che numerose e note sono le carriere politiche stroncate da indagini penali prive di fondamento. Per riportare l’Ordine Giudiziario nell’alveo della Costituzione, superando le disfunzioni esistenti, sarebbe a mio avviso opportuno valorizzare la funzione rappresentativa dell’Ordine Giudiziario che la Costituzione, attraverso l’elezione, affida al Csm; spezzare di conseguenza il cordone ombelicale che lega il Csm all’Anm e alle sue correnti interne (le modifiche del sistema elettorale da sole non mi sembrano sufficienti); rendere effettive le garanzie di indipendenza dei magistrati da influenze interne e, specialmente per quelli titolari di uffici direttivi, anche esterne; sottoporre i magistrati a controlli di professionalità effettivi e diffusi, coinvolgendo pienamente anche l’Ordine professionale; valorizzare a questo scopo le decisioni di annullamento dei giudici di secondo grado e di legittimità, qualora fossero indice di una professionalità carente; affidare ai giudici di secondo grado e di legittimità l’attivazione della responsabilità disciplinare, qualora in sede di annullamento ne accertassero i presupposti, prevedendo adeguate forme di responsabilità in caso di omissione; rendere pienamente trasparenti tutte le fasi del procedimento disciplinare, mettendo quindi le Camere in condizione di verificarne periodicamente la funzionalità e se del caso di adottare i provvedimenti correttivi; valutare fin d’ora, alla luce della gravità delle disfunzioni esistenti, l’opportunità di intervenire sul procedimento disciplinare anche ricorrendo al la modifica della Costituzione. Sono sicuro che nella Sua qualità di rappresentante dell’Unità nazionale, e quindi dei valori supremi nei quali si riconoscono tutti i cittadini, saprà recepire la loro ansia di un rinnovamento radicale dell’Ordinamento giudiziario e, nell’ambito dei Suoi poteri, trovare le forme più adatte per la sua soddisfazione. Resto a disposizione Sua e delle Autorità competenti per fornire ogni informazione e documentazione attinente alle disfunzioni sopra rilevate nel Tribunale e nella Corte d’Appello di Firenze, le quali costituiscono il fondamento delle riflessioni sopra esposte. Ho infatti consapevolezza che dall’analisi delle 16 decisioni, che per ora si sono succedute nell’arco degli scorsi 15 anni, si potranno accertare le responsabilità di diversa natura eventualmente esistenti e desumere al contempo elementi significativi sia per la comprensione del funzionamento effettivo dell’Ordinamento giudiziario italiano e dell’intensità della sua deviazione dalla Costituzione e dalle norme comunitarie e internazionali sia per l’adozione delle conseguenti misure legislative.
Le porgo i miei deferenti saluti.
Nessuno li ferma. I magistrati non sono troppo corrotti, ma troppo potenti. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. La magistratura non è più corrotta rispetto a quanto mediamente si registrerebbe, semmai vi si indagasse, presso il restante della pubblica amministrazione. C’è però una differenza a rendere incomparabile il pericolo rappresentato da un ordinamento, quello giudiziario, che è venuto giustapponendosi in questa centrale di malversazione. Con l’ovvia ma dovuta avvertenza che in essa non milita un buon numero di magistrati rigorosi e specchiati – i quali semmai subiscono a loro volta il degrado di quel sistema – la differenza è questa: che il malandrino ministeriale, il consigliere regionale trafficone, il largitore di pensioni ai finti invalidi, l’esattore del pizzo di Stato e insomma i responsabili dell’illegalità pubblica fanno pur male alla società, ma ancora non hanno il potere di giudicare le persone e di imprigionarle. Quel che rende intollerabile l’aberrazione corruttiva del potere giudiziario non sta dunque nel livello dopotutto ordinario e ricorrente di quel malcostume spesso sconfinante nell’illegalità vera e propria, ma nel fatto che a rendersene colpevole è un pezzo di Stato che prende la libertà, la reputazione, il patrimonio, la vita delle persone e ne fa ciò che vuole al coperto di una irresponsabilità assoluta. E dirò anche meglio. Proprio sulla titolarità di quel potere e proprio sulla libertà di esercitarlo irresponsabilmente la magistratura deviata organizza la propria azione nei traffici per le nomine, nella manutenzione dei privilegi castali, nelle cospirazioni correntizie, negli aggiustamenti dei collegi giudicanti, nell’interlocuzione ricattatoria e sostanzialmente mafiosa con il potere politico. È sull’immagine delle manette e delle sbarre di galera, sulla facilità del tratto di penna che decreta il sequestro di un’azienda, sul rumore degli elicotteri e sugli urli delle sirene nei rastrellamenti giudiziari che si fonda il potere di fatto della magistratura, un dominio arbitrario che ha messo nel nulla lo Stato di diritto e l’ha trasformato nel possedimento di questo mandarinato che non si arresta davanti a nulla perché può arrestare tutti, che si assolve da tutto perché può condannare chiunque. Magistratopoli non è il legno storto della giurisdizione: è l’impunità dei più uguali degli altri, garantita dall’armamento di terrore che essi oppongono a qualsiasi critica, qualsiasi dissenso, qualsiasi istanza di riforma. È l’ingiustizia protetta dalla giustizia.
La “fiducia nella magistratura” che mortifica il diritto. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Premessa (un po’ stracca ma ancora necessaria): quando diciamo “magistratura” non ci riferiamo all’insieme dei magistrati, ma alla struttura corporativa e all’irresponsabilità castale che ne protegge il potere. E fatta questa precisazione diciamo che non se ne può più di ascoltare il politico di turno che, lambito da un’indagine, dichiara di avere “fiducia nella magistratura”. Non nella magistratura, infatti, ma nel diritto bisognerebbe avere fiducia: perché avere fiducia nel diritto è l’unico strumento per tentare di difendersi dalla prepotenza giudiziaria; mentre proprio l’immotivata fiducia nella magistratura, con l’arroganza di cui essa si carica grazie a quel tributo fideistico, è causa della mortificazione del diritto cui quotidianamente si assiste. Alla luce di questa verità, evidente agli occhi di chiunque li tenga aperti sullo stato della nostra amministrazione della giustizia, non si capisce per quale motivo il politico ghermito dal tentacolo giudiziario senta la necessità di reiterare quella manifestazione fiduciaria: come se questo certificasse sensibilità istituzionale ed equilibrio civile anziché risolversi – perché di quest’altro si tratta – in una specie di goffo inchino adulatorio. Giusto l’altro giorno l’ha fatto il senatore Matteo Renzi (ma è solo uno dei tanti), appunto ripetendo che lui “ha fiducia nella magistratura” che pure ha sottoposto lui e il suo partito a qualche attenzione forse un po’ orientata. Bisognerebbe smetterla con questa cantilena idolatrica non solo perché lo svelato immondezzaio della magistratura corporata la rende inascoltabile: è proprio in linea di principio che non va bene, perché a nessuno verrebbe in mente di professare fiducia nell’editoria, nel notariato, nell’agricoltura o nella ristorazione slow food, tutte cose buone se chi le fa è bravo, non perché c’è qualcuno incaricato di farle e pace se le fa male. E il guaio è che la dichiarazione di fiducia nella magistratura cui si lasciano andare questi politici non rinvia all’ovvia necessità di riconoscere che c’è un sistema costituzionale posto a disciplinare i poteri di chi accusa e giudica (ci mancherebbe che fosse diversamente): rinvia al presunto obbligo di omaggiare “questa” magistratura e i suoi capibastone, “questa” magistratura e la pompa dei suoi modi, “questa” magistratura e la sua impassibilità reazionaria, “questa” magistratura e il suo giustapporsi eversivo. Una conseguenza inevitabile se si scambia il rispetto della legge con la devozione sacrale per chi ha il potere di applicarla. Dal politico – ma da chiunque – sottoposto alle cure di giustizia sarebbe bene che venisse un atteggiamento diverso, e cioè una manifestazione di fiducia nei confronti del diritto e dello Stato di diritto: con la speranza, con la richiesta, con la pretesa che essi si affermino esattamente contro un certo modo di intendere la giustizia e di amministrarla. Che poi anche la fiducia in quest’altra faccenda – il diritto – sia messa a durissima prova è un altro discorso: ma è la sola cosa che rimane. E si dimostra fedeltà alla Repubblica, e al poco di democrazia che ancora la innerva, quando si rimane in piedi nell’appello al diritto: non quando ci si abbassa per baciare la pantofola del potere togato.
Crolla la fiducia nella magistratura. Palamara o Gratteri, la giustizia non conosce una terza via. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Abbiamo scritto più volte, e tante volte anche su questo giornale, di quanto sia stupido, irresponsabile, pigro dichiarare “fiducia nella magistratura”. Decenni di malversazione del potere giudiziario obbligano infatti a non avere proprio nessuna fiducia nell’amministrazione della giustizia e in quelli incaricati di gestirla, e semmai bisogna – per quel che ancora si può – avere fiducia nel diritto, nella possibilità che esso si affermi non ostante e anzi contro il sacerdozio togato che ne fa carne di porco. E tuttavia non ci rallegriamo del crollo di credibilità della magistratura raccontato dai sondaggi circolanti in questi giorni: e quando vediamo che quel monito (“abbiamo fiducia nella magistratura”) magari esce ancora meccanicamente di bocca al politico di turno, ma davvero non è più accreditato presso la maggioranza dei cittadini, sentiamo che un altro bene importante è andato perduto. Ed è un’altra responsabilità – gravissima anche questa – dell’eversione giudiziaria: aver privato il cittadino che sia vittima di un sopruso del potere pubblico o privato, dell’arbitrio di chi ha più mezzi e agganci, della slealtà di chi si mette sotto i tacchi ogni regola per imporre la propria, averlo privato della speranza che almeno ci sarà un giudice cui fare appello per veder riparata quell’ingiustizia. Quella speranza, semmai c’è stata, non c’è più, ed è sostituita dalla richiesta di un po’ di manette e un po’ di galera, una pretesa abbondantemente ripagata dalle assicurazioni della magistratura televisiva che volentieri offre la propria disponibilità per la realizzazione di quel bel programma. Ma proprio mentre si incattivisce questo cortocircuito civile, con la fiducia nella magistratura pervertita nell’istanza forcaiola, si registra appunto il decadimento della credibilità pubblica di quella corporazione: con il risultato che la giustizia è percepita e desiderata, alternativamente, come cosa esclusivamente corrotta o puramente violenta. Per capirsi: o Palamara o Gratteri. La speranza nella terza possibilità – e cioè nello Stato di diritto – ci è sottratta. E a sottrarcela è la combinazione di quelle due degenerazioni, il doppio tratto distintivo della giustizia italiana: traffici nelle nomine e rastrellamenti giudiziari.
Il Palamaragate fa crollare la fiducia nei magistrati, per il 70% “Agiscono per fini politici”. Massimiliano Cassano su Il Riformista l'1 Febbraio 2021. La maggior parte degli italiani dichiara di avere “poca” fiducia nella magistratura. Secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano Libero e realizzato da AnalisiPolitica, il 39% degli intervistati ha ammesso di non sentirsi abbastanza protetto dalla giustizia. Il 19% rivela di non esserlo “per nulla”, mentre solo il 7% ha risposto di avere “molta” fiducia nella magistratura. “Abbastanza” è la risposta del 30% del campione. Pesa probabilmente il Palamara-gate, sollevato dal libro scritto dall’ex membro del Consiglio superiore della magistratura, che ha rivelato dal suo punto di vista i lati oscuri e gli intrighi politici dietro la gestione delle nomine delle toghe. A specifica domanda se si percepisca l’azione penale dei magistrati come “guidata da fini politici”, il 33% degli intervistati si è detto “molto d’accordo”, e il 37% “abbastanza”. Da una chat intercettata tra Palamara e un suo collega erano emersi anche messaggi in cui l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati dichiarava che Salvini andasse “attaccato” sulla gestione dei migranti. La maggioranza assoluta del campione pensa che “un magistrato che sbaglia debba essere responsabile della propria azione”, con il 54% “molto d’accordo” e il 33 “abbastanza d’accordo”. La giustizia è in generale ritenuta di parte e incapace di restare imparziale. Solo il 24% degli intervistati pensa che i giudici agiscano da persone totalmente “terze” rispetto alle parti. Processi troppo lunghi, tasso troppo alto di impunità per i reati minori, e soprattutto quella che il procuratore generale di Napoli Luigi Riello ha chiamato “l’altra pandemia” (il caso Palamara) sono le cause di tanta sfiducia, individuate nella giornata di inaugurazione dell’anno giudiziario per il 2021. “Questa aula vuota mi sembra la metafora di una giustizia che rischia di diventare autoreferenziale e isolata dal Paese reale”, ha dichiarato Riello intervenendo nella grande sala Arengario del tribunale di Napoli. “Noi che ci scagliamo contro i politici corrotti – ha aggiunto – non possiamo nascondere fatti che sono avvenuti all’interno del nostro organo di autogoverno”.
Luca Palamara, l'ex pm a Libero: "Ho fatto parte di un meccanismo. Ora voglio riformare la magistratura". Emilia Urso Anfuso su Libero Quotidiano il 05 novembre 2020. È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story «Non sta a me stabilire se esista o meno una "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l'indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch' io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita».
Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all'interno della magistratura?
«In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l'unico autore degli accordi all'interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all'interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all'interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso».
Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti.
«Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti».
Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile?
«Per circa 25 anni ho operato all'interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell'applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l'esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d'opinione e d'idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti».
È stato denominato "Il caso Palamara" ma sarebbe stato più corretto denominarlo "Il caso magistratura". A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l'idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così?
«La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un'alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest' alleanza si è affievolita, in special modo nell'ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l'area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona».
Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest' accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero?
«L'idea dell'uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all'interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato».
La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all'interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani.
«Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall'ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l'applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario».
Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia&Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui?
«Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c'erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto».
Il giorno successivo all'esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un'ammissione di colpe.
«Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri».
Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso.
«Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l'ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all'organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, per ristabilire la verità dei fatti".
Da liberoquotidiano.it l'8 febbraio 2021. C'è anche Piercamillo Davigo tra i "misteri" delle toghe al centro delle denunce di Luca Palamara, ex presidente dell'Anm finito in disgrazia e travolto dallo scandalo intercettazioni che ha rivelato come funzionano le nomine di giudici e magistrati. In studio da Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7, Palamara sottolinea: "I fatti dell'hotel Champagne vengono identificati come una sorta di patto occulto per la nomina del dottor Viola, magistrato integerrimo per chi l'ha conosciuto, procuratore generale di Firenze", "grandissimo magistrato e persona perbene", conferma Giletti. "Tanto lo era che il dottor Davigo, simbolo della legalità e della moralità, votò il dottor Viola". Poi però ha cambiato idea: "Qualcosa sarà successo e lo deve spiegare". Palamara fa altri nomi: "Nino Di Matteo non era una persona allineata, all'interno della magistratura c'erano resistenze, stesso discorso lo potrei fare per il dottor Alfonso Sabella, penalizzato nella carriera per una archiviazione. E anche il processo sulla trattativa Stato-Mafia fu uno dei criteri di scelta". E sullo sfondo delle guerre tra Procure si risale fino al 2008, quando "per la prima volta l'Associazione nazionale magistrati (il sindacato delle toghe, ndr) decide di fare una critica pubblica a un pm". Salerno contro Catanzaro, uno scontro clamoroso al sapore di politica: in mezzo, il magistrato in questione: Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli e prossimo candidato governatore della Calabria. De Magistris, ricorda Giletti, "era addosso a Prodi e Mastella e il Quirinale, con Giorgio Napolitano, decise di intervenire, qualcosa di incredibile".
PALAMARA RACCONTA “IL SISTEMA”. C’È UNA PROCURA CHE INDAGA? Francesco Capo su byoblu.com il 28 gennaio 2021. “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, recita l’articolo 101 della Costituzione. In nome di chi, invece, è stata amministrata la giustizia nelle vicende denunciate da Luca Palamara, l’ex membro del Consiglio superiore della magistratura (CSM), già presidente dell’associazione nazionale magistrati (ANM)?
La cupola di potere. Una domanda lecita perché le rivelazioni del dottor Palamara, contenute nel libro intervista “Il Sistema” scritto con Alessandro Sallusti, sembrano quelle di un collaboratore di giustizia che svela appunto l’esistenza di un sistema e di inquietanti inquinamenti della politica (e forse anche di mondi occulti) nell’amministrazione della giustizia italiana. L’ex giudice, attualmente indagato a Perugia per corruzione, definisce come una “cupola” la magistratura che gestisce il potere tramite le correnti con il beneplacito dei politici ai massimi vertici delle istituzioni.
I rapporti con Giorgio Napolitano. Palamara racconta che nel 2011, quando il governo Berlusconi cadde sotto la minaccia costante dell’aumento dello spread da parte delle agenzie internazionali di rating, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano approvò la linea dello scontro frontale tra l’esecutivo e la magistratura. Palamara, nel libro, rivela che ogni sua attività in qualità di presidente dell’ANM era condivisa e decisa con il Capo dello Stato, che – è giusto ricordarlo – presiede anche il Consiglio superiore della magistratura. “È impensabile sostenere che negli anni di cui stiamo parlando l’ANM si sia mossa al di fuori della copertura del Quirinale”, racconta l’ex giudice.
Due pesi e due misure. Secondo Palamara, la “cupola”, nella gestione di importanti inchieste, avrebbe usato due pesi e due misure: mano pesante con il centrodestra guidato da Berlusconi e mano leggera con il centrosinistra. I riferimenti più gravi sono alle vicende che hanno riguardato Luigi de Magistris e Clementina Forleo.
Il caso de Magistris. Il primo, quando svolgeva la funzione di pubblico ministero a Catanzaro, era titolare di tre inchieste: Poseidone, Why not e Toghe Lucane, che crearono forti imbarazzi, per la gravità dei possibili reati, al governo Prodi nel 2006. Tutte le indagini furono tolte a de Magistris, che venne punito disciplinarmente dal CSM. La stessa sorte accade anche ai pubblici ministeri di Salerno, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, e al procuratore capo Luigi Apicella che indagarono sulle vicende riguardanti de Magistris, ricostruendo che le inchieste furono a quest’ultimo sottratte con atti contrari ai doveri di ufficio, frutto di accordi corruttivi.
Il Sistema, Palamara racconta Why Not. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. L’ex capo di Unicost racconta ad Alessandro Sallusti i retroscena dell’inchiesta-scandalo che costò la carriera a Luigi De Magistris, all’epoca pm a Catanzaro…Pubblichiamo gli stralci del libro intervista di Luca Palamara e Alessandro Sallusti relativi ai “condizionamenti” che l’Anm avrebbe causato all’inchiesta Why Not, condotta nel 2007 a Catanzaro da Luigi De Magistris. Quest’inchiesta, con cui l’ex pm era arrivato a lambire Romano Prodi, ebbe un percorso travagliato e finì in nulla. Ma ha lasciato molte questioni irrisolte. Non entriamo nel merito della vicenda ma ci limitiamo a riportare i passaggi inquietanti del libro. Il lettore giudichi da sé.
[Sallusti] Chi tocca la sinistra è fuori. Lei ha parlato di sistema, di condizionamento ambientale, di magistrati che sanno «naturalmente» come comportarsi per non perdere l’«allineamento». Ma qualcuno avrà provato a sfidare il sistema…
[Palamara] Certo, storie e persone diverse tra loro, ma i casi di Luigi De Magistris, di Clementina Forleo, di Antonio Ingroia, di Alfonso Sabella e Antonio Sangermano, per citare i più noti, dimostrano che se sfidi il «Sistema» sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto. E io lo so bene perché c’ero: il quel momento il Sistema ero io.
[Sallusti] Può raccontarci queste storie?
Adesso sì. Sia chiaro, non rinnego ciò che ho fatto, se sono durato così a lungo è proprio per le posizioni che ho assunto, senza le quali non sarei stato dove sono stato neppure un giorno in più. Mi hanno accusato di essere uno schierato a sinistra. Non è così. Io non ero il protettore di questo o di quello, di una parte politica o dell’altra. Io ero il protettore del sistema correntizio che a maggioranza era ed è su posizioni ideologiche di sinistra, in conflitto con la destra di Silvio Berlusconi. Il mio compito non era di cambiare quella posizione, ma semplicemente di difendere il sistema. L’ho fatto per convenienza? Perché ci credevo? Per calcolo? L’ho fatto e l’ho fatto per successo. Punto. […]
[Da Il Sistema, cap. L’imprevisto, pp. 67-68]
[…] [Palamara] La brace covava sotto la cenere e di lì a poco scoppierà l’inferno.
[Sallusti] Immagino si riferisca all’inchiesta Why Not, dal nome dell’azienda informatica di Lamezia Terme su cui partono le indagini, aperta a metà di quell’anno dal pubblico ministero di Catanzaro, Luigi De Magistris, poi sindaco di Napoli.
[Palamara] Proprio quella. È un’inchiesta che all’inizio coinvolge, tra i tanti, il presidente del Consiglio Romano Prodi, due suoi collaboratori, Angelo Rovati e Sandro Gozi, oltre al ministro della Giustizia Clemente Mastella. De Magistris era all’epoca sconosciuto, non apparteneva a nessuna corrente in modo organico, un cane sciolto che diventa il «cigno nero», l’imprevisto che fa andare in tilt il sistema.
[Sallusti] In effetti che la magistratura mettesse in crisi il governo che aveva da poco sconfitto Berlusconi alle urne fu un’anomalia sorprendente. De Magistris andava fermato?
[Palamara]Diciamo che la decisione è di provare ad arginarlo. Il «Sistema» non può permettersi una cosa del genere. Mastella chiede al Csm di trasferirlo con provvedimento d’urgenza; il suo procuratore capo, Dolcino Favi, avoca a sé l’inchiesta e nottetempo fa scassinare la sua cassaforte per venire in possesso del fascicolo. Si muove anche la procura di Salerno, competente su Catanzaro, e tra le due finisce in rissa. Insomma, scoppia il finimondo.
[Sallusti] E voi che fate?
[Palamara]Il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di De Magistris, io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito.
[Sallusti] Detto più chiaramente, voi lo scaricate e il presidente Napolitano approva?
[Palamara]In effetti lo scarichiamo e condividiamo questa scelta con il Quirinale tramite il compianto Loris D’Ambrosio, il mio riferimento al Colle. Formalmente, perché nella sua inchiesta c’era una cosa assurda e inaccettabile: un decreto di perquisizione di ben 1700 pagine fatto apposta per poter rendere pubbliche tutte le intercettazioni, comprese quelle che riguardavano il ministro Mastella. Fu una forzatura delle regole e una violazione della privacy intollerabile, una provocazione.
[Sallusti] Formalmente è così. Sostanzialmente?
[Palamara] Si ritorna al solito discorso del sistema. De Magistris non era allineato, quel governo già debole di suo e argine contro le destre non poteva essere attaccato in quel modo, con un’inchiesta dove oggettivamente si erano verificati degli eccessi. Anche se poi quello che posso dire – e qui lo dico per la prima volta – che De Magistris ha ragione quando dice che un’azione punitiva di quel genere nei confronti di un magistrato non c’era mai stata. E che non ha costituito un precedente per le tante inchieste e i tanti processi che hanno fatto poi discutere per la loro abnormità, tra i quali possiamo tranquillamente mettere – ne parleremo – alcuni di quelli a Silvio Berlusconi, dai settecento e passa milioni di risarcimento per il lodo Mondadori al caso Ruby. Il caso De Magistris è stata una parentesi, un’anomalia anche se lui non ha mai fatto – ma è ancora in tempo a farla – autocritica per alcune incongruenze di quella vicenda. Non dico che oggi io debba giustificarmi, ma a lui delle risposte vanno date.
[Sallusti] A quali domande?
[Palamara] Ci furono pressioni politiche per scaricare De Magistris, perché quell’inchiesta andava a colpire un governo di sinistra? Il governo era di sinistra, il mio sistema di riferimento anche, lascio a voi le conclusioni. In quelle ore ero in contatto diretto con il Quirinale? Sì, lo ero, in particolare con il consigliere Loris D’Ambrosio. L’Anm ha mai detto una parola sui colleghi che si sono occupati di Berlusconi? No, anzi; in quel caso, nei momenti di tensione, a prescindere da tutto io dovevo prendere l’aereo per Milano e mostrarmi accanto a quei magistrati, difenderli senza la minima incertezza.
[Sallusti] Lei andò oltre. Quando De Magistris fu poi trasferito, disse: «Il sistema ha vinto, ha dimostrato di avere gli anticorpi».
[Palamara] E De Magistris mi replicò: «Tu sei lì per difendere i magistrati, non la politica». Oggi la parola «anticorpi» non la ridirei, ma non intendevo offendere lui, ero preoccupato della tenuta del sistema che mi era stato affidato e in cuor mio ero pure speranzoso che da quel momento in poi la regola che nessun pm potesse mettere alla gogna chicchessia sarebbe stata fatta rispettare. È poi successo così? No, sicuramente no, e questa è una mia sconfitta. De Magistris è stato sacrificato anche perché non apparteneva né era funzionale ad alcuna corrente? Sì, è così. Quando il Sistema ti blocca ti blocca, quando l’input parte dall’alto e le correnti sono d’accordo non c’è verso che tu possa salvarti. Io oggi ne so qualcosa.
[da Il Sistema, cap. L’imprevisto pp. 71-74]
Un faro europeo deve accendersi sul «sistema» confessato da Palamara. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Se il Consiglio Superiore della Magistratura ed il prossimo Ministro della Giustizia volessero dare un forte segnale di discontinuità con il passato, ma anche della volontà di contribuire al dovere irrinunciabile della politica di ripulire il paese dal letamaio scoperchiato da Palamara, dovrebbero cominciare da un atto molto semplice. Fare adottare come libro di testo dalla Scuola Superiore della Magistratura il libro intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara: «Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana». Renderebbero un servizio al Paese, ma anche ai tanti magistrati per bene che hanno accolto nei fatti, e non solo nelle chiacchiere dei proclami ipocriti e auto-celebrativi di tanti attori della cloaca scoperchiata da Palamara, l’eredità di giganti come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Magistrati eroi e martiri che, assieme a tanti altri meno auto-celebrati o celebrati dal travaglismo nazionale, hanno svolto la loro azione come servizio al Paese. Per la realizzazione di quella Giustizia giusta cui ogni società civile, liberale e democratica dovrebbe ambire. Tutto l’opposto del «sistema» svelato da Palamara, del quale è stato per anni il braccio armato e persino la testa. Senza dare l’impressione di voler sfuggire alle sue confessate responsabilità. Quanto meno morali. Ma con il legittimo interesse a non diventarne l’unico capro espiatorio. Perché il problema dei problemi dell’Italia contemporanea, che è la governance della magistratura, non è certo Luca Palamara, ma il «sistema» che lui stesso ha di fatto governato per un decennio. Che è preesistente alla sua stessa entrata in magistratura e che, senza una fortissima ed urgentissima reazione delle parti ancora sane di questo povero Paese, se non di una vera e propria rivolta popolare, ha grandissime probabilità di sopravvivergli. Attraverso i metodi, ben descritti da palamara, che accomunano il « sistema » solo ad altri tipi di organizzazioni, tristemente note nel nostro paese, che pure si poggiano su quell’omertà e quella pressione intimidatoria ben descritte dall’ex Presidente dell’ANM ed ex membro del CSM. I giovani e meno giovani magistrati per bene, che sono la maggioranza, ma anche vittime (seconde, nell’ordine, solo dopo i milioni di cittadini presunti colpevoli, o parti civili senza giustizia) del « sistema », hanno il diritto dovere di sapere e ribellarsi, aiutando il paese a liberarsi da questa malapianta che ha menomato da decenni le nostre libertà, la nostra crescita economica e degli investimenti sani nell’economia nazionale, e intossicato le nostre istituzioni e la stessa vita diplomatica del paese. Da notare poi che le famiglie delle vittime delle mafie hanno da anni il meritato pubblico riconoscimento del Paese, della collettività, dell’opinione pubblica, e i loro cari sono ricordati e celebrati come eroi. Le famiglie delle vittime innocenti del «sistema» conoscono invece, oltre alla privazione, a volte della stessa vita, dei propri cari, solo l’onta e la vergogna della gogna mediatica del più peloso giustizialismo forcaiolo che ha impregnato l’Italia da tre decenni. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non ho mai stimato, per le ragioni appena spiegate, Luca Palamara. Che oltre un decennio fa fu oggetto di un durissimo attacco pubblico, messo subito sotto il tappeto, da parte di Francesco Cossiga. Che non era proprio un Travaglio qualunque, ma addirittura un presidente emerito della Repubblica, e quindi anche del CSM. E l’attacco non era personale, nonostante l’apparenza, ma solo relativo al fatto che Palamara rappresentava in quel momento, e difendeva anche nell’indifendibile, l’ANM. L’Associazione Nazionale Magistrati che Cossiga senza timore di querele (che invitò provocatoriamente a presentare ma non ricevette) definí «associazione sovversiva e di stampo mafioso». Ma devo riconoscere a Palamara che con questa intervista confessione ha reso un servizio meritorio al Paese e alla Giustizia. Oltre che all’onore di tutti i magistrati per bene, molti dei quali, secondo lui, lo hanno incoraggiato a raccontare tutta la verità. Quindi, se è stato dato credito, riconoscimento e protezione al Tommaso Buscetta che ha permesso a Giovanni Falcone di scoperchiare segreti sinora inviolati di Cosa Nostra, e a tanti altri pentiti anche meno credibili di lui, non vedo perché, mutatis mutandis, non bisogna dare credito, riconoscimento e anche pubblica tutela a Luca Palamara – che fino a sentenza passata in giudicato resta un magistrato della Repubblica – nella sua opera e funzione di sistemista pentito. Guardando cioè non solo ai benefici difensivi che hanno tutti i « pentiti », e che alcuni maliziosamente già addebitano alle sue intenzioni, ma anche agli innegabili rischi che corre dal momento che ha deciso di confessare e svelare pubblicamente i segreti sinora indicibili del «sistema». Sento poi di dover ringraziare, da cittadino prima di tutto, ma anche da vecchio addetto ai lavori e anche da giornalista, Alessandro Sallusti, autore di questo libro intervista. Rammaricato che solo pochi giornali italiani, e tra questi Il Riformista, abbiano sinora dato rilievo al libro e, soprattutto, a quanto raccontato. Lo ha fatto però ieri Antonio Tajani, assieme al circolo culturale europeista Esperia, chiedendo a Sallusti, durante un’affollata conferenza zoom, il «sistema» di Palamara. Tajani, forte della sua funzione di Vicepresidente del PPE, ma anche della sua esperienza di Presidente emerito del Parlamento europeo, si è impegnato a fare accendere un faro europeo sul « sistema » che, come spiegato anche da Guido Berardis, ex giudice del Tribunale dell’Unione Europea, porta un sicuro pregiudizio al mercato unico ma anche, almeno indirettamente, allo stato di diritto che è uno dei pilastri su cui si fonda l’Unione Europea. Avendo avuto professionalmente a che fare con la magistratura italiana per tre decenni, fino al 2011, anche dall’osservatorio europeo dell’OLAF, quanto raccontato nel libro di Sallusti, al di là di qualche dettaglio, non ha rappresentato per chi scrive alcuna sorpresa né per l’esistenza né per i metodi di azione del «sistema». Quando ero portavoce e capo unità indagini dell’OLAF, l’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode, assieme al procuratore della repubblica francese Thierry Cretin, che ha dato una sua idea della giustizia, molto apprezzata e condivisa da tutti i partecipanti all’evento di Esperia, sono stato testimone diretto della metamorfosi di giudizio verso alcuni magistrati italiani, attori del “sistema”, da parte dell’allora nostro direttore generale, dal 2000 al 2010, il Procuratore bavarese Franz-Herman Bruener. Bruener, arrivato a Bruxelles nel 2000 come grande ammiratore della magistratura italiana, sull’onda della narrativa mediatica internazionale di “Mani pulite”, quando ha toccato per esperienza diretta alcune delle cose raccontate oggi nel libro di Sallusti, cominciò a manifestarmi il suo assoluto disgusto. Disgusto seguito all’incredulità iniziale. Confidandomi che certe cose superavano addirittura i metodi utilizzati dalla Stasi, che lui aveva ben conosciuto, come Pubblico Ministero del processo al leader della DDR, Herich Honecker. Avendo vissuto la creazione e i primi decenni di vita dei servizi antifrode dell’Unione Europea, dal 1990 al 2011, ho avuto la fortuna di collaborare con alcuni magistrati di grandissimo livello nazionale e internazionali. Tra i tanti, il Procuratore Nazionale Anti-Mafia Piero Vigna, il sostituto procuratore generale della Repubblica di Milano Antonio Lamanna, l’ex PM veneziano Carlo Nordio, e lo stesso Antonio Laudati, una delle vittime del “sistema” raccontato nel libro di Sallusti. Assieme a tanti magistrati che hanno dato onore al nostro Paese, rimpiangendo molto le mie chiacchierate con Giovanni Falcone a Fiumicino, durante i caffè bevuti assieme in occasione delle sue frequenti partenze per gli Stati Uniti, sono stato però anche direttamente testimone del tentativo del “sistema” – che disponeva di suoi uomini, oltre che presso l’OLAF, presso altri posti sensibili delle istituzioni europee – di mantenere a Bruxelles proprie basi di lancio di missili sempre pronti a essere scagliati contro i governi italiani. In modo particolare, ovviamente, quelli di Berlusconi e dei suoi ministri della Giustizia. Devo dare merito al Giornale, oggi di Sallusti, di essere stato tra i pochi che, ogni tanto, prestavano una qualche attenzione all’opera del “sistema” a Bruxelles. Ho ritrovato sul web, ad esempio, un articolo del 13 marzo 2006, dal titolo “Talpe alla Ue, indagine su Bruti Liberati”. Quello stesso Bruti Liberati cui Sallusti dedica un intero capitolo e diverse citazioni di Palamara, e che, quando era Presidente dell’ANM era anche, guarda caso, Presidente del Comitato di Vigilanza dell’OLAF. Altrimenti il silenzio assoluto. E Sallusti, grazie a Palamara, ha il merito di aver raccontato anche a chi non è stato come me addetto ai lavori – e che come me non ha quindi il diritto di fare finta di cadere dal pero di fronte al questa confessione-denuncia – il perché di questo silenzio omertoso, anche mediatico, di fronte al potere intimidatorio, per chiunque, da parte del “sistema”.
Grazie al libro di Sallusti e alla pubblica confessione di Palamara, tutti gli italiani che vogliono davvero sapere, e smetterla di credere alle favole, a cominciare dai giovani ed aspiranti magistrati, ora non hanno più l’alibi di dirsi increduli e sorpresi. Hanno invece il diritto ed il dovere di chiedere e sostenere con forza una urgente e radicale riforma della giustizia in Italia. Ma all’estero, non dimentichiamolo, la narrativa è sempre stata e continuerà ad essere diversa. Basti pensare agli anni in cui si leggevano ancora soprattutto i giornali stampati. A Bruxelles, e nel resto dell’Europa, a cominciare dagli aeroporti e sugli aerei, l’unico giornale italiano che si trovava era La Repubblica. Ed il verbo era quello. All’estero, chi non ha toccato con mano “il sistema” descritto da Palamara, o non ha letto il suo libro o gli articoli de Il Riformista, non può credere che quanto svelato da Palamara sia possibile che accada in un paese democratico ed europeo. Perché si tratta di una situazione talmente unica in Europa, e nel mondo liberale e democratico – anche se in Italia sembrano ormai tutti assuefatti – che all’estero è impossibile crederci. Chiedo allora a Alessandro Sallusti ed alla Rizzoli editore: quando verrà tradotto «Il sistema», almeno in inglese e in francese, e se possibile anche in tedesco? Convinto che quando verrà fatto sarà reso un servizio al Paese. Perché resto certo, come ripetuto in altre occasioni, che l’Italia non riuscirà da sola a riformare questo Frankenstein che è “il sistema”, senza l’aiuto europeo. Anche se questo aiuto dovesse limitarsi alla sola astensione dal rispondere alle inevitabili chiamate di aiuto esterno del “sistema”. Attraverso la solita narrativa a senso unico che, ne sono certo, continueremo ad ascoltare. E che descriverà qualunque intenzione di seria e radicale riforma della giustizia, come il tentativo del Berlusconi del momento di difendersi dalla giustizia dei cavalieri senza macchia e senza paura di quello stesso momento. Si chiamino essi Di Pietro, de Magistris, Ingroia, Davigo, o altro, a seconda della stagione. E indipendentemente dal fatto che alcuni di loro siano anche abilissimi nel sostituire rapidamente la maglietta indossata quali giocatori del sistema, con quella di vittime di quello stesso sistema che li ha resi personaggi pubblici, sindaci e altro. Quindi, spero davvero che Rizzoli traduca al più presto. O permetta magari a think thank come il circolo Esperia di tradurlo e contribuire all’accensione di un faro europeo dopo averlo fatto leggere anche alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, al suo gabinetto, ed ai funzionari europei, non solo italiani, abituati da sempre a sentire solo la campana del “sistema”. Che spesso in buona fede hanno persino sostenuto. E so di cosa parlo. Come lo sa il magistrato anticorruzione e anti-frode francese Thierry Cretin e molti altri.
Il caso Forleo. Palamara racconta anche come il CSM rimosse da Milano il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo trasferendola d’ufficio a Cremona. Il giudice Forleo ne uscì pienamente pulita e, anni dopo, il Consiglio di Stato annullò il suo illegittimo trasferimento. La Forleo svolse inchieste sui furbetti del quartierino, un manipolo di finanzieri che avevano tentato l’acquisto di gruppi bancari e sulla scalata di Unipol, la cassaforte del Pds, alla Bnl. La Forleo, contraddicendo i suoi colleghi pm della procura di Milano, chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni che coinvolgevano alcuni parlamentari, come Piero Fassino, Massimo D’Alema,e Nicola Latorre. Il gip chiese di poter inquisire alcuni degli stessi parlamentari che apparivano, nella sua ricostruzione dei fatti, “consapevoli complici di un disegno criminoso”. Tutte le vicende riguardanti de Magistris e Forleo sono ben raccontate in libri come “Il Caso Genchi” di Edoardo Montolli oppure “Il caso de Magistris” e “Clementina Forleo – un giudice contro” di Antonio Massari. Adesso Luca Palamara racconta a Sallusti che “la procura di Milano e il Pds non presero bene” queste azioni della Forleo e da lì fu presa la decisione dal CSM di rimuoverla dall’incarico. Le denunce contenute nel libro “Il Sistema” costituiscono materiale molto ampio per una procura disposta a indagare. Una giustizia davvero amministrata in nome del popolo italiano non può sottrarsi dal fare chiarezza su queste vicende. È infatti il popolo italiano che lo richiede per aver ancora fiducia nella magistratura.
Palamara, il gip romano Forleo: la magistratura non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio. Roberto Frulli lunedì 1 Marzo 19:55 2021 su Il Secolo d'Italia. La magistratura “si è come specchiata quando il 30 maggio viene sequestrato il telefono a Palamara e rinvenuta la mole infinita di messaggi”. Ma “questo specchio la magistratura non l’ha voluto vedere, come se l’immagine che rifletteva non fosse la propria. Non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio, ma ha cacciato solo Palamara, come se non ci fossero altri mercanti“. Intervenuta in diretta dalla pagina Facebook del Fatto Quotidiano con i giornalisti Peter Gomez e Antonio Massari, la Forleo, che è attualmente gip del Tribunale di Roma, non fa sconti a nessuno. “Il libro di Palamara è lo specchio di quello che è successo. Il fatto che uscisse fuori la sua chat, rinvenuta casualmente dopo aver installato un trojan, è stato voluto da qualcuno. Qualcuno che aveva intenzione nel far uscire certe notizie”, si dice sicura la Forleo. “Poi il sequestro del cellulare – ricostruisce il gip. – E nessuno poteva pensare che potesse avere un archivio così colossale, messaggi rimasti nero su bianco. Con lui i vertici si spartivano nomine e incarichi, anche come silurare i colleghi scomodi“. “Come ha reagito la magistratura dopo lo scandalo? Si è come specchiata – ha spiegato spietata la gip – Quando il 30 maggio viene sequestrato il telefono a Palamara e rinvenuta la mole infinita di messaggi, la magistratura si è trovata di fronte ad una prova documentale”. “Si intuiva che le cose andassero cosi – ammette la Forleo. – Ma non potevamo immaginare fino a questo punto, al punto di chiedere condanne per chi andava assolto. E questo specchio la magistratura non l’ha voluto vedere, come se l’immagine che rifletteva non fosse la propria. Non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio, ma ha cacciato solo Palamara, come se non ci fossero altri mercanti“.
Felice Manti per “Il Giornale” il 24 febbraio 2021. «Con altri colleghi abbiamo pensato di fare un appello al capo dello Stato, in qualità di garante della Costituzione, coinvolgendo anche la società civile». Clementina Forleo è gip al Tribunale di Roma ed è tra le firmatarie dell'appello a Sergio Mattarella perché intervenga sulla riforma del Csm dopo le storture denunciate dall' ex leader Anm Luca Palamara nel libro-intervista Il Sistema scritto da Alessandro Sallusti. Tra i magistrati c'è chi vuole riformare la giustizia e chi fa spallucce. «Altri vertici della magistratura associata tentano di occultare maldestramente gli stretti rapporti per anni intessuti con lo stesso Palamara e grazie ai quali il sistema si è alimentato con la spartizione clientelare di ogni incarico, con la punizione esemplare di magistrati ritenuti scomodi», dice la Forleo, cacciata da Milano nel 2007 mentre da gip voleva indagare sul Pd nell' inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl, come ebbe a dire pochi giorni fa davanti alle telecamere di Quarta Repubblica, con «un' operazione che, qualora dovesse essere corroborata da altre prove, non esiterei a definire criminale, dovuta a una sorta di compromesso tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario». Ecco perché la Forleo, insieme ad altri colleghi, da tempo auspica una riforma «che preveda l' estromissione dall' organo di autogoverno delle toghe, ossia dal Csm, delle cosiddette correnti» perché così «si eliminerebbe ogni consorteria interna al Potere giudiziario con maggiore garanzia di indipendenza del singolo magistrato e, a cascata, con maggiore tutela dei diritti del cittadino che ha l' esigenza primaria di avere non solo giudici indipendenti ma anche giudici che appaiano indipendenti».
Brutto leggere negli sms di Palamara di colleghi che tramano alle spalle di altri... Quando parla di chi vuole insabbiare tutto a chi pensa?
«Penso, tra tutti, a un contatto con cui un noto Procuratore della Repubblica, di sinistra, chiedeva al dottor Palamara di vedersi al solito posto: da paralleli contatti del dottor Palamara con altri esponenti della magistratura associata anche intranei al Csm, si comprendeva a chiare lettere come l' incontro fosse stato voluto per caldeggiare la nomina, poi effettivamente avvenuta, di un Procuratore Aggiunto particolarmente gradito a quel Procuratore. Ancora penso a quel contatto con cui un ex esponente del Csm interloquiva con il dottor Palamara dicendogli: Ricordati che ti ho sistemato P. a patto che mi sistemassi O.!. Infine, e con tanta amarezza, penso a un colloquio intercorso tra il dottor Palamara ed altro esponente del Csm, con il quale si concordava di emettere un provvedimento disciplinare nei confronti di un collega come segnale da mandargli, come scelta politica in quel momento ritenuta necessaria al sistema. Trattasi di comunicazioni già pubblicate da organi di stampa e dunque a conoscenza del comune cittadino, con conseguente immane discredito dell' intera categoria e dei tantissimi magistrati che ogni giorno indossano la toga con onore».
C' è fermento tra i suoi colleghi dopo la vostra iniziativa. Secondo lei può scoppiare un nuovo caso Palamara o è stato un caso isolato?
«Non credo, anzi è solo la punta di un iceberg rimasta per lungo tempo sommersa e casualmente, grazie ad un trojan e al successivo sequestro di un telefono cellulare, venuta alla luce».
Da quel che emerge c' è un sottobosco pericoloso di relazioni tra pm inquirenti e magistratura giudicante. È favorevole alla separazione delle carriere?
«Sulla separazione delle carriere mi espressi favorevolmente nel gennaio del 2007 nel corso di un convegno organizzato a Milano dalle Camere Penali. Ci fu una standing ovation della classe forense presente, come da titolo apparso sul Corriere della Sera, ma molti miei colleghi non la presero bene. Ritengo anche oggi, senza timori, che solo attraverso un' effettiva parità tra accusa e difesa il nostro sistema giudiziario potrebbe essere all' altezza di un vero e proprio Stato di diritto».
Che ne pensa di De Magistris e di quel che gli è successo? Nel libro Il caso Genchi di Edoardo Montolli si legge: «Le due inchieste, quella sulle scalate bancarie e quella su Why Not, avevano individuato un medesimo bacino di persone su cui cercare di far luce». Lo ha letto? È così?
«Sul parallelismo della mia vicenda con quella di Luigi De Magistris, ritengo che l' elemento chiave sia da riconnettersi ad una strana coincidenza: nello stesso giorno e nella stessa fascia oraria giunsero nei nostri rispettivi uffici di Milano e di Catanzaro, due lettere minatorie vergate da una stessa mano e con allegato un proiettile, e ciò parallelamente ad attacchi di certa stampa e all' assoluto isolamento anche interno alla categoria. Il resto è Storia».
Caso Palamara, Forleo: «La mia cacciata da Milano un’operazione criminale». su Il Dubbio l'8 febbraio 2021. Forleo nel 2007 era gip dell’inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl e aveva chiesto alle Camere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti alcuni parlamentari, tra i quali anche Piero Fassino e Massimo D’Alema. «Ho sempre sospettato che la mia cacciata da Milano fosse stata dovuta a una sorta di compromesso tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario. Le dichiarazioni di Palamara costituiscono prova di un’operazione che, qualora dovesse essere corroborata da altre prove, non esiterei a definire criminale». È quanto sostiene Clementina Forleo, attualmente gip del tribunale di Roma, nell’intervista concessa al programma “Quarta Repubblica”, in onda questa sera su Rete4, in merito alle rivelazioni sulla sua persona contenute nel libro-intervista di Alessandro Sallusti con Luca Palamara, “Il Sistema”. Clementina Forleo nel 2007 era gip dell’inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl e aveva chiesto alle Camere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti alcuni parlamentari, tra i quali anche Piero Fassino e Massimo D’Alema. A tal proposito, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha dichiarato nel libro: «La procura di Milano non è quella di Catanzaro, è un monolite, un fortino delle correnti di sinistra, non espugnabile, neppure dall’Anm o dal Csm. Qualcuno sostiene sia un tempio, e nei templi non è ammessa l’eresia». Prosegue Palamara: «L’eretica in questione è appunto Clementina Forleo, che da gip osa sfidare la procura sia la sinistra, nella primavera 2007 al governo. L’inchiesta è quella dei “Furbetti del quartierino”. La procura di Milano non la prende bene, il Pds neppure. Io capisco che non abbiamo scelta, al di là del merito tecnico-giuridico delle sue decisioni Clementina Forleo va rimossa, è un pericolo, e mi esprimo anche pubblicamente in tal senso, sia come Anm sia come capocorrente, dando indicazioni in tal senso ai miei uomini dentro il Csm, che infatti la trasferisce di peso al tribunale di Cremona». Clementina Forleo commenta così: «Quando ho letto queste parole, ho provato una grande amarezza e un indescrivibile senso di solitudine. In realtà ho sempre sospettato che la mia cacciata da Milano fosse stata dovuta a una sorta di compromesso, chiamiamolo così, tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario». Poi aggiunge: «Le dichiarazioni del dottor Palamara costituiscono prova di un’operazione che qualora dovesse essere corroborata da altre prove non esiterei a definire criminale. Ci tengo a dire che io sono stata sempre un giudice libero, un cane sciolto, io non sono né di sinistra né di destra, non penso di poter essere tacciata di essere di parte nel mio operare». Sul fatto che «il sistema così come viene descritto» esista ancora, l’ex gip di Milano sostiene: «Il rischio c’è… Non vedo molti atti di dolore in giro, non vedo molte… diciamo redenzioni da parte degli interlocutori del dottor Palamara. Il sistema è stato descritto a caratteri cubitali nelle numerosissime chat, nei numerosissimi messaggi che dimostrano come il dottor Palamara non parlasse sicuramente da solo ma interloquisse con numerosissimi colleghi, alcuni con ruoli apicali nel potere giudiziario e ciò per spartirsi nomine, incarichi di ogni tipo ma anche per mandare segnali ai magistrati ritenuti scomodi, oltre che per mettere in difficoltà il potere politico in quel momento ritenuto ostile alla categoria». Clementina Forleo esprime poi una speranza per il futuro: «Nell’interesse di tutti mi auguro che il dottor Palamara non resti il solo a pagare per questo scempio, lo voglio chiamare così. Per riacquistare credibilità chiediamo che i componenti del Csm siano eletti in base a candidature non controllate dalle correnti ma anche nell’interesse delle stesse parti politiche, qualunque sia il loro colore, onde evitare che le stesse, come si è visto in noti messaggi sempre estratti dal telefono del dottor Palamara, possano essere danneggiate dalla vicinanza di taluni vertici del potere giudiziario a forze politiche di segno opposto». In merito al fatto che questo meccanismo possa distruggere la carriera di un magistrato, Clementina Forleo commenta: «Penso di sì, se non si ha la forza, la tenacia. Io devo dire grazie a chi mi ha difeso ma soprattutto ai miei genitori che non ci sono più e che mi hanno dato una forza di carattere che ha i suoi svantaggi ma ha anche avuto il vantaggio di farmi andare avanti a testa alta». Infine, sulla sofferenza causata da questa vicenda, ammette: «Sì, brucia molto. Forse brucia di più, non lo so».
La replica della moglie dell'ex conduttore. Cara Forleo, non dimentico la tua sentenza e le tue parole su Enzo Tortora. Francesca Scopelliti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Nel novembre del 1992 – dopo quattro anni dalla morte e sei dalla piena assoluzione di Enzo Tortora dalle gravi e infamanti accuse di appartenenza alla Nco e di spaccio di droga – Gianni Melluso, uno dei farabutti di questa triste vicenda, in vacanza con la moglie per un permesso speciale, viene raggiunto dal settimanale Gente, per un’intervista. E parla, parla, come suo costume, raccontando la “sua” verità. Il detenuto ribadisce le sue accuse rivolte nove anni prima a Enzo Tortora, le solite menzogne arricchite da quell’arroganza e quella sicumera che solo la protezione della procura napoletana poteva assicurargli. E come un divo capriccioso e viziato, racconta: «Tortora fu rinviato a giudizio perché contro di lui c’erano prove schiaccianti. In appello fu assolto perché i “pentiti” che lo avevano accusato, sentendosi abbandonati dai giudici, ritrattarono le loro testimonianze. E come non capirli? Senza protezione rischiavano la pelle e fecero retromarcia per salvarsi. Tutti tranne me, perché sono un uomo che quando ha preso una decisione va avanti per la sua strada a qualsiasi costo.» Naturalmente la famiglia querela per diffamazione aggravata sia Melluso, sia Sandro Mayer e Matilde Amorosi, direttore e redattrice del settimanale: dopo dieci anni di sofferenze, dopo la sentenza di assoluzione con formula piena della Corte di Appello confermata in Cassazione, e una vita distrutta, un giornale consente a un calunniatore professionista di ribadire accuse risibili quanto infamanti. La Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora chiede un risarcimento di 5 miliardi di lire, Spadaccia e Pannella intervengono nelle sedi istituzionali riguardo alla scarcerazione di Melluso. Ma nessuno ottiene risposte e soddisfazione. Inaccettabile. Ma c’è di più e di peggio. Il 19 dicembre 1994 Clementina Forleo, Gip del Tribunale di Milano, assolve Gianni Melluso dall’accusa di calunnia aggravata perché l’assoluzione di Enzo Tortora rappresenta, in realtà, «soltanto la verità processuale e non anche la verità reale del fatto storicamente accaduto”. Sentenza confermata poi dal Pg Elena Paciotti la quale ribadisce che quell’assoluzione non era “conseguenza della ritenuta falsità delle dichiarazioni di Melluso, ma della ritenuta inidoneità delle stesse a costruire valida prova di accusa”. Un principio, questo, che offende il diritto e che più recentemente è stato rappresentato con un linguaggio più esplicito e teatrale da Piercamillo Davigo: “non ci sono innocenti condannati ma solo colpevoli che la fanno franca!” Nell’intervista di ieri, Clementina Forleo, che nel frattempo lamenta di essere “stata cacciata da Milano” per un intreccio tra potere politico e vertici del potere giudiziario, condanna il sistema di corruzione denunciato da Palamara e auspica una commissione parlamentare di inchiesta e una riforma del Csm. Non è mai troppo tardi. P. s. Nel luglio 1995 Melluso, in carcere, riprende a parlare, fornendo stavolta una nuova versione dei fatti e al procuratore di Arezzo Vincenzo Scolastico e al sostituto procuratore di Salerno Ennio Bonadies, in un interrogatorio di dodici ore confessa: «Non potevo più vivere in compagnia di questo incubo. Ho fatto male a un uomo innocente e sento il dovere di restituire dignità alla sua memoria. Quando mi trovavo davanti Tortora nei confronti, quando lo vedevo invecchiato e malato, ne avevo pena. Ma cosa potevo fare? Ero inchiodato a un maledetto copione che dovevo recitare». Un copione che porta la firma di tanti troppi… magistrati in carriera.
Galati: «Stanco dei suoi continui attacchi, querelo De Magistris». Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. «Ormai stanco dei continui attacchi mediatici perpetrati dal dott. Luigi de Magistris in mio danno, ho provveduto, per il tramite del mio difensore, l’avv. Salvatore Cerra, a sporgere formale querela nei confronti dell’ex sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro». Lo afferma in una nota l’ex deputato ed ex sottosegretario di Stato Giuseppe Galati. «Quest’ultimo – prosegue Galati – invero, si è più volte reso protagonista di farneticanti enunciazioni ai danni della mia reputazione, alle quali, per lo sconfinato rispetto nutrito nei confronti della libertà di manifestazione del pensiero, ho deciso di soprassedere, sino alle inqualificabili dichiarazioni rilasciate dal candidato alla presidenza della giunta regionale della Calabria nelle quali lo stesso parla di “golpe istituzionale” di “sottrazione illecita accertata dall’autorità giudiziaria di indagini” di “azioni punitive” e di “abuso della legalità formale” trincerandosi dietro le dichiarazioni di Luca Palamara in relazione alla ricostruzione dei fatti che avrebbero portato al suo trasferimento dalla Procura di Catanzaro mentre lo stesso era titolare delle indagini Poseidone e WhyNot. È evidente come quanto affermato da de Magistris sia incontrovertibilmente tendenzioso, così come i fatti da egli riportati risultino correlati e combinati tra loro in maniera tale da evocare in maniera suggestiva un quadro generale fondato su fatti già accertati dall’autorità giudiziaria. De Magistris, infatti, omette tendenziosamente di riferire che in relazione all’inchiesta “Poseidone”, la Procura di Catanzaro all’epoca dei fatti avanzò richiesta di archiviazione, accolta dal Gip, mentre in merito all’inchiesta “WhyNot”, in seguito all’acquisizione dei fascicoli dell’attività investigativa precedentemente svolta da parte del dott. de Magistris, da parte della Procura di Salerno, conseguì un procedimento penale conclusosi con sentenza assolutoria, perché il fatto non sussiste, nei miei confronti». «E’ quindi evidente – conclude Galati – come il dott. de Magistris, con palese intento diffamatorio, abbia omesso di riferire, nella sua nota, tanto la circostanza afferente la suddetta avocazione dei fascicoli della Procura salernitana, contenenti l’attività investigativa svolta dallo stesso, dalla quale scaturiva un procedimento penale, quanto, soprattutto, l’esito del procedimento medesimo, fuorviando la collettività, ed attribuendo al sottoscritto condotte poco cristalline e responsabilità inesistenti».
Mastella-de Magistris, scontro in tv da Giletti. L’ex ministro: «Sei un farabutto». E il sindaco: «Bugiardo». F.N. per corriere.it l'8 febbraio 2021. Botta e risposta a suon di insulti tra Clemente Mastella e Luigi de Magistris che si sono affrontati sui risvolti giudiziari dell’inchiesta «Why Not» - inchiesta che vide l’ex pm indagare sull’allora Guardasigilli - durante il programma “Non è l’Arena”, condotto da Massimo Giletti e con ospite Luca Palamara, in onda su La7. Dalle prime schermaglie si è passati allo scontro quando il sindaco di Benevento è intervenuto in collegamento telefonico per rispondere al suo collega di Napoli. «Ho ascoltato le farneticanti enunciazioni di de Magistris - ha esordito Mastella - voglio ricordare che il 99% delle sue inchieste sono finite in vacca, sono abortite in maniera incredibile. E hanno dimostrato la sua incapacità di investigare in maniera corretta. Io sono stato perseguito dal “de Magistris fan club”».
«Sono stato fermato dalla politica». Incalzato dall’ex Guardasigilli, mentre Giletti tenta di ricondurre tutto a un confronto quantomeno corretto, de Magistris rincara la dose sull’antagonista televisivo: «Lei è il peggior ministro della storia della Repubblica - afferma l’ex pm - ha commesso insieme ad altri attentato alla Costituzione. Ero considerato uno dei migliori magistrati italiani per i risultati delle indagini che seguivo e poi mi sono imbattuto in Mastella e altri politicanti italiani. E tutti sono sanno perché sono stato fermato».
Accuse interminabili. Ma mentre de Magistris è nel pieno del suo intervento, irrompe di nuovo Mastella. E da qui è solo un continuo scambio di accuse: «Farabutto, lei ha fatto il politicante ed esce in maniera ignobile da Napoli», dice l’ex ministro. E il sindaco di Napoli: «Bugiardo, lei è un bugiardo storico. Ed è in malafede». La lite prosegue fino a quando Giletti non decide, giustamente, che sia il caso di finirla. Rimandando il tutto a un confronto in una prossima trasmissione di «Non è l’Arena».
Mastella in risposta alle affermazioni di De Magistris. Dagospia l'8 febbraio 2021. Comunicato stampa. “Nella trasmissione “Non è l’Arena”, andata in onda ieri, Luigi De Magistris, oltre ad essersi cimentato nelle consuete farneticazioni, che lo vedrebbero al centro di un complotto dei poteri forti, ha raccontato, come al solito, il falso, circa l’esito del processo penale, in cui è stato coinvolto, con l’accusa di abuso d’ufficio in mio danno, per aver violato la norma della legge Boato. Egli ha sottolineato che la Corte d’Appello penale di Roma lo ha prosciolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Peccato che abbia omesso di ricordare il seguito della sua vicenda giudiziaria. La Cassazione ha travolto e annullato quella sentenza di proscioglimento, affinché si celebrasse un nuovo giudizio a carico del De Magistris, ritenendo completamente errata la sentenza di assoluzione pronunciata a suo favore. Poiché, tuttavia, altro particolare che De Magistris omette costantemente di dire, egli non ha rinunciato alla prescrizione, beneficiandone in pieno, la Cassazione ha dovuto prendere atto della estinzione del reato, dato il trascorrere del tempo. Pertanto, ha rinviato alla Corte d’Appello civile il procedimento, affinché si celebri un nuovo giudizio ai soli effetti risarcitori. In sostanza, ha fatto rivivere la sentenza di condanna di primo grado. Quindi, la Corte di Appello civile, per il suo giudizio, partirà dalla sentenza di condanna di primo grado. Quanto al resto, sarei curioso di conoscere dal reticente Dott. Palamara i componenti del ‘De Magistris Fan Club‘, di cui parla nel suo libro, che esercitarono, nei miei confronti, una indegna azione investigativa, con esiti umani e politici devastanti”. Lo dichiara il sindaco di Benevento, Clemente Mastella.
Palamara smaschera le toghe in tv. E si scatena la rissa Mastella-De Magistris. A "Non è L’Arena" l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha spiegato i retroscena dell'inchiesta Why Not, ma ha anche lanciato l'allarme sulle nomine che si fanno adesso in magistratura. Gabriele Laganà, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Lo scandalo della magistratura emerso dopo le intercettazioni dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara che ha scoperchiato un sistema fatto di stretti legami tra giustizia e politica è stato di nuovo al centro della puntata di "Non è L’Arena" su La7. Ospite di Massimo Giletti, e non potrebbe essere altrimenti, proprio Palamara, protagonista del libro "Il sistema", scritto da Alessandro Sallusti in cui il direttore de "il Giornale" racconta, grazie alle parole dell’ex presidente dell’Anm, il dietro le quinte, gli intrecci ed i retroscena delle toghe. L’attenzione, in particolare, si è focalizzata sul "caso De Magistris": l’inchiesta Why Not è stata fermata dal “sistema”?. A tal proposito è andato in scena in studio il confronto con l’ex sostituto procuratore di Catanzaro all’epoca titolare dell’inchiesta, ed attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Palamara, così come avvenuto nella scorsa puntata, è sembrato un fiume in piena. L’ex magistrato ha esordito spiegando che il suo libro è per i tanti magistrati "che si alzano e fanno i processi ogni giorni. Noi vogliamo capire se il sistema delle correnti è ancora attuale e quanto ha penalizzato chi non ne ha fatto parte. Io sto rispondendo alle istanze dei magistrati". Lo stesso ex magistrato ha spiegato che nel libro ha raccontato come avveniva la gestione del potere all'interno della magistratura: "Se un componente del Csm dice che le correnti hanno qualcosa di mafioso, vogliamo fermarci a riflettere? Se ho fatto quello che ho fatto, al netto delle cose che mi coinvolgono, è per creare un equilibrio e far funzionare meglio la macchina giustizia. Facevo parte del sistema, ma lavoravo per la giustizia". "Dobbiamo capire- ha aggiunto- se il sistema delle correnti è ancora attuato e se ha escluso i magistrati meritevoli". “Qualcuno voleva far fuori Di Matteo? Le scelte organizzative competono al Procuratore generale antimafia, bisogna chiedere a lui e ognuno deve prendesi le sue responsabilità. All'interno della magistratura esisteva un procedimento ostativo perché non era allineato al sistema descritto. Lo stesso discorso potrei farlo per Alfonso Sabella", ha spiegato ancora Palamara. Quest’ultimo ha ammesso di aver pensato che essere buttato fuori è “un modo per risolvere tutto”. “Sì, siamo ancora impantanati a discutere delle mie chat- ha evidenziato- quindi qualcosa non va. C'è bisogno di una riforma della giustizia, ce lo chiede l'Europa con il Recovery Plan e invece stiamo parlando delle mie chat". Poi lo stesso Palamara ha lasciato intendere che attualmente la magistratura agisce allo stesso modo raccontato ne "Il Sistema": "Per le nomine ancora vengono controllati i candidati e si verifica se i loro nomi sono tra le mie chat". Insomma ancora una volta Palamara smaschera il sistema delle toghe che da troppi anni mischia politica e magistratura ignorando i principi fondanti del potere giudiziario. Palamara ha spiegato che la settimana scorsa ha invitato il dottor d'Amelio della procura di Roma "a raccontare i fatti e i pranzi tra il dottor D'Amelio, il dottor Fava, il dottor Davigo, il dottor Ardita. Io penso che il dottor Davigo, proprio in virtù del ruolo che ha avuto nelle famose inchieste milanesi, abbia l'obbligo e il dovere di dire la verità, perché il verbale reso davanti ai pm di Perugia non chiarisce realmente il perché il dottor Davigo votò il 23 maggio del 2019 per la procura di Roma il dottor Viola". Lo stesso ex magistrato ha poi sottolineato che quel voto di Davigo "è il contrario di una colpa", ma che "c'è bisogno di chiarire perché votò prima il dottor Viola", cambiando voto la volta successiva, quando optò per Prestipino. Palamara ha affermato che in questo momento la politica "è debole anche perché molti uomini politici sono in un modo o nell'altro coinvolti in determinate inchieste e questo li rende più deboli nel proporre un percorso realmente riformatore". Nel corso del programma non ci sono state solo le parole dell’ex magistrato. Un duro scontro è andato in scena tra il sindaco di Napoli ed ex pm Luigi De Magistris e il sindaco di Benevento Clemente Mastella. Al centro le vicende dell'inchiesta "Why Not", quando De Magistris era magistrato a Catanzaro e Mastella ministro della Giustizia nel governo Prodi, nel 2007. Il primo cittadino di Napoli aveva ricordato quelle vicende e lo scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro, citando anche Mastella. L'ex ministro è intervenuto telefonicamente per difendersi. "Ho ascoltato le farneticanti affermazioni del dottor De Magistris sulla mia persona. E Palamara trascura di dire che quando andò a Napoli si trovò nel fan club di De Magistris contro di me", ha affermato Mastella. "Io sono stato perseguitato dal De Magistris fan club- ha continuato il sindaco di Benevento-. Successivamente è stato confermato che il 98% delle inchieste di De Magistris sono abortite per la sua incapacità di investigare. Prego la Corte di Appello di Roma di intervenire perché in seguito a mia segnalazione De Magistris mi deve dare un risarcimento. Altra cosa: non dice che lui ha utilizzato la prescrizione, è stato condannato per abuso dei tabulati telefonici miei e del Presidente del Consiglio, ma è stato salvato per la prescrizione". Accuse alle quali De Magistris ha contro ribattuto duramente: "Falso. Ho subito già troppi danni e non posso sentire le bugie di Mastella in diretta. Io sono stato assolto dalla Corte d'Appello non per prescrizione ma perché il fatto non costituisce reato. I miei procedimenti andavano talmente bene che ero considerato uno dei migliori magistrati, poi casualmente mi sono imbattuto in Mastella e c'è stata la reazione del Csm e delle correnti. Io mi sono messo contro un sistema criminale che mi ha fermato". Parole che hanno scatenato un aspro botta e risposta che ha costretto Giletti a riportare l'ordine. "Lei e altri avete commesso attentato alla Costituzione", ha detto De Magistris a Mastella, definendolo "bugiardo storico". L'ex ministro ha replicato dandogli del "farabutto".
“Sei un farabutto…”; “E tu un bugiardo…”. De Magistris e Mastella botte da orbi da Giletti. Il Dubbio l'8 febbraio 2021. Lo scontro tra l’ex magistrato De Magistris e l’ex ministro della Giustizia Mastella: “Le tue inchieste sono fallite per incapacità”. Duro scontro a “Non è l’Arena”, su La7, tra il sindaco di Napoli ed ex pm Luigi De Magistris e il sindaco di Benevento Clemente Mastella. Al centro le vicende dell’inchiesta “Why Not”, quando De Magistris era magistrato a Catanzaro e Mastella ministro della Giustizia nel Governo Prodi, nel 2007. De Magistris, ospite della trasmissione insieme all’ex magistrato Luca Palamara, aveva ricordato quelle vicende e lo scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro, citando anche Mastella. L’ex ministro è intervenuto telefonicamente. “Ho ascoltato le farneticanti affermazioni del dottor De Magistris sulla mia persona. E Palamara trascura di dire che quando andò a Napoli si trovò nel fan club di De Magistris contro di me – ha detto Mastella -. Io sono stato perseguitato dal De Magistris fan club. Successivamente è stato confermato che il 98% delle inchieste di De Magistris sono abortite per la sua incapacità di investigare. Prego la Corte di Appello di Roma di intervenire perché in seguito a mia segnalazione De Magistris mi deve dare un risarcimento. Altra cosa: non dice che lui ha utilizzato la prescrizione, è stato condannato per abuso dei tabulati telefonici miei e del Presidente del Consiglio, ma è stato salvato per la prescrizione”. Accuse alle quali Luigi De Magistris ha controribattuto: “Falso. Ho subito già troppi danni e non posso sentire le bugie di Mastella in diretta. Io sono stato assolto dalla Corte d’Appello non per prescrizione ma perché il fatto non costituisce reato. I miei procedimenti andavano talmente bene che ero considerato uno dei migliori magistrati, poi casualmente mi sono imbattuto in Mastella e c’è stata la reazione del Csm e delle correnti. Io mi sono messo contro un sistema criminale che mi ha fermato”. Da lì un aspro botta e risposta che ha costretto Giletti a riportare l’ordine. “Lei e altri avete commesso attentato alla Costituzione”, ha detto De Magistris a Mastella, definendolo “bugiardo storico”. L’ex ministro ha replicato dandogli del “farabutto”.
La sentenza del Tribunale di Avellino. Massacrato per libro su de Magistris, Tuccillo assolto: “Ho solo raccontato 10 anni di finta rivoluzione”. Andrea Esposito su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Che l’esperienza di Luigi de Magistris alla guida del Comune di Napoli si sia rivelata un flop, è ormai sotto gli occhi di tutti. E Bernardino Tuccillo, che ha condiviso col sindaco parte del suo percorso, non ha commesso alcuna diffamazione nel descrivere le scelte politiche e amministrative che hanno decretato il fallimento della “rivoluzione arancione”. A ribadirlo è stato il Tribunale di Avellino che ha assolto con l’ex assessore comunale al Patrimonio. Al centro della vicenda era finito Il sindaco con la bandana, il libro scritto da Tuccillo all’indomani delle dimissioni che avevano segnato la fine della sua esperienza in giunta. Pubblicato nel 2014, quel volume è costato all’ex assessore sei anni di processi e l’addio alla carica di commissario straordinario dell’Istituto autonomo delle case popolari (Iacp). Tutto a causa di ben quattro querele presentate da esponenti politici vicini a de Magistris, cioè dagli ex assessori Franco Moxedano e Sergio D’Angelo oltre che dall’attuale presidente del Consiglio comunale Alessandro Fucito. Nel libro, infatti, Tuccillo sottolineava l’inopportunità di scelte come la promozione da funzionario a dirigente comunale di Luigi Filace, cognato di Moxedano, avvenuta proprio mentre quest’ultimo era delegato al Personale. Nel volume, inoltre, si stigmatizzava duramente la gestione delle politiche sociali da parte dell’allora assessore D’Angelo. Soprattutto, però, si analizzava l’amministrazione del patrimonio comunale. A proposito, Tuccillo contestava l’adesione, da parte del Comune di Napoli, alla sanitoria regionale che consentiva di regolarizzare la posizione di quanti avevano illegalmente occupato alloggi pubblici assegnati ad altre persone. L’ex assessore, infine, si scagliava contro le modalità e i tempi dell’affidamento del patrimonio a Napoli Servizi perché la partecipata «non aveva le risorse umane né le competenze necessarie per completare il piano di dismissione degli immobili comunali» e perché la giunta arancione «non considerò la necessità di formare il personale e di far sì che la società fosse affiancata da altri almeno in una prima fase». Osservazioni documentate che, tuttavia, sono costate a Tuccillo non solo un calvario giudiziario, ma anche l’addio al vertice dell’Iacp: «Fu Moxedano, nel 2015 consigliere regionale, a fare pressione sul governatore Vincenzo De Luca per farmi allontanare». Insomma, per qualcuno criticare l’amministrazione de Magistris era vietato. Non per il giudice che ha assolto Tuccillo per la terza volta (la querela presentata da D’Angelo fu presto archiviata): «Sono stato bersagliato dal punto di vista umano, politico e giudiziario – commenta ora Tuccillo – ma continuerò a raccontare questi dieci anni di finta rivoluzione».
“Woodcock punito dal Csm? Un segnale a un pm scomodo”. Antonio Massari su Il Fatto Quotidiano il 2 febbraio 2021. “Sì, questi passaggi nel mio libro non ci sono. Ho introdotto degli argomenti, non ho messo tutto”. Ieri chi vi scrive, autore del libro Magistropoli (edizioni Paper First), si è confrontato con Luca Palamara, protagonista del libro intervista Il Sistema (edito da Rizzoli). A moderare il dibattito online il vicedirettore del Fatto Marco Lillo. Tra gli argomenti trattati, quello sul procedimento disciplinare al pm Henry John Woodcock, condannato dalla consiliatura del Csm successiva a quella di Palamara: fu punito per aver rilasciato un’intervista a Repubblica – mai autorizzata – e poi assolto dalla Cassazione.Ne “Il Sistema” Palamara si sofferma solo su un punto della vicenda: sostiene – ma il pm Giuseppe Cascini l’ha già smentito più volte – che il 5 luglio 2018 (…) “Cascini mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare (…) mi parla di un’intercettazione tra Legnini, vicepresidente del Csm e quindi arbitro della contesa, e l’onorevole Cirino Pomicino, in cui Legnini parla molto male del pm napoletano, in possesso dello stesso Woodcock, che è intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti (…)”. Cascini ha negato di aver mai parlato dell’intercettazione, della quale ignorava l’esistenza e ha annunciato che adirà le vie giudiziarie. Ma passiamo a ciò che nel suo libro intervista Palamara non dice. Palamara ieri non si è sottratto né alle obiezioni né alle domande. Ha anche sostenuto che intende parlare, di questo e altro, se sarà convocato, dinanzi alla Prima commissione del Csm e alla commissione antimafia. Ha aggiunto: “La condanna di Woodcock a mio avviso è stata un segnale. La mia è solo una valutazione ma ritengo che si trattò di un segnale per dire: ‘smetti di fare le indagini in quel modo’”. Se gliene chiediamo conto è per via di una frase scritta nelle sue chat: quando nel 2019 Woodcock viene condannato, commentando con un collega la sentenza, Palamara scrive: “Segnale per lui”. Adesso sappiamo cosa Palamara intendesse con quelle parole. Ma andiamo avanti.Nel luglio 2017, quando era nella Prima commissione del Csm, competente sull’eventuale incompatibilità ambientale di Woodcock a Napoli, riferisce in diretta all’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, l’andamento delle audizioni. E Woodcock era indagato (poi sarà prosciolto) proprio dalla procura guidata da Pignatone, per rivelazione del segreto d’ufficio per le fughe di notizie sui primi scoop del Fatto sull’inchiesta Consip. Ieri Palamara ha spiegato: “Nei mesi precedenti, prima dell’indagine, ero stato a cena con Pignatone e Luca Lotti”. A detta di Palamara le cene con poche persone si sarebbero tenute a casa dell’avvocato Paola Balducci. Poi Lotti sarà indagato nell’inchiesta Consip, con l’accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto. Palamara continua: “In quel periodo parlo con Pignatone anche dell’arrivo del fascicolo Consip che riguardava Lotti”. Quindi giunge al suo ruolo al Csm: “All’epoca ero vice presidente della Prima commissione del Csm e tra i miei compiti c’era quello di indagare su fughe notizie che avevano riguardato i fascicoli Cpl Concordia e Consip. Già dal 2016, sia in virtù della mia provenienza dalla procura di Roma, sia per il mio ruolo, c’era un’interlocuzione con Pignatone. L’iscrizione di Woodcock nel registro degli indagati mi lasciò molte perplessità: indagava su Consip ed era indagato dall’ufficio con cui si coordinava. Ne discutevo con Pignatone, con il quale c’era un confronto costante, anche in riferimento a quel che accadeva in prima commissione. L’iscrizione aveva alterato i rapporti tra gli uffici di Napoli e Roma e c’era molta attenzione a comprendere quel che avveniva nelle audizioni”.
Abbiamo chiesto al procuratore Pignatone se sul punto volesse precisare qualcosa ma ha preferito non replicare. A Palamara abbiamo chiesto conto anche di una chat agli atti. Perché il consigliere Lucio Aschettino gli scrive “Così Francesco (Cananzi, membro del Csm, ndr) fotte Sirignano (Cesare, magistrato che con Woodcock era titolare del fascicolo Cpl Concordia, ndr) io per questo non ho posto l’accento”? E perché Palamara gli risponde: “Non preoccuparti correggo io”? “Fottere” o non “fottere” Tizio o Caio è il modo corretto di condurre un’audizione? Palamara risponde: “L’indagine che facciamo è per capire se ci fu una fuga di notizie da parte dei magistrati di Napoli”. La fuga di notizie teorica non c’era però. Lo scoop del Fatto su un’intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della GdF Michele Adinolfi, infatti, “Non era un notizia riservata e segreta” spiega Palamara “perché era allegata all’informativa su Cpl Concordia. (…) Aschettino in sostanza mi dice: ‘occhio, che se Cananzi fa queste domande, cioè va verso questa direzione, mette nei guai Sirignano, che avrebbe dovuto evitare che la notizia diventasse pubblica da titolare del fascicolo’”.
Non era un'invenzione di Palamara. Melillo conferma che l’intercettazione su Woodcock esiste, ma è stata nascosta. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. L’intercettazione “bomba” che doveva servire per stoppare il procedimento disciplinare nei confronti di Henry John Woodcock esiste. Non è una invenzione di Luca Palamara. Lo ha confermato il procuratore di Napoli Giovanni Melillo al quotidiano La Verità. La circostanza era stata rivelata dall’ex presidente dell’Anm nel libro-intervista Il Sistema. «Il 5 luglio del 2018 – racconta Palamara ad Alessandro Sallusti – Giuseppe Cascini (esponente di punta della sinistra giudiziaria e all’epoca, prima di essere eletto al Csm, procuratore aggiunto a Roma, ndr) mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare». Il pm napoletano era a processo davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli per fatti relativi all’indagine Consip. «Ci incontriamo – prosegue Palamara – al bar Settembrini a Roma e (Cascini) mi parla di una intercettazione tra Legnini e Pomicino» in cui il vicepresidente del Csm «parla molto male del pm napoletano». Woodcock, in possesso dell’intercettazione, sarebbe «intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti». Il procedimento disciplinare, arrivato alle battute finali e pronto per la sentenza, subirà un rinvio e sarà concluso solo nella primavera del 2019, quando Legnini aveva terminato il mandato al Csm. Questi i fatti. Chiamato in causa, Cascini aveva affermato di non aver «mai saputo della esistenza di una intercettazione tra Legnini e Cirino Pomicino nella quale si parlava di Woodcock». «Non posso – aveva aggiunto – aver parlato con Palamara di una intercettazione della quale ignoravo (e ignoro) l’esistenza». «Non parlo con Woodcock da anni e certamente non mi ha riferito il contenuto di una intercettazione del genere. Ignoro quale interesse potessi avere io a veicolare a Palamara un messaggio del genere», aveva poi aggiunto. L’intercettazione “ambientale” riguardava un colloquio avvenuto nel 2016 fra Cirino Pomicino e l’imprenditore Alfredo Romeo, indagato dalla Procura di Napoli nel procedimento Consip. L’ex ministro si era rivolto nei mesi scorsi a Melillo per avere informazioni ma il procuratore di Napoli non aveva mai voluto dire nulla. Sono stati, dunque, più fortunati i giornalisti de La Verità. «È compresa fra gli atti trasmessi alla Procura della Repubblica di Roma al fine delle indagini relative ai delitti di competenza di quel Tribunale», ha fatto sapere Melillo. Per capire, però, come mai questa intercettazione, dopo essere finita a Roma, sia rimasta chiusa in questi anni in qualche armadio della Procura, è necessario tornare alla sera del 20 dicembre del 2016 quando i carabinieri del Noe, su delega di Woodcock, stanno interrogando a Roma Luigi Marroni, l’ex amministratore delegato della centrale acquisti della Pa. Nell’interrogatorio Marroni sta ammettendo di aver ricevuto ben quattro soffiate sull’indagine e sul fatto che fossero in atto intercettazioni telefoniche con microspie collocate nei propri uffici. Marroni dice di averlo saputo parlando con il deputato Luca Lotti, con il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, con il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua Filippo Vannoni, e con il presidente di Consip Luigi Ferrara, a sua volta informato dal numero uno dell’Arma Tullio Del Sette. Quest’ultimo, per tale rivelazione, è stato condannato il mese scorso a 10 mesi di reclusione. L’ex ad aveva fatto bonificare il proprio ufficio, rimuovendo le microspie. Sfumata l’indagine gli inquirenti avevano deciso di sentirlo. Mentre i carabinieri e Woodcock stanno finendo di interrogare Marroni, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sta iniziando la cena per gli auguri di Natale con gli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli e i vertici della Guardia di finanza della Capitale. Ielo, a metà della cena, riceve la telefonata di Woodcock che lo informa di questa attività investigativa da cui emergono elementi su una fuga di notizie che sarebbe stata causata dal comandante generale dell’Arma e da un esponente apicale del governo. Ielo avverte Pignatone e gli dice che la cosa migliore da fare sarebbe recarsi dai carabinieri. Pignatone non è d’accordo ma Ielo decide di andare lo stesso. Arrivato al Noe, Ielo legge il verbale delle dichiarazioni di Marroni e concorda con l’ipotesi di reato avanzata da Woodcock nei confronti di Lotti e Del Sette, sottolineando che la competenza sarà della Procura di Roma. Il giorno successivo, il 21, alle ore 18 per l’esattezza, Woodcock si reca a piazzale Clodio e consegna nelle mani di Pignatone il fascicolo, verosimilmente anche con l’intercettazione ambientale in questione che, però, non verrà mai depositata alle parti e rimarrà patrimonio di conoscenza in questi anni solo degli inquirenti. Per la cronaca, il 22 dicembre del 2016, Il Fatto Quotidiano aprirà il giornale con lo scoop sull’indagine Consip.
Il pallone ha un ruolo centrale. Chat e calcetto con Palamara, Prestipino e la promozione di Cascini Jr. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. «Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire i curricula», disse, sommerso dalle critiche, Giuliano Poletti, allora ministro del Lavoro del governo Gentiloni. Leggendo la chat fra Luca Palamara e Francesco Cascini, fratello minore del più famoso Giuseppe, il togato del cartello progressista Area al Csm, il pallone ha un ruolo centrale. Ma iniziamo dalla fine. Cascini junior è stato recentemente nominato dal procuratore Michele Prestipino a far parte della Dda di Roma. Anche se la Cassazione ha smontato l’unica indagine per mafia che era stata fatta in pompa magna nell’Urbe da Giuseppe Pignatone, il suo predecessore e ora numero uno del Tribunale pontificio, Prestipino ha deciso di rinforzare comunque con tre nuove risorse la Dda di piazzale Clodio. Per far parte dell’antimafia romana era necessario, come da circolare, essere in possesso di “specifiche attitudini” e particolari “esperienze professionali”. Gli aspiranti dovevano aver svolto nella loro carriera procedimenti per reati di “criminalità organizzata”, essersi occupati di “misure di prevenzione antimafia”, aver avuto “rapporti con autorità investigative straniere ed esperienze professionali extragiudiziarie attinenti la criminalità organizzata”. Dulcis in fundo, aver redatto “pubblicazioni scientifiche” sulla materia. L’incarico di pm antimafia dura otto anni ed è molto ambito essendo titolo preferenziale per poter diventare procuratore. Tra i magistrati scelti, oltre a Cascini junior ci sono le pm Margherita Pinto e Maria Teresa Gerace: come scrive Prestipino, hanno maturato una vasta esperienza nel contrasto delle mafie, avendo lavorato a lungo in Procure calabresi. La dottoressa Gerace, in magistratura dal 2002, ha battuto la concorrenza di colleghi con maggiore anzianità di servizio, come Pietro Pollidori di oltre dieci più anziano. Torniamo, però, a Cascini junior. Il magistrato è stato a lungo, dal 2007 al 2018, fuori ruolo: prima dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e poi, in qualità di capo, al Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia. A via Arenula, per un periodo, è stato anche vice capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd). Cascini junior condivide con Palamara la grande passione per il pallone. I due si sentono spessissimo per organizzare partite di calcio e di padel nei centri sportivi dei Parioli. Fra i circoli preferiti c’è quello prestigioso dell’Aeronautica militare. Palamara, “malato” di pallone, ha anche creato un “clone” della Nazionale italiana magistrati di calcio, la Nazionale magistrati, senza “italiana”. Fra una nomina e l’altra organizza per le toghe tornei e partite senza soluzione di continuità. Un match degno di nota è quello fra “Procura Roma” e “Fuori ruolo”. I magistrati fanno la fila per giocare nella sua rappresentativa. Marco Mescolini, nominato procuratore di Reggio Emilia, gli regalerà la maglietta con su scritto “Pal Re di Roma”. Come Francesco Totti o prima di lui Paolo Roberto Falcao. Esaurito il bonus decennale per rimanere fuori ruolo, Cascini junior nel 2017 ha fatto domanda per la Procura di Roma. Scrive Cascini jr a settembre del 2017: «Luca ho mandato l’integrazione, sai qualcosa? Grazie». Palamara risponde: «Ti aggiorno tra poco». Cascini jr: «Ma secondo te come si mette?». «Sto cercando di rimetterla a posto, sono fiducioso», dice Palamara. Cascini jr: «Grazie mille Luca speriamo bene al plenum». «Speriamo bene», risponde Palamara. Cascini jr: «Grazie davvero senza di te non avevo speranze». Palamara: «Devo tenere a bada la San Giorgio (Maria Rosaria, togata di Unicost, la corrente di Palamara ed ora eletta giudice della Corte costituzionale, ndr)». Cascini: «Villani (Carlo, l’altro magistrato che ha fatto domanda per Roma, ndr) sta al Dap con il virtuale rientra quando vuole. Non danneggio nessuno ed è solo un fatto formale». Passa qualche giorno e Palamara scrive: «Sta andando bene in Commissione». Cascini: «Meno male grazie sai quando va in Plenum?» Palamara: «No ancora è combattuta in Commissione (la Terza, competente per i ‘tramutamenti’, ndr)». «Ma non è già passata 3 a 3?», domanda Cascini. Palamara lo gela: «Stanno discutendo di nuovo». Per poi aggiungere: «Passato in Commissione». Cascini, sollevato: «Grazie Luca, grazie davvero». Palamara, in trance da chat, aveva scritto anche a Cascini senior: «Ora in terza (Commissione, ndr) a difendere tuo fratello». E poi: «Francesco ok». «Grazie Luca», la risposta di Cascini senior, all’epoca procuratore aggiunto a Roma. Che cosa era successo? Perché ci fu una discussione “combattuta” in Commissione? E perché la togata San Giorgio venne ‘tenuta a bada’ a Palamara? L’ex zar delle nomine non ha fornito risposte. Per la cronaca, dopo che i giornali diedero la notizia, il 30 maggio del 2019, dell’indagine per corruzione a carico di Palamara, nata da una nota inviata a Perugia anche da Cascini senior l’anno prima, Cascini jr scrisse: «Luca mi dispiace per tutto quello che sta accadendo. Un abbraccio». «Grazie di cuore Ciccio. Ti voglio bene. Non merito tutto questo», la risposta di Palamara all’amico e compagno di tante partite.
Area: “Il libro di Palamara? Una congiura contro le toghe di sinistra”. Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Pubblichiamo qui di seguito un documento elaborato dalla corrente “AREA DG” della magistratura, e cioè dal gruppo di magistrati che recentemente si sono staccati da Magistratura democratica in polemica con le posizioni polemiche con Davigo prese dalla maggioranza di Md e con la scelta di Santalucia alla guida dell’Anm. I principali e i più celebri magistrati che hanno dato vita a questa nuova corrente sono Giuseppe Cascini, Luca Poniz, Eugenio Albamonte, Anna Canepa. Il documento è di asperrima polemica col libro di Luca Palamara e coi giornali (per la verità pochi pochi) che ne hanno parlato. Da giorni è in atto una campagna di screditamento della magistratura, delle istituzioni giudiziarie e delle più alte cariche istituzionali del Paese, condotta attraverso il libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, la cui pubblicazione e i cui contenuti sono stati rilanciati e amplificati attraverso passaggi televisivi e organi di stampa. Con questa operazione si cerca di accreditare una fantasiosa ricostruzione secondo cui da oltre vent’anni la magistratura progressista, attraverso il controllo delle cariche apicali della magistratura e delle più importanti Procure, e in combutta con l’occulta e sapiente regia della Presidenza della Repubblica e, in particolare, del Presidente Giorgio Napolitano, avrebbe pilotato, condizionato e strumentalizzato a fini politici le iniziative giudiziarie da un lato indirizzandole contro alcuni leader politici, dall’Onorevole Berlusconi, all’Onorevole Renzi e fino, da ultimo, all’Onorevole Salvini, in quanto avversari e invisi al Partito democratico e dall’altro avrebbe agevolato il Governo Prodi, mettendolo al riparo da azioni giudiziarie che ne avrebbero pregiudicato l’immagine. Un sistema, secondo gli autori, che attraverso il controllo delle nomine avrebbe consentito l’eterodirezione dell’azione giudiziaria e la sua strumentalizzazione a fini politici. L’operazione è condotta attraverso una narrazione capziosa e strumentalmente orientata, intrisa di clamorose falsità – alcune delle quali già documentalmente accertate – mezze verità e reticenze, millanterie, allusioni e accostamenti maliziosi, secondo una tecnica di diffamazione a mezzo stampa ben nota e sanzionata nelle aule giudiziarie, con cui Luca Palamara confessando, con sconcertante disinvoltura, la commissione di gravissime condotte, contrarie a un corretto esercizio delle proprie funzioni, cerca di costruire il teorema che non regge al confronto con la logica e la storia. Perché nel pretendere di ricostruire secondo una lente deformata la storia giudiziaria italiana degli ultimi vent’anni, il libro intervista prende in considerazione numerose vicende giudiziarie che hanno interessato imputati eccellenti, omettendo di spiegare che quelle inchieste sono state istruite lungo un ampio arco temporale, dalle più diverse procure della Repubblica, nelle quali vi hanno lavorato molti magistrati e sono state decise da altrettante Corti composte da dirigenti e magistrati della più varia ed eterogenea estrazione ed orientamento. Tanto che appare estremamente fantasioso che possano tutti esser stati condizionati nelle loro determinazioni da un unico manipolatore, fosse anche collocato ai più alti vertici istituzionali. In questo contesto deformato, i magistrati tutti – dirigenti, inquirenti, giudici civili e penali – salvo qualche eccezione faziosamente selezionata, farebbero parte di un sistema che li accomuna nella loro permeabilità alle pressioni politiche esercitate dai partiti della sinistra, nell’essere proni ai loro interessi e disponibili a svendere la funzione, la loro autonomia e indipendenza, non si comprende neppure bene per quale tornaconto. Il libro e il teorema che con esso si pretende di dimostrare, costituiscono, all’evidenza il punto di convergenza di un coacervo di interessi privati non certo commendevoli. Quello personale di Luca Palamara rivolto da un lato, a lucrare un ricollocamento in politica come da lui stesso appalesato, dall’altra a screditare tanto la Procura generale, quanto il C.S.M. che ne hanno determinato in sede disciplinare l’espulsione dall’ordine giudiziario e la destituzione, nonché nei confronti degli organi inquirenti e giudicanti competenti nell’ambito delle inchieste che lo vedono tuttora al centro di accuse di corruzione e altri reati. Ma vi è anche l’oggettivo interesse, convergente, di indagati e imputati, alcuni anche condannati in via definitiva, coinvolti in inchieste giudiziarie di grande risalto mediatico, a riscrivere, mistificandola, la storia giudiziaria del nostro Paese, per accreditare l’idea presso l’opinione pubblica di una azione inquirente etero diretta dalla politica e di una giurisdizione di parte. A fare le spese dell’intera operazione non sono solo i singoli, i gruppi della magistratura associata e coloro che, specificamente coinvolti, hanno già depositato querele o si apprestano a proporle e a intraprendere azioni in sede civile per le accuse gravemente diffamatorie e calunniose contenute nel libro-intervista, ma l’intera magistratura. Per perseguire gli interessi personali di chi ha ordito questa operazione, infatti, si delegittima e si disonora l’intero corpo giudiziario, spargendo un discredito che attinge tutti, accomunando la parte sana della magistratura a coloro che hanno strumentalizzato la loro funzione. In tal modo si restituisce una immagine complessiva della magistratura del tutto lontana dalla realtà che rischia di determinare una generalizzata perdita di fiducia agli occhi dell’intera comunità. Certamente esiste ed è sotto gli occhi di tutti una grave caduta etica che ha colpito profondamente l’autogoverno della magistratura piegato, dalle correnti e dai potentati personali che hanno operato in esse, a strumento di clientela e di favoritismo consortile; ma il libro intervista, lasciando sullo sfondo l’inchiesta di Perugia e le vicende connesse e omettendo intenzionalmente la narrazione di fatti che coinvolgevano persone che si è ritenuto conveniente non esporre, non contribuisce minimamente ad individuare le cause, le relative responsabilità ed i necessari indifferibili rimedi. Questa narrazione interessata non serve ai magistrati italiani; non serve a migliorare l’autogoverno, non serve al processo di rifondazione etica che, a partire dalla giunta uscente, è stata avviata dall’A.n.m. e viene ora portata avanti con convinzione. L’Associazione nazionale magistrati, i suoi aderenti e i gruppi associativi si sono impegnati in un processo di rinnovamento etico che passa attraverso l’indagine disciplinare ormai avviata, ma impone anche una profonda riflessione sulle cause che quella caduta hanno determinato e sugli strumenti idonei a prevenirla. Tale processo deve proseguire, lungo la strada che la stessa Associazione ha tracciato, per l’accertamento delle violazioni deontologiche, ma anche per contrastare il carrierismo e recuperare il senso e l’orgoglio di essere quel che la nostra Costituzione ci ha reso: semplici magistrati, che si distinguono tra loro solo per funzione, che svolgono in modo autonomo e indipendente il loro lavoro per la tutela dei diritti e delle garanzie dei cittadini, che non si rendono strumento di manipolazione esterna ne vittime di condizionamenti nell’esercizio delle loro funzioni.
E se ogni tanto qualcuno di voi si dimettesse? Il documento di Area? Poco convincente, ecco perché. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. C’è qualcosa di poco convincente nel documento di “Area” che pubblichiamo qui. Almeno quattro cose, francamente, non mi convincono. La prima riguarda la denuncia della campagna di stampa, la seconda riguarda le responsabilità dei magistrati di Md, la terza riguarda la critica al libro di Palamara, la quarta riguarda il potere nelle Procure.
1) È in corso una campagna di stampa contro la magistratura? Beh, non posso immaginare che i magistrati che hanno steso questo documento lo credano davvero. Altrimenti dovrei pensare che la loro percezione della realtà sia molto molto ridotta. E siccome è affidata al loro giudizio la vita di molti imputati, mi preoccupo seriamente. Vediamo un po’. Faccio qualche esempio. Ci fu un ministro che si dimise su due piedi perché i giornali urlarono in prima pagina, e le Tv in apertura dei telegiornali, la notizia che un signore, indiziato, aveva regalato un orologio a suo figlio. Poi il signore indiziato fu assolto. Ma il ministro pagò severamente la campagna di stampa contro di lui. Condotta non dai piccoli giornali ma dai giornali importanti, tutti, compatti. Oppure vogliamo parlare delle settimane nelle quali l’intero dibattito politico, guidato dal Fatto con al seguito grandi quotidiani e Tv, fu centrato su una casa legittimamente comprata da Matteo Renzi a Firenze? Oppure preferite che vi riassuma brevemente il caso Ruby e che faccia un rapido conto dei titoli cubitali in prima pagina su Berlusconi stupratore? Forse 200, forse 400. Assolto. Amici magistrati, tranne il Riformista, la Verità e Il Giornale, se non sbaglio, nessun quotidiano ha riportato in prima pagina la notizia dell’uscita del clamoroso libro di Palamara. Né tantomeno, nei mesi precedenti, i giornali avevano scritto in prima pagina qualche riga sui tanti whatsapp di Palamara che offrivano la prova provata dei clientelismi, delle scorrettezze e degli scambi di potere che hanno determinato la scelta dei massimi vertici della magistratura italiana. Ditemi la verità: se una massa così impressionante di indizi e prove, anziché la vita interna della magistratura, avesse riguardato la vita interna dei partiti, o del parlamento, quanti avvisi di garanzia avreste firmato? E se avesse riguardato la vita delle regioni, o dei grandi Comuni, e la scelta delle giunte, quanti arresti, quante perquisizioni, quanti telefonini e computer sequestrati? Non solo non c’è stata nessunissima campagna di stampa contro la magistratura. C’è stata la più assoluta omertà – sì: omertà – da parte dei mass media, di fronte a quello che anche voi avvertite – e lo lasciate capire nelle ultime righe del vostro documento – come un enorme scandalo che mina alla base la credibilità e l’onore della magistratura. Perché questa omertà? Perché quasi tutto il giornalismo giudiziario, da una ventina d’anni, è completamente subalterno alle Procure. E questa è una delle ferite più gravi al principio della libertà di stampa e spesso anche al corretto funzionamento dello Stato di diritto.
2) Alcuni magistrati hanno pagato per il Palamaragate. Pochi, certo, di fronte alle dimensioni gigantesche dello scandalo, ma qualcuno ha pagato. Hanno dato le dimissioni magistrati appartenenti, mi pare, a tutte le correnti. Tranne una. La vostra. Eppure nei whatsapp e negli Sms di Palamara c’erano episodi non bellissimi che riguardavano anche qualcuno di voi, se non mi sbaglio. Non si è dimesso nessuno. Perché?
3) Voi parlate di omissioni e imprecisioni nel racconto contenuto nel libro di Sallusti e Palamara. Se ci sono vanno corrette. Sarebbe importante però che voi ci diceste quali sono. Finora non avete citato neppure un caso concreto. Le poche smentite arrivate (pochissime) sono apparse molto poco convincenti.
4) Voi dite – riferendovi, mi pare in modo evidente, a Berlusconi – che “quelle inchieste – cito alla lettera – sono state istruite lungo un ampio arco temporale, dalle più diverse Procure della Repubblica, nelle quali vi hanno lavorato molti magistrati e sono state decise da altrettante Corti composte da dirigenti e magistrati della più varia ed eterogenea estrazione ed orientamento”. Giusto. E come sono finite? Una settantina di inchieste. Una condanna (molto discussa anche in magistratura, e sulla quale pende un ricorso a Strasburgo), una cinquantina di assoluzioni o proscioglimenti e una ventina di prescrizioni (generalmente dovute alla rinuncia da parte dei Pm che non trovavano prove). Beh, che dite? A me pare che ci sia qualcosa che non va, in questi numeri. Qualcosa di molto preoccupante se tenete conto del fatto che alcune di queste inchieste hanno provocato terremoti politici. Giusto? Poi voi aggiungete: non siamo noi a controllare le diverse Procure. Vediamo. Le Procure veramente importanti, in Italia, sono tre: Milano, Roma e Napoli. Coi voti di chi, negli ultimi 20 anni, sono stati nominati i Procuratori in queste tre città. Beh, coi vostri… E allora, invece di protestare denunciando una persecuzione contro di voi, perché non prendete in mano la situazione e decidete una indagine seria al vostro interno, e proponete una vasta campagna di dimissioni dai vertici della magistratura, e una riforma seria che dia garanzie non a voi ma ai cittadini? È chiedere troppo? Non riuscite proprio in nessun modo ad uscire da una logica di corporazione e di difesa dei privilegi (anche del diritto alla sopraffazione) per entrare nell’ottica dei giuristi e dei servitori fedeli dello Stato?
P.S. Il ministro Bonafede, si sa, non aveva alcuna autonomia della magistratura, e dunque era impensabile che usasse i suoi poteri per indagare, correggere ed eventualmente punire e rimuovere. Il prossimo ministro si deciderà ad esercitare il suo ruolo e i suoi poteri?
Il Palamaragate e i suoi scandali. Intervista a Clementina Forleo: “Dopo 13 anni il libro di Palamara mi dà ragione”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. La dottoressa Clementina Forleo è una delle tante vittime dei meccanismi di strapotere delle correnti della magistratura: nel libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, Il Sistema, (Rizzoli) il suo nome è citato undici volte a partire dal capitolo “Chi tocca la sinistra è fuori”. E infatti, come è noto, contro Forleo, ex gip al Tribunale di Milano, ora in servizio in quello di Roma, fu emanato un vero e proprio anatema perché osò sfidare, come sostiene Palamara nel libro, sia la procura di Milano, considerata un «monolite, un fortino delle correnti di sinistra, non espugnabile», «sia la sinistra, nella primavera 2007 al governo». Clementina Forleo nel luglio 2008 fu addirittura trasferita da Milano a Cremona a seguito di una decisione del plenum del Csm che rilevò una sua incompatibilità ambientale per le dichiarazioni rese alla trasmissione di Michele Santoro Annozero sui «poteri forti» i quali, anche per il tramite di «soggetti istituzionali», avrebbero interferito nelle sue funzioni, proprio mentre da gip si stava occupando dell’inchiesta Bnl-Unipol. Il Tar prima e il Consiglio di Stato poi accolsero i ricorsi di Forleo che fu reintegrata a Milano. Prima ancora era stata assolta dalla sezione disciplinare del Csm dall’accusa di aver violato i suoi doveri per i contenuti dell’ordinanza con la quale, nel luglio del 2007, chiese alle Camere l’autorizzazione all’uso di intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari, tra cui D’Alema, Fassino e Latorre nell’ambito della stessa vicenda. Insieme ad oltre cento colleghi, Forleo ha firmato qualche giorno fa una lettera in cui si chiede al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al togato del Csm Giuseppe Cascini, di «smentire in modo convincente» il racconto di Luca Palamara che li ha chiamati in causa direttamente. In questa intervista ci tiene non tanto a fare la diagnosi del male che ha infettato la magistratura quanto a proporre una cura in un dialogo con la politica.
Dottoressa Forleo, Palamara nel suo libro l’ha definita “l’eretica” che ha osato sfidare certi poteri. Alla luce di quanto venuto fuori in questo ultimo anno e mezzo cosa si sente di dire?
«Non ho sfidato nessuno, semmai è stato qualcun altro a sfidare me, o meglio il mio operato e con esso l’autonomia e indipendenza della magistratura, senza evidentemente immaginare che a distanza di anni e grazie a un trojan inoculato nel cellulare di uno dei protagonisti di quella e di altre vicende, si potesse pervenire ad una confessione su quanto realmente accaduto. Io ho fatto quello che avrei fatto con qualunque altro potenziale indagato, mettendo inevitabilmente nero su bianco che l’autorizzazione a utilizzare le conversazioni intercettate era necessaria anche per consentire l’iscrizione nel registro degli indagati di taluni parlamentari che all’evidenza risultavano complici dei reati contestati, dato che l’unico elemento a loro carico era costituito da quelle conversazioni. È evidente che l’iscrizione avrebbe dovuto farla l’Ufficio del pm, come è altrettanto evidente che si sarebbe trattato di atto dovuto per il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e ciò a prescindere dallo sviluppo successivo del procedimento. Tanto poi non è accaduto, nonostante il Parlamento avesse dato il via libera all’iscrizione, ma io ormai ero stata spedita a Cremona per “deficit di equilibrio”: cosi si giunse a scrivere in quella vergognosa pagina della magistratura italiana. Ora il dottor Palamara ci fa comprendere senza mezzi termini perché dunque costituivo un “pericolo” e che era necessario spostarmi “di peso” in altra sede. Non mi rimane che ringraziare il tempo, che è sempre galantuomo».
Fabrizio Cicchitto ha dichiarato che la sua vicenda, come quella di altri suoi colleghi, mette in evidenza «che nel sistema non c’era solo una sistematica intesa fra le correnti per l’assegnazione dei vari incarichi nella magistratura ma anche almeno dal ‘92-94 fino al 2013 uno scientifico uso politico della giustizia che scientificamente privilegiava la sinistra sia sul terreno dell’attacco sia sul terreno della difesa». È d’accordo?
«Posso solo dire che mentre negli anni novanta l’attacco al magistrato libero proveniva solo dall’esterno, ossia dal potere politico, dal 2007 in poi i veri attacchi sono arrivati dall’interno della magistratura associata. Che poi tali attacchi abbiano colpito chi si stava occupando di certe forze politiche “vicine” a certa parte della magistratura, è storia. In altri termini, è saltato il principio costituzionale sancito nell’art.101 anche per volere di alcuni vertici dell’ordine giudiziario».
Il professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: «Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione del giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento». Quanto siamo distanti da ciò in questo momento?
«Nonostante l’impegno dei tantissimi colleghi che amministrano la giustizia nell’unico interesse di rendere un servizio al cittadino, quanto è accaduto a seguito dell’attivazione di quel trojan e a seguito della pubblicazione degli innumerevoli messaggi rinvenuti sul telefono del dottor Palamara ci porta a concludere che siamo lontani anni luce da quel modello di cui parla il professor Manes».
Qualcuno vuole ridurre Palamara a capro espiatorio. Lei cosa ne pensa?
«Spero che si faccia chiarezza al più presto su quello che è emerso dall’indagine di Perugia e che il dottor Palamara non sia il solo a pagare, rappresentando all’evidenza uno dei tanti anelli di quella che altri colleghi anche su queste pagine, hanno definito “cupola”.
La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. La magistratura è davvero pronta ad intraprendere il cammino di redenzione o sono solo messaggi di facciata? A suo parere, come si può sconfiggere il “sistema”?
Proprio per il carattere diffuso delle patologie emerse, che hanno investito anche i vertici del potere giudiziario (alcuni dei quali com’è noto, sono stati costretti a dimettersi), ritengo che la cura non possa che provenire dall’esterno. Penso ad una commissione parlamentare d‘inchiesta ma penso soprattutto ad una riforma che sottragga l’organo di autogoverno al potere delle correnti, che da centri di confronto culturale si sono via via trasformati in centri di spartizione clientelare del potere, giungendo ad essere complici dell’isolamento del magistrato che osava ed osa pensarla diversamente. Per riacquistare credibilità e per avere la garanzia di magistrati davvero autonomi e indipendenti, io ed altri sempre più numerosi colleghi chiediamo quindi che i componenti del Csm siano eletti in base a candidature non controllate dalle correnti, ma costituite da magistrati estratti a sorte in base a dei criteri prestabiliti, escludendo ad esempio i magistrati più giovani e quelli con censure disciplinari. Ancora, e mi riferisco alle proposte del movimento “Articolo 101”, penso anche a un sistema di rotazione degli incarichi direttivi tra i più anziani del singolo ufficio. Era il 2008 quando dicevo che se non si è “sostenuti” da una corrente non si può aspirare a nessuna nomina, a nessun incarico: già allora ero l’”eretica”, la “donna dai facili applausi” come qualche signore della magistratura associata mi definì con toni, a mio avviso, misogini. A distanza di oltre dieci anni, la nuda realtà emersa dalla messaggistica del telefono del dottor Palamara, oltre che dalle sue stesse parole, mi conferma che non avevo vaneggiato».
Nessuna riforma è possibile senza la volontà politica: secondo Lei avrà finalmente questo coraggio?
«Penso che sia venuto il momento che anche la classe politica tutta “prenda coraggio”, anche nel suo stesso interesse, onde evitare che – come si è visto anche in noti messaggi sempre estratti dal telefono del dottor Palamara e concernenti l’allora Ministro dell’Interno – alcune forze politiche possano essere danneggiate dalla “vicinanza” di taluni vertici del potere giudiziario a forze politiche di segno opposto».
Lei in passato, parlando della sua vicenda, ha detto: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Crede che adesso ci sarà più solidarietà tra voi colleghi danneggiati o il sistema fa ancora paura e nessuno si esporrà?
«Ora come allora mi fa paura il “silenzio degli onesti”, ossia dei tantissimi magistrati perbene che per i più vari motivi non osano mettersi contro il “sistema”. Capisco i più giovani e i loro timori, ma mi rimane incomprensibile il silenzio di chi non ha nulla da temere. Qualcuno ci accusa di fare il gioco del “nemico” e di contribuire a gettare fango sulla categoria: mi chiedo, ironicamente, a quale “nemico” e a quale “tipo” di fango ci si riferisca. Concluderei lanciando un messaggio ai giovani colleghi e citando una famosa frase di Indro Montanelli: «Non esitate a lottare per quello in cui credete. Perderete, come ho perso io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne: quella che ingaggerete ogni mattina di fronte al vostro specchio»».
Clementina Forleo: no, la legge non è uguale per tutti. di Mariella Boerci il 20/10/2010 su ariannaeditrice.it. Viso e parole affilatissimi nonostante il sorriso e la dolcezza della maternità appena voluta a dispetto dell'anagrafe, Clementina Forleo, 47 anni, non smentisce la sua fama di giudice che non teme di cantare fuori dal coro (per questo, nel 2008, è stata «esiliata» a Cremona) e ricorda che «l'articolo 82 della Costituzione prevede che il Parlamento costituisca una commissione d'inchiesta qualora particolari motivi di interesse pubblico lo ti chiedano».
Smentendo così, indirettamente, chi ha invitato il premier ad «andare a leggersi la Costituzione».
«Non so se la situazione sia tale da richiedere effettivamente una commissione parlamentare d'inchiesta. In alcune regioni però, e soprattutto in certe procure più esposte ai riflettori si sono verificati da parte di alcuni pm eccessi di potere che meriterebbero di essere valutati. A prescindere dal caso Berlusconi».
Susciterà un vespaio...
«Ci sono abituata».
Ma lei è favorevole a una commissione parlamentare?
«Non sono contraria a patto che, accertati i presupposti concreti circa la sua istituzione, ponga poi l'attenzione a 360 gradi su ciò che è accaduto negli ultimi anni, senza fare sconti a nessuno, superpotenti e intoccabili compresi. Io stessa, a quel punto, chiede rei di essere ascoltata perché si indagasse sulla vicenda delle scalate bancarie (che coinvolgeva esponenti del Pd, come Massimo DAlema e Nicola Latorre, ndr) che mi è stata sot tratta tra il maggio e il 29 luglio 2008».
Che cosa lamenta?
«Le carte concernenti la posizione del senatore Latorre, che in seguito alla mia richiesta tomavano dal Senato, stranamente] non arrivarono mai sulla mia scrivania. Finché, approfittando di una mia assenza di sette giorni, dopo oltre due mesi il pm le dissotterrò per inoltrarle «con urgenza» al gip di turno. Questi le rispedì al Senato senza informarmi, mentre ero stata tenuta al corrente di ogni dettaglio anche durante le ferie. Questo salvò Latorre. Se invece le carte fossero arrivate a me, che ero il giudice naturale; le avrei inoltrate al pm affinché decidesse se avviare o meno un procedimento, come già avevo fatto per D'Alema. Ritengo che questa sia una delle pagine più nere della giustizia e della storia del nostro Paese. Per questo richiede chiarezza».
Per questa vicenda Anna Finocchiaro l'ha appena querelata.
«Le ho risposto con una denuncia per calunnia. Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato ed ex magistrato, mi querela oggi per una vicenda che risale atre anni fa e riguarda un «summit» che si tenne nel suo ufficio per avviare un procedimento disciplinare contro di me, come poi effettivamente accadde, perché stavo per depositare la trascrizione di conversazioni imbarazzanti che vedevano coinvolti, suoi compagni di partito. Il punto è che le dichiarazioni per cui mi si querela, mai smentite, sono state rilasciate tre anni fa alla procura di Brescia dall'ex senatore Ferdinando Imposimato. Non sono io da querelare».
Vuole dire che la giustizia non è uguale per tutti?
«Lo dico da magistrato e ad alta voce: la legge non è uguale per tutti. Prendiamo il caso della pm barese Desirèe Digeronimo: attaccata in modo violento da Nichi Vendola, per le indagini che stava svolgendo, anche a suo carico, nessuno è intervenuto in sua difesa o ha aperto una pratica a tutela. Zero! Mentre se si prova a toccare un pm di Mani pulite o di Caltanissetta o di Palermo, che si sta occupando di un possibile coinvolgimento del premier nella stagione delle stragi si assiste a una levata generale di scudi e alla mobilitazione del Consiglio superiore della magistratura e dell'Associazione magistrati. E magari all'intervento di Antonio Di Pietro, il quale, silente sui due episodi che ho esposto, ha ripetuto più volte che si deve abbattere Berlusconi «anche scendendo a patti con il diavolo». L'affermazione mostra che l'ex magistrato Di Pietro vive l'avversario politico come un nemico da abbattere, con qualsiasi mezzo. Purtroppo un problema della giustizia è dato da certe frange del potere giudiziario che insorgono o tacciono a seconda di un interesse politico».
Secondo lei, un magistrato non dovrebbe fare politica?
«No, se non togliendosi definitivamente la toga. Per difendermi mi è stata offerta una candidatura e nonostante la consapevolezza che questo avrebbe potuto liberarmi da tanti problemi, per due volte ho rifiutato. Voglio continuare a fare il giudice e credo di poterlo fare ancora con passione, autonomia, serenità».
Che rosa c'entra la serenità?
«Guai a mancare di serenità rispetto ai casi che si trattano. Ecco perché certi pm, che si occupano sempre dei medesimi indagati, a un certo punto dovrebbero fare un passo indietro. A meno che non ci sia una connessione oggettiva fra i vari procedimenti, non dovrebbe essere possibile essere titolari a vita di indagini contro la stessa persona: perché ciò intacca la serenità nel sostenere l'accusa o l'immagine di serenità che anche un pm'deve garantire».
La magistratura non è una casta? Guai a parlare di riforme, a toccare gli stipendi, a chiedere un trasferimento...
««Non sono una che difende la casta, ma sui trasferimenti spezzo una lancia per la categoria: non bastano gli incentivi economici per invogliare un magistrato d'esperienza asportarsi in una sede disagiata. Serve anche un incentivo professionale, la garanzia di non essere destinato a smaltire l'arretrato, od occuparsi di fatti marginali».
Non ha detto una parola sulla riforma della giustizia.
«Ne ho dette tante, invece: è indispensabile. A partire dal Csm, che deve essere liberato al più presto dal sistema correntizio. Occorrono regole diverse dall'elezione e quindi una riforma costituzionale, per nominare i componenti del Csm evitando che si istauri una sorta di voto di scambio tra eletto ed elettore. In seconda battuta è fondamentale la separazione delle carriere. Che non significa, come è stato detto, che il pm deve essere subordinato all'esecutivo, bensì che deve essere messo in concreto nelle stesse condizioni della difesa».
Molti suoi colleghi sono riluttanti.
«Io stessa, quando ho parlato della necessità di riforme in un convegno delle camere penali, sono stata attaccata con estrema violenza da illustri esponenti della magistratura associata e si sono permessi addirittura di offendermi, visto che la libertà di certe espressioni è loro concessa, mentre ad altri non concedono neppure la libertà di opinione. Via dunque a questa riforma. Altrimenti sarà il massacro della giustizia».
Palamara: “C’era un’intercettazione Legnini-Pomicino su Woodcock. Chiesi conferma a Pignatone già nel luglio 2018”. Il Fatto Quotidiano l'1 febbraio 2020. “Il 4 luglio del 2018, cioè il giorno prima di una delle udienze del disciplinare a Woodcock, ebbi modo di parlare con Cascini, non con delle chat, ci fu un incontro. In quell’occasione c’era molta tensione anche all’interno dell’ufficio di Roma”. Lo ha detto l’ex pm Luca Palamara, in occasione dell’incontro con Marco Lillo e Antonio Massari. Durante il dibattito – trasmesso in diretta sui canali del fattoquotidiano.it – sono stati messi a confronto “Il Sistema”, il libro-intervista di Alessandro Sallusti a Palamara, con il saggio Magistropoli di Antonio Massari (Paper First). L’ex magistrato ha raccontato particolari inediti sull’episodio relativo ai retroscena del procedimento disciplinare al Csm contro Henry John Woodcock. Un procedimento sul quale – a sentire Palamara – avrebbe potuto avere un ruolo un’intercettazione di una conversazione tra Giovanni Legnini, all’epoca vicepresidente del Csm, e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, in cui il primo avrebbe espresso giudizi negativi su Woodcock. “Che cosa mi dice Cascini? Mi dice: guarda che voi questo processo non lo potete fare perché c’è un’intercettazione tra Legnini e Pomicino, questo dice, in virtù della quale comunque il processo non potrà essere continuato. Finita questa conversazione, lo ricordo come se fosse oggi, vado da Legnini e lo avviso della notizia che avevo avuto, perché per me poteva essere pure non vera”, sostiene l’ex pm nel suo racconto. E Legnini, sottolinea Palamara, “sbianca, si preoccupa e mi dice ‘sì, è vero, ho parlato con Pomicino e ho espresso dei giudizi negativi su Woodcock“. E così, prosegue Palamara, “nel pomeriggio, e pure su questo vi è traccia sul mio telefonino, contatto l’allora procuratore di Roma e lo raggiungo per chiedergli conferma se è vero o meno dell’esistenza di questa intercettazione. Il procuratore di Roma mi dice ‘guarda che nel famoso riparto di competenze tra Napoli e Roma, quando il fascicolo che riguardava Romeo venne trasmesso a Roma, ci fu una trasmissione di atti che comprendeva delle intercettazioni che abbiamo noi ma che sono rimaste anche a Napolì. Questa fu la risposta che mi diede. E fu la risposta che riconsegnai a Legnini”. Si trattava, spiega Palamara, “di un colloquio tra Legnini e Pomicino all’esito del quale Pomicino è andato nell’ufficio dell’intercettato, che era l’imprenditore Alfredo Romeo, e gli aveva rivelato il contenuto del colloquio che aveva avuto con Legnini”. Questo, aggiunge Palamara, “non c’è negli atti, c’è traccia delle mie telefonate con Pignatone, è il 4 luglio del 2018, e dei miei messaggi con Palazzi, il 4 luglio del 2018, e del fatto che il dottor Pignatone chiamò subito Legnini per relazionarlo di quanto accaduto. Questo è quello che racconto io specificando il perché il 28 maggio del 2019 parlo con Legnini in quel modo”.
Rivedi la diretta completa di Marco Lillo con Luca Palamara, in libreria con Il Sistema (Rizzoli) scritto con Alessandro Sallusti, e Antonio Massari, autore del libro Magistropoli (Paper First).
Ciclone Palamara, l’Anm: «Oltre 60mila pagine di chat all’esame dei probiviri». Il Dubbio il 6 febbraio 2021. In «tempi rapidissimi» il collegio dei probiviri dell’Anm «procederà all’acquisizione» delle «oltre 60mila pagine di chat del cellulare di Palamara», annuncia il segretario del sindacato delle toghe, Salvatore Casciaro. «Nel libro-intervista dei dottori Palamara e Sallusti, “Il Sistema”, sono rievocati dettagli di esperienze associative e consiliari, commistioni con la politica, pratiche spartitorie, attività di denigrazione dei concorrenti e raccomandazioni, ivi compresa l’attività delle autopromozioni. Altro discredito e un rinnovato vulnus per la credibilità della magistratura». A dirlo è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro, intervenuto in apertura del Comitato direttivo centrale. C’è quindi la necessità di «impostare sulla questione morale una linea d’azione che sia autorevole e credibile» pensando a tutti i magistrati che sono «profondamente sdegnati» da quanto è emerso e continua a emergere dalla vicenda Palamara, spiega Casciaro. «Nell’accertare la veridicità e valutare la conformità di ogni episodio allo statuto etico dell’Anm, è doveroso premettere che non bisogna mai confondere il piano delle responsabilità dei singoli e le degenerazioni del correntismo con ciò che la magistratura italiana esprime e rappresenta – sottolinea Casciaro. Operano quotidianamente negli uffici giudiziari con coscienza ed abnegazione al servizio del Paese e dei cittadini migliaia di magistrati che, colpiti da un così grave discredito, sono i primi ad essere profondamente sdegnati per le inquietanti rivelazioni cui ho fatto cenno». In «tempi rapidissimi», forse «già la settimana entrante», il collegio dei probiviri dell’Anm «procederà all’acquisizione» delle «oltre 60mila pagine di chat del cellulare di Palamara disponibili presso la procura di Perugia», ha detto il segretario del sindacato delle toghe. «I probiviri, che hanno chiesto al comitato direttivo, per poter più efficacemente operare, di potersi dotare di un supporto organizzativo, non potranno ragionevolmente analizzare tutte le condotte disvelate nelle chat rilanciate mediaticamente dal libro intervista di Palamara e Sallusti», sottolinea Casciaro. Secondo il segretario dell’Anm, infatti, «le risorse, non inesauribili, dell’associazione impongono di interrogarci sui criteri di priorità per la trattazione del disciplinare associativo: anche nel corso dell’ultima riunione del collegio dei probiviri – ha riferito – è stato espresso il convincimento che sia opportuno elaborare, dei criteri oggettivi e uniformi per l’individuazione di comportamenti che si ritengano censurabili sotto il profilo deontologico. I colleghi e i cittadini, la cui fiducia intendiamo recuperare – ha concluso Casciaro – si attendono che si avvii subito, con serietà di metodo, un’azione forte per il rilancio della doverosa tensione etica di ogni nostra condotta».
Il retroscena. Le chat di Palamara furono insabbiate poiché erano coinvolti troppi Pm…Paolo Comi su Il Riformista il 29 Dicembre 2020. Come mai le “famigerate” chat di Luca Palamara vennero trasmesse al Csm dopo un anno dallo loro acquisizione? Perché questo ritardo? Si volevano evitare, ad esempio, situazioni d’imbarazzo per alcuni magistrati nel momento in cui la nomina del nuovo procuratore di Roma era tornata in discussione? In attesa di risposta, proviamo a ricostruire quanto accaduto, anche alla luce della “discovery” degli atti dell’ultimo procedimento a carico dell’ex presidente dell’Anm aperto dalla Procura di Perugia, quello per la rivelazione del segreto, avvenuta prima di Natale.
Il 30 maggio dello scorso anno i pm di Perugia che stanno indagando l’ex presidente dell’Anm per corruzione decidono di sequestrargli il telefonino. L’indagine è ormai sfumata a causa di una fuga di notizie: il giorno prima Repubblica, Corriere e Messaggero hanno aperto sull’inchiesta di Perugia a carico di Palamara con tre pezzi “fotocopia”: Repubblica titola: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”; il Corriere: “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”; il Messaggero: “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. Il pm Gemma Miliani, titolare del fascicolo insieme al collega Mario Formisano, ordina allora l’immediata estrapolazione dei dati. Gli avvocati di Palamara avevano presentato una istanza in cui sottolineavano la necessità per il loro assistito «di poter rientrare in possesso nel più breve tempo possibile dell’apparato cellulare in sequestro». Dall’ora di pranzo del 31 maggio gli inquirenti sono in possesso delle chat di Palamara con centinaia di magistrati che chiedevano nomine e incarichi. In quei giorni al Csm, e nella magistratura, sta succedendo di tutto. Mentre i tre quotidiani, con le indagini di fatto ancora in corso, continuano a riportare pezzi di intercettazioni effettuate soprattutto all’hotel Champagne la sera del 9 maggio 2019, a Palazzo dei Marescialli si dimettono cinque consiglieri togati. Ciò determina la modifica dei rapporti di forza fra le correnti, con il gruppo di Piercamillo Davigo che ha la maggioranza. La nomina di Marcello Viola come successore di Giuseppe Pignatone, decisa il 23 maggio precedente in Commissione per gli incarichi direttivi, viene annullata. Anche il presidente dell’Anm Pasquale Grasso, di Magistratura indipendente, è costretto alle dimissioni che avverranno 16 giugno al termine di una drammatica assemblea in cui verrà sfiduciato. Il motivo? Non avrebbe preso le “distanze” dai consiglieri, tre della sua corrente, che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne. In mezzo a questa bagarre le chat di Palamara non restano nel cassetto ma vengono utilizzate per alcuni interrogatori da parte dei pm di Perugia. Come quello del funzionario di polizia Renato Panvino, il capo centro della Dia di Catania. Secondo la Procura era stato incaricato di acquistare un monile, probabile prezzo di una corruzione, per conto di Palamara. L’8 luglio del 2019 Panvino viene interrogato a Perugia. Si legge nel verbale di interrogatorio: “L’ Ufficio da atto di dare lettura di alcuni messaggi sulla chat in atti”. A Panvino gli inquirenti chiedono essenzialmente dei rapporti di Palamara con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Gli inquirenti, poi, sono incuriositi da una chat denominata “DU CAPELLI”. Panvino risponde: «Credo sia Minacapelli così lo chiamava Palamara. Minacapelli è un avvocato amministrativista che mi è sempre sembrata una brava persona». Al termine dell’interrogatorio di Panvino risulteranno allegate le sue chat con Palamara dal 9 agosto 2017 al 29 maggio 2019. Esattamente 267 pagine di chat. Come mai, allora, i contenuti del telefono sequestrato a Palamara, e in possesso degli inquirenti sin dal 31 maggio 2019, non vennero trasmessi al Csm unitamente alle intercettazioni dell’hotel Champagne e alle altre intercettazioni selezionate? Per conoscere i contenuti del telefono sequestrato a Palamara bisognerà attendere fino a maggio di quest’anno. Dopo la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma.
Piero Tony: «Cari magistrati, perché nessuno smentisce Palamara?» Valentina Stella su Il Dubbio il 5 febbraio 2021. «Palamara esagera definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati di cui è vittima la stessa magistratura». Parla Piero Tony, presidente del dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, magistrato per 45 anni. Piero Tony oggi è Presidente del Dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, ma è stato magistrato per 45 anni: giudice Istruttore a Milano fino al 1974, ha istruito tra l’altro il primo procedimento contro le Br di Curcio, Cagol più altri, con l’allora sostituto procuratore Guido Galli; è stato anche sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze fino al 1998, dove chiese ed ottenne l’assoluzione per Pacciani nel processo sul Mostro di Firenze. Componente del Comitato Promotore dell’Unione Camere Penali per la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere, nel 2015 fu autore con Claudio Cerasa di Io non posso tacere (Einaudi), un libro che scosse prima ancora de Il Sistema l’intera magistratura.
Cosa ne pensa del libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti?
«Per quanto riguarda il tema dello strapotere delle correnti, si tratta della scoperta dell’acqua calda. Non c’era bisogno del trojan inoculato nel telefono di Palamara per conoscere quei meccanismi di appartenenza. Li avevo già denunciati molti anni fa quando scrissi Io non posso tacere e fui pesantemente attaccato dall’Anm perché secondo il sindacato avevo scritto cose inesatte. Il tempo mi ha dato ragione, ma la consolazione è magra. Credo che il libro Sallusti-Palamara abbia sicuramente un valore aggiunto perché Palamara, avendo operato per anni nei più profondi meandri dell’organizzazione, può parlare per conoscenza diretta, quasi, absit iniura verbis, come un “pentito” , naturalmente mutatis mutandis quanto a motivazioni. Mi pare anche sicuro che Palamara, operando con questo libro una impietosa dissezione dell’apparato giustizia, ne cancelli forse per sempre, e con effetti imprevedibili, la tradizionale sacralità; che non consiste solo in fictio e paludamenti ma, soprattutto, in valori quali credibilità ed autorevolezza. Per concludere, mi pare anche che esageri definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati e tra loro quantomeno conniventi. Senza sottolineare – proprio in ogni pagina- che del “sistema” di cui parla è vittima estranea la maggior parte della magistratura».
Cosa lo ha colpito di più?
«Palamara racconta dettagli molto convincenti, peraltro al momento non smentiti da nessuno. Quelli che mi hanno colpito maggiormente, per la loro gravità inaudita, riguardano gli asseriti imbrogli per lottizzare e condizionare i processi. I segnali, a dir il vero, c’erano tutti: una persona normale non poteva non chiedersi come mai, ad esempio, per anni una Procura come Milano fosse pressoché concentrata solo su Berlusconi. Ma possiamo anche citare il caso di Giulio Andreotti: sicuramente tanto mafioso da aver baciato un boss? Per non parlare del giudice Corrado Carnevale, “l’ammazzasentenze”, accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso come se il collegio di legittimità fosse monocratico. L’inchiesta durò circa dieci anni, venne condannato ed alla fine assolto. Furono costretti a tenerlo a lavorare fino a circa 80 anni per esilarante risarcimento degli anni di carriera perduti. Quanto è accaduto a costoro oggi lo spiega Palamara: quello che lui chiama “il sistema” lo esigeva, il clima fortemente politico lo imponeva, guai a chi la pensava diversamente».
Che l’ideologia possa minare l’autonomia e l’indipendenza di un magistrato lo abbiamo visto anche nella chat di Palamara relativa a Matteo Salvini.
«È terrificante il dialogo tra i due magistrati: per dettato costituzionale dovrebbero essere autonomi ed indipendenti. Tuttavia, paradossalmente, nonostante che per legge non possano essere iscritti a partiti politici, tramite correnti politicizzate riescono ad organizzare una guerra politica contro un Ministro in carica».
Fatto questo quadro, come usciamo da questa crisi?
«Due sono i rimedi, ineludibili: separazione delle carriere dei magistrati e sorteggio per il plenum del Csm, in modo che i candidati siano esenti da giri elettorali e non si instauri il circuito del promettere, del dare, del pretendere. Per far decollare il processo così come riformato nel 1989 occorre attivare la centralità del dibattimento – guerra tra le parti davanti a giudice terzo ed imparziale – ed abbandonare la vigente malaprassi della centralità delle indagini preliminari. Sottolineare e ricordare che nella fase delle indagini preliminari la difesa è pressoché assente e comunque inerme».
E in tutti i gradi è svantaggiata perché l’arbitro indossa la stessa maglia dell’avversario, come ricorda l’Ucpi.
«Non c’è dubbio. Ed è svantaggiata anche a causa della sentenza 255 del 3 giugno del 1992 della Corte Costituzionale che sancì il principio di non dispersione dei mezzi di prova, “il principio del norcino”, come lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla. Con ciò snaturando i principi cardine del processo accusatorio».
Lo svantaggio della difesa deriva anche dal rapporto privilegiato che le procure hanno con gli organi di stampa.
«Come si dice chiaramente nel libro di Sallusti e Palamara non è quasi mai vero che gli atti giudiziari escono perché li passano gli avvocati difensori. Non è possibile, perché nella parte iniziale del procedimento esiste un momento in cui certi atti li hanno solo i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. Quindi se qualcosa arriva alla stampa può provenire solo da quelle fonti. Conseguenze? Titoloni in prima pagina nell’immediatezza del fatto, rappresentazione dell’ipotesi accusatoria e colpevolista, formazione di una conseguente opinione pubblica, il cosiddetto processo mediatico, insomma. Molte persone sono state massacrate così, da un processo mediatico sostanzialmente inappellabile: se dopo anni vieni assolto, non se lo ricorda più nessuno».
Quale potrebbe essere una soluzione? Non citare i pm nei comunicati stampa?
«Anche se è tutto fuori legge, nessuno interviene. Pensiamo a quante volte le persone vengono riprese ammanettate, anche se non si dovrebbe farlo. O a quante volte le forze dell’ordine vanno ad arrestare qualcuno e arrivano già con qualche troupe televisiva al seguito. Non mettere il nome del pm può avere come unica conseguenza il fatto che lui legga con minor soddisfazione il giornale il giorno dopo, se è presenzialista o narcisista. Come tutte le libertà anche quella di stampa è come cristallo, assoluta . Ciò non vieterebbe però di fare indagini, sulla fonte delle notizie pubblicate, nel momento in cui le carte le ha solo il pm e la polizia giudiziaria. Sarebbe altresì auspicabile che la stampa si autoregolamentasse in maniera più adeguata».
La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. Lei crede che la magistratura è pronta ad intraprendere la via della redenzione?
«Mi ero gonfiato di speranza quando circa quattro anni fa in un convegno dell’Anm a Siena nella mozione conclusiva si scriveva una cosa del tipo "diamo atto che così non va, dobbiamo pensare che ci dobbiamo acculturare, grazie anche alla scuola di formazione dei magistrati". Oggi cosa scopriamo: che anche codesta scuola pare sia lottizzata dalle correnti descritte da Palamara. La verità è che, per fortuna e misteriose ragioni, godiamo ancora di troppa credibilità rispetto a quanto emerso dalle chat di Palamara. Ma sa qual è il vero problema?»
Mi dica.
«Quando scrissi che del processo era centrale solo la fase delle indagini preliminari e che il pubblico ministero ha uno strapotere eccezionale venni criticato fortemente anche se ora lo ammettono in molti. La centralità in quella fase non è tanto del pm, quanto della polizia giudiziaria. Cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? Io dico “indagini preliminari di polizia”, visto che la gran parte delle indagini viene svolta dalla polizia giudiziaria, su delega aperta o su sua iniziativa, tanto che alcune volte l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato. Significa che le prove – che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti – vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Questo viene accennato anche nel libro di Palamara quando racconta come da una qualsiasi velina o input si possa organizzare di tutto nei confronti di una determinata persona».
Però in questo anche il gip ha le sue responsabilità.
«Lei ha ragione e questo ci riporta alla necessità di separare le carriere. Approfitto per segnalare un frequente e pernicioso malvezzo: il pm chiede una misura cautelare e il gip risponde anche dopo anni, quando per il tempo trascorso è ormai svanita ogni esigenza. Questo succede solo da noi».
A proposito di questo, cosa ne pensa delle recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corsera?
«Credo sia solo un problema di subcultura. Ne ha fatte tante altre nel corso della sua guerra ai fenomeni criminosi».
Non è rimasto colpito quando disse che il suo compito era salvare la Calabria?
«Non particolarmente, è un vezzo di tanti magistrati quello di voler essere salvatori, che sia dalla mafia, dalla ‘ndrangheta o dalla immoralità fa poco differenza. A tal proposito Giovanni Falcone amava ripetere qualcosa tipo «ma cosa c’entriamo noi con i fenomeni, noi giudichiamo le singole persone nei termini di legge»».
Lei ha citato Falcone: le faccio la stessa domanda che qualche giorno fa ho posto al professor Tullio Padovani. Il compianto giudice viene spesso strumentalizzato, De Magistris si presenta in televisione con la foto di Falcone e Borsellino alle spalle, ma poi nessuno ricorda che era favorevole alla separazione delle carriere.
«La foto di Falcone e Borsellino ce l’hanno un po’ tutti nel taschino. Falcone, che ho avuto modo di incontrare nel corso degli anni, considerava la separazione delle carriere un naturale corollario del processo accusatorio. Semplicemente questo. Sono passati più di 30 anni, convegni, proposta di legge popolare, ma il “naturale corollario” è chiuso nel cassetto e si discute dell’acqua calda del dottor Palamara».
Palamara, ora l'Anm si sveglia: il "sistema" esiste e va distrutto. Il sindacato dei magistrati ammette che la commistione toghe-politici è diffusa, come racconta il libro di Sallusti. Luca Fazzo, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Adesso forse qualcosa è cambiato davvero dentro la magistratura. Perché fino all'altro ieri un libro come quello scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara sarebbe stato trattato come un libello da macchina del fango. Invece ieri si riunisce per la prima volta, da quando Il Sistema è arrivato in libreria, il Cdc, il direttivo centrale dell'Associazione magistrati. E invece che gridare all'infamia e alla calunnia, si prende atto che quel che ne esce sono «commistioni con la politica, pratiche spartitorie, attività di denigrazione dei concorrenti e raccomandazioni, ivi compresa l'attività delle autopromozioni. Altro discredito e un rinnovato vulnus per la credibilità della magistratura». A parlare è Salvatore Casciaro, segretario dell'Anm. E il fatto che nemmeno in un inciso Casciaro metta in dubbio quanto riporta il libro la dice lunga sull'aria che tira. Il problema ormai non è più negare l'evidenza, ma come uscirne, come ridare alla magistratura la credibilità perduta. Perché se da un lato Casciaro ricorda doverosamente che i giudici non sono tutti come quelli raccontati da Palamara, e la grande massa opera «con coscienza e abnegazione», poi ammette che sono proprio questi magistrati di base i più «profondamente sdegnati» per le rivelazioni di questi giorni. Ed è a queste migliaia che l'Anm deve trovare una risposta da dare. Cacciando dalle sue fila, per esempio, le toghe più coinvolte nelle spartizioni. Ma qui iniziano i problemi. Perché ieri il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, annuncia che i probiviri dell'associazione inizieranno il 10 febbraio a selezionare le chat del caso Palamara per decidere (ancora non si sa su quali criteri) la sorte delle centinaia di colleghi che vi appaiono. Tempi a parte, la scelta pone due problemi. Uno riguarda il collegio dei probiviri: per la corrente di Davigo ne fa parte il giudice di Cassazione Giuseppe Corasaniti, che il Csm ha designato alla Scuola superiore con una delibera bocciata dal Consiglio di Stato, e che suddivideva col bilancino i posti tra le correnti: non proprio un esempio di perestrojka. Il secondo è che fermando l'indagine dei probiviri alle chat di Palamara si lascia fuori dal mirino tutto il resto accaduto in questi anni, e che solo per caso non è finito nella rete e divenuto pubblico. C'è poi un altro problema, sollevato ieri da Luca Palamara in una intervista a Radio Radicale: il presidente dell'Anm, Santalucia, era fino a due anni fa al ministero, nello staff del ministro Orlando. E in quella veste, «in numerosi scritti», ha affermato che il trojan, il sistema di captazione informatica usato contro Palamara, «non poteva considerarsi in vigore dal punto di vista normativo legislativo». Si può adesso usarne i risultati come se niente fosse? E, per quanto riguarda le chat - chiede Palamara - è giusto che siano usate dal Csm «in violazione della legge sulla privacy» e per decidere le sorti delle poltrone in ballo? È un utilizzo che rischia di avere ampi margini di arbitrio. Basta pensare a quanto sta accadendo per il posto di procuratore aggiunto a Salerno, dove uno dei candidati si vede rinfacciata la presenza nelle chat, nonostante che anche l'altro vi compaia. Un caos, insomma. Dove nel direttivo dell'Anm a sparare su Palamara si trova solo un giovane componente di sinistra, Rocco Maruotti, che invita polemicamente l'ex collega a andare «in procura a presentare una denuncia circostanziata, allegando le prove dei fatti» che racconta, «altrimenti non si può non pensare che lo faccia solo per un intento di delegittimazione e per il proprio tornaconto personale». Risposta brusca di Palamara: «In procura ci sono già andato».
"Una commissione d'inchiesta sulle rivelazioni di Palamara". La proposta di Forza Italia sul sistema svelato nel libro è condivisa da Lega e Fdi. Dem possibilisti, no del M5s. Massimo M. Malpica, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. Una commissione d'inchiesta sul «sistema» svelato da Palamara. La proposta, partita da Forza Italia, raccoglie il consenso del centrodestra, ma l'idea non fa breccia nella maggioranza. Se il Pd, che pure è stato più che lambito dall'inchiesta di Perugia e dai racconti dell'ex magistrato, appare possibilista, a chiudere la porta sono i paladini pentastellati della trasparenza. Per nulla convinti della necessità di un organismo parlamentare per indagare sull'intreccio tra potere giudiziario e politica, sullo strapotere delle correnti e sulle troppe «anomalie» emerse dall'indagine su Palamara o raccontate dallo stesso protagonista nel libro-intervista di Alessandro Sallusti Il sistema. Ancora ieri, in un'intervista a Libero, Palamara ha ricordato che «il sistema è quello delle correnti, e i meccanismi di potere sono regolati da un'oligarchia di cui io facevo parte». Proprio per capire chi erano gli altri oligarchi, e per fare luce su questa pagina oscura di una giustizia alle prese con la necessità di riforme, a partire da quella dell'organo di autogoverno della magistratura, il centrodestra reclama l'istituzione di una commissione. Voluta anche dai Radicali, rivela Palamara che a quel partito ha aderito, raccontando ancora parlando a Quarta Repubblica con Nicola Porro, che nel 2013 «la magistratura si compattò»contro Berlusconi, ritenendo di «mantenere la sua autonomia ed indipendenza in questo modo». Ecco dunque il rilancio della proposta di Fi da parte del portavoce azzurro Giorgio Mulè, che ricorda come di questo «sistema» Forza Italia sia stata «vittima privilegiata». Mentre la deputata di Fi e componente della commissione Giustizia Matilde Siracusano plaude l'apertura di Matteo Salvini «alla proposta di Forza Italia per l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sull'uso politico della giustizia». L'invito, aggiunge l'esponente di Forza Italia, ora è rivolto a tutte le forze politiche per calendarizzare e approvare quella proposta, una volta «esaurita questa ridicola crisi di governo». Invito raccolto, in Fdi, da Andrea Delmastro Delle Vedove, che oltre al suo ok alla commissione osserva come «il libro di Palamara» apra «uno squarcio inquietante sulla gestione lottizzata e partitocratica della magistratura». «Se solo un decimo di quello che scrive fosse vero- Prosegue Delmastro - si dovrà decespugliare la magistratura da queste correnti». Tanto che l'esponente di Fdi insiste sulla necessità di «arrivare al sorteggio del Csm», anche qui accogliendo la proposta rilanciata giorni fa dal parlamentare azzurro Pierantonio Zanettin. Dal Carroccio via libera alla commissione d'inchiesta anche del commissario regionale calabrese Giacomo Francesco Saccomanno, secondo cui, pur essendo meritorio il lavoro della maggioranza dei magistrati, «l'intervista di Palamara ha scoperchiato un sistema illegale di gestione della giustizia che merita un evidente approfondimento sia dal lato disciplinare che penale». E mentre dal Pd arriva cauto il commento del responsabile Giustizia del partito, Walter Verini («Una commissione d'inchiesta dopo le rivelazioni del libro? Prima troviamo un accordo sulla giustizia sul tavolo del Governo e poi ne parliamo», spiega), a chiudere la porta sono i Cinque Stelle, che con il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni bollano la proposta di creare una commissione come «una provocazione, finalizzata a complicare il percorso della riforma del Csm pendente in commissione».
«Nessuno ha smentito Palamara, ora commissione d’inchiesta». Simona Musco su Il Dubbio il 3 febbraio 2021. Andrea Ostellari, senatore leghista e presidente della seconda commissione permanente Giustizia, rilancia la proposta di Matteo Salvini dopo l’ultima ospitata di Palamara in Tv. «Sui fatti qui descritti da Luca Palamara e Alessandro Sallusti chiederemo una commissione d’inchiesta parlamentare», ha tuonato Matteo Salvini, dopo l’ennesima ospitata di Luca Palamara per raccontare quel “sistema” che lo ha portato prima ai vertici, puoi fuori dalla magistratura. Una proposta che qualche ora prima era stato Andrea Ostellari, senatore leghista e presidente della seconda commissione permanente Giustizia, a rilanciare, prendendo in prestito le parole di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia. Quanto dichiarato da Palamara rende «necessario un esame dettagliato, completo e imparziale delle dinamiche interne dell’Anm, del Csm e dei loro rapporti», ha affermato il magistrato. Un esame, ha spiegato Ostellari al Dubbio, al quale «non può essere estraneo il Parlamento, attraverso l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta che dia la possibilità di un giudizio completo, necessariamente imparziale. E in questa commissione, con i poteri di una commissione d’inchiesta e quindi anche inquirenti, si può ricostruire sin dall’inizio il sistema così come è stato raccontato da Palamara, se così è. Perché il dramma, fino ad oggi, è che Palamara non è stato smentito».
Non ci sono state querele, se non quella del procuratore aggiunto Paolo Ielo, ma solo smentite verbali. Questo vuol dire che Palamara sa più di quel che dice?
«Evidentemente sì. La cosa strana è l’apparente silenzio attorno a questa vicenda. Magari è coperto dalla crisi attuale del Paese dal punto di vista politico. Parlare di governi, maggioranze, ministri e ministeri appare un po’ fuori luogo di fronte alle difficoltà degli italiani – sanitarie ed economiche – e a quelle legate alla Giustizia, duramente colpita da questa vicenda. Abbiamo l’obbligo di intervenire ed è per questo ho anche sollecitato il Presidente della Repubblica, che è garante anche del nostro sistema giudiziario, affinché dica qualcosa, oltre quello che ha già detto. Si deve prendere coscienza di questo tema, che deve essere essenziale anche e soprattutto per il prossimo governo, qualunque esso sia».
Un ddl di riforma sull’ordinamento giudiziario c’è già. Secondo lei quale sarebbe la soluzione migliore affinché il sistema descritto da Palamara venga disinnescato?
«Non sono il solo a dirlo, lo dicono anche tanti magistrati, come Nordio: non si può intervenire se non attraverso il sistema del sorteggio. Quantomeno un sorteggio primario, che consenta di effettuare poi un’elezione sulla base di una platea di nomi che siano stati prima estratti a sorte».
Una proposta che, pochi giorni fa, ha ribadito anche il deputato Pierantonio Zanettin, che ha ricordato la proposta già presentata da Forza Italia per il sorteggio temperato.
«Può essere una base di partenza, in ogni caso, in questo momento storico, non possiamo farne a meno per risolvere il problema delle correnti interne al Csm. Peraltro, lo stesso Palamara ha detto che uno dei sistemi più osteggiati dai magistrati era proprio quello del sorteggio. Evidentemente siamo sulla strada giusta».
Che fine fa la meritocrazia?
«Non corre alcun rischio, perché il sorteggio avviene sulla base di un corpo qualificato, i magistrati, persone alle quali noi chiediamo di svolgere una funzione importantissima. Tra l’attuale sistema e quello del sorteggio, credo che i cittadini siano più garantiti dal secondo».
Ha avuto modo di confrontarsi con gli altri partiti?
«No, ma penso che il tema della giustizia non debba essere ideologico. Va visto nel complesso di un Paese che adesso ha l’assoluta necessità di ripartire. Per farlo ha bisogno di un governo adeguato, forte, competente e che deve decidere se vuole investire sulla giustizia o se la intende come un costo. Io credo che debba essere considerata un grande investimento, che peraltro ha un ritorno in termini economici e di credibilità».
La giustizia d’altronde è il nodo fondamentale di questa crisi politica.
«Di più: sulla giustizia, nella sola diciottesima legislatura, sono caduti due governi e questo perché evidentemente c’è qualcuno che non ha fatto ciò che doveva fare e mi riferisco al ministro Bonafede. Nel primo governo non ha saputo presentare una riforma condivisa della giustizia penale, civile e tributaria. Non c’è stata una visione. Quel governo è caduto perché c’era una contrapposizione netta tra chi vedeva la giustizia come uno strumento per arrivare ad un’idea di giustizialismo eccessivo e chi, invece, intende la giustizia come un sistema garantista. La stessa cosa è accaduta anche nel governo attuale: alla fine le anime più garantiste si sono manifestate. Lo scontro sul tema della prescrizione manifesta proprio l’esigenza di dibattito che è mancato. Qualcuno dovrebbe anche ricordare che i temi di riforma della giustizia sono tuttora fermi, incompleti. Ma non perché esiste un’opposizione che fa il proprio mestiere, ma perché evidentemente la stessa attuale maggioranza non è d’accordo sulle basi di quella che dovrebbe essere la riforma. Ma se non ci credono loro, chi ci deve credere?»
Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Salvi ha sottolineato la crisi di credibilità della magistratura ma ha anche rivendicato le azioni disciplinari. La magistratura ha reagito adeguatamente?
«Sono assolutamente convinto, e lo dico anche da avvocato, che la stragrande maggioranza dei magistrati siano alla ricerca di ritrovare una sana autonomia e una necessaria voglia di riprendere quella che è la loro funzione, necessaria nei confronti della gestione di questo sistema. Non si deve fare l’errore di fare di tutta l’erba un fascio. L’errore che è stato commesso da pochi non deve ricadere sulle spalle della stragrande maggioranza di magistrati che lavorano in silenzio, che non sono accecati dal poteri e che svolgono una funzione difficilissima, senza quella sete di rappresentanza che si è vista con il caso Palamara».
Palamara però fa un parallelismo interessante: il sistema descritto per la magistratura è sovrapponibile a quello della politica, in termini di accordi e spartizione di posti di potere. Ha torto?
«Questo evidentemente è quello che faceva lui e pochi altri. Così come non credo che i magistrati abbiano bisogno di rincorrere il fascino della rappresentanza, delle stanze del potere, credo che la politica si debba occupare del proprio ambito e cercare di rispondere attraverso progetti di legge e proposte».
Ma c’è una certa fragilità della politica a fronte della magistratura? Crede nelle inchieste ad orologeria?
«Non ci credo e non ci voglio credere. Se ci sono stati episodi lo vedremo, magari proprio grazie alla commissione d’inchiesta. Però credo che tutte queste situazioni, anche dentro la politica, vadano risolte con la qualità. Dobbiamo investire su quello, in termini di persone e di idee. E non ci si deve preoccupare di altro, ma del Paese, dei bisogni dei cittadini e di fare ciò che ci si aspetta da chi occupa queste delicate posizioni».
Arrivismo e spartizioni. Palamara non è un orco ma un ingranaggio di una magistratura illegale. Alberto Cisterna su Il Riformista 3 il Febbraio 2021. Ogni struttura complessa soffre la difficoltà di mitigare il carrierismo interno e la competizione tra i propri componenti. Società private e organizzazioni pubbliche devono confrontarsi quotidianamente con la necessità di incentivare e dosare le ambizioni di carriera di molti, tenendo presente un unico imperativo categorico: evitare conflitti permanenti perché questi, alla fine, sfibrano le imprese o rendono ingovernabili gli uffici. Un’operazione di governance complessa che si avvale di esperti, di competenze, di una stretta vigilanza e, quando possibile, di regole che mitighino il pericolo che la cooptazione sia il solo strumento di selezione delle élite. Persino la più cooptante delle istituzioni – in quanto fondata su una chiamata rivolta a un piccolo nucleo di apostoli – deve fare i conti con questa drammatica realtà: «Fuggite dal carrierismo, è la vera peste della Chiesa» ha ammonito Papa Francesco nell’aprile 2017, certo consapevole della promozione, duemila anni prima, di un mite pescatore a capo della Chiesa universale. Ovvietà si potrebbe dire. Ma come tutte le ovvietà non si può nascondere che anche questa necessiti di una propria esplicitazione quando si guardi a una singola situazione (D. Farias, L’ermeneutica dell’ovvio, 1990). Il pasticcio costituzionale e legislativo che ha segnato le sorti ultime della magistratura italiana si fonda tutto su questa drammatica ovvietà. La regolazione delle carriere è stata polverizzata nei suoi fondamenti costituzionali e consegnata, tutta, nelle mani delle correnti dell’Anm ancora oggi, dopo circa due anni, incapaci di trovare una soluzione che non sia il vacuo richiamo a una velleitaria svolta morale. Capi corrente che ora, se potessero, griderebbero pure quell’ “Aridatece er puzzone” che urlavano i romani nel giugno del 1944 delusi dall’arrivo dei liberatori. Il vuoto, a tratti evidente, lasciato dalla cacciata dal tempio del dottor Palamara è solo l’anticamera di quell’incolmabile abisso generato dallo stravolgimento delle regole costituzionali su cui si era inteso erigere il potere giudiziario in Italia. Regole, sia chiaro, tutt’altro che chiare, frutto di un compromesso della Costituente che dovrebbe oggi essere ampiamente riscritto, ma al quale nessuno osa metter mano. Come negare la contraddizione, pratica e ideologica, tra l’articolo 105 della Carta – per il quale «spettano al Consiglio superiore della magistratura … le promozioni» dei magistrati – e l’articolo 107 secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Un apparato immaginato senza promozioni così come oggi intese, concepito senza un potere gerarchico, un plesso del tutto pulviscolare perché solo così provvisto di quell’autonomia e indipendenza che sono i cardini della giurisdizione (articolo 104). Quelle «promozioni» suonano oggi come una grossolana sgrammaticatura del Costituente, ancora troppo condizionato dalla struttura della magistratura monarchica e fascista. Una distorsione lessicale e concettuale che dovrebbe essere emendata perché pericolosa nella descrizione delle funzioni dei magistrati e perché del tutto inutile essendo sufficienti, per la designazione dei capi degli uffici, le mere «assegnazioni» di cui parla sempre l’articolo 105. Quelle «promozioni» hanno suscitato pulsioni inappropriate, se non quando illegali o addirittura illecite. In nome di un modello organizzativo efficientista – non previsto dalla Costituzione in alcuna sua parte tanto da lasciare al ministro della Giustizia «l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia» (articolo 110) – si è immaginato che vi fosse la necessità di manager, di organizzatori, di direttori, di capi insomma, di gente con un consenso correntizio. Mentre il modello costituzionale era, deliberatamente o meno, votato alla completa inefficienza, costruito come era su un sacerdozio che cesellava singole sentenze in vista «del progresso morale, civile e sociale. A tale intento la magistratura darà, come sempre ha dato, il fervido contributo della sua opera, frutto; non solo dello studio assiduo delle leggi, ma del travaglio quotidiano di coscienze diritte e severe che, al di sopra del contrasto pur fecondo delle passioni, adempiono all’ufficio di tracciare, fermamente e serenamente, la via del giusto e del vero», non a caso ricordava Giovanni Macaluso, avvocato generale della Cassazione, all’inaugurazione del 5 gennaio 1948, pochi ore dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Il Costituente con l’obbligatorietà dell’azione penale, con l’accesso senza filtri alla Cassazione, con il contraddittorio a largo compasso, con la parità processuale, con l’obbligo della motivazione, con la costruzione di un ordine giudiziario senza carriere come detto e con mille altre indicazioni (per carità una per una condivisibili, ma messe insieme un mix letale) ha costruito un modello di magistratura totalmente destinato all’inefficienza, alle lentezze, ai ritardi. Inefficienza che, infatti, ne connota l’intera storia repubblicana che non ha mai visto anni giudiziari inaugurati all’insegna delle conquiste organizzative e della soddisfazione dei cittadini. Un assetto di questo genere – che voleva garantirsi dai soprusi fascisti assegnando il massimo di autonomia e di libertà per ciascun giudice a scapito di un’efficienza che diveniva irraggiungibile – era vocazionalmente e ineluttabilmente destinato al fallimento organizzativo, alla scarsa produttività. Eppure qualcuno ha immaginato di poter innestare, su un corpo geneticamente incompatibile, l’imbroglio della ragionevole durata del processo (2001) e dei conseguenti protocolli manageriali e di coazione verticistica che hanno trasformato le «promozioni» – non sempre ma troppe volte – in posti di potere e in luoghi di gestione opaca delle funzioni, soprattutto inquirenti. Un primo punto deve essere chiaro: tutti coloro che orbitavano nell’universo delle carriere descritto dal dottor Palamara non ambivano a incarichi per ragioni economiche. Contrariamente a quanto accade ovunque, nel pubblico come nel privato, a una “promozione” non corrisponde alcuno scatto stipendiale. Non un euro in più è entrato nelle tasche di Tizio nominato procuratore al posto di Caio o di Sempronio. La progressione economica prescinde dalle funzioni esercitate. Quindi la competizione era solo ed esclusivamente per il potere o, nei casi più innocenti, per il prestigio. Mai emerge, a dire il vero, che qualcuno abbia sgomitato, brigato o intrallazzato perché desideroso di poter affermare la propria visione ideale della giustizia o un proprio modello di organizzazione che giovasse ai cittadini. Mai nessuno che in una chat abbia scritto: «Sai se mi piazzi in quel posto vedrai che risultati avranno i cittadini». Non c’è traccia, che si sappia, di un tale zelo o di una tale ansia riformatrice. Per carità, esistono tanti e tanti dirigenti che hanno effettivamente a cuore le sorti della giustizia loro affidata, ma sono la cifra oscura del sistema di potere descritto dal dottor Palamara, nelle pagine del suo racconto costoro semplicemente non esistono o compaiono come le vittime della macchina infernale. Non appaiono in migliaia e migliaia di chat o nelle migliaia di conversazioni che le avranno precedute e seguite e delle quali, ovviamente, non c’è traccia in questa tragicomica Odissea della magistratura italiana che non ha un’Itaca cui ritornare, perché priva di una patria costituzionale che la possa riconoscere per come è diventata.
L'ex pm interviene sul Palamaragate. “Non fermiamoci a Unicost, anche MI e Area hanno stesse dinamiche”, parla Alfonso Sabella. Angela Stella su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. L’ex pm e ora giudice al Tribunale di Napoli, Alfonso Sabella, è uno dei tanti (troppi) che hanno pagato la non appartenenza alle correnti, e hanno visto la loro carriera rallentata perché non ha voluto mai alzare il telefono per chiedere a qualcuno un favore. Sul Sistema Palamara avverte: «Non fermiamoci alle chat di Unicost, la magistratura indaghi anche su quelle di Mi e Area, troverà le stesse dinamiche».
Parola chiave dell’anno giudiziario: “credibilità”. Solo operazione di facciata o secondo lei la magistratura ha preso davvero coscienza che bisogna attuare una vera (auto)riforma?
«Magari fosse così. La magistratura non credo che sia in grado di autoriformarsi da sola. Purtroppo il meccanismo delle nomine e delle correnti dell’Anm è un tipico modus operandi della magistratura che va avanti da troppo tempo. La questione è semplice: dalle chat di Luca Palamara – di cui tutti eravamo a conoscenza e che ora tocchiamo con mano – è emerso il quadro di una magistratura associata che ha preso il controllo di un organo istituzionale, il Csm. O dobbiamo credere che le correnti dell’Anm siano realtà eversive e andrebbero sciolte con un decreto del ministro dell’Interno oppure occorre interrompere questo circuito vizioso tra le correnti dell’Anm e il Consiglio Superiore della Magistratura per recuperare la funzione di assoluta garanzia di autonomia e indipendenza che deve avere il Csm. L’unico modo per invertire la rotta è un trattamento chemioterapico d’urto, ossia il sorteggio dei componenti del plenum. È una proposta di cui non sono un grande sostenitore ma che ritengo essere un male necessario per porre freno allo strapotere delle correnti. Ciò dovrebbe passare per una riforma costituzionale, per quello dicevo che la magistratura da sola non è in grado di riformarsi».
Ieri Alberto Cisterna su questo giornale poneva sul piatto proprio la possibilità che l’Anm debba autosciogliersi: lei quindi sarebbe favorevole?
«Continuo a pensare che la condivisione di idee nella magistratura sia un valore aggiunto all’interno dell’esercizio della giurisdizione. Ammetto comunque di non provare alcuna simpatia per l’Anm, quindi non mi straccerei le vesti se un giorno ciò accadesse. Il Paese può sopravvivere anche senza di lei. Il problema vero è un altro: mi rendo conto che la politica non vuole affrontare questo discorso e si gira dall’altra parte, tuttavia bisogna non dimenticare che le correnti dell’Anm si muovono fuori da qualunque regola, o norma di legge. E ciò non riguarda solo l’Anm ma anche i partiti politici e i sindacati, appunto come l’Anm. Si tratta di soggetti che determinano il presente e il futuro del Paese ma lo fanno come associazioni private non riconosciute: è tempo di emanare una legge che regolamenti il loro operato. Pensi lei che l’Anm non ha nemmeno una pec. Non sono tenuti a nessun tipo di obbligo. Però c’è una differenza fondamentale tra l’Anm e le altre organizzazione sindacali».
Palamaragate, non finiscono i dubbi: anche inchieste e sentenze erano lottizzate?
«Quale? Le organizzazioni sindacali non decidono né le politiche aziendali né chi deve stare ai vertici delle società. L’Anm invece si arroga questo potere e ciò ha creato il sistema denunciato da Palamara».
Lei intende i capi degli uffici giudiziari, i posti apicali?
Certamente. Se i sindacati non decidono chi deve essere al comando di quella che fu la Fiat, invece le correnti scelgono colui che diventerà il prossimo Primo Presidente della Corte di Cassazione o il futuro Procuratore generale. Il problema fondamentale su cui tutti devono aprire gli occhi, invece di voltarsi e far finta di niente come stanno facendo ora i vertici della magistratura italiana, è un altro: ultimamente si torna a parlare di criteri oggettivi per la nomina dei vertici degli uffici, ma bisogna considerare che oramai i pozzi sono avvelenati. Chi ha avuto un incarico direttivo o semi direttivo con il sistema delle correnti oggi si trova “oggettivamente” in una posizione di vantaggio rispetto a chi quell’incarico non lo ha avuto. Anche qui occorre dunque un trattamento chemioterapico: non dico di tornare alla rigida soluzione dell’anzianità ma almeno utilizzare un sistema oggettivo che tenga conto anche di come sono stati ottenuti determinati incarichi. E quindi si faccia piena chiarezza su quello che è emerso dalle carte di Palamara: abbiamo solo le chat di Unicost, ma vediamo anche quelle di Mi e di Area dove troveremmo le stesse identiche cose. Su questo ci metto la mano sul fuoco».
A proposito di questo, abbiamo aperto una serie di approfondimenti sulla valutazione professionale dei magistrati. L’Ucpi dice: siamo l’unico Paese dove le valutazioni sono al 99% positive.
«È verissimo: se non commetti errori grossi, scatta automaticamente la promozione. Ma se non sei particolarmente gradito alla correnti la tua valutazione arriva dopo».
E ciò è quanto è accaduto a Lei.
«La mia valutazione è stata l’ultima ad arrivare perché non ho mai alzato il telefono per chiedere favori, in quanto credo profondamente nell’etica del nostro ruolo e, come me, la maggior parte dei magistrati italiani».
Però è anche vero che come denuncia l’Ucpi a «prescindere da una valutazione di merito delle attività in concreto svolte dal singolo magistrato» la sua carriera progredisce.
«Certo, perché la propria corrente proteggerà sempre quel magistrato. Io ci tengo a dire questo: non sono assolutamente contrario all’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari: sentire l’opinione di chi vede l’operato della magistratura dall’esterno è importante. La dialettica professionale tra le varie parti del processo penale è fondamentale che si svolga con la massima serenità. Per questo è necessaria una riforma profonda del sistema giustizia, compresa quella amministrativa, contabile, tributaria».
Sempre ieri da questo giornale Tiziana Maiolo si è chiesta se le posizioni ideologiche di un magistrato possano influenzare l’esercizio della sua funzione. Qual è il suo parere?
«Il magistrato dovrebbe essere per Costituzione autonomo e indipendente. Molti miei colleghi purtroppo, e mi dispiace dirlo, hanno pensato che autonomia e indipendenza fossero un diritto e non un dovere. Io invece li ho sempre considerati come un dovere: qualunque idea politica io abbia, essa non può assolutamente condizionare il mio operato perché ho il dovere di presentarmi autonomo e indipendente dinanzi ai cittadini. Occorre pertanto un recupero etico della magistratura. A tal proposito voglio aggiungere una cosa che manca nel libro di Palamara».
Prego.
«Riguarda la formazione dei magistrati e la lottizzazione pure dei corsi di formazione. Io non ho le prove ma da quello che so c’è il corso in quota Mi, quello in quota Area, e quello in quota Unicost: è così che vengono formati i nuovi magistrati che decidono sulle vite dei cittadini. Così si fa un danno enorme alla giurisdizione, e non vorrei tirare il ballo Socrate e la corruzione dei giovani. Io sto notando una perdita di senso etico da parte dei nuovi magistrati: persone preparatissime ma prive di afflato etico, del rispetto del principi della giurisdizione, che nessuno ha insegnato loro. Spero di sbagliarmi».
Quindi secondo lei la priorità è la carriera più che il rispetto dello Stato di Diritto?
«Certo, è questo avviene perché vengono cooptati fin da subito. Il meccanismo non lo ha inventato di certo Luca Palamara. Accadde anche a me tanti anni fa, nel 1989, quando ero uditore giudiziario. Il mio coordinatore, elemento di spicco di Mi, la prima cosa che fece è invitare me e gli altri tirocinanti in un convegno a Taormina. L’incontro era finanziato non si sa da chi in due hotel di lusso sul mare, ci fu anche un concerto in un altro prestigioso hotel, fuochi d’artificio a mare, caviale e champagne a pasto: qual era l’obiettivo? Portarci da Mi e con qualche collega ci sono riusciti. Ora forse il meccanismo è cambiato ma la ratio è quella».
Riguardo alcune dichiarazioni contenute nel libro di Palamara, alcuni suoi colleghi hanno invitato Giovanni Salvi e Giuseppe Cascini a smentire o a dimettersi. Che ne pensa?
«Non chiedo le dimissioni di nessuno ma chi esercita pubbliche funzioni ha il dovere di essere trasparente: se ci sono ombre vengano chiarite. E di ombre ce ne sono tante e su molti colleghi, e non mi riferisco solo a quelle che emergono dal libro di Palamara. La magistratura ha il dovere di scavare in tutte le chat».
Molti suoi colleghi provano il suo stesso disagio, per così dire, ma non si espongono.
«Perché il sistema vive ancora. Io sono stato spedito a Napoli da cinque anni, ma la mia famiglia vive a Roma e faccio il pendolare. Mi aveva allettato l’idea di fare domanda per la posizione di sostituto procuratore generale di Cassazione: ho preparato tutta la documentazione ma poi ho rinunciato perché ho capito, parlando con colleghi del Csm, che il sistema è rimasto tale e quale. Con ogni probabilità questi posti saranno oggetto di spartizione tra le correnti».
Il procuratore generale di Cassazione Salvi all’inaugurazione dell’anno giudiziario ha stigmatizzato la mediaticità di certe procure. Lei è d’accordo?
«La questione è delicata ed il problema è stato affrontato nel peggior modo possibile dalla riforma che ha dato troppo potere al capo degli uffici. Il discorso non è la mediaticità del pm, io tra l’altro quando ero pm a Palermo non andavo in televisione. La domanda da farsi è: perché impedire ad un magistrato di rappresentare degli elementi che possono essere utili per la collettività? Per esempio è utile per il controllo democratico del suo operato sapere se un pm arresta solo persone di destra o di sinistra. Il problema è come lo si fa: se arriva un pm e presenta come colpevoli persone per le quali vale la presunzione di innocenza ha fatto un cattivo servizio al Paese».
Secondo Lei andrebbe abolita l’obbligatorietà dell’azione penale?
«No, ma bisognerebbe fare uno scelta di fondo: l’azione penale andrebbe limitata solo a casi in cui è necessaria la sanzione penale. Noi viviamo in un Paese panpenalistico: occorre una depenalizzazione serissima».
Massimo Borgnis per “Chi” il 4 febbraio 2021. «Sono consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche del Paese. Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli — colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto — che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c' entrano». Inizia così, con questa esplosiva dichiarazione, il libro in cui Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale, ha raccolto in una lunga intervista la confessione di Luca Palamara, protagonista dello scandalo che la scorsa estate ha scosso dalle fondamenta la giustizia italiana. Uno scandalo che ha portato alla caduta e alla successiva radiazione di quello che era considerato l'enfant prodige della magistratura italiana, ma soprattutto il regista occulto di una fitta serie di trame di potere che attraverso la magistratura hanno condizionato le in-chieste e k sorti politiche degli ultimi decenni del nostro Paese.
Domanda. Che cos'è lo scandalo Palamara?
Risposta. «Da un punto di vista strettamente giudiziario è la clamorosa conclusione di un'indagine avviata sul giudice Palamara nel 2017 per fatti privati di marginale importanza. Viene accusato in sostanza di aver fatto quattro viaggi all'estero nell'arco di cinque anni per un ammontare complessivo di poco meno di 9 mila euro, viaggi che sono stati pagati da un imprenditore (anche se il magistrato sostiene di averli poi rimborsati integralmente), per di più finito nei guai per altre ragioni che non c'entrano nulla con Palamara. Dopo quasi due anni di indagine, anni durante i quali Palamara continua imperterrito il suo lavoro all'interno del Consiglio superiore della magistratura, gli investigatori gli infilano con un trucco nello smartphone un trojan, un virus che non solo registra le telefonate, ma addirittura a telefonino spento registra le voci, le immagini e gli spostamenti. Insomma come essere in un Grande Fratello perpetuo sia per il magistrato sia per i suoi interlocutori. L'epilogo avviene la notte tra l’8 e il 9 maggio 2019, in quella che viene chiamata "notte dell' Hotel Champagne". Poco prima di mezzanotte Palamara si incontra in una saletta riservata di un hotel di Roma con cinque magistrati del Csm, con Cosimo Ferri, deputato Pd passato a Italia Viva ed ex leader della corrente di destra del Csm, e con Luca Lotti, braccio destro di Matteo Renzi ed ex ministro dello sport del governo Gentiloni. Lodi è tra gli indagati eccellenti nell'inchiesta sulle tangenti per appalti pubblici partita da Napoli nel 2016 e approdata alla Procura di Roma. Il tema della cena è pilotare la nomina del nuovo procuratore capo di Roma. A un certo punto il telefonino spia capta la voce di Luca Lotti che indica la convergenza su un candidato: quindi si ascolta un politico, per di più indagato, che sta dettando la linea ai magistrati presenti o comunque prende atto (come sembra da una seconda perizia fonica sull'intercettazione) del loro accordo sul nome del candidato. Candidatura che puntualmente viene presentata pochi giorni dopo al Csm. A questo punto, dopo una fuga di notizie sulla cena, la Guardia di Finanza si presenta a casa di Palamara con un decreto di perquisizione e un avviso di garanzia per corruzione. L'accusa principale e più grave, quella di corruzione. cade quasi subito, ma da quel momento finisce di esistere il "Sistema Palamara". Nell'ottobre del 2020 Luca Palamara viene radiato dalla magistratura».
D. Che cos'è esattamente il "Sistema Palamara"?
R. «Luca Palamara è stato dal 2008 al 2019 al vertice del sistema giudiziario italiano. Prima come presidente dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato dei giudici, poi come autorevole membro del Csm, l'organo di governo della magistratura. Da quelle posizioni ha condizionato tutte le nomine della magistratura. Infatti le nomine fatte dal Csm non sono state decise in base ai curricula, alle competenze dei candidati, o ai voti dei colleghi, ma sono state tutte decise in base all'appartenenza a una delle tre correnti in cui è divisa la magistratura in Italia: una di sinistra, che si chiama Magistratura democratica, una di centro, che si chiama Unicost — alla quale apparteneva Palamara — e una di destra, Magistratura indipendente. Siccome le nomine vengono fatte a maggioranza tra i consiglieri del Csm, e Palamara, leader della corrente di centro, si era alleato con Magistratura democratica, negli ultimi dieci anni i magistrati sono stati eletti dal centrosinistra. Grazie al metodo Palamara, si è avuto in Italia una magistratura orientata su posizioni di sinistra, se non dichiaratamente di sinistra. Questo, naturalmente ha condizionato e condiziona le inchieste».
D. Palamara non è mai stato un magistrato d' assalto, non si è occupato di grandi inchieste, tipo "Mani Pulite". Come ha fatto a diventare il grande burattinaio del sistema giudiziario italiano?
R. «Lui è figlio di un grande magistrato che morì d'infarto giovane, quando lui era studente universitario. ll padre, che era molto bravo, non riuscì a fare la carriera che avrebbe meritato perché non era addentro ai sistemi che governano la giustizia, cioè alle correnti. Credo che il figlio abbia voluto in un certo senso vendicare il padre. Palamara ha capito che tu puoi essere bravo quanto vuoi, ma se non sei parte del Sistema non vai da nessuna parte. E allora lui ha scalato questo sistema perché ha intuito che il potere non sta tanto nella singola Procura, ma in coloro che decidono chi viene assegnato alla singola Procura. Fin da subito ha lavorato più che sul campo a fare inchieste, a scalare, attraverso il sistema delle correnti, il governo dei giudici. E c'è riuscito, perché ha un talento, straordinario in questo: è diventato presidente dell' Anm a 38 anni, che per un magistrato è come essere quasi un bambino».
D. Nel libro Palamara spiega bene come funziona poi sul campo il Sistema. Meccanismo che si basa su tre elementi.
R. «ll primo elemento necessario è un buon magistrato messo a capo di una importante procura della Repubblica, come Milano, Roma, Napoli, Bari o Palermo. A quello pensava Palamara, ma per mettere un buon magistrato a capo di una procura importante devi avere un collegamento con la politica, perché queste scelte il Csm le compie insieme con dei signori che si chiamano "membri laici del Csm", che sono nominati dai partiti. Quindi innanzitutto è importante avere un buon rapporto con la politica. Poi il procuratore nominato deve essere capace di circondarsi di bravi sostituti e soprattutto di investigatori capaci, perché i magistrati non fanno personalmente le indagini, hanno finanzieri, carabinieri o poliziotti, meglio se provenienti o comunque in buoni rapporti con i servizi segreti, che li aiutano. Poi serve un terzo elemento: almeno un paio di giornalisti di giornali importanti con cui creare un rapporto di reciproco scambio. Se si crea una situazione del genere, quel gruppo, quella Procura hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. E riescono a condizionare la vita politica del Paese come dimostrano i casi Berlusconi, ma anche Renzi e recentemente Salvini».
D. Il Sistema è molto reagivo contro gli avversari esterni, ma anche al suo interno: chiunque cerchi di uscire dalla linea stabilita viene eliminato.
R. «Sì, ci sono dei magistrati che a un certo punto si svincolano dal Sistema e vanno per la loro strada. Palamara cita qualche caso: Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli, che improvvisamente indaga l'allora ministro della giustizia Mastella, siamo nel 2007, e fa cadere il governo Prodi. Poi il giudice Clementina Forleo, che a Milano, anni dopo, si permette di indagare i vertici del Pd: Fassino, D' Alema. Infine c'è un procuratore di Milano, Alfredo Robledo, che vorrebbe indagare l'attuale sindaco di Milano Giuseppe Sala, allora commissario per l'Expo. Palamara spiega che se qualcuno si permette di andare contro la linea politica del Sistema, che è una linea politica di sinistra, viene triturato velocemente, De Magistris viene addirittura sospeso dalla magistratura, la Forleo viene trasferita nel giro di poche settimane, Robledo viene espulso. Viceversa, se il Sistema, a torto o ragione (perché Palamara non entra mai nel merito se le inchieste siano giuste o sbagliate), indaga un avversario, un leader di centrodestra, come Berlusconi o Salvini, si schiera compatto a difesa dei magistrati che indagano, proteggendoli da ogni tipo di attacco, mediatico o politico. Questo è un fatto che ha condizionato la democrazia in Italia, perché in sostanza si poteva indagare sul centrodestra, ma non si poteva indagare sui leader di centrosinistra».
D. Questo teorema, però non vale per Renzi, anche lui finisce per scontrarsi con il Sistema R. «Sì, anche se si tratta di un cortocircuito solo apparente. Il Sistema, infatti, è cre-sciuto insieme con la sinistra italiana, prima con il Partito comunista, poi con il Partito democratico, Renzi è vero che a un certo punto diventa il segretario del Pd, ma lo diventa "rottamando" (termine usato dallo stesso Renzi) il vecchio partito che era il garante del Sistema. Quindi il Sistema non riconosce Renzi come il leader. Lo identifica anzi come uno che vuole rottamare il Pd e quindi reagisce. E Palamara documenta come si mette di traverso, creando non poche difficoltà al governo Renzi».
D. Renzi sarà poi il "motivo", secondo Palamara, della sua caduta.
R. «C'è un'organizzazione militare dentro quel Sistema. Se uno sgarra, si mette di traverso o non fa quello che deve fare, allora che cosa succede? Improvvisamente sbuca quello che lui chiama "il cecchino": da una qualche procura spunta un'intercettazione, un'informativa che mette in cattiva luce il magistrato che si era messo di traverso. La vittima è bruciata, è costretta a ritirarsi dalla nomina o a dimettersi da una carica. Palamara è stato anche lui vittima di un "cecchino": fino al 2016-2017 non è contrastate, perché correva con la corrente di sinistra e quindi andava tutto bene e nessuno lo tocca, anzi. Quando tra stare con la vecchia sinistra e la nuova sinistra, cioè con Renzi, sceglie quest'ultimo, ecco che arriva un'informativa sul tavolo del procuratore di Roma, secondo la quale lui da tempo frequentava una signora che non era la moglie. Con questa persona andava in alberghi e non pagava lui il conto, ma lo pagava un altro imprenditore. Questa informativa giaceva da tanto tempo, ma nessuno la usava perché Palamara era funzionale, ma quando improvvisamente salta sul carro di Renzi ecco che arriva l'informativa, dalla quale nasce un'inchiesta e dall'inchiesta poi nasce tutto quello che lo fa saltare in aria».
D. L'inchiesta parte nel 2017, però fino al 2019 lui continua a tessere le sue trame all'interno del Sistema. Com'è possibile?
R. «Credo sia un fatto abbastanza naturale. Tutti i signori che avrebbero dovuto emarginarlo, preso atto del fatto che fosse finito sotto inchiesta, all'inizio quasi lo proteggono perché è come fossero "figli" suoi. Non dimentichiamoci che Palamara aveva fatto eleggere il numero uno e il numero due della magistratura italiana, cioè il presidente e il vicepresidente della Corte di Cassazione. Per un certo periodo i suoi nemici ci hanno messo un po' a scardinare quel Sistema e ci sono riusciti soltanto perché Palamara ha commesso un errore che, se tornasse indietro, non rifarebbe, cioè la famosa cena dell'Hotel Champagne dove è presente un politico indagato. Da quel momento in poi diventa indifendibile, nonostante quelle riunioni per nominare i vertici della magistratura insieme con dei politici, o con alcuni politici, fossero l'assoluta normalità».
D. Palamara nel libro si dice ancora convinto di poter essere reintegrato. Questo perché ci crede o perché ha in mano ancora qualche asso da giocare?
R. «Credo che la sua sia più che altro una dichiarazione di principio. Perché dal punto di vista pratico è vero che lui può fare ricorso alla Corte europea, e che in teoria ci potrebbe essere uno spiraglio affinché possa ottenere un reintegro, ma in pratica io non credo sia possibile e a questo punto non penso interessi neppure a lui. Palamara vuole una sorta di riabilitazione. Dice: "Mi avete fatto passare come un mascalzone, quando invece il Sistema Palamara era condiviso da tutti i capi delle correnti, da tutti i procuratori della Repub-blica. Ma adesso fate passare solo me per un mascalzone"».
D. IL caso Palamara è la facciata che crolla mentre il palazzo resta in piedi oppure questo scandalo porterà finalmente a una modifica del Sistema?
R. «No, io temo di no. Temo che vincerà chi vuole ridurre il caso Palamara a una faccenda fatto di quattro viaggi pagati impropriamente a un magistrato che va quindi punito insieme con i suoi compagni di viaggio. Perché altrimenti il Sistema dovrebbe ammettere che tutta l'attuale classe dirigente della magistratura è figlia di un'anomalia. E questo non lo faranno mai. Allora chi potrebbe intervenire? Potrebbe farlo la politica, che ha il potere decisionale. Il Parlamento potrebbe aprire una commissione d'inchiestaper vedere che cosa è successo. Le commissioni d'inchiesta parlamentari hanno anche il potere giudiziario, possono capire che cosa è successo e prendere provvedimenti. Ma questa classe politica è talmente impaurita dal potere giudiziario che mai e poi mai farà una roba del genere».
D. Secondo lei dopo questo scandalo qualcosa cambierà? E chi è stato vittima del Sistema, ora che quell'accanimento è stato raccontato e documentato da uno dei protagonisti, avrà la soddisfazione di vedere riconosciute le proprie ragioni?
R. «Non credo. Il mio compito non è quello di cambiare il mondo. Il mio mestiere non è nemmeno quello di provare a riscrivere la storia, ma solo quello di scrivere la cronaca. Questo libro va in questa direzione. Secondo uno dei testimoni oculari le cose sono andate così in maniera ovviamente documentata. Il mio compito si ferma lì. Se nessuno nel mondo politico e istituzionale vorrà prendere atto di questa inedita storia e far finta di niente io non potrò fare altro che prenderne atto. Penso che aver raccontato cos'è il Sistema sia una cosa utile potenzialmente per tutti anche peri magistrati, perché ci sono tanti magistrati in tutte le Procure del Paese, anche quelle più piccole, che sputano sangue e rischiano la pelle ogni giorno dalla mattina alla sera e che forse queste cose non immaginavano nemmeno potessero esistere. Prendere atto di ciò che dice Palamara può es-sere una cosa utile per tutti: per la politica, per la magistratura e per il giornalismo, perché anche il giornalismo ha fatto parte di questo Sistema».
Sallusti presenta "Il sistema". Alessandro Sallusti, martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, presenta il suo ultimo libro-intervista a Luca Palamara: "Il punto di partenza è: è possibile che quel sistema interno alla magistratura con cui venivano decisi in modo abbastanza discutibile i procuratori, i magistrati più importanti d'Italia abbia infettato, oltre che la magistratura, anche la vita politica italiana? In altri termini, è possibile che abbiano subito attacchi giudiziari molti governi, da quello di Prodi a quello di Berlusconi, a quello di Renzi, financo a quello di Salvini?"
Inchieste e trame tra giudici e politici: ecco tutta la verità di Palamara. In un libro con Sallusti l'ex capo dell'Anm racconta la verità dietro le inchieste su Quirinale, Berlusconi, Renzi e Salvini. Alessandro Sallusti, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Il governo Conte due cade oggi per sua debolezza ma anche, e non è una coincidenza, perché stava andando a sbattere sull'iceberg della giustizia (domani è in agenda il voto sulla riforma Bonafede) che da sempre si muove ingombrante e minaccioso nei mari della democrazia italiana. Da oltre vent'anni i due mondi, politica e giustizia, si intrecciano e si scontrano, ma quello che ci è stato dato di vedere - e già non è poco - è solo la parte emersa del fenomeno. Per tutto questo tempo sotto il pelo dell'acqua, e quindi lontano da occhi indiscreti, è in realtà accaduto di tutto e di più. E c'è un uomo, Luca Palamara, magistrato radiato un anno fa in seguito a un'inchiesta che lo ha riguardato, che di quel sistema occulto è il depositario di verità e segreti per esserne stato il regista dal 2008 al 2019. Luca Palamara è stato il pilota di quell'iceberg e, di volta in volta, insieme al suo Stato Maggiore e al suo equipaggio, ha scelto chi puntare, chi schivare e chi investire dentro la magistratura e nella politica. Oggi ha deciso di aprire il suo ricco archivio e ne è nato un libro, Il Sistema - potere politica e affari Storia segreta della magistratura italiana (edizioni Rizzoli, 300 pagine, 19 euro), che per la prima volta squarcia lo spesso e impenetrabile velo di omertà dietro il quale la magistratura ha coperto fatti e a volte misfatti. È una lunga intervista che Palamara mi ha concesso, io e lui appartati soli per settimane, circondati da faldoni di documenti, appunti e migliaia di messaggini telefonici ed email estratti dal suo telefonino e dal suo computer. Non sta ovviamente a me giudicare il risultato. Quello che certo emerge è che la magistratura italiana - egemonizzata dalla sua corrente di sinistra della quale Palamara è stato a lungo alleato - è intervenuta direttamente e indirettamente, ma sopratutto coscientemente, sulla vita politica italiana, a volte di sua sponte, altre in accordo con le massime istituzioni del Paese, Quirinale non escluso. Attraverso un complicato sistema di nomine - spesso concordate con la politica, compresa quella dell'attuale vicepresidente del Csm David Ermini -, organizzato in modo militare, il «Sistema» raccontato da Palamara ha avuto il controllo delle principali procure, della Corte (...) Quanto tutto ciò ha influito sulle inchieste e sui processi che hanno terremotato la politica italiana, da quella che fece cadere il governo Prodi-Mastella a quelle su Berlusconi fino a quelle che hanno messo alle strette prima Matteo Renzi e poi Matteo Salvini? Qual è la verità sui casi di magistrati finiti a vario titolo nell'occhio del ciclone (De Magistris, Ingroia, Di Matteo), quale il ruolo del presidente Napolitano e di Gianfranco Fini nella stagione dell'antiberlusconismo giudiziario, e ancora quale il trattamento riservato ai magistrati che, sfidando il Sistema, hanno osato indagare sui leader della sinistra?
Da oggi in libreria sono a vostra disposizione le risposte a queste e a tante altre domande che per anni ci siamo posti inutilmente, anche dalle colonne di questo giornale. Una prima operazione verità di cui ringrazio Luca Palamara per aver accettato di farla e la Rizzoli per il coraggio di pubblicarla. Per chi vorrà, buona lettura.
Da la7.it l'1 febbraio 2021. La rivelazione di Palamara: "Il sistema non poteva permettersi Gratteri Ministro della Giustizia. L'ho vissuto in prima persona all'interno del mio ufficio...". Sandra Amurri: "In quel caso il sistema era il Presidente Napolitano?"
Il cattivo Palamara batte il buonista Carofiglio nel derby in libreria tra ex magistrati. "Il Sistema" scritto insieme a Sallusti ha già venduto oltre 47mila copie. Alessandro Gnocchi, Venerdì 12/02/2021 su Il Giornale. In vetta alle classifiche di vendita, c'è uno scontro fra ex magistrati, Luca Palamara (radiato) e Gianrico Carofiglio (decadenza dall'impiego). Il primo ha scritto un libro intervista con Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, intitolato Il sistema, uscito il 26 gennaio per Rizzoli. Il secondo ha scritto un giallo, La disciplina di Penelope, uscito per Mondadori il 21 gennaio. Anche la protagonista, Penelope era in magistratura; adesso solitaria e un po' depressa decide di prendere in mano un cold case, un caso dalla conclusione poco convincente, quindi da riaprire. Sallusti e Palamara invece rivelano la storia segreta della magistratura, tra giochi di potere, politica e affari. I numeri hanno emesso il seguente verdetto: Il sistema è primo in classifica con 47.823 copie vendute; La disciplina di Penolope è al secondo posto con molto meno della metà di copie vendute (19.091). La terza classificata, Valérie Perrin, quella di Cambiare l'acqua ai fiori (edizioni e/o), è a distanza siderale (6228 copie) anche se va detto che è nella top ten da quando portavamo i calzoni corti. Il giudice «brutto, sporco e cattivo» (Palamara) affonda il giudice bello, karateka e testimonial vivente del politicamente corretto (Carofiglio). Il genere è completamente diverso, e per questo balza all'occhio ancora di più la performance de Il sistema: raramente un saggio sopravanza un giallo senza pretese ma di un autore molto apprezzato e pubblicizzato quale indubbiamente è Carofiglio. Significa che è accaduto qualcosa, 47 mila copie sono un successo molto considerevole, lo dicono le statistiche, e magari perfino insperato dall'editore. Però, se ci pensi un attimo... La storia d'Italia, soprattutto dal 1992 in poi, è stata segnata dalle inchieste giudiziarie. Una parte, piuttosto vasta, della popolazione ha notato lo strano andamento delle medesime, indirizzate, a stragrande maggioranza, verso il centrodestra. Mentre a sinistra erano, e sono, tutti santi. Le conseguenze di quella stagione, gli anni Novanta, sono state disastrose. L'abuso di alcuni strumenti (carcerazione preventiva in testa) ha messo a serio rischio la nozione di diritto; la dubbia imparzialità ha lasciato il segno su imputati convinti di non avere avuto un giusto processo; la fuga di notizie che passavano dalla procura direttamente alla prima pagina ha fatto il resto. Non che la cittadinanza sia esente da colpe: il garantismo, in Italia, non ha mai trovato terreno troppo fertile. La magistratura ha sconfinato e ha assunto un ruolo politico che non dovrebbe esserle proprio. La politica, per contro, ha cercato di pilotare le nomine e le carriere, in cerca di un assetto favorevole alla propria parte. Sono brutte vicende, e si sono sempre svolte dietro le quinte. Ora Palamara e Sallusti alzano il sipario e ci mostrano il panorama. Al lettore il compito di decidere se è devastante o accettabile (bello possiamo escluderlo).
Così parlò Palamara. Alessandro Sallusti spiega “il Sistema” della magistratura politicizzata. Alfonso Piscitelli il 3 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. La lotta ai politici di centro-destra e le guerre interne per il potere, a colpi di trojan. “Se Palamara parla crolla tutto”, si bisbigliava un anno fa negli ambienti dei bene informati quando la stella del magistrato cominciava ad offuscarsi. Luca Palamara ha parlato in un libro-intervista del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti: Il Sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli), una “voce di dentro” per descrivere lotte interne e volontà di potenza che serpeggiano tra i custodi della legalità. Abbiamo incontrato Sallusti per capire la portata delle rivelazioni di un protagonista, nel bene o nel male, della vita giudiziaria e politica del Paese. Il libro è primo nelle classifiche di vendite, ma nello stesso tempo suscita una certa indifferenza da parte dei diretti interessati.
Direttore, il “sistema” ha reagito con un certo aplomb…
«La cosa non mi stupisce, alzare un muro di gomma è la classica strategia di difesa di un sistema che peraltro è ancora saldamente al potere».
Un sistema, avrebbe detto il vecchio Marco Pannella, di tipo “partitocratico”, caratterizzato da correnti in lotta per il potere, ma anche da una “egemonia culturale” ben precisa.
«Non da oggi, il sistema giudiziario è imperniato attorno alla componente tradizionalmente conosciuta come Magistratura Democratica, una corrente ideologica che ha coltivato l’idea di sostituirsi alla politica. I guai di Palamara cominciano quando il magistrato crea una cordata per scalzare gli uomini della sinistra giudiziaria dalle posizioni apicali».
Si dice “sono giudici di sinistra” e “fanno politica”, ma specificamente quali obiettivi hanno perseguito?
«Magistratura democratica ha esercitato soprattutto un potere di interdizione: un diritto di veto nei confronti di qualsiasi governo di centrodestra o addirittura di personaggi non rigorosamente di sinistra. Ha usato in maniera impropria la giustizia non tanto per affermare un’idea sociale, quanto per contrastare politicamente gli avversari».
Quasi una nemesi rispetto agli anni del “Fattore K”, in virtù del quale i comunisti non avrebbero mai potuto governare nell’Italia del Patto Atlantico.
«Certo, un evidente capovolgimento».
D’altra parte “il Sistema è grande e il giornalista è il suo profeta”: c’è questo aggancio fondamentale tra mondo magistratura ed echi nella comunicazione di massa…
«Palamara racconta che l’informazione è un tassello fondamentale del sistema, addirittura arriva a dire che “un Procuratore della Repubblica in gamba con una polizia giudiziaria in gamba e due giornalisti di importanti testate formano un pool che è più potente di qualsiasi governo e di qualsiasi parlamento”. Il fatto che un libro che intervista un indubbio protagonista abbia suscitato reazioni così reticenti, distratte nella grande stampa, conferma che l’informazione svolge un ruolo importante nel sistema descritto da Palamara».
L’archetipo di questa liaison tra magistratura e giornalismo fu indubbiamente la famosa anteprima del Corriere della Sera dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla criminalità…
«Quello fu un banco di prova fondamentale di un sistema, che coinvolgeva anche il Quirinale. Palamara descrive bene quale fu il contesto storico in cui maturò il forte interventismo politico di certi magistrati».
Gli anni di Mani Pulite?
«In quegli anni era un fresco laureato e racconta come per la sua generazione l’avvento del Pool di Mani Pulite e la popolarità di Di Pietro abbiano inciso sull’orizzonte mentale dei giovani magistrati: “noi allora capimmo che essere magistrati non significava percorrere una grigia e monotona carriera burocratica, ma significava poter diventare delle star, essere riconosciuti per strada, avvicinati con bramosia da giornalisti, essere investiti di una missione salvifica…”»
Anche essere ammirati dalle signore nei salotti.
«Sì, arriva a dire che il bello del loro ruolo era anche quello di essere ricercati dalle ragazze. Il protagonismo della magistratura, che poi è stato devastante, nasce in questo scenario».
La seduzione della gloria, forse simile a quella che nel Novecento avrebbe potuto nutrire un tenente colonnello sudamericano immaginando che fosse arrivato il momento di raddrizzare le sorti del proprio Paese: banana republic…
«Ed è qualcosa di simile a ciò che sta accadendo oggi con i virologi».
I giudici della salute!
«Che però in confronto sono dei dilettanti del controllo sociale».
C’è d’altra parte un limite a questa volontà di intervento: quando certi giudici si sono cimentati in politica fondando anche partiti personali i risultati sono stati grami.
«Hanno commesso l’errore di scambiare la popolarità conseguita con certe inchieste con il consenso elettorale e la capacità di governare. Possiamo dire che in alcuni casi sono stati anche utilizzati dai politici di professione, come quando il PDS utilizzò Di Pietro candidandolo nel Mugello o nel caso di Ingrao che divenne testimonial di una sinistra più movimentista. Certo, difficile immaginare che il picco di popolarità di Di Pietro possa ripetersi con altri suoi colleghi».
E d’altra parte Di Pietro esprimeva una antropologia popolaresca, neanche tanto di sinistra, che lo distingueva da più algidi esponenti della aristocrazia giudiziaria.
«Sicuramente».
Se quello sulle lotte interne alla magistratura fosse un film forse si chiamerebbe Hotel Champagne (dal nome dell’albergo in cui, racconta Palamara, si concordavano le nomine), ma come va a finire adesso questo film?
«Penso che sia un film che non finisce qui: c’è bisogno di un sequel. Quello che racconta Palamara è tutto documentato, ricostruibile, ma io non ho mai sostenuto che la sua testimonianza rappresenti “tutta” la verità. Non è detto che non esistano tasselli diversi per completare un mosaico più vasto. Fino ad ora si è scrutato nel telefono di Palamara, ma bisognerebbe forse verificare le posizioni di tante altre persone per raccontare una storia forse più complicata. Spero che il mio libro riesca ad aprire almeno una feritoia nel muro di Berlino che circonda il sistema: l’inizio di un percorso…»
La società cambia e lo sviluppo delle tecnologie crea fatti nuovi. Le intercettazioni hanno rappresentano una pallottola impazzita che a un certo punto ha cominciato a colpire anche i magistrati in carriera.
«Quando qualcuno all’interno del sistema risultava sgradito a chi era in posizione dominante, allora agiva “il cecchino”, che poteva essere una intercettazione o una nota informativa che al momento opportuno usciva dal cassetto. Certi mezzi venivano utilizzati all’esterno, ma spesso anche all’interno della categoria».
In un clima desolante da Unione Sovietica terminale. Interessante poi il doppio senso che in italiano evoca il termine “trojan”, la app per mettere sotto controllo un telefonino.
«E a parte queste sfumature, due cose colpiscono riguardo ai trojan: per legge possono essere usati solo nel sospetto di alcuni reati gravi, come la corruzione. E allora per Palamara ci si inventa una inconsistente accusa di corruzione, giusto il tempo di impiantare il trojan nel suo telefonino. Dopodiché l’accusa decade, ma intanto l’applicazione ha svolto il suo lavoro. La seconda cosa che da cittadino mi inquieta è che una compagnia privata italiana abbia “venduto” un suo cliente, mentre la Apple si rifiuta di dare le password dei telefoni, anche dei grandi terroristi internazionali. Gli antagonisti di Palamara non riuscivano ad entrare nel suo telefono dal momento che, sapendo grosso modo come si attiva il meccanismo, non apriva nessun messaggio da sconosciuti: il trojan lo attivi così. Allora i magistrati vanno dalla compagnia telefonica e la compagnia provvede a creare una finta interruzione della linea per poi ripristinare la funzionalità del telefono del cliente, ma con la spia incorporata».
Luca Palamara ad Alessandro Sallusti: "La manovra segreta delle toghe italiane". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 gennaio 2021. Pubblichiamo di seguito uno stralcio del libro in cui Alessandro Sallusti - direttore de "Il Giornale" e già direttore di "Libero" - intervista Luca Palamara - ex magistrato, ex membro del Consiglio Superiore della Magitratura nonché ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati - dal titolo "Il sistema - Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana" (Rizzoli, pag. 288, 19 euro).
Ci sono vicende in cui l'aspetto giudiziario s' intreccia non solo con quello politico ma anche con quello ideologico?
«Sì, ed è un mix esplosivo, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi di immigrati. Nell'estate del 2018 gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo. Il culmine lo si tocca l'estate successiva, nel 2019, proprio nelle settimane in cui anche le tensioni nel governo tra Lega e Cinque Stelle sono in rapido crescendo. Io non le so dire se sia più la magistratura che tenta di dare la spallata al "governo delle destre", come veniva chiamato il Conte 1, o se sia Salvini a cercare il martirio per tenere comunque alto il suo consenso su un tema a cui l'opinione pubblica è sensibile, ma sta di fatto che quel governo, come tutti quelli che sfidano i magistrati, cadrà. Sarà una coincidenza, ma cadrà».
Tutto inizia all'alba del 16 agosto 2018, quando la nave della Guardia Costiera "Ubaldo Diciotti" soccorre in mare 190 immigrati. Da Roma Matteo Salvini, ministro degli Interni, ordina il divieto di sbarco. La nave rimane ferma al largo, prima di Lampedusa e poi di Catania, per cinque giorni, aspettando disposizioni. Poi, l'estate successiva, stessa sorte toccherà alle navi Gregoretti e Sea Watch.
«Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica. Indaga Salvini sia per la Diciotti sia per la Gregoretti, la Open Arms e la Sea Watch, per la quale ordina lo sbarco immediato di tutti gli immigrati dopo una visita a bordo in favore di telecamere».
Suscitando l'ira del ministro degli Interni, che in tv parla di lui come di uno che stia commettendo il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
«Che si vada a uno scontro è chiaro fin dal primo avviso di garanzia, quello per la Diciotti. Il più veloce a saltare sul caso è il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, come tutti noi in scadenza di mandato. Il 24 agosto 2018, alle 21:07, mi manda il seguente messaggio: "Luca, dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda della nave, Area (corrente di sinistra, N.d.R.) è d'accordo a prendere l'iniziativa, Galoppi (Claudio Galoppi, consigliere Csm, N.d.R.) idem, senti loro e fammi sapere domani mattina". E ancora: "Domani mattina dovete produrre una nota, qualche cosa in- somma", forse sapendo già che il giorno seguente Salvini riceverà l'avviso di garanzia. Ma c'è qualche cosa che non mi torna».
Cos' è che non torna?
«Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all'altra d'Italia. Perché tanta fretta? Ho il sospetto che Legnini stia giocando una partita personale per ingraziarsi i maggiorenti del Pd. Sono i giorni in cui si discutono le liste per le imminenti elezioni regionali in Abruzzo, e gira voce che lui intenda candidarsi a governatore con la sinistra, cosa che poi in effetti avverrà. Per il dopo Csm in realtà puntava ad andare all'Antitrust, aveva cercato una sponda al Quirinale - così mi confidò - ma gli avevano fatto sapere che non era aria».
Sconfitto alle elezioni in Abruzzo, Legnini non resterà disoccupato, gli trovano un posto come commissario delle zone terremotate. Ma lei in quel momento era l'unico ad avere sospetti di questo genere?
«Per nulla. Ecco cosa mi scrive quella stessa sera il consigliere del Csm Nicola Clivio: "Perché lui (Legnini, N.d.R.) ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema? Non dire a nessuno che ti ho detto questo". E io gli rispondo: "Esatto, lo chiede a tutti, anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere, deve essere una riflessione di tutti coperta anche dai nuovi altrimenti la nostra diventa una cacchetta"».
Il giorno dopo, alle 16:02 l'Ansa batte, preceduta dall'asterisco che segnala le notizie importanti, il seguente lancio d'agenzia: «Del caso Diciotti deve occuparsi il primo plenum del Csm in programma il 5 settembre. È quanto chiedono, con una lettera al vicepresidente Giovanni Legnini, i capigruppo togati Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e Luca Palamara». Segue la solita nota sulla tutela dell'indipendenza della magistratura eccetera eccetera. Sospetti o non sospetti la sua «riflessione» è durata poche ore.
«Prima regola: mai dividersi. Il clima tra governo e magistratura è tornato quello di dieci anni prima, ai tempi della contrapposizione con Berlusconi. E noi torniamo ai metodi di dieci anni prima. Di questo parlo, mettendolo in guardia, anche con Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Salvini, che diventerà poi prefetto di Roma, a una cena a casa della collega Paola Roja, presenti il procuratore di Roma Pignatone e il procuratore generale Fuzio: se Salvini continua ad attaccare i giudici non fa che compattarli contro di lui, com' è accaduto prima sia a Berlusconi sia a Renzi. L'attacco frontale alla magistratura è perdente, vince sempre la magistratura al di là che ci sia o no un uso politico delle inchieste, ipotesi che io non mi sento di escludere».
Passano tre-cinque ore da quel duro documento diffuso dall'Ansa, che lei, messaggiando con il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma, usa ben altri toni. Vale la pena di rileggere quello scambio di idee: Auriemma: «Mi spiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministero dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entra la procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico, al di là del lato politico. Tienilo per te o sbaglio?». Palamara: «No, hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo». Auriemma: «Peraltro ha ragione Fuzio. Se la frase (di Salvini, N.d.R.) è solamente questa, dove sono le interferenze? Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso, perché tutti la pensano come lui, tutti. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti, che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti».
«Auriemma pone un tema vero, sentito da tanti colleghi che vivono del loro e non partecipano al grande gioco del potere, che non devono rispondere al "Sistema" di quello che pensano, dicono e fanno».
Qual è questo «tema»?
«Le posizioni espresse dall'Anm e dal Csm sul caso Diciotti e più in generale sulla gestione dell'immigrazione clandestina sono legittime o costituiscono uno sconfinamento nell'area della politica? È giusto che nel 2018 si debba andare ancora in testa a un ministro per sostituire, integrare o rafforzare l'opposizione politica della sinistra al governo di turno da cui è esclusa? Di questo, al netto della sintesi di un messaggino, sto discutendo con Auriemma. Gli dico: "Hai ragione". Ma gli dico anche che bisogna fare così perché altrimenti si spaccherebbe il governo dei magistrati, ipotesi che, in quei giorni e su quel tema, è reale».
Però continuano a esistere due Palamara, quello che parla con Auriemma e gli scrive «hai ragione» a criticare Patronaggio, e il suo opposto, quello che al procuratore Patronaggio scrive: «Carissimo Luigi, ti chiamerà anche Legnini, siamo tutti con te», e «Carissimo Luigi, ti sono vicino, sii forte e resisti, siamo tutti con te».
«Il secondo messaggino si riferisce a una minaccia che aveva ricevuto, la mia solidarietà non poteva mancare ed era sincera. Ma non per questo voglio sfuggire al senso della domanda. Esistono tanti Palamara quanti ne servono per gestire con successo situazioni complesse e delicate. Del resto esistono anche due magistrature e due giustizie, il mio compito in quel momento era quello di tenerle insieme».
Due giustizie?
«Certo, due giustizie. Quella del procuratore di Agrigento, Patronaggio, che fa sbarcare gli immigrati e in qualche modo giustifica e protegge il ruolo delle Ong, e che indaga il ministro degli Interni per sequestro di persona. Poi c'è la giustizia del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che negli stessi giorni e per gli stessi reati, per ben due volte, dà parere contrario a indagare Salvini; le navi le sequestra e alle Ong fa la guerra, ritenendole complici degli scafisti, in alcuni casi addirittura indagando i loro equipaggi per associazione a delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina. Catania e Agrigento distano tra loro solo un centinaio di chilometri, stesso mare, stesse navi, stesso Stato, stesso ministro e stesse leggi. Ma le leggi, com' è noto, non si applicano, si interpretano sì in base alla preparazione, ma anche alla sensibilità culturale, ideologica, politica dei magistrati, e a volte purtroppo anche alla loro appartenenza».
Rispetto a questo sdoppiamento non mi sembra che il governo dei magistrati sia equidistante, e neppure lei nei fatti lo è. Patronaggio passa per un eroe, Zuccaro per un avventuriero fazioso.
«Se è per questo anche la maggior parte dei giornali, dei partiti e dei cosiddetti intellettuali segue la stessa strada e si schiera senza se e senza ma dalla parte di Patronaggio. Chi l'ha deciso? Non c'è uno che dà le carte, c'è un blocco culturale omogeneo che si muove all'unisono e che in magistratura fa leva su Magistratura democratica, la corrente di sinistra che, da quando è nata, non ha mai abdicato al ruolo sociale che si è data di paladina dei diritti al di là delle leggi. Negli anni Settanta, con i famosi pretori d'assalto, fu la lotta al capitalismo e la difesa a oltranza dei lavoratori, poi si aggiunse la tutela dell'ambiente e infine, ai tempi attuali, il tema dell'immigrazione. Risultato? Ci sono situazioni in cui il Parlamento è scavalcato dai magistrati, le leggi dalle sentenze. Così è andata».
E le altre correnti che hanno fatto nel frattempo?
«Magistratura democratica è l'unica che sui temi sociali ha prodotto una sua elaborazione culturale, cosa mai fatta né da Unità per la Costituzione, che sta nel mezzo pescando aderenti sia a sinistra sia a destra - e quindi priva di un marcato tratto distintivo -, né da Magistratura indipendente, che viceversa enfatizza i temi sindacali tipo gli stipendi, l'organizzazione e i carichi di lavoro. Tutti cavalli di battaglia del suo leader Cosimo Ferri, che ha ben capito che i magistrati entrati dopo il '97 sono colleghi che non hanno vissuto il '68: innanzitutto vogliono vivere comodi, non avere problemi; hanno sofferto per arrivare ad avere la toga e ora vogliono godersela, stare meglio e non essere di continuo coinvolti in estenuanti scontri ideologici».
A Magistratura indipendente era iscritto anche Nunzio Sarpietro, il giudice di Catania che ha gestito l'udienza preliminare del processo a Salvini. «Salvini stia tranquillo» ha detto ai giornalisti il 24 settembre 2020, alla vigilia del dibattimento «che qui non ci sono Palamara», rispondendo indirettamente al leader della Lega che pochi giorni prima aveva detto: «Mi auguro di non trovare a Catania un altro Palamara».
«Quello di Sarpietro è un giudizio inquinato da questioni personali. Nel 2015 bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Catania e Sarpietro presentò al Csm la sua candidatura. Non passò; con il mio contributo decisivo gli fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente. E mi adoperai affinché la nomina di De Marco venisse confermata nonostante il suo legittimo ricorso al Tar. Se non sbaglio, dopo quella bocciatura si dimise da Magistratura indipendente. Mi resta il dubbio che, se invece di essere bocciato fosse stato nominato, quella tessera se la sarebbe tenuta stretta. Capisco che possa essere risentito, ma tanto ho imparato sulla mia pelle che osteggiati e beneficiati, quando gira il vento, uguali sono. Sarpietro mi insulta solo ora che sono caduto in disgrazia. De Marco peraltro sarà il presidente del collegio dei probiviri che nel 2020 decreterà la mia espulsione dalla magistratura. Detto questo, sono convinto dell'assoluta autonomia di giudizio di Sarpietro».
Il gup del caso Diciotti va a Roma a interrogare Conte e in TV dice che fa il tifo per il ter…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Non hanno capito quel che sta succedendo. Sembra tutto normale quando arriva da Catania un giudice a interrogare a Palazzo Chigi il premier Conte, e si mette a parlare in tv di politica e di processi. E si fa finta di niente nella giornata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, a parte mascherine e distanziamenti, oltre a una certa fretta di fare presto, a causa del pericolo pandemia. Della valanga che sta loro precipitando addosso non mostrano di avere consapevolezza, il giudice “canterino” di Catania così come il presidente della cassazione Pietro Curzio, il procuratore generale Giovanni Salvi, il vice del Csm David Ermini. Tutto come prima, toghe rosse bordate di ermellino, immagine di sfarzo e rassicurazione. E ancora non sanno che la loro storia, quella in cui erano Casta incontrastata, sta entrando nel secondo tempo. Prendiamo questo magistrato di Catania, il dottor Nunzio Sarpietro, che nella sua veste di giudice per l’udienza preliminare è andato a palazzo Chigi a sentire come testimone Giuseppe Conte nell’inchiesta in cui è indagato Matteo Salvini per la vicenda della nave Diciotti. Questo giudice è sicuramente una persona per bene, ma quando si affaccia alle telecamere davanti al palazzo del governo, dovrebbe sapere di essere precipitato in mezzo a una grave crisi politica. Pure, invece di scappare via subito, di dribblare i giornalisti con il pudore di chi sia capitato per caso in mezzo a un litigio di famiglia, si ferma e dice la sua. Blandisce il premier Conte, ammicca a Salvini (non me ne voglia, senatore) e dice tranquillamente che lui, “a livello personale” augura al premier dimissionario di fare presto un bel Conte ter. Poi discetta lungamente sul processo. Impassibile, tranquillo, inconsapevole. Loro non se ne sono ancora resi conto, ma gli italiani cominciano a non sopportarli più. Se non siamo ancora arrivati a quel 70% di cittadini che davano un giudizio negativo sulla magistratura ai tempi dell’arresto di Enzo Tortora, non siamo molto lontani. Secondo una ricerca del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi, solo il 37% degli intervistati ha ancora fiducia nelle toghe, mentre il 58% alla domanda risponde decisamente no. Ci sarà ben un motivo, cari ermellini e caro dottor Sarpietro. Inutile far suonare l’orchestra. Rendetevi conto del fatto che la nave sta affondando.
Toghe sporche: quanti dubbi. Palamaragate, non finiscono i dubbi: anche inchieste e sentenze erano lottizzate? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Un po’ lo dice, un po’ lo lascia intendere, il magistrato Luca Palamara, quando, ospite di Massimo Giletti, si trova d’improvviso in un faccia-a-faccia televisivo con Matteo Salvini. Dicendo che i suoi colleghi in toga hanno visioni diverse sul problema dell’immigrazione, intende dire che le divergenze ideologiche potrebbero cambiare i comportamenti nelle inchieste fino a far considerare reato o meno lo stesso atto? Fino a condizionare addirittura anche le sentenze “in nome del popolo italiano”? Il dottor Palamara non può non sapere quanto sia seria la questione. Per due motivi, ambedue piuttosto gravi. Il primo riguarda i cittadini, quegli stessi che oggi non paiono credere più nella giustizia nella misura del 70%, una percentuale pericolosamente vicina quell’83% che nel 1987, dopo il caso Tortora, votò SI al referendum per la resp