Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LA GIUSTIZIA

 

QUINTA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le condanne.

Cucchi e gli altri.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Massimo Bossetti è innocente?

Il DNA.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpevoli per sempre.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Morire di TSO.

Parliamo di Bibbiano.

Nelle more di un divorzio.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

L’alienazione parentale.

La Pedofilia e la Pedopornografia.

Gli Stalker.

Scomparsi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?

La Giustizia non è di questo Mondo.

Magistratura. L’anomalia italiana…

Il Diritto di Difesa vale meno…

Figli di Trojan: Le Intercettazioni.

A proposito della Prescrizione.

La giustizia lumaca e la Legge Pinto.

A Proposito di Assoluzioni.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Verità dei Ris

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Le Mie Prigioni.

I responsabili dei suicidi in carcere.

I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Gli scherzi della memoria.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La responsabilità professionale delle toghe.

Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Adolfo Meciani.

Alessandro Limaccio.

Daniela Poggiali.

Domenico Morrone.

Francesca Picilli.

Francesco Casillo.

Franco Bernardini.

Gennaro Oliviero.

Gianni Alemanno.

Giosi Ferrandino.

Giovanni Bazoli.

Giovanni Novi.

Giovanni Paolo Bernini.

Giuseppe Gulotta. 

Jonella Ligresti.

Leandra D'Angelo.

Luciano Cantone.

Marcello Dell’Utri.

Mario Marino.

Mario Tirozzi.

Massimo Luca Guarischi.

Michael Giffoni.

Nunzia De Girolamo.

Pierdomenico Garrone.

Pietro Paolo Melis.

Raffaele Chiummariello.

Raffaele Fedocci.

Rocco Femia.

Sergio De Gregorio.

Simone Uggetti.

Ugo de Flaviis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’uso politico della giustizia.

Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

I Giustizialisti.

I Garantisti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati specializzati.

Le Toghe Candidate.

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Le Intimidazioni.

Palamaragate.

Figli di Trojan.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Magistratopoli.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giornalistopoli.

Le Toghe Comuniste.

Le Toghe Criminali.

I Colletti Bianchi.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della Moby Prince.

Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.

L’affaire Modigliani.

L’omicidio di Milena Sutter.

La Vicenda di Sabrina Beccalli.

Il Mistero della morte di Christa Wanninger.

Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.

Il Mistero di Marta Russo.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Charles Sobhraj.

Il Mistero di Manson.

Il Caso Morrone.

Il Caso Pipitone.

Il Caso di Marco Valerio Corini.

Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.

Il Caso Claps.

Il Caso Mattei.

Il Mistero di Roberto Calvi.

Il Mistero di Paola Landini.

Il Mistero di Pietro Beggi.

Il Mistero della Uno Bianca.

Il Mistero di Novi Ligure.

Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.

Il mistero del delitto del Morrone.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Mistero del Mostro di Milano.

Il Mistero del Mostro di Udine.

Il Mistero del Mostro di Bolzano.

Il Mistero della morte di Luigi Tenco.

Il Giallo di Attilio Manca.

Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.

Il Mistero dell’omicidio Varani.

Il Mistero di Mario Biondo.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il Mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Cranio Randagio.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.

Il Mistero di Saman Abbas.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.

Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.

Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.

Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.

Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.

Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.

Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.

Il Mistero di Roberto Straccia.

Il Mistero di Carlotta Benusiglio.

Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.

Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.

Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.

Il Giallo di Sebastiano Bianchi.

Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.

Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il Mistero della "Signora in rosso".

Il Mistero di Polina Kochelenko.

Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.

Il Mistero di Giulia Maccaroni.

Il Mistero di Tatiana Tulissi.

Il Mistero delle sorelle Viceconte.

Il Mistero di Marco Perini.

Il Mistero di Emanuele Scieri.

Il Mistero di Massimo Manni.

Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.

Il Mistero di Bruna Bovino.

Il Mistero di Serena Fasan.

Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.

Il Mistero della morte di Vittorio Carità.

Il Mistero della morte di Massimo Melluso.

Il Mistero di Francesco Pantaleo.

Il Mistero di Laura Ziliani.

Il Mistero di Roberta Martucci.

Il Mistero di Mauro Romano.

Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo. 

Il Mistero di Wilma Montesi.

Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.

Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.

Il Mistero di Maurizio Gucci.

Il Mistero di Maria Chindamo.

Il Mistero di Dora Lagreca.

Il Mistero di Martina Rossi.

Il Mistero di Emanuela Orlandi.

Il Mistero di Gloria Rosboch.

Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".

Il Mistero del delitto di Garlasco.

Il Mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.

Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.

Il giallo di Stefano Ansaldi.

Il Giallo di Mithun.

Il Mistero di Stefano Barilli.

Il Mistero di Biagio Carabellò.

Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.

Il Caso Imane.

Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero di Serena Mollicone.

Il Mistero di Teodosio Losito.

Il Caso di Antonio Natale.

Il Mistero di Barbara Corvi.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Roberta Siragusa.

Il Caso di Niccolò Ciatti.

Il Caso del massacro del Circeo.

Il Caso Antonio De Marco.

Il Giallo Mattarelli.

Il Giallo di Bolzano.

Il Mistero di Luca Ventre.

Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.

Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.

Il Mistero di Federico Tedeschi.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero di Gianmarco Pozzi.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della strage di Bologna.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Avvocati specializzati.

Specializzazioni forensi, domani in vigore le nuove regole. Simona Musco su Il Dubbio il 26 dicembre 2020. Il decreto 163 emanato dal guardasigilli Bonafede lo scorso 1° ottobre modifica il precedente regolamento del 2015. Tredici le aree individuate. Ministero della Giustizia e Cnf lavoreranno in sinergia per formare la commissione giudicatrice. Entra in vigore domani il nuovo regolamento sulle specializzazioni forensi. O, per essere fedeli alla definizione ufficiale, “per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista”. «Un passaggio molto importante per l’avvocatura» e per i cittadini, i quali «avranno maggiori elementi per orientare le scelte di assistenza e di patrocinio», ha commentato, subito dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto ministeriale, la presidente del Cnf Maria Masi. Il decreto, il numero 163 del 1° ottobre 2020, diventa efficace dopo un iter impegnativo, che ha richiesto passaggi e “visti” anche successivi alla sua emanazione, risalente appunto a quasi due mesi fa, da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede. Gli avvocati che vorranno specializzarsi potranno acquisire il titolo sulla base della formazione specifica insieme con l’esperienza maturata nell’esercizio dell’attività professionale. Il decreto sopprime, per cominciare, quanto previsto dall’articolo 2 del precedente decreto del 12 agosto 2015, numero 144, per il quale “commette illecito disciplinare l’avvocato che spende il titolo di specialista senza averlo conseguito”. Si potrà conseguire il titolo di specialista in non più di due dei settori previsti dal nuovo decreto, che sono in totale 13: diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo, diritto del lavoro e della previdenza sociale, diritto tributario, doganale e della fiscalità internazionale, diritto internazionale, diritto dell’Unione europea, diritto dei trasporti e della navigazione, diritto della concorrenza, diritto dell’informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali, diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni, tutela dei diritti umani e protezione internazionale, diritto dello sport. Per quanto riguarda i primi tre settori (civile, penale e amministrativo), il titolo di specialista si acquisisce a seguito della frequenza con profitto dei percorsi formativi o dell’accertamento dell’esperienza relativamente ad almeno uno dei sottoindirizzi di specializzazione. Cambia in parte anche la struttura del colloquio, che ora sarà finalizzato all’esposizione e alla discussione dei titoli presentati e della documentazione prodotta a dimostrazione della comprovata esperienza nei relativi settori e indirizzi di specializzazione. A valutare i “candidati” sarà una commissione composta da tre avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori e da due professori universitari di ruolo in materie giuridiche, in possesso di documentata qualificazione nel settore di specializzazione oggetto delle domande sottoposte a valutazione nella singola seduta. Il Cnf nominerà un componente avvocato, i restanti componenti saranno nominati con decreto del ministro della Giustizia. Gli avvocati e i professori universitari rimangono iscritti nell’elenco dei commissari per un periodo di quattro anni. In base all’articolo 8 del vecchio decreto, il titolo di specialista può essere conseguito anche dimostrando di avere maturato un’anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati ininterrotta di almeno otto anni e di avere esercitato negli ultimi cinque in modo assiduo, prevalente e continuativo attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione, dimostrando di aver trattato nel quinquennio almeno 10 incarichi professionali fiduciari per anno, rilevanti per quantità e qualità. Nel nuovo decreto viene aggiunto un nuovo criterio, ovvero la valutazione della congruenza dei titoli presentati e degli incarichi documentati con il settore e, se necessario, con l’indirizzo di specializzazione indicati dal richiedente. Per quanto riguarda il periodo transitorio, l’avvocato che ha conseguito nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del decreto un attestato di frequenza di un corso almeno biennale di alta formazione specialistica, organizzato dal Cnf, dai Coa o dalle associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, può chiedere al Cnf il conferimento del titolo di avvocato specialista, previo superamento di una prova scritta e orale, davanti ad una commissione composta da docenti nominati dal Consiglio stesso. Ciò vale anche se nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del decreto si sia conseguito un attestato di frequenza di un corso avente i requisiti previsti e iniziato prima del 27 dicembre 2020 e alla stessa data non ancora concluso.

Infine, il titolo di avvocato specialista può essere conferito dal Cnf anche in ragione del conseguimento del titolo di dottore di ricerca, se riconducibile ad uno dei settori di specializzazione individuati dal decreto. «Il titolo di specialista – ha aggiunto Masi – affianca e non sostituisce il tema della formazione permanente anche in settori nuovi e diversi in cui il Cnf crede e investe. Non si può poi trascurare come l’ulteriore specificazione di settori come quello relativo alla tutela della persona e delle relazioni familiari, così come come la tutela dei diritti umani, soddisfi l’esigenza non di maggiore cura ma di adeguata attenzione al ruolo sociale che siamo chiamati a svolgere».

·        Le Toghe Candidate.

(ANSA l'8 dicembre 2021) - "Oggi sono circolate non so sulla base di quali fonti delle informazioni sbagliate sul caso Maresca. La proposta che farò alle forze di maggioranza è come un caso come quello non possa mai più ripetersi". Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ad Atreju: "che un giudice possa svolgere contemporaneamente, anche e lontano dal suo distretto, funzioni giudiziarie e politiche non deve accadere. C'è una stella polare della magistratura che deve essere non solo praticata ma anche percepita. Non importa se si tratta di cariche elettive locali, né per queste, né a maggiore per quelle parlamentari".

Leandro Del Gaudio per ilmattino.it l'8 dicembre 2021. Il Csm nomina Catello Maresca giudice di corte di appello a Campobasso. Il magistrato, oggi leader dell’opposizione in consiglio comunale, andrà a svolgere funzioni giudicanti di secondo grado come stabilito dal Csm (undici voti a dieci), nello stesso giorno in cui ricorre il decimo anniversario dell’arresto di Michele Zagaria. E sulla decisione è subito polemica in seno al Csm. «È inaccettabile che un magistrato in servizio sia leader dell'opposizione al governo della città in cui vive» ha detto il togato di Area Giuseppe Cascini, puntando l'indice contro la «colpevole inerzia del legislatore» che consente una «commistione» di ruoli produttiva di un «grave vulnus all' immagine di indipendenza della magistratura». Poco prima il collega del suo stesso gruppo Mario Suriano aveva spiegato la sua astensione quale segnale alla politica che «il problema va risolto». «Il candidato sindaco di Napoli Catello Maresca ritorna a esercitare le funzioni di magistrato, a Campobasso, continuando però a essere contestualmente consigliere comunale e presunto capo dell'opposizione. È una vergogna che si possa fare il politico e il magistrato allo stesso tempo». Lo afferma l'ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che pone il tema «della questione morale perché mentre scrivi una sentenza detti un comunicato politico, mentre tieni una requisitoria ti prepari il comizio. Parliamo - prosegue - dello stesso magistrato che prima di mettersi in aspettativa per candidarsi nella città dove aveva espletato le funzioni di pm stava facendo campagna elettorale da mesi». De Magistris dice di provare «amarezza per i tanti magistrati e i tanti cittadini che come me vogliono credere in una magistratura autonoma e indipendente». «Leggere del reintegro in servizio di Catello Maresca è qualcosa che stride macroscopicamente con il sentire comune dei cittadini, oltre che con i principi fondamentali di autonomia e separazione tra i poteri dello Stato». Lo dichiara Alessandra Clemente, consigliera comunale della città di Napoli. «Maresca - aggiunge Clemente - ricopre una carica politica importante, guida i suoi in Aula, è molto grave che possa esercitare anche il suo potere da magistrato in un foro a due passi dalla città di cui è consigliere comunale». «Rispondo serenamente che rispetto le decisioni del Csm e sono contento di rientrare a fare il mio lavoro. Nel contempo cercherò da civico di dare un contributo alla mia città» ha detto Maresca in merito al suo rientro in ruolo, deciso dal Consiglio superiore della magistratura, presso la Corte di Appello di Campobasso.

Costa (Azione) annuncia un emendamento. Il caso Maresca e i sette vizi capitali del sistema Giustizia. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Porte girevoli e non solo. La vicenda di Catello Maresca, ex pm ed ex candidato a sindaco e ora giudice di Corte d’appello a Campobasso e consigliere comunale a Napoli, alza il velo su uno dei nodi irrisolti della giustizia. Ma non l’unico. «La proposta che farò alle forze politiche è che un caso Maresca non possa più accadere. L’indipendenza deve essere non solo applicata ma anche percepita» assicura la ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Intanto la questione resta ed è in discussione da tempo. «La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario sarà efficace solo se inciderà sui sette vizi capitali del sistema: il correntismo, i passaggi delle funzioni di pm a giudice, disciplinare che fa acqua, magistrati tutti promossi, responsabilità civile senza responsabili, porte girevoli con la politica, una miriade di fuori ruolo» tuona Enrico Costa, deputato di Azione, intervenendo al dibattito politico-giudiziario che si è riacceso all’indomani della decisione del Csm di accogliere la richiesta di Maresca e assegnarlo alla funzione di consigliere della Corte d’appello di Campobasso.

Un dibattito che si era infiammato già nei mesi scorsi, prima dell’ufficializzazione della candidatura a sindaco di Maresca, quando si vociferava che l’ex pm anticamorra avesse ambizioni politiche mentre lui era ancora al lavoro nel suo ufficio di sostituto alla Procura generale di Napoli, e la questione era tutta legata all’opportunità che un magistrato fosse in servizio proprio nella città in cui faceva campagna elettorale. Ora il tema ritorna con gli stessi interrogativi aperti e i vuoti normativi da colmare. «Quanto alla questione delle porte girevoli – continua Costa -, quanto accaduto in questi giorni, con un candidato sindaco che fino a poco prima svolgeva funzioni requirenti nello stesso territorio elettorale e oggi può svolgere (a giorni alterni?) il ruolo di consigliere comunale e di Corte d’appello in contemporanea, dimostra che l’attuale normativa è inefficace per garantire, soprattutto, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma anche la fiducia nella stessa». Di qui l’iniziativa: «Se non sarà il Governo con i suoi emendamenti ad intervenire drasticamente, lo faremo noi di Azione, auspicando che le altre forze politiche non cambino posizione solo perché ad essere interessati sono oggi loro esponenti».

L’argomento è particolarmente sentito dall’opinione pubblica. La questione relativa al rapporto tra magistratura e politica viaggia di pari passo con quella legata alla logica delle correnti in seno alla categoria delle toghe. Per il giudice Giuliano Castiglia, rappresentante del gruppo Articolo 101 nel direttivo dell’Anm, la riforma va fatta «al più presto». «Se sul piano formale la magistratura è indipendente dal potere politico, come dice la ministra Cartabia, sul piano sostanziale – afferma – l’indipendenza non è adeguata. La ragione è nota e unanimemente denunciata: il correntismo».

«Faccio riferimento – dichiara Castiglia in un’intervista all’Adnkronos – al fatto che tra la politica e i gruppi organizzati interni alla magistratura esistono canali di collegamento attraverso i quali i protagonisti si condizionano reciprocamente. È ovvio – aggiunge – che bisogna distinguere. La politica è un’attività nobilissima, nessuno vuole demonizzarla, è un’arte bellissima, chiamiamola così, anche se le degenerazioni non mancano. Il problema nasce quando l’influenza culturale si trasforma in gestione del potere, nei campi più disparati e, in particolare, nella partecipazione alla distribuzione di incarichi secondo logiche di appartenenza. Le cause di questa degenerazione con effetti gravissimi, allo stato, non sono state ancora affrontate e, tanto meno, rimosse. Non può che essere questo, del resto, il motivo per cui assistiamo a ripetuti appelli, anche al massimo livello, al varo di adeguate riforme».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Giustizia e caso Maresca, Bruti Liberati: "Magistrati meno credibili? Vero, ma far fuori chi si candida sarebbe incostituzionale". Liana Milella su La Repubblica l'11 Dicembre 2021. Intervista all'ex procuratore di Milano: "La politica, nessun partito escluso, prima induce in tentazione i magistrati offrendo candidature e poi piange lacrime di coccodrillo". Tutti contro Catello Maresca? "Lacrime di coccodrillo della politica". Fuori chi si candida? "Ha ragione Marta Cartabia, sarebbe incostituzionale". Esiste la legge contro la "correntopoli"? "Il Csm non è il Parlamento, non ci devono essere né maggioranze stabili, né blocchi contrapposti". Luca Palamara boccia Cartabia? "Pensare che lui possa salire in cattedra e dare lezioni alla scolaretta Cartabia indica la confusione dei tempi in cui viviamo".

Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per "la Repubblica" il 10 dicembre 2021. «Così hanno fatto tutti». E fa nomi e cognomi dei casi precedenti. L'ex pubblico ministero antimafia Catello Maresca, che da due mesi è consigliere comunale a Napoli e sul cui rientro in ruolo - come giudice di Corte d'Appello, a Campobasso - si è spaccato il Consiglio Superiore della Magistratura, non nasconde più l'ira. «L'indipendenza della magistratura deve valere sempre. Non quando conviene solo ad una certa parte politica». Il suo non è un "caso", sottolinea. «È solo accanimento su una persona». (…) 

«Io dico che è incomprensibile ciò che viene mosso nei miei confronti - spiega - Non sono disposto a diventare il capro espiatorio di contese altre, che non accetto vengano compiute sul mio nome e sulla mia onorabilità personale e professionale».

Di casi come il suo, col "doppio ruolo", ce ne sono stati tanti, ricorda. Li elenca: «Non esiste nessun caso Maresca perché ho rispettato la legge: come hanno fatto Gennaro Marasca, assessore negli anni Novanta nella giunta comunale di Bassolino (e consigliere di Appello a Campobasso, ndr );

Nicola Marrone, sindaco di Portici (che anche in campagna elettorale svolgeva le funzioni di giudice nella vicina Torre Annunziata, ndr ); come Nicola Graziano, che è stato consigliere ad Aversa, e Mariano Brianda consigliere a Sassari, tra i più recenti identici casi a me noti. Ma se ne potrebbero citare altri: parliamo di esperienze legate ad un chiaro partito politico e mai da alcuno contestate. Per le quali giustamente non si è mai parlato di caso Marasca, o Brianda ». (…) 

«Nonostante questo accanimento personale che considero ingeneroso alla luce anche del marcato profilo civico da me tenuto nell'istituzione, ben venga una riflessione sul ruolo dei magistrati prestati alla politica». (…) 

Ma avverte: «Che sia però una riflessione seria e non ideologica e riguardi l'intero fenomeno etichettato da molti come "porte girevoli". E comprenda anche la posizione delle centinaia di colleghi, chiamati da ministri di partito a rivestire cariche nell'esecutivo e che poi rientrano tranquillamente in servizio, conservando, peraltro, la sede di provenienza. Quando addirittura non vengono subito dopo "promossi"».

Maresca prova a difendersi: “Non ci sto a fare il capro espiatorio”. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Rompe il silenzio Catello Maresca. «Non comprendo francamente questo accanimento nei miei confronti. E non sono disponibile a diventare il capro espiatorio di contese altre, che non accetto vengano compiute sul mio nome e sulla mia onorabilità personale e professionale», commenta dopo l’ennesima giornata in cui il suo nome è al centro di dibattiti e polemiche sia sul piano giudirico che su quello politico. «Non esiste nessun caso Maresca», sostiene citando altri suoi colleghi che in Campania e in altre regioni hanno indossato la toga e rivestito ruoli pubblici e politici. Certo, con le dovute differenze, perché non tutti i pm hanno fatto campagna elettorale e contemporaneamente hanno svolto funzioni di giudice.

Tuttavia, Maresca precisa: «Ho rispettato la legge, come hanno fatto Gennaro Marasca, assessore nella giunta regionale di Bassolino, Nicola Marrone, sindaco di Portici, Nicola Graziano, consigliere ad Aversa, e Mariano Brianda, consigliere a Sassari, per citare tra i più recenti identici casi a me noti». «Ma se ne potrebbero citare altre – aggiunge – quasi tutte esperienze legate a un chiaro partito politico e mai da alcuno contestate. E per le quali giustamente non si è mai parlato di caso Marasca, caso Brianda e così via». Maresca, l’ex pm anticamorra di Napoli, parla quindi di un accanimento di cui si ritiene vittima, fa leva sulla sua connotazione civica ma riconosce che è arrivato il momento di una revisione della legge che regola il rapporto fra politica e magistratura.

«Nonostante questo accanimento personale che considero ingeneroso nei miei confronti – afferma – anche alla luce del marcato profilo civico da me tenuto nell’istituzione consiliare, ritengo, comunque, che se questa può essere l’occasione ben venga una riflessione sul ruolo dei magistrati prestati alla politica. Che sia però una riflessione seria e non ideologica e riguardi l’intero fenomeno etichettato da molti come “porte girevoli” e comprenda anche la posizione delle centinaia di colleghi, chiamati da ministri di partito, a rivestire cariche politiche nell’esecutivo e che poi rientrano tranquillamente in servizio, conservando peraltro la sede di provenienza. Quando, addirittura, non vengono subito dopo promossi». «Non si può parlare di indipendenza della magistratura a senso unico o solo quando conviene a una certa parte politica», conclude.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Maresca ‘accusa’ Melillo, anche per il procuratore porte girevoli tra politica e magistratura: “Ministro ombra”. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Sono giorni di polemiche, questi. Ma anche giorni della memoria. Più o meno dichiaratamente, l’esercizio è riportare alla mente casi di magistrati che sono stati politici e poi sono tornati a fare i magistrati. Catello Maresca, il protagonista del caso politico-giuridiziario del momento, al centro delle polemiche e di questi esercizi di memoria, alcuni nomi di suoi colleghi con un passato nella politica li ha fatti apertamente nella dichiarazione con cui l’altra sera ha replicato, sbottando quasi, dopo l’ennesima giornata di commenti e valutazioni sulla decisione del Csm (peraltro tutt’altro che convinta, visto che ci sono stati dieci astenuti e undici voti favorevoli) di acconsentire al suo rientro in magistratura (come consigliere della Corte d’appello di Campobasso) pur senza abbandonare il posto appena conquistato di consigliere comunale a Napoli. Alcuni nomi, dicevamo, Maresca li ha fatti. «Non esiste nessun caso Maresca – ha detto – perché ho rispettato la legge come hanno fatto Gennaro Marasca, assessore nella giunta comunale di Bassolino, Nicola Marrone, sindaco di Portici, Nicola Graziano, consigliere ad Aversa, Mariano Brianda, consigliere a Sassari». Altri nomi, però, non li ha detti apertamente, limitandosi a riferimenti tra le righe, quelli a «centinaia di colleghi chiamati da ministri di partito a rivestire cariche nell’esecutivo e che poi rientrano tranquillamente in servizio, conservando peraltro la sede di provenienza». Gli stessi riferimenti che rimbalzano da giorni negli ambienti della giustizia napoletana. Perché quando si affronta il discorso dei rapporti tra magistratura e politica, pensa anche al capo della Procura di Napoli, Giovanni Melillo, che nel suo brillante curriculum vanta anche l’esperienza in via Arenula come capo di Gabinetto dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per un certo periodo, Melillo fu soprannominato “ministro ombra”. Dopo quell’incarico il procuratore è stato nominato alla guida dell’ufficio inquirente napoletano, dal quale proveniva per averci già lavorato come procuratore aggiunto. Il vento della polemica agitato dal tema delle porte girevoli arriva così anche all’interno del palazzo di vetro del Centro direzionale.

Soffia su tutta la Cittadella giudiziaria. E nel vociare di questi giorni si coglie anche il dettaglio che Catello Maresca è stato assegnato come giudice a Campobasso, sede dei processi d’appello, a carico di magistrati di Roma, definiti in primo grado a Perugia. Insomma, intrecci, ipotesi, imbarazzi, da Palazzo dei Marescialli ai palazzi della giustizia napoletana. E gli avvocati? «Nel mio ragionamento non vi è alcun giudizio sulla persona di Catello Maresca che stimo e apprezzo dal punto di vista professionale ed umano. Vi è però un tema centrale che continua incredibilmente ad essere ignorato e non regolamentato, e attiene alle forme e alla modalità con le quali un magistrato può esercitare attivamente l’attività politica» commenta Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli. «Da anni si critica il sistema di “porte girevoli” tra magistratura e politica, senza che a tali critiche sia mai seguita una riforma legislativa che impedisca o quantomeno ponga dei paletti a questo fenomeno che rischia di inquinare uno dei fondamenti delle democrazie moderne, e cioè la separazione dei poteri». «La politica, dal canto suo, dovrebbe aver imparato che continuare a chiedere la supplenza e un ombrello di protezione alla magistratura è un’opzione foriera esclusivamente di gravi danni sia dal punto di vista democratico che da quello di buona amministrazione. Urge una legge. Nelle more l’auspicio è che il Csm ponga fine a prassi poco decorose e contrarie ai principi di una sana democrazia».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La reazione dei due magistrati. Graziano e Marasca non ci stanno: ecco perché il nostro non è un caso Maresca. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Questione politica o di opportunità? I pareri si dividono sul caso di Catello Maresca, consigliere e giudice allo stesso tempo. L’ex pm anticamorra, dopo le polemiche degli ultimi giorni, si è difeso elencando i nomi di colleghi che prima di lui hanno percorso sia la strada della magistratura che quella della politica, come a dire: non sono stato l’unico, non ci sto a fare il capro espiatorio.

«In questa fase politica nella quale, forse anche giustamente, c’è un’attenzione particolare sugli interventi della magistratura, mi sembra inopportuno l’esercizio di una doppia funzione in contemporanea», commenta Gennaro Marasca, magistrato in pensione, già componente del Csm e presidente di sezione della Corte di Cassazione. Il suo è uno dei nomi che Maresca ha citato. Marasca è stato assessore della giunta comunale all’epoca di Antonio Bassolino sindaco, dal 1994 al 1997. Ma la sua non può dirsi una storia gemella di quella di Maresca, che è consigliere comunale a Napoli e contemporaneamente consigliere di Corte d’appello a Campobasso. Una differenza sostanziale sta nel periodo storico e politico: «Oggi – spiega il magistrato in pensione – il quadro storico e politico è molto diverso da quello di trent’anni fa, e anche la sensibilità politica non è la stessa dell’epoca. In questa fase la coscienza sociale del Paese sembra rifiutare la possibilità di una doppia funzione, per cui credo che un intervento sia inevitabile». Altra fondamentale differenza: «Io – precisa Marasca – non mi sono mai candidato a elezioni politiche né ho mai parteggiato per uno schieramento. Non ho cercato voti da nessuna parte, sono stato chiamato in giunta a collaborare come tecnico – precisa – . Il collega Maresca, invece, ha partecipato a delle elezioni, quindi ha chiesto voti, non è proprio la stessa cosa rispetto alla mia vicenda».

Nella prima giunta Bassolino, Marasca è stato assessore al Patrimonio con deleghe anche alla trasparenza e al decentramento amministrativo. «Erano deleghe prevalentemente di controllo della regolarità dell’esecuzione di gare e contratti. Naturalmente – riconosce – è indubbio che, se fosse stata una giunta lontana dalle mie idee e dai miei ideali, non avrei accettato di partecipare». Quanto alle porte girevoli, il problema sembra essere molto italiano: «Negli Stati Uniti i pubblici ministeri sono eletti e i giudici sono nominati da chi detiene il potere politico e questo non crea scandalo, nella civilissima Svizzera molte cariche sono elettive. In Italia – aggiunge Marasca – c’è una particolare attenzione al tema. Ma bisogna essere molto prudenti e attenti se si vuole porre una legge più restrittiva. Sono in gioco anche valori costituzionali, non solo l’indipendenza e l’autonomia della magistratura ma anche il diritto di ogni cittadino di partecipare alla vita politica e pubblica del nostro Paese», afferma proponendo come possibile soluzione, non il divieto di rientro in magistratura, ma la possibilità, per il giudice che torna dopo un’esperienza politica, di essere destinato a funzioni di tipo diverso, come quelle di carattere amministrativo al Ministero della giustizia, dove sono previsti posti solo per magistrati.

Una soluzione intermedia tra la doppia funzione prevista dalla legge attuale e i divieti proposti da chi vuole abolire le cosiddette porte girevoli, la ipotizza anche Nicola Graziano, ex magistrato della sezione penale e ora giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Napoli. Anche il suo è tra i nomi che Maresca ha ricordato quando ha replicato alle polemiche sollevate dalla sua scelta di tornare in magistratura pur conservando il posto nel Consiglio comunale di Napoli. E anche in questo caso le due storie non sono perfettamente sovrapponibili. «Erano gli anni 2005-2006, mi candidai con l’Ulivo a sindaco di Aversa – racconta Graziano –. Fui eletto in Consiglio comunale e per un anno e mezzo circa feci sia il magistrato che il consigliere comunale. Ero però all’inizio della carriera in magistratura e Aversa non è un Comune paragonabile a quello di Napoli. Sta di fatto che all’epoca nessuno sollevò il problema né ci fu clamore per le stesse scelte di altri magistrati. Quindi mi chiedo: come sarebbe andata se il collega Maresca si fosse candidato in una diversa area politica?”, conclude provocatoriamente Graziano.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il problema non sono le toghe in politica, ma le inchieste politiche. Dall'esplosione di Mani pulite a oggi, la politica vive nel terrore della magistratura. Ma a ben vedere l’ingresso delle toghe in politica non è il peggiore dei mali: ben più insidioso è l’ingresso surrettizio della magistratura che più di una volta ha condizionato la nostra democrazia con la forza di inchieste “mirate”. Davide Varì su Il Dubbio il 16 dicembre 2021. I magistrati – lo si ripete da anni, decenni – non solo devono essere indipendenti ma devono anche apparire indipendenti. E lo ha ricordato giorni fa, nelle ore in cui esplodeva il caso Maresca – il magistrato-politico che indosserà la toga nella Corte d’Appello di Campobasso e la “fascia tricolore” di consigliere nel comune di Napoli – lo ha detto, dicevamo, la ministra Cartabia.

Ma al di là delle buone intenzioni, la questione appare sostanzialmente irrisolvibile perché non appena qualcuno prova ad alzare la mano per chiedere un passo indietro, una limitazione dei magistrati in politica, ecco che viene immediatamente sfoderato l’articolo 51 della Costituzione, il quale garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini italiani, magistrati compresi, naturalmente. A questa obiezione potremmo rispondere citando l’articolo 98 della Carta il quale, e lo diciamo con le parole di Giovanni Maria Flick, “stabilisce che per legge si possono indicare limitazioni per i magistrati al diritto di iscriversi ai partiti politici”. E tra i due articoli, tanto per complicare la questione, troviamo una sentenza della Consulta la quale ha ribadito che “non è contraddittorio né lesivo dei diritti politici consentire ai magistrati di partecipare, sebbene a determinate condizioni, alla vita politica, anche candidandosi alle elezioni o ottenendo incarichi di natura politica e al tempo stesso prevedere come illecito disciplinare la loro iscrizione a partiti politici nonché la partecipazione sistematica e continuativa all’attività di partito”. Insomma, un ginepraio costituzionale e legislativo dal quale è difficile uscire.

Certo, dovrebbe essere la politica, il legislatore a intervenire, a fissare paletti più stringenti, più rigidi sull’attività politica dei magistrati. Ma lo sappiamo bene: da trent’anni a questa parte, dall’esplosione di Mani pulite a oggi, la politica vive nel terrore della magistratura e, dunque, difficilmente sarà in grado di regolare una materia tanto incandescente. In questi anni le procure – alcune procure – sono entrate surrettiziamente nel nostro Parlamento con la forza minacciosa di inchieste che hanno ribaltato maggioranze e determinato la caduta di più di un governo. Hanno fatto le fortune di alcuni partiti, di alcuni movimenti e, nello stesso tempo, indebolito leader politici.

Non ultimo l’ex premier Matteo Renzi che è alle prese con un’inchiesta resa ancora più complicata dalla pubblicazione di atti che poco o nulla avranno a che fare con l’inchiesta. Eppure, a ben vedere, questo potere sembra essere scappato di mano e così sì è avuto un effetto paradosso, una strana eterogenesi dei fini che ha colpito la stessa magistratura, la quale sta vivendo una crisi di credibilità senza precedenti. L’aver ceduto alla seduzione di un potere in grado di fare e disfare governi e maggioranze e di determinare sfortune e disgrazie di partiti e leader, ha corroso, logorato la sua reputazione e il suo prestigio. Una hybris che ha raggiunto il suo apice e insieme il suo punto più basso col caso Palamara, ovvero con quel sistema che ha trasformato la nostra magistratura in un luogo di gestione del potere per il potere.

Insomma, a ben vedere l’ingresso delle toghe in politica non è il peggiore dei mali; ben più insidioso è l’ingresso surrettizio della magistratura che più di una volta ha condizionato la nostra democrazia con la forza di inchieste “mirate”. È questo potere che va spezzato e può farlo solo la parte sana della magistratura, quella gran massa di servitori dello stato che lavora in silenzio e subisce la forza selvaggia e incontrollata di alcune procure.

Quando Minzolini fu condannato da un giudice ex avversario politico. Negli anni in cui era senatore di Fi, il giornalista fu giudicato da un magistrato che era stato per 12 anni deputato del Pd e per due volte sottosegretario dell’Ulivo. Paolo Delgado su Il Dubbio l'11 dicembre 2021. Ma se putacaso nel collegio che deve giudicare un politico si ritrova un politico dello schieramento opposto, la faccenda è davvero ambigua o si sta guardando il capello? L’aula del Senato fu costretta a porsi il problemino il 16 marzo 2017, e a sorpresa la maggioranza dei senatori concluse che sì, in effetti qualche ombra c’era: più precisamente si riscontrava quel fumus persecutionis in nome del quale il senato, capovolgendo il verdetto per le autorizzazioni, negava la decadenza da senatore di Augusto Minzolini, famosissimo giornalista politico, direttore del Tg1, poi senatore e oggi direttore del Giornale, ai sensi della legge Severino.

Minzolini, assolto in primo grado dall’accusa di peculato ne 2013 era poi stato condannato a due anni e mezzo, con pensa superiore a quella richiesta dall’accusa, nel 2014, condanna confermata l’anno successivo dalla Cassazione. Del collegio d’appello faceva parte anche Giannicola Sinisi, magistrato ed eponente dell’allora Partito popolare, sottosegretario agli Interni nel primo governo Prodi e nel governo D’Alema, poi senatore eletto col centrosinistra e tornato poi alla toga. Sinisi aveva scelto di non astenersi, come avrebbe potuto fare, e di schierarsi per la condanna di Minzolini, in quel momento senatore di Fi, cioè dello schieramento avverso al suo. Anche qualora si fosse astenuto la sua presenza nel collegio sarebbe stata problematica. Il ruolo del giudice non si limita infatti a votare: il suo parere influisce comunque sulla sentenza e decidere della sorte di un nemico politico non è il massimo della trasparenza. Piuttosto il contrario. Minzolini si dimise poi comunque, mettendo così fine a una vicenda che di aspetti discutibili ne presentava a mucchi.

Nei due anni e mezzo di direzione del Tg1, dal 20 maggio 2009 sino alla rimozione decisa dal cda il 13 dicembre 2011, Minzolini, accusato di essere troppo berlusconiano, aveva accumulato più tensioni, scontri con una parte della redazione e cause di tutti gli altri direttori di Tg messi insieme nella storia della Rai. La vera bomba però era esplosa nel febbraio 2011 e non riguardava le frizioni politiche con la redazione. Prima la Corte dei Conti, poi a ruota la procura di Roma avevano aperto rispettivamente un’istruttoria e un indagine sui rimborsi delle spese del direttore, cioè sul suo uso della Carta di credito Rai. Il problema era stato sollevato con una lettera del consigliere in quota opposizione Nino Rizzo Nervo all’allora direttore generale Mauro Mauro poi discusso in una riunione del cda alla quale presenziava anche l’esponente della Corte dei Conti incaricato di vagliare le spese Rai. Iscritto nel registro degli indagati in maggio, l’ex direttore del Tg era stato rinviato a giudizio il 6 dicembre, innescando così la pratica che avrebbe portato 5 giorni dopo alla sua destituzione.

L’ex direttore sostenne che le spese private sulla carta di credito aziendale erano dovute a un accordo informale con l’azienda che, non potendo pagare la cifra chiesta dal giornalista per assumere la direzione del Tg, aveva suggerito quella via d’uscita. L’azienda naturalmente non confermò ma è probabile che il giornalista-senatore avesse ragione. Le sue spese non erano superiori a quelle di molti altri suoi predecessori, la Rai non aveva mai segnalato nulla d’irregolare nelle sue spese, neppure nel cda successivo alla lettera di Rizzo Nervo. La Corte d’Assise gli aveva comunque creduto. Quella d’Appello, con Sinisi nel collegio giudicante no.

La Giunta per le autorizzazioni del Senato non ci aveva trovato nulla di strano. L’aula, a sorpresa, invece sì e aveva respinto il parere della Giunta con 137 voti contro 90 e 20 astenuti. Avevano votato a favore dell’odg di Forza Italia che rovesciava il verdetto della Giunta anche 19 senatori del Pd, tra cui Ugo Sposetti, Mario Tronti, Luigi Manconi, Emma Fattorini. Il voto in sé aveva davvero qualcosa di potenzialmente clamoroso perché chiamava in causa il nodo dolente della regolamentazione delle porte girevoli tra politica e magistratura di molti giudici. Dato il clamore della vicenda avrebbe potuto e dovuto accendere un dibattito concreto e produttivo sulla necessità di quella regolamentazione. Invece, come d’abitudine, non se ne fece nulla. Minzolini si dimise da solo. Il cuore reale della faccenda fu rapidamente nascosto sotto il tappeto.

Mattia Feltri per "La Stampa" il 10 dicembre 2021. Fa molto fine citare Piero Calamandrei e in genere si cita la frase secondo cui quando la politica entra per le porte della magistratura, la giustizia se ne esce dalla finestra. Bella, niente da dire, sebbene la politica entri di rado per le porte della magistratura, se non nel ruolo dell'indagata, e la magistratura entri spesso per porte della politica, in quello della moralizzatrice. L'ultimo caso appartiene a Catello Maresca, magistrato antimafia poi candidato sindaco a Napoli per il centrodestra ed eletto in Consiglio comunale. Bestia quale sono, ignoravo la possibilità, esercitata da Maresca, di restare in Consiglio comunale e contemporaneamente rientrare in magistratura. Calamandrei voleva introdurre in Costituzione il divieto per i magistrati di iscriversi ai partiti politici e sosteneva, citazione molto più sporadica, che il magistrato applicato alla politica non avrebbe dovuto mai tornare a indossare la toga, perché in politica dilapida il suo credito d'imparzialità.  Il povero Calamandrei non poteva immaginare che il processo d'evoluzione democratico ci avrebbe consegnato magistrati allo stesso tempo politici, magistrati di giorno e politici la sera. Nessuno sa quanti siano i Maresca d'Italia. Però si sa con precisione che alle piante organiche mancano oltre mille e cinquecento magistrati, mentre duecento di loro lavorano nei ministeri, dove scrivono e applicano leggi accumulando in sé un po' di potere giudiziario, un po' di legislativo e un po' di esecutivo. Ve la ricordate la separazione dei poteri di Montesquieu? Pare che ne possiamo fare a meno, tanto noi abbiamo i moralizzatori.

Tutti i "casi Maresca" dimenticati dalla sinistra. Stefano Zurlo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da Ayala a Emiliano, troppi magistrati hanno fatto politica senza dimettersi. La Cartabia dice basta. Un corteo interminabile di magistrati che si sono lanciati in politica. E di parlamentari e amministratori che sono tornati ad indossare la toga. Poi esplode il caso, sacrosanto, di Catello Maresca e il ministro Marta Cartabia pronuncia una parola definitiva: «Basta».

Così non si può andare avanti. Maresca, dopo aver fallito sul versante del centrodestra la conquista del Comune di Napoli vorrebbe sdoppiarsi: leader dell'opposizione in Consiglio comunale e, con la benedizione del Csm che gli ha appena dato il nullaosta, giudice della Corte d'appello di Campobasso. Lontano da Napoli ma non dalla corporazione togata.

È da trent'anni che tutte le persone di buonsenso segnalano questa clamorosa anomalia italiana, ma come spesso capita nelle vicende tricolori, ci voleva un giudice di destra, per di più silurato alle urne già al primo turno contro Gaetano Manfredi, per far traboccare il vaso riempito per decenni da pm di sinistra.

Non è un problema di correttezza, ma di credibilità e ha a che fare con l'indipendenza della magistratura. Come si fa ad essere sopra le parti se si è di parte? Mistero. Eppure se si racconta questo capitolo sconcertante di storia patria, come dire, anfibia, si rischia di riempire un volume con le biografie dei pendolari.

Ecco Giuseppe Ayala, nel glorioso Pool antimafia di Palermo, poi parlamentare del Pri, e via via di altri partiti fino ai Ds, quindi sottosegretario nei governi Prodi e D'Alema prima di rientrare nella casa madre, scegliendo per pudore l'approdo nelle retrovie del civile. Insomma, nell'attesa di una legge che non si vede mai spuntare all'orizzonte, come il nemico nel Deserto dei tartari, Ayala mostra comunque un riguardo che non tutti hanno. Giannicola Sinisi lascia la magistratura ma non si dimette: va a fare il deputato, il sottosegretario, il senatore, sta fra la Margherita e l'Ulivo, infine ingrana la retromarcia e ricompare fra i giudici della Corte d'appello penale di Roma.

«Se fai l'arbitro non puoi metterti la casacca e giocare con una squadra», sentenziava a suo tempo Piercamillo Davigo. Galateo istituzionale, ma anche il minimo sindacale nel Paese dei sospetti, dei retropensieri, degli accordi dietro il palco. E poi ad ogni convegno si sentiva sempre ripetere la stessa consunta massima: «Un magistrato non deve solo essere ma anche apparire imparziale». Erano sempre tutti d'accordo e poi all'uscita mettevano la freccia. Michele Emiliano era un pm d'assalto a Bari, un po' alla Di Pietro, poi come il modello originale ha sfruttato la popolarità delle sue inchieste - alimentando dubbi legittimi nello specchietto retrovisore dell'opinione pubblica - per diventare sindaco di Bari e poi presidente della Regione Puglia, ma a differenza del Tonino nazionale si è messo in aspettativa, insomma gli è rimasta la toga sotto la fascia tricolore, e da magistrato, sia pure in naftalina, aveva addirittura tentato la scalata alla segreteria del Pd. Troppo pure per un ambiente abituato a tutto, tanto da mettere in moto un'azione disciplinare.

Ma il catalogo contiene altri paradossi strepitosi: Adriano Sansa da presidente della Corte d'appello di Genova avrebbe potuto indagare, in teoria, sulle ipotetiche malefatte lasciate in eredità ai concittadini dalla giunta del precedente sindaco Adriano Sansa, insomma avrebbe potuto mettere sotto accusa se stesso.

Poi ci sono stati i campioni del doppio lavoro in simultanea, come i maestri di scacchi.

Fra questi arriva, maldestro, Maresca e le porte girevoli si chiudono. Ma sarà davvero così?

Perché finora il passaggio della frontiera fra i due mondi è stato più facile di quello del Mar Rosso da parte degli ebrei in fuga dai carri del Faraone. Stefano Zurlo

Magistrato, governatore e aspirante segretario. Il caso di Michele Emiliano: l’ex pm di Bari non si era accontentato di diventare il presidente della Regione Puglia, voleva diventare il capo del Pd. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Il testo unico degli Enti locali del 2000 prevede che il magistrato non è eleggibile a sindaco o consigliere comunale nel territorio nel quale esercita le proprie funzioni, salvo che “venga collocato in aspettativa prima del giorno fissato per la presentazione delle candidature”. Non è prevista alcun altra causa di ineleggibilità o di incompatibilità con l’attività giurisdizionale. Basta mettersi, dunque, in aspettativa ed il gioco è fatto. Anche se appare sorprendente, il magistrato può ricoprire contemporaneamente entrambi i ruoli: la mattina pm o giudice, il pomeriggio sindaco o consigliere comunale. O viceversa. Lo stesso giorno può mandare la gente in prigione e decidere le nomine, ad esempio, dei vertici delle municipalizzate che si occupano di trasporto pubblico o di smaltimento dei rifiuti. Il magistrato è anche agevolato nel suo duplice ruolo. Una circolare del Consiglio superiore della magistratura prevede che il magistrato che voglia continuare ad indossare la toga mentre fa il sindaco venga assegnato ad una sede vicina, precisamente in “un posto vacante in un distretto vicino a quello dove esercita il mandato”. I casi sono tanti. Lorenzo Nicastro, pm a Bari ed assessore all’Ambiente nella giunta di Nichi Vendola, Mariano Brianda, giudice a Sassari e candidato sindaco ( sconfitto) nella stessa città nel Pd nel 2019, Nicola Morrone, giudice a Torre Annunziata e sindaco di Portici, Nicola Graziano, prima assessore e poi candidato sindaco ad Aversa e giudice del Tribunale di Napoli. Il caso certamente più celebre, comunque, è quello di Michele Emiliano. L’ex pm di Bari non si era accontentato di essere diventato il presidente della Regione Puglia ma voleva diventare il capo del Pd. Emiliano per raggiungere lo scopo aveva anche preso la tessera dei dem. Requisito base per tentare la scalata al partito alle primarie poi stravinte da Matteo Renzi. Per essersi iscritto al Pd Emiliano venne sottoposto ad un procedimento disciplinare, conclusosi però con un nulla di fatto in quanto nel frattempo aveva strappato la tessera.

La pm lascia il Tribunale dei minori. Annamaria Fiorillo, dal caso Ruby a candidata con il Pd…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Luglio 2021. «È stata una decisione sofferta», aveva dichiarato allora alle tv e a diversi quotidiani, quando aveva deciso di parlare. E chissà se sta soffrendo ancora oggi in conferenza stampa Annamaria Fiorillo, la pm del tribunale dei minori del “caso Ruby”, mentre annuncia la propria entrata in politica con il Pd. Proprio con il partito storicamente avversario dell’anticomunista Silvio Berlusconi. Sarà la numero uno nella lista della candidata sindaca Margherita Silvestrini, che tenta una sfida impossibile a Gallarate (Varese), in terra leghista, contro il sindaco uscente Andrea Cassani per il quale lo stesso Matteo Salvini si è già fatto vedere in città nei giorni scorsi. Ma alle sfide l’ex pm è abituata, non manca di coraggio, anche se forse di originalità. Rispolvera la famosa frase di Kennedy su che cosa si può fare per il proprio Paese, per dire che lei è di Gallarate e che metterà la propria esperienza di pubblico ministero al servizio della città. Così, quando sarà (se eletta) consigliera comunale di opposizione, capirà la differenza tra il piccolo potere della politica e il grande potere della magistratura. Ottima cosa. Aveva colto la sua occasione il 10 novembre del 2010, la dottoressa Fiorillo. Non una data particolare, nel calendario della giustizia milanese. Il “caso Ruby”, la famosa notte del suo fermo in questura, la telefonata del premier Berlusconi alla questura di via Fatebenefratelli e poi il rilascio della ragazza e l’affidamento alla consigliera regionale Nicole Minetti erano cose di mesi prima, il 27 maggio. Lei, la pm del tribunale dei minori cui i funzionari di questura si erano rivolti prima di prendere la decisione, nella relazione al suo superiore aveva scritto di non ricordare se avesse o no dato quell’autorizzazione. Quindi il ministro Roberto Maroni aveva detto in aula che quella notte ogni procedura era stata rispettata. Ma quel 10 novembre la sconosciuta pm Fiorillo trovò il suo momento. La si vide nelle immagini delle tv mentre usciva dal tribunale dei minori, il suo luogo di lavoro, procedeva di qualche passo, poi si fermava, tornava indietro e puntava le telecamere. Ce ne erano tante, anche tedesche, perché era in corso un’udienza che riguardava una signora accusata da Berlino di sottrazione di minori. Così ricostruiva quel giorno il quotidiano La Repubblica il blitz della pm minorile del “caso Ruby”. «Se volete, avrei da dirvi io qualcosa. Mi chiamo Annamaria Fiorillo, sono sostituto procuratore dei minori e quello che ha dichiarato in aula Maroni non mi va giù». Da quel momento è diventata un personaggio, uno dei tanti anti-Berlusconi. Suo malgrado, certo. Lei non aveva alcuna intenzione di svolgere un ruolo politico. A quello provvede ora che è in pensione. E si candida proprio nel Pd. Non per esempio in Forza Italia: farebbe miglior figura sulla sua passata imparzialità. Ma quel giorno, davanti a una moltitudine di telecamere, e poi in tante interviste nei giorni successivi, lei voleva solo fare chiarezza. Cioè voleva dire che la sua frase «non ricordo di aver autorizzato» la consegna di Ruby a Minetti in realtà voleva dire «ricordo di non aver autorizzato». Peccato che non solo la sua superiore, la dottoressa Frediani, ma lo stesso procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati l’avessero intesa nel primo senso e avessero ambedue dichiarato che quella notte ogni regola era stata rispettata. Ma lei no, lei ha voluto averla vinta. Butta lì frasi come «…non sto a badare alla politica, o al governo che cade o resta» e che se Ruby era la nipote di Mubarak «…io sono Nefertiti, la regina del Nilo». Ma soprattutto racconta di aver investito del caso il Csm: «È una mia iniziativa, non l’ho concordata con il mio capo né con nessun altro… ho chiesto al Csm di chiarire le discrepanze tra la spiegazione del ministro in aula e la mia esperienza personale». Le andrà male, in prima istanza, e porterà a casa una censura dal Csm, per violazione di riserbo e anche per la violazione del divieto ai sostituti pm di fare dichiarazioni sull’attività del proprio ufficio. Inutile sarà l’appassionata difesa del suo legale, lo storico dirigente di Magistratura Democratica e procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi. Che avrà poi soddisfazione dalla Cassazione e da una seconda decisione del Csm, che manderà “assolta” l’impavida pm. Nella stessa giornata di quel 17 luglio 2014 Silvio Berlusconi sarà assolto in appello da tutti i reati. In particolare con la formula più ampia, «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di aver fatto pressione sui dirigenti della questura la famosa notte del “caso Ruby”. Quella in cui la magistrata, oggi già esponente politica, Annamaria Fiorillo aveva detto di «non ricordare». Salvo precisare in seguito. E poi candidarsi con gli avversari storici di Berlusconi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" l'8 luglio 2021. Una volta si paragonò a Forrest Gump, lo stralunato e ingenuo personaggio interpretato da Tom Hanks. E un po' deve esserlo ancora Annamaria Fiorillo visto che ancora si meraviglia che faccia notizia la sua candidatura alle prossime amministrative a Gallarate (Varese) in una lista civica di sinistra, come anticipato dal Giornale. Fiorillo, va ricordato, balzò alle cronache per il caso Ruby quando, come pm della Procura per i minorenni, il 27 maggio 2010 si occupò della marocchina Karima El Mahroug che a 17 anni era stata portata in Questura da dove uscì dopo una telefonata in cui il premier Silvio Berlusconi disse di aver saputo che era nipote di Mubarak. Ruby fu affidata a Nicole Minetti, ma Fiorillo escluse di averlo autorizzato e al processo disse che «nessun magistrato degno di questo nome» lo avrebbe fatto.

Si candida a sinistra, allora è vero, come sospetta qualcuno, che lei è anti-berlusconiana?

«Non avevo e non ho nulla contro Berlusconi né contro il suo partito. Conosco il sindaco di Gallarate di FI e non lo considero un avversario». 

Perché si è candidata?

«Vivo a Gallarate con il mio compagno dirigente d' azienda in pensione e in provincia di Varese per diversi anni ho insegnato discipline giuridiche ed economiche nelle scuole superiori prima di entrare in magistratura nel 1998. Ho 68 anni, da gennaio sono in pensione. Ho una vita piena e appagante. Mi sono chiesta "che faccio?"».

E cosa si è risposta?

«La risposta che mi sono data è che non ci si può fermare e non ci si può accontentare perché non c' è mai fine al meglio. È il mio motto. Voglio mettere e a disposizione degli altri il mio bagaglio di conoscenze e di esperienze». 

Perché proprio nella lista civica per Margherita Silvestrini sindaco che si ispira alla sinistra?

«Perché per me conta la persona. Perché Margherita Silvestrini, donna che ha avuto una lunga militanza nel Pd ed è stata assessore ai servizi sociali di Gallarate, ha un grande valore umano e politico. Non ho alcuna ambizione politica. Non mi sono mai riconosciuta in nessun partito come in nessuna delle correnti della magistratura, come non mi riconosco assolutamente in nessuna ideologia. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che io sia una qualunquista, ma non è così perché ho un' idea alta della politica».

Cioè?

«Ritengo che sia necessario che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, che sia resiliente». 

Se la lista vincerà, lei cosa farà?

«È possibile che abbia un incarico confacente alla mia esperienza». 

Non teme le critiche per essere stata come magistrato coinvolta nella vicenda Ruby?

«Non vedo perché. È una cosa che è avvenuta per caso dato che ero di turno il giorno in cui Ruby finì in questura».

Annamaria Fiorillo, l'ex toga del caso Ruby si candida: "Non ho nulla contro Berlusconi", ecco cosa diceva in aula. Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Si chiama Annamaria Fiorillo, ha 68 anni, e fu la pm del tribunale dei minori quando scoppiò il caso-Ruby che travolse Silvio Berlusconi. Ora, l'ex toga scende in politica e si candida. E lo fa a sinistra, in una lista civica, così come rivelato da Il Giornale. Scende in campo alle amministrative a Gallarate, provincia di Varese. E, ovviamente, la scelta fa polemica: proprio lei, pm nel caso che forse più di tutti ha incrinato la parabola politica del leader di Forza Italia? Proprio la toga del caso di Ruby Rubacuori? Sì, proprio lei. Una volta a processo, riferendosi alla scelta di affidare Ruby a Nicole Minetti, disse che "nessuno magistrato degno di questo nome" lo avrebbe fatto. Insomma, una che ha le idee chiare. Ma ora, intervistata dal Corriere della Sera, nega di essere anti-berlusconiana. Curioso. Glielo chiedono a bruciapelo, domanda diretta: è vero oppure no? "Non avevo e non ho nulla contro Berlusconi né contro il suo partito - risponde la Fiorillo -. Conosco il sindaco di Gallarate di FI e non lo considero un avversario". Quando le chiedono perché abbia scelto di darsi alla politica, risponde: "Vivo a Gallarate con il mio compagno dirigente d'azienda in pensione e in provincia di Varese per diversi anni ho insegnato discipline giuridiche ed economiche nelle scuole superiori prima di entrare in magistratura nel 1998. Ho 68 anni, da gennaio sono in pensione. Ho una vita piena e appagante. Mi sono chiesta che faccio?".

Il Corsera insiste: ma perché proprio nella lista civica per Margherita Silvestrini sindaco che si ispira alla sinistra? "Perché per me conta la persona. Perché Margherita Silvestrini, donna che ha avuto una lunga militanza nel Pd ed è stata assessore ai servizi sociali di Gallarate, ha un grande valore umano e politico. Non ho alcuna ambizione politica", conclude la Fiorillo. Per carità, le crediamo. Eppure, nutrire un piccolo sospetto resta legittimo...

La faccia tosta della sinistra: seggi e posti alle toghe rosse. Fabrizio Boschi l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Letta boccia i magistrati candidati del centrodestra. Ma si dimentica di Emiliano, De Magistris e Ingroia. La regola del buongusto dovrebbe essere sempre la stessa: se non si ha contezza di ciò che si dice, o si fa finta di non averne, sarebbe meglio tacere. Ed invece, secondo quell'altra regola, che per i politici non esiste vergogna, ieri il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha avuto il coraggio di dire che esiste un «gravissimo buco nella legge che permette ai magistrati (di centrodestra) di candidarsi nelle città dove sono in funzione». È vero, ha mille ragioni, peccato che a mettere in pratica, da sempre, questo mal costume siano stati proprio i politici di sinistra. E Letta lo sa benissimo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, preferirebbe «che nessun magistrato entrasse in politica e, anzi, che neppure avesse l'idea di farlo. Credo, inoltre, chi si candida, dovrebbe dare le dimissioni dalla magistratura ancor prima delle elezioni o non appena eletto». Pasquino ricorda che «il Pdha spesso candidato dei togati come riconoscimento per il buon lavoro svolto in carriera» e che «il primo magistrato eletto in Parlamento fu Oscar Luigi Scalfaro nel 1946». Nessuno a sinistra è mai stato immune dal desiderio di coccolare ed avere dalla propria parte una toga rossa. A Letta, che fa lo gnorri, rinfreschiamo la memoria noi. C'è una sfilza di magistrati che hanno fatto carriera dentro il Partito democratico. Michele Emiliano, ex procuratore capo della Repubblica di Bari, dal 2015 governatore Pd della Puglia, è passato anche da un doppio mandato da sindaco nel capoluogo pugliese. L'ex procuratore Antimafia, Franco Roberti (eurodeputato Pd), Anna Finocchiaro, più volte ministro dei governi di centrosinistra, entrò in aspettativa nel 1988, quando era pm a Catania; dopo aver militato in un partito per il quale ha ricoperto importanti incarichi nell'arco di 30 anni, è ritornata a fare il suo mestiere. Stessa cosa per l'ex pm di Milano Stefano Dambruoso, eletto a suo tempo con Scelta civica. Rientrati Doris Lo Moro (già giudice del Tribunale di Roma), non ricandidata da Liberi e uguali e il procuratore Domenico Manzione, sottosegretario all'Interno con Renzi. Poi c'è Gianrico Carofiglio, a lungo pubblico ministero e dal 2008 al 2013 senatore Pd. Luciano Violante, parlamentare dal 1979 al 2008, senza mai dimettersi da magistrato. C'è anche il caso dell'ex pm di Viterbo Donatella Ferranti, rimasta fuori ruolo per 18 anni, prima al Consiglio superiore della magistratura e poi deputata Pd, fino a rientrare come giudice di Cassazione. Nella lista dei fuori ruolo anche Cosimo Maria Ferri, già giudice a Massa, oggi eletto nel Pd in Toscana. Giovanni Melillo, procuratore aggiunto a Napoli, uscito nel 2014 per fare il capogabinetto del ministero della Giustizia, è tornato nel 2017 sempre a Napoli, come Procuratore capo. E poi un po' di storia recente. L'ex pm Luigi De Magistris, europarlamentare per l'Italia dei valori dal 2009 al 2011 e poi sindaco di Napoli. Antonio Ingroia, fino al 2012 magistrato della Procura di Palermo, poi Rivoluzione Civile. Nel 2013 i grillini, neofiti del Parlamento, propongono il magistrato ed ex senatore del Pci-Pds, Ferdinando Imposimato, per la carica di capo dello Stato. Nel 2013, sotto le insegne del Pd, entra in Parlamento anche l'ex Procuratore nazionale Antimafia, Pietro Grasso che diventa presidente del Senato e cinque anni dopo leader di Liberi e uguali. Una mosca bianca: Felice Casson, senatore Ds-Pd dal 2006 al 2018, è l'unico ad aver dichiarato di non voler più tornare a fare il magistrato.

Francesco Pacifico per “il Messaggero” l'11 giugno 2021. I candidati sindaci per il Campidoglio e i loro schieramenti di appartenenza si affannano nella ricerca di amministratori adeguati per la Capitale. Si punta a parlamentari di grande esperienza come a figure prese dalla società civile. Ma mentre si lavora alacremente per formare gli staff - nei giorni precedenti al voto comunicare il nome di quello o di quell' altro assessore sposta non pochi consensi - piomba sulla campagna elettorale un macigno che scatena polemiche che vanno ben oltre la tornata amministrativa. Davanti alle telecamere de La 7 Enrico Letta, segretario del Pd, ha tuonato: «Il centrodestra ha candidato due magistrati a Napoli, come sindaco (Catello Maresca, ndr) e a Roma, come vicesindaco (Simonetta Matone, ndr). Peccato che siano magistrati in funzione nel posto dove si candidano, hanno preso decisioni sulla libertà delle persone, hanno accesso a tutti i dati sensibili della terra rispetto alla quale si candidano». Per concludere: «La legge ha un buco, non impedisce questo, è un errore gravissimo». 

I PRECEDENTI. Per la cronaca il Pd ha come governatore della Puglia un ex pilastro della Procura di Bari come Michele Emiliano. Mentre lo scorso 28 gennaio, per soffermarsi sul nome di Maresca, il Consiglio superiore della magistratura ha archiviato una segnalazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli, secondo il quale il sostituto della Procura partenopea aveva avviato contatti politici per candidarsi nella stessa città dove svolgeva la sua attività inquirente. Al di là degli aspetti più tecnici, sul fronte politico, è arrivata dal centrodestra la durissima replica di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d' Italia: «I magistrati non si possono candidare solo nel centrodestra? È il classico utilizzo dei due pesi e due misure della sinistra italiana. Se è consentito è consentito, se non è consentito non è consentito. Se vogliamo aprire un dibattito lo apriamo, ma no che si dica che non si possono candidare nel centrodestra quando la sinistra è una vita che usa i magistrati e li candida. Non se ne è accorto Enrico Letta? Credo che ci fosse anche lui». Del tema si tornerà a parlare sia nel dibattito sulla riforma del Csm sia in campagna elettorale a Roma, dove questa mattina Enrico Michetti, candidato al Campidoglio per il Centrodestra, si presenta alla stampa (alle 11 al Tempio di Adriano) e soprattutto presenta la sua prosindaca, Simonetta Matone, sostituto procuratore generale presso la Corte d' Appello di Roma. Ieri, i due si sono incontrati per la prima volta: vuoi per l' evento di oggi, vuoi per discutere di municipalizzate, rifiuti e sicurezza, concordando i primi punti di un programma da completare a breve. Lo stesso avvocato tribuno - o Mr Wolf, risolve problemi, secondo la definizioni di Meloni - ha visto ieri anche Matteo Salvini, leader della Lega, e Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia. Se il ticket Michetti-Matone deve ancora avviare la macchina elettorale, i concorrenti stanno in queste ore lavorando alla squadra, alla giunta, che come detto può essere decisiva al ballottaggio. La sindaca uscente, Virginia Raggi, guarda alla continuità, almeno verso i fedelissimi come Pietro Calabrese, Antonio De Santis e le new entry Andrea Coia e Lorenza Fruci, assurta agli oneri delle cronache anche perché tra i massimi studiosi italiani di Burlesque. Per la futura giunta si parla anche di alcuni presidenti dei Municipi capitolini (Della Casa, Di Pillo, Campagna e Castagnetta), dei fidatissimi consiglieri Paolo Ferrara e Giuliano Pacetti, dello spin doctor (ed ex socio di Rousseau) Max Bugani, ma si guarda anche alla società civile: piace Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Lazio. Quel che è certo è che a breve il M5S ufficializzerà il regolamento per le candidature nella sua lista per le amministrative: 18 nomi su 48 scelti dalla sindaca, il resto, 2 per ognuno, dai Municipi.

SILVIA SCOZZESE. Dal centrosinistra Roberto Gualtieri ha promesso una giunta di alto standing, così per ipotizzare i futuri equilibri si deve studiare lo staff che lo aiuta a scrivere il programma: Silvia Scozzese, già commissario per il debito di Roma Capitale e capo di gabinetto al ministero della Coesione, per il bilancio, Eugenio Patané, consigliere regionale, per i trasporti, Silvia Costa per il turismo e la cultura. Si parla di poltrone anche per Giulio Pelonzi, attuale capogruppo in aula Giulio Cesare, e di Andrea Casu, segretario capitolino del Nazareno, mentre il consigliere Giulio Bugarini sarà il suo capostaff. Ma l' ex ministro guarderebbe anche alla pattuglia di deputati Dem al terzo mandato (come l' ex ministra Marianna Madia o l' ex sottosegretario Roberto Morassut). L' outsider Carlo Calenda ha già annunciato Francesco Carcano all' ambiente, Flavia Di Gregorio al sociale e Dario Nanni alle periferie. Ma starebbe facendo scouting tra il Mise, Italo e Sky, realtà dove ha lavorato come ministro o manager.

Il caso Maresca. Maresca candidato sindaco di Napoli, il Csm ha deciso di non decidere. Salvatore Curreri su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. Solleva parecchie perplessità, etiche e giuridiche, la decisione con cui il Consiglio superiore della magistratura, lo scorso 28 gennaio ha deciso, a stretta maggioranza (12 favorevoli contro 9), di archiviare la segnalazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli in riferimento al dott. Catello Maresca, suo sostituto. Secondo quanto riportato anche su queste colonne, infatti, il dottor Maresca ha avviato da tempo contatti politici in vista della sua candidatura alla carica di sindaco di Napoli, cioè della stessa città in cui esercita le proprie funzioni. Notizia non confermata ma nemmeno smentita dall’interessato il quale, alla richiesta di chiarire le sue intenzioni, formulata pubblicamente dal Vice Presidente dell’Anm, per tutta risposta vi si è dimesso, così da non sottostare – è ragionevole supporre – al suo Codice etico. Secondo l’articolo 8 di tale Codice, infatti, il magistrato “mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza” e, a tal fine, “nel territorio dove esercita la funzione giudiziaria (…) evita di accettare candidature e di assumere incarichi politico-amministrativi negli enti locali”. Da tale reticenza, quindi, la doverosa segnalazione del Procuratore generale al Csm perché valutasse se la “campagna elettorale”, seppur sottotraccia, avviata dal dottor Maresca configurasse i presupposti per il suo trasferimento coattivo per incompatibilità ambientale – che scatta quando i magistrati “per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità” (art. 2 r. d.lgs. 511/1946, corsivo mio) – e/o per l’avvio di un’azione disciplinare nei suoi confronti per lesione del prestigio dell’ordine giudiziario e dei doveri inerenti alla funzione esercitata in conseguenza, si può ipotizzare, della sua partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici (art. 3.1.h) d.lgs. 109/2006). Il Csm, invece, ha deciso di archiviare il caso perché, in mancanza di un espresso divieto, il magistrato può candidarsi alle elezioni amministrative in forza del diritto di accesso alle cariche pubbliche (art. 51 Cost.). Difatti, nel nostro ordinamento, al magistrato è fatto divieto di candidarsi (se non dimettendosi) solo nelle elezioni politiche e limitatamente alla circoscrizione dove ha esercitato (nei sei mesi precedenti) o esercita le sue funzioni. Se invece si vuole candidare per il Parlamento altrove (v. caso Ingroia; art. 8 d.p.r. 361/1957) oppure nelle elezioni regionali o locali dove esercita le sue funzioni basta che si metta in aspettativa al momento della presentazione delle candidature; aspettativa addirittura non richiesta se si vuole candidare altrove (v. rispettivamente artt. 2 l. 154/1981 e 60 d.lgs. 267/2000). È quindi possibile, e di fatto accaduto, che un pubblico ministero si candidi e venga eletto in una lista politica avversa a quella di appartenenza di un esponente politico contro cui aveva promosso e condotto alcune indagini di rilevante clamore mediatico. Il magistrato può anche assumere cariche all’interno dei governi regionali e locali nel territorio in cui esercita le proprie funzioni anche in questo caso mettendosi semplicemente in aspettativa. Aspettativa non richiesta se vuole assumere tali cariche nei territori locali dove non esercita – ma magari ha appena finito di esercitare – le proprie funzioni. Per quanto paradossale a dirsi, il magistrato può, dunque, contemporaneamente svolgere funzioni politico-amministrative in un ambito territoriale diverso da quello in cui svolge funzioni giudiziarie, senza essere obbligato né a chiedere, né a ricevere l’autorizzazione dal Csm. Lo stesso Csm, al riguardo, ha dovuto sconsolatamente ammettere di non essere in grado di effettuare “una ricognizione circa il numero dei magistrati impegnati contemporaneamente in funzioni giurisdizionali ed in funzioni politico-amministrative” (parere del 21 maggio 2014). Le carenze della vigente disciplina legislativa sono state oggetto di severe censure da parte sia del Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco), organo consultivo del Consiglio d’Europa, secondo cui essa solleva “questioni importanti dal punto di vista della separazione dei poteri e per quanto riguarda l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici” (rapporto 2016), sia dello stesso Csm che fin dal 2015 ha inutilmente invitato il Ministro della Giustizia a modificarla in senso più restrittivo, anche vietando il ritorno in magistratura per chi si è stato eletto o anche solo candidato. Ed è proprio l’assenza di un divieto legislativo di candidatura che ha indotto il Csm ad archiviare la pratica del dottor Maresca. Decisione però che lascia perplessi perché il punto sollevato non era solo il diritto del dottor Maresca di candidarsi nelle prossime elezioni amministrative ma anche, in vista di esse, di poter intrattenere non episodici e casuali contatti (non smentiti) con esponenti politici che ne minano irrimediabilmente la necessaria immagine di imparzialità e indipendenza. È questa, del resto, la via stretta delineata dalla Corte costituzionale nella recente sentenza sul noto caso Emiliano (sentenza n. 170/2018) in cui ha affermato che i magistrati possono candidarsi ma senza iscriversi o partecipare in modo sistematico e continuativo all’attività di un partito perché tenuti al rispetto degli obblighi d’imparzialità ed indipendenza imposti dall’appartenenza all’ordine giudiziario. Ed è su questo profilo, opportunamente sollevato in via complementare dal Procuratore di Napoli, che la decisione del Csm pare omissiva, se non carente anche sotto il profilo istruttorio, essendosi inopportunamente respinta anche la richiesta di un supplemento d’indagine che avrebbe comportato la convocazione dello stesso Maresca. Ma al di là di tali considerazioni giuridiche, questo caso, insieme a molti altri (non ultimo la pavloviana incontinenza verbale che affligge taluni magistrati al cospetto di telecamere e giornalisti), dimostra come parte di essi abbia complemento smarrito il senso di riserbo, equilibrio e misura al quale devono sempre attenersi nei loro comportamenti pubblici e privati. C’è ancora qualcosa di vero nell’espressione di Federico II per cui “la giustizia regna nel silenzio”. E a quanti ancora, nonostante tutto, continuano pervicacemente a ripetere il ritornello che il magistrato è un cittadino che, al pari degli altri, ha diritto di partecipare alla vita culturale, sociale e politica della comunità in cui vive e opera, forse vale la pena di ricordare che, prima ancora di essere un cittadino, egli rimane innanzitutto, sempre e dovunque un magistrato; un magistrato-cittadino, dunque, e non un cittadino-magistrato, perché i doveri e i limiti derivanti dalla sua funzione devono sempre prevalere inevitabilmente sull’esercizio dei suoi diritti politici, imponendogli di apparire – oltreché essere – imparziale.

Le reazioni alla decisione del Csm. Non è colpa di Maresca se ancora non c’è la legge su toghe ed elezioni. Eduardo Savarese su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Il caso di Catello Maresca a me pare non molto complesso giuridicamente, se inteso nei termini specifici decisi dal Consiglio superiore della magistratura, e invece di non agevole soluzione in termini generali di politica legislativa e anche associativa (interna alla magistratura). Parto dal diritto del caso concreto. La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno affermato che i magistrati devono poter godere degli stessi diritti di libertà garantiti a ogni altro cittadino, ivi compreso quello di elettorato passivo, cioè di candidarsi a una competizione politica. Questi diritti possono essere limitati, per legge, sia per la particolare delicatezza delle funzioni giudiziarie sia in forza dei principi di indipendenza e imparzialità. È la Costituzione a mostrare il proprio sfavore – cito la Corte Costituzionale – «nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche dell’apparenza di queste ultime» (corsivo nostro). Il giudice, poi, dev’essere indipendente anche per assicurare l’imparzialità e, in specie, «l’esclusione di ogni pericolo di parzialità». Infatti costituisce illecito disciplinare per i magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici. In questa stessa prospettiva può venire in rilievo – come nel caso di Catello Maresca deciso dal Csm – l’articolo 2 del regio decreto legislativo 511 del 31 maggio 1946 (con l’attinente circolare del Csm del 26 luglio 2017) che riguarda il gravoso procedimento amministrativo di trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale e/o funzionale, il quale inizia con una prima fase conoscitiva e istruttoria, in ordine alla sussistenza di elementi idonei a giustificare l’apertura del procedimento, che può concludersi con l’archiviazione o con l’apertura del procedimento. È chiaro, dunque, che l’apertura di per sé sola esige «elementi idonei» e che, quando venga in gioco, come in questo caso, un diritto di libertà sancito dalla Costituzione e dalla Cedu (quello di candidarsi), quegli elementi, per essere idonei, devono da subito riguardare molto concretamente e specificamente attività o comportamenti forieri di «legami stabili» col mondo politico giunti al vaglio dell’opinione pubblica. Questi elementi, a giudizio del Csm (la maggioranza dei suoi votanti), non sono emersi nel caso Maresca. Come tutte le opzioni interpretative, questa soluzione è opinabile (l’alternativa sollecitata dalla minoranza era un approfondimento istruttorio), ma non errata e peraltro la trovo garantista proprio nella prospettiva di un procedimento di incompatibilità, strumento capace di minare a sua volta ciò che vorrebbe garantiti, cioè l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato. Ma la questione è anche, come abbiamo detto, politica in termini generali. Proprio la vicenda (da ultimo) della possibile candidatura di Maresca rende evidente che, quando si tratti di un diritto di libertà garantito dalla Costituzione, le sue limitazioni devono essere poste dalla legge e con chiarezza: cioè da un atto proveniente dall’organo politico per eccellenza, il Parlamento. La legge può anche comprimere grandemente questo diritto, ponendo il magistrato di fronte alla scelta tra candidatura e dimissioni (come talune legislazioni europee prevedono e la Corte europea ha a più riprese ritenuto che esse possano certamente fare proprio per l’importanza essenziale ai fini della tenuta democratica dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice). Ma sappiamo che in Italia la legge tace e lascia un’ampia zona grigia, riguardante i tempi della scelta della candidatura con ciò che ne consegue. E questo è frutto di una precisa responsabilità politica. La politica associativa interna alla magistratura ha una sua regola deontologica e ha sollecitato Maresca a sciogliere la riserva. Di più non può e non deve fare (ineccepibile in tal senso la posizione di Marcello De Chiara, presidente della sezione napoletana dell’Anm). Sta allora alla coscienza del singolo magistrato che voglia esercitare quel diritto di libertà autolimitarsi, e sta alla società civile farsi un giudizio del suo comportamento sia per i tempi sia per i modi della scelta. Ciò non significa che il magistrato che voglia far politica può farlo quando e come vuole: sopra ho ricordato le regole esistenti e il principio guida che da esse si trae, cioè che non vi siano attività o comportamenti capaci di esprimere un legame stabile col mondo politico e che tale sia percepito dalla società civile. Senza una legge, la zona grigia della fase antecedente all’ufficializzazione della candidatura e l’opinabilità intrinseca alla valutazione dei «comportamenti e delle attività» che in tale zona vanno stagliandosi, resta fittamente grigia: nel grigiore, oggi, propendo per l’esercizio di un diritto di libertà piuttosto che per una procedura (anche solo paventata) di apertura per incompatibilità ambientale. Una chiosa finale: anche questa vicenda dimostra quanto sia importante – non solo per la magistratura – che il Csm, come ogni altro organo costituzionale, goda di salda credibilità. 

Il Plenum salva il pm. Caso Maresca, si spacca il Csm: “Assurdo far finta di nulla”. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. «Non commento le decisioni del Csm, ho rispetto sacro per ogni istituzione della Repubblica, per ogni componente del Csm e per l’istituzione Csm. La toga è sempre stata e sempre sarà la mia seconda pelle. La mia bussola sono la Costituzione e le leggi, cui siamo tutti soggetti. L’onore e il decoro dell’ordine giudiziario cui mi onoro di appartenere sono da sempre il mio orizzonte morale e ideale, non a chiacchiere ma con comportamenti concreti quotidiani. Ho sempre servito e servirò le istituzioni e i cittadini italiani» dice Catello Maresca alla notizia che il Plenum del Csm ha deciso per l’archiviazione della pratica che avrebbe potuto determinare un suo trasferimento per incompatibilità. Ed è proprio in quel riferimento finale ai «cittadini italiani», oltre che alle «istituzioni», che si potrebbe intravedere un’anticipazione della sua volontà di candidarsi a sindaco di Napoli. Ma siamo sempre nel campo delle deduzioni e delle supposizioni, nella bolla del detto e non detto che è poi quella che ha portato la questione dinanzi al Csm. Il Plenum di Palazzo dei Marescialli ha deciso di approvare – con 12 voti favorevoli, 9 contrari e l’astensione della consigliera togata Loredana Micciché – la proposta della Prima commissione di archiviare il caso Maresca. E la decisione, ieri, è arrivata al termine di un dibattito serrato, durato oltre tre ore, con una prima votazione – bocciata per un voto, 11 a 10 – sulla proposta di far tornare la pratica in Commissione per ascoltare il pg di Napoli Luigi Riello (che aveva segnalato il caso al Csm inviando una nota con gli articoli di stampa che davano conto delle indiscrezioni sulla possibile candidatura di Maresca) e del presidente dell’Ordine degli avvocati Antonio Tafuri al fine di sondare il clima negli ambienti giudiziari napoletani. Qualche consigliere aveva anche proposto di sentire lo stesso Maresca, ma è stato in netta minoranza. Al termine di una dialettica accesa ha prevalso, quindi, la linea di chi non voleva correre il rischio che la decisione del Csm potesse in qualche modo passare per un’interferenza nella vita politica cittadina o per un condizionamento sulla scelta personale del magistrato. «Non si può prevedere che l’articolo 2 sia una norma superstar, vincente su tutti» ha ribadito il consigliere laico Alessio Lanzi riferendosi alla legge sulle guarentigie. Favorevole all’archiviazione, Lanzi ha sottolineato che «Maresca ha ritirato premi, si impegna nel sociale e nel volontariato, può essere che siano cose che fa nella prospettiva di una candidatura ma non sappiamo se si candiderà oppure no, e tutto quello che ad oggi ha fatto è assolutamente lecito e consentito» ha aggiunto citando la Costituzione e mettendo in guardia dal rischio che «poi può valere per tutti i magistrati». «Tutti i giornali parlano della candidatura di Maresca – ha ribadito il togato Giuseppe Cascini, contrario invece all’archiviazione – Non si può chiudere qui come se nulla ci sia». «Questa è una candidatura in pectore e non lo dice solo il parroco – ha aggiunto il togato Giuseppe Marra, anch’egli contrario all’archiviazione, riferendosi a indiscrezioni provenienti non solo da ambienti politici – e Maresca ci ha messo del suo: quando si parlò della sua candidatura alle regionali smentì subito, ora invece non smentisce». «Maresca non ha mai dichiarato di essere candidato e non ha fatto comizi» ha precisato il consigliere Nino Di Matteo, favorevole all’archiviazione e più polemico nei confronti dell’Anm («Non entro nel merito ma non mi risultano dibattiti vivaci su altri casi») e del pg Riello («Mi chiedo se nella segnalazione non ci sia stato un eccesso di zelo»). E Riello ha poi replicato di aver agito nell’ambito dei suoi obblighi e non per volontà persecutorie. Sul fronte del sì all’archiviazione, nella seduta del Plenum, si sono pronunciati, inoltre, i togati Antonio D’Amato («C’è un vuoto normativo ma il Csm non può decidere sulla base di sospetti ma di elementi certi»), Paola Braggion («Non vedo elementi per un’incompatibilità d’ufficio ma è bene che il collega charisca»), Carmelo Celentano e Stefano Cavanna (pur non condividendo parte della motivazione), Alberto Benedetti, Sebastiano Ardita, Fulvio Gigliotti e Michele Ciambellini (più concentrati sui compiti del Csm). Contro l’archiviazione hanno votato la presidente della I Commissione Elisabetta Chinaglia, Filippo Donati, Ilaria Pepe, Mario Suriano, Alessandra Dal Moro, Michele Cerabona: «Se Maresca non smentisce né approva si crea la diffusa percezione che stia già facendo campagna elettorale», «Il magistrato deve essere e apparire autonomo e indipendente».

La decisione del Plenum. Maresca può candidarsi, il Csm decide ma Riello non ci sta: “Basta con i pm super-star da talk show”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. Il pm Catello Maresca, al momento sostituto alla Procura Generale di Napoli, potrà candidarsi a sindaco. Nessuna legge glielo impedisce, potrà essere l’uomo del centrodestra alle prossime elezioni nel capoluogo campano. A confermalo, dopo la decisione della Commissione, è il plenum del Csm. Una decisione che ha comunque spaccato il Consiglio Superiore della Magistratura. La motivazione del plenum spiega che Maresca ha “pieno diritto di candidarsi per competizioni elettorali amministrative in Campania, comprese quelle relative al Sindaco della città di Napoli”. Nessuna irregolarità nei contatti, che vanno avanti da mesi, con esponenti politici per una sua discesa in campo, e che non vanno ritenuti “illeciti o comunque forieri di pregiudizio all’indipendenza ed all’imparzialità del magistrato”. Caso archiviato dunque: come d’altronde già preannunciato. Il punto è, come ha spiegato anche a questo giornale in un’intervista il deputato Pierantonio Zanettin, membro della commissione Giustizia della Camera. La Prima Commissione del Csm aveva chiesto al plenum di archiviare il fascicolo aperto dopo la segnalazione del procuratore generale di Napoli Luigi Riello per verificare se vi fossero gli estremi per l’avvio di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Quattro i voti a favore dell’archiviazione – quelli dei Nino Di Matteo (indipendente) e Paola Braggion (Magistratura Indipendente) e dei laici Emanuele Basile (Lega) e Alessio Lanzi (Forza Italia) – due quelli contrari – le consigliere Ilaria Pepe (Autonomia e Indipendenza) e Elisabetta Chinaglia. Proprio la Commissione del Csm aveva sottolineato la mancanza di una norma che “precluda ai magistrati di candidarsi per competizioni di natura amministrativa all’interno del circondario o del distretto nel quale esercitino o abbiano esercitato le proprie funzioni”. L’articolo 60 del decreto legislativo 267 del 2000, lo consente a condizione – avevano ricordato i consiglieri – che i magistrati che si candidano “si dimettano, si trasferiscano o si collochino in aspettativa non retribuita entro il giorno fissato per la presentazione delle candidature”. La decisione del plenum ha comunque spaccato i consiglieri: 12 i voti a favore, 9 i contrari, dopo che era stata bocciata la richiesta di un ritorno in Commissione della pratica per ascoltare Riello e il presidente dell’Ordine degli avvocati. Durissimo il commento sul caso del Procuratore generale di Napoli Luigi Riello: “Basta con i treni andata e ritorno tra magistratura e politica, con i pm super-star che frequentano i talk-show. Io li vedo come una negazione”, aveva osservato Riello durante la conferenza stampa on-line di presentazione dell’anno giudiziario 2021. Secondo il presidente della Corte di Appello di Napoli tra magistratura e politica “meno rapporti ci sono, meglio è”. Se poi si decide di entrare in politica, ha aggiunto, “allora decidi anche di aderire a una fazione e di apparire”, due elementi, secondo De Carolis, “che poco si conciliano con la figura del magistrato”. Per Riello, infine, “un magistrato non può candidarsi nel luogo dove esercita l’azione inquirente”. Maresca è lanciato verso la candidatura alle prossime comunali a Napoli. Il coordinatore della Lega in Campania Valentino Grant, appena insediato dal segretario Matteo Salvini, ha confermato al Corriere del Mezzogiorno: “Conosco e stimo Catello Maresca che per Napoli e i napoletani potrebbe fare tantissime belle cose. È un candidato civico e non vogliamo attaccargli bandierine: ne parleremo con gli alleati, ma per me in ogni caso il bene di Napoli viene prima dell’interesse di partito”. Anche se Fratelli d’Italia caldeggia l’opzione Sergio Rastrelli, avvocato, figlio dell’ex presidente della Regione Antonio Rastrelli.

·     Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Antonio Giangrande: Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Ecco la loro voglia di dire “ quello che è tuo è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti i comunisti pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. In questo modo vedono nemici ovunque. Non pensano i fessi che facendo così alimentano la ingiustizia sociale. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Quindi non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo nel marcio italico si è tutti uguali. Basta non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Io non firmo i referendum sulla giustizia: La lega sostiene il referendum ed in antitesi il disegno di legge Cartabia. FdI non firma tutti i quesiti referendari. FdI come il PD.

Questo non è un referendum garantista. E’ un referendum populista: ossia, una presa per il culo.

E la legge Cartabia è il placebo come l’acqua e zucchero contro il Covid: inefficace.

Quindi nulla cambia.

Pd e satelliti comunisti-Lega-FdI-5 Stelle sono giustizialisti attaccati alle poltrone.

Forza Italia è qualunquista attaccata alle poltrone.

E questi avanzano ed approvano proposte popolari?

Nella legge e nel referendum trova l’inganno.

Primo inganno: sono promotori del referendum il diavolo (i radicali garantisti) e l’acqua santa (la Lega giustizialista).

Secondo inganno: legge e referendum sono intenti elettorali. La legge nulla cambia, se non un tocco di cipria. Il referendum farà la fine dei precedenti: non votato per scadenze elettorali o ignorato.

Terzo inganno: la credibilità. La Lega e FdI sono stati sempre forcaioli, fino a che le inchieste hanno travolto loro. Come aver fiducia di chi si ostina a parteggiare per i manganellatori delle carceri?   

Quarto inganno: la coerenza. Salvini faceva parte del governo Conte che ha approvato la legge forca. Salvini fa parte del Governo Draghi che ha votato la legge placebo. Salvini è promotore del referendum populista che è in antitesi con le leggi dei precedenti governi.

Il problema non sono le decisioni cervellotiche ed unilaterali dei leader dei cosiddetti partiti e movimenti personali. Il vero problema è che nel 2021 ci sia ancora gente che sia disposta a farsi prendere per il culo.

L'opera di Verdi. Il Machbeth racconta il carrierismo delle toghe: la brama, la colpa e il potere. Eduardo Savarese su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. «Pien di misfatti è il calle della potenza. E mal per lui che il piede dubitoso vi pone e retrocede». Questo declama Lady Macbeth nel suo ardimentoso recitativo, atto primo di quel Macbeth verdiano – custode della più affilata meditazione sul potere – che apre oggi la stagione scaligera. Secondo la tragedia shakespeariana, in un remoto regno di Scozia il prode Macbeth, di ritorno da una delle tante vittorie col compagno d’armi Banquo, fa un incontro incredibile: un gruppo di streghe gli profetizza una serie di titoli (prima signore di Cawdor, poi, addirittura, re di Scozia). Da questo momento Macbeth, incitato dalla spietata consorte, tenterà di realizzare, con plurimi omicidi politici, il vaticinio delle streghe: uccide nottetempo il re Duncan mentre è ospite del loro castello, uccide Banquo, uccide la moglie e i figli di Macduff. Il sangue cerca altro sangue e il potere che pare consolidato dall’ennesimo atto di violenza riprende il giorno dopo a vacillare. Nel comporre l’opera Verdi volle snellire la fonte letteraria per concentrarsi su lui (Macbeth), lei (Lady), loro (le streghe): il potere si nutre sempre di qualche complice sodalizio, di un patto tra solitudini. Mentre Macbeth all’inizio, perseguitato dai sensi di colpa, è titubante (Lady canterà “quell’animo trema, combatte, delira”), sua moglie lo spinge senza tentennare (“il fatto è irreparabile”), fino al punto in cui le parti si invertono: Lady morirà, perseguitata in tetre notti di sonnambulismo dal sangue irredimibile degli assassinati, Macbeth affronterà con la sua “fibra inaridita” l’ultima battaglia per un potere che, infine, i nemici polverizzeranno. Ma a dettare le scelte dei due sono profezie ingannevoli, dalle quali i “coniugi” si sentono rassicurati: le streghe sembrano agevolare la scalata al potere, ma poi abbandonano beffardamente lo scalatore (magia e tecnologia giocano partite analoghe, dunque). Verdi ci ha visto giusto: nella triangolazione Macbeth-Lady-Streghe c’è l’essenziale della dinamica stritolante del potere. Certo, non ogni potere è omicida, non ogni potere è tiranno: ogni potere, però, serba dentro di sé i germi dell’eliminazione sleale dell’avversario, della spinta ad auto-conservarsi a dispetto di tutto il resto. Vi è un aspetto particolarmente inquietante nel comportamento di Macbeth e Lady: essi non soltanto mentono, osano anche spingersi col linguaggio verso il confine di una costante provocazione. Due esempi. Dopo aver ucciso il re Duncan, si fingono costernati e, nel magnifico concertato finale che chiude il primo atto, invocano l’ira divina sull’omicida: non rispettando il peso delle parole, non temono le conseguenze della falsificazione, anzi, se ne compiacciono e irridono il linguaggio del dolore espresso dalla comunità. Allo stesso modo, dopo aver dato mandato di uccidere Banquo, la sera stessa festeggiano con i loro ospiti e, mentre Lady intona un brillante brindisi (“Si colmi il calice di vino eletto”), arrivano al punto di lamentarsi dell’assenza ingiustificata del nobile amico, che intanto giace, cadavere, ai margini di un bosco. Ed è qui che l’ombra di Banquo appare a Macbeth, ed è da questo momento che Macbeth comprende che non resta che alimentare il potere iniquo con altra iniquità (“sangue a me quell’ombra chiede e l’avrà, lo giuro”). Bisogna cogliere l’occasione di rivedere questa potente creazione verdiana, profittando della diretta streaming. In specie, l’occasione è propizia in tempi di democrazie vacillanti (ovunque circondate da vaticini di nuove streghe), e lo è poi per la necessità tutta italiana di arginare poteri ingrassati, eppure insaziabili. Riascoltando il Macbeth verdiano in questi ultimi giorni, non ho potuto non riflettere sulle vicende di riassetto del tutto apparente che da circa due anni e mezzo attraversano la magistratura italiana d.P. (dopo Palamara). Si tratta di questioni largamente ignote alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica la quale registrò i fatti scandalistici dell’hotel Champagne per concludere che c’è del marcio. Ebbene, la magistratura e il parlamento si apprestano, tra pochi mesi, e sotto un nuovo settennato presidenziale, a rinnovare il Csm, organo di autogoverno che, in base alla Costituzione, deve assicurare autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario. Non sappiamo se da qui alle prossime elezioni ci saranno nuove regole elettive: quel che sappiamo, però, è che il percorso tanto di identificazione dei candidati, quanto di organizzazione del consenso resta saldamente nelle mani delle correnti in cui si articola tutt’ora la rappresentanza associativa della magistratura italiana che si dirige verso un sempre più marcato bipolarismo tra la sinistra giudiziaria (Area, MD) e l’ala dei cosiddetti moderati (Magistratura Indipendente), benché vada crescendo il peso del gruppo dei 101 col suo tentativo di scardinare consolidate logiche correntizie. La magistratura rappresentata, tra amarezza, timori e disillusione, resta in silenziosa attesa della prossima tornata elettorale mentre il Csm procede nel suo lavoro in un intrico di sentenze del Consiglio di Stato severe come ceffoni di antiche maestri su bambini ineducabili. Divorati dal carrierismo e dalla brama di consolidare assetti di potere, i meccanismi del nostro autogoverno potranno questa sera farci intonare Patria oppressa come il sublime coro verdiano del quarto atto: una magistratura oppressa da sé stessa che rischia di opprimere un intero Stato. Alla fine Lady muore di angoscia per l’insostenibilità psichica dei crimini commessi. Nel sogno rivela tutto. Alla fine Macduff uccide Macbeth e il coro esulta per la liberazione. Dovremmo forse confidare più nel primo processo che nel secondo: una grande, collettiva scena di sonnambulismo, per cominciare, cessati i terribili processi di tracotante falsificazione del linguaggio, a chiamare tutte le cose col proprio nome. Bisogna, cioè, che la magistratura rompa il silenzio assordante che si protrae da circa due anni. Eduardo Savarese

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 10 dicembre 2021. L'attesa riforma del Consiglio superiore della magistratura è stata presentata alla maggioranza. Incontri bilaterali, niente testo scritto, esposizione di Marta Cartabia seguita da osservazioni dei partiti che hanno riempito il quaderno della ministra. Il tema principale è il sistema elettorale del Csm. 

Decisivo per gli equilibri interni (correnti) ed esterni (politica). La prova era ed è improba, sia tecnicamente che politicamente. Dissociandosi dalla sua commissione di esperti, la ministra propone un sistema maggioritario e tendenzialmente bi-correntizio. Destra-sinistra, o di qua o di là. Su 16 seggi togati del Csm, 14 vengono messi in palio a coppie, in collegi grandi (almeno cinque regioni).

Ogni elettore esprime un voto e ogni collegio elegge due consiglieri, i più votati tra i candidati che si presentano individualmente. I restanti due seggi vengono assegnati con un meccanismo di riequilibrio per minoranze, sia politiche che di genere, ipotizzando anche il sorteggio. L'effetto è la polarizzazione sulle due correnti egemoni: la progressista Area e la conservatrice Magistratura Indipendente, che nel frattempo ha prosciugato gran parte del corpo e dell'anima della centristra Unicost (un tempo palamariana).

Minacciate di estinzione, a meno di generose desistenze o acrobazie elettoralistiche, le rimanenti correntine: la stessa Unicost, Autonomia&Indipendenza ormai orfana di Davigo, Magistratura Democratica sganciatasi recentemente da Area in un riflesso identitario. E, più in generale, tutti i gruppi minori e meno organizzati, come i neonati 101 vicini ai pm antimafia Di Matteo e Ardita. 

Non a caso sono loro, ancor prima di leggere una bozza su cui peraltro il Csm fornirà un parere, i primi a insorgere contro «una riforma che rappresenta il trionfo del correntismo». Se non «il sistema che sublima e istituzionalizza il metodo Ferri-Palamara, delegando il governo della magistratura ai gruppi di potere», come sostiene Magistratura Democratica.

La bozza Cartabia, che dovrebbe andare in Consiglio dei ministri prima di Natale, assorbe buona parte di quella Bonafede, presentata nella preistoria del governo gialloverde e mai sbocciata. Per il resto: vietato ai magistrati candidarsi alle elezioni nella stessa città; meno incarichi fuori ruolo; più coinvolgimento degli avvocati nei consigli giudiziari; accesso ai concorsi di magistratura con la laurea. Farà discutere il Csm voto segreto al Csm sulle nomine, in deroga al generale principio di trasparenza nei concorsi pubblici.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2021. L'obiettivo è aumentare l'imprevedibilità dell'esito del voto e diminuire il controllo di candidati e eletti da parte delle correnti. Gli strumenti per raggiungerlo sono un nuovo sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura e nuove regole per il suo funzionamento. Quali saranno è ancora un'incognita. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha esposto ieri le sue proposte ai rappresentanti dei partiti, dopo averne già parlato con magistrati e avvocati; ma su alcuni punti lei stessa ha messo in campo ipotesi alternative, in attesa di pareri e suggerimenti delle forze politiche. Con l'idea di far approvare entro Natale dal Consiglio dei ministri il testo da portare in Parlamento, e sperare che lì non sorgano problemi. È lo stesso metodo utilizzato per la riforma del processo penale, quando il percorso si rivelò più accidentato del previsto; stavolta la Guardasigilli conta di procedere più spedita, pur consapevole che non mancheranno difficoltà. Si tratta di trovare la solita «strada percorribile» da una maggioranza sempre pronta a dividersi in materia di giustizia. Sistema elettorale Il principale nodo da sciogliere resta il sistema elettorale dell'organo di autogoverno dei giudici, che nel 2018 permise di assegnare i quattro posti da pubblico ministero prima ancora del voto, quando si presentarono 4 candidati, uno per ogni corrente. Cartabia ipotizza un sistema maggioritario con correttivi per aumentare il peso delle minoranze e garantire la parità di genere: turno unico per collegi binominali (elezione dei primi due classificati) con alcuni seggi riservati ai migliori terzi; «modello Champions League», l'ha definito il deputato Enrico Costa di Azione. Lasciando invariato il numero di 16 componenti togati si voterebbe con un collegio unico nazionale per i 2 posti di Cassazione, 2 per 4 posti da pm, e 4 per 10 giudici di merito; le candidature dovranno essere almeno 6 per ogni collegio, il triplo dei posti da assegnare; laddove non ci fossero si rimedierebbe con il sorteggio tra i magistrati disponibili. Numeri da cambiare (in proporzione) se si riportassero i togati a 20, com' era prima dell'ultima riforma, e il sorteggio colmerebbe le lacune sulla parità di genere.

Primi malumori

A parte la complessità del meccanismo, c'è già chi storce il naso. Forza Italia, per bocca del capogruppo in commissione Pierantonio Zanettin, ritiene che «la soluzione proposta favorisce il bipolarismo e mortifica i gruppi minori», e insiste per il sorteggio «temperato». Ma ci sono problemi di costituzionalità difficilmente superabili. Nemmeno i Cinque Stelle sembrano soddisfatti, e dall'interno del Csm i due togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo parlano di «trionfo del correntismo che farà sparire ogni possibile opposizione allo strapotere dei gruppi organizzati». Cioè l'opposto degli obiettivi che si intendono perseguire.

Incarichi direttivi

Per le nomine ai vertici degli uffici giudiziari sarà obbligatorio seguire l'ordine cronologico, in modo da evitare le nomine «a pacchetto»; obbligatoria anche l'audizione dei candidati dopo una prima selezione fatta in base ai curricula , con diritto di voto agli avvocati nei giudizi dei consigli giudiziari (organismi territoriali di valutazione). Si prevede inoltre l'introduzione di alcuni criteri di valutazione tra cui anche (non solo) l'anzianità di servizio. Sulle nomine inciderebbero pure le modifiche alle verifiche di professionalità, a cui dovrebbero partecipare avvocati e professori universitari. 

Toghe in politica

Regole più stringenti vengono proposte per i magistrati che scelgono l'attività politica, allo scopo di impedire che svolgano contemporaneamente incarichi elettivi (anche negli enti locali) e funzioni giudiziarie. Non sarebbe più possibile quindi una situazione come quella di Catello Maresca, consigliere comunale a Napoli (dove faceva il pm) e giudice a Campobasso; ma casi come il suo verrebbero impediti anche all'atto d'ingresso in politica, giacché sarà vietato candidarsi nei luoghi in cui i magistrati hanno lavorato negli ultimi tre anni. E alla fine del mandato è previsto un periodo di «quarantena» lontano dall'attività giudiziaria prima di tornare a indossare la toga. La riforma dovrebbe anche ridurre il limite dei magistrati da mandare fuori ruolo (oggi fissato a 200, pressoché raggiunto) con una specifica previsione degli incarichi extragiudiziari che si possono ricoprire. Modifiche anche all'accesso in magistratura, con la possibilità di sostenere gli esami subito dopo la laurea , aumento delle prove scritte e riduzione di quelle orali. 

Le correnti sempre più padrone. La magistratura è irriformabile, con la riforma Cartabia è peggio di prima. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Per ora non c’è nessun testo ufficiale. Si era detto che oggi la ministra Cartabia avrebbe presentato gli emendamenti del governo alla riforma del Csm, ma questo non è successo. Cartabia ieri mattina ha incontrato gli esponenti della maggioranza che sostiene il governo, ma si è tenuta sulle generali. C’è però un testo ufficioso che viene fatto girare, e che viene dal ministero. Se l’idea è davvero quella contenuta in questo testo, siamo fritti. Cioè, per capirci, le possibilità sono due: la prima è che di rinvio in rinvio non si faccia niente e si lasci che il nuovo Csm, che dovrà essere eletto in giugno, sia eletto con le vecchie regole. La seconda ipotesi è che invece in qualche modo, in fretta e furia, si faccia una riforma che lasci tutte le cose come stanno, anzi un po’ peggio. L’unica novità riguarderebbe il regime di incompatibilità tra magistrato e politico. E intorno a questa novità si fa un gran rumore, agitando il caso Maresca, magistrato che, a quanto pare, resterà nel consiglio comunale di Napoli e riprenderà anche a fare il Pm. la riforma Cartabia proibirebbe questo abominio. Beh, ci mancherebbe altro. Quanto al Csm, niente sorteggio, niente norme anti-correnti, niente riduzione del folle potere di autocontrollo della magistratura, ma semplicemente un sistema elettorale più o meno maggioritario che taglierebbe fuori dai giochi tutti i magistrati non inquadrati nelle due correnti più forti: Area e MI. Le toghe rosse e le toghe bianche. E le toghe giuste? Si levino dai piedi, è bene che le due grandi correnti riprendano in mano tutto il potere e chiudano il fastidioso intervallo del Palamaragate. Se le cose andranno così si confermerà una vecchia idea: la magistratura è un po’ come la vecchia Unione Sovietica. Irriformabile. Poi però un giorno di dicembre, giusto di 30 anni fa, l’Unione sovietica fu abbattuta. Beh, beh… potrebbe essere una idea.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Toghe e correnti. Addio riforma del Csm, ma se ne accorgono solo i vescovi. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Non passa giorno senza che si siano notizie di malagiustizia, la credibilità delle toghe è da tempo sotto zero, gli effetti nefasti del Palamaragate continuano a farsi sentire, come nella vicenda per la nomina del nuovo procuratore di Roma, ed il Parlamento cosa fa? Ha rinviato giovedì scorso ancora una volta la discussione per la riforma della magistratura e del Csm. Il motivo? Il governo non ha, a quasi un anno dal suo insediamento, preparato gli emendamenti al testo presentato all’inizio dell’estate del 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Chiunque, davanti ad un quadro del genere, e ricordando i continui richiami del capo dello Stato Sergio Mattarella a fare presto, si sarebbe aspettato di leggere la notizia dell’ennesimo rinvio della discussione generale su tutti i giornali di ieri. Ed invece nulla. A parte Il Riformista che ha dedicato l’apertura al rinvio della discussione in Commissione giustizia sulla riforma del Csm e sulla magistratura, silenzio totale. Non c’è una riga su Corriere della Sera e Repubblica, che cavalcarono il Palamaragate nell’estate del 2019, non c’è una riga sul Fatto Quotidiano, sempre molto attento a questi temi e sul quale scrivono un numero considerevole di magistrati, sia in servizio che in pensione, e non c’è una riga su quei giornali di destra che dovrebbero avere il dente avvelenato nei confronti delle toghe dopo il trattamento ormai trentennale riservato dalle Procure del Paese a Silvio Berlusconi e, ultimamente a Matteo Salvini e ai vari governatori leghisti, ad iniziare da quello della Lombardia Attilio Fontana, fresco di rinvio a giudizio a Milano per i camici donati allo scoppio della pandemia. A dirla tutta, comunque, un articolo su quanto accaduto in Commissione giustizia c’è. È su Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Avvenire ha dedicato al rinvio un editoriale in prima pagina dal titolo “Vietato non rifare il Csm”, proprio di fianco all’articolo con foto della visita di papa Francesco a Cipro. Che il giornale dei vescovi si interessi a temi “terreni” sorprende alquanto. Ma il motivo è ben spiegato nel pezzo: “Senza nulla togliere alle riforme del processo penale e civile, si può dire che la riforma del Csm è la “vera” riforma della giustizia”. “Senza una magistratura – prosegue – libera dal correntismo, dal protagonismo di alcuni suoi membri, e dall’appannamento della sua immagine agli occhi dei cittadini non avremo mai un sistema in grado di fornire un buon servizio ne di infondere fiducia agli investitori stranieri”. Più chiaro di così era difficile. Avvenire ricorda poi ai suoi lettori il potere del Csm in tema di assunzioni, promozioni, trasferimenti, sanzioni disciplinari dei magistrati. Un Csm “ostaggio delle correnti”, come affermato proprio al Riformista nelle scorse settimane dal giudice Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo anticorrenti. Il problema principale, a parte i tempi che si trascinano, riguarda la ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli ha intenzione di affidarsi al testo messo a punto dalla Commissione di studio presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani. Si tratta di riforme, come quella per l’elezione dei componenti togati del Csm, che “daranno ancora più potere alle correnti” hanno fatto sapere gli esponenti di centro destra in Commissione giustizia alla Camera, ad iniziare dal forzista Pierantonio Zanettin. “Meglio non toccare nulla e lasciare le cose come stanno piuttosto che approvare una riforma del genere”, ha detto Zanettin. Purtroppo il futuro non sembra riservare nulla di buona. Con la beffa che il testo possa essere approvato a “scatola chiusa”, con il voto di fiducia, seguendo una prassi consolidata del governo Draghi. Ieri il vice presidente del Csm David Ermini è tornato sull’argomento. “Spero che il Parlamento approvi in tempi assolutamente celeri la riforma del Csm”, ha detto Ermini. Paolo Comi

Toga Pride. È il giornalismo giustizialista che fa i magistrati forcaioli, non il contrario. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 25 Novembre 2021. Grazie alla legittimazione dei media, sia televisivi che cartacei, i giudici militanti ricevono una consacrazione che, in altri tempi, non sarebbe stata pensabile. E sono spinti a sostenere cose che, se fossero al bar, si vergognerebbero di dire. Forse è tempo di rivedere almeno in parte il ragionamento di denuncia che pur giustamente si è fatto sul rapporto perverso tra magistratura militante e giornalismo ad essa associato: e di precisare che non si è trattato di connubio, ma di filiazione. L’intimidazione giudiziaria, l’abuso inquirente, lo strapotere del contro-governo delle Procure della Repubblica, erano, e rimangono, meno fenomeni originari che creature della legittimazione giornalistica. E non nel senso che non ci fossero già prima della trasformazione dei giornali e delle televisioni in una perenne ribalta Toga Pride, ma nel senso che senza quell’accreditamento mediatico sarebbero rimasti al rango di una comune malversazione. Trent’anni dopo, la requisitoria contro l’innocente qualificato «cinico mercante di morte» sarebbe stata reiterata dal palcoscenico quotidianamente offerto dal giornalismo procuratorio agli influencer della magistratura combattente, quelli che non ascolterebbe nessuno se dicessero al bar, o in famiglia, o alla scorta, che gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca o che un po’ di galera per gli innocenti è dopotutto fisiologica: ma lo dicono in televisione, o sui giornali che senza perplessità incassano e rilanciano quegli spropositi.

Si potrebbe obiettare che chi arresta è infine il magistrato, non il giornalista che gli regge il microfono e ne canta le gesta. Ma l’errore è proprio in questa obiezione: perché la vera pericolosità dell’arbitrio, della violenza del potere, dell’abuso, non sta nel fatto che siano commessi ma nella circostanza che siano legittimati. E l’illegalità giudiziaria non si legittima da sola, ma nel battesimo giornalistico. 

Il protagonismo dei magistrati è una sindrome che non si cancella. Riscattare un periodo nero come questo, dal caso Palamara ai veleni della Procura di Milano. Fabrizio Rizzi su Il Quotidiano del Sud il 25 Novembre 2021. Che Mani pulite fosse un’inchiesta nella quale confluissero umori di un paese che non aveva mai visto un’azione profonda dei Pubblici ministeri, lo si sapeva. Quello che non si sapeva è che il protagonismo dei magistrati arrivasse a punti estremi, toccando i tasti più forti della democrazia. Malgrado siano trascorsi circa 30 anni, realizzare un bilancio sembra prematuro, acerbo, al limite non attuale. Ci fu un tempo in cui lo schieramento di telecamere, o apparecchi fotografici, dentro i corridoi delle Procure, veniva bollato come l’apparizione del circo mediatico, da allora quell’espressione è diventata calzante, nessuno ne ha più contestato l’origine ed è entrata nel lessico. Ma sul protagonismo, che non ha mai cessato di esistere, il discorso sarebbe lungo e viziato da spinte politiche. Di sicuro, però, è una sindrome che non si cancella, magari è sgualcita, ma è rimasta come appiccicata, come qualcosa che non si può lavare tanto facilmente.  Il presidente della Repubblica ne ha parlato alla cerimonia per il decennale della Scuola, superiore di magistratura a Villa Castelpulci, a Scandicci. C’erano ovviamente altre personalità del mondo giudiziario, dalla Guardasigilli, Marta Cartabia al vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini. E di fronte a questi “numeri 1” della giustizia ha lanciato un monito. Primo, fra tutti, la necessità di una riforma del Csm. Secondo, ritrovare il vigore ed evitare protagonismi. Soprattutto per riscattare un periodo nero come questo, con una serie di scandali dal caso Palamara ai veleni della Procura di Milano, che non hanno recato segnali positivi. Per il Capo dello Stato, “le vicende registrate negli ultimi tempi non possono e non devono indebolire l’esercizio della funzione giustizia – essenziale per la coesione di una comunità – attività svolta quotidianamente con serietà, impegno e dedizione negli uffici giudiziari. Se così non fosse, ne risulterebbero conseguenze assai gravi per l’ordine sociale e per l’assetto democratico del Paese”. Un punto questo approfondito anche da David Ermini. “Dimostrare esercitando la giurisdizione in modo indipendente e imparziale che la magistratura non è quella degli scandali ma è quella che rende giustizia al servizio della collettività”. Il presidente Mattarella ha comunque sottolineato l’esigenza della riforma del Csm. Ed ha incalzato: “Il dibattito sul sistema elettorale dei componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della composizione elettorale sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Per cui ha aggiunto, “è indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore. Non si può accettare il rischio di dover indire le elezioni con vecchie regole”.

DAL PRESIDENTE MONITO SUI FONDI PNRR

Il Capo dello Stato ha lanciato un monito sui fondi Pnrr durante una cerimonia che si è svolta al Quirinale. Mattarella ha chiesto di “usare bene i fondi del Pnrr, ma, parlando sempre ai referendari di nuova nomina della Corte dei conti, ha chiesto anche di avere “attenzione alla corruzione”.

DEM, DEBUTTO DEI 5 STELLE ALLE AGORÀ

Chi si aspettava un flop alle agorà dei Dem, è rimasto deluso. Non c’è nessun sfaldamento. Anzi, c’è stato un debutto di alta valenza politica. Enrico Letta aveva esplicitamente legato l’ingresso nel campo largo di centrosinistra alla partecipazione alle agorà. Aveva detto che per partecipare bisognava soltanto pagare 1 euro. Ma da allora il progetto di avvicinamento ha subito degli strappi. E soprattutto ci sono state delle fermate dopo le intemerate della Leopolda. Appare ormai impossibile che Italia Viva possa rientrare nel perimetro del Campo largo. Dai 5 stelle ci si attendeva un segnale, che è arrivato con la presenza di una esponente di spicco del movimento. Un dato, sottolineano, che conferisce al M5s un’immagine di un partito in movimento. Dall’elezione del segretario Letta il Pd è impegnato in un rovesciamento del paradigma della presenza femminile in politica, iniziata con l’elezione delle due capigruppo di Camera e Senato. Già si conta il risultato: “Nel Pnrr siamo riusciti a mettere la clausola di premialità obbligatoria sul lavoro femminile, un passaggio fondamentale”. Ma, incalza, c’è ancora molto da fare.

Le Iene contro il Csm: "Pericoloso attacco dalla magistratura", il caso che terremota Mediaset. Libero Quotidiano il 20 novembre 2021. Il Consiglio superiore della magistratura contro Le Iene. A spiegare quanto accaduto è Davide Parenti, autore del programma in onda su Italia 1: "Sta accadendo qualcosa che consideriamo un pericoloso attacco al diritto di cronaca: il Csm ci accusa di aver riportato una 'versione dei fatti assolutamente faziosa e non corrispondente alla realtà' che ha travalicato 'i limiti di una serena e obiettiva cronaca e critica dei provvedimenti giudiziari'". Il caso è quello di Carlo Gilardi, l'anziano chiuso in una casa di cura senza la sua volontà. "Carlo - spiega Parenti in una lettera al Fatto Quotidiano - non è un ladro. È un benefattore di 90 anni, un uomo facoltoso, senza figli o eredi diretti. Nel 2017 è stato sottoposto ad amministrazione di sostegno e da quel momento non ha più potuto disporre del suo patrimonio". Un mese prima di essere portato nella casa di riposo, il signore ha denunciato la sua amministratrice, con l'accusa di avergli sottratto indebitamente 40 mila euro. "Con quella denuncia Carlo manifestava la sua più grande paura". Quale? "Stanno cercando di farmi dichiarare incapace di intendere e volere al solo fine di poter gestire liberamente i miei soldi e proprietà". Una vicenda su cui Le Iene hanno cercato di fare chiarezza, scoprendo che nessuno ad oggi può andare a trovare Carlo. Gli stessi cugini per questa ragione hanno fatto un esposto in Procura e un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell'uomo. Ma Carlo è ancora nella Rsa, isolato. "Le novità che ci riguardano - conclude l'autore - sono un rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti di Barra (sua nuova amministratrice) e il duro comunicato del Csm che ci accusa persino di aver 'scatenato una scia d'odio sui social network' contro la Barra e la Giudice tutelare Paganini".

A processo c’è la figlia di un magistrato. E le prove spariscono: «Il cd è esploso». Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 novembre 2021. L’esame del Dna ignorato. Le foto della polizia scomparse. La causa civile decisa dai colleghi della toga interessata, che ha aperto un trust per salvare il patrimonio di famiglia. E i genitori di una vittima ora si appellano alla Corte Europea. Ho fiducia nella giustizia. Lo dicono tutti i cittadini perbene, e perfino qualche malintenzionato, quando si trovano coinvolti in guai giudiziari. E hanno ragione. Perché nelle democrazie nessuno è al di sopra della legge. E la macchina della giustizia è organizzata per auto-correggersi: ci sono tre gradi di giudizio, ogni sentenza va motivata e ricontrollata da altri magistrati per ridurre al minimo gli errori. Questo articolo dell’Espresso, infatti, pone solo una domanda: come facciamo a spiegare al signor Giorgio Tindaci e a sua moglie Lorenza che devono avere ancora fiducia nella giustizia? I due coniugi hanno perso il loro unico figlio, Mattia, a 18 anni, in un terribile incidente stradale. Vivono a Padova, hanno un negozio d’abbigliamento nel centro storico. Il loro caso giudiziario, iniziato 16 anni fa, non si è ancora concluso. Un «calvario legale», lo definiscono, che li tiene inchiodati a quel lutto incancellabile. La sera del 5 aprile 2005 Mattia è in macchina con quattro coetanei. Erano partiti da Padova sull’auto di Francesca, l’unica ragazza. In provincia di Treviso, lei cede il volante a un amico e si siede di fianco al guidatore, in braccio a un altro ragazzo, Alessandro. Sono le 23 circa. Fuori dai centri abitati, in località Riese Pio X, l’auto sbanda e si schianta contro un platano. Tre ragazzi muoiono sul colpo. Con Mattia perdono la vita i fratelli Vittorio e Nicola De Leo, figli di uno psichiatra di fama internazionale. Francesca e Alessandro restano feriti, lui gravemente, ma si salvano. I fatti che nessuno contesta si esauriscono qui. La sciagura divide subito le famiglie. Quella notte nessuno avverte i genitori di Mattia, che cominciano a preoccuparsi quando vedono arrivare un’auto della polizia a casa del professore, che è un loro vicino. Allora scendono in strada, chiedono inutilmente di Mattia, lo chiamano al telefonino. In preda all’angoscia, iniziano un viaggio della disperazione tra gli ospedali veneti. E trovano la salma del figlio all’obitorio di Castelfranco Veneto, dove già sono presenti gli altri genitori. La signora Lorenza dice di non poter dimenticare le parole che le avrebbe detto in un successivo colloquio il padre di Francesca, forse per spiegare il silenzio delle autorità: «Il vostro era il figlio meno importante». Una frase infelice, che ai genitori di Mattia, oggi, sembra quasi un sigillo del destino giudiziario che li attende. Dei cinque ragazzi, l’unica con la patente era Francesca, che è figlia di un chirurgo ortopedico, Antonio Volpe, e di un’importante giudice penale di Venezia, Marta Paccagnella, che ha lavorato in tribunale e in corte d’appello. A indagare è la Procura di Treviso. Il rapporto della locale polizia stradale identifica il conducente in Mattia Tindaci, che aveva il foglio rosa. A confermarlo è proprio Francesca. Ma i genitori di Mattia non ci credono, spiegano che aveva passato solo il test scritto, «ma non aveva mai guidato un’auto». E aggiungono che uno dei soccorritori avrebbe fatto il nome di un altro dei giovani deceduti, anche lui col foglio rosa. A quel punto il pm, Giovanni Valmassoi, ordina un esame del Dna sulle tracce di sangue trovate sulla cintura del guidatore. La consulenza, affidata alla dottoressa Luciana Caenazzo dell’Istituto di medicina legale di Padova, esclude con certezza che il materiale genetico fosse di Mattia. Quindi il magistrato archivia il caso con un verdetto dubitativo, stabilendo solo che il guidatore era uno dei ragazzi morti. E formula invece un’accusa di omesso controllo a carico di Francesca Volpe, per aver affidato a un giovane senza patente la sua auto di famiglia, di proprietà del padre. La ragazza confessa di aver sbagliato e ottiene il patteggiamento. Poi si aprono i processi civili, in un clima di guerra tra famiglie in lutto. Se il guidatore è senza patente, le assicurazioni possono rifiutare i risarcimenti: chi perde la causa, rischia un disastro economico. I genitori di Mattia, assistiti dagli avvocati Vieri e Francesca Tolomei, evidenziano in tutte le fasi l’importanza della prova del Dna. Ma la sentenza di primo grado, emessa da un giudice singolo (monocratico) di Treviso, non ne tiene conto. Il test genetico non viene ripetuto né contraddetto. E il verdetto identifica comunque Mattia come guidatore, evidenziando solo gli elementi contrari. In secondo grado, i giudici di Venezia ordinano finalmente un nuovo esame del Dna, alla stessa dottoressa Caenazzo. L’esperta però risponde che è impossibile rifarlo, perché il materiale genetico era scarso ed è stato consumato nel test precedente. Visto che nessuno lo ha contestato, gli avvocati della famiglia Tindaci chiedono di confrontarlo con il Dna dei genitori dei due fratelli De Leo, che correttamente si dichiarano pronti. Invece la corte d’appello, con una mossa a sorpresa, dichiara la causa matura per la decisione. E il 10 aprile 2019 conferma la condanna dei familiari di Mattia. Anche Francesca Volpe e suo padre (come proprietario dell’auto) vengono obbligati a rimborsare le vittime. Ma nel loro caso sono assistiti dall’assicurazione, che copre l’intero danno. Per cui padre e figlia, nonostante il patteggiamento, non sborsano nulla. Ad aggravare il senso d’ingiustizia, per i genitori di Mattia, è il giallo delle fotografie. Nel gennaio 2013, otto anni dopo l’incidente, un agente della polizia stradale rivela in tribunale di aver scattato, stampato e riversato su un cd le foto delle vittime, con il volto del guidatore. Una circostanza ignorata dal pm. I genitori di Mattia riescono a farsi autorizzare la ricerca di quelle foto solo cinque anni dopo, dai giudici d’appello. L’indomani papà Tindaci si presenta con l’avvocato nella sede della polizia di Treviso. E registra un agente dell’ufficio incidenti mentre spiega, imbarazzato, che il cd non c’è più: è «esploso» dentro un computer, durante un tentativo di lettura. E le foto su carta? Sparite anche quelle. Un altro agente le ha cestinate perché «il fascicolo era troppo grosso e non ci stava nell’armadio». Nel febbraio 2018 i genitori di Mattia denunciano alla Procura di Treviso la sparizione delle foto: l’esposto viene presentato da un avvocato di Bologna, Mariano Mancini, perché non si trova un penalista veneto disposto a firmarlo. Il capo della Procura, in quel momento, è Michele Dalla Costa, che è il marito di Ippolita Ghedini, l’avvocata che assiste Francesca (la figlia della giudice penale) nelle cause civili. Della denuncia però si occupa un altro magistrato, per cui non esistono problemi di astensione. Alla fine il pm esclude reati: non ci sono prove di distruzione «intenzionale». Il 15 novembre 2019 il gip di Treviso, Piera De Stefani, convalida l’archiviazione, segnalando però «scarsa diligenza e perizia» nelle indagini di polizia e «profili opachi nella trasmissione e conservazione dei dati». Come la prova del Dna, anche la scomparsa delle foto non ha ripercussioni sulle sentenze civili. Ben diverso è il trattamento della principale prova a carico di Mattia: una ricostruzione firmata da Francesca Volpe nell’ottobre 2005, quando era ancora indagata, in una lettera di scuse indirizzata ai genitori dei fratelli De Leo. Nei processi penali l’imputato ha diritto di tacere, ma se accusa altri deve farsi contro-interrogare. Francesca invece non è stata sentita neppure dopo il patteggiamento. Nel gennaio 2006, infatti, il suo penalista, il professor Piero Longo, ha spiegato agli inquirenti che la sua assistita, «secondo l’opinione dei medici curanti, versa in una situazione di preoccupante instabilità psicologica dovuta al trauma emotivo dell’incidente», per cui è «fortemente inopportuno costringerla a rivivere un lutto che non ha superato». Ora, dopo altri due anni perduti nel tentativo di ottenere una revisione della sentenza d’appello, i genitori di Mattia affidano le loro ultime speranze alla Cassazione. E chiedono di far intervenire la Corte di giustizia europea. Il ricorso elenca tutte le incongruenze del caso, segnalando che l’unica perizia fu affidata a un ingegnere, non a un medico legale, senza disporre autopsie e neppure una radiografia. In questo quadro, i legali sottolineano che la madre di Francesca era giudice dello stesso distretto di corte d’appello (e dunque collega) dei magistrati che hanno deciso tutte le cause. E dal 2008 al 2012 è stata eletta nel consiglio giudiziario, l’articolazione locale del Csm, che ha poteri di valutazione su tutte le toghe del distretto. Almeno nel 2011, tra i magistrati esaminati, c’era anche il giudice di Treviso che decise la prima sentenza civile. Mentre il verdetto d’appello è firmato solo da uno dei tre giudici del collegio, come presidente, relatore ed estensore. Per collegare la magistrata penale, da poco in pensione, alle cause civili, gli avvocati allegano l’atto costitutivo di un trust: un fondo costituito da Antonio Volpe e Marta Paccagnella il 5 giugno 2007, poco dopo la prima citazione civile contro lui e la figlia. Il trust è sottoposto alle norme dell’isola di Jersey, gestisce due proprietà immobiliari e le rende «non aggredibili dai creditori». A beneficiarne, a 30 anni, saranno i tre figli, tra cui Francesca. Detto questo, i legali chiedono alla Cassazione e alla Corte europea di imporre nuove regole di imparzialità dei magistrati, per impedire che le cause che coinvolgono i familiari di un giudice possano essere decise da colleghi dello stesso distretto, almeno quando l’interessato fa parte del consiglio giudiziario. Per i genitori di Mattia, «è una questione di giustizia che riguarda tutti». L’Espresso, per chiarire il caso, ha inviato domande dettagliate all’ex giudice Paccagnella. Che ha risposto precisando, prima di tutto, di «non essere mai stata parte in causa nei procedimenti penali e civili», che hanno coinvolto solo sua figlia e «l’ex marito», da cui si era separata già nel 2004. Ha chiarito che il trust fu costituito «in vista del divorzio e nel totale rispetto della normativa italiana». E ha fatto notare che «mia figlia e suo padre non hanno pendenze debitorie verso alcuno», in quanto «la compagnia assicuratrice ha già risarcito gli interessati», per cui le cause in corso riguardano da tempo «solo le altre parti». Che «la famiglia Volpe era tenuta comunque a risarcire», per cui era «indifferente chi fosse alla guida». Sulla prova del Dna, l’ex magistrata difende i giudici civili osservando che l’auto era distrutta, i corpi delle vittime furono estratti a fatica, per cui «non vi poteva certo essere alcun automatismo nell’attribuzione di una traccia di sangue, ovunque rilevata». E aggiunge che «degli sfortunati ragazzi, solo Mattia ha riportato la frattura della clavicola sinistra, che è tipica del conducente con la cintura». Sul consiglio giudiziario, l’ex giudice smentisce qualsiasi manovra: «Non dispongo più degli atti e non ricordo i nomi dei magistrati che furono valutati, ma se qualcuno mi avesse segnalato ragioni di opportunità, di certo mi sarei astenuta».

La campagna per la raccolta firme. Il flop del referendum sulla giustizia. Alberto Cisterna su Il Riformista il 17 Novembre 2021. La sorte dei referendum sulla giustizia è appesa a un filo. Inutile far finta di nulla. L’aver trasformato la campagna per la raccolta delle firme in un vaniloquio sulla democrazia diretta e sulla partecipazione popolare non può essere e non sarà forse dimenticato facilmente dalla pubblica opinione. La scelta di non procedere al deposito delle sottoscrizioni in Cassazione e l’aver affidato la celebrazione dei referendum alla richiesta di cinque Consigli regionali di centro-destra è un colpo, non da poco, alle chance di raggiungere il quorum di partecipazione al voto primaverile del 2022 del 50% degli aventi diritto. Se per dirne una a Roma, per l’elezione del sindaco, ha preso parte alle votazioni meno della metà degli elettori romani (48,54%), non si vede perché ci sarebbero da attendere clamorose mobilitazioni per accorrere al voto su complicati quesiti referendari percepiti ormai come a sola trazione leghista. Punto e capo, forse. Difficile dire se sia un bene o un male. Certo le speranze di quanti contavano in un’accesa campagna referendaria per poter sviluppare un dibattito più ampio sulle questioni della giustizia da canalizzare, poi, nelle aule parlamentari a prescindere dalla sorte dei quesiti, rischiano una grande delusione. Se si affievoliscono i margini di vittoria del fronte del sì, è chiaro che la scelta di tanti sarà l’inabissamento, una coltre di silenzio su tutto. Eppure la stessa Associazione nazionale magistrati si era detta disponibile al confronto, anticipando l’intenzione di rendere il proprio punto di vista ai cittadini in una campagna informativa capillare. Sarebbe stata un’occasione di confronto importante per testare in corpore vivo i sentimenti e le opinioni della gente e farsi un’idea meno vittimistica o meno ottimistica del consenso popolare. L’idea di un flop alle urne potrebbe smorzare ogni entusiasmo da una parte come dall’altra e far mancare al Parlamento l’occasione per riprendere in mano il fil rouge delle riforme sulla giustizia, al momento paralizzato dalle esigenze del Pnrr e dall’iniziativa governativa per darvi sfogo. L’unica vera battaglia che si profila all’orizzonte è quella per la riforma del sistema elettorale del Csm. Le frizioni tra le correnti dei magistrati sono già emerse e non sarebbe male ricordare ai protagonisti del dibattito la lezione fondamentale impartita da John Rawls, anche in tema di legge elettorali, il quale ammoniva che il decisore dovrebbe poter decidere sotto un velo di ignoranza, in quanto non dovrebbe conoscere quale sia la sua posizione nella società. E ciò gli permetterebbe di avvicinarsi al criterio del maximin, cioè quello che conduce alla decisione che produce il maggior risultato utile dalla peggiore situazione possibile. Al momento si dispone di un sorta di nebuloso obiettivo politico secondo cui la riforma dovrebbe puntare ad attenuare o addirittura cancellare il peso delle correnti nella scelta e nell’elezione dei componenti del Csm. Su questo, a parole, sono tutti disponibili, ma ciascuno immagina un percorso che possa tornargli vantaggioso o, comunque, penalizzarlo al minimo. Insomma tutti vogliono sapere, all’incirca, come andrà a finire nel luglio 2022 quando si voterà per Palazzo dei Marescialli. Comprensibile. Solo che occorre tener conto di una variabile a oggi del tutto fuori controllo: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un secondo mandato a Mattarella non è detto che garantirebbe lo status quo e darebbe continuità al sistema attuale. Il Quirinale si è mosso in una condizione di estrema difficoltà in questi anni e ha visto fischiare le pallottole dello scandalo Hotel Champagne fino a un passo dal colle più alto. Non è detto che gradisca una legge elettorale conservativa o continuista. Proprio perché ha assistito alla dissoluzione di un pezzo del Sistema, non è detto che si senta rassicurato dalla montagna di polvere messa sotto lo zerbino per altre questioni. Il contatto diretto con Draghi e, soprattutto, con la Cartabia potrebbe spingerlo a chiedere un intervento molto più radicale di quello assemblato dalla Commissione Luciani. Se, invece, avremo un presidente diverso allora lo scenario non è in alcun modo prevedibile. Banale dirlo, ma dipende da chi sarà il prossimo inquilino del Colle che, si ricordi, è anche il capo del Csm. Insomma se il presidente dovesse parlare e intervenire sulla legge elettorale del Csm lo farebbe non a sproposito, ma nella precisa consapevolezza che si starebbero fissando le regole di un consesso che egli presiede e del cui regolare e trasparente funzionamento è direttamente responsabile. Difficile già in altri campi sottrarsi alla sua moral suasion figuriamoci qualora interloquisca dallo scranno della più alta magistratura della Repubblica. Ecco sarebbe indispensabile e doveroso fornire al prossimo presidente un quadro serio e il più possibile sincero della condizione della giustizia nel Paese; di ogni giustizia, si badi bene, non solo di quella penale più direttamente presa di mira dai referendum. Una volta si chiamavano Stati generali. Non un convegno, né un dibattito, ma la chiamata a raccolta delle posizioni di ciascuno per dare al decisore politico il più fedele quadro della situazione. Insomma tutto tranne che propaganda. Alberto Cisterna

Cassese alla Leopolda: «La magistratura è diventata uno Stato nello Stato». Renzi applaude all'intervento sulla giustizia di Costa (Azione) e commenta: «Non riesco a capire come alle prossime elezioni potremo andare divisi». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 novembre 2021. «Il garantismo sta al giustizialismo come la democrazia sta alla dittatura». È il giorno dedicato alla giustizia alla Leopolda e Matteo Renzi introduce così l’argomento. Sul palco si alternano oratori “tecnici”: Enrico Costa, Annamaria Bernardini de Pace, Gian Domenico Caiazza, Sabino Cassese, Carlo Nordio, Alessandro Barbano. Il primo a prendere il microfono è  Enrico Costa, deputato di Azione, che si scaglia contro il processo show che trasforma in sentenza le indagini preliminari. «Provate a pensare alle conferenze stampa, sono inchieste presentate come dei film: abbiamo i protagonisti, che sono i pm, e persino i trailer». Questo grazie al recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza «tutto questo non sarà più possibile», dice. «Oggi la sentenza è quella conferenza stampa, quel titolo di giornale che si diffonde in rete. La sentenza vera arriverà dopo anni, quando non interesserà a nessuno», dice Costa, convinto che invece il compito dello Stato sia quello di «garantire al cittadino quando esce da innocente da un processo penale di essere la stessa persona» che era prima del processo, dice, guadagnandosi il plauso del padrone di casa, che a fine intervento commenta: «Non riesco a capire come alle prossime elezioni potremo andare divisi», scandisce Renzi, anticipando il probabile contenitore centrista che potrebbe vedere insieme Italia viva, Azione e parte di Forza Italia insieme. Poi tocca al presidente delle Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, prendere il microfono: «La riforma Cartabia non basta. Anzi, vediamo ritardi gravi a affrontare le questioni della giustizia penale. A partire dalla necessità di riequilibrare i poteri dello Stato. Uno dei tre, quello giudiziario, ha esondato dai propri limiti costituzionali, è in grado di determinare la vita politica anche solo con un’iscrizione nel registro degli indagati», esordisce il leader dei penalisti. «Questo è il punto cruciale», aggiunge. E per per riequilibrare quel potere «bisogna fare una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario. Non è il sistema elettorale», che cambia le cose, «ma la responsabilità professionale. Un magistrato deve rispondere di ciò che compie, un potere così importante irresponsabili squilibra tutto. Devi rispondere dei risultati che hai ottenuto. Devi rispondere di aver condizionato l’esito di un governo senza una ragione. Devi rispondere di questo. E dobbiamo capire insieme come si possa fare. Dobbiamo anche intervenire su un altro dato anomalo: ad ogni governo vengono distaccati più di 200 magistrati. C’è una commistione fisica tra il potere giudiziario e quello esecutivo. Non accade in nessun paese del mondo. Dobbiamo recuperare i principi liberali del diritto penale: un complesso di regole. Chi interviene sulla nostra libertà deve risponderne». Ma è il costituzionalista Sabino Cassese a scaldare più di ogni altro la platea della Leopolda, che inizia a parlare sciorinando dati: «C’è un arretrato di sei milioni di procedure. la fiducia della popolazione italiana nella giustizia si è quasi dimezzata negli ultimi 10 anni», dice. «C’è una crescente domanda di giustizia non soddisfatta, ci sono sei milioni che attendono giustizia. È un dato fondamentale per capire la crisi della giustizia». Una crisi dovuta soprattutto all’iperattivismo di alcuni magistrati, più interessati alla “pubblicità” delle proprie inchieste che all’amministrazione della giustizia in sé. «La Costituzione prevedeva uno scudo per evitare la politicizzazione della giustizia e preservare l’indipendenza dei magistrati. Ma in una lenta azione interpretativa l’indipendenza è diventata autogoverno». Così le toghe si sono trasformate in una «sorta di Stato nello Stato. Basti pensare al fatto che il Csm non fornisce i dati dei propri dipendenti al Mef perché pensa di essere indipendente. C’è uno Stato nello Stato che si è venuto a creare negli ultimi anni. Si sta verificando un fenomeno opposto a quello pensato dai costituenti: si è sviluppata una politicizzazione endogena, all’interno della magistratura. Quindi i poteri, invece di essere separati sono concentrati all’interno dell’ordine giudiziario». Ad evidenziare lo strapotere dei magistrati anche Carlo Nordio, già procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Venezia. «Il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo che ha un potere immenso senza nessuna responsabilità, in base all’obbligatorietà dell’azione penale che è diventata in realtà un libero arbitrio, lui indaga su chiunque, come vuole e quando vuole, senza rispondere a nessuno perché gode delle stesse guarentigie del giudice. È una cosa demenziale», ha affermato in collegamento con la Leopolda. «Il pm – ha aggiunto – è arbitro assoluto nel decidere cosa e importante e cosa no nell’indagine anche se questi atti non hanno nessuna rilevanza. Può succedere allora come nel caso Open che si producano, nella piena legalità, 90.000 pagine. Che poi qualcuno abbia indicato a un giornalista le pagine più succulente questo è un altro discorso». Secondo l’ex magistrato ,«i rapporti tra stampa e magistratura avvengono perché nessuno vigila sul mantenimento del segreto istruttorio e guarda caso certi giornali amici vengono a conoscenza di notizie. I magistrati vengono poi ripagati dai giornalisti attraverso una incensazione che spiana una futura carriera politica». Ad Alessandro Barbano tocca il compito di raccontare il cortocircuito sulla giustizia che riguarda invece l’informazione, «la gogna anticipata, la condanna anticipata». Ridurre il problema della giustizia al rapporto tra magistratura e politica «non è che la punta dell’iceberg», dice, «perché la giustizia è la più potente macchina di dolore umano presente in questo paese». E poi ammonisce anche a non cadere nella retorica dell’antimafia secondo cui sotto «l’ombrello della legalità si nasconde sia solo il bene. Un diritto penale liberale non confisca proprietà a cittadini innocenti o addirittura assolti. Un diritto penale non può contenere nel suo ordinamento l’ergastolo ostativo che concede la liberazione dopo 30 anni solo se hai collaborato attivamente coi pm».

La Giustizia è uno Stato a parte. Perché è proibito conoscere i dati delle Procure: renderli noti provocherebbe un terremoto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Fa molto bene l’onorevole Enrico Costa a chiedere con ripetute interrogazioni parlamentari accesso ai dati statistici sulla amministrazione della giustizia; ma non li avrà. Non tutti, almeno, non quelli che ha chiesto. I penalisti italiani sono da sempre persuasi della centralità di questo tema. Impossibile discutere in modo serio e non ideologico di amministrazione della giustizia, di durata dei processi, di uso o abuso della custodia cautelare, di efficacia delle indagini, senza accesso alle statistiche dei vari uffici giudiziari. Perché dovete sapere che questo accesso è tutt’ora precluso a noi cittadini e allo stesso Parlamento. Conosciamo solo i dati che i detentori degli stessi -cioè Procure, Tribunali, Corti– decidono di rendere noti. Cosa che di norma avviene nel corso delle famose cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Vi dico di più: nemmeno il Dipartimento Statistiche del Ministero li possiede tutti, almeno fino a quando i sistemi di archiviazione non saranno unificati e centralizzati. In altri termini, fino a quando il Ministero non sarà nella condizione tecnica e strutturale di acquisire i dati in via autonoma, senza doverli chiedere alle singole Procure o Corti di Appello. Che li forniscono, quando richiesti, se, quando e nella misura in cui riterranno di volerlo fare. Perciò fino a quando si tratta di dati molto generali (quante assoluzioni, quante condanne, quante prescrizioni), nulla quaestio. Ma provate a chiedere dati più specifici, più articolati, più diretti, e vi troverete a sbattere contro un muro invalicabile. Ovviamente non parliamo di dati sensibili, cioè di informazioni sui procedimenti: ci mancherebbe altro. Quella è la favoletta con la quale si giustifica l’omertà. Parliamo sempre e solo di statistiche. Faccio qualche esempio. Quante richieste di misure cautelari, personali o reali, vengono ogni anno formulate dai P.M. ai GIP, e soprattutto, in quale percentuale vengono accolte o respinte? Quante sono le richieste di intercettazioni telefoniche o ambientali avanzate dalle Procure, e in quale misura vengono accolte o respinte? Quale obiezione può seriamente opporsi a una simile, banale richiesta? Nessuna ovviamente. Puro dato statistico. Ma non c’è verso di saperlo. Eppure, basterebbero un paio di clic. Se ottenessimo risposte a richieste così banali e legittime, potremmo tutti discutere in modo più serio di terzietà del giudice (delle indagini preliminari, in questo caso); in termini generali, cioè su base nazionale, e per singolo distretto giudiziario. In tale ultimo caso creandosi la possibilità di valutare eventuali anomali discostamenti dalla media nazionale. Non parliamo poi di dati volti a ricostruire produttività e qualità professionale dei singoli giudici. Quante sentenze di quel singolo giudice sono state riformate nei gradi successivi, e con quale percentuale di scostamento dalla media nazionale? Sarebbero dati preziosi, indispensabili al momento della valutazione quadriennale di avanzamento delle singole carriere. Qui non invocheremmo, sia ben chiaro, giudizi popolari o mediatici. Dati così importanti sarebbero riservati alla valutazione degli organi preposti al giudizio di professionalità. Sarebbe senza alcun dubbio agevole costituire fascicoli informatici che raccolgano le statistiche di ciascun magistrato, in modo da rendere pertinenti ed effettivi i giudizi di professionalità. Ma non c’è verso. Si è consolidata una idea proprietaria delle statistiche giudiziarie, che invece dovrebbero essere messe a disposizione della collettività. Siamo tutti in fervida attesa della prudente ostensione di queste informazioni, selezionate e comunicate con solenne e condiscendente arbitrio in occasioni delle cerimonie annuali. Nemmeno veniamo informati dei criteri con i quali i dati vengono raccolti e selezionati. Non è affar nostro. Dodici anni fa l’Unione delle Camere Penali, d’intesa con l’Istituto Eurispes, decise di analizzare statisticamente ciò che avveniva nelle udienze di primo grado, per comprendere con oggettività le vere cause della lentezza dei processi. Bastò questo per sovvertire e definitivamente affossare la vulgata ufficiale delle troppe garanzie difensive, che si diceva causassero quei ritardi. I processi durano troppo perché i sistemi di notifica degli atti sono catastrofici; perché non si riesce a citare i testimoni; perché la Polizia giudiziaria molto spesso non risponde alla citazione per impegni dei suoi agenti; perché i fascicoli impiegano mesi o anni per migrare da un ufficio all’altro; e così via discorrendo. Altro che eccesso di garanzie! Ora abbiamo ripetuto quella ricerca, e stiamo per pubblicarla. Ma i dati sulle indagini, sull’effettivo vaglio critico degli uffici GIP rispetto alle richieste dei P.M., sugli esiti delle indagini, quelli non possiamo conoscerli. Provate a chiedervi perché, e datevi una risposta. Sensata, per cortesia.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Costa: «Ora verità sui numeri dei flop processuali di pm e giudici». Il deputato di Azione presenta un'interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia per chiedere maggiore trasparenza sui dati della Giustizia.  Valentina Stella su Il Dubbio il 18 novembre 2021. Trasparenza sui numeri della giustizia: è quello che chiede l’onorevole di Azione Enrico Costa, con una interrogazione alla Guardasigilli Marta Cartabia. In particolare: quali siano i dati sulla modalità di definizione dei procedimenti suddivisi per tipologia di reati, in particolare per quello che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione; la percentuale di sentenze di appello in riforma delle sentenze di I grado; il tasso di accoglimento e rigetto delle richieste dei pubblici ministeri ai giudici per le indagini preliminari suddivise per tipologie (richieste di intercettazioni, proroga indagini, applicazione misure cautelari); il numero di istanze di riparazione per ingiusta detenzione rigettate dalle corti di appello; il numero di avvisi di garanzia notificati ogni anno e quanti di questi si traducono in un rinvio a giudizio o in una citazione diretta a giudizio. Come ci dice Costa «la ministra Cartabia resta un faro e un modello che però va supportato attraverso dati scientifici grazie ai quali potrà prendere le decisioni. La disponibilità di dati analitici e aggiornati è il presupposto necessario al fine di comprendere e valutare l’effettivo funzionamento degli istituti giuridici esistenti, l’appropriatezza delle norme vigenti in materia processuale e, più in generale, l’efficacia dell’ordinamento giudiziario, al fine di individuare risposte legislative idonee a risolvere le criticità individuate». Costa aveva già chiesto queste informazioni con una lettera alla responsabile della direzione generale di statistica di via Arenula ma, non avendo ricevuto risposta, ha presentato l’interrogazione. «Sarebbe alquanto sorprendente – ci dice – se il ministero della Giustizia non disponesse di questi dati fondamentali». Ma perché proprio questi? «Conoscere il tasso di accoglimento o rigetto delle richieste del pm da parte del gip servirebbe a capire se c’è effettivamente un filtro da parte del giudice o se quest’ultimo fa semplicemente da passacarte del pm». L’avvocatura stigmatizza da sempre l’abuso di intercettazioni, spesso usate per cercare non la prova del reato ma un reato qualsiasi, le proroghe delle indagini, su cui sta lavorando la Commissione Lattanzi per limitarle, misure cautelari (attualmente in carcere ci sono circa 9000 persone in attesa di primo giudizio). Il disvelamento dei dati dell’andamento della macchina giudiziaria è un’antica battaglia anche delle Camere Penali per cui i dati statistici giudiziari non sono di proprietà della magistratura. Inoltre, sapere quante sentenze di appello riformano quelle di primo grado è fondamentale proprio in questo momento in cui il tema delle impugnazioni è al centro del dibattito della Commissione Canzio, con tutti i rischi delineati da Caiazza in un’intervista al Dubbio. Questo dato, insieme a quello relativo agli avvisi di garanzia che si traducono in un giudizio, si lega anche al tema delle valutazioni professionali dei magistrati, la cui riforma è sponsorizzata non solo dalle Camere Penali ma anche dal Pd. Entrambi chiedono che per esse venga introdotto anche il parametro delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Conclude dunque Costa: «Com’è possibile che il ministero non abbia questi dati adesso che le commissioni stanno lavorando ai decreti attuativi del processo penale e alla riforma dell’ordinamento giudiziario?». Intanto ieri la commissione giustizia della Camera ha conferito il mandato alle relatrici Lucia Annibali (Iv) e Mirella Cristina (FI) e ha così completato l’esame del ddl civile che sarà in aula martedì prossimo con una settimana di anticipo rispetto alla data prevista.

Il deputato di Azione interroga direttamente Cartabia. Avvisi di garanzia e misure cautelari, Costa al ministero: “Fuori i dati”. Angela Stella su Il Riformista il 19 Novembre 2021. Il Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Gian Domenico Caiazza, lo aveva detto qualche tempo fa in una intervista a questo giornale: «I dati statistici giudiziari non sono di proprietà della magistratura, ma devono essere a disposizione di tutti i cittadini: tra questi, i dati più tenuti all’oscuro, che nessuno raccoglie, riguardano proprio le richieste di misure cautelari e la percentuale di accoglimento». E aveva fatto un appello al Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia affinché appoggiasse l’idea dei penalisti di rendere trasparenti i numeri della giustizia. La richiesta non è stata accolta. Ma a rilanciare la questione ci ha pensato il solito Enrico Costa con una interrogazione parlamentare a risposta scritta indirizzata alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia per sapere: «Quali siano i dati sulla modalità di definizione dei procedimenti suddivisi per tipologia di reati, in particolare per quello che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione; la percentuale di sentenze di appello in riforma delle sentenze di I grado; il tasso di accoglimento e rigetto delle richieste dei pubblici ministeri ai giudici per le indagini preliminari suddivise per tipologie (richieste di intercettazioni, proroga indagini, applicazione misure cautelari); il numero di istanze di riparazione per ingiusta detenzione rigettate dalle corti di appello; il numero di avvisi di garanzia notificati ogni anno e quanti di questi si traducono in un rinvio a giudizio o in una citazione diretta a giudizio». Si è arrivati all’interrogazione perché Costa non ha ricevuto alcuna risposta alla lettera del 13 settembre scorso indirizzata alla responsabile della direzione generale di statistica e analisi organizzativa, e per conoscenza al direttore generale del personale e dell’amministrazione del Ministero della giustizia e al suo capo di gabinetto, con cui chiedeva proprio quelle informazioni. Costa si è lamentato per questo anche su Twitter: «Mi chiedo a cosa serva la direzione statistica, se non forniscono dati basilari»; e gli ha risposto Guido Crosetto, ex forzista e tra i fondatori di Fratelli d’Italia: «Anche a cosa serva il Parlamento, se possono non rispondergli…». Comunque «sarebbe alquanto sorprendente – leggiamo nell’atto di sindacato ispettivo – se il Ministero della giustizia non disponesse di questi dati fondamentali». Infatti non si capisce se questi dati il Ministero non li abbia o non li tiri fuori per timore delle conseguenze. Cerchiamo di capire perché sarebbe importante conoscerli. Primo, in merito alle sentenze di appello: c’è una fetta della magistratura che vorrebbe che l’appello penale beneficiasse di un regime di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi di gravame simile a quello del ricorso per Cassazione. Se ciò accadesse significherebbe falcidiare uno strumento fondamentale del diritto di difesa. Eppure gli ultimi vecchi dati a disposizione dicevano che il 48% delle sentenze di appello erano di riformula parziale o totale di quelle di primo grado. Secondo, il tasso di accoglimento delle richieste del pm da parte del gip: sapere questi numeri ci aiuterebbe a capire se l’autorizzazione del gip è solo un passaggio burocratico o c’è un filtro, soprattutto quando in gioco c’è la libertà personale dei cittadini, come hanno sottolineato le Camere Penali. Terzo, il numero di avvisi di garanzia notificati e quelli che arrivano a processo: questo è un punto molto importante perché metterebbe in luce quante indagini sbattute sui giornali hanno una solidità che regge al vaglio del contraddittorio. Ed è qui che si gioca anche un’altra importante partita, che vede Costa, penalisti e persino il Partito democratico uniti: le valutazioni professionali dei magistrati, positive al momento al 98%. Tutti infatti chiedono, all’interno del dibattito sulla riforma sull’ordinamento giudiziario, che per valutare i magistrati venga introdotto anche il parametro delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. 

Il mostro togato. In Italia l’esercizio del potere è sottoposto alla sorveglianza della magistratura deviata. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. Tutti sanno che negli ultimi decenni il percorso di accreditamento di tanti leader politici è stato intralciato dalle trame di chi preparava dossier su di loro, sul loro staff e sui loro familiari. Ma, con l’eccezione delle lamentazioni personali di chi, come un certo senatore toscano, viene colpito, nessuno dice niente. Forse bisognerebbe smetterla di far finta che non sia così. Sappiamo tutti perfettamente che da qualche parte c’è un pubblico ministero – e forse più d’uno – con un dossier pronto al bisogno su Mario Draghi. Sappiamo tutti perfettamente che altrettanto è in cottura per ciascuno dei nomi che da qui alle prossime settimane e mesi potrebbero essere ritenuti in posizione per giungere a presiedere la Repubblica, o il prossimo governo. Sappiamo tutti perfettamente che l’accesso al potere e l’esercizio del potere in Italia sono sottoposti alla sorveglianza spionistica e ricattatoria della magistratura deviata, una associazione nemmeno tanto segreta che si è costituita in una centrale di contro-potere che intimidisce la vita istituzionale e ne orienta il corso giocando sporco, contaminando con la propria corruzione, con la propria malversazione, con la propria irresponsabilità, ogni angolo libero della vita pubblica. Tutti sappiamo perfettamente che il percorso di accreditamento di leader importanti degli ultimi decenni è stato intralciato dalle trame del mostro togato, e che, con sistema perfettamente mafioso, nessuno vi era risparmiato: i collaboratori, lo staff, i parenti, il coniuge. La magistratura equestre, burattinaia del manipolo milanese, che ingiungeva a chi avesse “scheletri negli armadi” di starsene buono, fu l’esempio nobilitato di un malcostume che di lì in poi sarebbe divenuto l’abito costituzionale del travestimento eversivo di stampo giudiziario, con il magistrato eponimo incaricato di “resistere, resistere, resistere” all’assalto di questo nemico temibilissimo, il sistema della democrazia rappresentativa. Ma che tutto questo sia perfettamente noto a tutti non basta ancora a far cambiare l’andazzo, e al più c’è spazio per le lamentazioni personali di un senatore toscano indispettito per certe manovre inquirenti giusto perché spulciano in casa sua, giusto come l’assedio delle toghe rosse costituiva un pericolo per il Paese nella misura in cui circondava un parco brianzolo. È esattamente come nelle società sottoposte allo strapotere della criminalità: dove tutti sanno tutto; dove nessuno dice niente. Ma in questo caso sono uomini dello Stato a imporre quel giogo.

C’è un giudice a Strasburgo per chi non si sente tutelato “a casa”. Oliverio Mazza, ordinario di diritto processuale penale all'Università Bicocca: "Eppure non mancano situazioni contraddittorie". Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'8 novembre 2021. Nel programma Help il riferimento alla Corte europea dei diritti dell’uomo è costante. Questo organo giurisdizionale, istituito nel 1957 con sede a Strasburgo, assicura il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) da parte di tutti gli Stati contraenti. L’articolo 32 della Cedu stabilisce che la Corte ha la competenza nel giudicare «tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli». Può essere adita nel momento in cui vengono esauriti tutti i rimedi interni, previsti dal diritto nazionale, secondo i principi di sovranità dello Stato, di dominio riservato e di sussidiarietà. Dunque, uno Stato prima di essere chiamato a rispondere di un proprio illecito sul piano internazionale, deve avere la possibilità di porre fine alla violazione all’interno del proprio ordinamento giuridico. A ciascuno Stato contraente è garantita la rappresentatività nella Corte, composta da un numero di 47 membri. I componenti vengono scelti tra giuristi in possesso, secondo quanto indicato dall’articolo 21 della Cedu, di «requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie o giureconsulti di riconosciuta competenza». I giudici della Corte vengono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ed il loro mandato dura sei anni con la possibilità di essere rinnovato. Riunita in seduta plenaria, la Corte elegge, a scrutinio segreto, il presidente, uno o due vicepresidenti e i presidenti delle sezioni, in carica per tre anni. L’elezione è prevista pure per il Cancelliere (Greffier) che rimane in carica cinque anni. Nella Corte operano i Comitati, composti da tre giudici. Sono loro che esaminano o respingono, se vi è unanimità, i ricorsi manifestamente irricevibili. Le Camere (Chambre), invece, sono composte da sette giudici e trattano i ricorsi in prima battuta. La Corte europea dei diritti dell’uomo viene adita con ricorso. Tale atto può essere “interstatale”, quando è proposto da ciascuno Stato contraente, oppure “individuale”. In questo caso si esalta al massimo il sistema di tutela dei diritti umani con la possibilità che il ricorso sia presentato da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa o da un gruppo di individui. Il ricorso va proposto sempre nei confronti di un Stato contraente. Non è prevista la possibilità di ricorrere con atti diretti contro privati (persone fisiche od istituzioni). Il ricorso può essere introdotto dalle persone fisiche, dalle organizzazioni non governative o dai gruppi privati personalmente o per mezzo di un rappresentante. Gli Stati contraenti sono rappresentati invece da agenti, che possono farsi assistere da avvocati o consulenti. Instradare un procedimento davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo non è semplice, come ci conferma Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano Bicocca. «L’attività processuale – dice il professor Mazza – è certamente complessa perché la Corte europea vive una situazione analoga a quella delle nostre magistrature superiori nazionali. La Corte si è riorganizzata nel corso del tempo. Si è divisa in Camere e ha attivato dei filtri di ingresso di ammissibilità dei ricorsi molto stringenti perché si basano su criteri formali. Ad esempio, l’esaurimento delle vie di ricorso interne e l’esatta compilazione del formulario. Sono tutte questioni di forma che incidono sulla ammissibilità del ricorso, che in Europa prende il nome di irricevibilità. In tutto ciò abbiamo un paradosso: la doglianza nel merito può essere molto rilevante se attiene a violazioni gravi dei diritti dell’uomo e nonostante ciò deve passare attraverso il formalismo esasperato del ricorso alla Corte europea. Qui il sistema va in contraddizione. È recentissima la sentenza sulla Cassazione civile “Succi e altri contro Italia” del 28 ottobre scorso. Il nostro Paese è stato condannato per i filtri di accesso alla Cassazione per l’eccessivo formalismo di alcuni passaggi procedurali, nel civile, con conseguente violazione del diritto di accesso ad un giudice, diritto fondamentale. Poi però è la stessa Corte europea che incorre sostanzialmente nella medesima violazione». Altro tema esaminato dal professor Mazza riguarda il filtro di irricevibilità che passa attraverso un giudice monocratico. In questo caso il legame con il modello dell’Ufficio per il processo è forte per non dire replicato a livello comunitario. «Il giudice monocratico – evidenzia Mazza – quasi sempre delega la valutazione al suo assistente di studio. Il ricorso alla Corte europea, che dovrebbe essere l’atto estremo per le violazioni più gravi, rischia di essere deciso da uno stagista. Anche questa situazione è a dir poco paradossale. La decisione di irricevibilità, fino a quando non entrerà in vigore un nuovo protocollo, già approvato ma non ancora in vigore, è sostanzialmente immotivata. Abbiamo una decisione di tre righe, che si esprime, per esempio, sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interno, ma non ci dice qual è la via di ricorso interno che avremmo dovuto adire prima di arrivare alla Corte europea ».

Da Torreggiani a Contrada: per la Cedu peggio dell’Italia solo Russia e Turchia. Dal 1959 al 2020 il nostro Paese ha subìto 2.427 condanne da parte dei giudici di Strasburgo. Oltre mille hanno riguardato i ritardi delle sentenze "domestiche" e il diritto a un giusto processo. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 novembre 2021. Sono diverse le sentenze della Cedu che hanno riguardato il nostro Paese. Secondo le statistiche pubblicate sul sito ufficiale, dal 1959 (anno di istituzione) al 2020 l’Italia ha subìto 2427 giudizi, di cui 1857 hanno riscontrato almeno una violazione. Di questi 1202 hanno riguardato la lunghezza dei processi e 290 il diritto a un giusto processo. Peggio di noi sono Russia e Turchia. Vediamone alcune. Nel 2013 ci fu l’importantissima sentenza Torreggiani. Alcuni detenuti degli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza avevano adito la Cedu lamentando che le loro rispettive condizioni detentive costituissero trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Essi avevano denunciato la mancanza di spazio vitale nelle rispettive celle (nelle quali avrebbero avuto a disposizione uno spazio personale di 3 metri quadrati), l’esistenza di gravi problemi di distribuzione di acqua calda e una insufficiente aerazione e illuminazione delle celle. La Corte accolse il ricorso, prendendo atto che l’eccessivo affollamento degli istituti di pena italiani rappresentava un problema strutturale dell’Italia e decise di applicare al caso di specie la procedura della sentenza pilota, ordinando all’Italia di rimediare al sovraffollamento nel giro di un anno. Nel 2015 arriva la famosa sentenza, in materia di legalità dei reati e delle pene, sul caso di Bruno Contrada, ex dirigente della Polizia di Stato, condannato nel 2007 in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cedu ha condannato lo Stato Italiano per la violazione dell’art 7 della Convenzione in quanto al momento della condanna il reato non era ancora previsto dal nostro ordinamento. Nello stesso anno la Corte interviene nel caso del signor Cestaro che, invocando in particolare l’articolo 3, relativo alla proibizione della tortura, lamentava di essere stato vittima di violenze e sevizie al momento dell’irruzione delle forze di polizia nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova. Non solo ebbe ragione ma la Cedu invitò il nostro Paese a dotarsi di una norma specifica sul reato di tortura. Nel dicembre 2016 la Grande Camera della Cedu sul caso Khlaifia v. Italia confermò la condanna del nostro Paese per il trattenimento illegittimo dei cittadini stranieri (violazione art. 5) nel centro di accoglienza di Lampedusa e sulle navi divenute centri di detenzione in quanto non vi era alla base un provvedimento di un giudice che legittimasse tale detenzione. Inoltre la mancanza di un provvedimento che legittimasse la detenzione e la privazione della libertà ha reso di fatto impossibile un ricorso effettivo (violazione art. 13) per contestare eventuali violazioni. Un’altra decisione di rilievo in materia carceraria è stata quella del caso Viola c. Italia con cui la Cedu nel 2019 negò la compatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione, laddove non consente mai misure di affievolimento della restrizione carceraria e, in prospettiva, di liberazione anticipata, in mancanza della decisione del detenuto di collaborare con la giustizia. Nello stesso anno arrivò dinanzi ai giudici europei anche il caso Amanda Knox, in materia di diritto a un processo equo. Il nostro Paese fu condannato per violazione degli articoli 3 e 6 avendo negato alla ragazza l’assistenza linguistica inadeguata e la presenza di un difensore durante l’interrogatorio della polizia e per la mancanza di effettive indagini su asserite percosse durante l’interrogatorio. In materia di libertà di espressione, la Cedu si è espressa sempre nel 2019 sul caso di Alessandro Sallusti, allora direttore del quotidiano Libero, condannato a un anno e due mesi di reclusione, per diffamazione e per omesso controllo su un articolo che recava falsità in danno di un magistrato. La Corte gli diede ragione perché la pena detentiva per l’attività giornalistica viene considerata un rimedio estremo i cui presupposti nel caso di Sallusti non furono ravvisati. Sempre in tema di libertà di stampa, nel marzo 2020, nel ricorso promosso da Renzo Magosso e Umberto Brindani, nel 2004 rispettivamente giornalista e direttore responsabile del periodico Gente, la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 10 (libertà di espressione). Come ha reso noto il ministero della Giustizia, «il tema della causa riguardava la pubblicazione di un articolo, intitolato “Tobagi poteva essere salvato”, sulla vicenda dell’omicidio di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso il 28 maggio 1980 da un commando terroristico di estrema sinistra. Il contenuto del pezzo giornalistico aveva provocato la reazione di due ufficiali dei Carabinieri che si erano sentiti diffamati». I due giornalisti furono condannati in via definitiva. Per la Cedu la sentenza adottata in sede nazionale si è tradotta «in una ingerenza sproporzionata del diritto alla libertà di espressione degli interessati, non necessaria in una società democratica». Il 27 maggio di quest’anno la Cedu ci ha condannati per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro per una sentenza che conteneva passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima. In particolare la Corte ha ravvisato la violazione del diritto alla vita privata nelle considerazioni irrispettose della dignità della ragazza, presenti nelle motivazioni della sentenza d’appello che ha assolto gli imputati. Ad agosto, inoltre, la Cedu ha depositato la sentenza relativa al ricorso, presentato da Radicali Italiani e Marco Pannella, contro l’Italia riguardante l’interruzione dal 2008 delle tribune politiche nel periodo non elettorale. È stata riconosciuta la violazione dell’art. 10 in quanto la Lista Pannella «era stata assente da tre programmi televisivi e si era trovata, se non esclusa, almeno altamente emarginata nella copertura mediatica del dibattito politico».

Recentissima è invece la decisione Succi c. Italia del 28 ottobre con cui la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 6 della Convenzione per l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione. Attualmente pende dinanzi alla Cedu il ricorso di Silvio Berlusconi c. Italia che, successivamente alla sentenza definitiva di condanna per frode fiscale, ha attivato un ricorso lamentando di aver subito la violazione dei diritti ad un equo processo, all’applicazione irretroattiva della legge penale e a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto.

Caro Davigo, ma non pensa che lo scandalo “toghe sporche” abbia minato la credibilità della magistratura? Il controllo sulla magistratura è inadeguato perché consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari. Parla Rosario Russo, già sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione. Il Dubbio il 7 novembre 2021. Spiace non potere condividere i dati e le considerazioni contenuti nel rassicurante articolo pubblicato il 29 ottobre 2021 sul giornale a firma del dottor Pier Camillo Davigo, per le seguenti ragioni.

1. In primo luogo, per contestare il generale compiacimento palesato dal dottor Davigo sull’attuale stato della Magistratura, basta rammentare che, secondo il rapporto 2020 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia ( CepeJ) da lui citato, su ventisei Paesi europei la giustizia civile italiana è censita al penultimo posto quanto a procedimenti pendenti ed è stata la più lenta nel 2018.

2. Inoltre Davigo ha esaltato, con la laboriosità e la correttezza dei giudici italiani, anche l’efficacia del sistema disciplinare che li riguarda. Qui il dato statistico è importante. Con riferimento al periodo 2012- 2018 ( sette anni) mediamente il Procuratore Generale presso la Suprema Corte ha ogni anno archiviato n. 1264 notizie disciplinari ed esercitato n. 116 azioni disciplinari. Nel 2020 soltanto in 24 casi ( pari al 21,9% di tutte le 114 incolpazioni) l’azione disciplinare si è conclusa con la condanna dei magistrati inquisiti. L’effettiva portata di tali archiviazioni non si comprende se non si tiene conto di due circostanze, sfuggite al dottor Davigo.

In primo luogo, il Procuratore generale ha il dovere di agire disciplinarmente, ma le sue archiviazioni passano al vaglio ( non del Consiglio Superiore della Magistratura, ma) soltanto del ministro della Giustizia, il quale ha la facoltà, ma non il dovere, di opporsi ( art. 107, 2° Cost.). Consegue che, a differenza di quanto avviene nel processo penale, il Pg astrattamente ha il potere, giuridicamente insindacabile, di ‘ insabbiare’ qualunque notizia disciplinare con il tacito consenso del ministro: e, come si è osservato, si tratta mediamente di 1264 archiviazioni annue.

In secondo luogo, e come se non bastasse, con proprio editto n. 44 del 2019 il Pg ha stabilito autonomamente che, a differenza di quella penale (art. 116 c. p. p.), l’archiviazione disciplinare non può essere comunicata al cittadino (o all’avvocato) che ha segnalato l’abuso disciplinare del magistrato, riservandosi il potere di interdirne la conoscenza anche al magistrato indagato, all’Anm e perfino al Csm. Non è così in altri più trasparenti ordinamenti giuridici, ma anche in altri settori del nostro. Infatti, nel procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati e dei giudici amministrativi, al cittadino denunciante è sempre comunicato integralmente il provvedimento di archiviazione. Le 1264 archiviazioni annue emesse mediamente dal Pg nel settennio 2012- 2018 costituiscono dunque un absurdissimum «buco nero».

3. Ma stupisce ancor di più che il dottor Davigo opponga che talune proposte di riforma del sistema disciplinare insidiano l’indipendenza dei magistrati, senza proporne alcuna, come se lo scandalo delle Toghe Sporche non fosse sopravvenuto. Eppure, avendo inizialmente partecipato al giudizio disciplinare nei confronti del dottor Palamara, nessuno meglio di lui dovrebbe sapere che quella indipendenza molti tra i magistrati più impegnati in sede associativa hanno tradito, attuando da anni il sistema clientelare e spartitorio. Il dottor Luca Palamara ha rivendicato – e rivendica – di avere ‘ gestito’, anche quale membro togato del Csm, le ‘ raccomandazioni’ con cui tanti magistrati ordinari imploravano ( e assai spesso) ottenevano promozioni e trasferimenti. Pubblicamente – e in sede giudiziaria – egli ha proclamato di avere ‘ mediato’ tra le correnti dell’Anm, con i membri laici del Csm e con i partiti politici; che si è fatto sempre così e così è giusto che sia, anche se – come non teme di ammettere – il suo ‘ sistema’ pregiudicava i magistrati più meritevoli. Ebbene dopo due anni, radiato dalla magistratura e dall’Anm il «sommo sensale» ( ma soltanto per la cospirazione consumata nella «notte della magistratura» ), egli e i magistrati da lui ‘ raccomandati’, istigatori e utilizzatori finali dei gravi abusi d’ufficio perpetrati, non sono stati sanzionati né in sede disciplinare e associativa né penalmente!

È questa l’indipendenza che sta a cuore del dottor Davigo? Sembra esaustiva sul tema la delibera approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura il 13 gennaio 2021 su una pratica avviata per incompatibilità ambientale o funzionale. Su di essa ha riferito il Consigliere Di Matteo, affermando testualmente che: «dall’analisi della messaggistica WhatsApp e di conversazioni intercorse fra il dottor Liguori [nr. Procuratore della Repubblica di Terni] e il dottor Palamara, emerge l’esistenza di un rapporto particolarmente confidenziale tra i due, tale da consentire al dottor Liguori di manifestare in un primo momento il proprio disappunto per la proposta di nomina del dottor Carpino quale Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza effettuata dalla Quinta Commissione» ; – «nel momento in cui si ebbe notizia della proposta della Quinta Commissione, il dottor Liguori si lamentava con il dottor Palamara dicendo ‘ così non va’ e sottolineando anche che quella scelta avrebbe comportato per il gruppo di riferimento una perdita di almeno 25 voti su 39 nel circondario di Cosenza»; sull’altra concorrente, la dottoressa Lucente, il dottor Palamara comunicava al dottor Liguori il raggiungimento di un accordo con la componente togata dei consiglieri in quota ad altro gruppo associativo, in base al quale la dottoressa Lucente sarebbe stata proposta su un altro posto vacante di Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza» ; – «le conversazioni sono state oggetto di pubblicazione sulla testata La Verità ».

Il Plenum del Csm ha disposto l’archiviazione della pratica perché «La propalazione di conversazioni provenienti da un magistrato che lavora in Umbria sulle proposte di nomina di un posto semidirettivo in Calabria non appare determinare, anche in astratto, un appannamento al corretto esercizio della funzione di Procuratore della Repubblica di Terni». Il dottor Davigo, e forse anche il lettore, potrà convenire sul fatto che: – l’indipendenza e l’imparzialità – al pari della correttezza disciplinare – sono attributi personali del magistrato e, al pari della sua reputazione, non hanno perciò confini territoriali; dovunque residenti, gli Utenti finali del servizio Giustizia non possono confidare nell’imparzialità e nella correttezza di un P. R., se apprendono dal giornale che egli abbia illegittimamente patrocinato la nomina dell’amicus, in danno di altro candidato non raccomandato ( il dottor Nessuno), ad un ufficio giudiziario messo a concorso, ovunque esso sia ubicato; – ai sensi della Circolare deliberata dal Csm il 26 luglio 2017, il Plenum avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Procuratore Generale, avendo ravvisato la violazione disciplinare di cui all’art. 2, 1° lett. d) del D. lgs. n. 109 del 2006; – nessuno dei ventitré pubblici ufficiali che hanno approvato la delibera ha rilevato che i fatti esaminati potevano integrare il reato di abuso aggravato d’ufficio ( artt. 110 e 323, 1° e 2° c. p.), sicché avevano l’obbligo di farne denuncia all’Autorità giudiziaria: non è dato comprendere perché soltanto gli illeciti accordi per l’assegnazione di talune cariche pubbliche ( tipicamente quelle universitarie) sono sanzionati penalmente… proprio dai magistrati!

4. In conclusione, il controllo sulla magistratura ordinaria è fortemente inadeguato se consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari, pertanto rimesse alla incontrollabile discrezione del Pg, e se è capace di produrre una deliberazione liberatoria come quella adottata dal Csm il 13 gennaio 2021. A differenza dello scandalo di Mani Pulite, quello delle Toghe Sporche, invece di provocare l’epurazione, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza ( too big to fail: troppo grande per crollare). In questo senso quello proclamato da Palamara sarà destinato a perpetuarsi come vivente e vincente "Sistema", se quanto prima non venga radicalmente riformato, ovviamente nel pieno rispetto dell’indipendenza della Magistratura.

Il confronto. Toghe e pagelle, la lezione degli anni ’60. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Il terzo dei quesiti referendari in materia di giustizia è volto ad ottenere che anche ai membri “laici” dei Consigli Giudiziari, cioè avvocati e professori universitari, sia consentito di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati del distretto. Tale valutazione costituisce, successivamente, la base delle decisioni assunte dal Csm in tema di progressione in carriera. Oggi, la componente laica è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni concernenti tale materia. Con il referendum, dunque, si intende giungere a valutazioni più attendibili, limitando la logica corporativa, che inevitabilmente discende dalla appartenenza alla medesima categoria di controllori e controllati. Della logica corporativa, che, sinora, ha dominato tali valutazioni ha dato conto, nel mese di ottobre, la ministra Cartabia, la quale, in risposta ad una interrogazione dell’on. Costa, ha riferito che le valutazioni positive sono state, negli ultimi anni, il 92% del totale. Di fronte a una tale percentuale, ha avuto buon gioco Tiziana Maiolo, su questo giornale (20 ottobre), a mettere in rilievo l’incongruenza del numero modestissimo di valutazioni negative (appena 35 nel quadriennio 2017-2021), a fronte non solo delle rivelazioni fatte da Palamara, ma anche di quanto sta emergendo a seguito della faida scoppiata nella sola procura di Milano in relazione ai verbali di Amara. A sua volta, Giuseppe Di Federico, ancora su questo giornale (29 ottobre), ha sottolineato, avendo letto i verbali del Csm dal 1959 al 2017, che «la grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali». Ben venga, dunque, un quesito referendario volto ad ottenere una valutazione più affidabile e meno corporativa dei magistrati. Avendo la consapevolezza, tuttavia, che il tema affrontato è di estrema complessità e che non sarà un eventuale successo del referendum a dire una parola definitiva sulla questione. Sino agli anni ‘60, la progressione in carriera dei magistrati avveniva attraverso una sorta di cooptazione, avendo un ruolo decisivo i componenti della Corte di Cassazione, siccome determinanti nelle commissioni di avanzamento. Negli anni ’60, attraverso la legge cd. “breganzina” prima e la legge “breganzona” poi (dal Dc Uberto Breganze che ne è stato il proponente), la progressione in carriera dei magistrati è divenuta pressoché automatica, nel senso che è consentito a tutti, con l’avanzare dell’anzianità, di raggiungere i gradi (e gli stipendi) più elevati, in assenza di valutazioni negative. La selezione si è così spostata dall’avanzamento nel ruolo al diverso tema dell’attribuzione delle funzioni effettive, che, come ha riferito Palamara, è divenuto il terreno di intervento delle correnti, essendo la promozione ormai assicurata a tutti. Di fronte a maglie così larghe, che non hanno eguali in altri comparti dell’impiego sia pubblico e sia privato, eccetto quello dei docenti (titolari, peraltro, di un trattamento economico decisamente inferiore), è facile scandalizzarsi ove non si tenga conto delle ragioni che, negli anni ’60, indussero il legislatore a prevedere un automatismo di carriera. In quegli anni la questione centrale in Italia, nel mondo del diritto, era quella di stabilire se i principi dettati dalla Costituzione repubblicana dovessero trovare diretta ed immediata attuazione anche attraverso l’opera dei giudici o se dovesse attendersi l’opera di adeguamento del legislatore. Il dibattito, in cui spiccò in dottrina il contributo di Pietro Perlingieri volto ad offrire una rilettura in chiave costituzionale del codice civile, vedeva larga parte della magistratura di merito schierata a favore della prima opzione, mentre la Cassazione esprimeva, in prevalenza, una posizione molto più prudente. Continuare ad attribuire, perciò, un ruolo decisivo ai magistrati della Cassazione rispetto alla progressione di carriera avrebbe significato ostacolare una più immediata e completa attuazione dei principi costituzionali nell’ordinamento italiano. A questo deve aggiungersi che, come all’epoca si sottolineava, erano lo stesso valore dell’indipendenza di ogni singolo giudice e la pari dignità della funzione del giudicare, che respingevano una progressione condotta con criteri selettivi, che avrebbero potuto facilmente prestarsi a condizionare l’attività dei magistrati. Quelle riforme, dunque, al di là delle spinte corporative, che pure vi sono state, avevano l’obiettivo di rendere l’ordinamento giudiziario più coerente con il dettato costituzionale. È necessario, allora, dire con chiarezza che se, da un lato, il sistema vigente si è prestato a troppi abusi per essere mantenuto inalterato, dall’altro, quelle esigenze che ispirarono il legislatore degli anni ’60 continuano ad essere attuali e meritevoli di tutela. Se, quindi, appare assolutamente necessario che lo spirito corporativo, che oggi innerva il sistema di governo della magistratura, sia contrastato, questo deve avvenire nel rispetto di quelle esigenze che ispirarono le riforme citate. In questo senso, la estensione anche ai membri laici dei consigli giudiziari del potere di incidere sulle valutazioni appare una misura coerente con la finalità perseguita e che certamente non mette a repentaglio il valore dell’indipendenza della magistratura. Occorre, tuttavia, svolgere anche un’altra considerazione. La connessione tra giustizia e politica, che è divenuta dominante a partire da Mani Pulite, ha finito con il distorcere, per quello che qui interessa, i criteri di valutazione dell’attività del giudice, essendo troppo spesso tutto ridotto ad uno scontro tra tifoserie politicamente opposte. Tanto per fare un esempio, i magistrati che hanno dato corpo al processo sulla Trattativa, hanno alimentato una clamorosa panzana, anche sotto il profilo tecnico giuridico, o hanno meritoriamente messo il dito su una piaga purulenta? Al di là delle opinioni personali di chi scrive, non si può non prendere atto che su questo tema vi è una contrapposizione così netta ed accesa, dalla forte connotazione politica, che diventa difficile raggiungere la pacatezza che richiederebbe una tale valutazione. Ecco, allora, che sarebbe opportuno che siano esclusi dalla nomina, come laici, nei consigli giudiziari e nel Csm coloro che abbiano ricoperto ruoli nei partiti politici o funzioni di rappresentanza politica. Questo per evitare che il corporativismo che si vuole combattere sia invece rafforzato da uno spirito di comune appartenenza ideologica, che unisca togati e laici, con effetti estremamente perniciosi. La considerazione delle ragioni a fondamento delle riforme degli anni ’60 conduce ad una ulteriore riflessione. L’automatismo della progressione economica sulla base della sola anzianità senza demeriti ha, tra l’altro, trovato legittimazione nella giusta considerazione che l’attività del giudicare ha eguale dignità a tutti i livelli. In effetti si deve rilevare che anzi, sotto alcuni aspetti, chi giudica nei primi gradi ha un maggiore potere di incidere sulla vita delle persone rispetto a chi giudica nei gradi successivi. Se le cose stanno così, non si comprende perché chi subisca una valutazione negativa non possa accedere ai livelli superiori, ma possa continuare ad arrecare danno ai cittadini nel ruolo che sta svolgendo. Sarebbe, perciò, opportuno che, quantomeno dopo una seconda valutazione negativa, quale che sia il grado ricoperto, il magistrato venga estromesso dall’ordine giudiziario e destinato ad altra amministrazione dello stato.

Carriera e professionalità delle toghe. La "truffa" delle valutazioni dei magistrati: Cartabia non tocca nulla. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Giorni fa alcuni giornali, tra cui questo, hanno dato notizia che la Ministra Cartabia, in risposta ad una interrogazione dell’On. Costa, ha fornito i dati relativi alle valutazioni di professionalità dei nostri magistrati. La ministra ha indicato che le valutazioni positive negli ultimi anni sono state 7394 su 7453, cioè il 92% del totale. Sono dati in linea con quelli da me ripetutamente pubblicati sulle valutazioni professionalità dei magistrati a partire dal 1966 (in certi periodi le valutazioni positive sono state anche più elevate: oltre il 95%). Per quanto i dati forniti dalla Ministra Cartabia all’On Costa siano già di per sé rilevanti nell’indicare la drammatica assenza di garanzie offerte al cittadino sulla preparazione e diligenza di chi, giudice e pubblico ministero, è chiamato a tutelare le sue libertà ed i suoi beni, tuttavia non sono i soli dati rilevanti a riguardo. Mi limito ad indicare solo tre aspetti delle valutazioni di professionalità che sono utili a comprendere come il Csm abbia con pervicace costanza voluto abolire sostantive valutazioni di professionalità dei magistrati nei 40-45 anni della loro permanenza in servizio. Potrebbero costituire oggetto di successive, nuove interrogazioni dell’On Costa. Il primo. I numeri e le percentuali fornite dalla Ministra non sono completi. Non tengono, infatti, conto delle numerose valutazioni di professionalità che vengono fatte allorquando, al termine del tirocinio iniziale di 18 mesi, il Csm valuta l’adeguatezza dei neo reclutati all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni negative sono rarissime. Si contano sulle dita di una mano. Che la Ministra Cartabia non abbia tenuto conto di queste valutazioni non solo indica che la percentuale delle valutazioni di professionalità positive effettuate dal Csm è superiore a quella già molto elevata da lei fornita, ma anche che l’aver trascurato di considerare questa valutazione le ha impedito di vedere un problema che queste particolari valutazioni generalizzate pongono per la qualità del servizio giustizia: gli esami di ammissione in magistratura sono di natura teorica e, come mostrano le mie ricerche, non solo sono scarsamente attendibili nel valutare le conoscenze dei candidati, ma anche che la stragrande maggiorana dei i nuovi magistrati riceve votazioni molto basse negli esami scritti da moltissimi anni: ad esempio, per i 680 magistrati nominati con D.M. 2 febbraio 2018 e D.M. 8 febbraio 2019: la percentuale delle votazione minime negli esami scritti (cioè 36 su 60) è stata superiore al 45% e quella delle 5 votazioni più basse (cioè da 36 a 40 su 60) è stata di oltre l’85%. A me sembra che in una prospettiva riformatrice delle valutazioni di professionalità anche questi dati dovrebbero essere presi in considerazione. Il secondo aspetto. Per effettuare promozioni generalizzate il Csm ha deciso che persino l’esperienza giudiziaria è irrilevante ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Basti ricordare che il Csm ha promosso con elevate valutazioni molti magistrati che da moltissimi anni, a volte anche vari decenni, non avevano svolto funzioni giudiziarie ma attività amministrative in vari apparati dello Stato o attività di natura politica. Gli esempi sono moltissimi. Ne faccio solo uno di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori. Un personaggio molto noto, Anna Finocchiaro, entrò in magistratura nel 1982 e dopo 5 anni, quando era ancora al livello più basso della carriera, venne eletta in Parlamento ove venne rieletta ripetutamente, e ove rimase fino al 2018. Nel corso dei 31 anni in cui svolse attività politica, parlamentare e di governo venne al contempo ripetutamente valutata professionalmente come magistrato e promossa dal Csm dal livello più basso a quello più elevato della carriera giudiziaria, senza aver svolto per un solo giorno attività giudiziarie, giungendo così ad una promozione che la qualificava a svolgere funzioni giudiziarie di grande responsabilità come, ad esempio, quelle di presidente di sezione della corte di Cassazione, o Procuratore generale di corte d’appello. Ho scelto di ricordare il caso di Anna Finocchiaro e non quello di altri magistrati che come lei hanno percorso la carriera giudiziaria mentre svolgevano a tempo pieno attività amministrative o politiche perché lei, a differenza di altri, ha preferito dimettersi dalla magistratura piuttosto che tornare ad esercitare funzioni di grande responsabilità come quelle giudiziarie senza avere maturato la necessaria esperienza operativa e professionale. Una decisione certo commendevole ma che al contempo evidenza l’assurdità delle decisioni del Csm di valutare la professionalità dei magistrati e promuoverli in base all’anzianità, a prescindere persino dalla effettiva esperienza giudiziaria. E’ cosa non prevista da alcuna legge ma solo frutto di decisioni discrezionali del Csm. Il terzo aspetto. La Ministra Cartabia non ha fornito indicazioni su quali siano le ragioni per cui solo in pochi casi il Csm non valuta positivamente i magistrati nel corso dei 40 anni della loro permanenza in servizio. In altre parole non ha indicato quali siano i comportamenti dei magistrati che costringono il Csm ad abbandonare, seppur solo raramente, un impegno che si è assunto da oltre 50 anni e cioè quello di promuovere tutti i magistrati sulla base dell’anzianità. Conoscere questi dati è certamente importante per valutare il grado di efficacia di un sistema di valutazione della professionalità. Avendo letto i verbali del Csm dal 1959 al 2017 conosco la risposta che è sommariamente questa: la grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali. La relazione disfunzionale che esiste tra valutazioni di professionalità e giudizi disciplinari è stata, peraltro, efficacemente illustrata dal Procuratore Generale della Cassazione Pasquale Ciccolo che, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, dopo aver ricordato che solo lo 0,58% dei magistrati non aveva ricevuto valutazioni positive, affermava che un maggior rigore nelle valutazioni di professionalità «potrebbe evitare che il sistema disciplinare costituisca la sede sulla quale riversare, quasi a modo di funzione suppletiva a posteriori, la soluzione ultima di tutti i momenti critici della giustizia». Ho letto con attenzione le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario formulate dalla commissione ministeriale nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal Prof. Luciani. Delle disfunzioni sin qui indicate, che certamente non sono le sole, quella Commissione non tiene alcun conto, così come non ne tengono conto le proposte di riforma della stessa Ministra. Quali le ragioni? Forse non conoscono questi fenomeni e alcune delle loro più rilevanti implicazioni? Oppure ritengono che si tratti di disfunzioni di scarsa rilevanza? Oppure, al pari delle altre commissioni di riforma e di altri ministri del passato, ritengono che sia inutile proporre riforme che siano sgradite alla potente corporazione dei magistrati? Forse anche i nostri lettori vorrebbero risposte a queste domande? Dubito che le avranno.

Due postille

La prima per ricordare ai lettori che in nessuno dei paesi democratici ove i magistrati rimangono in servizio per una quarantina di anni (Germania, Francia, Spagna e così via) le promozioni avvengono per anzianità. Vengono invece effettuate valutazioni selettive con graduatorie di merito. Di conseguenza mentre negli altri Paesi solo un numero molto ristretto di magistrati raggiunge l’apice della carriera, in Italia la raggiungono tutti i magistrati con i vantaggi anche economici che questo comporta. Forse la minore efficienza del nostro sistema giudiziario rispetto a quelli gli altri paesi dipende anche da questo.

Seconda postilla. L’assenza di reali valutazioni di professionalità genera una pluralità di disfunzioni ben più numerose di quelle dianzi indicate, tra cui il rilevante ruolo che le correnti della magistratura esercitano sulle decisioni del Csm, come ho già scritto anche su questo giornale il 29 gennaio scorso.

Giuseppe Di Federico

Gli intoccabili. La magistratura è l’unica istituzione che non controlla la qualità dei suoi funzionari. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2021. Le disfunzioni della giustizia italiana non vengono mai ricondotte alla scarsa efficienza di chi dovrebbe farla funzionare. Le riforme sono rapide quando si tratta di comprimere i diritti di chi subisce il processo, ma s’incagliano quand’è il caso di intervenire sulla disinvoltura di chi lo dirige. Vogliamo ipotizzare che a causa delle disfunzioni della giustizia si ponga, oltre che la voglia dei criminali di farla franca, oltre che il lavorìo dei loro complici, cioè quei farabutti degli avvocati, oltre che la vasta cospirazione della politica corrotta, oltre che il garantismo peloso, oltre che il neoliberismo e il cambiamento climatico e il malocchio, anche un pizzico di responsabilità di chi opera in quell’amministrazione, e cioè i magistrati? No, perché se c’è un’ipotesi esclusa risolutamente da tutta la chiacchiera che si fa in argomento è questa: il costume della magistratura, il normale disbrigo del servizio giudiziario, il livello di efficienza personale degli addetti alla giustizia possano essere anche solo vagamente da mettere sul conto delle cose che non vanno in quel settore. Non c’è inefficienza amministrativa di cui si discuta senza dare un’occhiata almeno distratta al curriculum e al profitto di quelli che la gestiscono: salvo appunto il caso della magistratura, un ambito di potere impassibile non si dice al controllo di qualità, ma persino all’idea che i difetti per cui si segnala il sistema possano dipendere anche solo in misura pulviscolare dal contributo negativo del funzionariato in toga. È per effetto di questa indipendenza e autonomia della magistratura da qualsiasi regola, da qualsiasi criterio di controllo ed efficienza, da qualsiasi obbligazione giuridica, sociale, civile di rendere conto del proprio operato, che le riforme in materia di giustizia prendono e mantengono un corso forzato e veloce quando si tratta di comprimere i diritti di chi subisce il processo e invece s’incagliano quand’è il caso di intervenire sull’abitudine alla disinvoltura di chi lo dirige, e cioè il magistrato-untouchable. In un ribaltamento radicale di prospettiva si procede, così nel civile come nel penale, allo scrutinio delle soluzioni migliori secondo che esse soddisfino o disturbino il meno possibile l’interesse di quella categoria, puntualmente gabellato per interesse comune poiché, notoriamente, la giurisdizione non costituisce un servizio pubblico ordinario, ma la missione di un esercito apostolare che spazza via i corrotti, rimette in sesto l’economia marcia, tiene pulite le liste elettorali esposte all’insidia mafiosa e – perché no? – sorveglia qua e là, tra un rastrellamento e l’altro, che le multinazionali in mano agli ebrei non somministrino troppa acqua di fogna spacciandola per vaccino. È tutta roba che sta comoda ora, senza le riforme di cui si vagheggia la portata epocale, e che si accomoderà identicamente a riforme approvate. Buone per altro, magari (mica tutte e mica sempre), ma comunque orientate a lasciare intonso il libro del privilegio giudiziario.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 25 ottobre 2021. Sconsigliata l'esibizione virtuale e attenzione alle amicizie o ai gruppi. Una specifica disciplina giuridica non c'è, ma l'uso dei social da parte delle toghe è comunque regolato dalle norme deontologiche. E riguarda anche la sfera privata. Il principio è quello del «self-restraint», ossia l'autocontrollo anche sulle mailing list, perché «ove non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l'azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria». Lo precisa la Cassazione che, attraverso l'ufficio del Massimario, ha risposto a un questionario arrivato dalla Corte Suprema della Repubblica Ceca. Va da sé, ma piazza Cavour lo sottolinea, che esprimere opinioni su argomenti legati all'attività dell'ufficio può costituire un illecito disciplinare. La novità riguarda però la vita privata: «si raccomanda la riservatezza». E si sottolinea il rischio di ledere la credibilità complessiva della magistratura anche con partecipazioni a gruppi o follow che abbiano rilevanza politica. «I limiti - si legge nel documento della Cassazione - sono particolarmente penetranti con riguardo alle espressioni, esternazioni o pubblicazioni che abbiano legami con i contenuti dei procedimenti trattati nell'ufficio o con le persone in essi coinvolti, giacché la legge recante la disciplina degli illeciti disciplinari stabilisce che il magistrato esercita le funzioni con correttezza, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni». In certi casi, sottolineano i giudici esternazioni o pubblicazioni possono costituire un illecito disciplinare «allorché siano tali da tradursi in gravi scorrettezze nei confronti delle parti, dei difensori, dei testimoni o di qualunque soggetto coinvolto nel procedimento o nei confronti di altri magistrati». I limiti, per le toghe, però non riguardano solo l'ambito professionale, ma anche le esternazioni sulla vita privata. Si legge nel documento infatti che l'attività dei magistrati sui social network «deve ritenersi limitata anche quando si riferisca ad espressioni o pubblicazioni di natura privata». La regola è quella della sobrietà nei comportamenti che impone «di non eccedere nell'esibizione virtuale di frammenti di vita privata che dovrebbero restare riservati, al fine di non pregiudicare il necessario credito di equilibrio, serietà, compostezza e riserbo di cui ogni magistrato (e, quindi, l'intero ordine giudiziario) deve godere nei confronti della pubblica opinione». In questa prospettiva le regole deontologiche impongono un self-restraint «ancor più rigoroso nei casi in cui le esternazioni o le pubblicazioni (ma anche la creazione di amicizie o connessioni virtuali o la partecipazione a gruppi o a follow) abbiano rilevanza politica o investano temi di interesse generale». La regola non vale solo per la magistratura ordinaria, ma anche per i giudici di Tar e Consiglio di Stato. Lo scorso marzo, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, con una delibera, ha definito le linee guida sull'uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati. Il documento si occupa in particolare, delle amicizie e delle connessioni create o accettate on line dai giudici amministrativi, raccomandando che i collegamenti siano gestiti con estrema diligenza e precauzione, limitando le connessioni virtuali che riguardino soggetti coinvolti nel ruolo istituzionale o possano intaccare l'immagine di imparzialità. Infine si prevede che ogni magistrato amministrativo abbia il diritto e il dovere di ricevere una formazione specifica relativa ai vantaggi e ai rischi dell'utilizzo dei social network e si raccomandano iniziative di aggiornamento e formazione a cura del Consiglio di presidenza e dell'Ufficio studi della giustizia Amministrativa.

L’affondo di Santalucia: «Paletti solo per i pm, risparmiati i giudici». Presunzione d’innocenza, le critiche del leader dell’Anm in audizione: «Giusto rafforzare il principio, ma così si ingessano eccessivamente i rapporti con la stampa». Valentina Stella su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Si sono svolte ieri le prime audizioni presso la Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’esame dello schema di decreto legislativo per il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Il Governo ha redatto un testo su cui ora le commissioni competenti dovranno esprimere pareri non vincolanti. Il primo a parlare è stato Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «Il testo complessivamente può trovare condivisione perché il bisogno di rafforzare la presunzione di innocenza è certamente un bisogno meritevole di considerazione». Santalucia però ha rilevato delle criticità, soprattutto sull’articolo 3, che va a modificare il decreto legislativo relativo ai rapporti del pm con la stampa: «Si sono voluti irrigidire, attraverso l’esclusivo riferimento ai comunicati ufficiali e alle conferenze stampa, i rapporti tra l’ufficio di Procura e la stampa. Ritengo che questa sia una eccessiva ingessatura che bandisce qualsiasi possibilità che il procuratore della Repubblica possa rendere una dichiarazione ad un giornalista fuori da una conferenza stampa». Santalucia si è chiesto poi «perché le modifiche debbano valere solo per gli uffici di procura e non anche per i giudici». Insomma: «Mi rendo conto della necessità di richiamare l’attenzione, soprattutto della magistratura requirente, a sobrietà e continenza con i rapporti con la stampa, ma credo che questa eccessiva formalizzazione dei canali di comunicazione possa rivelarsi in concreto più lesiva del bisogno di una corretta informazione». E poi ha ravvisato un paradosso: «L’articolo 114 cpp sulla pubblicabilità degli atti del procedimento rende, per una scelta del legislatore della passata legislatura, pubblicabile senza alcun limite l’ordinanza di custodia cautelare. Ma poi irrigidiamo la possibilità di comunicare del procuratore della Repubblica». A livello emendativo ha proposto di cancellare il termine “esclusivamente” al comma che limita i rapporti del procuratore con la stampa “(esclusivamente) tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”, e sostituirlo con “preferibilmente”’. Per il segretario generale dell’Anm Casciaro, «ferma l’esigenza di effettività del principio della presunzione di innocenza nel processo (penale), la procedura delineata potrebbe attivare una serie di sub procedimenti con istanze, provvedimenti, opposizioni in camera di consiglio che rallenterebbero la macchina della giustizia in un momento in cui è più che mai avvertito l’impegno a velocizzarla. Forse basterebbe, nel civile come nel penale, la previsione di uno strumento di rettifica mutuato dalla procedura di correzione dell’errore materiale, più agile e snella». Se per l’Anm i paletti sono troppo rigidi, di parere contrario è l’Unione Camere penali, intervenuta con gli avvocati Giorgio Varano e Luca Brezigar: «Le norme, così come formulate, rischiano di essere dei meri desiderata che non avranno mai concreta applicazione». Inoltre tacciano la norma di essere troppo indeterminata nel non elencare nel dettaglio le “autorità pubbliche” a cui è vietato “indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini”. In aggiunta, a decidere la rilevanza pubblica di un fatto degno di conferenza stampa è la stessa procura che ha condotto le indagini, la stessa che «decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e l’esercizio dell’azione penale sullo stesso tipo di reato – sulla base magari dell’assenza di rilevanza pubblica della notizia». In generale, per l’Ucpi, «affidare in via esclusiva alla magistratura la tutela del diritto alla presunzione di innocenza» non rappresenta il giusto rimedio che invece potrebbe essere quello di «un Garante per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo che potrebbe realmente diventare quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea». Ma in tutto questo, il modus operandi della stampa andrà modificato? Il testo del governo non si interroga su questo, ma dice l’Ucpi: «Bisogna uscire dall’equivoco che ogni riferimento a fatti inerenti a procedimenti penali sia di per sé espressione del diritto di informare e di essere informati. Per questa ragione, occorre pensare ad un codice (non solo deontologico, ma di legge) che detti regole condivise per il comportamento dei magistrati (in piena attuazione della direttiva europea) ma anche degli avvocati e dei giornalisti».

Giustizia, dal caso Feltri alla trattativa Stato-mafia: bisogna limitare i poteri dei pm. Roberto Cota su Libero Quotidiano il26 settembre 2021. I pm, già i pm. I rappresentanti dell'ufficio del pubblico ministero hanno chiesto la condanna a tre anni e quattro mesi di carcere per Vittorio Feltri (otto mesi per Pietro Senaldi), per aver scritto un articolo. Per restare all'attualità, sempre magistrati inquirenti hanno portato avanti per anni il famigerato processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Per lungo tempo politici ed altri rappresentanti delle istituzioni sono stati infangati. Poi, tra primo e secondo grado, gli imputati sono stati praticamente tutti assolti. Ho fatto due esempi per restare agli ultimissimi giorni. Ma l'elenco di azioni e posizioni dei pm che si possono definire sconcertanti è lungo. Anzi, lunghissimo. Per non dire infinito. Spesso si dice che esiste la dialettica processuale e che il pm, appunto, è solo una parte del processo. Il cittadino dovrebbe avere fiducia nel giudice terzo. Non è proprio così in quanto: a) esiste spesso un condizionamento ambientale ed una promiscuità che non rende il giudice davvero terzo; b) i processi durano anni e i danni che provocano indagini e richieste infondate sono irreparabili; c) le Procure possono andare anche contro le decisioni dei giudici perché comunque hanno la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione. In passato si è parlato di far eleggere i capi delle Procure direttamente dal popolo. Sono stato un sostenitore di questa soluzione. Mi sono ricreduto. Dopo aver visto i Cinquestelle al potere mi sono reso conto che, in un determinato contesto, il giustizialismo delirante avrebbe potuto anche arrivare ai vertici delle Procure, magari sostenuto da certa stampa (non da Feltri e Senaldi). Con la ulteriore difficoltà di dover riparare danni enormi alle elezioni successive. Alla fine, l'unica cosa da fare è quella di limitare i poteri dei pubblici ministeri. Sulla durata dei processi (la riforma del ministro Cartabia è un po' timida) e quindi sulla durata dell'esercizio dell'azione penale. Sulla facoltà di impugnare le sentenze quando l'accusa è soccombente. Sulla possibilità (oggi troppo estesa) di richiedere misure cautelari ed anche, infine, introducendo la impossibilità di ricoprire uffici direttivi per chi ha portato avanti in precedenza indagini rivelatesi infondate.

La partita non è chiusa. Approvata la riforma, sapete chi scriverà le norme? Le toghe. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Non vorremmo che la definitiva approvazione della riforma Cartabia del processo penale creasse soverchie illusioni. Abbiamo detto in ogni modo che, pur con i suoi macroscopici limiti, figli di una mediazione quasi impossibile tra forze di maggioranza agli antipodi proprio sulle questioni cruciali che ha affrontato, quella riforma ha comunque segnato una svolta rispetto al periodo più buio della legislazione penale nella storia della Repubblica. Occorreva scrivere la parola fine allo spettacolo desolante dei meet-up manettari padroni del campo, alla sistematica eversione, scomposta ed irridente, dei fondamenti costituzionali della legge penale e del giusto processo, cupa ed ossessiva colonna sonora di questo ultimo triennio. Quella parola “fine” è stata scritta, a Parlamento invariato, e non possiamo ignorare il valore positivo di quanto accaduto. Ciò detto, non illudiamoci: la partita è tutt’altro che conclusa. Questa è una legge delega, quelle approvate (con l’ennesimo voto di fiducia) non sono testi normativi compiuti, ma deleghe al Governo. I singoli articoli dovranno tradurre in norme gli indirizzi in teoria vincolanti definiti nelle deleghe. Dico in teoria perché, come tutti sappiamo, in un testo di legge basta un avverbio, una virgola, una aggettivazione per definire in un senso o nell’altro il comando normativo. Chi controlla la rispondenza della norma alla delega? I poteri del Parlamento sono purtroppo molto labili, anche se andranno attivati con il massimo sforzo; sarà semmai la Corte Costituzionale, “a babbo morto”, ove investita da un Giudice chiamato ad applicare la norma, a valutare il c.d. “eccesso di delega”. Ora, la domanda cruciale che dovete porvi è molto semplice: chi si appresta a scrivere quelle norme? Risposta: l’ufficio legislativo del Ministero di Giustizia. Allora voi chiederete certamente: chi compone, chi governa, chi amministra questo cruciale ufficio ministeriale? Risposta: magistrati, magistrati, magistrati. Incidentalmente, qui e là, può capitare che qualche professore universitario, se del caso, dia una mano. Ma cosa ci fanno, vi chiederete giustamente, dei magistrati al Governo? Per quale ragione costoro, avendo vinto un concorso bandito per coprire gli organici della magistratura requirente e giudicante, non stanno nelle loro aule ad esercitare la giurisdizione, ma si trovano ad esercitare da protagonisti, in un ruolo così cruciale e decisivo, il potere esecutivo? Ecco, con queste semplici domande vi trovate dentro fino al collo in una delle più clamorose ed inspiegabili anomalie della nostra vita democratica. Da sempre vigono leggi nel nostro Paese che prevedono che, ad ogni formazione di un Governo, un piccolo esercito di magistrati venga messo fuori ruolo ed assegnato, formalmente su chiamata dei rispettivi Ministri e Sottosegretari, a comporre, con ruoli e responsabilità di assoluto rilievo, gli organici dei vari Ministeri. Eclatante il caso del Ministero di Giustizia, dove i magistrati distaccati sono oltre un centinaio. Ovviamente essi occupano tutti i ruoli cruciali, dal Capo di gabinetto del Ministro al capo e al vicecapo dell’ufficio Legislativo, al capo dell’Ispettorato, al capo dell’Amministrazione Penitenziaria, e via via a comporre tutti gli organici di questi e di tanti altri uffici. Come avvengono questi distacchi? Beh, a seconda dell’orientamento politico del Governo, il sistema correntizio governato dall’Anm fornirà le risposte adeguate, dosandole nel modo più acconcio. Il Ministro è in grado di controllare politicamente tutto ciò? Mettiamola così: non è un compito facile. E di certo, comunque, non potrà mai esercitare il giusto controllo sugli aggettivi, le virgole e la struttura lessicale dei decreti attuativi di una legge delega. Ora fatevi quest’altra domanda: anche negli altri Paesi funziona così? Risposta: nossignori, manco per idea, siamo gli unici in tutto il mondo. Scommetto che, già solo dopo queste poche, banali domande e risposte, stiate cominciando a comprendere come mai in Italia la magistratura eserciti un potere così anomalo, così incontrollabilmente squilibrato rispetto agli altri poteri dello Stato. Beh siete sulla strada giusta. E comprenderete bene anche per quale ragione di questo tema non si riesce nemmeno ad iniziare a discutere. Nemmeno inizia un dibattito. Si lascia cadere. “È previsto dalla legge”, dice distrattamente il segretario generale di Anm in una intervista di questi giorni. Beh, nessuno pensava si trattasse di un traffico clandestino di fuori ruolo. E la politica, il Parlamento? Nemmeno si azzardano, roba radioattiva, tenersi alla larga. E invece questa, proprio questa, è una delle più clamorose anomalie, una autentica emergenza democratica del nostro Paese. Il Congresso dei penalisti italiani ne sta parlando in questi giorni e discuterà di come lanciare una grande campagna politica nel Paese su questo tema, e su altri ad esso connessi. Cioè la sola, vera riforma dell’ordinamento Giudiziario necessaria, non la caricatura che ne è in preparazione. Seguiteci con un po’ di attenzione. Scommettiamo che, nei prossimi mesi, almeno il dibattito riusciremo a farlo iniziare?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane

I professionisti dell’antipolitica. L’approvazione della riforma Cartabia nel Paese della trattativa Stato-Stampa. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 24 settembre 2021. Nel giorno in cui un tribunale smonta le stravaganti teorie di una sottocultura pubblicistica eversiva e criminogena, diventa finalmente legge un provvedimento che ferma la discesa inarrestabile verso l’inciviltà. L’approvazione della riforma Cartabia è una buona notizia per molte ragioni, la prima delle quali è che comporta la cancellazione della riforma Bonafede. E questa è un’ottima notizia, resa ancora più significativa dalla coincidenza temporale con la sentenza d’appello nel processo sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia». Trattativa che a quanto pare non c’è mai stata (quando si arriva a dire che la trattativa c’è stata perché la mafia ha avanzato delle richieste, anche se nessuno le ha accolte, il problema non è più giuridico e tanto meno politico, è semplicemente un problema di italiano). Trattativa, soprattutto, che se anche ci fosse stata, mai avrebbe dovuto chiamarsi così, come fosse un negoziato bilaterale gestito dai legittimi rappresentanti di due organizzazioni che si riconoscono reciprocamente: lo Stato da un lato, la mafia dall’altro. Nel qual caso, peraltro, non si capisce perché la questione avrebbe dovuto essere affidata a un tribunale, e dove sarebbe stato il reato. E se invece il tradimento del ministro o dell’ufficiale Tizio fosse stato accertato, che è quanto la sentenza di ieri esclude, avremmo dovuto chiamarla, semmai, trattativa Tizio-Mafia. Come è possibile non rendersi conto che il fatto stesso di chiamarla Trattativa Stato-Mafia è il più grande regalo che si possa fare alla criminalità, è purissima propaganda mafiosa, è un tic linguistico pernicioso, figlio di una sottocultura eversiva e criminogena? Su molti di questi tic appare decisa a intervenire, meritoriamente, la ministra Marta Cartabia, compreso il modo in cui si danno i nomi e si presentano le inchieste appena avviate (oggetto di un apposito decreto legislativo), che è un pezzo fondamentale dell’ingranaggio in cui viene stritolata ogni giorno la presunzione d’innocenza in Italia. Intanto, con tutti i compromessi e i limiti di cui si è già discusso ampiamente, il varo della sua riforma della prescrizione ristabilisce il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, che i Cinquestelle volevano abolire, da ultimo anche con la complicità del Pd. E questo, insieme con il voto a favore del taglio costituzionale dei parlamentari, è stato certamente uno dei punti più bassi toccati dai sostenitori dell’alleanza strutturale con i grillini. Per fortuna è arrivato il governo Draghi a interrompere questa discesa inarrestabile verso la barbarie e a invertire la rotta. Ma il fatto stesso che per interromperla ci sia voluto un governo di emergenza, guidato da un ex presidente della Bce, dimostra quanto profondamente abbia attecchito il virus del populismo, e quanto deboli siano gli anticorpi del nostro sistema politico, anche a sinistra.

Francesco Boezi per ilgiornale.it il 22 settembre 2021. Il leader d'Italia Viva Matteo Renzi è intervenuto poco fa in Senato, rimarcando tutta la distanza possibile tra l'idea di Giustizia promossa dal governo di Mario Draghi e quella che avrebbe dovuto prendere piede secondo i desiderata dell'ex ministro Alfonso Bonafede, ma attaccando pure la "correntocrazia" che alberga in parte della magistratura italiana. Forte anche il richiamo al rispetto delle guarentigie dei parlamentari. Attraverso un annuncio circolato nel corso della mattina di oggi, l'ex presidente del Consiglio aveva anticipato i temi del discorso odierno. Argomentazioni che sarebbero state relative allo stato di salute della Giustizia italiana: "Questo pomeriggio - si leggeva sulla Enews - interverrò in Aula, al Senato, sui temi della riforma Cartabia e della giustizia penale. Sarà un intervento - aveva premesso Renzi - molto difficile, tra i più difficili della mia carriera. Ma sento il dovere di dire parole di verità sul momento incredibile che sta vivendo il mondo della magistratura nel silenzio dei più". Il tutto mentre il governo si appresta ad incassare il voto favorevole del Parlamento alla riforma Cartabia, che viene ritenuta decisiva dalla maggioranza. In gioco c'è il futuro del sistema Giustizia in Italia. Sistema che grazie al governo Draghi è sempre più lontano dall'impostazione di Bonafede. Italia Viva sostiene appieno l'azione del ministro della Giustizia: "La riforma Cartabia - ha esordito Renzi - , che noi voteremo con convinzione, è un ottimo primo passo e un primo passo, lo dice la storia, ti toglie da dove sei, dalla Bonafede, ma non ti porta ancora dove dobbiamo andare. Questa situazione avviene nel momento più tragico della storia del potere giudiziario nella storia repubblicana", così come raccontato dalla Lapresse. Insomma, quanto messo in campo dall'esecutivo potrà essere perfezionato tra qualche tempo, ma intanto la riforma consente di uscire dal guado giustizialista pentastellato. Un altro "siluro", per così dire, riguarda il rapporto tra politica e magistratura: "Tanti di noi - ha fatto presente l'ex presidente del Consiglio - hanno rinunciato al gusto della verità per la paura. Perchè per anni abbiamo consentito di lasciare non a dei singoli magistrati ma alla subalternità della politica, il fatto che fossero i pm a decidere chi poteva far carriera politica e chi no, perchè abbiamo detto che un avviso di garanzia costituiva una sentenza di condanna. In questi anni - ha proseguito Renzi - il potere legislativo ed esecutivo hanno attraversato momenti di difficoltà, quello giudiziario mai, questo è il primo momento drammatico". "Crisi" è dunque una parola che la politica conosce bene, mentre la magistratura prenderebbe ora confidenza con i momenti no. La politica viene richiamata a riappropriarsi del ruolo che le è proprio. Renzi si è soffermato pure sull'articolo 68 della Costituzione e sulla sua centralità: "Le guarentigie dei parlamentari sono costituzionalmente garantite e quotidianamente ignorate da un utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini. Se non utilizziamo il tempo da qui al rinnovo del Csm, nel luglio 2022, per scrivere una pagina nuova, non importa chi sarà il prossimo a essere coinvolto, la vera vittima della nostra inerzia sarà la credibilità delle istituzioni e la dignità della magistratura". La clessidra scorre. Puntuale, l'ex premier, ha presentato anche la sua visione della situazione complessiva della magistratura, citando pure una "profezia" dell'ex direttore di Radio Radicale Massimo Bordin. Questi aveva pronosticato un futuro in cui "i magistrati si sarebbero vicendevolmente arrestati". Il leader d'Italia Viva, nel proseguo, ha posto accenti pure su quella che ha chiamato "correntocrazia": La “correntocrazia? dentro la magistratura del 2021 è come la partitocrazia nella politica del 1991"., ha tuonato, facendo dunque un'associazione. Poi la specificazione: "Il problema non è la separazione delle carriere, bensì lo strapotere vergognoso delle correnti della magistratura. Devi fare carriera se sei bravo non se sei iscritto ad una corrente". Renzi, nella parte finale del discorso, ha preso atto delle scuse poste tempo fa da Luigi Di Maio sul modus operandi e sulla visione della giustizia dei pentastellati. Applausi scroscianti, al termine dell'intervento del leader d'Italia Viva, sono arrivati pure dagli scranni di Forza Italia, da quelli della Lega e da quelli del Partito Democratico.

L'intervento al Senato dell'ex premier. La furia di Renzi contro Pm e Csm: sempre agli ordini delle correnti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Come una furia. Matteo Renzi ormai da un anno ha cambiato pelle e quando arriva in Parlamento arriva con una tutina angelo vendicatore. Porta decisioni, non considerazioni. Un giorno arrivò come quelli della Smorfia e disse: “Tu, tu, tu, Giuseppe Conte, te n’hai da annà”. Bim bum bam e Conte è andato per stracci. Il discorso di ieri al Senato è stato più che una requisitoria, è stato un avviso di sfratto. Fra un anno il Parlamento deve eleggere i suoi membri laici del CSM e stavolta – ha detto Renzi – faremo un lavoro secondo istruzioni per strappare il potere alle correnti e impedire abuso di potere dei magistrati. Ha fatto le sue concessioni di rito ai magistrati buoni che non possono lavorare per colpa dei magistrati cattivi, e più che altro ha accusato il Parlamento di non aver esercitato il suo potere mandando come membri laici del CSM gente che fosse capace di bloccare le correnti e imporre la democrazia. Approvata la legge Cartabia, tutto deve essere rifatto da capo, in magistratura. L’impressione è che quel che l’Europa comanda, Matteo va e fa. Adesso dobbiamo fare quaranta riforme in poco tempo e quella della magistratura è considerata vitale, anche se la legge Cartabia è un buon inizio ma all’Europa non basta e l’Europa allora (presumiamo) batte i pugni e Matteo è il suo evangelista. L’Europa disse: “Per favore, ci buttate fuori quelli?”. Pronti: zac e zac, missione compiuta. E ieri, Matteo è venuto ad avvertire la Magistratura – intesa come quella corporazione che ammazza la democrazia, – che è il momento del “Game Over”. Tutti a casa. Arrendetevi, siete circondati. “Molti non hanno il coraggio di dirlo anche tra noi che rinunciamo al gusto della verità per paura – dice Renzi – perché per anni abbiamo consentito che fossero i PM a decidere e che l’avviso di garanzia fosse una sentenza di condanna”. E scusate se è poco. Per carità, tutto vero, tutto arcinoto, ma Renzi ha portato il messaggio come quei messi giudiziari americani che ti urtano per strada e ti mettono in mano l’avviso di convocazione dicendoti: “You are served”. Il Parlamento è servito. Matteo restringe la premessa storica: “Attenzione – concede retoricamente – non parlo di giudici cui ci rivolgiamo con deferente omaggio a due giorni dall’anniversario della morte di un gigante come Rosario Livatino e i tanti magistrati che hanno dedicato la propria vita per le istituzioni”. Tutto ciò è giusto e ovvio, ma il potere giudiziario è in crisi per colpa della politica. Diciamoci le cose come stanno una volta per tutte: c’è stata una parte del Senato e della Camera, in particolar modo a sinistra, che ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie che riguardavano l’altra parte della politica: la parte che stava nell’emiciclo di destra. “E questa – grida Renzi – è una responsabilità politica della sinistra che ha cercato di strumentalizzare questa circostanza accusando la destra di aver risposto con leggi ad personam. Ma nessuno si può tirare indietro nel giudicare la fine di questi trent’anni di lunga guerra tra magistratura e politica durante i quali la magistratura non ha mai avuto problemi perché ha sempre utilizzato ciò che avveniva in quest’aula recuperando forza. Oggi non è più così perché c’è una disgregazione all’interno della magistratura e questa disgregazione porta ad avverarsi la profezia dell’allora direttore di Radio radicale Massimo Bordin che definiva il futuro come il luogo nel quale i magistrati si sarebbero vicendevolmente arrestati, Chi di noi ha iniziato a fare politica nel momento tragico dell’inchiesta “Mani Pulite” non può che sentirsi stravolto vedendo oggi che i due personaggi del pool rimasti sulla ribalta, siano alle carte bollate tra di loro”. Già, è vero, curioso: Greco e Davigo si menano come i duellanti, ma nessuno ci fa caso: nessuno ha il coraggio di dire quello che sta succedendo come se la politica avesse paura di dire ciò che sta accadendo in magistratura. Insomma, dice il leader di Italia Viva, oggi viviamo in una cappa di preoccupazione e di timore “e io avverto il bisogno di dirlo qui senza alcuna paura senza alcun elemento di timore reverenziale verso la magistratura che nel 2021 ha iniziato un cammino preoccupantissimo perché è venuta meno la guida politica 5 Stelle nella magistratura; anche se devo dare atto all’attuale ministro degli Esteri di aver detto parole sull’uso barbaro e incivile della giustizia da parte dei 5 Stelle, nel 2016: scuse timide e tardive ma pur sempre scuse”. Negli anni del ministero Bonafede – ha detto Renzi – c’è stata una guida profondamente giustizialista del ministero, quando si diceva che giustizialismo e garantismo sono due diversi estremismi. Renzi si è rivolto “agli amici di quella parte politica cui posso solo fare gli auguri: io vengo da una cultura in cui la Costituzione è una cosa seria e il giustizialismo e un elemento di deformazione della Costituzione.” In questo momento – ha osservato il leader di Italia Viva – sono partite delle dinamiche interne nella magistratura che hanno portato alla luce tensioni che sono esplose in una guerra che sta portando a indagini su indagini di magistrati contro altri magistrali: se volete far finta di non vedere, fatelo pure ma è un dato di fatto. Il problema non è la separazione delle carriere, paradossalmente il punto è lo strapotere vergognoso che le correnti hanno dentro la magistratura e che incide nel processo disciplinare dei singoli magistrati e che impedisce ai magistrati di livello di fare carriera se non sono iscritti ad alcune correnti. Questa è la vera separazione della carriera da fare: quella tra la corrente e il magistrato. È impossibile immaginare che un Csm la cui autorevolezza ha toccato i punti più bassi (anche per colpa nostra – ha ammesso – nella selezione dei candidati laici, perché bisogna avere il coraggio di dirla tutta) possa riformarsi da solo. Il punto vero è che se i PM vanno al disciplinare sulla base dell’appartenenza alla singola corrente, non sulla base dei fatti, le cose non possono funzionare. Poi Renzi ha ricordato un episodio che riguarda direttamente: “Quando io sono intervenuto a testa alta per dire che c’era una procura che a mio giudizio stava sorpassando il limite dell’azione giudiziaria, non è che ho preso un avviso di garanzia ma ne ho presi due dalla stessa procura”. Quando le correnti dicono: “voglio stringere un cordone sanitario intorno al senatore XY” non ci si deve preoccupare di quel senatore, ma del Senato per quello che sta succedendo. Vedo tre cure immediate e necessarie, ha concluso: primo, i magistrati devono sentirsi liberi di fare il proprio lavoro anche se non sono iscritti a una corrente. Due: i politici devono avere il coraggio di andare avanti anche quando ricevono un avviso di garanzia perché non può essere un avviso di garanzia a bloccare una carriera. Tre: non si può continuare a parlare di nuove guarentigie: le guarentigie dei parlamentari sono costituzionalmente garantite e quotidianamente ignorate dall’utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini. Dobbiamo metterci a lavorare per un rinnovo del Csm nel luglio del 2022 per scrivere una pagina nuova, pena la credibilità delle istituzioni e la loro dignità. Per la magistratura – ha concluso Renzi – non conveniva che io parlassi. Ma ci sono momenti in cui avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome è un dovere politico civile e morale.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Aria nuova, stop allo strapotere dei pm. Il vento del giacobinismo è fuori moda. Stefano Zurlo il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Scandali e inchieste hanno incrinato l'intoccabilità delle toghe. Ma qualche rigurgito di giustizia a orologeria ogni tanto ritorna. Tabula rasa. Alla roulette dei grandi processi tricolori qualcuno se l'aspettava. C'era già stata l'assoluzione di Calogero Mannino e quella del generale Mori nei cosiddetti processi satellite. Ma nel nostro Paese la scienza giudiziaria ha le sue variabili e quel che è certo può sempre sorprendere. Invece, ecco questo verdetto che - in attesa delle motivazioni - fa a pezzi la sentenza di primo grado e un'indagine che aveva provato a riscrivere un segmento di storia patria. Naturalmente, l'accusa sostiene e sosterrà anche in Cassazione di aver portato fatti e non congetture, ma resta la sostanza: le condanne non ci sono più. E si può anche azzardare che forse i tempi non sono più quelli di qualche anno fa, il vento del giacobinismo si è affievolito. Troppi scandali. Il sistema Palamara. Le critiche da destra ma anche da sinistra ad un modo disinvolto ed autoreferenziale di amministrare la giustizia. «I giudici - ha detto al Giornale Luciano Violante - devono soltanto punire e non riscrivere la storia». Un giudizio sferzante, pronunciato da chi era considerato un tempo il punto di riferimento del mitico partito delle toghe. E invece i Violante, i Cassese, i Nordio hanno fatto scuola: oggi la magistratura cerca una via d'uscita dalla trappola dell'ideologia e le corti sono meno, molto meno condizionate e condizionabili dai pm. La repubblica dei pubblici ministeri è in declino e certe folate girotondine non sono più di moda. Intendiamoci: con ogni probabilità il verdetto di Palermo sarebbe arrivato comunque e sarebbe stato altrettanto tranchant. Però è altrettanto vero che le sentenze sono figlie del tempo in cui vengono pronunciate e questa è un'epoca inedita, popolata di dubbi, di riflessioni, di distinguo. Qualcuno ritiene che ci sia una minore tensione ideale, ma la capacità di un giudice dev'essere quella di leggere un fatto, non di disegnare un affresco che spetta al sociologo, al giornalista, allo scrittore. C'è del nuovo, o almeno così appare nei canali dell'informazione che amplificano le voci delle minoranze più agguerrite, ma il vecchio non se ne vuole andare. Certi schematismi, se non a orologeria quantomeno tempestivi, funzionano tranquillamente come prima. Siamo alla vigilia delle amministrative e ieri, con disarmante puntualità, ecco addensarsi nubi e ombre sulla testa del candidato presidente del centrodestra per la Calabria, Roberto Occhiuto. Occhiuto è in vantaggio, molto avanti, almeno secondo i sondaggi, ma un quotidiano progressista, Domani, mette in prima pagina i «bonifici sospetti al futuro Presidente della Calabria». L'inchiesta, a quel che si capisce non c'è, c'è semmai in azione l'Antiriciclaggio di Banca d'Italia, ma un avviso di garanzia può sempre arrivare. Prima o dopo un articolo, a macchiare un'immagine o a impigliare una carriera. È dal 1992 almeno, dall'esplosione di Mani pulite, che la politica usa le inchieste per regolare i conti e per mettere in difficoltà avversari e outsider. Luca Palamara ha descritto quelle dinamiche nel suo libro, spiegando che a un certo punto la magistratura associata si era compattata contro Salvini. E aveva deciso di dargli torto, anche quando aveva ragione. La cosa sconvolgente è che ora questa deriva è arrivata fin dentro la magistratura, in un gioco di opposte fazioni. E gli stessi pm di Mani pulite, Francesco Greco e Piercamillo Davigo, sono impegnati alla fine della loro brillante carriera in un non esaltante duello. Il verdetto di Palermo potrebbe segnare una svolta garantista, anche se è presto per trarre conclusioni. Di sicuro una parte dei segreti italiani resta custodita in cassetti inaccessibili, ma altri presunti misteri finiscono nel cestino. Erano solo teoremi senza prove. Stefano Zurlo

Parlamento inerte sullo scandalo del "sistema". Resta aperta la piaga delle toghe politicizzate. Stefano Zurlo il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. In agenda non esiste un progetto per porre rimedio ai mali scoperchiati dal caso Palamara. Si attende solo il referendum promosso da Lega e Radicali. Ce lo chiedeva l'Europa ed è arrivata. Ma gli italiani e anche buona parte del Parlamento attendevano altro. D'accordo, va bene una giustizia che acceleri sui processi e tolga qualche tornante, e va ancora meglio abolire il mostriciattolo della prescrizione, ma nell'emiciclo che ora vota come in una catena di montaggio i provvedimenti voluti da Draghi c'erano altre aspettative: dopo il caso Palamara e l'emergere di scandali e lottizzazioni, si era capito che Camera e Senato volessero mettere mano seriamente all'architettura giudiziaria e non solo dare una mano di vernice ai locali impresentabili. Ci sarebbe da reinventare il Csm, sprofondato in una crisi di credibilità senza precedenti e decimato dalle dimissioni dei suoi membri, e sarebbero da rivedere il sistema delle nomine e i confini delle correnti, per evitare le derive degli ultimi anni e le degenerazioni cui abbiamo sgomenti con cadenza inquietante. Ma questa urgenza sembra essere svanita nel Palazzo che porta la Cartabia sul traguardo a tempo di record. Aspettiamo sempre, come nelle favole, una magistratura meno politicizzata e più garantista, con un corredo di norme meno ingarbugliate e contorte. Temi che ritornano in un girotondo che assomiglia al gioco dell'oca. Pareva che le forze politiche, non solo la destra, volessero davvero affrontare senza tic e riflessi ideologici questa interminabile crisi, ma l'agenda del Parlamento è piatta. Matteo Renzi ha tenuto ieri dal suo scranno di Palazzo Madama l'ennesima requisitoria contro il sistema che ha travolto anche la sua famiglia, trasformando i suoi genitori in una coppia alla Bonnie e Clyde; autorevoli giuristi, come Sabino Cassese, e politici carismatici della sinistra, come Luciano Violante, hanno dettato il metronomo delle riforme che non possono aspettare. Ma al momento, e speriamo di essere smentiti già domani, il cantiere legislativo è vuoto. Si procede in ordine sparso o ci si accontenta del maquillage firmato dalla Guardasigilli. Dietro l'angolo c'è l'elezione del presidente della Repubblica e forse, chissà, nuovi assetti di governo. Le riforme di sostanza, quelle che dovrebbero per forza di cose toccare la seconda parte della Costituzione, languono e fra queste ci sono anche quelle della giustizia, pure attese da buona parte della nomenklatura Pd. Così la Lega e i radicali provano a far saltare la cassaforte del corporativismo raccogliendo le firme per i referendum che, combinazione, hanno trovato in queste settimane sponde e rilanci insospettabili. Ma la strada popolare, oggi così di moda per via della rivoluzione digitale, ad oggi non sembra aver dato carburante al motore della classe politica. Certo, c'era già il dossier Cartabia e pure quello, in un Paese frammentato come il nostro, ha rischiato di saltare e si è inventata l'improcedibilità per disinnescare la prescrizione senza fine e l'ira dei 5 Stelle. Meglio una piccola riforma che niente, ma dopo quasi trent'anni di chiacchiere e tentativi di cambiamento puntualmente affossati dal partito della conservazione, è arrivato il momento di voltare pagina. Speriamo che la Cartabia sia solo l'antipasto di un ricco menu, non per punire i giudici ma per avvicinare la giustizia ai cittadini. L'Europa, forse, è soddisfatta. Gli italiani no: se il Parlamento non si darà una mossa, saranno le urne a picconare il vecchio, anche se la Consulta potrebbe mettere fuori gioco due o tre dei sei quesiti. Stefano Zurlo

Le bufale sulla separazione delle carriere. Referendum sulla giustizia, per i pm anche Falcone sarebbe un pericolo sovversivo…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Ma perché certi magistrati dicono tante bugie? Ora hanno preso di mira il quesito referendario sulla separazione delle funzioni. Che non è la divisione tra le carriere, ma loro fanno finta che lo sia per agitare le toghe più reazionarie, quelle affezionate al sistema inquisitorio. È la vera bestia nera, lo spauracchio più gigantesco che ci sia, per le toghe: la separazione tra il rappresentante dell’accusa e il giudice. Quando gli si agita davanti agli occhi il drappo rosso, o anche solo rosa come in questo caso, il pm mostra subito la sua faccia feroce, come se qualcuno gli stesse strappando dalla bocca la sua preda, il suo prigioniero politico, il giudice. Tanto da non tollerare, dopo gli schiamazzi di un anno fa quando per la prima volta e per un solo giorno l’aula di Montecitorio affrontò il tema, dopo che l’Unione delle Camere penali aveva presentato la legge di iniziativa popolare di modifica costituzionale, neppure il timido referendum che divide in modo netto le funzioni. Il quesito presentato da radicali e Lega infatti modifica solo le norme che regolano l’accesso alla magistratura, così come la formazione e l’aggiornamento dei magistrati e la loro progressione economica, eliminando ogni riferimento ai passaggi da una funzione all’altra. In modo netto e definitivo. Lo si decide all’inizio di carriera: o si fa il giudice o si fa il pm, vietata la transumanza. È vero che, se il referendum vincesse, si aprirebbe un bel varco. Ma non sarebbe risolto il problema dell’unicità delle carriere, l’anomalia italiana che, nonostante il passaggio a quel sistema che la riforma del 1989 ha definito solo “tendenzialmente” accusatorio, è ferma al codice Rocco del ventennio. Il concetto stesso di “magistratura” puzza ancora di inquisizione. Non mette il Giudice sullo scranno più alto, lo mantiene a braccetto di una delle due parti processuali. La descrizione più gustosa del rapporto malato tra la toga inquirente e quella giudicante pare uscire dalla bocca di Berlusconi, invece è quella di un pm rampante, John Woodcock. L’ha scritto qualche tempo fa addirittura sul Fatto, dicendosi favorevole alla separazione delle carriere: «Oggi i pm si sono un po’ troppo abituati a vincere facile. Loro compito è infatti di persuadere un giudice, che spesso, e in particolare rispetto a un certo tipo di criminalità, è però già in perfetta sintonia coi loro argomenti, perché si è formato alla loro stessa scuola, perché li conosce e si fida di loro, perché si frequentano e chiacchierano insieme agli stessi convegni, agli stessi matrimoni, agli stessi compleanni, sulle stesse chat». È così chiaro! E lo dice uno dei protagonisti dell’anomalia italiana nell’occidente. Le carriere sono infatti separate in Germania, Svezia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone. Ma non c’è verso di far cambiare mentalità. L’argomento preferito dai magistrati più colti e di sinistra è che se liberiamo la pubblica accusa dalle braccia del suo giudice, il pm diventerebbe una sorta di poliziotto e perderebbe “la cultura della giurisdizione”. Lo ha detto esplicitamente Stefano Musolino, pm “antimafia” di Reggio Calabria, e neo-segretario di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra del sindacato delle toghe. Ci sono «quesiti che ci vedono nettamente contrari- ha detto parlando a nome del suo gruppo politico- e penso soprattutto alla separazione delle carriere, perché portare il pm fuori dal rapporto con la giurisdizione significa spingerlo a farlo diventare l’espressione della voglia securitaria del momento». Una sola domanda: mi può portare il dottor Musolino una decina di esempi in cui lui o altri pm di sua conoscenza abbiano, per esempio, portato al giudice qualche prova a discarico dell’indagato o dell’imputato? Di quale cultura della giurisdizione stiamo parlando? Non si sottrae neppure l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che ha sempre avuto buona stampa. Lo aveva scritto l’anno scorso, nei giorni in cui si discuteva la riforma costituzionale, e lo ha ripetuto ieri. Anche lui dà per scontato che il referendum proponga carriere separate. «Si basa sull’affermazione – dice- che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli». Una banalizzazione del problema, quanto meno. Ma diciamo la verità, dovrebbe essere proprio necessario spiegare a un magistrato preparato come Caselli, che nessuno vuole, come lui aveva detto l’anno scorso, “limare le unghie alla magistratura”, perché nessuna toga dovrebbe essere fornita di unghie? E che la riforma del 1989, avendo introdotto, per quanto timidamente, il sistema accusatorio, ha stabilito che gli elementi raccolti dal pm vanno valutati nel contraddittorio tra le parti e non sono prove inconfutabili? Certo, quella riforma avrebbe dovuto essere completata con la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Purtroppo non è stato fatto e in questo modo si è lasciato spazio a quella (gran) parte dei magistrati che ancora non riescono a distaccarsi dal rimpianto del sistema inquisitorio, quello in cui la segretezza delle indagini dava il massimo dei poteri al corpo della magistratura. Bisogna avere il coraggio di dirlo, però, senza fare ogni volta il gioco delle tre tavolette. Come quando si dice “eh, ma così si finisce con il sottoporre il pm all’esecutivo”, pur sapendo che nella proposta di legge di riforma popolare questo non è previsto, e men che meno nel referendum. E bisognerebbe avere anche il coraggio, ogni volta che viene celebrato il nome di Giovanni Falcone (anche da parte degli ipocriti di sinistra che lo hanno combattuto), di citare quel suo saggio sulla separazione delle carriere. Basta ricordarne un passaggio. «Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerarla magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura». Occorre prendere atto, diceva ancora, che le carriere dei pm e dei giudici non potevano essere le stesse, «diverse essendo le funzioni e quindi le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali…». Lo diceva e lo scriveva quarant’anni fa. Anche lui voleva tagliare le unghie alla magistratura?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quei garantisti sedotti da Palamara….L'ex magistrato si presenta come il castigatore della magistratura. Ma lui è l'artefice del Sistema di potere delle procure. Qualcuno lo ha scordato...Davide Varì su Il Dubbio il 9 agosto 2021. E’ addirittura commovente il trasporto emotivo con cui una fetta dell’ala garantista della nostra politica e intellettualità ha accolto la decisione di Luca Palamara di fondare un proprio movimento politico. Ed è sorprendente la speranza che ripongono nell’uomo, (l’ex) magistrato, che ha scoperchiato il Sistema, certo, ma che, per sua stessa ammissione, prima ha contribuito a crearlo fino a diventarne punto di riferimento, mente, “mandante” e terminale. E quando parliamo del Sistema ci riferiamo al controllo sulle nomine delle procure più importanti del Paese, al condizionamento delle toghe in politica, pianificato e perseguito in modo mirato: i 39 processi a Silvio Berlusconi dicono qualcosa? E i 19 ad Antonio Bassolino? Per non parlare dell’agguato a Clemente Mastella quando era ministro della giustizia o alle centinaia di governatori e sindaci indagati, massacrati mediaticamente e poi assolti. Insomma, la lista degli orrori sarebbe davvero troppo, troppo lunga. Ma ora c’è chi pensa seriamente di affidare la battaglia garantista a uno degli artefici di quel massacro. Intendiamoci, Palamara ha tutto il diritto di entrare in politica e di raccontare che lo fa per il bene della giustizia, perché ha scoperto che i processi sono troppo lunghi, che il potere delle procure è eccessivo e che il sistema delle correnti genera mostri. Tutto vero: solo che noi lo sostenevamo quando lui era dall’altra parte della barricata…

La corsa per le procure è iniziata: Palamara non c’è. Il Sistema sì…Tanti i nomi auterevoli in lizza per gli uffici più importanti. Mentre il Csm cerca di recuperare la propria credibilità dopo gli scandali. Simona Musco su Il Dubbio il 10 agosto 2021. Il Csm tira un sospiro di sollievo. Abbassando la serranda fino al 6 settembre, giorno in cui i consiglieri torneranno a Palazzo dei Marescialli trovandosi per le mani i dossier per decidere le nomine negli uffici più importanti del Paese: da Roma a Milano, passando per la Direzione nazionale antimafia e tra le altre anche le poltrone delle procure di Palermo, Pescara e Bari. Il clima è teso: il plenum, negli ultimi mesi, si è più volte spaccato, proprio perché il Csm, secondo alcuni, si è dimostrato incapace di cambiare pelle dopo gli scandali interni alla magistratura. La prova, secondo togati come Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, viene dalla decisione di aderire al ricorso di Michele Prestipino, procuratore spodestato dal regno di Roma, contro la decisione del Consiglio di Stato, che ha dichiarato illegittima la sua nomina.

Se la Cassazione “assolve” il Sistema…E il motivo di tale adesione è la volontà di impedire la limitazione di quel potere discrezionale venuto clamorosamente fuori con il caso Palamara, potere al quale Palazzo Spada ha messo un argine, indicando ai consiglieri superiori i criteri per le nomine. Il no del Csm, secondo Ardita, è apparso come un controsenso: dopo la stagione degli scandali e dello strapotere delle correnti, muoversi con più cautela sarebbe stato il minimo. Ma a piazza Indipendenza in molti sembrano essere di parere contrario. Anche perché la recente decisione delle Sezioni unite civili della Cassazione, che ha confermato la radiazione dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, attribuendo alle sue gesta «motivazioni personali», sembra assolvere tutto il “Sistema” che pure l’ex capo dell’Anm ha descritto nei minimi dettagli.

I nodi di Roma e Milano. Il fascicolo più caldo è di certo quello di Roma. Allo stato al Csm tutto è fermo. La quinta Commissione, deputata al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, ha deciso di non decidere, anche in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato sul ricorso del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, anche lui intenzionato a sfilare la poltrona a Prestipino. La decisione dovrebbe arrivare a settembre, ma intanto il candidato più forte, almeno sulla carta, sembra rimanere Marcello Viola, esponente di Magistratura Indipendente, fresco dell’ennesima pronuncia dei giudici amministrativi che hanno respinto la richiesta di sospensiva di Prestipino.

Il caso di Marcello Viola. I difensori del procuratore generale di Firenze, Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, hanno dunque invitato il Csm «a riattivare – in esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo – il procedimento volto alla nomina» del procuratore di Roma, «procedendo, previo il necessario concerto ministeriale, a sottoporre al plenum le proposte originariamente formulate dalla V Commissione in data 23 maggio 2019». Ovvero nominare Viola come procuratore di Roma, scelta poi annullata dopo lo scandalo delle nomine scoperchiato dall’affaire Palamara. Gli avvocati di Viola sarebbero pronti a mettere in mora il Csm. Che invece rimane aperto a qualsiasi opzione, anche in attesa di sapere cosa dirà la Cassazione sui limiti di discrezionalità del Consiglio sulle nomine. Ma i nomi di Viola e Lo Voi sono in ballo anche altrove.

Il favorito per la procura di Milano. Viola, infatti, è tra i favoriti per la Procura di Milano, travolta dalla vicenda Eni e dal caos dei verbali di Amara. Assieme a lui in pole position c’è Giuseppe Amato, procuratore di Bologna ed esponente di Unicost, la corrente di centro delle toghe. Tra gli altri sette pretendenti spicca un solo interno: l’aggiunto Maurizio Romanelli, nome sul quale punta Area, corrente della magistratura progressista della quale fa parte anche l’attuale procuratore Francesco Greco e che rappresenterebbe, dunque, la “continuità” con la sua gestione. Ma proprio la pronuncia del Consiglio di Stato sulla Capitale potrebbe rendere il suo percorso ancora più in salita. Senza contare che Greco, attualmente, risulta il grande “sconfitto” delle ultime tribolazioni delle toghe: la recente decisione del Csm di non trasferire il pm Paolo Storari, accusato di gravi scorrettezze nei confronti del procuratore per aver consegnato i verbali di Amara a Piercamillo Davigo lamentando una gestione poco trasparente del caso, nonché l’indagine a suo carico a Brescia proprio per aver ritardato le indagini sulla presunta “Loggia Ungheria”, fanno di Greco un uomo sempre più solo, data anche la solidarietà di quasi tutto il suo ufficio a Storari.

Le critiche del Csm. A ciò si aggiungono le critiche del Csm all’organizzazione del suo ufficio, che il 3 marzo 2020 ha anche lamentato, con una lettera sottoscritta da 27 magistrati, la mancanza, nel progetto organizzativo stesso, di una indicazione e di un’analisi particolareggiata dei dati statistici relativi allo stato delle pendenze e ai flussi di lavoro. A ciò si aggiunge la sproporzione tra le attribuzioni e il numero delle assegnazioni dei magistrati addetti al dipartimento reati economici transnazionali (cioè quello che ha indagato su Eni) rispetto al numero di magistrati assegnati ad altri dipartimenti che trattano reati gravi. Greco, secondo quanto riporta il decano della giudiziaria milanese, Frank Cimini, ha dal canto suo deciso di non anticipare la pensione, ma di concedersi ferie più lunghe, evitando un ambiente che, stando ai più, risulta ormai impraticabile. E nel frattempo, la gestione dell’ufficio è in mano all’aggiunto con più anzianità di servizio, Riccardo Targetti.

La corsa per la Dna. Quanto a Lo Voi, il suo nome potrebbe essere in lizza anche per la procura nazionale, posto che verrà messo a bando in autunno. Sul risiko delle nomine la discussione è rinviata a settembre, ma intanto spuntano i primi possibili candidati. Il nome vincente, stando ai rumors, sarebbe quello di Giovanni Melillo, attuale procuratore di Napoli, che ha già rinunciato alla corsa per Milano, così come ha fatto anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Entrambi, ora, potrebbero puntare alla poltrona di via Giulia, ma in un’ipotetica competizione tra i due l’attuale procuratore di Napoli potrebbe farsi forte anche di un passato come capo di gabinetto dell’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel governo Renzi.

Gratteri vs Melillo. La candidatura di Gratteri appare quasi come inevitabile, dopo oltre quattro anni trascorsi nel capoluogo calabrese. Ma se lo sfidante fosse Melillo i giochi si complicherebbero: «L’attuale procuratore di Napoli vincerebbe ovunque», si mormora tra i suoi colleghi. Lui, per il momento, non avrebbe preso alcuna decisione, essendo troppo presto per pensarci. L’alternativa a lui sarebbe, appunto, una eventuale nomina di Lo Voi, non sgradita anche all’ex capo della procura capitolina Giuseppe Pignatone (che secondo il racconto di Palamara sarebbe anche l’artefice della sua nomina a Palermo) e la rinuncia di Prestipino, che invece potrebbe prendere il suo posto in Sicilia. I nomi in lizza sono tutti autorevoli, a fronte di un Csm, invece, in difficoltà e indebolito dagli scandali. E il capitolo “correnti” è ancora tutto da scrivere. «Ognuno ha le proprie simpatie e le proprie preferenze – confida una fonte del Csm -. È sempre il plenum a decidere e le nomine non sono appannaggio delle correnti, ma è certo che se ci sono affinità culturali di un certo tipo allora è inevitabile che vengano valorizzate…».

La situazione non è cambiata dopo l’uscita di Luca Palamara. Le lunghe ferie di Greco per tenere il posto in caldo: l’incastro con i giochi di Magistratura Democratica. Frank Cimini su Il Riformista l'8 Agosto 2021. Il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco non anticipa la pensione ma fa lunghe ferie lasciando in pratica la gestione dell’ufficio all’aggiunto con più anzianità di servizio Riccardo Targetti che aveva incontrato nei giorni scorsi. Nel caso avesse anticipato la pensione che scatterà il prossimo 14 novembre il procuratore avrebbe accelerato l’iter per la nomina del successore. E questo avrebbe provocato problemi alla sua corrente, Magistratura Democratica, che ha bisogno di prendere tempo al fine di trovare dentro il Csm le alleanze necessarie al fine di scongiurare l’arrivo al vertice della procura del cosiddetto “papa straniero”. Peppe Cascini uomo di punta dei magistrati di sinistra all’interno del Csm, raccolti tra Area e Md, è già all’opera da tempo per portare a termine il progetto, puntando alla nomina di Maurizio Romanelli, attuale coordinatore come procuratore aggiunto del pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione e che è l’unico candidato interno. Romanelli esperto sia di antimafia sia di antiterrorismo ha sulla carta meno titoli del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore capo di Bologna Jimmy Amato, ma con il gioco delle correnti diciamo che come la storia anche recente del Csm insegna si possono fare “miracoli”. La situazione non è certo cambiata dopo l’uscita di Luca Palamara e la sua radiazione dall’ordine giudiziario. Proprio Cascini fu a lungo in grande consuetudine di rapporti alleanza e amicizia personale con l’allora “ras delle nomine”. Basti ricordare la vicenda delle tessere per lo stadio Olimpico. Cascini ne aveva una a suo nome ma dovendo portare anche il figlio a vedere la partita non fu nemmeno sfiorato dall’idea di andare in biglietteria, cacciare i soldi di tasca e comprare il tagliando. Si rivolse a Palamara “per un contatto al Coni in modo da non doverti rompere i coglioni tutte le volte”. Quindi non si trattava neanche di un “una tantum” ma di un ingresso stabile anche per il pargolo. Questo emerge dalle intercettazioni fatte con il famoso trojan messo dai pm di Perugia nel telefono cellulare di Palamara. I prossimi mesi diranno se Md, che considera la procura di Milano territorio di sua appartenenza, riuscirà nell’intento. Greco intanto fornisce il suo contributo facendo di tutto per tenere in caldo il posto con ferie lunghe anche se abbastanza amare diciamo. Greco ricordiamo è indagato a Brescia per non aver proceduto tempestivamente alle iscrizioni tra gli indagati sulla base delle dichiarazioni rese da Piero Amara, capitolo loggia Ungheria. Greco comunque non rischia un procedimento disciplinare ma solo perché non vi sarebbbe il tempo per farlo. E a proposito di iscrizioni nel registro degli indagati diciamo che piove sul bagnato. Secondo insistenti indiscrezioni circolanti da tempo risulta indagato a Brescia un altro magistrato della procura di Milano insieme a un importante funzionario pubblico. Si tratterebbe di un atto dovuto dopo la lunga deposizione di un testimone presentatore di un esposto-denuncia. Frank Cimini

Toghe arroganti, pure nella crisi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Agosto 2021. Quando la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica fu travolta dalle indagini giudiziarie non provò neppure a difendersi. Certo, Craxi buttò lì che Mario Chiesa era solo un “mariuolo”, e poi in parlamento fece quel suo discorso sul finanziamento illegale conosciuto e praticato da tutti, ma furono modesti e isolati espedienti di resistenza in un panorama di generale abdicazione: e perlopiù i dirigenti di quei partiti politici seguivano il consiglio dei loro avvocati, cioè fare le scale del Palazzo di Giustizia di Milano e presentarsi incurvi davanti ai pm per confessare. Viene in mente quell’andazzo, ora che scandali non meno gravi coinvolgono proprio quelli che guidarono la rivoluzione giudiziaria che ha distrutto quei partiti politici. Questi erano titolari di un potere vituperato, ma che comunque poteva vantare una specie di accreditamento e, dopotutto, una parvenza di addentellato costituzionale: i magistrati, no. I Magistrati esercitavano allora, e in buona misura esercitano ancora, un potere adulato, e completamente estraneo al limite costituzionale. E questo spiega perché, pur a fronte delle gravissime e sistematiche ragioni di malversazione che ne viziano la struttura, l’organizzazione giudiziaria reagisce facendo finta di nulla. Il pallido riflesso di responsabilità che ancora connotava il contegno dei partiti politici, e li obbligava ad allargare le braccia di fronte all’evidenza della propria inadeguatezza, è completamente assente nei comportamenti della magistratura corporata, la quale oppone all’accusa che la riguarda la noncuranza del potere arbitrario, l’arroganza del potere usurpato, la violenza del potere senza fondamento di diritto. Non c’è neppure il segno del potere corrotto, nell’indifferenza della magistratura: c’è quello del potere golpista. Iuri Maria Prado

Le toghe che vogliono scrivere le leggi: ecco la vera emergenza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Non facciamoci distrarre dal penoso teatrino politico andato in scena in questi ultimi giorni a proposito di “riforma della giustizia penale”. Disinteressiamoci delle bandierine pateticamente piazzate da tutti in ogni dove, e di improbabili leader che pretenderebbero di costruire su simili cialtronerie nientedimeno che la propria nuova avventura politica (auguri!). Salutiamo con la dovuta soddisfazione la fine dell’era Bonafede e del suo fanatico culto dell’“imputato a vita” come cifra -pensa te- di una giustizia finalmente equa e “uguale per tutti” (?!). Investiamo tutte le nostre incerte speranze sul fatto che i soldi arrivino davvero, e che possano finalmente essere spesi per rinnovare profondamente le strutture collassate della amministrazione della giustizia penale, vera e principale causa della irragionevole durata dei processi in Italia. Concentriamoci invece su ciò che davvero questa vicenda, sedimentatasi in particolare intorno al tema della prescrizione, ci ha ancora una volta drammaticamente confermato. Si faccia finalmente uno sforzo coraggioso (il fondo di Paolo Mieli sul Corsera lascia baluginare qualche scampolo di speranza) da parte dei media e di qualche leader politico meno conformista e giudiziariamente non intimidito, per lanciare seriamente una profonda riflessione sulla vera emergenza democratica di questo Paese. Vale a dire l’anomalo, indebito, incostituzionale potere di interdizione e condizionamento che la Magistratura italiana esercita nei confronti del Parlamento e del Governo in materia di legislazione penale. La umiliante condizione nella quale versa la nostra malferma democrazia è chiarissima: se alla Magistratura non piace una legge in materia penale ed in materia di ordinamento giudiziario, quella legge non si fa. O altrimenti – se il Governo, come in questa ultima vicenda, oppone una seppur ossequiosa resistenza, va riscritta quanto più possibile nei sensi brutalmente indicati dalle bocche di fuoco mediatiche che puntualmente, e con accorta strategia, fanno partire l’immancabile cannoneggiamento. Non raccontiamoci la storiella della libera manifestazione di pensiero che la magistratura rivendica. Se un magistrato di Procura ai vertici dell’Antimafia si permette di dire, per di più contro ogni logica ed ogni effettiva realtà giudiziaria, ma con la forza micidiale che gli deriva dallo scranno, che una legge in gestazione tra Governo della Repubblica e Parlamento sovrani «mette in pericolo la sicurezza nazionale», e quell’altro Procuratore simbolo, nello stesso giorno, che “migliaia” di mafiosi rimarranno impuniti, siamo semplicemente in presenza di un protervo tentativo di indebito condizionamento del potere legislativo e di quello esecutivo da parte di un potere – quello giudiziario – il cui compito costituzionale è di applicare la legge, ossequiandola fedelmente, non di scriverla. D’altro canto, pretendere – per capirci – che il Capo dello Stato non rilasci interviste sul merito di una legge mentre essa è in discussione in Parlamento, non ha nulla a che fare con la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero del Capo dello Stato, ma ha molto a che fare con la intangibilità degli equilibri costituzionali. Se poi si aggiungono al cannoneggiamento mediatico di cui sopra i pareri del Csm e -sopra ogni altra cosa- il lavoro quotidiano, tecnicamente dettagliato e perciò sostanzialmente incontrollabile, della legione di magistrati militarmente distaccati presso il Ministero di Giustizia, il quadro è completo e chiarissimo, per chi non voglia foderarsi gli occhi di prosciutto. Chi nutrisse ancora qualche dubbio sulla sistematica progettazione, attraverso quei distacchi, del condizionamento del Ministro di Giustizia di turno, legga la documentata testimonianza di Luca Palamara. Siamo l’unico Paese al mondo nel quale accade una vergogna del genere. Unico in tutto il mondo, non so se sono stato chiaro. Dunque, possiamo finalmente sperare, quando avremo finito di ascoltare minacciose assurdità sui processi in fumo di mafia e di droga (cioè, come è a tutti noto, gli unici processi che in Italia si celebrano da sempre in tempi imparagonabilmente inferiori alla media di tutti gli altri, perché nella quasi totalità con imputati detenuti e dunque entro i termini di scadenza della custodia cautelare), che qualcuno ci ascolti? Occorre porre fine a questa inconcepibile anomalia democratica, che da decenni condiziona, in tema di giustizia penale e di ordinamento giudiziario, la sovranità della politica democraticamente eletta ad opera di una burocrazia intoccabile, mai responsabile dei propri atti, e come se non bastasse addirittura distaccata ad occupare fisicamente, tecnicamente e politicamente il potere esecutivo lì a via Arenula, al Ministero di Giustizia. Avanti, dunque, con la separazione delle carriere (quella vera, perché della separazione delle funzioni, già pressocché in atto nella realtà, non ce ne facciamo nulla), e con il divieto di distacco dei magistrati presso il potere esecutivo: questa è la strada maestra dell’unica, vera, indispensabile riforma liberale della giustizia penale, in grado di restituire al Paese gli equilibri costituzionali e democratici tra poteri dello Stato, da troppo tempo perduti.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane

Magistratura, un degrado senza fine: le toghe sono incapaci di auto-riformarsi. Libero Quotidiano l'01 agosto 2021. È tanto strepitoso lo stato di degrado della magistratura, tanto grave, che non è più nemmeno il caso di far finta che il problema sia loro e risolvibile da loro, i magistrati. Il problema è nostro. Confidare che facciano ciò che essi chiedono agli altri di fare - cioè pulizia in casa propria, come dicono- sarebbe sbagliato prima che inefficace: perché a un potere corrotto e delinquenziale, irresponsabile, eversivo, auto-conchiuso in un'impunità minacciosa e ricattatoria, insomma a un potere ormai apertamente rivolto al fine esclusivo di perpetuare sé stesso, e che nel perpetuarsi si abbandona all'indecenza di abusi sempre più offensivi, non si può affidare il compito di correggere le proprie perversioni. Perché sono tali per noi che le guardiamo e le subiamo: non per loro che vi si esercitano nell'autonomia e nell'indipendenza cui fanno appello per continuare nell'opera solita, e cioè la devastazione delle istituzioni repubblicane, l'attentato all'effettività dell'organizzazione democratica rappresentativa, la sistematica violazione dei diritti individuali. Che quel potere sia stato ottenuto, cioè usurpato, con il conforto assicurato da una classe politica o compiacente o intimorita, e con il contributo di un sistema dell'informazione mafiosamente associato alla malversazione giudiziaria, spiega ma non assolve la mancanza di riprovazione con cui l'opinione pubblica, finora, ha reagito allo scandalo. Un'altra magistratura bisogna meritarla, e per meritarla bisogna dare alla magistratura che c'è quel che si merita: sfiducia.

Magistratura e degenerazione. Riuscirà Paolo Mieli a vincere la guerra alle mosche? Paolo Guzzanti su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Dopo avere letto il fondo di Paolo Mieli ieri sul Corriere ci siamo detti: non siamo più soli. Finalmente, sulla prima pagina del più grande giornale d’Italia, il più acuto giornalista e intellettuale dell’argenteria nazionale inchioda la magistratura, accasandola di essere nella sua totalità complice di un patto scellerato per preservare il quale è stata sempre pronta, senza eccezione alcuna, a far quadrato contro qualsiasi riforma che disinneschi il patto scellerato. Perché? Per un perverso e finalmente ben visibile gioco di ricatti incrociati, per cui tutti sanno che se si sapesse quel che tutti sanno, una catastrofe senza scampo si abbatterebbe su tutti i magistrati, spazzandoli via dalla faccia del pianeta terra. La riformetta Cartabia che è venuta al mondo dopo una trattativa in cui si è trovato il più basso punto di compromesso morale lo dimostra. Mieli è il titolare di un brevetto perfetto: quello della dimostrazione a-contrario che non offre appigli. L’incipit è fattuale: Colpisce che il cento per cento dei magistrati che si sono fin qui pronunciati sulla riforma Cartabia abbiano espresso dissenso. Non uno solo, salvo qualche toga pensionata come Luciano Violante e con moltissima prudenza. L’argomento usato è stato quello secondo cui la riforma “avrebbe consentito il ritorno in libertà di centinaia di migliaia di delinquenti provocando la fine dello Stato di diritto, nonché della democrazia conquistata con la Resistenza. Tutti e non uno contrario a questa valutazione di un progetto, la Cartabia, che se non fosse stato cambiato “con una seconda decisione unanime, quella di ieri sera, avrebbe provocato al nostro Paese danni incalcolabili”. Quindi, alla fine, il male ha trionfato, aggiungiamo noi. Come mai tanta unanimità? Chiede Mieli. Nessun coraggioso o dissidente? Il fatto è sotto gli occhi: sono tutti d’accordo fra loro senza eccezioni. Per quale motivo? E qui la perfida logica di Mieli si sposa con il suo stesso coraggio nell’esporla. Si possono dare due casi: il primo è che abbiano ragione loro e che la prima versione della legge avrebbe rimesso davvero in libertà “uno spropositato numero di mafiosi, terroristi e malfattori di ogni specie”. Se davvero fosse così, dice Mieli, dovremmo ringraziare quei bravi parlamentari del M5S di aver bloccato un provvedimento che avrebbe “minato la sicurezza del Paese”. Ed ecco il dardo avvelenato dalla verità travestita da ipotesi dell’assurdo, dunque da respingere con orrore: “L’altra ipotesi – ammettiamolo “quasi” inverosimile – è che la magistratura italiana sia diventata ormai un corpo malato, un insieme di uomini e donne che si combattono a colpi di dossier, che le istituzioni come il Csm siano precipitate nel discredito, che le correnti abbiano abbandonato standard di moralità minori di quelli che avevamo i partiti politici, con un servizio di pentiti consapevoli del loro ruolo di servizio. Ma più che altro sapendo che tutto deve essere fatto per mantenere in piedi un castello di ricatti incrociati in cui nessuno è innocente e tutti hanno da temere. Sarebbe mai possibile una tale mostruosità, si chiede retoricamente quel gran paravento di Paolo Mieli? Ma quando mai! Sarebbe impossibile o almeno improbabile “anche se qualche rischio lo si può intravedere in lontananza” perché se un tale scenario fosse minimamente realistico, allora vorrebbe dire che “le prese di posizione di alcune toghe contro Draghi e la Cartabia andrebbero interpretate come un accorto posizionamento in vista di un cataclisma prossimo venturo”. Questo lo stato delle cose. Questa storia mi ricorda una stupida barzelletta dei tempi del fascismo quando il regime decise di dichiarare “guerra alle mosche” adottando tutti gli accorgimenti con drastica immediatezza. Così quando poi un gerarca va in ispezione a Napoli coperta dalle mosche, irritato chiede al Podestà: “ma non avete fatto la guerra contro le mosche?”. Signorsì, rispose il podestà, e hanno vinto le mosche. Sperare nei referendum? Speriamo e agiamo, ma le mosche sono organismi potenti e onnivori, divorano anche i referendum.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Il discorso del Presidente della Repubblica. Mattarella si copre col ventaglio e ignora Magistratopoli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Il Presidente della Repubblica ieri ha partecipato alla tradizionale cerimonia del ventaglio, e cioè all’incontro coi giornalisti che si svolge tutti gli anni alla vigilia di agosto. Ha parlato dell’attività di governo, dei vaccini e di vari altri argomenti. Ha dimenticato Magistratopoli. Sergio Mattarella è il Presidente del Consiglio superiore della magistratura, il Consiglio superiore sta preparandosi a bocciare la riforma Cartabia, con una clamorosa invasione di campo, al suo interno raduna diversi consiglieri coinvolti nello scandalo Palamara, nel frattempo il Procuratore generale della Cassazione è stato chiamato in causa dallo stesso Palamara per una cena elettorale non proprio correttissima e poi si è esposto chiedendo una esemplare punizione per il Pm Paolo Storari, colpevole di aver indagato sulle dichiarazioni dell’avvocato Amara che rivela l’esistenza di una loggia segreta che comanda il sistema giustizia. Contro la richiesta di punizione del Procuratore è scesa in campo praticamente l’intera Procura di Milano, e anche il tribunale, giudici e Pm hanno messo sotto accusa il Procuratore di Milano e Salvi. Tutto questo è avvenuto nel silenzio quasi generalizzato della stampa, in gran parte dominata da gruppi di giornalisti che da anni sono subalterni alle procure. Beh, di fronte a questo caos, a questo vuoto di democrazia, che ha gettato la Giustizia italiana in uno stato comatoso e ha dimostrato che tra magistratura e giustizia ormai il divorzio è non più componibile, e di fronte alla ribellione che finalmente sta diventando palese di centinaia di magistrati, il capo del Csm e il Presidente della Repubblica tace e si rifiuta di dire una sola parola? Il potere dei magistrati è giunto fino a questo punto, fino al punto da chiudere la bocca al Quirinale? Se è così davvero c’è da allarmarsi, da allarmarsi molto. Il silenzio di Mattarella coincide con la rumorosa guerriglia aperta dai 5 Stelle contro la riforma Cartabia. Il rischio è che l’Italia esca completamente fuori dalla legalità, venga abbandonata all’arbitrio di un potere degenerato e furioso. La politica non può restare ferma. Oggi, devo dirlo con franchezza: il discorso di Mattarella non mi è piaciuto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Magistrati, l'anomalia italiana. Il potere di perseguitare a vita. La giustizia non funziona da decenni e le toghe sono una  potente corporazione: ecco perché l’Europa ci chiede da cambiare nell’interesse del cittadino. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 29 luglio 2021. Proviamo a far ordine su questo immane conflitto tutto italiano sulla giustizia. Tanto per cominciare, è un problema soltanto italiano: in ogni paese del mondo civile e democratico la giustizia funziona come un servizio pubblico fondamentale, alla stregua della sanità e dell’istruzione. I giudici sono dei dipendenti statali che hanno ottenuto il loro posto grazie ad una laurea in giurisprudenza e un concorso pubblico, ma non sono detentori di alcun potere separato da quelli rappresentati in Parlamento, dalla costituzione, dalle leggi stesse, dall’arbitrato del presidente della Repubblica, il quale in Italia è anche presidente del consiglio superiore della magistratura nonché di quello delle forze armate. La giustizia italiana non funziona. Non funziona da decenni perché le cause civili e penali si trascinano con rinvii continui che le fanno durare decenni ad altissimi costi per il contribuente e per le parti coinvolte costrette a pagare parcelle e carte bollate in gran quantità. La giustizia non funziona per due motivi. Il primo è di ordine tecnico gestionale: gli uffici sono disordinati e intasati, mancano cronicamente cancellieri, segretari, computer funzionanti, connessione Wi-Fi, archivi elettronici, personale tecnico specializzato che si aggiunge a quello togato. L’altro motivo è di natura politica: in Italia e soltanto in Italia, i magistrati sono divisi in associazioni corporative che si richiamano ai partiti politici rappresentati in Parlamento, come accadeva un tempo ai sindacati legati al PCI o alla DC e ai socialisti: cuius regio, eius religio: apparterrai alla corporazione che ti fa fare carriera e obbedirai alle sue direttive come un cadavere, perinde ac cadaver. Questo è severamente vietato, ma allegramente tollerato. Essendosi suddivisi in correnti che una volta erano democristiane, socialiste, comuniste, di destra o indipendenti, cui oggi ai vecchi partiti si sono aggiunti nuovi movimenti particolarmente i 5 Stelle, qualche leghista e forse benché non se ne abbia mai avuta notizia, qualcuno di Forza Italia. La giustizia si divide in civile e penale e da problemi diversi se civile o penale. La giustizia civile e quel mostro che mette in fuga le aziende straniere, le quali prima di investire in Italia si informano sui costi e i tempi di un’eventuale causa giudiziaria e dopo avere avuto il quadro della situazione investono o si trasferiscono in Croazia o Slovenia, lasciando senza lavoro gli sbalorditi operai italiani, i quali non capiscono perché una ditta piena di commesse se ne vada in luoghi in cui si sente più sicura. L’altro grave problema della giustizia dipende dall’equivoco rappresentato dal Consiglio Superiore della Magistratura, detto anche l’organo di autogoverno della stessa. Questo organo di autogoverno in passato aveva anche il potere di aumentare gli stipendi dei magistrati, provocando a catena l’aumento degli stipendi dei parlamentari secondo il principio per cui chi fa le leggi non può guadagnare meno di chi le applica. Questo organo di autogoverno dei magistrati fa tutto lui: stabilisce le carriere, le assegnazioni alle diverse Procure cittadine, la disciplina e anche quali casi abbiano la priorità. Si tratta della gestione di un totale potere discrezionale che, paradossalmente, dovrebbe impedire ogni discrezionalità. Pochi ricordano in genere che in Italia esiste un criterio puramente retorico che si chiama “obbligatorietà dell’azione penale”. Questa obbligatorietà – che dovrebbe eliminare ogni ipotesi di impunità – significa che ogni denuncia deve essere seguita da una indagine e poi se emergono elementi sufficienti in una istruttoria ed eventualmente da un processo. Di conseguenza, si accumulano sul tavolo di ogni Procuratore capo della Repubblica decine, centinaia, migliaia di fascicoli. E poiché l’obbligatorietà dell’azione penale non può essere soddisfatta perché le forze e i numeri non lo consentirebbero mai, ne consegue che ogni Procuratore a sua discrezione stabilisce con i suoi personali criteri la priorità dei fascicoli e li assegna – sempre a totale sua discrezione – ai suoi sostituti più fidati. è la vecchia storia della Fattoria degli Animali di George Orwell in cui tutti gli animali sono uguali, salvo i maiali che sono più uguali degli altri.

La conseguenza è evidente: alcune cause vengono avviate e andranno avanti fino alla fine mentre altre resteranno sul fondo del pacco della pila dei dossier. Essendo i magistrati degli esseri umani soggetti a tutte le intemperie del carattere di regolare dell’etica, della fragilità e degli interessi, ne consegue che questa autonomia e indipendenza suddivisa in fazioni politiche e sindacali porta alla trattativa. Non quella fra stato e mafia ma quella fra magistrati e politica. Lo abbiamo visto in tempi recenti più di una volta quando i magistrati di una procura hanno scoperto che altri magistrati di un’altra procura si incontravano per dirsi non solo le cause da fare ma anche i loro esiti. Sentenze in cambio di favori, favori in cambio di sentenze. Non è neppure il caso di ripetere l’ovvio, ma lo facciamo ugualmente per senso del dovere. È ovvio cioè che i cattivi comportamenti cui stiamo accennando riguardi soltanto una parte dei magistrati mentre esiste una parte prevalente, predominante che invece non ricorre a questi sotterfugi, si comporta in maniera normale, cioè onorevole. La conseguenza delle lungaggini di una magistratura che finora non ha mai dato prova di efficienza, salvo casi sporadici, i quali a loro volta dimostrano che è possibile agire in tempi rapidi e normali, e che un processo può durare una vita. Ecco perché in Italia come in ogni altro paese esistono delle norme per cui trascorso un certo periodo di tempo alcuni reati vanno in prescrizione, ovvero non possono essere perseguiti oltre un certo limite di tempo. Di conseguenza è diventato parte della strategia di difesa degli imputati cercare di allungare la broda il più possibile in modo da conquistare i tempi prossimi alla proscrizione. Di fronte a questa anomalia si può agire in due direzioni: la prima è rendere la magistratura tecnicamente efficiente con riforme drastiche che le impongano un funzionamento da servizio pubblico; oppure assecondarla nel suo vizio della lentezza e concederle la facoltà di non far finire mai i processi. Ed anzi, qualora un processo si concludesse con l’assoluzione dell’imputato, concedere la garanzia al magistrato d’accusa di poter sempre ricorrere e ricominciare da capo, senza smettere di perseguire l’imputato che dunque resterà un imputato a vita. Questa è la principale ragione per cui l’Europa ha detto: cari italiani, se volete i soldi per la ripartenza del vostro Paese, dovete darvi una drastica riforma che vi metta sullo stesso livello di dignità degli altri paesi europei. Questo è il motivo per cui il governo Draghi ha subito dato mano a una prima riforma che porta il nome del Guardasigilli Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale e secondo molti destinata ad essere la prima donna al Quirinale. Ma la riforma Cartabia che è stato introdotta dal governo Draghi ha dovuto limitarsi a correggere soltanto uno dei più macroscopici scandali per cui la giustizia italiana è stata marchiata come indegna di un paese moderno civile democratico. Lo scandalo era quello della cosiddetta riforma Bonafede, che garantiva ai procuratori il diritto di perseguire in eterno qualsiasi cittadino della Repubblica. Tutti sappiamo che nei paesi di diritto anglosassone un cittadino non può mai essere processato due volte per lo stesso reato. Mai. Neppure se si scopre dopo che era colpevole. C’è un famoso film di Hitchcock il cui elemento di suspense è fondato proprio su questo tema: l’assassino viene prosciolto grazie alla sua geniale pianificata criminalità, e quando viene assolto confessa di essere colpevole ma nessuno lo può più arrestare o imprigionare. Questo è un caso paradossale di giustizia beffata dai suoi stessi limiti garantisti, ma nei paesi democratici si considera sempre che è meglio un colpevole in libertà che un innocente dietro le sbarre. La riforma Cartabia ha ricondotto entro i limiti ragionevoli la normativa della prescrizione, stabilendo che oltre un certo limite di tempo un reato non è estinto cioè cancellato, ma cessa di essere perseguibile. Questo dovrebbe essere inteso come una frustata sulle braccia da parte del Parlamento alla magistratura per costringerla a comportarsi come le magistrature di tutti gli altri paesi del mondo che non hanno meno mafie, meno terrorismo, meno corruzione che da noi. Ma da noi soltanto esiste la grande anomalia. Abbiamo visto e udito un procuratore insorgere apertamente contro il testo di una Legge dello Stato sostenendo che allora è meglio andare a delinquere. Il governo Draghi e la sua Guardasigilli hanno garantito che la legge arriverà in Parlamento in modo tale da impedire che i grandi colpevoli di mafia e di terrorismo possano farla franca grazie ad espedienti tattici fondati sui tempi di prescrizione. Lo stesso Beppe Grillo, che tecnicamente è un pregiudicato incandidabile per qualsiasi ufficio pubblico e ineleggibile al Parlamento, ha sostenuto che il suo movimento è benemerito perché ha assorbito tutta quella rabbia e furia delle folle inferocite per l’impunità dei grandi criminali, e che quindi il movimento delle 5 Stelle è un ammortizzatore dell’ira popolare, un po’ come le cozze sono i filtri delle tossine marine. In altre parole, questa è una posizione che si esprime in un ricatto: se voi non cedete alle nostre richieste populiste e forcaiole così come ce le recapitano i cittadini più rozzi e violenti di questo paese, noi scateneremo le piazze e vi verremo a cercare con i forconi. Grillo sbaglia perché quel periodo del forconismo-leninismo è finito: oggi belano tutti, e al massimo vanno a guaire stenti slogan che invocano libertà, libertà, libertà, prendendosela col Green Pass di cui tutti dobbiamo appropiarci per provare la nostra incapacità di far del male agli altri.

Tuttavia, nuovo leader del movimento è diventato Giuseppe Conte, il quale si trova con questa patata bollente di dover contentare due padroni: l’impegno preso da Grillo di non ostacolare il governo Draghi e l’impegno nei confronti della base che si sente totalmente beffata da una banale riforma di natura civile come quella firmata dal Guardasigilli Cartabia. Questo è lo stato delle cose. Draghi ha spiegato a Conte che non ci pensa affatto a modificare la riforma Cartabia in senso persecutorio, ma è disposto a correzioni puramente tecniche, qua e là per migliorarne il testo e forse la lettura con qualche virgola e qualche cancellazione. A questo punto si sta giocando la partita finale: Conte dichiara di non volere causare la caduta del governo alla vigilia dell’inizio del semestre bianco e finge di essere soddisfatto della promessa di Draghi di ritoccare la riforma Cartabia e vedere che cosa ne esce fuori. Draghi è stato chiarissimo dal dire che non ne uscirà fuori altro che un testo perfettamente uguale al primo nella sostanza, benché aperto a qualche miglioramento letterario o forse di piccole modifiche tecniche. C’è da ricordare, poiché è in corso la raccolta firme dei referendum abrogativi con cui il popolo sarà chiamato se le firme saranno sufficienti a vibrare mazzate brutali sul sistema giudiziario intervenendo sulla divisione delle carriere, i tempi, i modi, e anche la natura stessa del Csm, un organismo talmente ingovernabile che nel 1985 un presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ritenne di dover far circondare dalle camionette dei carabinieri in tenuta anti sommossa, manganello maschera antigas, elmetto e manette per ricondurre gli abitanti di palazzo dei marescialli in piazza indipendenza a Roma alla ragione. Da allora però le cose non sono migliorate, ma anzi sono peggiorate e i nodi stanno venendo tutti al pettine. L’uomo giusto al posto giusto cioè sempre Mario Draghi tutto questo lo sa e sa anche che se le riforme non saranno fatte in modo tale da soddisfare l’Europa l’Italia potrebbe pagare un prezzo enorme per una tale distrazione. E possiamo dunque essere sicuri che ciò non accadrà.

Alessandro Sallusti contro magistrati e M5s: "Fannulloni per legge e privilegiati per casta". Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. La riforma della giustizia mina la stabilità del governo. I Cinque Stelle, braccio armato della casta dei magistrati, hanno minacciato sfracelli se Draghi non avesse annacquato le nuove norme pensate per avvicinare il nostro sistema giudiziario a standard di dignità degni di un Paese civile. Alla fine il premier ha concesso un ritocco poco più che formale ma l'impianto di fatto cancella la riforma manettara introdotta dal ministro Bonafede e dal precedente governo Conte. Non è possibile - dicono i grillini - accorciare i tempi dei processi con l'attuale organico dei magistrati e se si accorciano i tempi della prescrizione migliaia di delinquenti la faranno franca. Tutte frottole. La realtà è che i magistrati vogliono continuare a fare gli affari loro, tenersi privilegi e non dover rendere conto a nessuno delle loro lentezze e incapacità. Per dimostrare che non stiamo sostenendo tesi assurde oggi raccontiamo una storia che ha dell'incredibile e che prova meglio di qualsiasi discorso lo stato (pietoso) della nostra magistratura. A un cittadino che chiedeva conto di come mai l'udienza del suo processo civile fissata per il 20 agosto fosse slittata a ottobre, il giudice della prima sezione del tribunale di Varese, Arianna Carimati, ha risposto con una ordinanza nella quale si sostiene che "il periodo di ferie dei giudici deve essere del tutto effettivo ed assicurare il pieno recupero delle energie psicofisiche per cui va assicurato un congruo periodo di avvicinamento alle ferie... ed un periodo analogo al rientro" ad attività non impegnative o stressanti. Traduco. Per i magistrati, anche quelli giovani come la dottoressa Carimati, trenta giorni di riposo in agosto non bastano, ci vuole un periodo di preparazione alle ferie e uno di riadattamento al lavoro settembrino durante il quale non celebrare udienze per evitare affaticamenti. Che è un po' come se un operaio alla catena di montaggio non montasse di turno nelle settimane precedenti e successive le sue ferie, come se un poliziotto nello stesso periodo si rifiutasse di scendere in strada, un giornalista di scrivere articoli. La verità è che la giustizia è lenta perché i magistrati sono fannulloni per legge e privilegiati per casta, esattamente come i loro sponsor politici Cinque Stelle. Altro che fare barricate, andate a lavorare e se avete arretrati accorciate le vacanze come fanno tutti i professionisti responsabili.

La riflessione del sostituto procuratore generale. Ma i pm contrari alle riforme hanno mai letto Montesquieu? Raffaele Marino su Il Riformista il 30 Luglio 2021. In una delle ultime udienze della Corte di appello di Napoli alle quali ho partecipato come procuratore generale designato, erano iscritti a ruolo 34 procedimenti penali. Sì, avete letto bene, proprio 34 processi da celebrare. Una enormità, anzi una utopia: si possono celebrare 34 processi in una sola giornata? Evidentemente no. L’udienza, cominciata regolarmente intorno alle ore 9.30, è andata avanti senza interruzioni fino alle 16.30. Sette ore nel corso delle quali il collegio dei giudici si è impegnato soprattutto nell’esercizio della nota pratica del rinvio della udienza. Sì, perché di quei 34 processi soltanto tre sono giunti al traguardo della decisione. I restanti 31 – tra i quali alcuni relativi a fatti di mafia, stupri, rapine, ricettazioni e spaccio di droga – sono stati rinviati per i motivi più disparati. Le notifiche non sono mai partite oppure nessuno sa se siano giunte a destinazione, il videocollegamento con il detenuto non è stato attivato, i fascicoli non si trovano, sussistono impedimenti vari per imputati e difensori, mancano alcuni atti per la decisione: un campionario davvero avvilente di tutto il peggio che può succedere in un processo, senza contare lo spreco di tempo e di denaro pubblico, gli sguardi smarriti, le attese infinite di parti e testimoni. Mentre accadeva tutto ciò, mi chiedevo: ma il giudice non deve controllare le notifiche? Non deve assicurare il buon andamento dell’udienza? Perché tutta questa minima e semplice attività preparatoria non viene svolta? O forse essi ritengono che soltanto l’attività giudicante rientri nelle loro competenze e considerano altre essenziali incombenze come una sorta di deminutio della loro funzione? Alla fine, di 34 processi ne sono stati decisi tre di cui due per intervenuta prescrizione. Con buona pace delle lamentazioni per il troppo lavoro dei giudici e per chi ha il dovere di controllare la loro produttività. Questo è lo stato della giustizia nel distretto di Napoli, la cui Corte di appello ha il triste primato del numero di processi pendenti (oltre 57mila) e della durata del giudizio (circa 1.560 giorni, oltre tre anni e mezzo). Di fronte a questo sfascio e al sostanziale fallimento di una idea di giustizia, la riforma promossa dalla guardasigilli Marta Cartabia ha quanto meno il merito di aver posto il problema dei tempi del processo e del rispetto del principio costituzionale della sua ragionevole durata, anche di fronte agli impegni presi dall’Italia in sede europea per l’ottenimento dei fondi necessari per contrastare i nefasti effetti dell’emergenza pandemica in atto. Il problema della durata dei processi non si risolve certo allungando i tempi della prescrizione, che anzi lo aggrava; d’altra parte molti dimenticano che, quando venne introdotta la riforma voluta dal primo governo Conte, fu lo stesso ministro Alfonso Bonafede ad assicurare che quell’intervento di rivisitazione della prescrizione sarebbe stato accompagnato da altre misure volte a velocizzare il processo, in modo che questo si concludesse in tempi certi e ragionevoli. Ovviamente, nulla di tutto questo è stato fatto. Dunque oggi, di fronte a un intervento riformatore di ampio respiro, nel quale si prevede lo stanziamento delle tanto sospirate risorse, davvero non si comprendono le proterve esternazioni di alcuni pm e perfino di appartenenti all’organo di autogoverno della magistratura che, ignoranti del principio della divisione dei poteri, pretendono di sostituirsi al legislatore, chiedendo per esempio che il Governo non ponga la fiducia sul disegno di legge presentato alle Camere ovvero vaticinando la perenzione della metà dei processi. Ebbene, che finiscano questi processi se non si è in grado di celebrarli in tempi rapidi, senza pregiudizi per i diritti delle persone offese, come è previsto dalla riforma. Ma è possibile che un singolo magistrato, seppure presidente di un’associazione di categoria come l’Anm, si arroghi il diritto di affermare che è inopportuno il referendum sulla giustizia promosso da partiti, cittadini e regioni perché è in atto un iter parlamentare di riforma e che lo stesso iter parlamentare venga criticato nei suoi modi e tempi da un altro magistrato appartenente al Csm, tra l’altro iscritti entrambi alla stessa corrente? I magistrati non dovrebbero, per obbligo costituzionale, applicare la legge la cui formazione spetta ad altri poteri dello stato? Povero Montesquieu. Raffaele Marino 

Bene la riforma Cartabia, ma il problema irrisolto è la durata del primo grado di giudizio. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Luglio 2021. La riforma Cartabia ha incontrato strada facendo un nugolo di oppositori, più o meno autorevoli. L’accademia processualistica e quella penalistica sono praticamente insorte contro la proposta di costruire un sistema “misto” che faccia operare la prescrizione sino alla sentenza di primo grado e, poi, carichi il metronomo del processo per la fase dell’appello e della cassazione. A sua volta una parte delle toghe inquirenti ha sollevato preoccupazioni paventando il rischio che la “sicurezza” della Repubblica possa essere messa a repentaglio dal regime dell’improcedibilità in appello e nella sede della legittimità. Si dice che siano troppo ristretti i termini previsti dalla ministra (due anni più uno in appello e un anno più sei mesi in cassazione) per evitare che mafiosi e terroristi vedano spalancarsi la via dell’impunità a cagione dei carichi di lavoro accumulati in alcune corti d’appello. (Non è così, come ha ben ricordato il consulente più autorevole del ministro della Giustizia, tenuto conto che per quei processi opera il rito “accelerato” della custodia cautelare, ma passi). Se nel primo caso, quello delle cattedre, è la purezza e la coerenza del sistema processuale e penale a risultare minacciata, nel secondo è la preoccupazione dei pubblici ministeri che i processi si dilatino oltre i tempi previsti dalla riforma e che ciò possa determinare l’improcedibilità dell’azione penale e la conseguente impunità del reo. Queste le posizioni a occhio e croce. Diradata la polvere sollevata dal cannoneggiamento concentrico su via Arenula, alcune questioni sono rimaste in ombra. La ministra Cartabia, in sede di conferenza stampa congiunta con il premier, alla precisa domanda di cosa si intendesse fare per arginare il fatto che il 70 % e rotti delle prescrizioni sono equamente suddivise tra le indagini preliminari e primo grado, ha risposto, con grande onestà intellettuale, che il problema sussiste e che la legge vuole anche porvi rimedio. Troppo poco, dirà qualcuno; oppure, si chiederà qualcun altro, perché non intervenire anche su questo fronte? Si era pensato a qualche blando rimedio con la riforma Orlando del 2017 nel tentativo di indurre i pubblici ministeri a rispettare i termini delle indagini preliminari e a evitare lunghissime stasi dei fascicoli presso gli uffici di procura ove si consuma la prima metà di quelle prescrizioni e si mettono le basi per la seconda metà. Ma è andata male. Anche la riforma Cartabia tenta di intervenire sul punto (articolo 3) con una serie di accorgimenti, di stimoli e di controlli. Difficile prevedere se saranno sufficienti a imbrigliare i pubblici ministeri più riottosi e quelli che sono inclini a considerare la prolungata qualità di indagato una sanzione ben più certa e immediata di un processo che giammai si potrebbe portare a buon fine. Ecco, forse, non tutti sanno che esiste, e dal 1989, una fase del processo regolata da precise scansioni temporali e questa è la fase delle indagini preliminari. Se la riforma Cartabia dovesse passare, come pare, con la regola dell’improcedibilità in appello e in cassazione, l’unica zona franca del processo penale che resterebbe, cioè, esente da cadenze temporali precise è quella del giudizio di primo grado che – secondo la riforma Bonafede non scalfita dal progetto del governo Draghi – ha a propria disposizione tutto il tempo della prescrizione del reato per potersi utilmente concludere. Mentre resterà praticamente inespugnabile il fortino delle indagini preliminari con un pubblico ministero arbitro sostanziale della loro durata. A questo punto è evidente che, salvo censure sempre possibili da parte della Corte costituzionale, il processo penale si muoverebbe secondo queste cadenze temporali: le indagini, all’incirca, a forza o a ragione, a colpi di istanze se necessario, si dovrebbero concludere in un certo tempo già fissato dal codice di procedura penale e modificato in qualche misura dalla riforma Cartabia. Con l’avviso di conclusione delle indagini e con il rinvio a giudizio il tempo del processo smette di correre e si congela sino alla sentenza di primo grado. Unica scadenza che incombe sul giudice è che questa sentenza arrivi prima che il reato si prescriva; poi la novella in discussione prevede tempi per l’appello e la cassazione come detto. Per quale ragione il giudizio di primo grado debba andare esente da una predeterminata scansione temporale non è ben chiaro, oppure lo è se si volge lo sguardo al muro che è stato sollevato a difesa della riforma Bonafede. La politica esige compromessi e non è questo il punto. Tuttavia, tenuto conto dei carichi di lavoro enormi – soprattutto nel primo grado innanzi al giudice monocratico – è ragionevole ritenere che questo regime produrrà un rallentamento complessivo della celebrazione dei procedimenti con l’intuibile (e comprensibile) tentazione per i giudici di primo grado di spostare in avanti i tempi di definizione del processo sino al limite della prescrizione. Oggi, per i reati commessi prima del 1 gennaio 2020, la minaccia che il tempo consumato in primo grado, a scapito dei gradi successivi, incombe sul giudice che deve tener conto dell’evolversi dl processo almeno in sede di appello se non vuole consegnare un cadavere al giudice dell’impugnazione; per i reati commessi dopo il primo gennaio 2020 la prospettiva è mutata. Si dirà che questa è la distorsione che deriva dalla legge Bonafede e alla quale la riforma Cartabia intende porre rimedio. Vero, ma sino a un certo punto. Perché se è chiaro, come ha sostenuto con forza la ministra, che lo status quo non può essere conservato è anche evidente che il “buco” temporale lasciato in relazione al processo di primo grado appare potenzialmente in grado di allungare di altri tre anni (minimo) quella che comunque potremmo chiamare la durata della prescrizione del reato; soprattutto se il giudizio di primo grado va per le lunghe e tarda a prescindere da qualunque “truffa dele etichette” che tanto agita la scienza giuridica. Alla fine la proposta in discussione appare come il minimo che si possa esigere a fronte di un assetto attuale che privilegia in modo sproporazionato e irragionevole la fase delle indagini e del processo di primo grado; resta da assoggettare anche questo segmento alla clessidra della ragionevole durata che non può essere quella della prescrizione del reato. Paradossalmente, a conti fatti, la tesi rigorista di chi sostiene che, esercitata l’azione penale, il reato non si debba prescrivere è la più corretta a patto che da quel momento cominci decorrere, inesorabile e certo, il timing del processo. Alberto Cisterna

Marta Cartabia non sarà santa solo con questa riformetta della giustizia: provvedimento pasticcio. Luigi Bisignani su Il Tempo il 25 luglio 2021. Caro direttore, le polemiche infernali sulla riforma della giustizia sono giunte fino in Paradiso. Per capirne di più, Sant’Ivo di Bretagna, protettore dei magistrati e degli avvocati, ha convocato Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Alfredo Biondi, fresco di Purgatorio, che si è presentato con la maglia del Genoa. «Ma quale riforma della giustizia!» - chiosa il Divo con il suo sorriso ironico - «Noi romani potremmo dire "quel pasticciaccio brutto di via Arenula, sede del Ministero"...». E Cossiga, di rimando, togliendosi le ultime cuffiette della Apple: «Con la scusa dell’Europa che altrimenti senza questa riforma non ci dà i soldi, Draghi sta portando avanti una mera cura palliativa, altro che riforma seria...». A.: «Tu, Francesco, ce l’hai da sempre con Draghi. Lo avevi pure accusato di svendere le aziende pubbliche». C.: «Già, mi sono anche fatto un po’ di Purgatorio per quelle critiche, ora che in Terra lo stanno santificando». A.: «Nessuno però ricorda che questo nuovo Santissimo di Palazzo Chigi l’ho scoperto io, portandolo alla direzione generale del Tesoro». E Biondi, da toscanaccio pisano: «Se se lo fossero ricordato non l’avrebbero mica santificato... certo che, Giulio, di guai ne hai fatti! Le leggi che hai varato contro pentiti e mafiosi hanno aperto una stagione giustizialista che non è più finita. E te l’hanno fatta pure pagare come ti avevo pure avvertito...». A.: «Non ho rimpianti. Del resto, qui in Paradiso non potevo mica arrivare in carrozza e comunque un po’ di calvario terreno mi ha fatto bene, se non fosse stato per il dolore arrecato a Livia, di cui tra qualche giorno ricorre l’anniversario della morte, ma anche ai miei ragazzi... in ogni caso, Francesco, della Cartabia che mi dici?».

Irrompe Biondi: «Io, da avvocato, dico che non ha mai messo piede in un tribunale e che ancora oggi dice cose surreali, come quella di essere stata la prima a coinvolgere gli avvocati al Ministero: non è vero! Prima di lei, l’ha fatto Alfano e persino quel pazzerello di Orlando». C.: «Ma c’è un fatto ancora più grave. Ha istituito una commissione, molto autorevole, presieduta da quel galantuomo di Giorgio Lattanzi». A.: «Lo so, un gran lavoro che dicono abbia ricevuto molti apprezzamenti». B.: «Forse proprio per questo l’ha stravolto e gettato nel cesso senza mai più consultarlo». C.: «È bastata un’unica voce fuori dal coro, quella di un giovane giurista mediocre rubato alla musica, tale DJ Fofo, Alfonso Bonafede, a lamentarsi per lo stravolgimento del suo disegno di legge e della riforma della prescrizione». A.: «E così la Signora, ascoltando un suo collega milanese, Gian Luigi Gatta, anche lui a secco di tribunali, con la speranza di diventare Presidente della Repubblica per accontentare i 5Stelle, modifica delle norme sulla prescrizione e ne fa una rivisitazione forcaiola rispetto a quanto proposto dalla Commissione ministeriale». C.: «Cartabia e Gatta, Titti e Silvestro: come un problema nato per un "tonno" diventa un problema per tutti gli italiani». A.: «La battuta sul "tonno" Palamara te la invidio e poi è stata fatta in tempi non sospetti, quando tutti i magistrati, prima di riservargli la mattanza, gli nuotavano attorno». Biondi: «"Sic transit gloria mundi". Ora vedrai che la Cartabia finirà impigliata nella rete proprio come me, a cui fu affibbiata l’etichetta "Salva-ladri" e che mi è rimasta appiccicata addosso». C.: «Solo perché al Quirinale, caro Alfredo, c’era Scalfaro, con me il pool di Milano avrebbe fatto tutt’altra fine. Non dimenticare che avevo precettato il colonnello Antonio Ragusa dei Carabinieri per circondare il Csm e ciò per molto meno di quello che è successo in questi mesi».

A.: «E che dire del Colle di oggi, allora? Un po’ distratto, no?». C.: «Certo che se io ce l’ho con Draghi, tu con Mattarella! Che però, a differenza mia, di Casini, degli ambasciatori Usa e di molti altri, non ti ha affatto difeso durante il processo di Palermo...». A.: «Anche da qui guardo sempre avanti. L’avevo fatto mio ministro, ma si sa che la gratitudine è sempre il sentimento della vigilia». C.: «Se è per questo, si era pure dimesso per il decreto Mammì sulle tv private». A.: «Tutta acqua passata, ormai. Ma parlavamo di Giustizia e Colle...». B.: «Il vulnus della sua presidenza è di non aver azzerato il Csm, lasciando i veleni correre. Un po’ quello che fece Scalfaro ai tempi nostri, saldando i comunisti con i Pm giustizialisti...». C.: «Amici cari, questa riforma non serve a nulla se non si ha la forza di varare una grande amnistia e/o indulto per ricominciare daccapo, come aveva chiesto Napolitano con un messaggio inascoltato alle Camere...». B.: «I tribunali sono a pezzi, mancano aule, computer, cancellieri. Altro che questa mini bischerata su cui si discute per imbrogliare l’Europa». A.: «E Draghi che fine fa?» B.: «Se continua a fare il ganzo come in questi giorni finisce male. In una settimana si è giocato la sua amichetta Meloni, negandole il sacrosanto posto nel Cda della Rai, e Salvini, umiliandolo sui vaccini in conferenza stampa». C.: «E per di più , e lo dico da Costituzionalista, la richiesta di fiducia preventiva è un misto di arroganza e di paura». A.: «La fiducia si chiede, non si annuncia, come le dimissioni... Altro che santo, super Mario un vero diavolo, anche se i diavoli sono ex angeli, come Lucifero...». C.: «Rischia di fare la fine di Prodi con Bertinotti». B.: «E chi sarebbe il Bertinotti della situazione?». C.: «Uno elegante come lui, ma pieno di rancori, Giuseppe Conte, che vive per vendicarsi....». Finora in ascolto, Sant’Ivo di Bretagna alza la mano e zittisce tutti. «Per lui il Paradiso può attendere, ma qui si prega, vi dò una mano e vi prendete tutto il braccio». Andreotti, incurvando ancor più le spalle e congiungendo le mani, riprende la sua meditazione rileggendo il De regimine principum di San Tommaso d’Aquino. Del resto, come insegna Jean-Paul Sartre, «l’inferno sono gli altri». 

Spangher: «Questa riforma è un compromesso al ribasso gestito da palazzo Chigi». Parla il professor Giorgio Spangher: «Questa riforma contempla che il giudice possa richiedere proroghe motivate in base alla complessità concreta del processo. Ma lasciare discrezionalità al giudice fa sorgere problemi sulle garanzie»

di Valentina Stella su Il Dubbio il 31 luglio 2021. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, le questioni di diritto sono state sacrificate in nome del compromesso politico per portare a casa la riforma della giustizia targata più Draghi che Cartabia.

Cosa pensa di questo accordo?

Faccio innanzitutto notare che mentre il Csm era riunito in plenum per esprimere un parere richiesto dalla Ministra Cartabia, a Palazzo Chigi già stavano riscrivendo il testo della riforma. Poi ho letto nel comunicato sul Cdm: «Rispetto al testo approvato due volte all’unanimità dal governo si introducono alcune novità». «Approvato» mi pare una sottolineatura ironica visto quello che poi è successo nei giorni successivi e il faticoso lavoro di mediazione che si è dovuto fare. Tornando alla sua domanda è chiaro che siamo dinanzi ad un compromesso. La Ministra avrebbe potuto fare molto meglio ma lei ha ridimensionato l’unica proposta culturalmente valida che era quella della Commissione Lattanzi. Da quel momento tutto si è complicato ed è iniziata la battaglia politica sull’improcedibilità. Nel frattempo sono emerse tutte le criticità culturali e scientifiche degli effetti dell’improcedibilità, che vedremo – ad essere ottimisti – alla fine del 2024. Tutto questo però è stato ignorato perché si è pensato a giocare solo con le bandierine che i partiti hanno messo sui vari reati affinché sfuggissero alla tagliola della prescrizione processuale. Infine sul risultato finale ha pesato il fatto che la partita si è spostata da via Arenula a Palazzo Chigi.

Qualcuno dice che siamo vittime della solita fallacia realista, in base alla quale qualsiasi compromesso si raggiunga va sempre bene. Non siamo stanchi di questo?

Assolutamente sì. Che il compromesso sia al ribasso lo si evince chiaramente dal fatto che ogni partito può rivendicare un pezzo di vittoria. Attenzione: sono spariti dal doppio binario inizialmente richiesto dal M5s i reati con la PA. All’inizio della trattativa sembrava invece essere il punto di snodo. Come vede è stato tutto un compromesso. Ma voglio aggiungere una cosa: ora abbiamo una serie di fasce per la celebrazione dei processi prima che scatti l’improcedibilità a seconda dell’imputazione che darà il pm. Ma oltre a questi doppi, tripli binari rimane in piedi tutto il problema dogmatico degli effetti del nuovo istituto: l’improcedibilità non decide, e cosa significa davvero lo scopriremo solo con la prima sentenza. Non dobbiamo scordarci che stiamo parlando del Diritto e dei suoi effetti sugli imputati e le persone offese. Ieri è stata depositata una sentenza della Consulta per cui se scatta la prescrizione in appello il giudice stesso può decidere sugli effetti civili. Con la nuova riforma si passa la palla al giudice civile. Ma sembra che tutte queste questioni giuridiche, messe in evidenze anche dal Csm, dall’Anm e dall’Accademia, non siano di interesse.

L’Europa ci chiede una giustizia più snella e veloce. A leggere la bozza dell’accordo invece sembra tutto più complicato.

Pensiamo di aver risolto il problema con la trattativa a Palazzo Chigi ma non è così, perché poi dovremo dar conto anche all’Europa degli effetti della riforma. Gli anni dell’appello dovevano essere 2 e poi in alcuni casi sono diventati 3, in altri 5 e poi 6. E in altri casi ancora abbiamo il fine processo mai. Il nostro sistema prevede già diversi binari, un vero groviglio dal punto di vista procedurale. Ora questa riforma contempla che il giudice possa richiedere proroghe motivate in base alla complessità concreta del processo. Innanzitutto vorrei capire qual è la definizione di “complessità”. Io capisco che i processi non sono tutti uguali ma lasciare discrezionalità al giudice fa sorgere problemi sulle garanzie. Già abbiamo un eccesso di proroghe nella fase delle indagini preliminari, pensi se un giudice deve decidere per il proprio processo. Farà di tutto per cercare una motivazione. Insomma, non credo onestamente che questo sia il modo giusto per raggiungere l’ambizioso obiettivo di ridurre del 25% la durata dei giudizi penali, come richiesto dall’Europa.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 30 luglio 2021. Un lungo riassunto e una domanda. Riassunto: poiché abbiamo la giustizia più lenta d'Europa, in cambio di una prima quota del Recovery l'Unione impone una riforma che ne riduca drasticamente i tempi. Il ministro Marta Cartabia ne appronta una severa, la discute con avvocati e magistrati, soprattutto coi partiti e ne scaturisce un testo di molto annacquato, ma condiviso. Il testo arriva in Consiglio dei ministri dove però i cinque stelle ci ripensano e dicono di no. Interviene Beppe Grillo e dice invece sì, il testo va benissimo. Il Consiglio dei ministri, cinque stelle compresi, approva. Nel frattempo, dopo pranzo al mare con Grillo, Giuseppe Conte è ufficializzato capo politico e dice invece no, il testo non va affatto bene. Enrico Letta, segretario del Pd, gli dà manforte: in effetti qualcosa si può cambiare. Draghi si infuria: avevate firmato, la vostra firma non vale niente? Accetta correzioni. Segue trattativa, si decide di rendere imprescrittibili (fine processo mai) i reati di mafia e terrorismo. Tutto a posto? No, perché gli altri partiti dicono allora anche noi. La Lega ottiene l'imprescrittibilità per i reati sessuali e di droga. Ci siamo? Ci siamo. Il testo torna in Consiglio dei ministri: appuntamento alle 15.30 di ieri. Ma i cinque stelle non ci vanno, sono in riunione con Conte. Si presentano un'ora e mezzo dopo e dicono che a ogni reato cui è contestata un'aggravante mafiosa bisogna dare tempi più lunghi o non se ne fa niente. La spuntano, faccenda conclusa. La riforma quasi non c'è più. Tutti i partiti hanno vinto, tutti esultano. Ora la domanda: voi li dareste a cuor leggero dei soldi a questo Paese? 

Lasciar decidere il giudice sulla durata dei processi: cancellate quest’assurdità. Il magistrato è sempre pronto ad assumersi l’onere di giudicare nel merito, ma il compromesso sul Ddl penale sfida la Costituzione, che assegna al legislatore la responsabilità sui tempi del giudizio. Nello Rossi su Il Dubbio il 4 agosto 2021. Il giudice diverrà l’arbitro ultimo dei tempi del processo? Sarà il magistrato penale a dover compiere la scelta – drastica e potenzialmente drammatica – tra dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale, destinata a porre fine alla vicenda processuale, e il prolungamento del processo al di là degli ordinari termini di legge? È quanto prevede l’ultima versione della riforma del processo penale, che al giudice attribuisce un inedito potere: prorogare, in ragione della complessità del procedimento (per numero delle parti o delle imputazioni o per la natura delle questioni giuridiche o di fatto da affrontare), la durata dei giudizi di appello e di Cassazione. Proroga che potrà essere adottata una sola volta per la generalità dei procedimenti, mentre sarà reiterabile per i giudizi di impugnazione su reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale aggravata e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Per comprendere come si sia giunti a questa soluzione ( non paragonabile, per la sua portata e i suoi effetti, alle decisioni sulla proroga della custodia cautelare) occorre ribadire, ancora una volta, il peccato originale della riforma, o meglio della “mediazione” Cartabia, e rappresentare la cascata di conseguenze negative che ne è scaturita.

Il nervo della prescrizione. Il peccato originale sta nel non avere seguito la strada di coraggiosa deflazione del carico giudiziario tracciata dalla Commissione Lattanzi, rinunciando (in nome di un astratto rigorismo?) ad alcuni istituti innovativi, come l’archiviazione meritata, e limitando la portata di altri strumenti di riduzione del numero dei processi e di accelerazione della loro durata: dalla restrizione dell’area del patteggiamento alla retromarcia in materia di appelli del pm, delle parti civili e degli imputati. Con l’effetto di lasciare nuovamente scoperto e dolente il nervo della prescrizione, punto di scarico finale di tutte le irrisolte contraddizioni del processo, e di riattizzare uno scontro politico cui si poteva sperare di porre fine solo ristrutturando l’intero assetto del procedimento e del processo.

Compromessi politici o di necessità. Da qui in poi sono cominciati i compromessi, politici o di necessità. Il primo è consistito nell’affidarsi – per misurare i limiti temporali del processo – ad un sistema ibrido, frutto della meccanica addizione del regime della “prescrizione sostanziale” voluto dal governo Cinque Stelle- Lega con un inedito regime di “prescrizione processuale”, ovvero l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini dei giudizi di appello e di Cassazione. Sistema potenzialmente produttivo di risultati paradossali, già messi in luce da più commentatori, e, quel che più conta, risultato insostenibile in numerose Corti di appello, gravate da grandi quantità di processi.

Cosa dice la Costituzione. Ed ecco che, per rispondere alle critiche, ha preso corpo il secondo compromesso: la previsione di più ampi termini di legge per la celebrazione dei giudizi di appello e di Cassazione, affidata però alla “facoltà” del giudice di prorogare tali termini con una ordinanza motivata e ricorribile dinanzi alla Suprema Corte. L’ultima parola al giudice, dunque. Non solo, come è naturale, sui fatti e sulle responsabilità, sulla colpevolezza o sull’innocenza, ma anche sulla durata del processo. Eppure, secondo la Costituzione, è “la legge” che deve assicurare la ragionevole durata del processo e, aggiungiamo, la ragionevole prevedibilità di tale durata. Ed è perciò il legislatore che deve fissare la cornice temporale ed i limiti invalicabili di ogni processo, valutando il “fattore tempo” nelle sue diverse valenze: tempo dell’oblio sociale nei confronti del reato; vicinanza temporale tra i fatti per cui si procede e il giudizio, per permettere all’innocente di fornire prove a discarico, irrintracciabili a eccessiva distanza dagli eventi; grado di accettabilità di una condizione di imputato troppo a lungo protratta.

I problemi spinosi. Il sentiero impervio, oggi imboccato, legittima molti e inquietanti interrogativi. Quanto saranno comprensibili e socialmente accettabili scelte “operative” sui tempi dei processi (inevitabilmente diverse a seconda dei casi) che incideranno profondamente sul destino ultimo degli imputati? Fino a che punto il “merito” di tali scelte sarà controllabile dal giudice di legittimità? A quali rischi esse esporranno magistrati che sono pronti ad assumere ogni responsabilità per un giudizio emesso in scienza e coscienza ma che, in questo caso, saranno chiamati a valutazioni di diversa natura, con effetti salvifici o pregiudizievoli?

Mentre la politica saluta con soddisfazione il primo passo della riforma del processo penale e ciascuna forza politica si affanna a rivendicare il suo “decisivo” contributo, è giusto che chi si occupa di giustizia ponga, tra gli altri, questi spinosi problemi. Non per guastare la festa, né per negare l’indispensabilità di un intervento riformatore, ma per avvertire che il congegno messo in campo rischia di risultare difettoso quando sarà sottoposto alla prova della realtà.

La durata dei processi. Se, per realismo, si dovrà prendere atto che non ci sono più margini per sanare il peccato originale della riforma né per abbandonare la soluzione ibrida messa in cantiere sulla durata dei processi, si può chiedere almeno di rimeditare questo aspetto della nuova normativa, fissando per legge – e senza interventi dei giudici – congrui termini di improcedibilità, calibrati sulla gravità e sull’allarme sociale dei diversi reati e sulla complessità dei relativi giudizi? Ciò sarebbe in sintonia con le indicazioni offerte dal giudice costituzionale che, anche nella recentissima pronuncia n. 140 del 2021, ha insistito sul ruolo irrinunciabile del legislatore nel fornire un quadro di certezze sulla durata dei processi. Lo sappiamo: si potrà sostenere che il principio di legalità è comunque rispettato dalle norme oggi dettate in materia di proroghe, anche se esso appare vacillante di fronte all’ipotesi estrema di proroghe reiterate. Ma resta che l’equilibrio – o piuttosto l’esercizio di equilibrismo – immaginato come via di fuga da una impasse tutta politica allontana la realizzazione della promessa costituzionale di un processo di ragionevole durata e incide pesantemente su fondamentali garanzie dei cittadini. Recedere da una scelta improvvida sarebbe una prova di saggezza da parte di un Parlamento che volesse liberarsi dalle pressioni e dai condizionamenti impropriamente esercitati dalla politica politicante sulle questioni di giustizia.

Se lo Stato condanna il Sud: la questione meridionale ridotta a questione criminale. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno imprescrivibili. I pm non perderanno l’occasione di contestare l’aggravante mafiosa. Ecco perché. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 3 agosto 2021. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno praticamente imprescrivibili. Ed è proprio su questo punto che i pm di assalto avevano cercato e trovato un varco. La Riforma resta comunque un fatto di civiltà. “Comprendo” perfettamente che nella situazione attuale nessun “politico” se la sia sentita di “resistere” nella difesa del testo originario, approvato a unanimità nel Consiglio dei ministri.

I mafiosi e i delinquenti comuni. Se qualcuno avesse aperto bocca per dire che i tempi di prescrizione nei processi per mafia sono irrazionali e, probabilmente, indegni di un Paese civile si sarebbe trovato indifeso dinanzi ad un plotone di esecuzione che lo avrebbe fucilato facendolo passare per mafioso o amico dei mafiosi. Provo a formulare una domanda: cosa hanno di diverso i mafiosi rispetto ai delinquenti comuni? “Normalmente” sia gli uni che gli altri uccidono, minacciano, rubano, trafficano droga. Dal momento che i cittadini dovrebbero essere uguali dinanzi alla legge non si comprenderebbe perché ’ndranghetisti e mafiosi dovrebbero riceve un trattamento diverso. Ciò detto, riteniamo che il legislatore giustifichi il diverso trattamento per il fatto che, essendo la mafia una organizzazione ( a delinquere) presente da tempo e radicata in un determinato posto, i crimini commessi degli affiliati, oltre che essere odiosi come tutti gli altri, hanno come fine il controllo del territorio sottraendolo di fatto allo Stato. Quindi lo Stato è “naturalmente” in guerra con la mafia. A questo punto una domanda è d’obbligo: il processo può essere un momento di tale guerra? No! Per il semplice fatto che prima della sentenza tutti gli imputati dovrebbero essere considerati innocenti, e come la storia recente dimostra, in buona parte lo sono. Lo Stato ha tutto il diritto di giudicare ma non di muovere guerra a un solo innocente.

Il processo “Gotha”. Faccio un esempio. Ieri l’altro a Reggio Calabria s’è concluso il processo “Gotha” che contrariamente alla maggioranza dei processi allestiti in Calabria con operazioni spettacolari – ma miseramente falliti – ha retto al 50% (ripeto 50%) al primo grado di giudizio. Cioè su trenta imputati quindici sono stati assolti e quindici condannati. Molti degli assolti, prima della vicenda che li ha visti coinvolti, non erano mai stati in un’aula di giustizia. Per esempio, tra di loro è “capitato” uno stimato primario di cardiochirurgia, un ex presidente della Provincia; un senatore della Repubblica. Qualcuno tra questi ha trascorso qualche anno in carcere (complici) dei parlamentari pavidi. Tutti sono stati sotto processo da anni in quanto sospettati di essere mafiosi.

Sotto processo per 18 anni? A questo punto poniamoci una domanda: qualora la procura dovesse fare appello (cosa che probabilmente farà) verranno tenuti sotto processo per 18 anni e poi per altri 18 ancora? Non ci sono persone al disopra di ogni sospetto, né con diritto di essere tutelati più di altri ma in base a quale principio lo Stato potrebbe trattare queste persone molto peggio degli assassini seriali, degli stupratori, dai pedofili, tenendoli prima in carcere e poi sotto processo a vita? Non si tratta d’un “danno collaterale” accettabile pur di combattere la mafia ma di un abuso che ha come logica conseguenza la legittimazione e il rafforzamento delle mafie su un determinato territorio. Agli occhi di queste “vittime “lo Stato sarà una presenza tirannica di gran lunga peggiore della mafia. La verità è che le mafie devono e possono essere combattute prima e dopo del “processo” e con gli strumenti messi a disposizione dalla Costituzione. Viceversa, il processo dovrebbe assicurare un giudizio sereno ed in tempi umani attraverso regole e leggi uguali per tutti.

Se lo Stato condanna il Sud. Infine, la riforma Cartabia assicurerà nelle regioni del Centro- Nord una giustizia più efficiente ed umana mentre al Sud avremo in assoluta prevalenza il “processo infinito”. Infatti, nessun pm delle regioni meridionali perderà l’occasione, dinanzi ad una estorsione o ad un omicidio, di contestare l’aggravante mafiosa perché ciò gli consentirà tempi infiniti. E non sarà difficile in zone come la Calabria o in paesi come Africo o San Luca trovare rapporti di parentela, di frequentazione, di vicinato con qualche famiglia in odore di mafia. Il cerchio è chiuso. La questione meridionale diventa così, ed ancora di più, questione criminale da affrontare praticando la “giustizia dei sette capestri” aldilà del Pecos. Le mafie diventeranno l’alibi per spiegare il mancato sviluppo del Sud o per non ascoltare il grido del professor Gianfranco Viesti che ha dimostrato che dei fondi del Recovery solo 13 miliardi arriveranno nelle Regioni meridionali.

Ed in tutto ciò, la cosa che più fa salire il sangue alla testa è che non ci sia stata una sola voce in Parlamento, e neanche fuori, a difendere il Sud da questa follia giustizialista che avrà come unico risultato la mortificazione della Legge e della Costituzione da un lato e la legittimazione e l’invincibilità delle mafie dall’altro.

Riforma della Giustizia, De Luca - "Sceneggiata politica dei 5 Stelle". (Agenzia Vista il 30 luglio 2021) "Vorrei fare una considerazione sulla riforma Cartabia della giustizia. Abbiamo assistito ad un'ennesima sceneggiata politica, un atto di cabaret offensivo dell'intelligenza degli italiani. Sapevamo dove cominciava questa sceneggiata e sapevamo come si sarebbe compiuta: il Movimento 5 Stelle aveva bisogno di mettere una bandierina per approvare la legge. La bandierina consiste nel fatto che si sono allungati i processi di mafia, terrorismo e altri inseriti dalla Lega. Tutti reati che avevano già la possibilità, sulla base della pronuncia di un giudice, di essere prolungati fino a conclusione delle indagini. Ma dovevamo fingere di aver prodotto una grande innovazione" lo ha detto Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania, durante la diretta trasmessa sul suo profilo di Facebook. Courtesy Facebook di Vincenzo De Luca 

Paolo Mieli per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2021. Colpisce che il cento per cento dei magistrati che si sono fin qui pronunciati sulla riforma Cartabia abbiano espresso dissenso. Dissenso manifestato senza il ricorso ad eufemismi, anzi in termini assai impegnativi. È vero che due o tre di questi magistrati (quattro se comprendiamo Luciano Violante) hanno aperto qualche spiraglio al progetto messo a punto dalla ministra della Giustizia assieme a un gruppo di valenti giuristi. Ma erano toghe in pensione: quelle tuttora in servizio hanno sparato ad alzo zero contro il provvedimento che, secondo i loro calcoli, avrebbe consentito il ritorno in libertà di centinaia di migliaia di delinquenti. Proprio così: centinaia di migliaia. E avrebbe altresì provocato la fine dello stato di diritto nonché, forse, della democrazia riconquistata con la Resistenza. Anche personalità fino ad oggi conosciute come poco inclini alle esagerazioni hanno fatto ricorso a quel genere di toni. Sia come singoli che come capi delle organizzazioni di categoria. Ripetiamo: il cento per cento dei magistrati in servizio, presa la parola, si è pronunciato contro il progetto Cartabia votato all'unanimità dal precedente Consiglio dei ministri sostenendo che se fosse rimasto com' era e non fosse stato cambiato con una seconda decisione unanime, quella di ieri sera, avrebbe provocato al nostro Paese danni incalcolabili. In casi come questo si è soliti sostenere che non tutti i magistrati la pensano come quelli che intervengono pubblicamente. Ma tenderemmo a escludere che ciò corrisponda al vero perché, se così fosse, dopo quasi trent' anni di riproposizione di questo copione, dovremmo pensare che tra pubblici ministeri e giudici non ce ne sia uno, neanche uno, capace di manifestare il proprio dissenso dal pensiero prevalente tra i colleghi. Tutti senza coraggio? Impossibile. Più verosimile che, con maggiore o minore intensità, siano d'accordo tra loro. A questo punto si pone una domanda: cosa ha reso possibile questa unanimità delle toghe contro Mario Draghi e Marta Cartabia? La risposta può essere di due tipi. La prima - con maggiori probabilità di esser vicina al vero - è che il precedente accordo raggiunto dalla ministra avesse un carattere eccessivamente compromissorio; che lei e i saggi che l'hanno affiancata non si rendessero conto dello spropositato numero di mafiosi, terroristi e malfattori di ogni specie che grazie al loro provvedimento (nella prima versione) avrebbero riacquistato libertà; e che l'intero Consiglio dei ministri avesse concesso luce verde a questo piano nell'intima (e cinica) certezza che qualcun altro l'avrebbe rimesso in discussione. Fosse vero, dovremmo ringraziare quei parlamentari del M5S che con rapidità, resisi conto dei rischi, hanno ottenuto il nuovo compromesso che impedirà a mafiosi, terroristi e delinquenti d'ogni risma di uscire di prigione. E che risparmierà all'Italia un provvedimento che avrebbe «minato la sicurezza del Paese». L'altra ipotesi di spiegazione - assai meno plausibile della precedente, anzi, ammettiamolo, quasi inverosimile - è che la magistratura italiana sia ormai divenuta un corpo malato. Un insieme in cui uomini e donne si lasciano rappresentare da avanguardie impegnate a combattersi le une contro le altre a colpi di dossier. Che le loro istituzioni, a cominciare dal Csm, stiano sprofondando, anzi siano già sprofondate nel più assoluto discredito. Che correnti e sottocorrenti abbiano standard di moralità minori di quelli che avevano i partiti politici all'epoca della loro massima degenerazione. Che procure, passate alla storia come templi della legalità, siano oggi sconvolte da lotte fratricide in cui è consuetudine l'accoltellamento alla schiena. Luoghi in cui sarebbe divenuto lecito nascondere le prove a vantaggio degli imputati. Dove è pratica corrente spedire anonimamente a colleghi e media verbali finalizzati a minare la credibilità di un qualche «nemico». E di servirsi in tal guisa di astutissimi «pentiti» ben consapevoli dei servizi che si prestano a rendere. In questi Palazzi di giustizia sarebbe venuto meno ogni spirito di lealtà nei confronti dei capi. Capi che verranno sì sostituiti ma continueranno ad esser nominati da un Csm abbondantemente avvelenato. Se la magistratura italiana fosse precipitata in questo abisso - cosa che non crediamo, anche se qualche rischio lo si può intravedere in lontananza - allora le prese di posizione di alcune toghe contro Draghi e la Cartabia andrebbero interpretate come un accorto posizionamento in vista di un cataclisma prossimo venturo. Una scossa tellurica nel corso della quale potrebbero venire alla luce le malefatte di molti, talché alcuni togati avrebbero ritenuto conveniente assumere la postura di indomiti alfieri della legalità capaci di mettere con le spalle al muro l'ex Presidente della Corte costituzionale. Tali posture potrebbero valere, nell'immediato, per promozioni che verranno fatte con gli stessi criteri adottati in passato. Ed essere eventualmente considerate un titolo di benemerenza nel momento in cui giungesse l'ora del redde rationem. Ma ora che il governo è stato in grado di giungere ad un secondo compromesso ci aspettiamo che i magistrati ne prendano atto e festeggino lo scampato pericolo. E che siano unanimi anche in questi festeggiamenti.

L’Italia culla del diritto? Peccato però che l'infante giustizia non sia cresciuto. Questo è il problema: lentezza mostruosa dei processi, il loro costo astronomico, malcontento e crollo della fiducia dei cittadini in un sistema che non li rende uguali agli altri europei. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 30 luglio 2021. Diciamoci la verità: sulle vaccinazioni Mattarella e stato bravo ma quanto alla giustizia ci ha lasciato un po’ sul campanile come si usa dire in amore quando non si raggiunge l’acme. Il presidente della Repubblica è per sua funzione anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura, anche se la funzione reale è svolta dal vicepresidente, tuttavia l’attuale e abbastanza eroico abitante del Quirinale, ha svicolato. Il centro del centro del malessere della giustizia infatti abita a nel palazzo dei marescialli a Roma dove ha sede il Csm.

SISTEMA FUSO. Dagli scandali usciti ed entrati da e in quel palazzo si è avuta la temperatura di un sistema fuso, disfunzionale e concentrato su esiti che non hanno nulla a che vedere con l’erogazione del pubblico servizio della giustizia. Lo stato della giustizia italiana è tale che l’Europa, per una volta tutt’altro che matrigna, ci ha ingiunto di raggiungere il livello minimo di civiltà giudiziaria comune nei Paesi dell’unione per avere pieno diritto ai famosi fondi. Capacità giudiziaria vuol dire esercizio della funzione perché quanto a civiltà giuridica noi ambiziosamente ci consideriamo la culla del diritto.

LE SOLITE CARENZE. Peccato che questa culla sia rimasta tale e l’infante non sia mai cresciuto. Questo è il problema: lentezza mostruosa dei processi, costo astronomico degli stessi, malcontento e crollo della fiducia dei cittadini in un sistema che non li rende uguali agli altri europei. Tutti sappiamo che oltre le ben note carenze che tutti i tribunali lamentano in fatto di personale, computer, polizia giudiziaria, pulizie delle scale, stato polveroso degli uffici, lassismo, ci sono anche alcune cattive abitudini che purtroppo alcuni funzionari dello Stato in toga hanno confuso con dei loro diritti. Ricordiamo come stanno le cose alla partenza. Il popolo italiano, tornato alla democrazia e diventato una Repubblica scelse di darsi un sistema giudiziario al di sopra di ogni sospetto. Quale può essere il sospetto peggiore per un organismo giudiziario? Quello dell’asservimento ad altri poteri. Siano essi politici, malavitosi, finanziari, sindacali, religiosi, metteteceli tutti. E allora che cosa pensarono i famosi padri costituenti? Pensarono di dotare il paese di un organismo che tutelasse l’indipendenza di questi alti dipendenti dello Stato approdati alla loro funzione attraverso un concorso pubblico.

GLI ELETTORI. Quando ricordo a me stesso questa storia, mi torna sempre in mente quel che disse un grande re indigeno messicano agli spagnoli: “Voi discendete dalle barche, noi dagli Aztechi”. Ora il Parlamento discende dal voto degli elettori e quindi è espressione dell’unico potere che esista in una democrazia, mentre i magistrati discendono da un concorso pubblico che comincia e definisce la loro legittimazione. Che non è poca cosa, ma che non è neppure un potere. La questione dei tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario che fu il fulcro della rivoluzione francese non ha più senso: il legislativo ha il potere di rappresentanza popolare, l’esecutivo è la sua espressione approvata con voto di fiducia; e quanto al giudiziario si tratta della esecuzione delle leggi esistenti con un ampio margine di potere di interpretazione che con il passare degli anni è diventato del tutto abusivo, tant’è vero che molte volte nella storia della Repubblica ci siamo trovati di fronte a sentenze della Suprema Corte di Cassazione, i cui operatori discendono anche loro da un concorso e non dal potere popolare, esprimere leggi sotto forma di sentenze che modificavano altre leggi esistenti. Ciò ha generato un conflitto che si è poi acuito man mano che i magistrati si sono riuniti nei loro sindacati e nelle loro associazioni, alcune delle quali sembrano più delle bande che dei rispettabili organismi rappresentativi. Lo scandalo Palamara è stato soltanto l’ultimo in ordine di tempo, ma terribilmente istruttivo: esisterebbe una organizzazione, non si sa se loggia massonica o no, in cui una congrega di abusivi tra cui alcuni magistrati, avvocati, giornalisti e forze dell’ordine si riunirebbero per trovare la quadra fra loro con accomodamenti e transazioni, per usare la giustizia secondo le loro private convenienze.

CATENA INFINITA. Uno dei grandi mali del nostro sistema è la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale, che sembrerebbe dal suono una buona cosa che invece è pessima. Se tutte le denunce dessero davvero luogo obbligatoriamente ad una inchiesta e poi l’inchiesta ad un’istruttoria, l’istruttoria un processo, il processo a una sentenza, non la si finirebbe più. Ne consegue che i procuratori hanno un potere di discrezionalità nello stabilire quale dossier è più uguale dell’altro. Tutto questo è arcinoto. Qui sta lo scandalo e qui anche gli interessi politici legati a dei sottoposti interni al corpo dei magistrati, la maggior parte dei quali come sappiamo, è formato da persone specchiatissime tra cui però se ne celano di più opache e alla fine della giostra il cittadino scopre che i processi civili sono talmente iniqui per lunghezze da mettere in fuga le aziende straniere che abbiano voglia di investire, come accaduto anche in tempi recentissimi. E nel penale ciascuno è autorizzato a pensare che la propria sentenza non sempre corrisponda alla giustizia in senso non soltanto codificato ma anche ideale. Processi lunghi, costosi, iniqui amministrati talvolta da personale che non è all’altezza del compito affidato gli. Adesso si fa gran chiasso sulla riforma Cartabia che in realtà affronta una parte importante ma non tutta quella della questione giudiziaria. È solo la riforma Cartabia ma i 5 Stelle tentano di giocarsi una carta politica anche se già sanno di aver perso perché una cosa è sicura di Draghi, ed è che in quel suo sorriso un po’ da dinosauro, lui non mollerà mai, non cambierà idea, al massimo concederà piccoli aggiustamenti, giusto per far contento questo o quel membro della sua maggioranza parlamentare.

LA RESA DEI CONTI. Adesso siamo arrivati al “redde rationem” e quindi non resta che aspettare il voto di fiducia. Nel frattempo, i referendum sono in marcia ed è possibile che il voto popolare crei una spaccatura tale da imporre al governo e al Parlamento un ulteriore ripensamento dopo l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

LA GUERRA FREDDA. L’Italia ha vissuto di emergenze fin dalla sua nascita a causa della guerra fredda e tutte le emergenze sono state buone per sospendere momentaneamente, cioè per sempre, l’uso della normalità. Adesso è ora di tornare a questa normalità. Per farlo occorre un sistema giudiziario che dia i frutti che è chiamato a dare. Altrimenti bisogna pensare a qualcosa di radicalmente nuovo. Questo Parlamento non è il più adatto per compiere questo lavoro e bisognerà certamente aspettare il prossimo. Ma i tempi sono maturi, l’Europa ce lo chiede, e noi se vogliamo restare al passo in tema di civiltà così come lo siamo ormai in economia, dobbiamo darci una mossa. Piantarla con le frasi ad effetto, i pregiudizi e imparare a considerare l’amministrazione della Giustizia un servizio pubblico di massima qualità che richiede altrettanta responsabilità ed efficienza. Qualsiasi altra funzione abusiva e parassitaria, va eliminata.

Una riforma a metà che non elimina i processi infiniti. Le Regioni blindano i sei referendum. Luca Fazzo il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. Proroga sino a 6 anni per terrorismo e mafia. Pesa il pressing del Csm. Dalla Sicilia arriva l'ok: urne certe sui quesiti dei Radicali e Lega. I processi infiniti restano: ma solo per i reati più gravi, individuati con una lista frutto di mediazioni estenuanti, e destinata sicuramente a venire modificata in futuro. Per gli altri processi, ovvero per la stragrande maggioranza dei casi che riempiono le statistiche della giustizia italiana, resta - entrando in campo gradualmente, e andando a pieno regime nel 2024 - il criterio base della riforma che Marta Cartabia aveva portato due settimane fa in consiglio dei ministri: due anni per il processo in appello, un altro per quello in Cassazione. Poi tutto diventa improcedibile. Basta con i cittadini trasformati in imputati a vita. É questo il quadro che esce dalla giornata convulsa vissuta dal pianeta giustizia, con la riforma Cartabia soggetta al fuoco incrociato di grillini, giornali e magistrati, che accusavano il testo varato il 14 luglio di essere una sorta di amnistia mascherata che avrebbe garantito impunità a criminali di ogni genere. A calare il carico da novanta era stato, poche ore prima che il governo si riunisse, il Consiglio superiore della magistratura dove - mettendo in minoranza destra e moderati - viene approvata una mozione di rara durezza contro il capitolo sulla prescrizione del progetto di Marta Cartabia. A quel punto neanche il più impavido dei Guardasigilli sarebbe andato avanti sfidando le ire dei Gratteri e dei Di Matteo. E inizia la mediazione. Il passaggio chiave della marcia indietro del governo sta all'articolo 4 della nuova bozza. Si conferma che la prescrizione si sospende dopo la sentenza di primo grado, si conferma anche che se il processo d'appello non termina entro due anni scatta la improcedibilità; si conferma che nei casi complessi il giudice può allungare di un anno i termini; e tutto questo era contenuto già nel vecchio testo. Ma poi si aggiunge che «ulteriori proroghe possono essere disposte» per una serie di reati: nel testo originale non c'è un numero massimo di proroghe, di fatto la durata dei processi «allungabili» rischia di essere infinita. Se, come parre, il testo definitivo resta questo, il partito dei pm ha vinto, ma non ha stravinto. Lo scontro di ieri si concentra a quel punto sull'elenco dei reati da inserire nella black list. Tutti d'accordo su terrorismo, eversione e reati connessi; idem per l'associazione mafiosa e il narcotraffico; vengono aggiunti su pressione della Lega le violenze sessuali aggravate e la corruzione di minorenne; per cui alla fine la battaglia si concentra solo su una nicchia di reati, i delitti «normali» ma aggravati dalla finalità mafiosa. Un concetto elastico, dove si incrociano sentenze contrastanti, e che comunque riguarda una quantità di processi non particolarmente rilevante: ma di cui i 5 Stelle ieri fanno una bandiera. L'appunto informale diramato ieri dal ministero di via Arenula dice che per questo tipo di reati il testo definitivo consente al massimo due proroghe oltre la prima, quindi si arriva a cinque/sei anni. Il triplo di quanti ne servono oggi per un appello medio. Se tra i partiti la paternità del risultato viene rivendicata un po' da tutti, è chiaro che a determinare il cambio di rotta della Cartabia è stata anche e soprattutto la magistratura organizzata. Un fuoco di critiche culminato nella risoluzione del Csm che ieri mattina approva il documento presentato dal grillino Fulvio Gigliotti che accusa il sistema ideato dal ministro di presentare «rilevanti profili di criticità» e di «insostenibilità pratica», accusandola di causare «l'impossibilità di portare a conclusione un gran numero di processi». Un siluro cui si associano toghe e laici grillini, di sinistra e di centro, isolando i consiglieri di centrodestra e di Magistratura Indipendente. Uno sbarramento preventivo contro un testo che deve ancora arrivare all'esame del Parlamento. Ma lo scontro non è finito. Perché dopo la riforma Cartabia, vengono al pettine gli altri nodi della Giustizia: dalla riforma del Csm alla separazione delle carriere. Matteo Salvini, uscito abbastanza soddisfatto dallo scontro di ieri, annuncia che ora «i referendum della Lega e del Partito radicale diventano ancora più importanti». E i referendum si faranno di sicuro: alle 350mila già raccolte ieri si aggiunge il voto di cinque consigli regionali, raggiunto ieri col sì della Sicilia. Il quorum sufficiente per mandare gli italiani alle urne.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Da adnkronos.com il 30 luglio 2021. "Travaglio ha insultato vergognosamente Draghi. Ma non si deve vergognare solo lui: si devono vergognare D’Alema, Bersani e Speranza per aver invitato e fatto applaudire una persona che ha insultato un uomo rimasto orfano di padre a 15 anni". Matteo Renzi, leader di Italia Viva, si esprime così sul “caso” che ha coinvolto Marco Travaglio. Il giornalista, durante la partecipazione alla festa di Articolo 1, ha definito il premier Mario Draghi "un figlio di papà" che "non capisce un c....". Nella chiacchierata con Gaia Tortora ad Assisi, per la presentazione del libro Controcorrente, Renzi tocca una serie di temi. "Vorrei darvi una notizia: Il caro estinto è la riforma Bonafede che da stasera non c’è più. Non si può essere più imputati a vita. La riforma è una piccola parte, c’è ancora un lavoro lunghissimo da fare, ma ora abbiamo archiviato la Bonafede", dice riferendosi alla nuova riforma della giustizia elaborata dalla ministra Cartabia. Capitolo Pd: "Avevamo il 40,8%, hanno voluto scientificamente distruggere quel Pd, hanno preferito liberare la strada a Salvini e Grillo anziché collaborare con noi. Quella parte lì può essere definita con tanti nomi io la chiamo con un solo cognome: D’Alema".

Marco Travaglio, le accuse dal New York Times: "I legami con i magistrati, megafono per le calunnie M5s". Libero Quotidiano l'01 agosto 2021. La mirabile impresa di Marco Travaglio? Farsi ridicolizzare anche dal prestigioso New York Times. La ragione, ancora le raccapriccianti parole pronunciate da Marco Manetta alla festa di Articolo 1, gli insulti a Mario Draghi, "il figlio di papà che non capisce un ca***". In un lungo articolo firmato dal corrispondente del NYT Jason Horowitz, quest'ultimo ha riassunto la vicenda della riforma Cartabia, partendo dal caso di Simone Uggetti, il sindaco Pd di Lodi massacrato dai grillini nel 2016 e che, alla fine, è stato scagionato solo pochi mesi fa perché "il fatto non sussiste". E Horowitz, dopo aver dato conto delle scuse di Luigi Di Maio, ecco che tira in ballo il capo-ultrà di Giuseppe Conte, sul quale scrive: "Non tutti sono entusiasti, però. Marco Travaglio, direttore responsabile del Fatto Quotidiano, che ha profondi legami con i magistrati e che ha agito da megafono per le calunnie dei Cinque Stelle, attacca con ira e oppone strenua resistenza contro quella che dà sempre più la sensazione di essere la fine di un’epoca nella politica italiana. Questo mese ha sbeffeggiato Mario Draghi dandogli del ragazzino viziato e ha definito la sua Ministra della Giustizia Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, come una sprovveduta che 'non sa distinguere fra un tribunale e un phon", concludono dalle colonne del NYT. Insomma, altri schiaffoni per Travaglio...  

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” l'1 agosto 2021. Dodici anni fa a Repubblica bastava un giornalista (D'Avanzo) per fare 10 domande a B.. Ieri a Repubblica si son messi in undici, direttore compreso, per non farne neanche una alla Cartabia. E riempire due pagine con le sue risposte sottovuoto spinto. Fior da fiore. 

1. "La riforma attua il principio costituzionale di ragionevole durata del processo".

La poverina pensa che, per abbreviare i processi, basti scrivere che devono durare meno e stecchirli alla scadenza. Come dire che, perché i treni arrivino in orario, basta bloccarli dopo un tot anche in aperta campagna, facendo scendere e proseguire a piedi i passeggeri.

2. "La politica si occupava delle proprie bandierine ignorando i contenuti della legge".

L'unica a ignorare la sua legge è lei, che non l'ha scritta e forse neppure letta. Dice alla Camera che la mafia non c'entra perché l'improcedibilità è esclusa per i reati da ergastolo (omicidi e stragi). Poi le spiegano che i processi di mafia non sono quasi mai di omicidio e strage, ma replica che la riforma non cambia perché l'han votata tutti. Infine Conte deve minacciare l'astensione dei ministri M5S per costringerla a escludere associazione mafiosa e voto di scambio, a triplicare da 2 a 6 la scadenza degli appelli per i reati aggravati dalla mafia e a raddoppiarla da 2 a 4 per gli altri. A proposito di "bandierine".

3. "I processi di mafia sono trattati con priorità anche per la presenza di imputati detenuti... Il pericolo di mandare in fumo i processi di mafia non c'è mai stato".

E allora come mai il procuratore nazionale antimafia, il Csm e l'Anm han detto l'opposto? Basta leggere la relazione Lattanzi cui dice di essersi ispirata: l'arretrato medio delle Corti d'appello è di 2 anni; quindi i nuovi processi, secondo il suo progetto-base, sarebbero nati in media tutti improcedibili. Raramente i processi di mafia hanno imputati detenuti (vedi Cuffaro e Dell'Utri, mai arrestati prima del giudizio): il che conferma che la ministra della Giustizia non sa di cosa parla.

4. "Abbiamo sempre ascoltato i magistrati... tant' è che il presidente dell'Anm dice che parte delle loro preoccupazioni si sono un po' allentate... I termini che abbiamo messo sono raggiungibilissimi".

Se ha ascoltato i magistrati, vuol dire che non ha capito cosa dicevano. E se sono un po' meno allarmati dai nuovi termini "raggiun gibilissimi", è perché Conte l'ha obbligata ad annullarli per i reati di mafia e a triplicarli o raddoppiarli per gli altri. Risparmiandole un surplus di figuraccia. 

5. "Si è giunti qui per via del contesto politico che conosciamo".

Sì, un contesto politico chiamato "elezioni" che lei non conosce, non avendo mai preso un voto in vita sua, e che tributò il 33% al M5S perché facesse l'opposto di quel che vuole lei. O chi per lei.

GIUSTIZIA. ECCO I PUNTI DELL’INTESA RAGGIUNTA SULLA RIFORMA CARTABIA. Il Corriere del Giorno il 30 Luglio 2021. Le nuove norme entreranno in vigore gradualmente. Previsto un regime speciale per i reati di mafia, terrorismo, droga, violenza sessuale e aggravanti mafiose. Entrata in vigore graduale delle nuove norme, per permettere agli uffici giudiziari di mettere a punto adeguate misure organizzative, anche grazie all’immissione di nuovo personale (oltre 20mila unità). E’ quanto prevede l’intesa raggiunta dal Consiglio dei Ministri sul meccanismo di prescrizione e improcedibilità inserito nella riforma del processo penale. L’accordo prevede norme transitorie fino al 2024 e un regime speciale per i reati di mafia, terrorismo, droga e violenza sessuale, nonché per le aggravanti mafiose. Questi, in sintesi, i dettagli dell’intesa raggiunta: La riforma riguarda solo i reati commessi dopo il primo gennaio 2020, entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge, ed entra in vigore gradualmente, per consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi, anche tenendo conto dell’arrivo dei 16.500 assistenti dei magistrati, previsti dall’ufficio del processo, e dei circa 5mila per il personale amministrativo.

LA NORMA TRANSITORIA FINO AL 2024

In un primo periodo i termini saranno più lunghi. Per i primi 3 anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più lunghi per tutti i processi (3 anni in Appello, 1 anno e 6 mesi in Cassazione), con possibilità di proroga fino a 4 anni in Appello (3+1 proroga) e fino a 2 anni in Cassazione (1 anno e 6 mesi + 6 mesi di proroga) per tutti i processi in via ordinaria. Ogni proroga deve essere motivata dal giudice con un’ordinanza, sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per numero delle parti. Contro l’ordinanza di proroga, sarà possibile presentare ricorso in Cassazione. Di norma, è prevista la possibilità di prorogare solo una volta il termine di durata massima del processo.

REGIME SPECIALE PER MAFIA, TERRORISMO, DROGA, VIOLENZA SESSUALE E AGGRAVANTI MAFIOSE

Solo per alcuni gravi reati è previsto un regime diverso: associazione di stampo mafioso, associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti, terrorismo e violenza sessuale. Per questi reati, non c’è un limite al numero di proroghe, che vanno però sempre motivate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo.

Per i reati con aggravante del metodo mafioso, oltre alla proroga prevista per tutti i reati, ne sono previste come possibili ulteriori due (massimo 3 anni di proroga) sia in appello che in Cassazione. Ciò significa massimo 6 anni in appello e massimo 3 anni in Cassazione nel periodo transitorio (fino al 2024) che diventano massimo 5 anni in appello e massimo 2 anni e mezzo in Cassazione a regime, ossia dal 2025. 

NO IMPROCEDIBILITA’ PER REATI PUNITI CON ERGASTOLO

I reati puniti con l’ergastolo restano esclusi dalla disciplina dell’improcedibilità.

LA NORMA A REGIME DOPO IL 2024

In appello, i processi possono durare fino a 2 anni di base, più una proroga di un anno al massimo, mentre in Cassazione un anno di base, più una proroga di sei mesi. Resta sempre diverso il ‘binario’ per i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e mafiosa, senza limiti di proroghe, ma sempre motivate dal giudice e sempre ricorribili per Cassazione. Binario diverso anche per reati con aggravante mafiosa, con massimo 2 proroghe in appello (ciascuna di un anno e sempre motivata) e massimo 2 proroghe in Cassazione (ciascuna di 6 mesi e sempre motivata). 

MONITORAGGIO SU TEMPI PROCESSI E ARRETRATO PENDENTE

Si prevede che un apposito Comitato tecnico scientifico istituito presso il Ministero della Giustizia ogni anno riferisca in ordine all’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il Comitato monitora l’andamento dei tempi nelle varie Corti d’appello e riferisce al ministero, per i provvedimenti necessari sul fronte dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi. I risultati del monitoraggio saranno trasmessi al Csm, per le valutazioni di competenza.

 Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2021. Si fa presto a dire ferie. E lo stress pre-vacanza e post-vacanza dove lo mettiamo? E allora c’è da capirli, i magistrati, poveretti. Come ha raccontato ieri “Libero”, hanno bisogno di un pe riodo di decompressione prima di staccare e di un periodo cuscinetto dopo le ferie per ammorbidire il ritorno a lavoro. Cosicché, tra cuscinetti e materassini, finiscono per accumulare 45 giorni di ferie. Un'enormità. Chissà che ne pensa un lavoratore instancabile come Vittorio Sgarbi.

Sgarbi, ieri abbiamo documentato il caso di una giudice di Varese che si prende 15 giorni cuscinetto oltre a 30 giorni di ferie. Un mese non bastava?

«È evidente che prolungarsi le ferie è un po' ridicolo, anche se la presenza in ufficio non è garanzia di buone sentenze. Un magistrato può svolgere bene la propria funzione anche in smart working». 

Il Csm legittima il prolungamento delle ferie sostenendo che è funzionale al «pieno recupero delle energie psicofisiche». Fare il pm oil giudice è un mestiere più stressante di altri?

«No, non particolarmente. Ogni mestiere fatto bene richiede impegno. Il punto è farlo bene...». 

Renzi aveva ridotto le ferie dei magistrati da 45 giorni a 30. Riprendersi quei 15 giorni è un atto politico contro di lui?

«Renzi è talmente entrato nelle attenzioni dei magistrati che, per procedere contro di lui, i giudici non hanno bisogno di ferie. Anche la celerità dei processi contro di lui, come contro Berlusconi, è sempre garantita». 

Lei ha firmato il referendum sulla giustizia. Aggiungerebbe, tra i quesiti, la richiesta che i magistrati non godano più di un periodo di ferie prolungate?

«No, perché così contraddirei un principio a cui credo: i magistrati meno lavorano, meglio fanno. Fosse per me, darei 11 mesi di ferie ai magistrati. L'unica vera tranquillità è quando non procedono». 

Nei Paesi del Nord Europa i processi sono più veloci. È l'etica protestante a portare i giudici a lavorare più celermente, laddove da noi subiscono l'indolenza dell'etica cattolica?

«In realtà questa svogliatezza dei giudici è auspicabile, perché così fanno meno danni. La loro difficoltà di arrivare al fondo di un procedimento deriva dal fatto che hanno una grande quantità di processi inutili, di cui non sanno come sbarazzarsi». 

Ma i tempi della giustizia sono lunghi anche per le troppe ferie di chi deve giudicare?

«Indubbiamente lo sono anche per questo. Ma io preferisco che i processi siano lunghi, non corti. Quando sono lunghi, sono garanzia di giustizia, perché scatta la prescrizione. Quando sono corti, sono invece garanzia che i magistrati faranno quello che vogliono». 

La riforma Cartabia servirà davvero a scongiurare lo stop alla prescrizione?

«Per certi versi ha ristabilito, dal secondo grado in poi, una prescrizione veloce, sulla base del principio che è inutile tenere in piedi molti processi. E cioè tutti quelli che riguardano reati insignificanti».

L'unica cosa che non andrà mai in prescrizione sono le vacanze dei magistrati?

«Mail vero problema non sono le ferie, è la loro mentalità. Anche se avessero meno vacanze, non lavorerebbero di più, perché invocherebbero la complessità del procedimento. Un altro problema è la discrezionalità delle loro indagini: essi non sono tenuti ad analizzare un fascicolo in un periodo ristretto. Ogni magistrato può metterci il tempo che vuole. E in questa loro libertà sta la facoltà di non fare niente». 

Lei è stato coinvolto di recente in un paio di indagini (in un caso è già stato prosciolto). C'è un accanimento dei pm contro di lei?

«No, sono solo delle idiozie determinate dall'eccesso di attività dei magistrati con le intercettazioni. Fortuna che gran parte di esse vengono subito smontate dai bravi giudici. Sono i magistrati dell'accusa a lavorare male, mentre i gup possono essere persone intelligenti».

Quale quadro rappresenta di più l'ozio dei magistrati e le lungaggini dei processi? «Cristo dodicenne tra i dottori di Dürer: vi si vedono giochi di mani che rappresentano bene il cavillare dei giudici». 

Se Dio fosse un magistrato italiano, ritarderebbe il Giudizio Universale per prendersi le ferie?

«Sì, lo sospenderebbe e direbbe: "C'è tempo per il Giudizio Universale, meglio rimandarlo"». 

Troppe norme da interpretare. Tagliare le leggi inutili: ecco la vera riforma che serve alla giustizia. Paolo Itri su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Secondo il Poligrafico dello Stato, gli atti normativi pubblicati in Gazzetta Ufficiale sono circa 111mila (il dato è ampiamente sottostimato, in quanto non tiene conto delle legislazioni regionali). La bulimia del legislatore si traduce in una enorme quantità di leggi e spesso queste leggi, proprio perché così numerose e complicate, entrano in contraddizione con altre leggi e con altre norme, fino a creare un coacervo inestricabile anche per i più esperti giuristi. A volte leggere o interpretare un testo di legge è un’opera faticosissima. Non vi è comma o articolo di legge che non rinvii a un diverso comma di un altro articolo di una ulteriore legge e così via, fino a quando, a forza di rinvii su rinvii, non si finisce per dimenticare da dove si è iniziato e che cosa si stesse cercando. Il risultato è che spesso il significato di una norma è talmente criptico da risultare incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Bizantinismi di ogni genere e incertezze interpretative finiscono per alimentare la libidine di burocrati e azzeccagarbugli, con grave danno per la certezza del diritto e la prevedibilità delle sentenze. La complessità della macchina burocratica nel nostro Paese è tale da non poter essere affrontata con un unico intervento riformatore, poiché riformare la giustizia in Italia significa dover affrontare complesse questioni normative, ma prima di tutto culturali, sociali e finanche psicologiche. La prima domanda che ci si dovrebbe pertanto porre è la seguente: ma siamo proprio certi che tutte queste leggi siano veramente utili e necessarie? Partiamo da un dato di fondo. Secondo i dati Istat, dal 1992 al 2020 gli indennizzati per ingiusta detenzione sono stati circa 30mila, con una spesa a carico del contribuente pari a 870 milioni di euro. La media annua dei risarcimenti liquidati supera i 27 milioni di euro, anche se nel solo 2020 ne sono stati spesi quasi 37 (record assoluto). Ma quali sono le cause di una situazione così grave? E perché la politica – che pure in tutti questi anni non ha mai esitato a intervenire a gamba tesa sul processo penale ogni qualvolta se ne è presentato il pretesto – non vuole o non è in grado di risolvere il problema? Lo spiega bene per noi uno dei più grandi scrittori del Novecento, Franz Kafka, nel suo capolavoro Il Processo, scritto tra il 1914 e il 1915, attraverso l’angosciante storia del protagonista, Joseph K. Quest’ultimo è un impiegato bancario che, trovatosi coinvolto in un processo per quello che si illude sia un semplice malinteso, tenta inizialmente di affrontare il problema con la logica del buon senso e il sano pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro. Ben presto, però, si troverà ad affrontare una macchina processuale infernale, i cui insondabili e oscuri meccanismi finiranno per travolgerlo fino alla morte. Ecco allora che la burocrazia, l’ipertrofia normativa e il panpenalismo – in una parola, la mancanza di regole semplici, trasparenti e comprensibili – diventano uno strumento di potere in mano alle classi dominanti e ai “sacerdoti” del diritto. Non sarà un caso se, in tempi di pandemia e dpcm – in un’epoca cioè in cui l’Autorità sanitaria avverte particolarmente la necessità di disciplinare ogni più minuto aspetto della vita quotidiana dell’individuo -, si sia osservata una particolare propensione del legislatore (o di chi per esso) a emanare norme “per elenchi” di condotte, laddove la pretesa di imporre ai cittadini finanche il colore dei calzini da indossare non ha prodotto che ulteriori incertezze interpretative e ancor minore chiarezza. Più o meno lo stesso fenomeno che è alla base della “paura della firma” che assale il pubblico ufficiale quando, al momento di siglare un atto del suo ufficio, cerca di districarsi tra ingarbugliati coacervi di norme, alla ricerca dell’interpretazione più corretta e meno foriera di indesiderate complicanze giudiziarie. Paolo Itri

Giustizia, troppe esistenze stropicciate prima di sapere di non aver commesso il fatto. La legge deve essere uguale per tutti a cominciare dai magistrati per i quali spesso si fanno eccezioni. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 20 luglio 2021. Credo che sia giunto il tempo che venga modificata o corretta quella storica frase che campeggia su tutte le aule di giustizia dei tribunali italiani che dice “La Legge è Uguale per Tutti”. Perché così non è, o almeno gran parte degli italiani, non ci crede più, e da tempo. Perché? Perché la Legge non è proprio uguale per tutti. Soprattutto per i magistrati, non per tutti, per carità, e quello che sta accadendo in questi giorni ce lo dimostra, e che ci sia la necessità di una riforma della giustizia è auspicata dalla maggioranza degli italiani. Una riforma che faccia veramente giustizia per tutti e non soltanto per pochi eletti. Non è possibile, per esempio, che il Csm, Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati, chieda che le sentenze del Tar (Tribunali Amministrativi Regionali) o quelle del CGA (Consiglio di Giustizia Amministrativa), valgono per tutti ma non valgono se riguardano sentenze che coinvolgono magistrati, come quelle sulle nomine in varie procure (come la Procura di Roma per esempio), contestate dagli aspiranti procuratori. Ed allora, che senso ha tenere in vita questi organismi (Tar e Cga) le cui sentenze valgono per tutti i comuni mortali e non per i magistrati? Meglio abolirli, altrimenti la giustizia non è “Uguale per tutti”. Una riforma equilibrata della giustizia (che sta facendo litigare la politica e che mina l’attuale maggioranza inedita di Governo) è purtroppo necessaria perché non è possibile che la maggioranza dei processi abbiano una durata infinita, che un cittadino qualunque che finisce nella gabbia della giustizia debba attendere anni per sapere se è innocente o meno e che nell’ attesa della sentenza la sua vita è ormai distrutta, la sua carriera anche, la serenità della sua famiglia pure. E nessuno paga, soprattutto quei pm che li hanno “condannati” prima ancora di una sentenza, che spesso si conclude con una assoluzione per “non avere commesso il fatto”. L’elenco di queste assoluzioni è purtroppo lunghissimo, l’ultimo, in ordine di tempo, quella dell’assoluzione di Gioacchino Gabbuti, già amministratore delegato di Atac negli anni 2005 -2013, accusato di peculato, un processo celebrato dinnanzi al Tribunale di Roma. Che è stato assolto perché il fatto non sussiste. Chi lo risarcirà. Chi pagherà per questa storia che ha rovinato un cittadino qualunque? Nessuno. Perché nonostante precedenti referendum che avevano affermato la responsabilità di quei magistrati che avevano arrestato o condannato ingiustamente un cittadino innocente, nessun magistrato è stato mai ritenuto responsabile. Ma i magistrati sono infallibili? No, come tutti i comuni mortali, ma loro, raramente pagano gli errori, anche in buona fede, che avrebbero fatto. Per esempio, perché in tutte le professioni, soprattutto quelle pubbliche, sono previsti i test psico-attitudinali? Un agente penitenziario, un carabiniere, un poliziotto, un finanziere o qualunque altro, prima di assumere l’incarico, deve superare questo test. Per i magistrati, invece, il test non è previsto. Perché se vinci il concorso per magistrato, sei superiore a tutti gli altri comuni mortali. E sappiamo che in qualunque categoria qualche persona “strana” c’è sempre ed è gravissimo se tra queste ci sia qualcuno che decida sulla tua vita. Un tema, quello della riforma della giustizia, che in questi giorni viene dibattuto animatamente, a torto o ragione, nei vari partiti della maggioranza. Ieri c’è stato un incontro tra il nuovo leader dei 5Stelle Conte ed il premier Draghi. Conte, sulla riforma della giustizia torna a chiedere miglioramenti, ma senza affondi che facciano temere per la tenuta dell’esecutivo da qui in avanti. E da Palazzo Chigi trapela che sì, qualche aggiustamento tecnico ci sarà – come peraltro già previsto nel tumultuoso Cdm che due settimane fa ha dato il disco verde alla riforma Cartabia – ma senza stravolgimenti del testo. La riforma dovrebbe restare pressoché blindata. Anche perché, viene osservato, dare spazio a modifiche significative vorrebbe dire aprire un nuovo fronte tra gli alleati di governo, con Fi e Lega pronti ad alzare la posta. I tempi stringono, Bruxelles ci osserva. Ma qualche modifica, per superare il terremoto che la riforma ha generato all’interno del Movimento 5 Stelle, con gli attivisti pronti a scendere in piazza mercoledì prossimo, dovrà esserci. E potrebbe ad esempio passare, osserva un ministro di peso all’agenzia Adnkronos, da un’estensione della lista dei reati per cui sono previsti tempi processuali più lunghi, come ottenuto dal Movimento per corruzione e concussione. Del resto di fiducia, assicura Conte al temine dell’incontro con Draghi, non si è parlato, bensì “di eventuali interventi che possano migliorare il testo”. Al premier, spiega il leader in pectore dei 5 Stelle Conte, “ho assicurato un contributo attento e costruttivo del M5S. Il Movimento si era già distinto e aveva lavorato per l’accelerazione dei processi e anche in Parlamento darà un contributo per migliorare e velocizzare i processi. Ma a Draghi ho ribadito che saremo molto vigili nello scongiurare che non si creino soglie di impunità”. Insomma la partita sulla riforma della giustizia è ancora aperta.

Stop allo scandalo delle indagini svolte di nascosto. Nella riforma un freno agli abusi. Luca Fazzo il 17 Luglio 2021 su Il Giornale. Non si potrà ritardare all'infinito l'apertura formale dell'inchiesta. I magistrati si sono battuti per annacquare al massimo il testo finale. Basta con lo scandalo delle inchieste fatte di nascosto, scavando per mesi e mesi su un obiettivo senza neanche iscriverlo nel registro degli indagati, violando il suo diritto alla difesa e allungando a dismisura la durata del fascicolo: come accadde per Silvio Berlusconi, Roberto Formigoni, Raffaele Fitto e altri personaggi eccellenti, ma anche per cittadini qualunque accusati di ogni genere di reati. Nella riforma che il ministro della Giustizia Marta Cartabia porterà all'esame del Parlamento ci sono anche le norme destinate a mettere freno a una delle peggiori abitudini delle Procure della Repubblica: quella di ritardare all'infinito la apertura formale dell'indagine, per tenersi le mani libere e lavorare senza troppi controlli. Per ottenere questo risultato, la Cartabia ha dovuto scontrarsi con le resistenze dei magistrati, e il testo finale è meno netto e severo di quanto doveva essere inizialmente. Ma un passo decisivo è stato compiuto. Il codice di procedura penale prevede che l'iscrizione nel registro degli indagati avvenga «senza indugio» appena emergono a carico di un soggetto elementi che fanno ipotizzare un reato. Da quel momento iniziano a decorrere i sei mesi di durata delle indagini preliminari, che possono essere prorogati più volte: ma avvisando l'indagato dell'inchiesta in corso. È una garanzia elementare per impedire che chiunque possa essere tenuto nel mirino a sua insaputa all'infinito. Ma sono innumerevoli i casi in cui le Procure aggirano l'obbligo: iscrivendo solo i complici, fingendo che l'inchiesta sia a carico di ignoti, o addirittura parcheggiando il fascicolo nel limbo del «modello 45», il registro delle notizie «non costituenti reato»: pronte a tirarlo fuori al momento opportuno, e con le prove già raccolte con tutta calma contro quello che era fin dall'inizio il bersaglio designato. Finora, l'unica sanzione a carico dei pm per avere violato quest'obbligo era una sanzione disciplinare: che poi spesso nemmeno veniva irrogata, perchè il Csm in linea di massima perdonava i colleghi incolpati. Nel 2010 a Bari il consigliere regionale Salvatore «Tato» Greco denunciò di essere stato indagato per otto anni e mezzo senza mai venire iscritto. Il pubblico ministero titolare del fascicolo finì sotto procedimento disciplinare ma venne prosciolto dal Csm, di cui peraltro lui stesso faceva parte. Tato Greco fu poi assolto. Nella «commissione Lattanzi», il gruppo di studio creato dalla ministra Cartabia per preparare la riforma, la proposta avanzata da avvocati e docenti universitari contro questa patologia giudiziaria era semplice: in caso di accertato ritardo, l'iscrizione viene retrodatata, i sei mesi di indagini si calcolano dalla nuova data, e tutti gli atti di indagine compiuti successivamente alla scadenza diventano inutilizzabili. Un rimedio formidabile contro gli abusi. Ma la componente di magistrati della commissione Lattanzi si è battuta per annacquare il testo, proprio per evitare troppi lacci alla libertà d'azione dei pubblici ministeri. Il testo definitivo approvato in Consiglio dei ministri e inviato alla Camera risente delle pressioni delle toghe: la retrodatazione avverrà solo «in caso di ingiustificato ed inequivocabile ritardo» nella iscrizione dell'indagato nel registro della Procura; inoltre al difensore dell'indagato (a differenza che ai pm...) vengono imposti termini rigidi per sollevare l'obiezione e «l'onere di indicare le ragioni che sorreggono la richiesta». É chiaro che i due aggettivi inseriti nel testo per cui il ritardo per essere sanzionato deve essere «ingiustificato ed inequivocabile» verranno interpretati nel modo più restrittivo possibile, ed impiegati dai pubblici ministeri per mantenersi la maggiore libertà di azione. Resta il fatto che all'arbitrio attuale l'intervento della Cartabia mette finalmente un freno che potrebbe rivelarsi decisivo. (La Procura di Milano iscrisse Silvio Berlusconi nel registro degli indagati per il caso Ruby il 21 dicembre 2010, cinque mesi dopo avere iniziato a indagare su di lui. Grazie al ritardo nell'iscrizione, la Procura potè chiedere per il Cavaliere il processo immediato. Nessuno è stato mai sottoposto a procedimento disciplinare)

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Giustizia, i giudici non sono più il contropotere italiano. Ilvo Diamanti su La Repubblica il 12 luglio 2021. L'atteggiamento verso le toghe riflette il sentimento politico e anti-politico. Oggi consensi ai minimi. In un sondaggio recente condotto da Demos per Repubblica, circa 4 italiani su 10, per la precisione: il 36%, esprimono fiducia verso la magistratura. Si tratta di una misura analoga a quella rilevata negli ultimi 10 anni. Con variazioni, talora, sensibili. Di segno positivo, in alcuni anni. E opposte, in altri momenti. Peraltro, nelle indagini sul rapporto fra "Gli Italiani e lo Stato", che conduciamo da oltre vent'anni, il consenso verso la Magistratura, anche di recente, risulta superiore rispetto alle principali istituzioni e ai principali soggetti politici.

Italiani senza fiducia: toghe non indipendenti. Vittorio Macioce il 9 Luglio 2021 su Il Giornale. Sondaggio rilanciato dalla Ue: solo quattro Paesi del vecchio blocco comunista messi peggio di noi. È difficile ormai non vedere l'elefante nella stanza. È lento, scorbutico, permaloso, fiacco, bizantino e a quanto pare poco affidabile. Non lo riconosce solo chi lo considera una sorta di divinità, sacro e intoccabile. Il pachiderma è la giustizia italiana. È lì, come una questione irrisolta, come se il solo indicarlo fosse blasfemia. Adesso però non si può fare davvero più finta di nulla. L'elefante è malato. Lo raccontano le storie di correnti e favori di Palamara. Lo dicono le statistiche sulla lunghezza dei processi. Lo sostiene il governo Draghi, che considera la riforma del ministro Cartabia uno dei punti irrinunciabili della sua azione politica. Lo certifica l'Europa, che invita l'Italia a fare qualcosa. C'è una relazione della Commissione Ue che assomiglia a una condanna. Non c'è giustizia se i processi durano una vita. Non puoi lasciare un imputato in attesa di una sentenza per anni. Non è facile investire su un Paese dove le cause civili, commerciali e amministrative finiscono quando magari l'azienda è già fallita. Ci vogliono 400 giorni per il primo grado, 500 per l'appello e 1300 per l'ultimo. È così da nove anni. Siamo gli ultimi in Europa per quanto riguarda la sentenza definitiva. Malta, che è penultima, ci mette la metà del tempo. I magistrati godranno almeno di buona reputazione. Non è così. Il rapporto Ue cita un sondaggio di Eurobarometro. È di quest'anno. Quanto vi fidate dei giudici? Gli italiani non molto. Siamo al quintultimo posto in questa particolare classifica, peggio di noi Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Tutti Paesi ex comunisti, ma forse è solo un caso. Il motivo per cui siamo scettici è ancora più inquietante: gli italiani sospettano che giudici e pubblici ministeri siano sottoposti a pressioni e interferenze di politici o gruppi economici. Non è detto che sia davvero così, ma questa è una percezione diffusa. È comunque un segnale di malessere. Se una comunità non crede nell'indipendenza della magistratura lo Stato di diritto perde legittimità. È fragile. È dissacrato. Questo apre una delle questioni referendarie aperte da Radicali e Lega. È la separazione delle carriere tra pm e giudici. Ne parla Didier Reynders, commissario europeo sulla Giustizia. Non è un tabù. La proposta non viene bocciata, ma andrebbe integrata con una riforma strutturale. «È necessario aumentare il numero dei giudici». L'Italia, anche in questo caso, è l'ultima in Europa. La spesa è in media con gli altri Stati, solo che da noi c'è una carenza ormai storica di magistrati. L'Europa ci invita a risolvere il problema in tempi stretti. I Cinque Stelle restano i più scettici sulla riforma, ma arriveranno a un compromesso con Draghi. Enrico Letta si è finalmente pronunciato: «Dopo 30 anni questa è la volta buona». È molto più cauto il presidente dell'associazione nazionale magistrati. Giuseppe Santalucia, durante Radio anch'io, sulla Rai, si dichiara un po' perplesso sulla riforma della prescrizione. Un anno per il giudizio di appello e due per la Cassazione li ritiene troppo brevi. La bocciatura dei referendum è invece netta. Non ci sono sfumature: «Non comprendo perché farli nel momento in cui il governo ha messo su un cantiere così ricco di riforme». Il timore dell'Anm è che il referendum finisca per essere un voto contro l'affidabilità della magistratura. È una paura che dice molto. È il segno che l'elefante adesso è lì e sta diventando difficile per tutti ignorarlo. La giustizia è palesemente un caso politico. Vittorio Macioce

Referendum sulla Giustizia, Lega e Radicali avviano raccolta firme. tg24.sky.it il 02 luglio 2021. Sono sei i quesiti che i due partiti vogliono portare in cabina elettorale: la riforma del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione del decreto Severino. Parte oggi la campagna di raccolta firme della Lega per i referendum sulla giustizia. Appuntamento fino a domenica con 1.200 gazebo in altrettante piazze da Nord a Sud e in tutti i municipi d'Italia. Sono sei i quesiti che Lega e radicali vogliono portare in cabina elettorale: la riforma del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione del decreto Severino. Rispetto alla posizione della Lega, una delle forze di maggioranza del governo Draghi, Salvini ha chiarito che dà pieno sostegno alle riforme di Draghi e Cartabia, “ma i cittadini potranno dare una bella spinta" e ha poi definito questa campagna referendaria "una pacifica rivoluzione”, che potrà “fare, dopo 30 anni, quello che non ha fatto la politica in Parlamento". "Penso che ci sarà un'adesione straordinaria. Sono referendum che stimolano il Parlamento a fare la riforma della giustizia. Se il Parlamento non la farà, ci penseranno i cittadini italiani, nella primavera prossima. Sarà un aiuto - ha aggiunto Salvini - al ministro Cartabia e al governo per chiedere di accelerare. E' uno strumento per liberare magistratura dalle correnti e dalla politica". Da inizio giugno, quando Lega e radicali, rappresentati da Matteo Salvini e Maurizio Turco, hanno depositato i sei quesiti in Cassazione, il leader del Carroccio ha lavorato per trovare l'appoggio del centrodestra di governo, incassando lunedì scorso l'ok ai referendum del coordinatore azzurro Antonio Tajani, che ha assicurato che il suo partito aiuterà anche per la raccolta delle firme. Anche l’Udc ha garantito il suo sostegno mentre con Fdi il cammino è più tortuoso perché mancherebbe la condivisione di tutti e sei i quesiti così come sono formulati. Il partito di Giorgia Meloni non è d’accordo, per esempio, con le modifiche alla custodia cautelare, nel caso di reiterazione di reato, di favorire ad esempio gli spacciatori.

REFERENDUM. Giustizia, Lega e Radicali lanciano i sei referendum. Salvini: "Obiettivo: un milione di firme". E cita Gaber: "Libertà è partecipazione". Il leader del Carroccio presenta i sei quesiti che verranno depositati alla Corte di cassazione il 3 giugno e che "gli italiani potranno sottoscrivere dal 2 luglio in tutta Italia". E fa un appello a tutte le forze politiche: "Spero che si abbattano le divisioni". Il segretario del Pr Maurizio Turco: "Inizia un processo per riallineare la giustizia alla Costituzione". La Repubblica l'1 giugno 2021.  

Appello bipartisan lanciato in diretta sui social da Matteo Salvini a tutte le forze politiche a raccogliere le firme "dal 2 al 4 luglio" sui sei referendum sulla giustizia promossi dal Partito radicale e dalla Lega e che verranno depositati alla Corte di cassazione il 3 giugno. ''Dal 2 luglio in poi, tutte le forze politiche, da Fi a Fdi al Pd, ai Cinque stelle, tutti possono darci la possibilità di cambiamento'' sulla giustizia - ha commentato il leader del Carroccio - Abbiamo raccolto lo stimolo del Partito Radicale, che guarda al popolo e non ai salotti. Questo è un invito, uno stimolo al governo e al Parlamento. Diamo la parola al popolo, qui sceglie davvero il popolo. Questa non è una raccolta firme per i referendum sulla giustizia contro i magistrati...", ha aggiunto. I sei quesiti sono stati presentati durante la conferenza stampa nella sede del partito Radicale e riguardano: elezioni del Csm, responsabilità diretta dei magistrati, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere dei magistrati, limiti agli abusi della custodia cautelare, abolizione della legge Severino. "Sono onorato di stare qui. Ci saranno articolesse di persone indignate, ma quando si dà la parola al popolo c'è poco da fare e dire... A me piacciono gli obiettivi ambiziosi. L'obiettivo non è 500mila firme ma almeno un milione, che per sei quesiti fa sei milioni. Vorrei che davvero la legge fosse uguale per tutti. Oggi l'impressione è che non sia così. Questo referendum è un aiuto e uno stimolo al governo e al Parlamento e chi pensa che questo sia un problema significa che ha un problema - ha detto ancora Salvini durante la presentazione dei sei referendum sulla giustizia - Io credo che i referendum siano la più bella democratica trasparente e partecipata forma di democrazia diretta. Cito Giorgio Gaber: libertà è partecipazione... Quindi stiamo preparando il primo week end di partecipazione, il 2-3-4 luglio". In quei giorni ci saranno gazebo in piazza e "l'obiettivo è avere almeno 3000 banchetti per la raccolta firme in tutta Italia: se in quella giornata si raccolgono la metà delle firme necessarie quindi 250 mila firme vuole dire che la gente è pronta. Poi per fortuna Radio radicale ha una certa esperienza e si sente ovunque, quasi quanto Radio Maria", ha osservato Salvini. Poi ha ribadito: "Non è un referendum contro i magistrati ma con la magistratura e con la parte sana della giustizia, che è il 99 per cento. Non è un referendum contro nessuno ma per migliorare e penso ci saranno adesioni bipartisan. Mi hanno scritto esponenti del Pd e anche dei 5 Stelle che mi hanno detto: 'A titolo personale firmerò'. Spero che si abbattano le divisioni politiche". Per il segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco, "questa non è l'ennesima campagna referendaria non solo perché c'è una grande forza politica che vi partecipa insieme al Partito Radicale, ma anche perché c'è una grande forza politica presente in Parlamento a difesa della volontà popolare. Con questi referendum stiamo dicendo basta a quella politica che a cominciare dagli anni '90 è venuta meno ai propri obblighi cedendo quote di potere alla magistratura". Nel corso della conferenza stampa di presentazione dei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito Radicale, Turco ha aggiunto: "Noi siamo sempre stati per lo Stato di diritto e per la giustizia, con questi referendum inizia un processo per riallineare la giustizia alla Costituzione. Questo per noi è un momento storico, la riforma della giustizia è un percorso che parte con questi referendum, ma non si ferma con questi referendum. Andiamo verso una primavera di liberazione da sistema che ha condannato tanta, troppa gente innocente ad anni di galera e poi ha dovuto lottare per farselo riconoscere".

Quel “miracolo” Radicale che è riuscito a convertire anche Salvini. Gianpaolo Catanzariti Avvocato – Partito Radicale NTT  su Il Dubbio-Il Riformista l'8-9 luglio 2021. A sentire i senatori leghisti parlare di "strapotere giudiziario", ma soprattutto di carcere "estremamente afflittivo” e “non sempre necessario”, si capisce il passaggio rivoluzionario: dallo scandalo radicale, al miracolo radicale. A Milano per lavoro ancora per qualche giorno, decido di andare al Palazzo delle Stelline, per assistere alla manifestazione sui referendum promossa dalla Lega a Milano. Presenti il senatore Siri (Lega), Irene Testa (Partito Radicale), il professor Guzzetta, l’ex procuratore Nordio e il professor Becchi. Partecipazione notevole e attenta in sala (piena ed erano le 21 e sino alle 22.30) mentre fuori si firma continuamente. Sono molto perplesso e titubante, come sempre, quando ascolto rappresentanti di forze politiche secondo cui “si deve marcire in carcere” perché si deve “buttare la chiave” o che “in carcere si sta troppo bene” o che “è il più sicuro” e giù di lì…e lo sono ancor di più perché non riesco a controllare l’irrequietezza viscerale che mi attraversa ogni volta che ascolto simili baggianate. Ascolto timoroso mentre prende la parola Siri. Ed ecco ‘o miracolo, direbbero a Napoli…non di San Gennaro, ma di “Santo Pannella”. Dal podio il senatore leghista (segreteria nazionale) si lancia in una filippica contro lo strapotere giudiziario, ma soprattutto contro il carcere che oggi così come è non va perché “è estremamente afflittivo” e “non sempre è necessario” insomma si teorizza il carcere come extrema ratio e soprattutto il venir meno dello Stato di diritto. I nostri referendum saranno un messaggio dirompente per un sistema ed un parlamento che non farà mai quelle riforme (testuale). Capite, allora, il passaggio rivoluzionario: dallo scandalo radicale, al miracolo radicale. Siamo andati oltre lo scandalo. Sentire parlare, due mondi sideralmente distanti, la stessa lingua su obiettivi comuni dinanzi ad una platea che, in silenzio, ha ascoltato e applaudito quegli argomenti – quella stessa platea che magari ascolta in tv da Giletti con la bava alla bocca che il carcere deve essere estremamente punitivo – fa tremare “le vene e i polsi”. E allora, saranno traditi i referendum? Salvini giocherà a fare il furbetto gettando a mare milioni di firme (i primi segnali diffusi sul territorio dimostrano che potrebbero essere davvero vicino al milione)? Non ci credo! E quand’anche dovesse succedere, ne è valsa la pena e ne varrà per parlare con i cittadini sino a settembre di tutto ciò…per arrivare a dire loro messaggi dal profondo significato civile e politico su cui difficilmente, senza i referendum, verremmo ascoltati. Gianpaolo Catanzariti Avvocato – Partito Radicale NTT

Giustizia e giustizialisti, una riforma non basta. Firmato Cicchitto. Di Fabrizio Cicchitto il 12/07/2021 su formiche.net. La riforma della Giustizia di Marta Cartabia mette un freno alla marea giustizialista iniziata con Tangentopoli. I giustizialisti, però, sono ancora lì e in forze più che mai, dopo che Conte ha vinto la sfida interna al Movimento. Draghi farebbe bene a preoccuparsi. Il corsivo di Fabrizio Cicchitto. La riforma Cartabia blocca una tendenza efferata fondata su un giustizialismo esasperato e cieco iniziata con Mani Pulite nel ’92-’94 che è proseguita dopo il ’94 contro Silvio Berlusconi e successivamente ha investito tutti, compreso personalità del Pd. In questo sistema già efferato di per sé poi il ministro Bonafede, una singolare figura di avvocato ultragiustizialista, ha innestato quella bomba atomica di cui ha parlato la senatrice Bongiorno, che sostanzialmente si risolveva nel processo a vita (e che processi, da quello contro Mannino durato 30 anni prima dell’assoluzione, a quello contro Alemanno durato 7 che però ha comportato anche la distruzione della Capitale d’Italia sotto lo slogan Mafia Capitale con vicende giuridiche che paradossalmente riproducevano ex post narrazioni romanzate, tipo Romanzo Criminale, con il nero Carminati che ha svolto la funzione di connessione fra la fantasia e una realtà del tutto forzata). Nel frattempo, però, è avvenuta un’altra cosa e cioè che la magistratura, anzi ad essere più precisi, la magistratura associata (ANM, CSM, correnti di sinistra, di centro, di destra) prima ha fatto il pieno del potere, compreso il potere politico distruggendo i partiti esistenti o sottomettendoli, e poi è implosa per le sue contraddizioni interne e anche perché non sa di casa dove sta la politica intesa nel senso alto e anche medio del termine: tutto si svolgeva nei bassifondi. Per di più a questo punto l’Europa si è accorta che l’Italia è un Paese poco raccomandabile sia per la sua giustizia civile, sia per la sua giustizia penale e anche per la perversità del suo sistema carcerario: di qui per un verso la fuga degli investimenti esteri e per un altro verso il condizionamento di 200 miliardi di euro alla normalizzazione del nostro sistema giudiziario. Ciò è capitato in altri termini un’altra volta nella storia d’Italia prima dell’unità, ma come spinta ad essa nei confronti dei Borboni. Allora, allo stato attuale la riforma Cartabia è il minimo che si può realizzare per tamponare e normalizzare una situazione che è sfuggita di mano. Per altro verso una serie di questioni, in primo luogo lo sdoppiamento delle carriere e dei Csm, non è nella riforma, ma viene affrontata fortunatamente dai 6 referendum presentati dai radicali con il sostegno della Lega. A nostro avviso, anche chi, come il sottoscritto, non condivide molte delle posizioni politiche di Salvini deve comunque firmare i referendum. Storicamente sempre i referendum sono stati un punto di incontro fra posizioni politiche molto diverse: casomai sono i laici, i socialisti, i cattolici, gente di destra e di sinistra che devono ritrovarsi nel garantismo, superare i loro ritardi e quindi firmare i referendum. Le cose però non si fermano qui. Già prima di questa vicenda nel Movimento 5 Stelle era in corso uno scontro senza esclusione di colpi che aveva per oggetto il potere, il potere dei due leader maximi, Grillo e Conte. Per un movimento fondato sul principio “uno vale uno” una autosmentita clamorosa, ma le smentite non si sono fermate qui. Un movimento che negava in via di principio la coalizione, l’alleanza, il compromesso invece ha fatto parte di tre governi di segno opposto, quello con la Lega, quello con il PD e LeU e quello, presidente il banchiere Draghi, con dentro addirittura Berlusconi e Forza Italia. Il M5S ha fatto tutto ciò sia perché una parte di esso si è reso conto che non si potevano fare follie in un paese con la pandemia e con la recessione, sia perché tutti volevano salvare il tesoro costituito di più di 300 parlamentari. Adesso però lo scontro politico e di potere riesplode sulla riforma Cartabia e qui arriva l’ora della verità indipendentemente dal compromesso realizzato nella giornata di ieri, che per un verso sembra appiccicato con lo scotch, per altro verso imposto dall’esigenza di evitare la deflagrazione che si tradurrebbe alle prossime elezioni in una sorta di strage “degli innocenti e dei non innocenti”. Al di là di tutte le invenzioni di questi anni, il Movimento Cinque Stelle comprende un nocciolo duro reazionario fondato sul Fatto di Travaglio e su alcuni magistrati, in primo luogo Davigo. In secondo luogo, sta emergendo tutta la doppiezza politica impersonata dall’avv. Conte. Prima che Renzi, facendo un servizio all’Italia, provocasse la crisi del governo Conte aveva tentato di conquistare i pieni poteri nella gestione della politica sanitaria (Arcuri), nei servizi (Vecchione), nella stessa elaborazione e gestione del Recovery Plan, per non parlare della politica estera. Conte aveva stabilito rapporti preferenziali con pezzi della vecchia ditta comunista (da Bettini a D’Alema) e a livello internazionale con una sorta di compagnia della buona morte che andava da Trump, a Putin, alla stessa Cina. Oggi per Conte da un lato Draghi è l’usurpatore (basta leggere tre quarti del Fatto dedicati ossessivamente solo a questo tema), per altro verso la linea di Draghi di stampo europeista, filo Usa versione Biden, riformista e garantista è inaccettabile per l’ex premier. Allora al di là dei termini tuttora non chiari del compromesso realizzato fra i due leader maximi prima o poi l’obiettivo di Conte è quello di far cadere il governo Draghi. Irresponsabilità allo stato puro perché oggi, per come sono combinate le cose, o l’Italia ha un governo presieduto da Draghi o va rapidamente verso il disastro. Anche dopo il semestre bianco le cose non si fermano rispetto alle società di rating e agli spread. Tutto ciò però riguarda anche le altre forze politiche. Il PD e in esso, in primo luogo, Enrico Letta si ritrova in una situazione assai imbarazzante per il credito dato al Movimento 5 stelle e in esso proprio a Conte. Sull’altro versante però anche Salvini si deve dare una regolata. Non può da un lato stare nel governo Draghi e addirittura sostenerlo di fronte agli scarti e ai progetti di assassinio politico del trio Conte-Travaglio-Casalino e dall’altro lato andarsi a collegare non con la destra del PPE (in primis Weber), ma con il peggio del sovranismo europeo, da Orban ai polacchi, che per di più non ci aiuta né nella gestione delle quote d’immigrazione, né tantomeno sulla politica economica. Infine, la riforma Cartabia sta aprendo un’altra questione dal lato magistratura. A Milano i processi saltano per prescrizione per il 4%, a Napoli per il 24%. I processi di secondo grado durano in molte sedi meno di due anni, ma in alcune quattro o addirittura cinque. C’è un problema di efficienza, di produttività, di impegno lavorativo da parte dei magistrati al di là delle differenze politiche e culturali. Alcuni magistrati reputano di poter fare tutto quello che vogliono anche per quello che riguarda la qualità e i tempi del loro lavoro, tanto non c’è nessuna valutazione professionale reale ed effettiva. Poi non c’è dubbio che comunque occorrono investimenti rilevanti in termini di occupati e in termini tecnologici, ma tutte le cose sono connesse alla luce di cifre così divaricate. In sostanza per la magistratura italiana è arrivata l’ora della verità da tutti i punti di vista. Lo straordinario successo del libro di Palamara e Sallusti Il sistema dice che è finita l’epoca nella quale c’erano migliaia di persone che gridavano: Di Pietro facci sognare. Anche perché questo sogno si è tradotto in un incubo. 

Gaffe del leader della Lega che chiede "pene doppie per i piromani" mentre invita a firmare i referendum sulla giustizia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 agosto 2021. È un po’ come presentarsi al festival del cibo vegano con una braciola di maiale in tasca, o indossare la sciarpa della Lazio in curva sud. Ma l’eclettico Matteo Salvini non teme questi contrasti e, come il gatto di Schroedinger, sa essere allo stesso tempo garantista e forcaiolo. È una dialettica tutta sua, riempita da esempi spassosi. L’ultimo in ordine di tempo in Calabria, provincia di Cosenza, dove il leader della Lega ha partecipato a un’iniziativa a favore dei referendum sulla giustizia. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, abolizione della legge Severino, disquisendo di quei quesiti che puntano a restituire un po’ di garanzie democratiche al nostro sistema giudiziario, Salvini a un certo punto è stato sollecitato dai giornalisti che gli hanno chiesto un parere sugli incendi che stanno divorando il sud Italia. Ottenendo un commento di disarmante sincerità: «Voglio vedere questa gente in galera, sono assassini, quindi per i promani non ci deve essere scampo e la Lega propone il raddoppio delle pene per chi distrugge». Forse il “capitano” non si è reso conto del pulpito dal quale parlava o forse è stato colto di sorpresa e a risposto d’istinto, da ruspante giustizialista della prima ora. Con lo Stato di diritto che si applica a geometria variabile: prigione per i migranti clandestini e presunzione di innocenza per gli esponenti della Lega. Insomma il solito garantismo della destra italiana.

L’altolà di Salvini: “Cari Draghi e Cartabia, le carceri non si svuotano…”. Non bastavano le difficoltà sulla riforma del processo penale. Per il leader della Lega ricorrere alle pene alternative equivale a liberare le galere «con un colpo di spugna». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 luglio 2021. «Diciamo che ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sul rafforzare la formazione professionale e il lavoro ci sta, svuotare le carceri con colpi di spugna no»: il giorno dopo le parole della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a Santa Maria Capua Vetere   – «la pena non è solo carcere» – arriva l’altolà di uno degli azionisti di maggioranza del Governo, il leader della Lega Matteo Salvini. Prevedibile reazione da chi per anni ha cercato consenso con slogan quali “buttare la chiave” e “devono marcire in carcere”. Ma qualcosa nella Lega è già cambiata se insieme al Partito Radicale sta promuovendo un quesito referendario per limitare l’abuso della custodia cautelare. Lo ricorda al Dubbio la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando: «Il Pd ha chiesto in Senato una commissione d’inchiesta sui fatti di violenza nelle carceri, perché è necessario sapere e conoscere per intervenire. In ogni caso noi ovviamente insistiamo perché venga approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario che avevamo fatto partire alla fine della scorsa legislatura e i fatti dimostrano che c’è un assolutamente urgenza da questo punto di vista. Considerato poi che alcune forze che sono in maggioranza hanno improvvisamente scoperto che bisogna avere più garanzie per la custodia cautelare, hanno improvvisamente scoperto che c’è una realtà delle carceri, passando dal “devono marcire in galera” al “ci siamo accorti che succede qualche cosa”, auspichiamo un clima migliore considerato che la riforma dell’ordinamento penitenziario era stata affossata dalla maggioranza gialloverde». È pur vero, sottolinea l’avvocato Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, il quale fece parte della Commissione Giostra, che «mancavano solo i decreti attuativi ma il Governo Gentiloni congelò tutto. Ci auguriamo ora che i lavori di riforma sull’ordinamento penitenziario vengano ripresi. Il lavoro è già fatto, è completo. Si tratta solo di rimetterci mano». Lo conferma anche un altro ex membro della Commissione Giostra, Pasquale Bronzo, Professore associato di procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: «noi avevamo prodotto non un semplice progetto di idee ma un articolato normativo, che potrebbe essere tirato fuori dal cassetto già da ora». Al momento ci sono gli emendamenti governativi per la riforma del processo penale che vanno nella direzione giusta. Lo ha ribadito anche il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a Tgcom24: la riforma Cartabia «sancisce percorsi alternativi al carcere che possono meglio calibrare il rapporto tra pena che punisce e pena che rieduca. L’impegno che abbiamo assunto con il Pnrr è quello di tagliare il 25 per cento dei tempi sul processo penale. Per questo ci serve un fluidificante per le norme di rito, ma un new deal anche per la sanzione, che deve essere resa più efficace e, convintamente, più rieducativa». Infatti se verrà approvato il pacchetto di via Arenula, la novità riguarderà sanzioni che andranno a soppiantare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, con contenuti corrispondenti a quelli delle misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove “pene sostitutive” (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. Inoltre si vorrebbe potenziare la messa alla prova: per specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, si prevede che la richiesta di messa alla prova – lavoro di pubblica utilità e partecipazione a percorsi di giustizia riparativa – dell’imputato possa essere proposta anche dal pm. «Tutte queste soluzioni, se approvate – prosegue il professor Bronzo – aiuterebbero a superare la centralità del carcere e risolverebbero anche la scandalosa situazione dei cosiddetti ‘liberi sospesi’, anche se l’impianto complessivo della Commissione Lattanzi è stato un po’ ridimensionato. Quelli che come Salvini dicono ‘non c’è certezza della pena’ si riferiscono sempre al carcere. Ma, come ha detto la Ministra, la Costituzione parla di “pene” al plurale. Trovo in tal senso rivoluzionaria la rivitalizzazione delle pene pecuniarie». Se tutto andasse in porto come previsto non sarebbe comunque sufficiente per una riforma organica del sistema penitenziario, come prospettato dalla Ministra, che prenderebbe anche in considerazione l’immane lavoro della Commissione Giostra. Di quelle 130 pagine il cuore era proprio nelle misure alternative alla detenzione, come ci ricorda il professore Bronzo: «la parte più importante della riforma Giostra che è stata amputata per equilibri politici riguarda proprio le misure alternative. In sintesi noi avevamo proposto di agire su tre direttrici: renderle più accessibili; riempirle di contenuti, di esperienze di rieducazione, per non concepirle solo come de-carcerizzazione; renderle più controllabili e dunque più affidabili quali modalità di espiazione anche per il magistrato di sorveglianza». Vedremo che strada intenderà percorrere la ministra, intanto quella per capire cosa è accaduto il 6 aprile 2020 e nei mesi successivi è già segnata: da fonti di via Arenula, si è appreso infatti che sui fatti di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà sia alla Camera che al Senato mercoledì prossimo, 21 luglio. 

«Ora basta con i “giudici star”: il loro protagonismo è la negazione del garantismo». Valentina Stella su Il Dubbio il 10 luglio 2021. In corso a Firenze il congresso nazionale di Magistratura democratica. Gli interventi di Ermini (Csm), Santalucia (Anm), e del professore Luigi Ferrajoli sulla «questione morale della magistratura» e le riforme della giustizia. «La questione morale nella e della magistratura, per l’impatto e le ricadute sull’opinione pubblica, più che questione democratica è ormai una vera emergenza democratica. Perché il crollo di fiducia che ha colpito l’ordine giudiziario e il suo organo di governo autonomo mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione»: così il vicepresidente del Csm David Ermini intervenendo al congresso nazionale di Magistratura democratica in corso a Firenze. «Tutti sappiamo – ha proseguito Ermini –  che lo tsunami che si è abbattuto in questi mesi è in realtà l’onda lunga di degenerazioni e miserie etiche risalenti negli anni, e sappiamo anche che la gran parte dei magistrati è del tutto estranea all’indegnità disvelata dai ben noti scandali e ne è profondamente turbata; ma altrettanto bene sappiamo che l’attuale crisi della magistratura, per intensità e qualità, è di portata questa volta diversa dal passato e segna il punto di non ritorno. Non esiste un piano B, non ci sono opzioni o vie di fuga, non è data un’altra chance». In merito al dibattito sulle riforme della giustizia a firma Marta Cartabia, Ermini confida nella convergenza dei partiti: «Ho piena fiducia nella sensibilità  istituzionale della ministra Cartabia, nella sua competenza, nelle sue capacità di dialogo e sintesi. Confido che le forze politiche, tutte le forze politiche in Parlamento, abbiano la consapevolezza che la strada delle riforme è strada a questo punto obbligata, e non solo per l’accesso ai fondi del Recovery ma per gli equilibri delle stesse istituzioni, e responsabilmente convergano su soluzioni condivise e nel solo interesse generale di un sistema giudiziario efficace e giusto. Se non c’è un accordo tra le forze politiche per trovare una strada le riforme sulla giustizia diventano solo armi di battaglia, e il cittadino non ottiene poi il servizio giustizia». Sul problema del carrierismo, svelato dallo scandalo Palamara, Ermini aggiunge: «Sussiste da parte della magistratura associata, la necessità di una seria riflessione. Mai mi permetterei di entrare nel dibattito interno dei singoli gruppi associati», «ma mi rivolgo a ciascun magistrato perché si interroghi in coscienza innanzitutto sui danni del carrierismo fine a sé stesso, virus letale e motore di scambi immorali che hanno inquinato la vita consiliare». Ad intervenire al XXIII Congresso Nazionale di Md, dal titolo “Magistrati e Polis Questione democratica, questione morale” anche il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ha affrontato due temi in particolare: l’attuale riforma della giustizia targata Cartabia e il tema della “separazione” declinato su vari versanti. Per quanto concerne la riforma del processo penale, Santalucia ha ribadito alcuni dubbi espressi già su questo giornale: «Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità – mi riferisco, ma solo come uno dei possibili esempi, alla fisionomia, per quel che si sa, della prescrizione processuale –, su cui occorrerà discutere. Mi auguro che una innovazione così importante sarà valutata ed approfondita anzitutto in diretto e concreto riferimento alle condizioni organizzative degli uffici giudiziari, delle Corti di appello». Ci sono poi proposte mancate, per il consigliere di Cassazione: «Il meccanismo di archiviazione meritata, che avrebbe potuto concorrere, con l’irrobustimento della messa alla prova e dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ad un serio sfoltimento del carico giudiziario pare non essere tra gli emendamenti approvati dal Consiglio dei Ministri. Mancano anche alcuni accorgimenti che avrebbero rafforzato i riti premiali e si è rinunciato ad una rivisitazione della struttura dell’appello». Per quanto concerne la questione della “separazione”, Santalucia obietta soprattutto contro la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, promossa dall’Unione delle Camere Penali, e ora giacente in Commissione affari costituzionali della Camera: «Nel tentativo di assicurare al pubblico ministero autonomia e indipendenza, al pari dei giudici, si formerebbe il Csm della magistratura inquirente del tutto sovrapponibile, quanto a struttura, a quello della giudicante. Un domani potrebbero essere, nel loro Csm, la metà, se non, come detto, poco più, e quindi con un potere di gran lunga accresciuto.  È questo il ridimensionamento della figura del pubblico ministero a cui si mira? É facile prevedere che questo smisurato ampliamento di poteri potrebbe non essere tollerato». Infine, sostiene Santalucia, «una seconda separazione dovrebbe intervenire nella relazione tra Csm e i magistrati, affidata al sistema del sorteggio incaricato di espellere il correntismo dai luoghi del cd. governo autonomo e che, recidendo il legame di tipo elettivo, indebolirebbe fortemente quella sia pur parziale rappresentatività dell’ordine giudiziario che al Csm è stata riconosciuta – v. Corte cost. n. 142 del 1973 –. Trovo molto convincenti le parole pronunciate ieri della prof.ssa Biondi, secondo cui, a meno di non mettere mano a riforme costituzionali, deve prendersi atto che il testo della Carta parla, senza possibilità di spazi interpretativi, di componenti eletti». Un intervento molto interessante è stato quello di Luigi Ferrajoli, professore emerito di filosofia del diritto, Università Roma Tre, tra i fondatori di Magistratura democratica, che ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “La costruzione della democrazia e il ruolo dei giudici”. Un passo molto rilevante è dedicato al rifiuto del protagonismo giudiziario «oggi favorito dai media televisivi. Dobbiamo riconoscere che ogni forma di protagonismo dei giudici nei rapporti con la stampa o peggio con la televisione segnala sempre, inevitabilmente, partigianeria e settarismo, incompatibili, ripeto, con l’imparzialità. Di qui il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. Ciò che i magistrati devono aver cura di evitare, nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di esibizionismo che ne compromette, inevitabilmente, l’imparzialità. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, di cedere alle lusinghe degli applausi e all’autocelebrazione come potere buono, depositario del vero e del giusto. Ma questa tentazione vanagloriosa va fermamente respinta. La figura del “giudice star” o “giudice estella”, come viene chiamato in Spagna, è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Essa rischia di piegare il lavoro del giudice alla ricerca demagogica della notorietà e della popolarità. In breve: i giudici devono evitare qualunque rapporto con la stampa e più ancora con le televisioni». E poi il rifiuto dell’idea della giurisdizione come lotta a un nemico: «La prima regola consiste nel rifiuto di ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. La giurisdizione non conosce –  non deve conoscere nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti – ma solo cittadini. Ne consegue l’esclusione di qualunque connotazione partigiana sia dell’accusa che del giudizio e perciò il rifiuto della concezione del processo penale come “lotta” al crimine. Il processo, come scrisse Cesare Beccaria, deve consistere nell’“indifferente ricerca del vero”». Per affrontare la questione morale, tema al centro del dibattito di Magistratura Democratica, Ferrajoli propone al termine soluzioni radicali. Ridurre drasticamente il potere dei capi degli uffici e il potere discrezionale dell’organismo che li nomina. «La carriera, in breve – e con la carriera tutte le norme e le prassi che alimentano il carrierismo, a cominciare dalle valutazioni di professionalità – contraddicono una regola basilare della deontologia dei magistrati: il principio che essi devono svolgere le loro funzioni sine spe et sine metu: senza speranza di vantaggi o promozioni e senza timore di svantaggi o pregiudizi per il merito dell’esercizio delle loro funzioni. Le valutazioni della professionalità, in particolare, oltre ad essere di solito poco credibili e talora arbitrarie e [volte] a sollecitare il carrierismo, finiscono sempre per condizionare la funzione giudiziaria, per deformare la mentalità dei giudici e per minarne l’indipendenza». Eliminare il virus del carrierismo, attraverso un ridimensionamento strutturale delle carriere dei magistrati significa anche sottrarre alla politica argomenti per quella che Ferrajoli definisce «una campagna diffamatoria nei confronti della magistratura italiana che rischia di offuscare il ruolo della giurisdizione quale dimensione essenziale della democrazia».

"Noi toghe abbiamo troppo potere. Firmo i quesiti e spero in una riforma". Nino Materi il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Il giudice Angelo Mascolo, gip al Tribunale di Treviso, è da sempre una toga controcorrente.In oltre 30 anni di attività si è occupato di processi importanti, ma sul suo tavolo sono finiti soprattutto migliaia di cause «normali» dove gli si chiedeva «solo» una sentenza rapida e rispettosa del diritto. Un giudice «scomodo», più interessato a garantire giustizia che a fare carriera; anche per questo ha deciso di firmare quei referendum che tanto fanno paura ai suoi colleghi del «sistema»: quelli che alla legge dei codici preferiscono i codici dell'opportunismo. «Spero che i referendum - spiega - siano da stimolo alla politica per aprire una fase costituente finalizzata ad una riforma organica della giustizia. Va infatti al più presto ristabilito l'equilibrio tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, oggi sbilanciato a favore di quello giudiziario». Eppure, nonostante questo potere abnorme (o forse proprio a causa di esso) la magistratura sta vivendo il suo periodo più basso in termini di credibilità e autorevolezza. La proposta del giudice Mascolo è chiara: «È necessaria la reintroduzione dell'immunità parlamentare nei termini originariamente previsti dalla Costituzione». Una linea in controtendenza rispetto a quanto sostenuto dalla maggior parte dei magistrati italiani, che oggi sembrano aver perso la fiducia dei cittadini.

«Chi è causa del suo mal pianga se stesso - denuncia il gip - Pochissimi hanno denunciato un sistema che tutti conoscevano, tanti sgomitavano più per far carriera che per far giustizia e i risultati sono questi».

Ma «grazie» al «pentimento» di Palamara, il marcio è venuto fuori. Anche se le cose non sembrano molto cambiate.

«Le dichiarazioni di Palamara non mi hanno fatto nessuna impressione - racconta Mascolo -, perché avevo capito l'andazzo da lui rivelato fin dal 1983: in Viale Trastevere, ogni sera, alla fine dei corsi riservati a noi giovani uditori giudiziari, arrivavano tre rappresentanti delle tre correnti, ci radunavano a seconda delle opinioni politiche e ci portavano a cena fuori. Rappresentando questi individui le forche caudine sotto cui si doveva passare per fare carriera, vi ho rinunciato più che volentieri». Una mosca bianca, molti altri si sono comportati diversamente: «Avrei apprezzato molto di più il pentimento di Palamara se fosse avvenuto prima, e non dopo essere stato colto in flagrante, col sorcio in bocca. Come è avvenuto, non è che mi sembri poi così spontaneo».

Palamara radiato dal Csm, problema risolto? «Con Palamara, sotto il tappeto è stato metaforicamente buttato solo un minuscolo granello di spazzatura: le assegnazioni fatte dal sistema non avvenivano attraverso allegri e giocosi girotondi, ma tramite duri do ut des, che rischiavano di far venir meno, per il futuro, l'imparzialità dell'interessato». Nino Materi

Poche risorse e troppo lavoro: magistrati in fuga da Napoli. De Carolis, messaggio a Cartabia: “Appello in due anni solo in piccole città, a Napoli travolti da processi camorra”. Redazione su Il Riformista l'11 Luglio 2021. La riforma della ministra Cartabia? “Si può applicare forse a Potenza, a Salerno, e negli uffici giudiziari medio-piccoli ma non a Napoli”. Sono le parole, rilasciate all’agenzia Ansa, del presidente della Corte di Appello di Napoli Giuseppe De Carolis che da anni lamenta le scarse risorse a disposizione. “Con quelle attuali riuscire a fare un appello a Napoli in due anni è impossibile. Abbiamo 57mila processi pendenti e per farli ci vogliono magistrati e cancellieri. E la nostra pianta organica è completamente inadeguata. C’è stato da noi un aumento della pianta organica dei magistrati – aggiunge – ma i posti non sono coperti e non sappiamo se gli 11 posti messi a concorso dal Csm per la Corte d’Appello di Napoli lo saranno, perché i colleghi non fanno domanda per venire qua in assenza di incentivi di fronte alla nostra mole enorme di lavoro”. Per De Carolis la Corte d’Appello di Napoli “è diventata un imbuto dove si strozza la produzione di processi e sentenze di uffici di Procure e tribunali che sono stati rafforzati in maniera più adeguata del nostro”. Processi che “andrebbero calcolati anche secondo la gravità dei reati e il numero degli imputati e noi a Napoli siamo travolti dai maxi-processi di camorra provenienti direttamente dai riti abbreviati dei Gip, mentre Corti di altre città importanti hanno pochissimi procedimenti di grandi dimensioni”. Il problema è quello di “dare priorità ai maxi processi di criminalità organizzata”, rallentando di conseguenza “tutti gli altri processi con gli imputati a piede libero, compresi quelli per reati di pubblica amministrazione”. Questo perché altrimenti c’è il rischio che i boss vengano scarcerati per decorrenza dei termini”. Per De Carolis però quello che “non è prioritario finisce per non essere fatto e quindi nel distretto di Napoli le vittime di truffa o aggressione oppure altri reati comuni hanno una possibilità di ottenere giustizia vicina allo zero. E’ drammatico dover constatare che si finisce per diffondere un senso di impunità, ma purtroppo è così”.

Due anni per l’appello, un anno per la Cassazione ma...Paradosso giustizia: processi veloci, poche toghe e troppi magistrati fuori ruolo. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Luglio 2021. «Cerchiamo di limitare per quanto possibile gli incarichi ‘fuori ruolo’ ai magistrati», afferma Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera. All’indomani del via libera da parte del Consiglio superiore della magistratura al fuori ruolo del giudice di Cassazione Bruno Giordano per ricoprire il posto di capo dell’Ispettorato del Ministero del lavoro, il parlamentare azzurro ha presentato una interrogazione alla Guardasigilli Marta Cartabia. Il Riformista aveva pubblicato la notizia dell’autorizzazione del fuori ruolo del giudice Giordano, pur a fronte di gravi scoperture a piazza Cavour. La norma prevede, infatti, che non si possano autorizzare incarichi extragiudiziari se nell’ufficio dove presta servizio il magistrato richiedente ci siano più del 20 percento di posti vacanti. Margherita Cassano, presidente aggiunto presso la Corte di Cassazione, aveva prodotto al Csm, chiedendo di bocciare la richiesta di fuori ruolo del giudice Giordano, una tabella a tal fine, con l’esatto numero dei magistrati attualmente in servizio: 18, che diventeranno a breve 16, su 25 in pianta organica. A Giordano, poi, erano stati già assegnati fascicoli che dovranno adesso essere riassegnati. La presidente Cassano aveva definito l’eventuale fuori ruolo di Giordano «pregiudizievole di gravissime difficoltà», con «evidenti ricadute sulla trattazione dei processi». «La ministra Cartabia ci dica cosa intende fare con gli incarichi che non sono riservati ai magistrati», prosegue allora Zanettin. Giordano, ad esempio, va a fare il capo dell’Ispettorato del Ministero del lavoro, ruolo attualmente ricoperto da un generale dell’Arma dei carabinieri. All’Ispettorato del lavoro, per notizia, non c’è mai stato al vertice un magistrato. Il tema dei fuori ruolo è tornato di attualità dopo le dichiarazioni del presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia che, commentando la riforma della giustizia penale voluta dalla Guardasigilli, aveva evidenziato problemi di carenza di personale presso gli uffici giudiziari. I pochi giudici in servizio non permetterebbero di stare nei tempi previsti dalla riforma: due anni per l’appello, un anno per la Cassazione. Poi scatterebbe l’improcedibilità. Va detto, comunque, che il tema degli organici è ricorrente. In passato si era anche fatta strada l’idea dei “carichi esigibili”, il numero dei fascicoli che possono essere trattati dal singolo giudice in maniera efficace in un anno. Era stata questa, in particolare, la risposta all’iniziale proposta dell’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di celebrare un processo, dal primo grado alla Cassazione, in soli quattro anni. Proposta poi abortita, come quella dei carichi esigibili. Un giudice, dicono sempre dall’Anm, non può scrivere più di tante sentenze in un anno. Si tratta di un altro argomento che viene proposto in risposta alla volontà di stabilire tempistiche a priori. L’Anm, però, può ritenersi soddisfatta: ha incassato l’abolizione delle sanzioni disciplinari per i magistrati che non avessero rispettato i tempi delle indagini. Il discorso valeva, soprattutto, per i pm ai quali inizialmente erano stati fissati paletti temporali molto stringenti a cui attenersi nella fase delle indagini preliminari. Comunque, essendo il testo oggetto di una prossima discussione in Aula, forse già il 23 luglio, è ancora tutto in alto mare. Forza Italia, ad esempio, è intenzionata a riaprire il dibattito già in Commissione giustizia sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pm. Paolo Comi

"La nuova prescrizione manda i processi in tilt. Che errore sui ricorsi". Luca Fazzo il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. L'avvocato: "Tempi illusori, la pena in primo grado non potrebbe neppure essere eseguita". La fiducia che questa sia la volta buona, che il governo Draghi possa riuscire a dare alla giustizia le riforme di cui ha bisogno, non è venuta meno: «Abbiamo al governo personaggi di un tale prestigio che volendo possono finalmente portare a dei risultati». Ma per ora Franco Coppi, il più famoso (e vincente) dei penalisti italiani fatica a essere soddisfatto dei risultati raggiunti dalla faticosa mediazione tra le diverse anime della maggioranza. E sul tema cruciale della prescrizione è quasi caustico: «A questo punto era meglio tenersi la riforma Bonafede».

Addirittura, professore?

«Premetto che ho cercato invano di leggere un testo ufficiale e preciso del provvedimento uscito dal consiglio dei ministri, e quindi devo affidarmi alle notizie di stampa. Leggo che la prescrizione verrà interrotta con la sentenza di primo grado, e verranno poi previsti termini tassativi per il giudizio di appello e di Cassazione. Ma c'è un particolare di cui nessuno parla e che mi sembra il più importante di tutti: nell'ipotesi che i due anni concessi per fare il processo d'appello trascorrano senza che si arrivi a una sentenza, che fine fa la sentenza pronunciata in primo grado? Il reato non si può prescrivere perché la prescrizione è interrotta, ma non si può più procedere. Ovviamente la pena inflitta in primo grado non potrebbe essere eseguita: una norma che lo consentisse verrebbe senza dubbio dichiarata incostituzionale. Ma mi metto nei panni di una parte civile, che nel processo di primo grado ha visto riconosciuto il diritto a un risarcimento: se l'appello non si celebra in tempo, che se ne fa di questo riconoscimento? Dall'altra parte, l'imputato può ben dire che se si fosse celebrato l'appello lui sarebbe stato assolto... Insomma, un groviglio. A questo punto sarebbe stato meglio tenersi la riforma Bonafede e buonanotte. Se non altro aveva il pregio della chiarezza».

Il governo sembra fiducioso che due anni per i processi d'appello siano sufficienti.

«Mi sembra del tutto illusorio. A Roma per un processo d'appello se si è fortunati servono tre o quattro anni, si tratterebbe di dimezzare i tempi e non so come pensano di farlo. Anche la previsione di un anno come tempo massimo per i processi in Cassazione mi sembra molto stretta, se guardo a quanto accade attualmente. Anche perché spesso gli atti impiegano molto tempo ad arrivare a Roma, e anche quel tempo andrà computato. Questo è il vero problema».

Sparisce un altro caposaldo del progetto originario della riforma Cartabia: l'impossibilità per le Procure di appellare le sentenze di assoluzione. I grillini l'avevano definita una norma salvaladri.

«E invece era una norma sacrosanta, ed è un male che sia stata eliminata».

Quando la fece approvare Berlusconi, con la famosa legge Pecorella, venne annullata dalla Corte Costituzionale.

«Quella che viene chiamata legge Pecorella fu il frutto di una proposta che era stata formulata dal sottoscritto e dal professor Padovani. In un sistema retto dal principio che un imputato può venire condannato solo se la sua colpevolezza è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, è persino ovvio che una sentenza di assoluzione sancisce per sempre che quel dubbio sussiste. Tre giudici, addirittura otto, se il processo si è fatto in corte d'assise, hanno assolto. Da quel momento il pm dovrebbe alzare bandiera bianca».

Ma la Corte Costituzionale avrebbe abrogato di nuovo.

«La legge Pecorella fu abrogata dalla Consulta con una sentenza assai discutibile, basata secondo me su un equivoco. E tutte le sentenze sono superabili».

Sembra sparita anche la possibilità per il governo di indicare periodicamente i reati da perseguire con particolare impegno.

«Ecco, questo invece è un bene. L'azione penale resta obbligatoria, e che sia il potere politico a indicare le priorità mi sembra pericoloso. Il governo se ritiene che alcuni reati siano di modesto allarme sociale ha uno strumento potente a sua disposizione, che è la depenalizzazione: una lunga serie di comportamenti possono venire dissuasi con sanzioni amministrative. Ma per una rinuncia di fatto alla obbligatorietà dell'azione penale l'Italia non è matura».

La conseguenza però è che ogni pubblico ministero è sommerso di fascicoli, e decide lui arbitrariamente su quali indagare e quali lasciare in armadio.

«Le Procure dovrebbero rispettare un ordine gerarchico, ci sono dei capi che sono lì anche per sorvegliare che queste cose non accadano».

I grillini hanno ottenuto che per alcuni reati i tempi concessi per l'appello si allunghino a tre anni. Non è irragionevole?

«No, questo è sensato. Ci sono reati che generano un particolare allarme sociale, e a un processo per concussione non si possono concedere gli stessi tempi necessari a un furto in appartamento. E c'è anche una complessità della materia che va considerata».

Firmerà i referendum della Lega?

«Non rispondo».

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Paolo Colonnello per "la Stampa" il 9 luglio 2021. Per il professor Ennio Amodio, giurista insigne e celebre avvocato, la riforma della giustizia Cartabia è un'occasione mancata. 

Professore è più un vaccino o più un placebo?

«Io sarei dell'idea che sia più vicina a un placebo che a un vaccino, anche perché la vaccinazione in procedura penale comporterebbe l'eliminazione di arbitri e violazioni di legge.  E non mi sembra che questo governo sia incanalato sulla strada del garantismo tanto che elimina una proposta della commissione Lattanzi, nel senso di escludere l'appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pm. Questa sarebbe stata certamente una svolta di grande rilievo. Mentre ciò che ora apprendiamo dal testo del Consiglio ministri è un orientamento che cerca di aggiustare i processi, renderli più veloci e intervenendo su punti marginali con la prospettiva che è quella di essere più aderenti a livello europeo». 

Alla fine il compromesso si è trovato sui reati contro la pubblica amministrazione: non più di tre anni in appello e 18 mesi al massimo in Cassazione. Giusto così o si crea una diversità di trattamento?

«Questa proposta si capisce che è orientata far si che si realizzi ciò che i 5Stelle hanno sempre voluto, cioè che ogni processo sfoci in una condanna. Crea però una discriminazione tra imputati e quindi viola il principio di uguaglianza. Non si capisce perché debba avere un trattamento deteriore chi è colpito dall' accusa di corruzione. Non si può trasformare il processo in una macchina infernale che stritola gli innocenti e produce condanne anche là dove non ci sono responsabilità». 

L' Italia è il primo paese per numero di condanne sulla ragionevole durata del processo: abbiamo svoltato?

«Certamente non si può ritenere che ci sia stata una vera e propria svolta, sono stati fatti piccoli passi in avanti perché per la prima volta nel nostro sistema si è creata una normativa sulla durata ragionevole del processo. La disciplina è ancora imperfetta ma su questa strada si potrà andare avanti per cercare di realizzare ciò che l'Europa vuole e la nostra Costituzione impone».

Le sembra un obiettivo raggiungibile abbattere del 25 per cento il tempo del processo penale?

«Non mi sembra una previsione realistica perché si basa su un pensiero pieno di prospettive ma lontano dalla realtà». 

Il giudice dell'udienza preliminare avrà più potere, è davvero così?

«Sarebbe stato importante, sul modello tedesco, obbligare i gup a motivazioni abbreviate delle loro decisioni In questo modo avremmo filtri più concreti. Non si cambia la prassi con formule generiche, si cambia rendendo il gup molto forte ed esperto e soprattutto molto lontano dal pm».

Paolo Bracalini per “Il Giornale” il 7 luglio 2021. Sergio Staino, storico vignettista e anima critica della sinistra con il suo personaggio-alter ego Bobo, l'ex comunista disilluso, ha fatto un post che lui per primo ha definito «sorprendente». Perché lì confessa di sottoscrivere «parola per parola» l'editoriale in cui Augusto Minzolini, direttore del Giornale, spiega perché vanno firmati i sei referendum sulla giustizia, e poi persino la posizione di Matteo Renzi sulla questione del ddl Zan che sta facendo implodere il Pd. A proposito del quale scrive, invece, «come sempre: niente di nuovo sul fronte occidentale».

 Il Partito democratico non firma i referendum per riformare la giustizia italiana, lei invece andrà a presenziare nei banchetti. Che dirà Bobo?

«Guardi ho fatto una vignetta su questo, Bobo dice «Salvini passa, la magistratura resta».

Che fa Staino, attacca i magistrati?

«Quello che il Pd non capisce è che il problema non è Salvini, ma una parte della magistratura che dal '92, grazie anche a noi, noi della sinistra intendo, si crede onnipotente e unica tenutaria del potere di vita e morte sulle persone. 

La sinistra in Italia è sempre stata attenta a compiacere la magistratura, ma ci sono certi magistrati, gli amici di Travaglio per intenderci, che sono veramente fuori della grazia di Dio dal punto di vista della giustizia. Partono sempre dal presupposto che ognuno è colpevole fino a prova contraria». 

Il giustizialismo è una piaga italiana?

«Lo è, ma non è mica una scoperta che ho fatto ora, vent' anni fa feci una striscia per il Corriere della sera dove ironizzavo tristemente sulla frase pronunciata all'epoca da Piercamillo Davigo, quando disse che la magistratura era l'unico corpo sano dello Stato italiano. Io risposi che queste erano dichiarazioni da militari prima del golpe. Votai all'epoca per la separazione delle carriere tra pm e giudici, mi sono sempre battuto per questo. Io posso anche ammettere che un pm debba partire dalla idea che chiunque deve essere colpevole, ma il giudice no, deve partire dal principio opposto, che chiunque è innocente a meno che non si possa dimostrare il contrario. Sono due metodi e due mentalità diverse, non si può confonderle e non si può farle convivere negli stessi corridoi, dove si incontrano e mettono d'accordo sulle sentenze. È profondamente sbagliato». 

La magistratura ha condizionato la vita politica italiana?

«La condiziona ancora oggi. Io nel mio partito ho un signore che è Luca Lotti che trattava con i giudici le nomine della magistratura. E non è mai stato espulso, si è solo autosospeso in attesa di giudizio! Ma quale giudizio? Io non ne ho bisogno, quello che ha fatto è deontologicamente contrario alla mia idea di giustizia e anche di sinistra. Eppure mi sembra che ancora adesso in Toscana non si muova foglia che Lotti non voglia». 

Troppa contiguità tra Pd e toghe.

«Ma certo, è stato un eccesso. Purtroppo un partito che dovrebbe essere il primo dei garantisti si è lasciato sedurre dal populismo grillino, ha seguito la pancia degli elettori invece di guidarli, come hanno fatto i nostri fondatori socialisti alla fine dell'800. La priorità in ogni paese per loro era costruire la scuola, non appoggiarsi alle forze momentaneamente favorevoli a noi, come è sembrata essere la magistratura. Non è quello che ci hanno insegnato i nostri padri socialisti. Come neppure mi interessa se Salvini è amico di Orbàn, io l'ho sempre attaccato Salvini ma stavolta non c'entra, si vota su delle idee e sullo stato della giustizia italiana».

Il Pd sta commettendo l'ennesimo errore politico?

«Come con le monetine a Craxi o la drammatica vicenda di Del Turco, che urlano vendetta, è il continuo adagiarsi sulla magistratura. Ci siamo accodati ai grillini». 

Mi par di capire che non creda all'alleanza Pd-M5s.

«Mai dato credito, ho conosciuto personalmente Beppe Grillo dalla giovinezza, l'ho sempre molto criticato e ad un certo punto anche disprezzato. L'abbiamo pagata carissima, mi dispiace perché ci sono caduti persone inimmaginabili, da Dario Fo a Stefano Rodotà sono rimasti affascinati da questo maledetto Vaffa».

Allora meglio Conte a guidare i Cinque Stelle?

«Ancora meno, lui proprio non esiste. Grillo ha una sua personalità malefica, è un Masaniello teatrale, egocentrico, egoista, incolto, ma l'altro è una nullità totale». 

 Era proprio il Pd a gridare «o Conte o morte», quando voleva a tutti i costi fare il terzo governo Conte.

«Sì, lo disse il Pd su suggerimento di uno dei membri più deleteri, Goffredo Bettini, se sapesse cosa diceva di lui l'ultimo dei grandi socialisti, Emanuele Macaluso...»  

La casta delle toghe contro la ministra. I Pm minacciano la Cartabia: stia attenta o fa la fine di Berlusconi e Biondi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Un bel lavoro a tenaglia, complimenti alla Casta in toga. In audizione mirata in Parlamento, chiamati a dar man forte ai grillini e a sparare sulla riforma Cartabia, due carichi da novanta come il procuratore nazionale “antimafia” De Raho e quello di Catanzaro Nicola Gratteri. A Napoli una sorta di agguato organizzato di persona alla ministra con un bel combinato disposto del presidente di corte d’appello Giuseppe De Carolis e il procuratore generale Luigi Riello. Tutti in coro, non a dire quel che ci si sarebbe aspettato e sarebbe stato doveroso da parte di alti magistrati che rappresentano al massimo livello l’Ordine giudiziario. E cioè che si sarebbero impegnati al massimo delle proprie forze per applicare la legge voluta dal Governo e dal Parlamento, cioè dai due poteri dello Stato. Invece no, perché non esiste in Italia una Casta agguerrita, rumorosa e mediatica quanto quella dei pubblici ministeri, cui si aggiunge ogni tanto qualche giudice. Facce di bronzo, vien da dire ogni tanto. Sanno come colpire, e soprattutto quando. Quando sono accesi i riflettori. E sanno anche con quale arma colpire. Non con la critica, quella non fa neanche il solletico. Pensate se un procuratore Gratteri, per esempio, si limitasse a dire al governo, va bene la riforma (come ha detto per esempio, vera mosca bianca, l’ex procuratore di Torino Armando Spataro), sperimentiamo, però mandateci più magistrati e più cancellieri, così potremo dare il meglio. La guardasigilli avrebbe potuto subito rispondere, per esempio, che avrebbe immediatamente sottratto ai vari ministeri cinquanta dei 200 magistrati fuori ruolo e li avrebbe immediatamente mandati in Calabria. E altrettanti a Napoli. Visto che Reggio e Napoli, insieme a Roma, sono i distretti che non riescono a celebrare in tempi certi i processi. Invece no, la critica non fa neanche il solletico. E soprattutto non porta in televisione chi la fa. Ma si catturano le telecamere se si sostiene che con la riforma diventa conveniente delinquere. Un po’ come quando Piercamillo Davigo cercava di dimostrare che con le nostre leggi è più conveniente uccidere la moglie che avviare la pratica di divorzio. Ho sette maxiprocessi in corso, lamenta il dottor Gratteri. Ma si è accorto che con il sistema accusatorio introdotto dalla riforma del processo penale del 1989, i maxi non dovrebbero neanche esistere, insieme ai reati associativi che sono il loro collante, la loro unica ragion d’essere? Quel che è successo ieri tra questi alti magistrati, e che ha la propria immagine speculare in Parlamento e tra le forze politiche, sembra il nuovo cavallo di troia che fa tornare alla memoria l’elenco dei ministri di giustizia annientati dalle toghe. O resi supini. O conniventi, come il penultimo. È il turno di Marta Cartabia. Non si illuda, signora guardasigilli, l’ampia maggioranza parlamentare di cui gode il governo Draghi, sulla giustizia si può frantumare, sbriciolare come un grissino. Pur mettendo da parte la pervicacia priva di pensiero del movimento cinque stelle, non speri di poter contare mai sugli uomini e le donne del partito democratico: hanno spalle robuste e antenati feroci con canini gocciolanti sangue, quando si tratta di indossare abiti giacobini. E neanche si illuda sulla stampa. Pensi solo al fatto che da giorni e giorni il quotidiano del partito a cinque stelle chiama la sua riforma con l’appellativo di “salvaladri”. Il riferimento è a Berlusconi, ma soprattutto al suo primo ministro di giustizia, Alfredo Biondi, e al suo tentativo (sacrosanto) di riforma delle norme sulla custodia cautelare. Con quel decreto, che non fu mai convertito, erano stati liberati 2.750 detenuti (di cui solo 43 di quelli che Travaglio non chiama “imputati”, ma direttamente “ladri” ), e ne tornò in carcere meno del dieci per cento dopo la caduta del provvedimento, cui seguì in seguito anche quella del primo governo Berlusconi. Il che significa che non c’era nessuna necessità delle manette. Bisogna sempre conoscere la storia, per capire i tranelli e gli agguati del mondo giacobino, che è giudiziario, politico, ma anche e spesso soprattutto mediatico. Definire “salvaladri” la legge sulla giustizia del presidente Draghi e della ministra Cartabia, è già in sé una minaccia: attenti, perché farete la fine di Berlusconi e Biondi. E dire, da parte di chi si occupa ogni giorno di reati di ‘ndrangheta, che una riforma può mettere in crisi la sicurezza nazionale e render conveniente delinquere è molto vicino a un colpo di Stato. Prima ancora che a un tentativo di far cadere il governo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

LA MAGISTRATURA (SINDACALIZZATA) SI RIBELLA, MA A PALAZZO CHIGI C’E’ DRAGHI. Elisabetta Gualmini, europarlamentare, su Il Corriere del Giorno il 20 Luglio 2021. Forse non ci siamo capiti. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è legato da cima a fondo alla riforma della giustizia. Non vi è l’uno senza l’altra. E i 25 miliardi di anticipo sui 248 miliardi del PNRR che stanno arrivando per direttissima dimostrano che non si può più cincischiare e che si fa sul serio. L’impegno del governo, di decurtare del 40 e del 20% rispettivamente i tempi del processo civile e penale, non può più essere procrastinato. Mario Draghi ci ha messo la faccia e non sembra proprio uno che tentenna. Se poi qualcuno se lo fosse scordato, c’è sempre un Dombrovskis pronto a incombere tra i corridoi di Bruxelles come una nube nera su una vallata verde e a ricordarci con orgoglio e altrettanta stizza che l’approvazione del Piano italiano è appunto un tutt’uno con l’implementazione delle riforme strutturali, con un “cambiamento vero” e non finto del nostro sistema giudiziario e della nostra burocrazia. Se no, addio investimenti esteri e rimbalzo gioioso del Pil. Non stupisce per nulla che la più corporativa delle corporazioni abbia subito reagito; i magistrati auditi oggi in Commissione Giustizia hanno smontato la riforma Cartabia pezzo dopo pezzo come una casetta di lego paventando rischi altissimi per il nostro paese. Per citarne alcuni: la diminuzione del livello di sicurezza nazionale, l’incentivazione a delinquere, l’azzeramento della qualità del lavoro dei magistrati per la tagliola rappresentata dai termini fissati per l’improcedibilità (2 e 1 per appello e Cassazione), la crescita smisurata di appelli e ricorsi in Cassazione, la cancellazione di importanti maxiprocessi per mafia, e altre fosche previsioni (così Gratteri e, in sintonia, Cafiero). Meglio tornare al passato, ma non alla riforma Bonafede, ad ancora prima se possibile. Secondo notizie in attesa di conferma, anche il CSM starebbe preparando i lanciafiamme contro la riforma. Non c’è molto di nuovo nelle sollevazioni anche assai aggressive dei magistrati; e queste vanno spiegate non tanto con la solita tesi di una magistratura politicizzata che entra a piè pari nelle decisioni del governo, ma semmai con le caratteristiche organizzative e con le amplissime prerogative di indipendenza che ne hanno fatto un unicum in giro per il mondo. Questa volta, tuttavia, la più auto-referenziale delle corporazioni ha di fronte uno tostissimo; uno che ha messo la faccia su tutti i quattrini che arriveranno nelle nostre tasche da Bruxelles e cioè Mario Draghi. A cui si aggiunge tutto sommato l’atteggiamento morbido di Mattarella, peraltro a capo del CSM che ha espresso dubbi solo sull’inserimento di un potere di indirizzo del parlamento nei confronti dell’azione penale, che potrebbe andare contro al principio costituzionale della sua obbligatorietà. Insomma, Draghi-Mattarella contro Giudici, 6 a zero 0. Certo, alcune richieste sottolineate dai magistrati sono del tutto legittime; il riferimento a un organico ormai ridotto al lumicino, soprattutto sul piano degli assistenti e dei funzionari amministrativi, le scarse infrastrutture per una digitalizzazione piena, i locali e gli uffici fatiscenti, tutto vero. Così come è vero che la durata ragionevole del processo deve anche scendere a patti con il diritto delle vittime di chiedere e ottenere giustizia. Ma, come ci spiegano gli studi di scienza dell’amministrazione, il modo in cui la magistratura ha ormai internalizzato una propensione totale all’autotutela non può tenere fermo il paese. Le prerogative di completa autonomia, nelle decisioni di carriera e di status, tramite il CSM, una carriera completamente inamovibile, retribuzioni più alte che in ogni altro paese, e la tendenza sempre più estesa a produrre giurisprudenza creativa hanno rafforzato enormemente il potere della magistratura, senza grandi contrappesi. Nel frattempo, i nodi del nostro sistema giudiziario restano tutti lì. Ormai non si contano le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per i ritardi nei processi. Siamo ultimi in Europa per i tempi del processo civile. Secondo l’ultimo Rapporto della Commissione europea sulla Giustizia (riferito al 2019), per un processo civile in Italia occorrono in media 1.302 giorni per arrivare all’ultimo grado di giudizio, 791 per il secondo e 531 per il primo. Anche sul piano dei processi amministrativi siamo ampiamente fuori media, anzi terz’ultimi. Tanti i processi pendenti e tante le pratiche arretrate da smaltire. Per non parlare del processo penale che dura ben 1.600 giorni, non proprio una quisquiglia. E si sa che justice delayed is justice denied. Come possa fare un paese zavorrato in questo modo a rivoluzionare sé stesso tramite la gigantesca opportunità dei fondi europei? E si fa fatica a comprendere come possano i parlamentari del Movimento 5 Stelle nello stesso tempo presentare oltre 900 emendamenti alla riforma e continuare a sostenere che i soldi del PNRR sono arrivati solo grazie a Conte e che quindi vanno usati subito. Draghi ce l’ha ben chiaro. Basta con la melina delle riforme annunciate e mai fatte, degli accordi presi in nome di questo o quel governo e poi saltati nei drink di una spiaggia (come il patto Bonafede–Salvini), dei mille disegni di legge affossati da questo o quel partito, in un pendolo insopportabile tra garantismo e giustizialismo che non ha mai portato nemmeno a una riforma purchessia, ma semmai a inasprire la lotta tra tifoserie. Tra i poli opposti serve più che mai buonsenso e pragmatismo. Se non ce la fa Draghi, dubitiamo che altri potranno.

Oltre 900 gli emendamenti grillini. Sponda di Gratteri ai 5 Stelle contro la riforma Cartabia: “A rischio 50% dei processi e sicurezza nazionale”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Luglio 2021. I magistrati antimafia fanno "da sponda" al Movimento 5 Stelle nel bombardamento contro la riforma della giustizia del Guardasigilli Marta Cartabia. L’assist ai grillini e al loro neo leader, l’ex premier Giuseppe Conte, arriva durante le audizioni in commissione Giustizia della Camera da parte di Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale Antimafia e antiterrorismo, e di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro. Gratteri parla addirittura di “grande allarme sociale che riguarda la sicurezza” in merito alla riforma Cartabia, sottolineando che “il 50 per cento dei processi” finiranno sotto la scure della improcedibilità con la riforma della prescrizione. Timori avanzati anche per i “sette maxiprocessi” contro la ‘ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro, che “saranno dichiarati tutti improcedibili in appello”. A dargli manforte Cafiero De Raho, che in merito all’improcedibilità spiega che provocherà “il comportamento dilatorio dell’imputato che, conoscendo le difficoltà per celebrare i processi, cercherà di attuare le migliori pratiche dilatorie. Non farebbe più istanze per i riti alternativi perché sarebbe più conveniente aspettare che i processi vadano verso l’improcedibilità”. Il procuratore nazionale Antimafia evoca pericoli per la democrazia: “Ci saranno conseguenze sulla democrazia, perché tanti processi improcedibili minano la sicurezza del nostro Paese”. Le parole di Cafiero De Raho e Gratteri sono un assist al Movimento 5 Stelle, che forte delle loro parole ha presentato ben 916 emendamenti in Commissione Giustizia della Camera. La riforma Cartabia “deve essere modificata”, chiedono deputati e deputati pentastellati in commissione Giustizia. “Tra tutte le critiche espresse da Gratteri – scrivono in una nota i grillini – quelle che più preoccupano, poiché prefigurano scenari inquietanti, sono relative alle conseguenze concrete: "convenienza a delinquere" e "diminuzione del livello di sicurezza per la Nazione"”.  “Il procuratore capo di Catanzaro – proseguono i parlamentari pentastellati – ha parlato anche di un abbassamento della qualità del lavoro dei magistrati causato dalla fissazione di una "tagliola’ con termini troppo rapidi. Gratteri ha correttamente preannunciato un ‘aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione" perché "con questa riforma a tutti, nessuno escluso, conviene presentare appello e poi ricorso in Cassazione non foss’altro per dare più lavoro ed ingolfare maggiormente la macchina della giustizia". Si tratta di considerazioni che devono indurre tutti a rivedere e modificare nel profondo la riforma, soprattutto con riguardo a prescrizione e improcedibilità. Ne va del futuro del Paese” concludono. Allarmismo ingiustificato secondo Enrico Costa, deputato di Azione che più di tutti si è battuto per una riforma in chiave garantista della giustizia. Secondo Costa infatti “non è vero” quanto detto da Gratteri sui rischi di improcedibilità dei processi per ‘ndrangheta. La riforma “si applica a fatti successivi al 1 gennaio 2020 ed i processi riguardano fatti precedenti. Ma se lo dice un Pm è oro colato”, sottolinea Costa.  Anche il ministro Cartabia da Napoli, dove oggi ha incontrato i capi degli uffici giudiziaria della Corte di Appello partenopeo, ha difeso il testo approvato in Consiglio dei ministri: “Le forze politiche spingono in direzioni diametralmente opposte, ma questa riforma deve essere fatta perché lo status quo non può rimanere tale”. “So molto bene che i termini che sono stati indicati sono esigenti per queste realtà, – ha aggiunto Cartabia – perché partiamo da un ritardo enorme, ma non sono termini inventati, sono quelli che il nostro ordinamento e l’Europa definisce come termini della ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket. 

E i grillini si allineano...Gratteri guida la rivolta dei Pm contro la Cartabia: “La riforma non s’ha da fare”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Dopo l’Anm, diversi procuratori, in testa Gratteri, stanno facendo fuoco e fiamme contro la riforma Cartabia. Cioè contro il tentativo, da parte della nuova ministra, di correggere l’obbrobrio giuridico che va sotto il nome di riforma-Bonafede e che stabilisce il principio che un processo può anche essere eterno se i Pm decidono così, sebbene l’articolo 111 della Costituzione assicuri il diritto alla ragionevole durata. I Pm sostengono che in fondo anche l’eternità è ragionevole. La riforma Bonafede aboliva la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. La legge Cartabia ripristina un principio di legalità stabilendo che dopo il primo il grado ci sarà un appello che avrà un massimo di durata di tre anni (due per i piccoli reati) e un eventuale ricorso in Cassazione con massimo di durata di un anno e mezzo (uno per i reati piccoli). Dov’è che si scatena la furia dei Pm? Proprio qui, su questi nuovi limiti. Dicono i Pm: in questo modo si rischia di cancellare in secondo grado o in terzo grado processi importantissimi e delicatissimi come quelli per mafia o per terrorismo. È vero? No: due volte no. Innanzitutto perché è molto improbabile che i processi per i reati più gravi superino i limiti dei tre anni, e poi dell’anno e mezzo in Cassazione, se le Corti di Appello e la Cassazione sapranno mandare avanti i processi più importanti. Quindi l’eventuale responsabilità di un fallimento non sta nella legge ma nella magistratura. Ma poi, soprattutto, c’è un’altra osservazione da fare. Cosa si intende per processi di mafia o di terrorismo? Le due parole sono molto evocative. La mafia e i terroristi uccidono, fanno agguati, spesso stragi. Giusto? E allora è assurdo, effettivamente, rischiare che questi processi vadano in fumo dopo tre anni di lungaggini in appello, giusto? Sì giusto, ma forse i Pm – che non sempre sono preparatissimi in diritto – non sanno che i reati di omicidio con l’aggravante mafiosa o di terrorismo sono puniti con la pena edittale dell’ergastolo, e che in caso di ergastolo la prescrizione (e per analogia l’improcedibilità) non esiste. Dunque stiamo parlando di fuffa. Mafia e terrorismo non c’entrano più nulla con la prescrizione o l’improcedibilità. Qual è la vera preoccupazione dei Pm? Che sia tolta loro la possibilità di catturare degli esponenti politici importanti, magari sotto processo per traffico di influenze o abuso d’ufficio, e di tenerli sotto schiaffo per sette o dieci o quindici anni. Questa storia della prescrizione che garantisce l’impunità a criminali incalliti e pericolosi è una balla colossale. Se Bonafede non si fosse inventato la necessità di smantellare la riforma Orlando, sperando così di poter raccogliere applausi e consensi dell’ala più plebescamente forcaiola della società, la norma della prescrizione sarebbe rimasta una norma severissima. Per piccoli reati che prevedono magari uno o due anni di prigione, al massimo, la prescrizione era comunque di almeno sette anni (che potevano aumentare in caso di sospensioni del processo). Per un reato come – per dire – corruzione, che è il reato che interessa di più i Pm, perché è quello che permette la citazione sui giornali e l’intervista in Tv, si arriva a 12 anni o anche di più; per i reati più gravi, come omicidio stradale, siamo sui vent’anni. Vedete bene che con queste scadenze parlare di impunità è veramente un segno di squilibrio mentale. Prendere un poveretto, che probabilmente è anche innocente – statisticamente vengono assolti più del 50 per cento degli indiziati – rovinargli la vita, magari farlo fallire, torturarlo per una decina o una ventina d’anni, secondo voi ha qualcosa a che fare con l’impunità? Ma allora perché i Pm sono così infuriati con Cartabia? Credo che il motivo sia semplice. Si sono resi conto che l’armata dei 5 Stelle con annesso “Il Fatto” è in rotta. Non offre più nessuna garanzia di tenuta. Ha finito per affidarsi a Conte, che magari è anche una brava persona, ma proprio con un leader politico non ha neppure una vaga somiglianza. E allora? Allora bisogna scendere in campo direttamente. E menare fendenti. Affrontare a brutto muso la politica e le nuove tendenze liberali che sono presenti nel governo Draghi e cercare di stroncarle sul nascere. La leader di queste tendenze è evidentemente il ministro della Giustizia. La distanza di livello culturale tra lei e i 5 Stelle, (ma anche tra lei e gran parte del partito dei Pm) è del tutto evidente. La battaglia da fare per il partito dei Pm è anche simbolica. L’ordine è: fermatela sulla battigia (o anche sul bagnasciuga, come diceva Mussolini). Altrimenti dilaga e ristabilisce tutti i principi dello Stato di diritto che, in anni di duro lavoro, l’Anm era riuscita a smantellare. La magistratura in questi anni si è sempre comportata così. Non ha lasciato alla politica il tempo e lo spazio per muoversi. È sempre intervenuta prontamente a gamba tesa ogni volta che c’è stato il rischio di un accenno di riforma. È pronta anche stavolta a ripetere lo schema. Bisogna vedere se Cartabia e Draghi faranno la figura dei loro predecessori o invece terranno la posizione.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Salvate il procuratore Gratteri da se stesso. Il procuratore Gratteri continua ad esternare e ad attaccare la riforma della ministra. Ma i ritardi e i costi della giustizia sono da imputare agli errori dei magistrati, a cominciare dai suoi. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 21 luglio 2021. A leggere i giornali sembra che il dottor Gratteri sia molto arrabbiato perché non vuole la riforma Cartabia che metterebbe dei tempi certi, e secondo alcuni ragionevoli, al processo penale. Si può essere d’accordo o meno con la Cartabia ma è indubbio che ci troviamo dinanzi ad una eminente studiosa di diritto che ha ricoperto con onore e competenza il ruolo di presidente della Corte Costituzionale. Insomma non è un fenomeno mediatico ma una studiosa vera anche se di idee moderate. Sembra che tra i suoi punti di riferimento occupino un posto di rilievo i valori Cristiani ed i principi costituzionali. Non una “sovversiva” ma neanche una “rivoluzionaria” o un’anarchica ma una ministra di idee liberali che guarda con attenzione a come funziona la giustizia in Europa e nel mondo. Insomma, non è Bonafede! Ognuno può avere mille riserve sulla “riforma Cartabia” ma leggere sui giornali che “Gratteri è un fiume in piena”, “furioso” ,  promette “fuoco e fiamme” contro la riforma è una anomalia ( si fa per dire) tutta italiana. Intanto perché Gratteri è un dirigente di un ufficio periferico dello Stato, di una delle tante procure che ci sono in Italia. In quanto tale è chiamato ad applicare le leggi non a farle. Questo, e solo questo, sarebbe il suo compito. Quando i ruoli si sovrappongono succedono disastri. Per esempio, il dottor Gratteri è preoccupato che oberati dal lavoro i giudici, dopo la riforma Cartabia, potrebbero ess costretti a dichiarare l’improcedibilità in molti processi importanti. Se ciò fosse vero il governo ed il Parlamento avrebbero il dovere di coniugare la giusta durata del processo con le esigenze di giustizia. Ma le modifiche spettano al governo, al ministro, al Parlamento. Invece una classe politica indecorosa ed inesistente ha chiamato in soccorso le truppe cammellate dei P. M. di assalto che si sono assunti l’onere di “smontare la riforma come un lego”. Gratteri, acclamato dai grillini come salvatore della patria, è stata la punta di diamante. Ed ha questo punto bisogna salvare Gratteri da se stesso altrimenti finisce col credere veramente alle cose che dice.  Proviamo a farlo con un esempio. In passato il dottor Gratteri, da PM, in una delle sue tante inchieste, ha chiesto il rinvio a giudizio di circa cinquecento persone. Nessuno si era appropriato di nulla ma ogni indiziato era accusato, in quanto pubblico amministratore, di non aver ben gestito una cifra di circa quindici euro a testa.  Il fascicolo, era una specie di volume Treccani solo per contenere le generalità di ogni indiziato. Il GUP ha assolto tutti, nessuno escluso. E la procura non ha fatto appello. Quanto lavoro hanno fatto gli agenti di polizia giudiziaria? Quanto la procura? Quanto gli uffici del Giudice per le indagini preliminare per esaminare la posizione di cinquecento persone? E quanto è costato allo Stato?  Con una spesa media di cinquemila euro per ogni indiziato, successivamente assolto, si arriva a quasi tre milioni di euro. Tempo e fondi sottratti alla Giustizia! Un processo così ha causato più prescrizioni di mille riforme Cartabia. Non ha portato giustizia ma ha conquistato le prime pagine.  E la vicenda Cesa, il segretario nazionale dell’UDC coinvolto in una vicenda di mafia? E la messa in stato di accusa di un ex presidente della Giunta regionale calabrese confinato in Sila come ai tempi del fascismo, rinviato a giudizio e poi completamente scagionato perché – secondo la Cassazione-vittima “d’un pregiudizio accusatorio” della procura di Catanzaro? Quanto lavoro è costato agli uffici giudiziari e quante spese a carico della pubblica amministrazione? Cosa sono più perniciosi all’impunità dei colpevoli le riforme o le avventure giudiziarie che portano notorietà ma non Giustizia? Cosa propone Gratteri? Lo ha detto chiaramente ieri alla Commissione Giustizia della Camera e nessuno ha avuto nulla da obiettare: un ritorno a prima del 1986. Quindi un ritorno ad un periodo in cui i reati erano molti di più che oggi, mafia e ndrangheta non trovavano argini nei “loro” territori. Nelle carceri dominava incontrastata la criminalità organizzata. Però durante quella che Gratteri considera “l’età dell’oro della giustizia” il potere dei PM era ancora maggiore perché non c’era neanche il filtro del GIP, e neppure la debole tutela del Tribunale della Libertà. Si registrava solo la crescita esponenziale della criminalità organizzata. Ma questo, secondo Gratteri, è roba di poco conto. Concludiamo: una stampa prona ed una politica inginocchiata non fanno certamente bene alla Giustizia ma neanche allo stesso Gratteri che sempre più viene risucchiato nel “personaggio” creato per fini contrari alla Giustizia. Avvertirlo può voler dire salvarlo.

La polemica. Riforma della giustizia, coro unanime: “Punire, punire, punire!”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Il professore Giuseppe Conte che annuncia il suo impegno per “scongiurare che non si creino soglie di impunità”: nel solito, inutile sforzo per sviluppare in modo annotabile le parole che gli si ingarbugliano nel gozzo, è ovvio che voleva dire “per scongiurare che si creino”. E l’intendimento è lo stesso che con più nitore ma identico stampo demagogico-forcaiolo professa il segretario del Pd, Enrico Letta, il quale giusto qualche giorno fa rivendicava il dovere del suo partito di non concedere nulla al maligno genuino del Paese, l’impunitismo. Guardare dall’altra parte, e cioè a destra (sempre che il neo-mezzo-capo dei 5Stelle non sia già destra di suo), significa rimirare allo specchio la medesima impostazione: se là occorre impedire l’impunità, qui occorre assicurare che si punisca, che sono due modi per dire esattamente la stessa cosa. Non so se è abbastanza per concludere che se due parti dicono la stessa cosa, per quanto con differente grado di grammaticatura, allora sono la stessa cosa: ma sicuramente è abbastanza per dire che l’abolizionismo carcerario di noi pochi infelici incontra a destra e a manca ragioni di resistenza assai simili. Riaffermare, o anche solo insinuare, il principio che a urtare le fondamenta civili è lo stesso concetto di “pena”, risuona semplicemente a mo’ di bestemmia se da una parte e dall’altra ci si impegna senza perplessità in quell’apostolato della primazia punitiva, e del presunto dovere politico di scongiurarne non si dice la revoca ma persino l’attenuazione. Punire o evitare che non si punisca disegnano il perimetro esclusivo in cui si consorziano due concezioni perfettamente fungibili: l’una e l’altra, appunto, associate a escludere l’ipotesi alternativa, e cioè che “punire” non bisogna mai, punire non bisogna nessuno, perché punire è sempre ingiusto. Iuri Maria Prado

E' donna e liberal, fermatela! Travaglio guida i nuovi fascisti contro la Cartabia: cacciatela, difende ladri e mafiosi! Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Marco Travaglio, mi dicono quelli che lo conoscono, in questi giorni è sull’orlo della disperazione. Non sa più dove sbattere la testa. Lui fino a qualche mese fa era certo, e lo diceva sempre alla La Sette, che Draghi non avrebbe mai accettato di fare il presidente del Consiglio. E quindi Conte sarebbe durato in eterno, e dal momento che Conte non è molto esperto, e sul piano politico è considerato zero anche dai suoi amici, lui, Travaglio, avrebbe potuto continuare a fare il bello e il cattivo tempo, infischiandosene dell’opposizione e indicandola quotidianamente al pubblico ludibrio. Poi è arrivata la mazzata. Draghi ha accettato. Ha spiegato che non avrebbe accolto i diktat eventuali dei partiti. Ha messo in un angolino i grillini, ha scelto i ministri di testa sua e, oltretutto, ne ha messi due o tre di qualità eccellenti in alcuni ministeri chiave. Il caso ha voluto che la più prestigiosa dei nuovi ministri fosse una donna: Marta Cartabia, giurista molto insigne, ex presidente della Corte Costituzionale, stimatissima nel mondo accademico e conosciuta e apprezzata in tutt’Europa. È toccato a lei prendere il posto di un ragazzo di bottega di qualche studio di avvocati, un certo Bonafede, esperto soprattutto, dicono le biografie, come dj. Avvezzo poco al diritto, di più al potere, come succede, del resto, a moltissimi dei ragazzi a Cinque Stelle. Travaglio non ci ha visto più: non solo al ministero della Giustizia – che è il ministero che più gli interessa, perché bisogna passare da lì per realizzare qualunque programma di repressione di massa. Con colori bulgari o cileni, (vecchia Bulgaria e vecchio Cile…) – hanno messo una persona che conosce molto bene il diritto e la giurisprudenza, e questo rende molto difficile ogni programma reazionario. Ma per di più ci hanno messo una donna, e le donne sapete come sono: debolucce, fragili, isteriche e subalterne. E così Travaglio, visti i suoi disegni politici finiti in frantumi, ha iniziato una campagna battente non solo contro Draghi ma in particolare contro la Cartabia. Tirandosi dietro un bel pezzo del partito dei Pm, quasi tutti i giornalisti esperti in giudiziaria (cioè quelli che dipendono direttamente dalle Procure) e poi Di Battista e qualche altro ragazzetto dei 5 Stelle. Anche Conte gli è andato appresso, però mica tanto, perché dicono che Conte ogni volta che vede Draghi poi si intimidisce, lo chiama professore, e non se la sente tanto di andargli contro. Prima Travaglio ha fatto partire la raffica di insulti sessisti, affibbiando alla Cartabia nomignoli vari, come fa lui (è un tipo di polemica ereditato dal suo maestro: un certo Farinacci…), tra i quali quello molto elegante di “guardagingilli”. Poi ha pubblicato un giorno dopo l’altro, in prima pagina, fotomontaggi con Cartabia (e anche Draghi) che portano il cappello da somaro con le orecchie d’asino. (Devo dire che una cosa del genere la feci anch’io, qualche anno fa, quando insieme ad alcuni amichetti dell’epoca redigevamo il giornalino scolastico della terza media. Era il 1963). E dietro le urla di Travaglio si sono schierati un bel po’ di magistrati. Ieri, in prima pagina, il “Fatto”, sotto la solita foto con la ministra e le orecchie d’asino, pubblicava questi due titoli: “I magistrati di Napoli la umiliano. Gratteri: mai più maxiprocessi”. e poi, un altro bel titolo: “Alessandra Dolci: impuniti i delitti di mafia”. Non credo che la ministra Cartabia si sia sentita molto umiliata da Gratteri. Forse ha sofferto, piuttosto, per dover rispondere del massacro osceno nel carcere di Capua Vetere commesso e nascosto sotto il ministro Bonafede. Del quale il mio amico Marco si è occupato molto poco. Quanto al maxiprocesso di Gratteri ci sono da dire un paio di cose. Il mondo intero ritiene – perché i giornali hanno dato retta a Gratteri stesso – che si tratti del più gigantesco processo alla mafia dai tempi di Falcone. Forse sarà il caso di far notare un dettaglio: nel processo non c’è neanche una imputazione per omicidio, o per ferimento. Nel processo guidato da Falcone gli omicidi erano diverse centinaia. Capiamoci bene: mafia, mafia, mafia, falcone falcone, falcone. Dicono così per farsi belli. Non confondiamo le cose. Gratteri ha fatto una retata di circa 400 persone accusate di reati finanziari e tutto lascia immaginare che più della metà saranno assolti. Cosa diavolo c’entra questa pura operazione di propaganda con il processo di Falcone che tagliò la testa a Cosa Nostra? Infine Alessandra Dolci, che non so esattamente chi sia, la quale dice che saranno impuniti i delitti di mafia. Ecco: non è vero. I delitti di mafia (immagino che stiamo parlando di omicidi) non sono prescrivibili.

P.S. Spesso qualcuno mi contesta l’uso che faccio della parola “fascista”. Mi chiedono: perché scrivi sempre “fascista” e non scrivi “comunista”? Perché vieni dal Pci? No. Per due ragioni semplici. La prima è che in Italia non c’è mai stata una dittatura comunista e invece c’è stata una dittatura fascista. Se fossi ungherese o russo o polacco, sicuramente scriverei “comunista”. La seconda ragione è che per formazione culturale e attitudini i 5 stelle assomigliano molto di più ai nipotini di Mussolini e Farinacci che a quelli di Stalin e Secchia. Lo dico senza malizia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Dagospia il 26 luglio 2021. "DRAGHI È UN FIGLIO DI PAPÀ, UN CURRICULUM AMBULANTE, CHE NON CAPISCE UN CAZZO NÉ DI GIUSTIZIA, NÉ DI SOCIALE, NÉ DI SANITÀ" - MARCO TRAVAGLIO RIVERSA LA SUA BILE SU SUPERMARIO ALLA FESTA DI "ARTICOLO UNO" (E IL PUBBLICO DE' SINISTRA APPLAUDE): "CI HANNO RACCONTATO CHE È COMPETENTE ANCHE IN MATERIA DI SANITÀ, DI GIUSTIZIA, DI VACCINI. MA NON ESISTE L'ONNISCIENZA O LA SCIENZA INFUSA. E NON HA NEANCHE L'UMILTÀ. PERCHÉ A FURIA DI LEGGERE CHE È COMPETENTE SU TUTTI I RAMI DELLO SCIBILE…"

Intervento di Marco Travaglio alla festa di "Articolo Uno - MDP". Voi capite per quali il motivo per cui sono popolari si dice populisti. Popolare è un pregio, populista è un difetto. E' per quello che l'hanno buttato giù. Poi non è che non hanno fatto degli errori. Secondo me li hanno fatti e nel libro li ho elencati. Ma non li hanno mandati via per i loro errori ma per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l'esatta antitesi. Che è un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini. Mentre, mi spiace dirlo, non capisce un cazzo! (applausi della platea di Leu) Né di giustizia, né di sociale, né di sanità. Capisce di finanza ma non esiste l'onniscienza o la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà. Perché a furia di leggere che è competente su tutti i rami dello scibile…

Twitter. Vincenzo Manzo: Stasera alla festa di @articoloUnoMDP, Marco Travaglio ha definito Mario Draghi: “figlio di papà che non capisce un cazzo”. Ecco Mario Draghi il nostro Presidente del Consiglio è rimasto orfano all’età di 14 anni. Lo stato del giornalismo italiano #Travaglio #vergogna 

DA ansa.it il 23 luglio 2021. Appreso l'esito del sorteggio dei tabelloni del judo, in cui nella categoria dei 73 kg avrebbe quasi sicuramente dovuto affrontare, nel secondo turno, un avversario israeliano, Tohar Butbul, l'algerino Fethi Nourine ha annunciato che si ritira dai Giochi di Tokyo. Lo ha poi confermato il suo tecnico Amar Ben Yekhlef. "Non abbiamo avuto fortuna con il sorteggio - il commento di Yekhlef -. Il nostro judoka Fethi Nourine avrebbe dovuto affrontare un avversario israeliano, e questo è il motivo del suo forfait. Abbiamo preso la decisione giusta".

Federico Capurso per "la Stampa" il 27 luglio 2021. Difficile dire che la carriera di Mario Draghi sia stata favorita dalla sua famiglia. La salita, anzi, inizia quasi subito. La madre è farmacista, il padre lavora in Banca d'Italia, e questo gli evita di vivere un'infanzia segnata dal disastro economico dell'Italia del dopoguerra. Cresce nel quartiere romano dell'Eur, tra i grandi viali alberati e i palazzi bianchi di travertino, simboli del razionalismo fascista, insieme al fratello Marcello e alla sorella Andreina, di poco più giovani di lui. E con loro, viene mandato a studiare già dalle elementari nel vicino istituto dei gesuiti Massimiliano Massimo, dove resterà fino al diploma. Ben presto l'istituto gesuita diventa quasi una seconda casa e quell'ambiente lo aiuterà - per quanto possibile - a fronteggiare la perdita del padre a 15 anni e, quattro anni più tardi, quella della madre. «Il fatto di cui mio padre stesso era preoccupato - ricorda Draghi - era che lui fosse nato nel 1895. Ho avuto il privilegio di confrontarmi con una persona che veniva da una generazione lontana, ma non è durato a lungo». I drammi Due avvenimenti dilanianti, eppure «i giovani sono così - prova a raccontarsi oggi Draghi, schermendosi -, reagiscono d'istinto alle avversità, e a quello che gli succede si oppongono senza bisogno di pensarci. Questa capacità li salva dalla depressione, anche in situazioni difficili». Perdere il padre in una famiglia degli anni Sessanta è una questione anche più seria di quanto non lo sia oggi. La zia aiuterà la madre con i fratelli più piccoli, ma la figura del capofamiglia è ancora un'istituzione legata indissolubilmente alla figura maschile. Sulle sue spalle gravano così responsabilità che stravolgono ogni spensieratezza e l'attuale premier ne offre un esempio, in uno dei rari scorci di quel dramma che la sua riservatezza non ha tenuto oscurato: «Ricordo che a sedici anni, al rientro da una vacanza al mare con un amico, lui poteva fare quello che voleva, io invece trovai a casa ad aspettarmi un cumulo di corrispondenza e di bollette da pagare». Ad aspettarlo una volta tornato dalle vacanze estive, ogni anno, c'è anche il preside dell'istituto Massimo, padre Franco Rozzi. Una figura «di autorità indiscussa», come lo descrive lo stesso Draghi, a cui il futuro presidente della Bce si legherà con forza: «Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola. Gli incontri con padre Rozzi erano frequenti, da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari - purtroppo frequenti nel mio caso - a quelli in cui voleva essere informato dell'andamento scolastico». Il suo messaggio educativo, riconosce Draghi, «ha inciso in profondità. Diceva che la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale». Gli anni dello studio Ci sono anche i compagni di scuola, come Luca Cordero di Montezemolo che ne tratteggia un profilo da studente modello: «Non era mai spettinato, mai trasandato. Seduti nei banchi dietro il suo, noi cercavamo di trovare almeno un dettaglio fuori posto nei suoi capelli o nei vestiti, ma lui era sempre impeccabile e curatissimo». A Draghi, però, non piace la descrizione da secchione: «Non mi sono mai considerato il migliore. Andavo a scuola perché mi ci mandavano». L'educazione gesuita segna la formazione di Draghi. L'insegnamento inculcato nelle ore di studio e di preghiera, che ancora oggi ricorda, è che «le cose andavano fatte al meglio delle proprie possibilità, che l'onestà era importante e soprattutto che tutti noi in qualche modo eravamo speciali. Non tanto perché andassimo al "Massimo", ma speciali come persone umane». Una volta uscito dall'istituto, si iscrive all'università La Sapienza. E la scelta della facoltà è semplice: «Quando da piccolo tornavo a casa da scuola, la sera, con mio padre parlavamo spesso di argomenti economici. Sapevo già cosa volevo studiare all'università». In quegli anni, l'Italia è scossa dalle sollevazioni studentesche del '68. Draghi porta i capelli più lunghi di quanto non fossero al liceo, «ma non troppo», puntualizza lui tra il serio e il faceto. E comunque, aggiunge, «non avevo genitori a cui ribellarmi». Studia, invece, per laurearsi nel 1970 sotto la guida dell'economista keynesiano Federico Caffè con una tesi intitolata "Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio". Arrivano subito delle offerte di lavoro, ma dal legame con Caffè, che ne coglie le potenzialità, nasce l'opportunità di un dottorato negli Usa, su invito del professor Franco Modigliani, al prestigioso Mit di Boston, dove si trasferisce con la moglie. Il problema è che la borsa di studio copre solo la retta e l'affitto: «Per fortuna però il Mit aiutava gli studenti con incarichi di insegnamento pagati - ricorda Draghi -. Più avanti, dopo la nascita di mia figlia, trovai lavoro in una società informatica a settanta chilometri da Boston». E da lì, solo da lì, la strada inizia a essere in discesa.

Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 27 luglio 2021. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. L'altra sera ho accolto l'invito alla festa di Articolo 1 e, intervistato da Chiara Geloni, ho risposto addirittura alle sue domande. E il pubblico ha osato financo applaudire. Apriti cielo. La Lega ha chiesto le dimissioni di Speranza (giuro), il quale ha dovuto precisare che, quando parlo io, non è lui che parla (ri-giuro). Una domanda riguardava una frase di Speranza sull'estrazione sociale dei ministri del Conte-2, quasi tutti figli del popolo, diversamente da quelli che contano nel governo Draghi: tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri. La consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social ne ha dedotto che ho offeso la memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi, dunque secondo Rep avrei fatto "una gaffe". Per dire com'è messa questa gente. Un'altra domanda riguardava la diceria, molto in voga fra i leccadraghi, sui Migliori discesi dall'empireo per salvarci dal "fallimento della politica". Siccome dissentivo, pensando che fosse ancora lecito, ho ricordato qualche "Migliore": Brunetta, Gelmini, Cingolani, Cartabia. E ho aggiunto che Draghi è un ex banchiere esperto di finanza, ma non ha la scienza infusa e i suoi atti dimostrano che non capisce una mazza di giustizia (solo ora lui e la Cartabia scoprono cosa c'è scritto nella loro "riforma" e quali catastrofi ne seguiranno), di politiche sociali (licenziamenti subito, nuova Cig chissà quando, Fornero consulente) e di sanità. Uno che fa un decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi, pena il divieto di esercitare, e poi li cazzia perché si vaccinano; uno che sospende Astrazeneca mentre Ema e Aifa dicono che è sicuro e tre giorni dopo revoca la sospensione perché Ema e Aifa ri-dicono che è sicuro; uno che si fa la prima dose con AZ, prescrive il richiamo omologo per gli over 60 e poi, a 73 anni, si fa l'eterologo perché "ho gli anticorpi bassi" (in base a un test che gli scienziati ritengono farlocco); uno che vieta per decreto gli assembramenti e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizzai calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento perché "con quella Coppa possono fare ciò che vogliono"; uno che pensa di convincere i No Vax a vaccinarsi dando loro degli assassini; ecco, uno così non mi pareva un grande esperto di vaccini. Ma l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà, manco avessi detto "figlio di Tiziano", mi ha fatto ricredere: Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia. 

LE FARNETICAZIONI DI MARCO TRAVAGLIO CONTRO IL PREMIER MARIO DRAGHI. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. L’oggetto della polemica è stato un passaggio in cui Travaglio dal palco della festa di Articolo Uno a Bologna difende il precedente Governo e Giuseppe Conte. Parte dalla premessa che anche loro hanno commesso degli errori. E che lui li ha sempre elencati. Poi dice: “Non li hanno mandati via per i loro errori. Li hanno mandati via per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l’esatta antitesi. Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di giustizia, sanità, vaccini. Ma, mentre, mi dispiace dirlo non capisce un cazzo di giustizia, sanità o sociale. Capisce di finanza”. La definizione “Un figlio di papà” usata da Marco Travaglio per definire Mario Draghi ha scatenato un fuoco di polemiche che finisce per dividere la maggioranza. Il senatore Pd Andrea Marcucci sottolinea il passaggio in cui Travaglio definisce Draghi “un curriculum ambulante”: “Draghi non deve certo vergognarsi del suo curriculum, della sua competenza e della sua storia familiare.  A vergognarsi deve essere il solito Travaglio, che ha usato parole indegne”. Draghi, come scrive Aldo Cazzullo, infatti “a 15 anni ha perso il padre, Carlo, uomo di incarichi pubblici: in Bankitalia, liquidatore con Donato Menichella della Banca di Sconto, in Bnl nel dopoguerra. Poco dopo è mancata anche la madre. Draghi ha dovuto fare il capofamiglia, prendersi cura dei fratelli minori: Andreina, la storica dell’arte che nel 1999 ha scoperto a Roma un ciclo di affreschi medievali nel complesso dei Santi Quattro Coronati; e Marcello, oggi piccolo imprenditore”. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. Il capogruppo di Italia Viva al Senato, Davide Faraone, invita il ministro Roberto Speranza, leader di Articolo Uno, a prendere le distanze da Travaglio. “Le scuse di Travaglio non arriveranno mai, ma una cosa è leggere le volgarità sul suo giornale, che è già dura prova di resistenza umana, altra cosa è ascoltare queste parole dal palco di un partito che sta al governo proprio con Draghi e ciò – sottolinea Faraone – è francamente inaccettabile. Per non dire disgustoso. Forse le scuse dovrebbero arrivare proprio da chi siede accanto al presidente del Consiglio”. Un appello che Speranza raccoglie poco dopo: “L’uscita di Marco Travaglio sul presidente del Consiglio Mario Draghi è infelice e non rappresenta certo il punto di vista di Articolo Uno che sostiene convintamente la sua azione di governo”. Alcuni esponenti di Articolo Uno, però, sui social, hanno puntualizzato che negli spazi di dibattito è lecito esprimere il proprio pensiero. “Travaglio ha presentato un libro con il suo punto di vista, non diciamo a nessuno cosa dire e non dire”, ha ricordato Arturo Scotto. Per la Lega la precisazione del ministro non basta. “La presa di distanze di Speranza dai pesantissimi insulti rivolti da Travaglio a Draghi è quasi peggio degli insulti stessi. Domandiamo a Speranza che senso abbia stare al governo se i suoi applaudono convinti agli insulti del direttore del Fatto. Si dimetta”, ha commentato il vice segretario della Lega Lorenzo Fontana. La Lega attacca per bocca dei capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: “È vergognoso che la platea di un partito di governo applauda apertamente un giornalista che insulta beceramente e volgarmente Mario Draghi. Travaglio si vergogni per le sue parole e lo stesso Speranza dovrebbe quantomeno riflettere sul suo ruolo. A questo punto infatti Articolo Uno decida se sostenere il governo oppure no”. Travaglio in serata è stato contattato dall’ agenzia ADN KRONOS per commentare le critiche e le aspre polemiche sollevate sui social, dopo l’epiteto di “figlio di papà” affibbiato al premier Mario Draghi? “Non me ne frega niente” è stata la squallida risposta di Marco Travaglio, direttore del ‘Fatto Quotidiano‘, che poi chiosa: “Come diceva Arthur Bloch, non discutere mai con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza…“ E non, caro Travaglio in questo caso la gente sa riconoscere il perfetto idiota, che non è sicuramente il premier Draghi, ma bensì un “montato” che lavora e mangia grazie ai soldi ricevuti in prestito con la garanzia fidejussioria del Governo Italiano.

Dagospia il 27 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Travaglio ha sbagliato due volte, la prima a definire Draghi figlio di papà la seconda, come ha spiegato Chiara Geloni che lo intervistava, “nel volerlo confrontare con l’estrazione di Conte”. Ecco, Conte è passato in quattro anni – e con quasi le stesse pubblicazioni – da cultore della materia a professore ordinario, secondo i peggiori schemi non meritocratici dell’università italiana: se la scelta è tra figli di papà e figliocci di baroni non si sa di che morte morire! Quanto ai giornalisti indignati, che di parentele se ne intendono, vale il detto latino: Aut tace aut loquere meliora silentio: vero Francesco Merlo (che lavoro fa suo nipote?), vero Chiara Geloni (che lavoro faceva suo padre? L’operatore ecologico?) Lettera firmata

Da “la Repubblica” il 27 luglio 2021. Caro Merlo, «Mario Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo di sanità, di sociale, di vaccini». Marco Travaglio, che partì dal vaffa di Grillo, ogni giorno supera un limite. Giorgio Villano - Milano

Il turpiloquio e l'insulto, che di Marco Travaglio sono il codice abituale di caricatura e di sbraco, sono segni di debolezza e non di forza, scorciatoie del pensiero per mancanza di argomenti, una prosa torva che, ha ragione caro Villano, ha perso anche la misura della dismisura lessicale degli esordi, quella del vaffa. È però pensiero comico-confusionale quel «figlio di papà» a un uomo di 73 anni che ha perso il padre quando ne aveva 15 e la mamma quando ne aveva 16, e tuttavia ha fatto la carriera che tutti sappiamo, non al Circolo Canottieri. Figli di papà sono i giovinastri che vivono di rendita e di cognome. I primi che mi vengono in mente sono Davide Casaleggio e Ciro Grillo. E potrei continuare. 

Travaglio non si scusa: nuovi insulti a Draghi. Luca Sablone il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Il direttore del Fatto rincara la dose: "Non capisce una mazza né di giustizia né di sanità, ma lui è onnisciente". E fa pure il simpatico: "È nato a Betlemme in una mangiatoia". Evidentemente Marco Travaglio non è sazio e ci tiene a punzecchiare costantemente il lavoro svolto da Mario Draghi e da molti ministri della squadra di governo. Le critiche e i dissensi sono ovviamente leciti e legittimi, ci mancherebbe. Ma nelle scorse ore il direttore de Il Fatto Quotidiano si è spinto oltre e ha definito il presidente del Consiglio "un figlio di papà", ignorando forse che è rimasto orfano sia di padre sia di madre in giovanissima età. Le considerazioni si sono fatte poi pesanti, accusando il capo dell'esecutivo di non capire "un c... né di giustizia, né di sociale, né di sanità". E adesso il giornalista ha voluto rincarare la dose, non facendo mezzo passo indietro e utilizzando anzi toni ironici per tentare di uscire fuori dalla bufera che ieri si è creata.

Travaglio rincara la dose. Così Travaglio ha intitolato il suo pezzo di oggi "Il piccolo fiammiferaio", commentando le reazioni politiche scaturite in queste ore. "Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa", è stato l'esordio del suo articolo. Il direttore del Fatto ha ricostruito il tutto: ha accettato l'invito a intervenire alla festa di Articolo uno, ha risposto alle domande di Chiara Geloni e ha ricevuto applausi dalla platea presente dopo le parole al veleno verso Draghi. Oggi ha rivendicato quanto detto in precedenza: i ministri di questo governo sono "tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri". E ha additato la "consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social" di aver travisato il senso del suo discorso e di averlo interpretato come un insulto alla memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi.

"Adesso si dimetta". Scoppia la bufera su Speranza. Il giornalista ha voluto nuovamente ribadire che il presidente del Consiglio "è un ex banchiere esperto di finanza", ma che "non capisce una mazza di giustizia, di giustizia sociale e di sanità". Travaglio ha portato a sostegno della sua tesi esempi come il compromesso sulla riforma della giustizia, lo sblocco dei licenziamenti e il ritorno della Fornero. Poi ha fatto il simpatico e ha scritto che l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà lo ha fatto ricredere: "Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia".

"Non è esperto di vaccini". Travaglio ritiene che Draghi non sia un "grande esperto di vaccini". È probabile che il giornalista senta la mancanza dell'era targata Giuseppe Conte e Domenico Arcuri, ma ora deve farsene una ragione: a Palazzo Chigi c'è Mario Draghi e a gestire la campagna di vaccinazione c'è il Generale Francesco Paolo Figliuolo. Sono diverse le accuse mosse nei confronti del premier: il decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi "e poi li cazzia perché si vaccinano"; il divieto di assembramento "e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizza i calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento"; il tentativo di convincere gli italiani a vaccinarsi "dando loro degli assassini".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Da liberoquotidiano.it il 27 luglio 2021. Tweet muto di Guido Crosetto. In effetti non servono parole. Il "fratello d'Italia" ha pubblicato una foto di Gad Lerner della rivista Oggi in cui è in vacanza con Carlo De Benedetti e rispettive consorti. Più sotto c'è il cinguettio di Gad Lerner in difesa di Marco Travaglio che domenica sera 25 luglio, durante la festa di Articolo Uno a Bologna ha insultato il premier Mario Draghi, un "figlio di papà" che, testuale, "non capisce un c***o". E chissenefrega se è orfano dall'età di 15 anni e se ha il curriculum che ha. Tant'è. Gad Lerner ha scritto un post che recita così: "Che Mario Draghi abbia un profilo tecnocratico-padronale è all'evidenza di tutti. E risalta nello zelo degli adulatori di ogni risma che si fingono indignati con Marco Travaglio. Li ringrazio perché oggi mi fanno sentire ancor più contento di scrivere sul Fatto quotidiano". No comment, verrebbe da dire. Ma il popolo social commenta eccome. "La sinistra da scarpe amatoriale fatte a mano da pseudo operai sottopagati ahhh con Rolex al polso su camicia... La sinistra da Unità in tasca la domenica, dove è?", scrive uno. "Avere un profilo tecnocrate padronale é uno dei pochi modi per governare con una classe politica impreparata, inetta, scialacquatrice di denaro pubblico, ignorante, che pensa solo nel breve periodo e al collegio elettorale", aggiunge un altro. "Comunisti col rolex", si legge ancora. Insomma, Travaglio sbaglia e Gad Lerner lo difende. "Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo sarebbe competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini eccetera. Invece mi dispiace dirlo che non capisce un c***o, né di giustizia né di sociale né di sanità. Capisce di finanza ma non ha la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà", aveva attaccato il direttore del Fatto. Secondo il quale era meglio, manco a dirlo, Giuseppe Conte. Per Lerner, ovviamente, ha ragione.

Intellettuali e politici inghiottiti dal travaglismo. Travaglio e Scanzi sono diventati gli oracoli di una sinistra sciagurata. Michele Prospero su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Più che i liquami di Travaglio, che piovono senza fermarsi mai e tornano sempre in faccia al mittente, conta il luogo in cui le parole contro Draghi che “non capisce un cazzo perché è figlio di papà (Draghi è rimasto orfano da ragazzino, ndr)” sono state pronunciate. Che “Articolo uno” trasformi la sua festa bolognese in una passerella di Travaglio, Scanzi è un piccolo evento che dimostra come un’area politica un tempo rilevante sia ormai perduta alla prospettiva di una sinistra autonoma. Quel materiale grigiastro che il Fatto riversa contro Mattarella, Cartabia, Draghi è da tutti annusato come maleodorante e però che il movimento di D’Alema e Bersani decida di affidare il posto d’onore proprio al foglio della rivolta anti-sistema è un accadimento politico. Questa volta la massiccia campagna dei giornali più vicini ai (contro)poteri politico-giudiziari dovrebbe sortire come effetto non già l’alterazione degli equilibri politico-elettorali (come è accaduto in passato quando proprio Bersani fu indotto anche dalle “inchieste” del Fatto alla non-vittoria) ma l’aggregazione subalterna del Pd e dei vari cespugli nello schieramento a traino di Conte. La tenaglia che stringe il Pd è troppo forte perché sia spezzata da un partito così fragile nella cultura politica. E poi proprio quei settori prima interni al Pd e ora a lato di esso, che in nome dell’autonomia della politica si mostravano in passato refrattari a forme di giustizialismo antipolitico, ora si ritrovano in prima fila nel guidare la confluenza strategica della fu sinistra sotto la leadership di Conte. Del resto i toni del dibattito politico sono accesi sino all’inverosimile. Uno studioso del mondo classico come Luciano Canfora non ha remore critico-filologiche ad accostare Draghi al dispotismo di Stalin e alla sua “concentrazione di potere assoluto, monarchico”. A suo dire, questo insopportabile autocrate contemporaneo oggi arbitrariamente al governo in Italia, “potrebbe pensare di sistemare la Cartabia al Quirinale e tenersi palazzo Chigi. O fare l’inverso”. Il potere si configura come una cosa, un pacco postale da piazzare, un oggetto da spostare, un bene da dare in affidamento. Uno scolaro di Rodotà, il giurista Ugo Mattei, si sente a casa propria sotto le bandiere di Forza Nuova perché bisogna insorgere contro “le verità di sistema” e quindi contro il governo Draghi che è “la quintessenza di una visione autoritaria e ricattatoria del potere tecnocratico”. Questo accade nella élite intellettuale della sinistra. E nel popolo? Sembra che le invettive di Travaglio contro “Draghi figlio di papà” siano state accolte, tra qualche timido mugugno, con una ovazione delle persone presenti. Aristotele scriveva che l’essenza della retorica si racchiude sempre nella questione del destinatario. E il pubblico che reagisce con gesti di grande approvazione alle metafore di Travaglio rivela come sia degradato lo stato della cultura politica di massa. Se si aggiungono anche le incredibili proteste di Landini sull’obbligo di vaccino, e quindi contro la tutela pubblica della salute operaia in fabbrica, si ha la percezione di uno sviamento preoccupante della sinistra politica e sociale. Se attorno alla tregua tecnica, che ridisegna le condizioni della ripartenza del meccanismo capitalistico da trent’anni inceppato, il sistema dei partiti è lasciato al suo stato di fluidità non ci sono concrete speranze: rispetto alle flebili istanze di una ragione impotente, il populismo coltiva passioni e anche regressioni più forti. E facendo leva su pulsioni elementari esso è capace di riacquistare baldanza dopo l’illusione di un accantonamento momentaneo della fuga nella irrazionalità. Alla ricerca di un Conte perduto, e con la volontà di potenza raccolta nel tavolino attrezzato davanti a Palazzo Chigi nel giorno dell’abbandono, i partiti di centro-sinistra non tengono in considerazione la sola verità che Grillo ha sinora pronunciato e cioè che l’avvocato è un assoluto nulla. Il Pd e i suoi satelliti sono rassegnati a prendere una vacanza sudamericana (sussidi nella decrescita, ozio creativo nella de-industrializzazione, giustizialismo) e non sono in grado di costruire un supporto politico indispensabile a Draghi che procede con risolutezza ma senza una organica forza coalizionale. Il segretario venuto da Parigi non ha la capacità, e neppure l’intenzione, di fare da regista alla definizione di un nuovo centro-sinistra che assuma proprio l’opera di Draghi come fondativa. Vaga senza un progetto dietro un Conte disarcionato e da tempo mostra preoccupanti segni di irrilevanza. Tutto diventa palpabile quando con il tempo affiora l’inconsistenza di tutte le sue proposte che si dileguano perdendosi nel chiacchiericcio di un tweet. ll Pd e i suoi cespugli, inghiottiti dalla (anti) politica-rancore di Conte, sono destinati alla celere marginalizzazione. Non hanno la forza e il pensiero per riprogettare le funzioni dei soggetti della politica dopo la discontinuità qualitativa che Draghi ha immesso nella vicenda politica, sociale e istituzionale. Questo è un vuoto che per la prima volta si presenta in forme così eclatanti. Fa tristezza la notizia di una sinistra sia pure minore che pende dall’oracolo di Travaglio. Michele Prospero 

La polemica. Marco, che Travaglio: il figlio di papà divide a metà la rete. Piero de Cindio su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Marco Travaglio ne combina una nuova accusando il Premier Draghi di essere un figlio di papà. Peccato però che la rete ha impiegato poco nello scoprire che l’ex presidente della BCE sia orfano dalla tenera età adolescenziale. Tanti i commenti indignati verso il direttore del Fatto, a cui però sono giunti in soccorso il conduttore Luca Telese ed il Professore Tommaso Montanari che hanno provato a giustificare la dichiarazione che ha destato molto scalpore. A fare da contorno a tutto il resto è certamente il fatto che le parole offensive di Travaglio nei riguardi del Premier e della sua famiglia benestante sono arrivate dal palco della festa di Articolo 1 dove un imbarazzato ministro Speranza ha dovuto prendere le distanze dall’invitato scomodo. Nel giro di poche ore, il data journalist Livio Varriale ha analizzato 18.409 tweets che hanno imperversato sul social del cinguettio ed il risultato dell’indignazione non sarebbe così scontato.

Top Tweets

“La dichiarazione di Travaglio è stata forte ed ha contribuito nel far parlare una festa anonima ed irrilevante giornalisticamente parlando come quella di Articolo 1” Esordisce l’autore della ricerca “Renzi ha avuto la sua occasione per andare addosso al suo nemico storico e sorprende anche la posizione di Lapo Elkann. Bene i giornalisti Ederoclide e Capone che hanno evidenziato il fatto che fosse rimasto orfano da quando era 14 enne”. 

Sentiment draghi

Dei Tweets analizzati tramite il sentiment, c’è però un dato che preoccupa e non poco e precisamente quello che il pubblico è nettamente indeciso se appoggiare uno o l’altro. “Le ragioni di Travaglio indignano, ma Draghi non riscuote la giusta considerazione dalla massa interessata alle questioni politiche. Sui 9.313 tweets analizzati contenenti la parola Draghi e figliodipapa, solo il 54,87 per cento è positivo, contro il 45 per cento di commenti che danno ragione a Travaglio. 

Travaglio Montanari Telese

Bisogna riconoscere a Travaglio che fuori dalle bolle di moderati, liberisti e amanti del politicamente corretto, c’è uno zoccolo duro che non apprezza Draghi e ne chiede le dimissioni. “certo è che il campione è ristretto al popolo dei social, ma analizzando bene la composizione, c’è una congiunzione di elettori della lega, Fratelli d’Italia e ovviamente nostalgici del Movimento Cinque Stelle che fu”. Sui 6.906 tweets che coinvolgono il tris degli “alternativi” Travaglio, Telese e Montanari, la massa social si è spaccata mostrando una leggera positività per le posizioni contro il premier. 

Articolo Uno

Nel mentre il pubblico si scontra sulle dichiarazioni di Travaglio, chi ne esce peggio di tutti, su un campione limitato di tweets che marginalmente hanno interessato, è Articolo 1. Travaglio è un ospite di successo per animare una festa, ma non il festeggiato. 

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

La gaffe alla festa di Articolo Uno. Travaglio si scaglia contro Draghi ma resta solo: Conte tace e "a mezzo Casalino" smentisce il Fatto. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Gli ci vorrebbe un convento senza connessione wifi, “chiuderli” lì dentro tre giorni e chiarire con ciascuno, uno per uno dei 270 parlamentari 5 Stelle, cosa vogliono fare da grandi. E poi tirare la riga e scrivere il risultato, favorevoli o contrari. Avanti con Draghi o basta con Draghi. Gli ci vorrebbero tre giorni così a Giuseppe Conte per vedere di capirci qualcosa nel suo Movimento. Gli ci vorrebbe, anche, di chiarire bene i suoi rapporti con Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano: solo il giornale di riferimento o il direttore di quel giornale ne è anche la vera cabina di regia? Perché in entrambi i casi Conte deve chiarire il suo pensiero rispetto a quanto è uscito di bocca al direttore de Il Fatto domenica sera alla Festa di Articolo Uno: «Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo». Che detto di un banchiere rimasto orfano di entrambi i genitori a vent’anni e che, cresciuto con gli zii, ha scalato prima Banca d’Italia e poi la Bce, è non solo informazione tecnicamente sbagliata (dunque grave che sia detta in pubblico) ma eticamente volgare, violenta, cattiva. Di sicuro Giuseppe Conte ha smentito il titolo de Il Fatto di domenica mattina: “O si cambia (la riforma della giustizia, ndr) o leviamo la fiducia”. Era ancora notte fonda quando Rocco Casalino ha scritto una nota per smentire tutto visto che «Conte non ha mai parlato». Ma certe smentite valgono più di altrettante conferme. È la settimana della verità (e quante ne abbiano contate in questi lunghissimi tre anni). Per il Movimento, soprattutto. La cartina di tornasole è la riforma del processo penale. Martedì 20 luglio sono piovuti sul tavolo mille e seicento emendamenti. Giovedì 22 Draghi ha chiesto al governo, ottenendola, la fiducia preventiva. L’arrivo del decreto è slittato dal 23 al 30 luglio. Tutti ad aspettare che i 5 Stelle trovino la giusta mediazione grazie alle doti maieutiche dell’avvocato di Volturana Appula Giuseppe Conte. Che deve produrre il non facile risultato entro questa settimana. Una delegazione sta trattando direttamente con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ne fanno parte la sottosegretaria Anna Macina, vicina a Di Maio e da annoverare tra le “trattativiste”, e la capogruppo in Commissione Giulia Sarti, pasdaran della linea Bonafede, l’ex ministro che non ne vuole sapere di retrocedere di un millimetro rispetto alla sua riforma che non ha abbreviato di un solo giorno i processi (l’Europa ci chiede di ridurre i tempi del 25% rispetto a quelli attuali) e ha introdotto il “fine processo mai”, cioè la prescrizione bloccata. Conte a partire da domattina ha deciso di incontrare per tre giorni tutti i parlamentari divisi per tematiche (e commissioni) per provare a scogliere i tanti nodi che si sono creati in questi sette mesi di sostanziale anarchia all’interno del Movimento. Il non-detto che invece emergere di continuo è «uscire dalla maggioranza pur di difendere una pietra miliare del Movimento: la prescrizione Bonafede». Parcheggiato nel frattempo Grillo, si può dire che il Movimento segua una linea di frattura precisa. C’è la linea Travaglio per cui o tutto resta così com’è perché la riforma Cartabia «è una schiforma che manda al macero 150 mila processo tra cui anche quelli per mafia» oppure tanto vale uscire dal governo di uno che «non capisce un cazzo». Attenzione però: uscire dal governo non vuole dire chiudere la legislatura (punto su cui Travaglio si troverebbe solo) ma solo uscire e mandare avanti il governo Draghi che tanto i numeri li ha comunque. Sarebbe la pacchia suprema per Travaglio & soci: poter sparare ogni giorno a palle incatenate contro la maggioranza Pd-Forza Italia-Lega e responsabili vari. C’è poi la linea Di Maio e governisti dove il mantra è “mediare”. Anche ieri pomeriggio il ministro degli Esteri, che ha già avuto un ruolo chiave nel superamento della crisi Conte-Grillo, ha ribadito la strada da seguire. «Confido molto in Giuseppe Conte che ha la mia totale fiducia e dobbiamo lavorare tutti insieme per rafforzare la sua leadership. Sono certo che troverà una soluzione all’altezza delle nostre aspirazioni: evitare che i reati di mafia restino impuniti e restare uniti perché diversamente siamo più deboli». Quello del titolare della Farnesina è un appello contro le divisioni interne e le bandierine ideologiche. È evidente che la ministra Cartabia non vuole sacche di impunità meno che mai in quel territorio largo, fatto anche di microreati, dove ingrassano le mafie. Ed è altrettanto evidente che è propaganda attribuire alla riforma Cartabia simili conseguenze. Una settimana chiave. Ogni giorno la situazione si può sbloccare o saltare del tutto. Quella di ieri è sembrata ma non è una giornata persa. La Commissione Giustizia, che deve valutare gli emendamenti e dare un ordine ai lavori prima dell’aula, non ha nei fatti lavorato. Tutto rinviato a oggi. Anche la provocazione di Forza Italia che di fronte ai 1600 emendamenti ha chiesto di «allargare il perimetro di intervento della riforma alla ridefinizione del reato di abuso d’ufficio». Contro il quale, tra l’altro, sono scesi in piazza decine e decine di sindaci. La Trattativa, quella vera, però va avanti al ministero della Giustizia. La partita è in mano a Conte. E a Travaglio. Da cui l’ex premier non ha preso le distanze, mentre ha fatto infuriare Italia viva, spingendo a intervenire in modo forse un po’ troppo blando il ministro della Salute Roberto Speranza – alla cui festa di partito è accaduto il fattaccio – che ha bollato come “uscita infelice” quella del giornalista. Non lo ha fatto per niente il Movimento 5 Stelle: non una parola a tutela della sostanza e dell’immagine del Presidente del Consiglio. Meno che mai lo ha fatto Conte. E certi silenzi valgono più di mille di dichiarazioni su presunte mediazioni.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano tocca il fondo: Marta Cartabia come una babbea senza cervello, sfregio e insulto gratuito. Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. Mamma mia che periodaccio per Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano che continua a prendere metaforici ceffoni da Giuseppe Conte, il suo cocco e pupillo, che nel giro di pochi giorni lo ha smentito ben due volte. La prima, quando ha negato i virgolettati riportati dal Fatto sulla possibile apertura di una crisi di governo firmata M5s. La seconda, soltanto ieri, martedì 3 agosto, quando ha ammesso in un'intervista a La Stampa che i grillini, sulla riforma della giustizia, si sono fatti trovare "impreparati". Ossia sono stati sconfitti. Eppure Travaglio, sul Fatto in versione Agenzia Stefani, ci raccontava il trionfo del presunto avvocato del popolo su Mario Draghi e Marta Cartabia (ritratti entrambi con occhio nero). Pensate un po'... E insomma, un periodaccio brutto brutto. Mettiamoci anche la crisi senza fine del M5s, frantumato in aula e a picco nei sondaggi. Mettiamoci le possibili e imminenti espulsioni dal partito dei dissidenti, di quelli che si sono "ribellati" al presunto trionfo di Conte sulla giustizia. Già, una caporetto. E ci si chiede: cosa rimane, al povero Travaglio? Presto detto: gli insulti, quelli storicamente non sono proprio mai mancati. E così via, altro giro altro regalo, che figurina peschiamo dal mazzo per poi iniziare con le bastonate? Gira, gira, gira... oggi tocca a Marta Cartabia, la madre della "schiforma", così come la chiama Marco Manetta in un gioco di parole buono per le scuole elementari. È infatti il Guardasigilli, suo malgrado, la protagonista della vignetta-bastonata-su-commissione firmata da Mannelli sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di oggi. "Dura lex", il titolo. Svolgimento: una Cartabia con sguardo spiritato che guarda verso il cielo. E una mano le batte sulla fronte: "Bonk, bonk", risponde il vuoto pneumatico che per Travaglio, ma soltanto per lui, c'è nel cervello della Cartabia. Quando si dice raschiare il fondo del barile...

Sono solo hooligans che invadono il campo. Conte dichiara guerra a Draghi, il rancore dell’azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Premesso che il Csm non ha alcun titolo per giudicare atti del governo e del Parlamento, considerato che questo Csm è in balia delle correnti più politicizzate e più intrallazzone della magistratura e che a guidare la contestazione è un giurista di Catanzaro designato dai 5 Stelle ed esperto in diritto della navigazione ci si chiede: primo, se sia il caso di far intervenire la forza pubblica come accade negli stadi quando un tifoso squilibrato invade il campo di gioco; secondo, se questo sia il primo atto della guerriglia contro il governo Draghi di Conte Giuseppe il rancoroso azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli

Da liberoquotidiano.it il 27 luglio 2021. Maria Teresa Meli, giornalista del Corriere della Sera ospite in collegamento a L’aria che tira estate, programma di La7 che vede Francesco Magnani alla conduzione, ha litigato in diretta con Peter Gomez del Fatto quotidiano sulla riforma Cartabia. I due giornalisti erano su fronti contrapposti: la Meli difendeva la riforma, mentre Gomez la criticava puntando il fatto sui processi di mafia che rischiano di finire in prescrizione. Una lite scoppiata quando Gomez è stato ripreso dalla Meli che gli chiedeva su quali basi esponeva le sue opinioni che criticavano la riforma Cartabia. "Io vado negli uffici giudiziari, non solo nei palazzi della politica. Io a differenza di te sono un giornalista", la replica tagliente di Gomez. Alché la Meli gli rispondeva: " E fallo il giornalista, ma sei solo un raggiratore", accusa la giornalista del Corriere della Sera. Peter Gomez prosegue nel suo discorso: "Uno dei più grossi problemi per los viluppo del Paese sono le organizzazioni criminali. Mi pare una questione di senso civico. E si sono accorti nel governo che c'è stato un errore nella prima stesura della riforma. Abbiamo un Capo dello Stato il cui fratello è stato ucciso dalla mafia. Mi pare una questione di senso civico come discutere che i processi alla criminalità organizzata vadano a sentenza", conclude Gomez.

L'Aria Che Tira, Maria Teresa Meli lascia la diretta: "Grazie per non avermi fatto rispondere, ciao". Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. Maria Teresa Meli spazientita lascia in diretta L'Aria Che Tira estate. Il motivo? Il conduttore Francesco Magnani non le avrebbe concesso di replicare a Peter Gomez. "Grazie per non avermi fatto rispondere a Peter Gomez, grazie mille, ciao! - ha accusato mentre il conduttore tentava invano di convincerla a rimanere -. Non ho potuto replicare a chi mi dava della non giornalista, vi ringrazio, arrivederci!". "Se vuoi rimanere, io comunque devo lanciare la pubblicità", ha risposto a quel punto Magnani visibilmente imbarazzato. "No, ho ascoltato, ma non ho potuto replicare, quindi vi ringrazio e arrivederci". Di sottofondo Ignazio La Russa: "È arrabbiata, ormai è un politico la Meli". E ancora, il senatore di Fratelli d'Italia ironico: "Titì, nun ce lassa'!".

Il giustizialismo infantile rischia di restare anche dopo il via libera alla riforma Cartabia. Paolo Pombeni su Il Quotidiano del Sud il 23 luglio 2021. SIAMO ancora bloccati sulla riforma Cartabia, ma qualche passo avanti sembra delinearsi. Nulla che faccia preludere ad una “rivincita” di Bonafede e soci, ma piuttosto un gesto di comprensione verso coloro che, alcuni anche in buona fede, segnalano difficoltà a rispettare quanto previsto in carenza di personale e strutture. Dunque la nuova normativa sarebbe operante dal 2024 dando tempo di realizzare gli adeguamenti necessari (anche grazie ai finanziamenti previsti nel PNRR). Perché si tratta non di un cedimento, ma della vittoria di un principio? Speriamo che gli altri partiti lo capiscano e non si mettano a fare barricate inutili che indebolirebbero la nostra già non facile situazione. Il punto essenziale infatti è stabilire un meccanismo che finalmente costringa la macchina giudiziaria ad operare nei tempi richiesti dalla giustizia e non dalle convenienze dei magistrati (spesso gli inquirenti, ma anche i giudicanti). Quando quella tempistica sarà codificata nella legge, è ovvio che diventerà un obbligo morale per il sistema adeguarvisi il più presto possibile. Del resto, come ha dimostrato numeri alla mano il deputato Costa di Azione, in un buon numero di distretti giudiziari le tempistiche già rispettano quanto previsto dalla riforma Cartabia. Ciò fa ritenere che dove ciò non avviene dipenda o da insufficiente dotazione di personale e strumentazione o da cattiva organizzazione per non dire in qualche caso dal prendersela comoda da parte di qualche magistrato. Nel primo caso, non appena il governo doterà le sedi carenti delle risorse necessarie verrà meno la ragione di non rispettare le tempistiche previste anche se non ancora obbligatorie. Nel secondo caso spetterà al CSM mettere ordine nel sistema di organizzazione, perché nessuno può essere considerato insindacabile. Dunque una volta approvata la “filosofia” della riforma Cartabia il passo avanti sarà stato fatto, il giustizialismo infantile sarà stato battuto, e dipenderà dalla volontà dei diversi soggetti renderla operante (ma quella è una variabile che comunque esiste, specie in un sistema come il nostro sfilacciato e con carenza di punti di riferimento accettati come autorevoli). Naturalmente le difficoltà del governo non si esauriranno così, perché c’è da vedere se il grillismo si arrenderà all’inevitabile sotto la leadership di Conte. A lui però viene data, sembra almeno, un’arma ulteriore per convincere i riottosi. Si sta infatti lasciando circolare l’ipotesi che in caso venisse meno una componente nella coalizione di governo, ove con questo non venisse meno la maggioranza in parlamento il governo Draghi potrebbe andare avanti. La ratio sarebbe nel fatto che essendo impossibile sciogliere le Camere durante il semestre bianco, è preclusa la via della verifica elettorale sulla persistenza o meno del consenso ai vari partiti. L’interpretazione è radicale, ma non ci pare infondata. Vanno viste però le conseguenze, che non sono così banali come potrebbero sembrare a prima vista, perché non è che tutto continuerebbe come prima a prescindere. Nel caso i Cinque Stelle si sfilassero dal sostegno al governo attuale, diventerebbe infatti insostenibile che mantengano i loro ministri. Stiamo parlando di Patuanelli, Di Maio, D’Incà, Dadone e sorvoliamo sui viceministri e sottosegretari (alcuni anche in posti piuttosto rilevanti tipo Sileri e Castelli). Queste posizioni non potrebbero essere conservate, a meno che queste persone non facessero quella “scissione” di M5S contro cui si sono battuti. Rimpiazzarli significherebbe fra l’altro redistribuire i posti fra i superstiti partiti della coalizione, e si può immaginare cosa succederebbe non trattandosi di posizioni secondarie (per dire: a chi toccherebbero gli Esteri?). Come si può vedere non si tratta di problemi di scarso peso e tutto fa pensare che Conte e i Cinque Stelle non possano avviarsi allegramente a scindere la propria partecipazione dalla coalizione che sostiene il governo. Una via d’uscita per loro non potrebbe essere l’astensione, specie se Draghi, per evitare scossoni in un parlamento balcanizzato, decidesse di porre la questione di fiducia, così come da più parti si sta ipotizzando. E’ evidente che diventa un po’ arduo affermare che si sostiene un governo mettendosi alla finestra su una questione centrale su cui viene richiesta la fiducia. La disinvoltura interpretativa di molti politici attuali potrebbe anche non ritirarsi davanti a questa acrobazia, ma ci sembra difficile che Draghi possa accettarla: per dignità personale e perché comunque si troverebbe a collaborare nell’esecutivo con una forza che ha dato prova di tanta irresponsabilità. Molto peserà su come andrà a finire l’atteggiamento degli altri partiti della coalizione. Alcuni saranno tentati di approfittare dell’impasse pentastellato per ridimensionare il quadro politico complessivo, ma affronterebbero il rischio di spingere verso una guerriglia generalizzata che certo non sarebbe una buona condizione per gestire un momento che rimane difficile. Altri, in specie il PD, saranno messi davanti al dilemma di regolare la propria posizione verso i Cinque Stelle, ma ci pare complicato che in un caso come quello ipotizzato possano cavarsela facendo finta che tutto può aggiustarsi. Andiamo verso un giro di boa, non è conveniente nasconderselo.

Draghi al servizio di Confindustria: la sciocchezza di Domani, Fatto e Manifesto nostalgici di Conte e Lega. Michele Prospero su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Con il coraggio che gli dà il cacciavite, Enrico Letta dunque lancia la sfida. E a Siena, dove il Pd appena qualche mese fa alle regionali aveva ben 15 punti di vantaggio sulla destra, mette in gioco la sua carriera. Invece che nella tranquillissima passeggiata toscana, il segretario del Pd un po’ più di chiarezza dovrebbe però metterla sulla linea politica. Che è oscillante e tecnicamente maldestra. Il Pd ogni tanto vacilla e dà prova di leggerezza culturale? Il responsabile di tante sbandate per “il Foglio” ha il volto coperto da una barba ottocentesca. E, con le sue pagine di critica del moderno, aizza ancora oggi i cervelli costringendo a notti insonni i dirigenti del Nazareno che poi di giorno, provati da cotanta fatica mentale, sbroccano. Scrive il giornale che dietro le trovate più visionarie del Pd c’è “Giuseppe Provenzano che di notte si addormenta con i libri di Marx sul comodino”. Che il Pd abbia problemi di identità nessuno lo può negare. Che i suoi cortocircuiti ideali riconducano a Marx, ospite notturno dei tormenti dei democratici, è però una stravaganza interpretativa. La questione della laicità, che tanto sgomenta attorno al disegno di legge Zan? Da Marx si può ricavare quanto segue. “È impossibile creare un potere morale con paragrafi di legge”. Il diritto penale non può essere un veicolo di persuasione culturale. La sanzione giuridica cioè non può costruire opinioni, sia pure nuove, nel campo etico. La polemica sulla lettera contro i professori liberisti? Come ha notato uno studioso, M. R. Krätke, “Marx considerava il termine capitalismo corrotto dal suo uso prevalentemente moraleggiante”. La sua analisi empirica e strutturale per questo evitava schematismi fuorvianti come quelli di chi scambia il socialismo per una alternativa protezionista al liberismo. Se davvero qualcuno al Nazareno si ritrovasse tra le mani una pagina di Marx eviterebbe di confondere la analisi del Capitale con la disputa tra Peel e Disraeli, cioè con una divaricazione liberisti-statalisti tutta dentro il mondo conservatore inglese. E allora? Nella paralizzante doppiezza lettiana, che con un piede sta nel governo mentre con l’altro corre per incoronare l’avvocato senza popolo, incide di sicuro una forte campagna della cultura di sinistra, non certo marxista però, contro Draghi. Oltre che sul foglio contiano (e ora neogarantista: ospita regolarmente gli editoriali dell’inquisito Davigo…), sul “Domani” (dove pubblicano strafalcioni su Weber, e Fedro diventa un Esopo che ha imparato a parlare latino) e sul “Manifesto”, capita spesso di trovare l’associazione tra Draghi e la destra reazionaria. Un cattolico democratico radicalizzato come Tomaso Montanari lo ripete in ogni occasione: in Italia ai vertici della repubblica con Mattarella e Draghi siedono degli epigoni di Bolsonaro. E quello di Draghi è di sicuro “il governo più oligarchico e antipopolare dell’Italia repubblicana”. Il piombo di Scelba, le prove muscolari di Tambroni, Il governo della macelleria messicana di Genova sono campioni di irenismo e sensibilità democratica a confronto con l’esecutivo Draghi che certo dispoticamente abolisce la lotteria degli scontrini. Per “il Fatto” Draghi è colui che “massacra gli italiani” e suole rivolgersi al popolo agitando qualcosa “come l’ombrello di Cipputi”. I toni apocalittici di Montanari risuonano anche in alcuni commenti apparsi sul “Domani” e sul “Manifesto”. Proprio il quotidiano che negli anni settanta corresse alcune rigidità della cultura comunista, rimarcando il rilievo delle tematiche garantiste, oggi ha una qualche nostalgia per l’ex ministro regista e canterino Bonafede, palma d’oro a Ciampino. Secondo Marco Revelli la riforma Cartabia, in vista di un equo processo di durata ragionevole, mostra soltanto un “segno brutalmente padronale”. Il rigetto verso il disegno riformatore è così forte che, strano per un allievo di Bobbio (che per decenni ha polemizzato in maniera magistrale con i marxisti proprio al riguardo dell’invocazione di un diritto diseguale), reputa “moralmente assurdo applicare criteri di eguaglianza formale”. Un linguaggio d’altri tempi colpisce una personalità come Draghi che a Santa Maria Capua Vetere ha mostrato la sua forte e controcorrente sensibilità liberale. Ma su di lui il “Manifesto” versa parole di fuoco che sembrano alquanto sprezzanti. Secondo Revelli la figura di Draghi è quella di un pericoloso conservatore, di un monopolista della decisione, “che governa con una logica bonapartista”. E per rimarcare il senso della censura etico-politica contro chi guida “il governo del privilegio”, lo raffigura come “il Capo del governo”, che è una formula mussoliniana, non repubblicana. Il ripudio dell’esperienza Draghi è totale e il tono linguistico non può che essere surriscaldato. Quello in carica è infatti il “governo dei padroni”, il governo “di uno solo, di un banchiere”. Al potere opera un novello Bonaparte alla testa di un “vero Comitato d’affari dei potentati economici e finanziari”. Parole molto esplicite che escono dal generico con una precisazione toponomastica: il governo “ha un solo indirizzo di riferimento: viale dell’Astronomia 20”. (Che è l’indirizzo di Confindustria). Al potere ci sono i padroni ma non la Fiat, che con Marchionne ha sbattuto la porta, e quindi i suoi giornali sono delle oasi di libertà e su quei giornali è possibile scrivere senza crampi nella coscienza. Secondo Revelli, Draghi è la pura e semplice “materializzazione del potere del denaro in una sola persona”. Dove conduce questa requisitoria senza scampo contro la dittatura del denaro che è esercitata da un dispotico potere personale? Per fortuna l’immagine non si spinge sino all’evocazione di un legittimo diritto di resistenza e si ferma alla semplice nostalgia dell’avvocato del popolo con la rampogna recriminatoria per la “crisi di quell’anomalia selvaggia che non avevano mai digerita”. Nel concreto, i rimpianti sono per il reddito di cittadinanza, per la norma spazzacorrotti, per la Bonafede, per il decreto dignità. Cioè, tutte conquiste epocali ma del governo gialloverde, nel senso che quando al potere c’era il capitano era assai meglio di adesso. Già dato Montanari, già dato Revelli. Il guaio è che anche Letta la pensa come Il Fatto e il Manifesto e il suo cacciavite ha per bersaglio solo Draghi. All’anima del cacciavite. Michele Prospero

Coalizione contro la riforma. Travaglio ordina, il Csm esegue: è guerra aperta alla Cartabia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Il Csm ha dichiarato guerra a Marta Cartabia. Rispondendo, sembra, agli ordini dell’Anm (il comitato centrale delle correnti delle toghe) e al Fatto di Travaglio. Ha deciso la “spedizione militare”, guidato dai grillini e dai togati più legati alle correnti di destra e di sinistra. La tradizionale alleanza rosso-bruna, come si dice in gergo politico, pronta a combattere fino alla morte a difesa dell’obbrobrio-Bonafede e a giocarsi tutte le carte possibili per puntare alle dimissioni della ministra. Nel nostro titolo in prima pagina, come avete visto, citiamo una vecchia frase di Mussolini, famosissima, che accompagnò l’inizio della campagna di Grecia. Mussolini, baldanzoso, annunciò già la vittoria delle truppe italiane, usando il suo linguaggio fantasioso e sempre aggressivo: “spezzeremo le reni”. Meno fantasiosa fu poi la campagna, che andò malissimo: gli italiani ce le presero e dovettero supplicare i nazisti di intervenire per evitare la disfatta. Vedremo come andrà questa nuova campagna di Grecia. Per ora si capisce solo quali sono le forze in campo e qual è il disegno strategico. In concreto, questo nuovo attacco da parte del Csm alla ministra si è delineato con un voto nella sesta commissione del Consiglio Superiore, che è quella che si è assegnata l’incarico di esprimere il proprio parere sui disegni di legge del governo. La sesta commissione, composta dai sei persone – due laici e quattro toghe – ha votato 4 a 2 a favore di un documento di censura della riforma approvata dal governo. Ora cerchiamo di capire il motivo delle critiche e i suoi autori. Prima però, a qualunque persona ragionevole, viene un dubbio grande come una casa. Ma è normale che l’organo di autogoverno della magistratura esprima pareri sulle leggi o sui disegni di legge varati dal Parlamento o dal Governo? Lo dico sommessamente, è solo perché ogni tanto mi ricordo di quel vecchio principio della separazione tra i poteri che è un po’ un pilastro dello Stato moderno. Me lo hanno detto in terza media, perché allora si studiava educazione civica. Ora, dico io, se l’organo massimo del potere giudiziario ha il diritto di impicciarsi dell’andamento delle leggi e dei decreti – di competenza del Parlamento e del governo – e di esprimere pareri che oggettivamente – grazie anche all’appoggio di solito entusiasta della stampa – sono destinati ad avere un fortissimo peso politico, ma allora – per il meccanismo della reciprocità – non sarebbe giusto che il governo, o il Parlamento, o tutti e due, potessero di volta in volta esprimere un parere sulle sentenze prima che i giudici le emettano? E magari anche sugli avvisi di garanzia o sui rinvii a giudizio. E soprattutto sugli arresti. Capisco l’obiezione: c’è una legge dello Stato che stabilisce che il Csm ha questo diritto e questa competenza. Già. Diciamo pure, però, che di leggi dello Stato fatte male ce ne sono parecchie. I referendum chiesti dai radicali e dalla Lega, francamente, sono molto pochi rispetto alle esigenze. Presto bisognerà farne altri. Il voto contro la Cartabia, in commissione del Csm, è stato chiarissimo: hanno votato a favore il rappresentante dei 5 Stelle in Csm e tre magistrati: uno della destra ex davighiana, anche piuttosto famoso (Ardita), e due “casciniani” di ferro. Cascini è il deus ex machina della corrente di Area, cioè dello spezzone più giustizialista della sinistra giudiziaria. Si sono astenuti invece il consigliere indicato da Forza Italia, Lanzi, e la magistrata della corrente di Ferri. Adesso il documento dovrà essere approvato dal plenum del Csm. E quando sarà approvato dal plenum acquisterà un peso ancora maggiore. Non ci sono molti dubbi sul fatto che sarà approvato, perché l’alleanza – come l’abbiamo definita – rosso-bruna, cioè destra/sinistra, nel plenum ha una buona maggioranza, sostenuta, peraltro, dall’altra alleanza rosso-bruna, quella dei laici, e cioè l’alleanza mostruosa tra Pd e grillini. Non sembra che ci sia la possibilità di un ripensamento. L’unica possibilità, forse, sarebbe quella di un intervento netto del Presidente del Consiglio della magistratura, cioè del presidente della Repubblica, cioè di Mattarella. Che potrebbe rompere gli indugi e schierarsi decisamente contro l’attacco sovversivo delle toghe. Ma non è molto probabile che lo faccia. Mattarella è un democristiano del tipo “sopire, troncare…”. Un po’ diverso da un suo predecessore, sempre democristianissimo, Francesco Cossiga, che in una situazione del genere – come già fece a suo tempo – avrebbe sicuramente minacciato di far circondare Palazzo dei marescialli dai carabinieri.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Consiglio superiore della magistratura boccia la riforma Cartabia: “Blocca i processi, impatto negativo”. Ilaria Minucci il 22/07/2021 su Notizie.it. Il Consiglio superiore della magistratura ha bocciato la riforma Cartabia sottolineando il suo impatto negativo sul proseguimento dei processi. Il Consiglio superiore della magistratura si è espresso in modo negativo nei confronti della riforma della prescrizione presentata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. In modo del tutto autonomo e senza rispondere ad alcuna richiesta di consulenza proveniente dagli organi governativi, la sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura si è espressa a proposito della riforma della Giustizia recentemente avanzata in contesto governativo. Il Consiglio superiore della magistratura, infatti, si è espresso in modo contrario rispetto alla riforma della prescrizione orgogliosamente annunciata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. In considerazione di quanto asserito dalla maggior parte dei magistrati italiani, il Consiglio superiore della magistratura ha bocciato con fermezza e convinzione il meccanismo della improcedibilità associato a tutti quei processi che superano i due anni di durata in appello e un anno in Cassazione. Per quanto riguarda il parere contrario alla riforma Cartabia, la votazione del Consiglio superiore della magistratura si è conclusa con quattro voti volti a bocciare il documento presentato dalla ministra della Giustizia e due membri del Consiglio che hanno deciso di astenersi. In seguito alla votazione, il risultato emerso è stato commentato dal presidente della sesta commissione Fulvio Gigliotti, un docente eletto in Parlamento in seguito a una segnalazione del Movimento 5 Stelle. Il presidente della sesta commissione, infatti, ha dichiarato quanto segue: “Riteniamo negativo l’impatto della norma, perché comporta l’impossibilità di chiudere un gran numero di processi”. La tesi sostenuta dal professor Fulvio Gigliotti, inoltre, è stata avvalorata dall’intero Consiglio superiore della magistratura che ha ribadito: “La disciplina non si coordina con alcuni principi dell’ordinamento come l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata del processo”. A proposito delle preoccupazioni che hanno scosso il mondo giuridico italiano in seguito alla presentazione della riforma della Giustizia, la ministra Cartabia ha spiegato: “Evitare che l’impatto di una novità come ‘l’improcedibilità’ non provocasse un’interruzione di procedimenti importanti è una preoccupazione molto seria che anche il governo ha avuto sin dall’inizio ed è il terreno sul quale si stanno valutando proprio questi accorgimenti tecnici”.

Cascini: "Con la riforma della giustizia salta la metà dei processi. Il Csm deve poter valutare". Liana Milella su La Repubblica il 25 luglio 2021. L'ex pm di Mafia Capitale: Un paradosso se il governo dovesse porre la fiducia in Aula sulle nuove norme senza prima ascoltare noi".

Che succede al Csm consigliere Giuseppe Cascini? Lei è della sinistra di Area. Siete contro la legge Cartabia? 

“Il Csm ha formulato alcuni rilievi sul nuovo istituto dell’improcedibilità per le gravi conseguenze sulla funzionalità del sistema giudiziario che potrebbe derivare dall’approvazione di queste norme”.

Prescrizione e processi di mafia: anatomia di una menzogna. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Vorrei in poche parole spiegare perché l’allarme sulla riforma della prescrizione che cancellerebbe i processi di mafia sia del tutto lontano dalla realtà. Innanzitutto, chiariamo di cosa stiamo parlando. Ci si riferisce prevalentemente a processi incentrati sulla contestazione di un reato associativo (416 bis c.p., associazione per delinquere di stampo mafioso) e dei c.d. “reati-fine” di quella associazione, che descrivono l’attività criminale in concreto addebitata a quella cosca in un dato contesto temporale. I più diffusi sono il traffico di stupefacenti (in assoluta prevalenza), le estorsioni, l’usura, il riciclaggio e l’autoriciclaggio, ma anche – seppure in misura molto minore – reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. Ovviamente, non consideriamo nemmeno le contestazioni di fatti omicidiari, sottratti ad ogni forma di prescrizione. Orbene, da sempre questi procedimenti penali, ovunque celebrati ed ancor più in quei distretti giudiziari pertinenti ai territori dove quella criminalità opera con particolare intensità, sono celebrati con connotazione di assoluta priorità. Già il solo fatto di attribuire a questi procedimenti il valore medio dei tempi di celebrazione dei processi nei singoli distretti, costituisce una rappresentazione manipolata della realtà. Se a Napoli, per richiamare un esempio in questi giorni costantemente evocato, i tempi medi di definizione dei giudizi di appello supera i quattro anni, è corretto riferire questo tempo medio anche ai “processi di mafia”? È questo ciò che accade realmente a Napoli o in analoghe realtà giudiziarie? Sarebbe indispensabile, invece che agitare numeri a casaccio, dare una risposta statistica a questa banale domanda, visto che l’allarme è stato lanciato con riferimento specifico a quel tipo di processi e di imputazioni. Credo sia un dato agevolmente acquisibile dal Dipartimento statistico del Ministero di Giustizia presso tutte le Corti di Appello di interesse. La esperienza forense ci consente già di affermare con cognizione di causa che non è così. E ciò non solo per la indiscussa natura prioritaria della trattazione di quei processi, ma ancor di più per la ovvia ragione che essi sono in larghissima percentuale a carico di imputati in stato di custodia cautelare. Come tutti ben sappiamo, sono i termini di custodia cautelare a governare i tempi di trattazione e di definizione di questi processi. Nessuna Corte di Appello versa nelle condizioni di non riuscire a celebrare questi giudizi prima dello spirare del termine custodiale di fase, almeno per gli imputati e per le imputazioni principali. Possiamo anzi dire che è proprio la trattazione prioritaria di questa categoria di processi, imposta dai termini cautelari di fase, a determinare i gravi ritardi di trattazione dei tanti altri che qui per comodità vogliamo definire “ordinari”. Il termine custodiale in appello per questo genere di reati non è inferiore ad un anno e sei mesi, termine peraltro agevolmente prorogabile (evito noiosi tecnicismi) ben oltre i due anni. La prescrizione processuale voluta dagli emendamenti del Governo prevede un termine fino a tre anni per celebrare questi processi di appello. Aggiungo che questa assoluta priorità di trattazione vale anche nei pochi casi di imputati a piede libero. L’esempio delle sentenze Cosentino e D’Alò è ancora una volta un caso di manipolazione della verità. Quei processi di appello sono stati celebrati a tanta distanza dal fatto proprio perché gli imputati erano a piede libero, nessuna prescrizione maturava e dunque nessuna urgenza premeva. State non certi ma certissimi che, vigente questa riforma, quei due processi sarebbero stati definiti entro il termine di maturazione della prescrizione. Se poi magari qualcuno proverà pure a chiedersi se appartenga alle regole di un Paese civile essere giudicati in appello a decenni dai fatti, ancorchè di supposta matrice mafiosa, sarà sempre troppo tardi. Dunque questa è la modesta proposta che mi permetto di suggerire: un rapido accertamento statistico da parte del Ministero non sui tempi medi dei processi di appello, ma sui tempi medi di celebrazione dei “processi di mafia”; e vediamo chi sta raccontando la verità, e chi agita fantasmi, per continuare a tenere la Politica ed il Parlamento nella condizione di sovranità limitata nella quale è umiliata da ormai oltre 25 anni.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 23 luglio 2021. Era dai tempi di Berlusconi che al Consiglio superiore della magistratura non si registravano rapporti così tesi con un ministro della Giustizia. Sebbene non richiesto (il che, già di per sé, viene considerato uno «sgarbo istituzionale»), il parere del Csm sulla riforma Cartabia è pronto. A tempo record la sesta commissione l'ha elaborato e depositato, per poter votarlo in plenum la prossima settimana. L'esito è scontato: la contrarietà alla riforma è quasi unanime, sia tra i membri togati che tra i laici. Al di là dei tecnicismi, nel Csm si pensa l'impatto politico del parere, considerato «una netta stroncatura». In una trentina di pagine, il testo si concentra sulla prescrizione, evidenziando «una serie di criticità» sia sul piano giuridico che su quello operativo. L'incostituzionalità non è espressamente contestata, ma evocata con riferimento a due parametri. Il principio di obbligatorietà dell'azione penale, vanificato dall'impossibilità di portare a termine tutti i processi per la tagliola dell'improcedibilità in appello. E quello di ragionevole durata del processo. Presentato come obiettivo del governo, ma malinteso: la riforma dispone in modo imperativo una «ragionevole durata» per gradi di giudizio (due anni in appello, uno in Cassazione), con l'effetto paradossale e irragionevole di consentire una durata anche molto differente dei processi di primo grado a parità di reato. Sul piano tecnico, le critiche sono diverse. Non piace che la dilatazione dei tempi processuali in appello (fino a tre anni) e Cassazione (fino a 18 mesi) sia consentito per tipologie di reato. Un criterio rigido e inadeguato; piuttosto, dovrebbe essere tarata sulle caratteristiche di ciascun processo: numero di imputati, carichi di lavoro concreti, complessità probatoria. «Una perizia su una bancarotta può richiedere almeno un anno», ha spiegato nell'audizione parlamentare il giudice, ed ex politico, Alfredo Mantovano. Non convince inoltre la disciplina del regime transitorio nell'entrata in vigore delle nuove regole, così come la «scarsa aderenza alla realtà» dei tempi medi di trattazione dei processi nelle diverse Corti d'appello. L'ufficio studi ha consegnato alla commissione i dati drammatici della «geografia territoriale»: nove distretti su 26 superano la media di due anni in appello; Bari, Reggio Calabria, Venezia, Roma e Napoli (che rappresentano circa metà del carico giudiziario complessivo) superano i mille giorni. Dunque, sostiene la commissione, la riforma Cartabia «condanna all'estinzione» un gran numero di processi. La parola amnistia, evocata da molti magistrati nei giorni scorsi, non viene usata per fair play, ma la sostanza è quella. «Riteniamo negativo l'impatto della norma», dice il presidente della commissione Fulvio Gigliotti, docente di diritto privato a Catanzaro (dove è stimato, tra l'altro, dal procuratore Gratteri), eletto dal Parlamento su indicazione del M5S. Il parere è stato votato in commissione da 4 membri su 6. Astenuti il docente e avvocato penalista milanese Alessio Lanzi (quota Forza Italia) e la giudice Loredana Micciché della corrente conservatrice Magistratura Indipendente. Lanzi considera la riforma «non entusiasmante ma il male minore per superare il processo eterno introdotto da Bonafede». La Micciché non gradisce «alcuni passaggi stilistici del parere, ma condivido l'approccio critico». Distinguo lessicali a parte, il plenum si annuncia un fuoco di fila. La riforma è riuscita a compattare una magistratura per il resto dilaniata. Anche i settori più disponibili l'hanno scaricata, come dimostra un editoriale di Questione Giustizia, rivista di Magistratura Democratica. Perplessità trapelano anche dalla commissione Lattanzi, istituita dalla Cartabia ma largamente sconfessata. Oltre che da chat e mailing list, il clima arroventato è testimoniato dal dibattito ieri al Csm su un tema minore: la commissione sui tribunali del Sud. Voluta dalla ministra ignorando il Csm, salvo chiedere l'autorizzazione a coinvolgere alcuni magistrati. A nulla è valso il tentativo di ricucire del vicepresidente David Ermini: è passata, evitando un ceffone istituzionale, solo grazie a massicce e provvidenziali astensioni.

Da corriere.it il 21 luglio 2021. «Spesso, si è detto in questi giorni che i procedimenti di mafia e terrorismo andranno in fumo. Non è così, perchè i procedimenti che sono puniti con l’ergastolo, e spesso lo sono quelli per mafia, non sono soggetti ai termini dell’improcedibilità. E per i reati più gravi si prevede, in ogni caso, una possibilità di proroga». Lo ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il question time alla Camera, nel rispondere ad un’interrogazione su dati ed effetti relativi all’introduzione di meccanismi di improcedibilità nell’ambito del processo penale, con particolare riferimento alla durata massima del giudizio di impugnazione presso le Corti d’appello. A sollevare il nodo della durata dei processi e del pericolo che la nuova riforma facesse cadere in prescrizione i reati di criminalità organizzata era stato tra gli altri il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che era stato ascoltato dalla commissione giustizia proprio in merito alla riforma del processo penale. La ministra Cartabia ha sottolineato che anche le accuse di terrorismo non subiranno il «taglio» dovuto ai nuovi tempi del processo.

Anche lo sceriffo Gratteri sulla riforma ha superato se stesso. Le accuse di Cafiero de Raho alla Cartabia sono vilipendio alla Repubblica. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 27 Luglio 2021. «Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo, o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000». Così recita il comma 1 dell’articolo 290 del codice penale. Si parla di vilipendio – spiega la dottrina – quando qualcuno pubblicamente offende, usando termini volgari o denigratori soggetti dotati di particolare dignità sociale. Il fatto che il vilipendio sia punito con una multa non ne esclude la natura di reato. Probabilmente, il legislatore, consapevole che il vilipendio confina con l’espressione della libertà di opinione, ha inteso confermare, in via di principio, la fattispecie del reato punito, tuttavia, con una pena praticamente simbolica. Ovviamente non intendiamo attaccarci ad una norma tuttora sospesa tra un passato autoritario ed un presente democratico. È giusto però sottolineare come non sia consentito prendere a calci le istituzioni, col pretesto del diritto di manifestare il proprio pensiero. Soprattutto quando il vilipendio è esercitato, dall’interno delle istituzioni stesse, a opera di alti magistrati soggetti alle leggi. Certo, si potrebbe disquisire a lungo sui concetti di legalità e giustizia. Anche nei regimi autoritari vi sono atti che hanno valore di legge, ma che magari disattendono i principi del diritto. I giudici che applicavano il codice Rocco, si attenevano al diritto positivo in vigore, ma venivano meno rispetto a quei diritti dell’uomo e del cittadino sanciti dalla Rivoluzione francese o impressi nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Tornando al tema del vilipendio in quale altro modo può definirsi quanto ha affermato in audizione il procuratore generale antimafia, Federico Cafiero de Raho a proposito della riforma della giustizia presentata dalla ministra Cartabia: «Mina la sicurezza del Paese» (sic!) la riforma della prescrizione con la norma sulla improcedibilità che scatta se il processo in appello non si conclude in 2 anni e in Cassazione in uno, indipendentemente dalla gravità dei reati per i quali si procede. E senza risorse aggiuntive per gli uffici giudiziari, con «tempi così brevi per l’appello», si prospettano «conseguenze molto gravi nel contrasto alle mafie, al terrorismo e alle altre illegalità». Non è da poco accusare un governo ed un ministro di minare la sicurezza del Paese, soprattutto quando Marta Cartabia è una ex presidente della Corte Costituzionale e a presiedere la Commissione che ha elaborato il testo è stato l’ex presidente Giorgio Lattanzi. Anche il procuratore più procuratore d’Italia Nicola Gratteri ha scomodato “la sicurezza”. Ma ha superato se stesso in un acuto frangicristalli in occasione di una intervista a Il Domani, ripresa da Giuseppe Sottile su Il Foglio. Come se fosse appena uscito da una seduta spiritica Gratteri ha assicurato che «Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma». Poi ha proseguito alzando i toni dell’indignazione: «Conosco l’integrità di questi grandi uomini morti in nome di un’idea, penso che non bisognava nemmeno avvicinarsi alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi». Se Gratteri può parlare così non è frutto di un’intemperanza casuale. Ma l’ennesima “licenza” che si prende un beniamino della subcultura manettara, lo “sceriffo” della Calabria, colui che nel saldo tra persone arrestate e rimesse in libertà ha sempre da perdere. Questa deriva ha un inizio: quando il pool di Milano nel 1992 insorse contro il decreto Conso, tra l’entusiasmo del “popolo dei fax”. Ecco perché la sfida in cui sono impegnati Draghi e Cartabia è molto difficile, nonostante la loro fermezza: perché si tratta di andare controcorrente rispetto ad un’opinione pubblica sobillata, che da tanti anni ha condiviso la cattiva medicina del giustizialismo, ha bevuto alla fonte del kombinat mediatico-giudiziario, si è esercitata nella pratica della gogna, sostituendo una sorta di moralismo d’accatto ai principi del diritto. Giuliano Cazzola 

Marta Cartabia, "cosa si sperava su di lei al Ministero": un pesante retroscena dietro la sua ascesa. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. Marta Cartabia, 58 anni, professoressa di diritto costituzionale in Italia, in America, nel mondo, e non è un modo di dire. Inserita nelle commissioni internazionali al più alto livello. Se ci fosse un ranking dei giuristi come per i tennisti se la giocherebbe tra i primi dieci. Presidente della Corte Costituzionale fino a settembre dl 2020, prima donna dopo 45 uomini, ora ministra (così la chiama Mario Draghi, ipse dixit) della Giustizia. Chi è davvero, al di là del curriculum regale? Il nome è quello che ci meritiamo nella prova. La Marta del Vangelo è quella che fa, mette in tavola, provoca Gesù Cristo facendolo piangere, fino a spedirlo a far risorgere Lazzaro. La Cartabia è davvero Marta, adesso però. Prima contemplava il diritto sui monti elevati della scienza purissima. Studiare, ascoltare, ma in alto. Quando le fu proposto il ministero di via Arenula, ci fu chi pensava si sarebbe rovinata. Fosse addirittura una trappola per bruciarle i piedi nell'ascesa al Quirinale dove pareva predestinata, purché non si mescolasse giù, la in basso, dove gli alligatori mordono le caviglie degli angeli e soprattutto delle arcangelesse ignare. Si pensava che si sarebbe spiaccicata, schienata con un colpo di lotta poco greca e molto romana, scendendo dalle vette dove tirava di fioretto con i fuoriclasse della giurisdizione planetaria. Invece no. È diventata ciò che doveva essere: Marta. E così oggi come oggi (domani vedremo, lei non pare avere progetti, a ogni giorno basta la sua pena, purché in regola con l'articolo 27 della Costituzione) è il primo ministro della Giustizia ad aver infilato il cuneo d'acciaio della riforma nel granito fino ad ora inscalfibile di una magistratura riottosa a qualsiasi anche solo ritocco del proprio sistema di potere assoluto e onnipervasivo. Accidenti se la ministra ce l'ha fatta.

FIDUCIA. Conosciamo le critiche, sono anche le nostre, se partiamo dall'ideale immacolato di giustizia giusta. Poca roba questa riforma? Ah sì? Sarà pure una riforma all'acqua di rose, ma è un inizio, una crepa nella muraglia. Una fenditura che è penetrata nella caverna dell'inamovibile status quo dell'apparato giudiziario. Spaventa i vampiri. Si voterà la fiducia, è fatta. Dopo che persino il Consiglio superiore della magistratura le ha lanciato l'anatema, lei non intende recedere, o ricollocare i frammenti che i suoi gentili colpi di martello ha fatto schizzare intorno, suscitando l'ira vertiginosa dei mozza-orecchi d'Italia. Non alzerà la voce. Ascolterà, pazienterà. Farà un occhiellino qua, tirerà un filo lì. Ma l'ordito non lo tocca. La lunghezza spasmodica dei processi non c'è più. Che lingua parli, un italiano luccicante, lo abbiamo imparato tutti giovedì sera quando Draghi ha invitato la ministra a spiegare in poche parole la legge che lei stessa ha voluto fosse sottoposta alla fiducia delle Camere. Con un lavoro meticoloso, di taglio, cucito, strappo, rammendo e ricamo aveva composto un testo che è il massimo che un governo tutti -dentro -o -quasi poteva permettersi persino sull'isola di Utopia. Ha ottenuto l'unanimità del consiglio dei ministri. Ha detto: «Ridurre i tempi dei processi, è un imperativo del diritto. Ce lo impone l'Europa, con il Pnrr. Ma non è questa la ragione profonda. È questione di giustizia». Si possono aggiustare i particolari tecnici. L'impianto è quello e non si tocca. Dopo i ritocchi, si rivoterà la fiducia. Dai principi non si deroga. Poche ore prima di quelle parole, a consiglio dei ministri non ancora radunato, era partita la scomunica del Consiglio superiore della magistratura. Chiaro l'intento di provocare l'altolà. Il Fatto di Travaglio aveva subito rilanciato on line il diktat. La sesta commissione - quella dedicata al contrasto contro la corruzione, la mafia e il terrorismo - senza alcun voto contrario aveva usato la parola "negativo". Una condanna secca. Avrebbe tradito "alcuni principi dell'ordinamento come l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata del processo". . Dare a lei della nemica della Costituzione è come darle dell'anti-Cristo a cavallo. Non urlerà, né sbraiterà. La sua tecnica è quella di Messi. Tratterrà la palla senza reagire alle provocazioni, portategliela via se ci riuscite. Quando fu nominata ministro della Giustizia ci fu chi spifferò: «Marta Cartabia si è bruciata il biglietto per il Quirinale». Ha scelto di essere sé stessa, invece di lisciarsi il curriculum, e insistere nell'insegnamento alla Bocconi e nelle escursioni sul Gran Paradiso con marito e i tre figli. Per il paradiso c'è tempo. Osservando la rassegna stampa si apprendono definizioni di status a suo riguardo, cioè cattolica, una giovinezza in Comunione e liberazione, mai peraltro abbandonata. Ma osservarla in azione è più interessante. Se ne comprende il temperamento. Nel 2010 il 21 agosto a Rimini incontra il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, ospite del Meeting. È presente il giurista americana ebreo Joseph Weiler, uno degli uomini più colti del nostro tempo, che ne vanta la «straordinaria erudizione» oltre che «l'originalità». Napolitano ascolta. Due giorni dopo parla sulla Costituzione prima di Giuliano Amato che inizia così: «Brava!». Lei salta su. Mostra di non gradire la condiscendenza. Non è la valletta dei giganti. È la professoressa Cartabia. Quindici giorni dopo, a 48 anni, è scelta dal Quirinale per la Consulta.

PER LE CARCERI. Oltre che le pagine dei manuali, gira le prigioni. Non ci va per una conferenza. Ci passa giornate: a San Vittore, a Rebibbia. Ne resta segnata. Non esiste nessuno che non possa essere riguadagnato alla società come uomo vivo: vivo anche durante la pena. Così si spiegano gli interventi sul mondo del carcere. Non solo per rendere umana la privazione della libertà dei reclusi, ma anche per le guardie carcerarie. La sua visita a Santa Maria Capua a Vetere è esemplare. Trovare le cause dei pestaggi, non nella cattiveria della penitenziaria, ma nel sistema canceroso, che anch' esso è parte dell'universo giudiziario malato. Incidere sulla durata dei processi non è un altro libro e un'altra lingua rispetto a un sistema di pena e di custodia cautelare rispettoso della giustizia. Non ci credeva nessuno. Non sono più i magistrati a dire resistere, resistere, resistere. È la Cartabia. 

L’intervento del presidente della Repubblica. Riforma della giustizia: Mattarella blocca il golpe del Csm, insorge il partito dei Pm. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Luglio 2021. L’iniziativa presa ieri da Mattarella è stata forte. Il Csm ha sbrigativamente fatto bocciare da un suo Ufficio – 4 a 2 – la norma sulla improcedibilità? Il Presidente della Repubblica, nella sua veste di Presidente del consiglio superiore della magistratura, ieri ha chiesto all’organo che governa le toghe di prendere in esame l’intero testo della riforma Cartabia. Sottolineando – se ve ne fosse bisogno – di trovarci in presenza di una riforma di primaria importanza, il Colle ha preteso dal Csm un’attenzione in più, non solo rituale ma di sostanza. Facendo recapitare senza timori di fraintendimenti l’indirizzo della sua moral suasion. Per farlo, ha sottolineato due elementi quali-quantitativi: la riforma va valutata nel suo complesso e non sezionandone una parte ad uso e consumo. E poi non la si può far trattare dalla sola sbrigativa sessione della sesta commissione del Csm (l’Ufficio legislativo, per intenderci) ma necessita del parere motivato della plenaria. Che va convocata ad hoc. Per capirci: non si può fare lo spezzatino. Non si può dire che l’improcedibilità è un problema mentre altri punti piacciono di più. Non siamo al menu del ristorante: la Riforma Cartabia è una e deve essere valutata da un parere integrale, univoco e ben motivato. Il peso del Quirinale, entrato in quella blindatura tutta particolare che gli conferisce il Semestre bianco, controbilancia tutti i mal di pancia con cui fino a ieri l’Anm prima e il Csm poi avevano tentato la zampata. Fa capire, sia pure proceduralmente, quale sia la posta in gioco e da che parte siede Sergio Mattarella. Liturgie? Mica tanto. Perché c’è da considerare anche il calendario. Il vice presidente del Csm Davide Ermini cerca di verbalizzare l’accaduto: «Il Presidente ha ritenuto opportuno che fosse posticipata, anche solo di pochi giorni, l’iscrizione della pratica all’ordine del giorno del plenum in modo da completare la proposta di parere con riguardo al complesso della riforma». I pochi giorni però non sono pochi. Dal Csm ci informano che la seduta plenaria prevista per la settimana prossima non potrà avere all’ordine del giorno la disamina del pacchetto di riforme. Si tratta, messa da parte la sesta commissione del Csm, di incaricarne il Centro Studi, di coinvolgere tutti gli uffici dedicati al legislativo prima ancora dell’intero assetto della plenaria. Andiamo a settembre. «Impossibile convocare il plenum nelle due settimane centrali di agosto», ci confidano dagli uffici di Palazzo dei Marescialli. Il rinvio a settembre stride con la questione di fiducia che è stata posta dal governo sul provvedimento, su richiesta della stessa ministra Cartabia. Draghi vuole chiudere entro il 5 agosto la querelle, il voto di fiducia potrebbe essere posto in aula nella sessione del 30 luglio. Ecco che prende forma la mossa del cavallo del Colle: mentre il Csm studia le carte, la riforma dovrebbe già essere stata votata dal Parlamento. Ermini prova a precisare, comunicando senza rassegnarsi: il Csm dovrà «offrire al Parlamento una approfondita e completa valutazione tecnica». Quella che però il calendario oggi esclude. A meno che non vi sia non solo un’adunanza straordinaria del Csm in plenaria ad agosto ma anche una indefessa attività degli uffici, nottetempo. Si incarica di suonare l’adunata l’ex capo dell’Anm, Eugenio Albamonte. Per non prendersela con Mattarella, il leader delle toghe progressiste di Area fa il giro largo: «Non si vuole che gli equilibri politici vengano turbati dalle valutazioni tecniche di chi il processo lo conosce. E questa non è una bella pagina, soprattutto per un governo istituzionale di questa caratura». Poi concede: «Siamo costruttivi, non si tratterebbe di bocciare la riforma ma di indicare delle alternative». La solita vecchia impertinenza della tripartizione dei poteri non demorde. «Il parere riguarda il punto della riforma che assume un valore nevralgico – insiste Albamonte – Dire non parliamo di questo, ne parliamo dopo con tutto il resto, mi sembra come voler buttare la palla in tribuna. Non è un atteggiamento che ha una sua comprensibilità se non a ragionare in termini di difficoltà del governo». Eppure è tutto chiaro, squadernato sotto gli occhi di tutti: il presidente della Repubblica ha detto con chiarezza che questo golpe non s’ha da fare. La Riforma che la giustizia italiana attendeva è giunta ai nastri di partenza. Non la si riuscirà a fermare fintanto che dal Parlamento a Palazzo Chigi al Quirinale ci sarà un’intesa che guarda a via Arenula con occhi ben diversi dal passato.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Il Movimento resta spaccato. Riforma della giustizia: Cartabia smonta le critiche e va avanti col suo calendario. Claudia Fusani su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Quattro condizioni per andare avanti: la riforma del processo penale deve essere approvata almeno alla Camera entro la prima settimana di agosto; non deve essere “snaturata” nel senso che l’obiettivo finale è la riduzione del 25% dei tempi del processo; il testo deve essere approvato con la stessa maggioranza che lo ha approvato in Consiglio dei ministri. Che poi è la maggioranza che ha approvato il Pnrr, i suoi vincoli e he potrà distribuire sui territori i primi 25 miliardi deliberati. Ne consegue che se i 5 Stelle, come qualcuno di loro ha fatto circolare nell’assemblea con Conte martedì sera, ha intenzione di uscire dalla maggioranza “perché tanto Draghi avrebbe comunque la maggioranza”, a quel punto è crisi. Nonostante il semestre bianco. E con tutte le conseguenze del caso. Da Palazzo Chigi filtrano repliche gelide e quasi perentorie rispetto alla provocazione di 917 emendamenti (su 1631 totali) firmati 5 Stelle depositati in Commissione Giustizia al testo di riforma del processo penale che ancora porta il nome dell’ex ministro Bonafede e che l’attuale ministra Cartabia ha subemendato raddrizzando, e di parecchio, la piega giustizialista e manettara. A cominciare da quella prescrizione fine processo mai in vigore, è bene ricordarlo, da gennaio 2020. E senza il necessario e vitale contrappeso di un processo che si deve consumare in un arco di tempo determinato, circa sei-sette anni. La Costituzione la chiama “ragionevole durata del processo”. (art.111). Un principio quasi mai rispettato in Italia. E che da qualche anno è tra i motivi per cui il nostro sistema paese non è considerato attrattivo all’estero. Le “condizioni” di palazzo Chigi vengono veicolate ai vari gruppi parlamentari, a cominciare dai 5 Stelle per le vie brevi, telefonate, messaggi, consigli non richiesti. Il tutto trova la necessaria sintesi in una parola che tutti ieri alla Camera pronunciavano a bassa voce: “Mediazione necessaria”. Dopo trent’anni di tentativi. La presenza di Draghi a palazzo Chigi è l’unica condizione che fa essere questa cosa possibile. Anzi, probabile. È stata una giornata di riunioni informali e spesso a distanza. Conte è stato subito messo in minoranza: lunedì nell’incontro con Draghi aveva lasciato intendere che sarebbero arrivate proposte accettabili e digeribili; il giorno dopo sono invece arrivati emendamenti soppressivi della riforma Cartabia. Alla faccia dell’accettabile e del digeribile. Ieri si è confrontato con i suoi, a cominciare da Bonafede nel tentativo di farlo ragionare. Il Movimento era e resta spaccato nonostante l’arrivo dell’avvocato del popolo: c’è chi spinge verso l’uscita dal governo (ma non la fine della legislatura) e chi invece, a cominciare dai ministri che l’hanno votato in Consiglio dei ministri quasi due settimane fa, lavora per la mediazione. Bazoli e Verini per il Pd vanno indicando la soluzione: «I nostri 19 emendamenti salvano celerità e processi». Lucia Annibali, capogruppo di Italia viva, avverte: «Se si cambia qualcosa su richiesta di un gruppo, è chiaro che questo deve poi avvenire in tutte le direzioni». Il fatto è che se M5s ha depositato 917 emendamenti, Alternativa c’è, gli ex 5 Stelle, ne hanno presentati 403, Forza Italia 120, Italia viva 65 e Fdi, l’unico vero partito all’opposizione, 39 Enrico Costa (Azione) che vorrebbe annullare del tutto la riforma Bonafede. Una babele che rischia di trasformare il semestre bianco (che inizia il 3 agosto) in una corrida. Ecco perché Draghi vuole blindare la riforma, e approvarla alla Camera, prima di quella data. Una prima mediazione è stata cercata nel pomeriggio nell’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia che doveva cercare di mettere un po’ di ordine sui tempi e sugli emendamenti. La calendarizzazione in aula è stata rimessa ai capigruppo. Esclusa comunque la prevista data del 23 luglio. In base all’arrivo in aula sarà deciso il lavoro preliminare sugli emendamenti. Circa i contenuti, si lavora sulla improcedibilità del processo e per tutti i tipi di reati (dopo tre anni invece che due in Appello; dopo 18 mesi invece che dodici in Cassazione). Ma si lavora anche sull’entrata in vigore della norma “non prima del 2024”, in modo di dar tempo all’ufficio del processo di essere funzionante e ai rinforzi (i 16.500) di lavorare già a pieno regime. Nel frattempo, nel pomeriggio, importanti indicazioni e precisazioni sono arrivate dalla ministra Cartabia. Ai tanti magistrati che in queste ore si affrettano nel dire la loro e nel denunciare “la morte del processo” e la “massima ingiustizia”, la Guardasigilli, rispondendo al question time alla Camera ha messo in fila un paio di utili concetti. Il primo: «Il governo è consapevole di quello che fa, è il primo a non volere ciò che voi paventate (l’improcedibilità di molti processi, ndr) e che nessuno vuole che accada in questo Paese ma vuole affrontare il tema della durata dei processi che è gravissimo». La riforma del processo penale, tanto per cominciare, non riguarda solo la prescrizione e l’improcedibilità nel secondo e terzo grado, ma «l’intero processo penale, dalle indagini preliminari all’esecuzione della pena e prevede l’ingresso di 16.500 nuovi addetti tra magistrati e personale di cancelleria». Giusto per dire che le cose vanno considerate nel loro insieme e non per qualche bandierina utile alla propaganda. «Non è vero, ad esempio, che i procedimenti di mafia e terrorismo andranno in fumo. Per i reati più gravi è prevista la proroga». È verissimo, invece, che oltre il 50 dei reati si prescrive nella fase delle indagini preliminari e un altro 25% prima del giudizio di primo grado. Su tutto questo interviene la riforma Cartabia. Ma non la riforma Bonafede che si occupa della prescrizione dal primo grado in avanti.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Giustizia, i ministri grillini pronti alle dimissioni per una riforma approvata da loro in Cdm. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. Prima che politico, il problema è di carattere: riguarda il coraggio. L’8luglio, dinanzi alla riforma della giustizia scritta da Marta Cartabia dopo aver mediato con i partiti, alla domanda di Mario Draghi se quel testo andasse bene a tutti i presenti, Fabiana Dadone, Luigi Di Maio, Federico D'Incà e Stefano Patuanelli, ossia i quattro ministri del M5S, lo approvarono silenti. Si sa com' è andata. Giovedì scorso, Draghi ha annunciato che intende mettere la fiducia sul testo di quella riforma, o su una versione molto simile, sottoposta a «limitate modifiche tecniche condivise da tutti». Si rivolge ai ministri, con particolare attenzione a quei quattro, tutti presenti: «Ci sono obiezioni?». Nessuno fiata, la proposta passa all'unanimità. E poi ieri mattina la 37enne Dadone, di professione ministro per le Politiche giovanili (non pervenute, peraltro), fa sapere di non escludere affatto le dimissioni sue e degli altri tre pentastellati dal governo. «È una cosa da valutare insieme a Giuseppe Conte», avverte. Spiega che tutto dipende da «quale sarà l'apertura sulle modifiche tecniche» al testo che lei stessa aveva approvato. «Ci aspettiamo una discussione costruttiva, vedremo le decisioni da prendere». Il M5S che punta i piedi e detta le condizioni. Facile la battuta di Matteo Salvini: «Se ne vanno? Ma magari. In Italia non penso ci sarebbero manifestazioni di disperazione nelle piazze». Sarebbe sbagliato, però, dire che è tutta una recita e che i primi a non aver voglia di mollare le poltrone sono proprio i Cinque Stelle, perché la storia non è così semplice. Un ruolo importante lo hanno anche i loro parlamentari che non vantano titoli da ministro o altri incarichi, e sono stanchi di portare acqua ad un governo in cui non si riconoscono. C'è Giuseppe Conte che sull'opposizione a Draghi vuole ritagliarsi un ruolo da leader nazionale. C'è il Fatto quotidiano di Marco Travaglio che li spinge alla rivolta contro la «schiforma penale». C'è uno zoccolo duro di elettori che sogna il ritorno del movimento alla purezza antica. E c'è, tra dieci giorni, il semestre bianco nel quale le Camere non potranno essere sciolte, e dunque si potrà fare qualunque cosa senza temere per lo scranno in parlamento, almeno sino a febbraio. Così lascia il tempo che trova anche la scontatissima retromarcia in cui la Dadone si esibisce dopo qualche ora (e dopo diverse telefonate con gli altri ministri, e dopo che nella chat interna dei governisti del M5S scoppia il finimondo e i colleghi le domandano: «Ma sei impazzita?»). Lei torna pubblicamente sulla questione per assicurare che «c'è una chiara apertura del presidente Draghi e della ministra Cartabia di cui va preso atto. Non è nel mio stile minacciare. È nel nostro stile dialogare e confrontarci. Lo stanno facendo Draghi e Conte, che sono due persone di alto profilo, e sono certa troveranno punti di incontro». Come se Draghi riconoscesse a Conte un ruolo da interlocutore alla pari, insomma, versione che l'ex prova ad avvalorare: «La mediazione? Ci stiamo lavorando». Di Maio e Patuanelli garantiscono ai ministri degli altri partiti, subito insorti, e ai vertici del Pd, terrorizzati, che la ragazza è stata fraintesa, e in ogni caso la loro uscita dal governo è un'ipotesi non contemplata. Concetto che il ministro degli Esteri ribadisce in serata: «In questo momento non ci possiamo permettere di giocare con la stabilità di una nazione che deve spendere in tre anni 230 miliardi del Recovery Fund». Ma questa è la versione da recapitare a Draghi. La verità, raccontano i pochi che hanno voglia di parlare, è che dietro all'"avvertimento" della Dadone c'è la regia di Conte, che prova così a dare i primi colpi all'esecutivo. Le due anime interne al M5S che tornano a sfidarsi, i ribelli contiani contro i governisti legati a Beppe Grillo, a conferma di quanto possa valere l'accordo raggiunto tra i due a Marina di Bibbona. Prove tecniche in vista di ciò che potrà accadere nei prossimi mesi. Anche perché, mentre succedeva tutto questo, un altro deputato usciva dalla maggioranza, ed è proprio uno dei loro. Si chiama Giovanni Vianello e ieri mattina ha votato contro la fiducia sul decreto Semplificazioni, schierandosi con l'opposizione. «Non posso dare il mio voto favorevole a queste nefandezze, tantomeno il mio sostegno ad un governo che le promuove», ha proclamato. Dovrebbe essere espulso dal M5S, ma difficilmente accadrà. Non subito, almeno. I suoi colleghi alla Camera avvertono che ce ne sono almeno altri trenta pronti a seguirlo sulla riforma della giustizia, se Draghi e Cartabia non la riscriveranno come dicono loro. C'è meno di una settimana, il testo è atteso in aula il 30 luglio. 

Lo scontro sulla riforma Cartabia. Follia a 5 Stelle, la Dadone minaccia le dimissioni ma resta sola e fa dietrofront. Claudia Fusani su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Come un formicaio su cui è passato sopra un trattore: confusione, smarrimento, e ora che succede, e ora che facciamo, soprattutto dove andiamo. Così è sembrata la Camera dei Deputati, ieri, il giorno dopo la scelta di Draghi, e di tutto il governo che l’ha approvata, di mettere la fiducia sulla riforma del processo penale. Che sta diventando, come era ovvio, il laboratorio per sperimentare la reale capacità e volontà del Parlamento di procedere con la messa a terra del Pnrr, dei progetti ma soprattutto delle riforme. Gli effetti del “trattore”, cioè il pragmatismo di Draghi, hanno coinvolto indirettamente anche il Csm e il Quirinale che non è riuscito a festeggiare tranquillo gli 80 anni del Presidente Mattarella. Che ha iniziato la giornata inviando al premier e ai Presidenti di Camera e Senato una lettera per dire che non firmerà più decreti Omnibus (come l’ultimo Sostegni). Tra le righe si legge l’invito all’ordine e alla disciplina, senza alzate di ingegno. Non solo: il Presidente della Repubblica non ha dato l’assenso all’ordine del giorno del plenum di palazzo dei Marescialli dove il Movimento 5 Stelle ha cercato di far scattare una vera manovra a tenaglia per bloccare la riforma Cartabia. Così come martedì, in zona cesarini, la Commissione Giustizia della Camera ha autorizzato l’audizione del procuratore antimafia Cafiero De Raho e del procuratore di Catanzaro Gratteri per mettere nero su bianco il loro j’accuse contro la riforma, il presidente della Sesta Commissione del Csm, il laico grillino Gigliotti ha insistito per dare il parere, non richiesto dal Guardasigilli, sulla riforma. Non su tutto il testo, però, solo sugli articoli che riguardano la prescrizione e la improcedibilità dei processi in Appello e in Cassazione che per i 5 Stelle sono il via libera per creare «sacche di impunità con la morte di almeno 150 mila processi». Il voto in Sesta commissione parla da solo: quattro favorevoli, il laico Gigliotti, i togati Zaccaro e Chinaglia (Area) e Ardita (ex Davigo). Due le astensioni: Miccichè (Mi) e Lanzi (Fi). È prerogativa del Capo dello Stato, che del Csm è il numero uno, approvare e respingere l’ordine del giorno. Mattarella ha scelto questa seconda opzione invitando il plenum ad esprimersi ma su tutto il complesso delle norme che formano il pacchetto Cartabia. Il “disordine” e lo “smarrimento” sono stati tangibili alla Camera dove si votava la fiducia sul decreto Semplificazioni (anche qui voti contrari di un paio di 5 Stelle). La mossa della fiducia preventiva ha fatto saltare i già precari equilibri. Nel Movimento ma anche nel Pd. Per motivi diversi. La fiducia è stata approvata giovedì all’unanimità nel Consiglio dei ministri dove siedono quattro ministri 5 Stelle: Di Maio, D’Incà, Patuanelli, Dadone. Conte era stato informato della decisione qualche minuto prima direttamente da Draghi. E di sicuro la notizia non lo ha rallegrato. «Non accetteremo di superare certi limiti, no a sacche di impunità» aveva detto Conte. Ora deve accettare la fiducia. Non pervenuti gli altri ministri. Il silenzio è d’oro in certi momenti soprattutto se, come Draghi e Cartabia hanno ripetuto, «siamo sempre disponibili a modifiche tecniche migliorative». Il problema è che ieri mattina la ministra Dadone, intervistata ad Agorà estate, ha dichiarato che «l’ipotesi delle dimissioni dei ministri 5 Stelle è sul tavolo se non si troverà l’accordo». Per conto di chi ha parlato la ministra che, da quello che risulta, non ha fiatato durante Consiglio dei ministri? Chi rappresenta? Quanti la pensano come lei? Domande che sono frullate tutto il giorno tra il cortile e i corridoi di Montecitorio dove i deputati 5 Stelle erano divisi in capannelli da dove filtrava fastidio per l’uscita di Dadone (che ha ritrattato in serata con il classico: «Sono stata fraintesa, non è nel mio stile minacciare alcunché») e per la «totale mancanza di confronto tra i deputati e il livello decisionale». Cioè Conte. C’è chi sta facendo due conti e mostra foglietti con una trentina di deputati che non voteranno la fiducia alla riforma Cartabia. Non che i deputati Pd ieri abbiano mostrato più lucidità degli alleati 5 Stelle. Anzi. Da una parte l’irritazione, più condivisa del solito, per l’anarchia 5 Stelle: «Non è possibile che una ministra in carica minacci le dimissioni in un momento così delicato» il refrain. «Infantilismo politico» lo ha bollato l’eurodeputata Picierno. Subito dopo la domanda: «Cosa sta facendo Conte?». Il terrore di aver sbagliato tutto è evidente: «Ci stiamo schiacciando ancora una volta sui 5 Stelle però neppure loro sanno chi sono oggi e cosa diventeranno». Dall’altra parte c’è Salvini a cui ogni giorno viene uno sturbo per i sondaggi favorevoli a Meloni. Il Pd nel mezzo a sostenere convintamente il governo Draghi. Peccato che ci sia da vincere anche le elezioni di ottobre, altrimenti chi potrà tenere un partito più diviso che mai? Insomma, ieri ha ripreso forma e vigore quella parte del Pd che chiede da un pezzo di lasciar perdere Conte e i 5 Stelle. Al Nazareno ce l’hanno un po’ anche con Draghi e con il suo pragmatismo-decisionismo che non sarà, come ha promesso, in alcun modo attenuato durante il semestre bianco. Per contro, un altro pezzo di Pd «gode da morire per il decisionismo di Draghi». Ieri sera si è fatto sentire Letta che confida «nel voto di fiducia di tutta la maggioranza». La fiducia agita il centrosinistra. Ma anche il centrodestra che ieri, per non essere da meno rispetto alle bandierine dei 5 Stelle, ha pensato bene di chiedere unito (Fi, Fdi, Lega) un ampliamento del perimetro della riforma Cartabia estendendola alla riforma dell’abuso d’ufficio. «Una mossa dilatoria che vuole impedire l’approvazione del testo entro l’estate» ha denunciato Bazoli, responsabile Giustizia Pd. Allora s’è fatta sentire la Lega: «Noi siamo responsabili, vogliamo restare nel governo ma siamo anche molto irritati con 5 Stelle che minacciano sfracelli sulla Giustizia e il Pd che vuole più tasse e il ddl Zan senza modifiche». In questo clima, è partita comunque la trattativa. In via Arenula, al ministero della Giustizia, la delegazione 5 Stelle formata dal sottosegretario Anna Macina e dalla capogruppo in commissione Giustizia Giulia Sarti, Conte sovrintende da remoto, sta cercando di trovare la quadra con la ministra Cartabia. Il Pd ha indicato la mediazione con i suoi 19 emendamenti (lodo Serracchiani). L’ipotesi più accreditata è alzare il tetto per i processi d’Appello (prima della dichiarazione di improcedibilità) a tre anni per tutti i reati (a quattro per i reati più gravi) e a un anno e mezzo in Cassazione. Non se ne parla, invece, di mettere i reati contro la Pa sullo stesso piano di quelli di mafia e terrorismo. Tutto questo almeno fino al 2024 quando si potranno iniziare a vedere gli effetti degli altri interventi previsti per agevolare il compito dei giudici: l’ufficio del processo, un manager che regola il traffico di udienze, scadenze e ferie; il nuovo personale addetto alla digitalizzazione e alle cancellerie (16 muovi ingressi compresi nuovi magistrati) e tutte le altre norme che dovrebbero avere effetto deflattivo sui giudizi di secondo e terzo grado. E ridurre la vera sacca di impunità: il 70 per cento dei reati si prescrive prima della sentenza di promo grado. Ma di questo l’ex riforma Bonafede non si è occupata. Lo sta facendo l’attuale Guardasigilli. Se riuscirà ad arrivare in porto.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità. 

In Onda, Matteo Renzi attacca M5s e la ministra Dadone: "Ce la ricordiamo solo per la foto delle scarpe sul tavolo". Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. Matteo Renzi, ospite a In Onda il talk di La7 condotto da Conchita De Gregorio e David Parenzo, analizza l'attuale situazione politica e in particolare le manovre politiche dell'M5S. In particolare sulla giustizia l'ex premier ha detto che, "i 5 stelle sono ambigui. Hanno detto che avrebbero cambiato la riforma Cartabia tornando a quella dello scienziato-Dj Bonafede e rischiano di non farlo perché c'è la fiducia", ha spiegato ironicamente Renzi. "I 5 stelle si sgonfieranno ulteriormente su questo. Se decidono di uscire dal governo sulla giustizia, dando corpo alle parole della Dadone che io ricordo solo per quella foto con le scarpe sul tavolo: quello è stato il suo unico gesto politico", ha svelato Renzi attaccando pesantemente l'attuale ministro per le politiche giovanili. "Le lasci a lei queste domande, sono già 45 minuti di intervista". Ira di Renzi dalla Fagnani: attacca la Gruber e poi minaccia di andarsene. Renzi è poi tornato anche all'attuale ministro degli Esteri: "Di Maio si dimette? Non si dimette nemmeno con le cannonate. Hanno cambiato tre maggioranze e si dimettono, ma dai...", ha aggiunto il leader di Iv. "I 5 stelle non hanno i numeri per far cadere il governo. La Camera ha votato la fiducia al Dl semplificazioni, i 5 stelle presenti erano il 53%. Sono in sofferenza ma 'gna fanno, prima di far cadere il governo si tagliano la mano". ha concluso Matteo Renzi.

Richiesta approvata all'unanimità in Cdm. Giustizia, Draghi chiede la fiducia e mette alle corde i ribelli: “Aperti a miglioramenti tecnici ma l’impianto non si tocca”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Ribelli alle corde. Il Consiglio dei Ministri, su richiesta del premier Mario Draghi, approva all’unanimità l’autorizzazione alla richiesta di fiducia sulla riforma del processo penale. Un messaggio chiaro quello inviato dal presidente del Consiglio a tutela del lavoro fatto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sulla riforma “ho chiesto l’autorizzazione a porre la fiducia. C’è stato un testo approvato all’unanimità in Cdm e questo è un punto di partenza, siamo aperti a miglioramenti di carattere tecnico, si tratterà di tornare in consiglio dei ministri”. Queste le parole di Draghi nel corso della conferenza stampa dopo l’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto legge sul green pass. C’è dunque la volontà di accogliere “emendamenti ma che siano tecnici e condivisi: sentiremo tutti” ha aggiunto, sottolineando che non verrà stravolto l’impianto della riforma. “Si arriva a chiedere la fiducia -chiarisce il Premier – quando si ha la certezza che certe differenze sono incolmabili. Ma non è una minaccia. Per garantire un periodo minimo di permanenza delle riforme che facciamo bisogna che siano condivise”. Draghi torna sulle polemiche degli ultimi giorni, e sulle richieste del leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, e chiarisce che “nessuno vuole sacche d’impunità. Vogliamo un processo rapido e che tutti i colpevoli siano puniti. Nessuno è a favore dell’uso della dilazione dei tempi, nell’uso della prescrizione, come avveniva anni fa. No, no, no. Mi auguro e faremo di tutto perché il testo sia condiviso”. Le parole della Ministra Cartabia – “Sapevamo che la riforma fosse difficile ma anche ineludibile perché il problema della durata dei processi è grave in Italia per ragioni legate innanzitutto alle esigenze dei cittadini. La ragionevole durata del processo evita la prescrizione, è voluta dalla Costituzione. Data la criticità di alcune Corti d’appello- aggiunge nel corso della conferenza stampa- dobbiamo evitare che l’impatto di novità come quella dell’improcedibilità dopo un certo periodo, variabile a seconda della gravità del reato, non provocasse l’interruzione dei processi. È una preoccupazione seria che anche il governo ha avuto e un terreno su cui si stanno valutando accorgimenti tecnici”. Cartabia poi ribadisce che “questa riforma non è solo la riforma della prescrizione, ma e’ una riforma con cui si punta ad abbreviare i processi troppo lunghi ed evitare zone di impunità”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Marco Conti per “il Messaggero” il 21 luglio 2021. «Non possiamo lasciare alle nuove generazioni il mostro della giustizia che ci è stato raccontato, non abituiamoci a cose come questa». Marta Cartabia, ministro della Giustizia, tiene il punto e lo fa a Napoli dove ci sono 57.400 processi pendenti. «Un paziente grave», lo definisce il ministro proprio mentre in Parlamento la sua riforma del processo penale viene investita da una pioggia di emendamenti, soprattutto M5S. I parlamentari grillini restano sulle barricate e, appoggiati da una parte della magistratura, difendono la cancellazione della prescrizione voluta dal ministro Alfonso Bonafede. Al fine processo mai, l'ala più dura del MoVimento non intende rinunciare e si prepara a fare le barricate anche se, dopo la salita di Conte a palazzo Chigi, qualche accenno di trattativa si avverte ma senza toccare l'impianto della riforma Cartabia in linea con uno stato di diritto. I 917 emendamenti presentati dal MoVimento la dicono però lunga sulle contorsioni in atto nei gruppi parlamentari grillini. Nel tentativo di trovare una mediazione si stanno spendendo Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. I due trovano sponde anche nel Pd, ma al Nazareno sono consapevoli che Mario Draghi sul punto non intende fare passi indietro rispetto a quanto promesso a Bruxelles dove ieri sono tornati a farsi sentire con una relazione sullo stato della giustizia italiana che lascia poco spazio all'ottimismo. Soprattutto si teme che Conte intenda applicare anche stavolta la solita tattica del rinvio in modo da scavallare l'estate, entrare nel semestre bianco, e poter trattare senza temere le urne. Draghi però non molla, nè la riforma, nè i tempi entro i quali intende farla votare anche a costo di mettere la fiducia il 23 del mese. Nel frattempo si lavora a mini ritocchi. In tutto una decina di punti, tra i quali anche la prescrizione. «Siamo pronti a lavorare, con serenità, in commissione per trovare un punto d'incontro», sostiene Antonio Satta, capogruppo grillino in commissione Giustizia. I 917 emendamenti funzionano da cortina fumogena dietro la quale si nasconde l'unico punto che sta a cuore ai 5Stelle: lasciare alle toghe la decisione sulla durata di un processo. I grillini cercano quindi di prolungare il più possibile i termini della prescrizione. Tra le ipotesi quella di portarla da due a tre anni in primo grado e da un anno a un anno e mezzo per l'appello. I dem continuano a fare sponda ai 5Stelle, anche se faticano a trovare con l'alleato un punto di sintesi che sia in grado anche di non riaprire la trattativa con il resto della maggioranza. Ieri il capogruppo Pd in Commissione, Alfredo Bazoli, ha presentato le proposte del partito racchiuse in diciannove emendamenti. Una serie di contatti ci sono stati anche ieri tra Palazzo Chigi, con il sottosegretario Roberto Garofoli, ed esponenti della maggioranza. Dal Quirinale si segue con attenzione l'iter di una riforma determinante per i fondi del Recovery Fund e sulla quale, in attesa del parere del Csm, non ci sono rilievi. Continua però il pressing di una parte della magistratura che a breve potrebbe dover fare i conti anche con i referendum sui quali i Radicali stanno raccogliendo le firme. Per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il 50% dei processi finiranno sotto la scure dell'improcedibilità (anche se la riforma riguarda i processi per reati dopo il 2020) mentre il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho parla di una diminuzione della sicurezza del Paese. Malgrado i tempi dei processi in Italia siano anticostituzionali, le resistenze continuano ad essere forti, ma non scalfiscono il ministro Cartabia la quale sottolinea come i termini dei processi previsti nella riforma «non sono termini inventati, sono quelli che il nostro ordinamento e l'Europa definisce come termini della ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale». L'argomento rappresenta una bandierina che, più di altre, il MoVimento fatica ad ammainare anche perché l'ex deputato M5S - sempre in vacanza - Alessandro Di Battista, non lesina critiche ai suoi ex compagni di partito. Parlando ieri sera per la prima volta da leader all'assemblea dei gruppi pentastellati, Giuseppe Conte ha affrontato ovviamente l'argomento accennando anche all'incontro avuto con Draghi. «Al premier Mario Draghi, sulla giustizia - ha detto Conte - ho fatto un discorso di chiarezza. Sulla giustizia il M5S ha una storia articolata e complessa, alcuni toni a volte hanno consentito ad altri di schiacciare l'immagine del M5S come un Movimento manettaro e giustizialista, ma noi abbiamo all'interno una solida cultura della giustizia. Non dobbiamo più lasciarci schiacciare da questa immagine». Poi il passaggio più coraggioso, per gran parte dell'uditorio: «Saremo in prima linea per rivendicare con forza che il M5S è attentissimo allo stato di diritto e alla tutela del diritto», due aspetti che passano dal concetto di «presunzione d'innocenza e dall'obiettivo di garantire una durata ragionevole del processo».

I veri effetti della riforma Cartabia. La bugia di Conte sul Ponte Morandi: perché non esiste lo spauracchio “estinzione”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Giuseppe Conte agita un fantasma che, di fatto, non esiste. Il neo leader del Movimento 5 Stelle, reduce dal faccia a faccia col presidente del Consiglio Mario Draghi, il primo dallo scorso febbraio, quando aveva lasciato Palazzo Chigi all’ex numero della Bce, è ovviamente interessato alla giustizia e alla riforma Cartabia, il grande tema del vertice di lunedì. Un tema che Conte aveva già trattato nel suo discorso tenuto sabato 17 annunciando il voto del nuovo Statuto 5 Stelle, con parole che fanno storcere il naso e fanno avanzare più di un dubbio: ma ‘l’avvocato del popolo’ la riforma Cartabia che i grillini tanto criticano almeno l’ha letta? Non si spiega altrimenti l’uscita temeraria dell’ex premier, che in quella diretta Facebook aveva utilizzando parole allarmanti sul rischio “estinzione” causa prescrizione per il processo penale per il crollo del Ponte Morandi di Genova. “Siamo quelli che vogliono processi veloci, ma non accetteranno mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati. Non accetteremo mai, ad esempio, che il processo penale per il crollo del Ponte Morandi possa rischiare l’estinzione”, aveva detto Conte nel suo video indirizzato alla "fanbase" grillina. Eppure quel rischio profetizzato da Conte non esiste. La riforma Cartabia sulla prescrizione si applica ai reati commessi dal primo gennaio 2020, mentre il Morandi è crollato il 14 agosto del 2018. Perché proprio gennaio 2020? Perché sostituisce la riforma della giustizia Bonafede che Conte dovrebbe conoscere molto bene, visto che entrò in vigore mentre l’avvocato del popolo sedeva a Palazzo Chigi. Insomma, il Ponte Morandi con la prescrizione e la riforma Cartabia “non c’azzecca nulla”, come direbbe l’ex pm Antonio Di Pietro, ma a Conte fa comodo evocare uno spauracchio di questo tipo, come legame sentimentale ed emotivo data l’immane tragedia che a Genova provocò 43 morti. Come previsto dalla riforma Cartabia, la prescrizione è bloccata fino alla sentenza di primo grado: a Genova è stata già fissata per il 15 ottobre la data dell’udienza preliminare, con la prima sentenza attesa probabilmente entro i primi mesi del 2022. Quanto al secondo grado di giudizio, quando potrebbe scattare “l’estinzione”, come l’ha chiamata Conte, il rischio dipenderà ovviamente dai reati contestati dai giudici agli imputati.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Quello spirito cristiano di Gozzini che rivive in Marta Cartabia. La riforma del carcere della ministra della Giustizia punta sulle misure alternative sulle quali puntò anche la legge da Mario Gozzini. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 18 luglio 2021. Mario Gozzini era uno spirito cattolico inquieto e fermo, apparteneva a quella genia di cattolici che prima della caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra pensavano e si interrogavano su quale Paese volessero costruire, animati com’erano da spirito cristiano, impegnati nell’agire sociale, e pure coscienti che la politica, l’ordinamento statuale, le leggi scritte non fossero tutto quel che si potesse fare, e fossero anche poca cosa se non erano pervase dalla passione per l’umano, dal riscatto degli “ultimi”. Così, gruppi di giovani cattolici che agivano in autonomia, partendo proprio da un’esigenza di rinnovamento religioso e sociale che il partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, pareva trascurare, negli anni Cinquanta avevano praterie davanti per un lavoro culturale. È tutto un interrogarsi e prendere le distanze dal misticismo, tutto un distinguere tra esistenzialismo ateo e religioso, tutto un ragionare sul concetto di civiltà cristiana. Era tutto un mondo quello, di forte impronta antifascista, che guardava al movimento operaio, al Partito comunista. Era, in sostanza, il confronto tra cristianesimo e marxismo. Parliamo di uomini con uno spessore culturale forte, che ebbero un peso enorme nella Costituente. È da questo “spirito” che nasce la legge Gozzini. La legge Gozzini non era «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, non faceva che dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa, anzi di preciso recita così: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E così, la Gozzini, che fu votata da tutto il Parlamento meno quelle teste di pietra del Msi, che allora volevano l’introduzione della pena di morte ( la volevano sempre, per la verità), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. Erano tempi durissimi per le carceri, con una massa di detenuti politici ( che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, Gozzini riuscì a ribaltare il punto di vista. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. Uno dei primi luoghi dove venne applicata la legge fu il carcere di Porto Azzurro. Quando nel 1987 scoppiò una rivolta e l’Italia restò per giorni con il fiato sospeso – perché c’erano ventotto ostaggi, tra cui il direttore, convinto “gozziniano”, nelle mani di sei ergastolani – Gozzini non si tirò indietro, e si schierò per la trattativa a oltranza, per il dialogo, contro chi voleva subito l’intervento delle forze speciali, anche a costo di lasciare dietro una scia di sangue. Ebbe ragione. A memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal ministro di Giustizia – accolti dai detenuti al grido di “Draghi, Draghi, amnistia, indulto”. È successo ai papi – nelle loro visite pastorali natalizie a Regina Coeli o a San Vittore. E a memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal suo ministro della Giustizia, dopo un pestaggio spietato e disumano – in cui le parole pronunciate sono state: «Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato». Parole riecheggiate in quelle del ministro Marta Cartabia: «È l’occasione per far voltare pagina al mondo del carcere. Bisogna correggere la misura penale incentrata solo sul carcere». È questo il “filo rosso” della riforma presentata da Cartabia. Da un lato, con un’ampia casistica di pene alternative alla detenzione. Si potrà intervenire sulla detenzione domiciliare: per le pene fino a 4 anni; oppure, sulla semilibertà; oppure, per i lavori utili: per le pene fino a tre anni. Dall’altro rimettere mano all’ordinamento penitenziario, la legge Gozzini n. 663 del 1986, e che ha progressivamente perso la sua “spinta propulsiva”. Il carcere non può essere “vendicativo”. È un principio che Cartabia ha ripetuto più volte, estesamente. Una, a esempio, è stata la presentazione a febbraio, del libro “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, scritto insieme a Adolfo Ceretti, professore di Criminologia all’Università di Milano- Bicocca e coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano – in cui si riattraversa l’insegnamento del cardinal Martini sulla giustizia, sul senso della pena e sulle carceri. Martini, peraltro, ricordano gli autori, iniziò la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio San Vittore. Martini, negli anni Novanta, ragionava su una giustizia non solo punitiva ma riparativa, capace di rimarginare le ferite delle vittime e della società, una “giustizia dell’incontro”. Una giustizia che vedeva nel riconoscimento della colpa e non nella crudeltà della vendetta la via per ricomporre i conflitti di società ferite, come avvenuto in Sudafrica. Un’altra, sempre a esempio, è la lectio magistralis tenuta all’università di Roma tre, a Roma, nel gennaio dello scorso anno, quando Cartabia era presidente della Corte costituzionale: “Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione al logos”. Qui, Cartabia, rileggendo la tragedia di Eschilo, ragiona sul passaggio dalla antica giustizia vendicativa, rappresentata dalle Erinni, al nuovo ordine fondato grazie a Atena, dea della sapienza, «su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre», cioè il processo davanti a un tribunale. Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo, dell’immutabilità insensata di una giustizia- vendetta che esige solo il versamento di altro sangue, la generazione di altro dolore, la proliferazione di altro male. Ogni controversia giurisdizionale reca sempre in sé una dimensione collettiva, che trascende la singola vicenda individuale. È qui che Cartabia ricorda l’esperienza del Sudafrica dopo l’apartheid – l’incontro tra le vittime e i loro carnefici d’un tempo. Una giustizia che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla – anzi ri- cordando tutto – apre una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità. Forse davvero è il momento per far voltare pagina al mondo del carcere.

Dalla prescrizione all'appello: ecco tutte le novità della riforma Cartabia sulla giustizia. Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. PASSO in avanti per la riforma del processo penale elaborata dal ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Sono stati approvati in Consiglio dei Ministri gli emendamenti che il Governo presenterà al ddl Bonafede, da tempo al vaglio del Parlamento. Questi, nel dettaglio, i punti principali:

PRESCRIZIONE Viene confermata l’attuale disciplina, che prevede lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna sia in caso di assoluzione). Inoltre, si stabilisce una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. È prevista la possibilità di una ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi (per esempio associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, concussione). Decorsi tali termini, interviene l’improcedibilità. Sono esclusi i reati imprescrittibili (puniti con ergastolo). 

DIGITALIZZAZIONE E PROCESSO PENALE TELEMATICO, DEPOSITO ATTI E NOTIFICHE Si delega il Governo a rendere più efficiente e spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche. Si prevede tra l’altro che il deposito degli atti e le notifiche possano essere effettuate per via telematica, con notevole risparmio di tempo.

INDAGINI PRELIMINARI Si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. Inoltre, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutela del segreto investigativo, si prevede un meccanismo di discovery degli atti, a garanzia dell’indagato e della vittima, anche per evitare la prescrizione del reato associato a un intervento del giudice per le indagini per le indagini preliminari che in caso di stasi del procedimento.

CRITERI DI PRIORITÀ Gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, dovranno individuare priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure e da sottoporre all’approvazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

EFFETTI ISCRIZIONE NOTIZIA REATO In linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, si prevede che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo.

UDIENZA PRELIMINARE Si limita la previsione dell’udienza preliminare a reati di particolare gravità e, parallelamente, si estendono le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna. 

APPELLO Si conferma in via generale la possibilità – tanto del pubblico ministero, quanto dell’imputato – di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Si recepisce il principio giurisprudenziale dell’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Si prevedono limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado, per esempio in caso di proscioglimento per reati puniti con pena pecuniaria e di condanna al lavoro di pubblica utilità.

CASSAZIONE Si introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Cassazione, per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, si prevede la trattazione dei ricorsi con contraddittorio scritto, salva la richiesta formulata dalle parti di discussione orale in pubblica udienza o camera di consiglio partecipata.

PROCEDIMENTI SPECIALI Sul patteggiamento si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (cosiddetto patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Quanto al giudizio abbreviato si prevede, tra l’altro, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Inoltre nel caso di mutamento del giudice o del collegio in un giudizio ordinario, si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze.

QUERELA Si delega il Governo ad estendere la procedibilità a querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità.

PENA PECUNIARIA Si mira a razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, a rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato e a prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione e conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento. 

PENE SOSTITUTIVE DELLE PENE DETENTIVE BREVI Si delega il Governo a effettuare una riforma organica della legge 689 del 1981, prevedendo l’applicazione, a titolo di pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità e di alcune misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. E’ esclusa la sospensione condizionale. In questo modo, si garantisce maggiore effettività all’esecuzione della pena.

PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO Per evitare di celebrare processi per fatti bagatellari, si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione della causa di non punibilità, di cui all’articolo 131 bis del codice penale, ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni.

SOSPENSIONE PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA Per valorizzare un istituto che ha avuto una felice applicazione nella prassi (22.271 applicazioni al giugno 2021), si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 168 bis c.p. a specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, che si prestino a percorsi di riparazione. Si prevede che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero. La messa alla prova comporta la prestazione di lavoro di pubblica utilità e la partecipazione a percorsi di giustizia riparativa.

GIUSTIZIA RIPARATIVA Si delega il Governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea (2012/29/UE) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale.

DISCIPLINA SANZIONATORIA DELLE CONTRAVVENZIONI Si conferma quanto previsto dal disegno di legge 2435 in materia di estinzione per adempimento delle prescrizioni dell’autorità amministrativa. (AGI)

Marco Travaglio e Piercamillo Davigo, gli sconfitti da Marta Cartabia: "Schiforma" e "salvaladri"? Come rosicano...Filippo Facci su Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. L'efficacia di una riforma si misura dall'isteria dei suoi nemici: se così fosse, Marta Cartabia sarebbe a posto. Marco Travaglio, che scomodiamo sempre perché fa sempre comodo, sembra letteralmente impazzito e continua a vergare i suoi articoli in stile «forca for dummies». Pier Camillo Davigo, pure lui, non fa che vergare articolesse in cui spiega tecnicamente e risolutamente, col suo stile, perché qualsiasi cambiamento introdotto dalla Guardasigilli non andrà bene. Mentre, scendendo di calibro, Alfonso Bonafede - il più imbarazzante ministro della giustizia dall'Olocene in poi - esprime al meglio ciò che ha sempre sostenuto: un mugugnoso niente. Intanto Mario Draghi non segue i consigli del Fatto Quotidiano (non sa che esiste, forse) e tratta la riforma della giustizia come qualsiasi altra, senza che intanto si cappòttino ministri, saltino governi e la gente scenda in piazza: a parte quelli che sono scesi in piazza per firmare i referendum sulla giustizia. «Lo vuole l'Europa», pare abbia detto Draghi, che poi chi se ne frega: èche lo vuole l'Italia, o così pare. Però è anche vero: i soldi del Recovery fund e del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) arriveranno solo se i tempi saranno tagliati come chiede Bruxelles. 

PROTESTE INUTILI

Dunque niente rinvii, e delle proteste grilline (e associati) chi se ne frega. Non si sa molto, ma si sa che anzitutto faranno esplodere l'abolizione della prescrizione che piace ai Travaglio-Davigo-Bonafede, con una magistratura in grado di tenerti sotto scacco a vita e di commisurare i tempi della giustizia secondo i comodi propri. Marta Cartabia, di facciata, ha ovviamente mediato con tutti: ma coi grillini, on sostanza, no. Ha già deciso che la prescrizione si sospenda dopo il primo grado, mache, nel resto del processo, si debba rispettare una tempistica ben definita tipo due anni per l'appello e uno per la Cassazione. Bonafede sta facendo casino, ma il partito è senza guida (capirai la differenza) e la riforma procede. Che i Cinque Stelle possano astenersi, o votare contro, non viene considerato un problema. Di Alfonso Bonafede non sapremmo che altro dire. Ha cercato di coinvolgere un po' di parlamentari (suoi) ma nelle commissioni giustizia non è riuscito neanche in questo. Neppure i ministri (suoi) sono favorevoli. Dovrà rassegnarsi a una riforma che Draghi ha promesso alla Commissione europea entro il termine di luglio, col solo «difetto» di voler rientrare entro i limiti della Costituzione: occorre vedere se basterà. Neppure di Marco Travaglio sapremmo più che dire: ha rispolverato tutto il repertorio («impunità ai criminali ricchi e giustizia negata alle vittime») ma con tonalità in minore, come stanco anche di se stesso. Ieri ha azzardato un parallelo tra la riforma Cartabia, «presentata mentre l'Italia è distratta dagli Europei», al Decreto Biondi che cercarono di approvare nel 1994, «mentre l'Italia era distratta dai Mondiali». Vedremo se Travaglio porterà sfiga anche stavolta. Per lui il Cartabia e il Biondi sono comunque «salvaladri», e il suo argomentare è di questo genere: senza contare l'escrementizio tentativo di collegare il nome della Cartabia alla mafia per via di una lettera giunta in via Arenula con la firma di un boss incarcerato, una delle migliaia di lettere che ogni ministro della giustizia riceve dagli istituti di pena. Sul Fatto Quotidiano (ecco perché ci fa comodo: sono tutti riuniti lì) verga una pagina settimanale anche Pier Camillo Davigo, curiosamente in sintonia copiativa (lui è l'originale) con quanto espresso in varie forme da Bonafede e Travaglio. Sul Fatto di giovedì, l'ex magistrato ha scritto un articolo proprio sulla «Perversione della prescrizione» (è il titolo) e le soluzioni che propone, dopo aver ammesso il disastro della durata dei processi, sono essenzialmente due: una contro gli avvocati (e i loro assistiti) e un'altra contro gli assistiti (e i loro avvocati). I legali sono colpevoli di «attivitaglilatorie e proposizione di impugnazioni manifestamente infondate», come dice da anni; una riforma delle impugnazioni a dir il vero è prevista, ma «non sembra idonea a ridurre sensibilmente il carico di lavoro».

RESPONSABILITÀ

Capito. Che fare? Bisogna fare come in Francia, dove «non esiste il divieto di reformatio in pejus che opera in Italia», ossia l'impossibilità di incorrere in aggravi di pena dopo aver fatto ricorso ai gradi successivi. Per i ricorsi in Cassazione infondati, a dir il vero, anche in Italia è prevista una sanzione pecuniaria: ma è solo di 2.000 euro, troppo poco. Nota: problemi e soluzioni, secondo Davigo, non contemplano difetti o errori o, insomma, posture sbagliate da parte della magistratura. Dei problemi della giustizia, i magistrati, non hanno nessuna responsabilità. Dettaglio oggettivo: non ci crede più nessuno.

Marco Travaglio per “Il Fatto Quotidiano” il 10 luglio 2021. – ESTRATTO. Le conseguenze politiche del Salvaladri approvato dal Consiglio dei ministri sono una grande Operazione Verità: Draghi si conferma il nuovo capo politico dei 5Stelle, rendendo superflua la trattativa con Conte; Grillo si conferma il garante non del M5S, ma di Draghi; i ministri 5Stelle che hanno votato la porcata in Cdm e non si dimettono e i parlamentari che la voteranno in aula avranno la tessera onoraria del Movimento5Draghi, ultima succursale di FI con Iv e altri pulviscoli, e riusciranno finalmente a convincere gli elettori che votare è inutile perché la roulette delle urne è truccata e, alla fine, vince sempre il banco. Una menzione speciale a Pd e LeU, non pervenuti nella discussione perché già a 90 gradi al cospetto di Sua Maestà, che ingoiano senza un ruttino la quintessenza del berlusconismo contro cui avevano finto di battersi per 27 anni, fregando milioni di elettori. Ma le conseguenze più nefaste del Salvaladri sono quelle giudiziarie, perché rovinano irrimediabilmente la vita dei cittadini: quelli onesti, si capisce.

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 12 luglio 2021. Sofritto. "Davigo, Bonafede, Travaglio, il Dap sono dediti alla dimostrazione che nelle carceri italiane non esiste alcun sovraffollamento" (Adriano Sofri, Foglio, 5.7). Veramente abbiamo sempre sostenuto il contrario, proponendo per questo la costruzione di nuove carceri. Però, se dovesse tornare dentro lui a scontare finalmente il resto della sua pena, potremmo fare un'eccezione.

Le parole discriminatorie del Fatto. Povero Travaglio, come si è ridotto: piccolo in tutto, anche nei gingilli. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Luglio 2021. “Vispateresa”, “Cheerleader di Formigoni”, “Guardagingilli”. Ci vorrebbe una legge Zan per difendere i diritti della ministra Marta Cartabia e punire le parole discriminatorie e violente che emanano ogni giorno dalle pagine del Fatto Quotidiano. Non c’è bisogno di essere femministe più o meno “storiche” (ma aspettiamo qualche parola al riguardo) per sapere che il linguaggio scelto per la polemica politica ha un peso diverso per le donne e per gli uomini. E, per stare nel tema della proposta di legge Zan, anche nei confronti di altro tipo di soggettività. E non è indispensabile essere psicologi, o aver frequentato qualche seduta di analisi, per gettare un po’ di luce sul tipo di maschio che nella violenza contro le donne sembra quasi un concorrente, più che un semplice misogino. Razzista nei riferimenti alla Vispa Teresa e alla Cheerleader. La prima definizione serve a dire che la ministra Cartabia è senza testa. Una stupidina, un po’ oca giuliva, alle prese con cose più grandi di lei, come per esempio una riforma della giustizia. Il che, per un ammiratore di intellettuali come Bonafede e Toninelli è confortante, perché anche una ragazzina a caccia di farfalle darà sempre risultati migliori. Il riferimento alle Cheerleader puzza ancor più di razzismo, anche se avrebbe la pretesa di essere un attacco politico. Finalizzato a dimostrare come l’amicizia di Marta Cartabia nei confronti di Roberto Formigoni, la renda quasi infetta, colpita dal virus di quei reati contro la Pubblica Amministrazione che la sub-cultura dei Travaglio e Barbacetto considera di pari (o forse superiore) gravità rispetto alla strage, l’omicidio, la rapina a mano armata, lo stupro. E sul piano sociale più pericolosi della mafia e del terrorismo. Cartabia, secondo Il Fatto, sarebbe colpevole non tanto di esser stata una giovane militante di Comunione e liberazione, quanto di aver sfiorato il “virus Formigoni”. Che credibilità potrebbero quindi avere le sue riforme? Ma sotto l’attacco politico, un po’ banalotto in verità, si nasconde ancora il razzismo, la misoginia violenta, cioè la voglia di ridurre la donna a corpo, a pezzo di carne. Tu non sei degna di essere ministra perché sei una Vispa Teresa superficiale e stupidina, ma sei anche una ragazza-pompon, una che va sculettando davanti al potere, davanti all’eroe politico (invece che sportivo) maschio, quello che gioca la partita mentre voi ragazze gli preparate la scena. Che dire poi della parte più volgare? La Guardasigilli trasformata in “guardagingilli”? Questa è veramente imbarazzante per chi l’ha scritta. Non esiste innocenza del linguaggio. Quando il commissario Montalbano dice “mi hai rotto i cabbasisi”, è evidente a chiunque che non sta parlando dei cabbasisi, “piccoli tuberi commestibili dal sapore dolciastro”. L’ allusione è lampante, pur se non volgare, perché la lingua di Camilleri è misteriosa e bellissima. C’è da vergognarsi invece, scendendo al livello di Travaglio, a dover spiegare quali sono i “gingilli” che la ministra dovrebbe custodire. Il Guardasigilli è quel ministro che mette il sigillo dello Stato sulle leggi. Il “guardagingilli” che cosa dovrebbe maneggiare e custodire? Ninnoli, ciondoli, oggettini di poco peso e poca importanza? O altro? Povero Travaglio, come sei ridotto. Piccolo in tutto, anche nei gingilli.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Povero avvocato Coppi, reclutato da Travaglio a sua insaputa…L'avvocato di Berlusconi finisce nell'esercito di Travaglio. Ma qualcosa non torna...Davide Varì su Il Dubbio il 12 luglio 2021. La novità della settimana è l’arruolamento dell’avvocato Franco Coppi nell’esercito di Marco Travaglio, Nicola Gratteri e dei soldati di provata fede contiana che in queste ore sta minando la riforma Cartabia. Un arruolamento del tutto arbitrario: gli ultimi giapponesi rimasti a guardia della riforma Bonafede hanno infatti pescato una parte delle dichiarazioni in cui il professor Coppi, in modo chiaramente paradossale, ammetteva che sì: “In fondo la riforma dell’ex guardasigilli grillino aveva il pregio della chiarezza”. Il che vuol dire assai poco: anche le “leggi fascistissime” con cui Mussolini fece a pezzi libertà e diritti avevano il pregio della chiarezza ma non per questo erano giuste. Ma tanto basta ad accontentare Travaglio e i suoi. I quali, evidentemente, devono aver completamente ignorato la parte in cui Coppi critica quella parte della riforma Cartabia che prevedeva l’impossibilità per le Procure di appellare le sentenze di assoluzione. «Era una norma sacrosanta, ed è un male che sia stata eliminata», ammette il Coppi “censurato”. E a chi ricorda che quella norma, che fu approvata da Berlusconi con la famosa legge Pecorella, venne annullata dalla Corte Costituzionale, Coppi replica secco: «Quella che viene chiamata legge Pecorella fu il frutto di una proposta che era stata formulata dal sottoscritto e dal professor Padovani. In un sistema retto dal principio che un imputato può venire condannato solo se la sua colpevolezza è dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio”, è persino ovvio che una sentenza di assoluzione sancisce per sempre che quel dubbio sussiste. Tre giudici, addirittura otto, se il processo si è fatto in corte d’assise, hanno assolto. Da quel momento il pm dovrebbe alzare bandiera bianca». Ma il Coppi garantista non è utile alla causa grillina e così l’ufficio propaganda dei pentastellati ha sbianchettato questa parte e poi lo ha arruolato.

L'attacco alla riforma della giustizia. Travaglio "arruola" Gratteri per demolire la riforma Cartabia: “Meglio quella Bonafede, così al macero migliaia di processi”. Redazione su Il Riformista il 12 Luglio 2021. La riforma della giustizia ‘partorita’ dalla ministra Marta Cartabia? “Getterà al macero migliaia di processi” da un lato, mentre dall’altro “si accentua la tendenza alla trasformazione delle corti in “sentenzifici”, che badano solo ai numeri, con buona pace della qualità delle decisioni”. Parola di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro che si lascia intervistare dal ‘sodale’ Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano per bombardare la riforma votata giovedì scorso nel Consiglio dei ministri. Secondo il magistrato antimafia, punto di riferimento per quell’universo forcaiolo che ha nel Movimento 5 Stelle il suo braccio politico in Parlamento, con la riforma Cartabia il sistema giustizia “non solo è destinato ad andare in tilt, ma in questo modo non viene assicurata alcuna ‘giustizia’. Stabilire che la prescrizione si interrompe dopo la sentenza di primo grado, ma al contempo imporre termini ‘tagliola’ per il processo di appello e per quello successivo di Cassazione, senza intervenire sui sistemi di ammissibilità degli appelli o dei ricorsi per Cassazione, significa solo preoccuparsi di ‘smaltire carte’, non di assicurare una decisione giusta”. Per Gratteri “era sicuramente meglio la riforma Bonafede”, condividendo l’opinione di un altro punto di riferimento di 5 Stelle e Fatto Quotidiano, Piercamillo Davigo, secondo cui l’improcedibilità è un’amnistia mascherata, aggiungendo che “questa ‘tagliola’ colpirà anche processi delicatissimi, come omicidi colposi e violenze sessuali”. Quindi Gratteri attacca “la politica”, che “non può pensare di abbreviare i processi con la tagliola dei termini di due anni in appello o un anno in Cassazione, che con questo sistema si sa già in anticipo che non potrà mai essere rispettati. Per avere processi più rapidi occorrono prima di tutto uomini (magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria) e mezzi adeguati rispetto a una mole di affari giudiziari elefantiaca. E poi si deve intervenire a monte, non a valle. Rendere più snelle le procedure è possibile, ma bisogna partire dal basso: limitare le ipotesi di appello, rendere inammissibili le impugnazioni vistosamente pretestuose (e sono molte); ridurre i ricorsi in Cassazione solo ai casi che riguardano la legittimità. E ancora: limitare gli incarichi ‘fuori ruolo’ solo a quegli Uffici dov’è veramente necessaria la presenza di magistrati; e rivedere la geografia degli uffici giudiziari”. Per Gratteri insomma ci sarebbero tanti interventi, ma diversi da quelli scelti dalla Cartabia, per andare in direzione “di una effettiva riduzione dei tempi, se davvero questo fosse l’obiettivo dei ‘riformatori’. Ma, con questa ‘riforma’ – conclude il magistrato – è un’utopia”.

Luigi Di Maio umiliato pure da Marco Travaglio: "Non ci ho capito niente". Leggete anche voi: drammatica figuraccia. Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. Si mette male per Luigi Di Maio, se anche il Fatto quotidiano che da anni lo porta in palmo di mano si permette il lusso di sbeffeggiarlo. E non si tratta di una vignetta di Vauro Senesi, Natangelo o Mannelli, ma del direttorissimo Marco Travaglio in persona, e per giunta nel suo editoriale domenicale. Che non sarà quello di Scalfari su Repubblica, ma che comunque "detta la linea" ai lettori del Fatto, che in tenere sono pure elettori del Movimento 5 Stelle. Insomma, una combinazione esplosiva che prepara una settimana di fuoco per il ministro degli Esteri. Tutto nasce da un commento rilasciato da Di Maio alla festa di Articolo 1 sulla riforma della giustizia. "Io non credo che sia irragionevole discutere della riforma della giustizia e dire che va migliorata, lo dicono i magistrati e lo diciamo anche noi. È irragionevole fare una battaglia ideologica per cui le riforme di tutti gli altri non sono buone perché le presentano gli altri e l'unica buona è la nostra. Questo è un salto che stiamo facendo in questa fase". Un salto nel vuoto, carpiato, aggiungiamo noi. E infatti Travaglio commenta, senza sarcasmo stavolta: "Leggo e rileggo questa frase di Luigi Di Maio e non ci capisco niente". In realtà il giochino di Di Maio è abbastanza scoperto, e lo sa pure Travaglio. L'ex capetto grillino gioca con un piede in due scarpe: non può sconfessare la linea dura di Giuseppe Conte che minaccia addirittura la sfiducia nel caso Draghi e Cartabia non accettino di modificare la riforma della giustizia secondo i desiderata edi 5 Stelle (praticamente: smantellarla). Ma da ministro è letteralmente terrorizzato dall'ipotesi di uscire dal governo e dalla maggioranza, con l'incognita di un ritorno alle urne che potrebbe definitivamente rispedire all'opposizione, polverizzandolo, il Movimento. Da qui l'esercizio di equilibrismo democristiano. Non proprio riuscito, però, e stavolta non per colpa dei congiuntivi.

Ora Conte smentisce Travaglio: cosa è successo tra i due. Francesco Boezi il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex premier Giuseppe Conte smentisce Il Fatto Quotidiano sull'ultimatum a Draghi. Adesso si rompe l'idillio. Ecco cosa c'è dietro (davvero). È la rottura di un idillio o qualcosa di molto simile: sembrava esistere una linea condivisa tra l'ex premier Giuseppe Conte ed il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Ma i fatti delle ultime ore consigliano una revisione, almeno momentanea, della narrativa sul rapporto tra i due. Questa mattina, l'ex premier giallorosso ci ha tenuto a smentire - come riportato dall'Ansa - alcune frasi che gli sono state attribuite dal quotidiano diretto dal giornalista torinese: "In merito ad alcuni virgolettati che oggi vengono attribuiti a Giuseppe Conte, si precisa che Conte non ha rilasciato interviste, nè dichiarazioni, nè virgolettati", si legge nella nota. Un avvenimento insolito, soprattutto considerato il pregresso della strategia politico-comunicativa, che sembrava combaciare. I virgolettati in questione sono quelli in cui Conte pareva inoltrare una specie di ultimatum al governo presieduto da Mario Draghi. In questi giorni, infatti, si sta discutendo della riforma sulla Giustizia. L'ex giallorosso sembrava pronto alla levata di scudi in favore dei "valori" grillini. Quali siano questi valori rimane un mistero, data la natura ondivaga dei posizionamenti politici di Conte, che è stato alleato con quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento, svolgendo prima la funzione di sintesi "populista", per poi trasformarsi in un campione del progressismo al fianco dell'ex segretario del Pd Nicola Zingaretti, ma non è questo il punto. In questa fase si è parlato pure della possibilità che i grillini sfilassero i loro ministri dall'esecutivo in caso di mancato accoglimento delle loro proposte sulla Giustizia. Il titolo mattutino de Il Fatto Quotidiano lasciava poco spazio ad interpretazioni: "Conte: o si cambia o leviamo la fiducia", hanno potuto leggere i lettori. Ma Conte, come premesso, ha negato di aver pronunciato frasi. Esistono spinte - questo è un fatto noto - che vorrebbero l'ex presidente del Consiglio ed i suoi fuori dal governo di Mario Draghi. C'è, nel MoVimento 5 Stelle e negli ambienti limitrofi, chi confida che l'avvocato originario di Volturara Appula si sganci dall'intesa su cui si fonda l'esecutivo di unità nazionale, magari per costituire una formazione di sinistra o per riportare il MoVimento 5 Stelle ai tempi del "Vaffa". Conte, polemizzando sul progetto Draghi-Cartabia, sembrava aver intrapreso quella strada. Ma gli avvenimenti di oggi possono suggerire come Conte non sia pronto ad un vero e proprio strappo. Oppure, in misura banale, come Conte non voglia proprio imboccare il percorso che conduce all'opposizione. Difficile comprendere se i "contiani doc", cui l'articolo del quotidiano si riferisce, abbiano tentato la fuga in avanti o se Conte, dinanzi all'imminenza di una scelta così drastica, abbia preferito una marcia indietro. Siamo comunque al cortocircuito che può compromettere quella che, sino alla mattinata di oggi, appariva come una fondata e ricambiata simpatia reciproca. Marco Travaglio ha preso le parti dell'ex premier in più circostanze. Per avere un'idea di quanto questa prossimità fosse evidente, basta l'anticipazione di "I segreti del Conticidio", il libro tramite cui il direttore de Il Fatto Quotidiano ricostruisce la "cacciata" dell'avvocato, che era stato scelto in primis dai grillini per guidare il Belpaese: "Giuseppe Conte - si legge - inizia a scavarsi la fossa, ovviamente a sua insaputa, nella notte fra il 20 e il 21 luglio 2020, quando porta a casa il più grande successo della sua carriera politica: i 209 miliardi di euro del Recovery Fund. Da quel momento, nei circoli che contano dell'eterna Italia lobbista, affarista e tangentista, la parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: ora che arrivano tutti quei miliardi, mica li faremo gestire a chi non prende ordini da noi...". Insomma, è difficile sostenere che Travaglio sia stato un oppositore di Giuseppe Conte sin dalla comparsa dell'avvocato sulla scena. Pure Andrea Scanzi ha commentato la smentita di Conte via social, dicendo la sua sull'accaduto sua pagina Facebook: "Stavo per scrivere: “Era l’ora!”. Poi però leggo che Casalino smentisce questo virgolettato pubblicato stamani dal Fatto Quotidiano. Mah". Delusione, quindi, per una delle firme di punta del quotidiano diretto da Travaglio. Scanzi non era il solo a sperare che Conte fosse vicino ai saluti con il governo Draghi. Nella "guerra" tra il fondatore Beppe Grillo e l'ex premier, poi, il direttore de Il Fatto Quotidiano sembrava aver preso di nuovo le parti di Giuseppe Conte. È un momento delicato per i pentastellati: dalla diatriba Conte-Grillo verrà fuori, con ogni probabilità, la nuova natura identitaria del MoVimento 5 Stelle, che può divenire governista, per paradosso, seguendo le ultime indicazioni del fondatore, o virare sullo "sfascismo", inseguendo Conte e la sua volontà di non cedere centimetri sulla Giustizia. Sempre che quella volontà esista. Perché tutta questa vicenda dei virgolettati potrebbe nascondere un cedimento di certe ragioni. Qualcuno, dall'interno del MoVimento o dal contorno, potrebbe aver lanciato il suo "grido di speranza", affinché l'ex premier conduca il grillismo al di fuori del governo presieduto da Mario Draghi. E l'indisponibilità di Conte a strappi plateali potrebbe aver spiazzato più di qualcuno. Magari gli stessi "consiglieri" che, spingendo all'epoca Conte tra le braccia dei "responsabili", potrebbero aver contribuito allo schianto che ora viene chiamato "Conticidio".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta

DETTO, SFATTO! – RETROSCENA: PERCHE' CONTE HA SMENTITO TRAVAGLIO – DOPO UNA TELEFONATA, IL "SOPRAELEVATO" DEL "FATTO" LANCIA LA BOMBA IN PRIMA CON UN VIRGOLETTATO ATTRIBUITO ALL’EX PREMIER: “O SI CAMBIA O LEVIAMO LA FIDUCIA”, MA CASALINO DEVE SMENTIRE TUTTO – I CONSIGLI DI MARCOLINO, CHE ATTACCA "GIGGETTO IL DRAGHETTO" DI MAIO: “SE NESSUNO METTE IN GIOCO LA POLTRONA, LA MEDIAZIONE È DESTINATA ALLA DISFATTA. I 5S NON LI VOTERANNO PIÙ NEMMENO I PARENTI STRETTI”.

DAGONEWS il 25 luglio 2021. Il virgolettato sparato stamattina dal "Fatto" (Conte: "O si cambia o leviamo la fiducia") sarebbe fuoruscito da una telefonata tra l'Avvocato di Alpa e Marco Travaglio, ormai nel pieno delle sue funzioni di "SopraElevato", deciso a trasformare la pochette da avvocato in una bandana da Masaniello per condurlo verso il passo fatale: mollare il governo Draghi sfanculando ogni mediaione sulla cosiddetta legge Salvaladri-Mafiosi, cioè la "schiforma Cartabia". Conte, attraverso Tarocco Casalino, non poteva non smentire quella dichiarazione, lanciata durante una telefonata, per alcuni motivi. Il primo: l'ex premier per caos è personalmente impegnato in una trattativa con la Cartabia per trovare un punta di caduta sui "ritocchi" da apportare alla riforma. Ad esempio quello sui reati di mafia, che poi devono per forza essere accettati da Lega e Forza Italia. Secondo: Draghi, chiedendo la fiducia sulla riforma della giustizia, ha sbattuto Conto davanti a un bivio, dove non c'è salvezza: se l'accetta e poi in Senato avviene il voto contrario o l'astensione di una parte di grillini puri e grulli, sarebbe delegittimato senza manco essere ancora intronato capo politico del movimento. Viceversa: Conte ascolta il suo "SopraElevato" di carta e sfancula Cartabia e Draghi passando all'opposizione, e si troverebbe davanti una vera e propria scissione perché Di Maio e i suoi, con un contiano come Patuanelli in piena crisi, voterebbero la fiducia. Dove va, il poverino sbaglia.

(ANSA il 25 luglio 2021) In merito ad alcuni virgolettati che oggi vengono attribuiti a Giuseppe Conte, si precisa che Conte non ha rilasciato interviste, nè dichiarazioni, nè virgolettati. Lo si afferma dallo staff dell'ex premier ribadendo che Conte sta lavorando per trovare una mediazione sulla giustizia. Lo staff di Conte fa riferimento al servizio pubblicato oggi dal Fatto Quotidiano dal titolo: "Conte: o si cambia o leviamo fiducia".

Estratto dell’articolo di Luca De Carolis per “il Fatto quotidiano” il 25 luglio 2021. (…)  In caso di mancata intesa Conte potrebbe davvero decidere per lo strappo, per il mare aperto, cioè per l'uscita dal governo Draghi. "Se non accettano modifiche vere, preservando innanzitutto i processi per mafia, per noi sarà impossibile votare la fiducia" dicono alcuni contiani doc, riassumendo la linea. L'opzione che l'ex premier non cerca ma che non considera eresia, per nulla. Tanto che non si è irritato, anzi, con la ministra Fabiana Dadone, che venerdì mattina ad Agorà aveva ventilato come possibile le dimissioni dei ministri in caso di mancato accordo sulla controriforma Cartabia. (...) Ma l'ex premier, racconta chi gli ha parlato, ha apprezzato la franchezza della ministra, capace di mettere in gioco anche la sua poltrona in una battaglia identitaria per il M5S. Chi non ha affatto gradito, assicurano in diversi, è Luigi Di Maio. L'uomo della mediazione con Beppe Grillo, il ministro degli Esteri che non vuole neanche pensare alla rottura con Draghi. E lo ha ripetuto più volte in questi giorni, come un mantra: "Il governo deve arrivare al 2023". (…)

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per "il Fatto Quotidiano" il 25 luglio 2021. "Io non credo che sia irragionevole discutere della riforma della giustizia e dire che va migliorata, lo dicono i magistrati e lo diciamo anche noi. È irragionevole fare una battaglia ideologica per cui le riforme di tutti gli altri non sono buone perché le presentano gli altri e l'unica buona è la nostra. Questo è un salto che stiamo facendo in questa fase". Leggo e rileggo questaf rase di Luigi Di Maio alla festa di Articolo 1 e non ci capisco niente. Capirei tutto se qualcuno avesse detto che la "riforma" Cartabia non va bene perché non l'ha proposta il M5S. Ma non risulta. (…) E allora che ci stanno a fare i quattro ministri M5S: a passare il resto dei loro giorni a pentirsi di aver avuto ragione? La ministra Dadone ha detto che il M5S dev' essere pronto a uscire dal governo se le modifiche alla schiforma non saranno sufficienti. È ciò che dovrebbero dire anche Di Maio, D'Incà e Patuanelli, se vogliono sperare che il premier e la Guardagingilli scendano a più miti consigli e che gli elettori tornino a votare i 5Stelle anziché inseguirli coi forconi. Se invece nessuno mette in gioco la poltrona, la mediazione di Conte è destinata alla disfatta. I 5S non li voteranno più nemmeno i parenti stretti e, quel che è più grave, andranno in fumo centinaia di migliaia di processi. (...) 

Prescrizione, elogio funebre del forcaiolismo nostrano. A proposito dei tormenti dei 5 Stelle sulla riforma penale, sarebbe il caso che nessuno dimentichi che le sentenze della Corte costituzionale, almeno quelle, debbano prevalere sulle testarde pretese identitarie delle forze politiche. Il Dubbio il 12 luglio 2021. Oggi il forcaiolismo nostrano è listato a lutto. La riforma (sia detto senza offesa) della prescrizione firmata 5 stelle è deceduta. Piangono, i poveretti, la dipartita di una grande conquista di incompresa civiltà. Quella per la quale se uno Stato, per propria incapacità strutturale, non sa impiegare meno di una decina di anni per stabile se sei innocente o colpevole, beh chissenefrega. Devi rimanere prigioniero del tuo processo fino a quando ci aggrada. Stai lì e aspetta, quando stiamo comodi te lo diremo, se la tua presunzione di innocenza (che palle con ‘sta storia, suvvia!) debba trovare conferma o smentita. Nel frattempo, la tua vita è maciullata, divorata dal pubblico discredito. Sei un presunto colpevole d’altronde, la prossima volta imparerai a non metterti in condizione di essere sospettato. Sarei curioso di sapere cosa ne pensano gli alfieri di questa roba – i Caselli, i Davigo, i Travaglio e travaglini vari, nonché i sommi giuristi di comesichiama Appula – della recentissima sentenza della Corte Costituzionale, che in tema di prescrizione ha appena finito di ribadire i seguenti principi: «Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia sufficientemente determinata». Ed ancora, che il rispetto del principio di legalità esige «la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale». Sapete cosa significa questo, illustri signori? Che la vostra conquista di civiltà è, molto semplicemente, un obbrobrio fuori dalla Costituzione. Firmato: Corte costituzionale. Senonché il Paese è così malridotto, che da due mesi stiamo impazzendo per capire come non irritare gli artefici e i corifei di una simile porcheria. Invece di – come si diceva un tempo – mandarli a ripetizione di diritto costituzionale, tocca rispettarne “l’identità politica”, che si risolve ormai solo in quella robetta incostituzionale lì. E poiché questo non è più oltre possibile e tollerabile, è toccato dargli il contentino forcaiolo buono per tutte le stagioni. Inseriamo qualche reato “identitario” nel famoso catalogo (mafia, terrorismo, violenza sessuale eccetera) per i quali il giudice, a determinate condizioni, potrà prorogare di un annetto il nuovo termine di prescrizione processuale (due anni per l’appello, un anno per la cassazione). Quindi dentro corruzione, concussione, peculato. Per questi eroi del nostro tempo, la cosa riveste evidentemente una funzione analgesica, balsamica. Almeno questo! hanno frignato. Ed il Governo li ha dovuti accontentare, a quanto pare contro la volontà degli altri partners di maggioranza, ma quando devi quadrare un cerchio può accadere anche questo. Quindi ora un processo, per dire, a carico di un vigile urbano che ha preteso mille euro dal barista per chiudere un occhio sui tavolini messi fuori senza licenza, può finalmente durare un po’ di più del processo al bancarottiere miliardario che ha depredato migliaia di risparmiatori. Sono soddisfazioni, diciamoci la verità. È confortante sapere che ci sono costoro – i Di Battista, i Crimi, quell’altra dello scatarro (mi sfugge il nome), gli Scanzi e i Barbacetto eccetera – a vegliare su ciò che resta della pubblica moralità. Certo, hanno dovuto arrendersi alla Corte costituzionale, ma almeno qui hanno tenuto il punto caspita. Questo, amici miei, è il Paese nel quale, al momento, ci tocca vivere. Quale “riforma della giustizia” potevamo e possiamo seriamente attenderci da queste macerie del diritto, della ragione, e anche del senso del ridicolo? E infatti il prodotto di una simile “mission impossible” è una cosa mezza sì e mezza no, costellata da qualche buona idea, da tante altre abortite a svuotate, e da altre ancora contro le quali occorrerà che il Parlamento si impegni molto seriamente. Oggi possiamo dire questo: la obbrobriosa riforma Bonafede della prescrizione è alle spalle; il tentativo di stravolgere il processo di appello è stato in larga parte sventato; qualche altra buona idea, di schietta ispirazione costituzionale, è stata incartata dal Governo in una legge delega che, non dimentichiamolo, era da brividi. È la riforma del processo che vorremmo, e che scriveremmo noi? Nemmeno lontanamente, ed il nostro impegno per migliorarla ora dovrà moltiplicarsi. Ma, questo essendo il Paese che abbiamo democraticamente scelto di darci, almeno salutiamo come merita la fine di una stagione che non avremmo mai voluto vivere, e che ora comincia davvero a scivolarci dietro le spalle. Che quella della Ministra Cartabia sia più o meno una “mission impossible” è chiaro a tutti. I temi della giustizia penale sono radicalmente identitari per tutte le parti in gioco. I pentastellati sono avvinghiati al loro mostriciattolo – la riforma Bonafede della prescrizione – come le cozze allo scoglio; la Lega continua a voler essere il partito del “buttate le chiavi” delle galere, dunque strepita appena si mette mano a riti alternativi e pene diverse dal carcere; Forza Italia appena fiata viene sospettata di essere il partito degli avvocati di Berlusconi; il PD, come da tradizione, si occupa solo di interpretare i desiderata più minuti e dettagliati della magistratura associata. Lavoro quest’ultimo, del tutto inutile: ci pensa già l’Ufficio Legislativo del Ministero, da sempre consegnato agli avamposti della magistratura distaccati, come una falange oplita, presso le felpate stanze di via Arenula. Siamo l’unico Paese al mondo – ripeto: l’unico in tutto il mondo – che affida l’amministrazione qualificata della politica di governo sulla giustizia al potere giudiziario, e non è certo un caso che quella del sacrosanto divieto di distacco dei magistrati nell’esecutivo sia l’unica riforma sulla quale non si riesce nemmeno ad iniziare una parvenza di discussione. Siamo tutti in attesa di conoscere il testo degli emendamenti governativi alla legge delega, frutto di questo generoso tentativo di quadratura del cerchio. Siamo solidali con l’immane sforzo della Ministra, apprezziamo molto che – almeno da quanto ci dicono le cronache – abbia concreta considerazione di alcune delle obiezioni fondamentali che i penalisti hanno sollevato nelle loro interlocuzioni con il Governo (no al blocco della prescrizione, no alla compressione del diritto di impugnazione delle sentenze), e ne valuteremo gli esiti. Ma intanto, sarebbe il caso che nessuno dimentichi che le sentenze della Corte costituzionale, almeno quelle, debbano prevalere sulle testarde pretese identitarie delle forze politiche. Mi riferisco alla sentenza che la Corte costituzionale ha pronunziato solo qualche giorno fa in tema di prescrizione. In soldoni, si è dichiarata incostituzionale la norma emergenziale Covid che prevedeva la sospensione del decorso della prescrizione determinata da imprevedibili esigenze organizzative di ciascun ufficio giudiziario. Ebbene, nel motivare la decisione la Corte ha statuito un principio le cui ricadute sulla sciagurata riforma Bonafede appaiono inesorabili. Afferma infatti la Corte che «la garanzia del principio di legalità richiede che la persona incolpata di un reato deve poter avere previa consapevolezza della disciplina della prescrizione concernente sia la definizione della fattispecie legale, sia la sua dimensione temporale». Per conseguenza, «Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia sufficientemente determinata». La riforma Bonafede ha esattamente introdotto una “regola processuale” (sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado) che comporta come conseguenza un prolungamento assolutamente indeterminato di un termine che la Corte ritiene invece indispensabile sia prefissato. Quale? «la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale». Difficile essere più chiari di così nel dire che il principio barbaro sancito da quella riforma, per il quale il cittadino, dopo la sentenza di primo grado, resta prigioniero del proprio processo fino a quando lo Stato non deciderà, con tutto comodo, di concluderlo, si colloca al di fuori di ogni parametro di legalità costituzionale. Morale: capisco le questioni di identità politica, capisco i rapporti di forza in Parlamento, capisco tutto. Ma a quel tutto c’è un limite: nessuno può pretendere il rispetto di un principio di inciviltà giuridica così esplicitamente qualificato come incostituzionale da un pronunciamento fresco fresco della Corte costituzionale. Se qualcuno avesse la bontà di spiegare ai 5S, con parole semplici, il senso di questa sentenza (n.140/2021), in modo che alla fine riescano anche a comprenderlo, faremmo tutti un bel passo avanti.

Da ansa.it il 12 luglio 2021. "Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità": il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, intervenuto oggi al Congresso di Magistratura Democratica, a Firenze, esprime i propri dubbi sulla riforma della giustizia della ministra Marta Cartabia, contenuta negli emendamenti al ddl penale approvati giovedì in Consiglio dei ministri. Il numero uno dell'Anm si riferisce in particolare agli effetti della prescrizione processuale e all'impatto sulla società civile: "occorrerà discutere", afferma risoluto, precisando però che l'Associazione nel suo complesso non ne ha ancora discusso. La riforma prevede, tra l'altro, che nel processo di appello si introduca il termine massimo di due anni (tre in caso di reati gravi), oltre il quale si dichiarerebbe l'improcedibilità (e non la prescrizione). "Molte Corti territoriali - evidenzia - versano in sofferenza organizzativa, bisogna chiedersi se saranno capaci di rispettare la stringente tempistica processuale". E non solo: ci sono risvolti che impattano sulla società. Per il presidente di Anm, infatti, "bisogna interrogarsi sulla comprensibilità sociale di una eventuale risposta di improcedibilità con vittime che avvertano ancora forte la ferita recata dal reato. Reato che la prescrizione non ha estinto, che magari è stato commesso non molto tempo prima, il cui ricordo sociale ben può essere ancora vivido e che potrebbe ancora essere ricondotto nell'area dell'obbligatorietà dell'azione penale". Dal canto suo, il vicepresidente del Csm David Ermini, intervenendo sempre al congresso nazionale di Magistratura democratica, sostiene di confidare sul fatto che le forze politiche "responsabilmente convergano su soluzioni condivise e nel solo interesse generale di un sistema giudiziario efficace e giusto" e fa notare che "la sede naturale per riforme condivise" è "il Parlamento anziché un percorso referendario che, in ragione della sua natura necessariamente abrogativa, potrebbe condurre esclusivamente a esiti parziali e, come tali, asistematici". Sulla riforma, il Guardasigilli Cartabia spiega oggi in una lunga intervista al Corsera, che questa "conserva l'impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede" ma tuttavia "non si poteva evitare di correggere gli effetti problematici" di quel testo.

Estratto dell'articolo di Federico Capurso per "la Stampa" il 30 luglio 2021. […] La sintesi offerta dalla Guardasigilli Marta Cartabia riceve così, una seconda volta, il voto unanime del Consiglio dei ministri e può finalmente approdare in Aula alla Camera, domenica, per essere sottoposta al voto di fiducia. […] I grillini ottengono qualcosa, ma resta intatta la norma che dà al Parlamento il potere di indicare le priorità dell'azione penale alle procure. Nel pomeriggio anche il Csm, dando il via libera al parere sulla riforma, muove un rilievo. Il pericolo, si legge, è quello di un «possibile contrasto con l'attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato», unito a un rischio di natura pratica per «gli effetti concreti che la scelta legislativa comporterà per gli uffici». Insomma, per il Csm ci sarebbe il rischio di incostituzionalità. Mentre il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, la definisce ospite a In onda «la peggiore riforma di sempre». «Ci siamo spesi per l'accordo fino in fondo. Bene», commenta invece il segretario dem Enrico Letta. Le altre forze di maggioranza festeggiano suonando le campane a morto per la riforma Bonafede. La chiama «il caro estinto», Matteo Renzi, che esulta: «L'abbiamo archiviata, non si può più essere imputati a vita». Lo fa anche la Lega, nonostante le giravolte dell'ultima settimana: prima non voleva «cambiare una virgola» della riforma, poi si è allineata al M5S, e nel frattempo vuole i referendum sulla giustizia. Per Forza Italia «la grande fatica» fatta dai grillini per il via libera «è la dimostrazione che siamo di fronte a una riforma garantista», dice Maria Stella Gelmini. Tutti soddisfatti, soprattutto Draghi, che vuole chiudere la partita alla Camera prima del 3 agosto, quando si entrerà nel semestre bianco. 

(DIRE il 29 luglio 2021.) "L'obiettivo è garantire una giustizia celere, nel rispetto della ragionevole durata del processo, e allo stesso tempo garantire che nessun processo vada in fumo". Lo dice la ministra della Giustizia, Marta CARTABIA, parlando fuori Palazzo Chigi.  Nel merito, "l'aggiustamento più importante è una norma transitoria che ci consente di arrivare ad una gradualità a quei termini che ci eravamo dati e rimangono fissi. La seconda cosa è un regime particolare- spiega- per quei reati che nel nostro paese hanno sempre destato allarme sociale - come i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e il traffico internazionale di droga - che avranno norme specifiche con possibilità di proroghe dei giudici e la possibilità di arrivare fino in fondo". Insomma, continua, "abbiamo apportato degli aggiustamenti, come annunciato la scorsa settimana con Draghi, alla luce del dibattito molto vivace che si è sviluppato in queste settimane sia da parte delle forze politiche che degli operatori e degli uffici giudiziari che saranno i primi ad essere chiamati alla grande sfida di implementare una riforma così significativa e innovativa nel nostro Paese".

(ANSA il 29 luglio 2021. ) "E' una giornata importante: lunghe riflessioni per arrivare a un'approvazione all'unanimità con convinzione da parte di tutte le forze politiche. Ora c'è l'obiettivo di accelerare il più possibile per concludere se possibile prima della pausa estiva questa importantissima riforma". Lo dice il ministro della Giustizia Marta Cartabia al termine del Cdm.

(ANSA il 30 luglio 2021) "Il Movimento 5 Stelle è a lutto per il superamento della riforma Bonafede e inventa falsità; la Lega ha chiesto che reati di mafia, per violenza sessuale e traffico di stupefacenti non andassero in fumo". Così fonti della Lega dopo le parole di Giuseppe Conte. (ANSA).

Giustizia: Renzi, da oggi riforma Bonafede non esiste più. (ANSA il 29 luglio 2021. ) "Da oggi possiamo dirlo, la riforma bonafede non esiste più e questo è un passo avanti per l'Italia": lo ha detto Matteo Renzi arrivato ad Assisi, a margine della presentazione del suo nuovo libro 'Controcorrente', parlando delle riforma della giustizia. "Credo che si siano fatti degli accordi - ha affermato - con l'unico obiettivo di portare a casa una riforma che chiuda per sempre la stagione di Bonafede". Per Renzi "5 Stelle e Lega hanno avuto dei piccoli aiuti da parte del presidente del Consiglio che è uomo generoso e ha fatto di tutto per cercare di salvare la faccia a Conte". "Credo che la cosa importante - ha concluso - era non salvare la riforma Bonafede". (ANSA).

Da rainews.it il 29 luglio 2021. Il Csm boccia il meccanismo dell'improcedibilità delineato dagli emendamenti del Governo alla riforma del processo penale. Il plenum di Palazzo dei Marescialli ha infatti approvato, a larga maggioranza, il parere, elaborato dalla Sesta Commissione, nettamente critico su questo punto della riforma. Sedici i voti a favore del documento, 3 i contrari (quelli dei laici di centrodestra Lanzi e Basile e quello della togata di Magistratura Indipendente Balduini). Quattro gli astenuti: i togati di MI Miccichè, Braggion e D'Amato e il laico della Lega Cavanna. Nel testo approvato si parla di "rilevanti e drammatiche" ricadute pratiche della riforma "in ragione della rilevante situazione di criticità di molte delle Corti d'appello italiane" e di "irrazionalità complessiva" del sistema di prescrizione e improcedibilità previsto dalla riforma Cartabia.  Nel documento non c'è una stima dei processi che si estingueranno ma diversi consiglieri hanno parlato di migliaia di procedimenti. 

Giustizia: Cartabia,maggioranza ritirerà emendamenti. (ANSA il 29 luglio 2021) C'è "l'impegno a ritirare tutti gli emendamenti presentati dalle forze di maggioranza con l'obiettivo di concludere nei prossimi giorni" l'approvazione della riforma. Lo dice il ministro Marta Cartabia parlando fuori da Palazzo Chigi dopo il Cdm.

Giustizia: P.Chigi, ecco le modifiche del Cdm al testo. (ANSA il 29 luglio 2021) Il Consiglio dei ministri, su iniziativa del ministro della Giustizia Marta Cartabia, ha affrontato la riforma del processo penale e ha deciso di apportare alcune modifiche. Lo si legge nel comunicato del Consiglio dei ministri. Rispetto al testo approvato due volte all'unanimità dal governo, si introducono alcune novità tra cui:

- si prevede che per i primi tre anni di applicazione della riforma, la durata del processo d'Appello si estende per un ulteriore anno e quella del processo per cassazione di ulteriori sei mesi; 

- si prevede che per taluni reati, in particolare per i reati di associazione mafiosa, scambio politico mafioso, associazione finalizzata allo spaccio, violenza sessuale e reati con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, i giudici di Appello e di Cassazione possano con ordinanza, motivata e ricorribile in Cassazione, disporre l'ulteriore proroga del periodo processuale in presenza di alcune condizioni riguardanti la complessità del processo, il numero delle parti e delle imputazioni o per la complessità delle questioni di fatto e di diritto.

Per i reati aggravati di cui all'articolo 416 bis, primo comma, la proroga può essere disposta per non oltre due anni. 

Una riforma a metà che non elimina i processi infiniti. Le Regioni blindano i sei referendum. Luca Fazzo il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Proroga sino a 6 anni per terrorismo e mafia. Pesa il pressing del Csm. Dalla Sicilia arriva l'ok: urne certe sui quesidi dei Radicali e Lega. I processi infiniti restano: ma solo per i reati più gravi, individuati con una lista frutto di mediazioni estenuanti, e destinata sicuramente a venire modificata in futuro. Per gli altri processi, ovvero per la stragrande maggioranza dei casi che riempiono le statistiche della giustizia italiana, resta - entrando in campo gradualmente, e andando a pieno regime nel 2024 - il criterio base della riforma che Marta Cartabia aveva portato due settimane fa in consiglio dei ministri: due anni per il processo in appello, un altro per quello in Cassazione. Poi tutto diventa improcedibile. Basta con i cittadini trasformati in imputati a vita. É questo il quadro che esce dalla giornata convulsa vissuta dal pianeta giustizia, con la riforma Cartabia soggetta al fuoco incrociato di grillini, giornali e magistrati, che accusavano il testo varato il 14 luglio di essere una sorta di amnistia mascherata che avrebbe garantito impunità a criminali di ogni genere. A calare il carico da novanta era stato, poche ore prima che il governo si riunisse, il Consiglio superiore della magistratura dove - mettendo in minoranza destra e moderati - viene approvata una mozione di rara durezza contro il capitolo sulla prescrizione del progetto di Marta Cartabia. A quel punto neanche il più impavido dei Guardasigilli sarebbe andato avanti sfidando le ire dei Gratteri e dei Di Matteo. E inizia la mediazione. Il passaggio chiave della marcia indietro del governo sta all'articolo 4 della nuova bozza. Si conferma che la prescrizione si sospende dopo la sentenza di primo grado, si conferma anche che se il processo d'appello non termina entro due anni scatta la improcedibilità; si conferma che nei casi complessi il giudice può allungare di un anno i termini; e tutto questo era contenuto già nel vecchio testo. Ma poi si aggiunge che «ulteriori proroghe possono essere disposte» per una serie di reati: nel testo originale non c'è un numero massimo di proroghe, di fatto la durata dei processi «allungabili» rischia di essere infinita. Se, come parre, il testo definitivo resta questo, il partito dei pm ha vinto, ma non ha stravinto. Lo scontro di ieri si concentra a quel punto sull'elenco dei reati da inserire nella black list. Tutti d'accordo su terrorismo, eversione e reati connessi; idem per l'associazione mafiosa e il narcotraffico; vengono aggiunti su pressione della Lega le violenze sessuali aggravate e la corruzione di minorenne; per cui alla fine la battaglia si concentra solo su una nicchia di reati, i delitti «normali» ma aggravati dalla finalità mafiosa. Un concetto elastico, dove si incrociano sentenze contrastanti, e che comunque riguarda una quantità di processi non particolarmente rilevante: ma di cui i 5 Stelle ieri fanno una bandiera. L'appunto informale diramato ieri dal ministero di via Arenula dice che per questo tipo di reati il testo definitivo consente al massimo due proroghe oltre la prima, quindi si arriva a cinque/sei anni. Il triplo di quanti ne servono oggi per un appello medio. Se tra i partiti la paternità del risultato viene rivendicata un po' da tutti, è chiaro che a determinare il cambio di rotta della Cartabia è stata anche e soprattutto la magistratura organizzata. Un fuoco di critiche culminato nella risoluzione del Csm che ieri mattina approva il documento presentato dal grillino Fulvio Gigliotti che accusa il sistema ideato dal ministro di presentare «rilevanti profili di criticità» e di «insostenibilità pratica», accusandola di causare «l'impossibilità di portare a conclusione un gran numero di processi». Un siluro cui si associano toghe e laici grillini, di sinistra e di centro, isolando i consiglieri di centrodestra e di Magistratura Indipendente. Uno sbarramento preventivo contro un testo che deve ancora arrivare all'esame del Parlamento. Ma lo scontro non è finito. Perché dopo la riforma Cartabia, vengono al pettine gli altri nodi della Giustizia: dalla riforma del Csm alla separazione delle carriere. Matteo Salvini, uscito abbastanza soddisfatto dallo scontro di ieri, annuncia che ora «i referendum della Lega e del Partito radicale diventano ancora più importanti». E i referendum si faranno di sicuro: alle 350mila già raccolte ieri si aggiunge il voto di cinque consigli regionali, raggiunto ieri col sì della Sicilia. Il quorum sufficiente per mandare gli italiani alle urne.

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Giustizia, il surreale titolo del "Fatto" di Marco Travaglio: "Giuseppe Conte limita i danni, Cartabia e Draghi cedono". Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. Quanta tenerezza si prova nel vedere la prima pagina del Fatto Quotidiano di oggi, venerdì 30 luglio. Quanta tenerezza, se possibile provarla, nei confronti di Marco Travaglio, direttore ultra-manettaro allo sbando. Ovviamente si parla di riforma della Giustizia, la riforma firmata da Marta Cartabia contro la quale Travaglio e il suo Fatto si sono battuti in modo veemente, tra insulti, epiteti quali "schiforma" e "salva-ladri", urla, grida e chi più ne ha più ne metta. Bene, si dà il caso che ieri, giovedì 29 luglio, quella riforma della giustizia sia stata varata in Consiglio dei Ministri. Il tutto dopo non poche tensioni e uno stop ai lavori dopo poco minuti, stop dovuto alle condizioni poste dai grillini i quali affermavano che no, la riforma-Bonafede non deve essere cancellata. Peccato che alla fine, quella riforma, sia stata demolita. Il sì dei pentastellati capeggiati da Giuseppe Conte è arrivato dopo una mediazione sui reati di mafia, un piccolo ritocco sulla durata di questi processi. E ora si arriva alla tenerezza che si prova per Travaglio, circostanza incredibile ma (potenzialmente) vera. Già, perché il Fatto Quotidiano vende ai suoi lettori quanto accaduto ieri come un sostanziale trionfo dell'avvocato Conte, il "pupillo" di Travaglio, il suo ultimo leader o presunto tale di riferimento. Titolone di prima pagina: "Conte limita i danni. Cartabia&C cedono". Roba che fa davvero ridere, ma altrettanto davvero in prima pagina. "Conte limita i danni". E la Cartabia con Mario Draghi che cede: ma in che film? Travaglio, insomma, crede che i suoi lettori siano dei fessi totali. Per rendere il tutto ancor più grottesco, attenzione alla foto sotto al titolo: Conte con guantoni da pugile e Cartabia e Draghi con occhio nero. Surreale. Sublime. Oltre il ridicolo. E ancora, il catenaccio: "Stavolta 4 ministri dei 5Stelle resistono e piegano Draghi". Robe che neanche le più improbabili edizioni de La Pravda...

Carcere. Ingiustizia maggiore con mafiosi e terroristi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Un certo realismo abolizionista vuole che almeno si cominci con l’evitare il ricorso alla misura carceraria per i reati meno gravi: è comprensibile. Siccome l’abolizione della pena detentiva è pressoché impossibile da ottenere, che almeno si ottenga di risparmiarla a chi ha commesso cose da poco, e di vederla revocata a chi in carcere ha lungamente soggiornato e deve scontare ormai senza nessuna necessità il poco residuo della sanzione. Ma l’ingiustizia più profonda è commessa dallo Stato nei confronti di chi, come si dice a destra e a manca, “merita” di restare in carcere perché si è reso responsabile di delitti, diciamo così, socialmente qualificati: per capirsi, i delitti mafiosi e di terrorismo, non a caso riguardati dal potere pubblico con analogo atteggiamento giudicante. A motivare questa pretesa punitiva non c’è il desiderio di allontanare dalla società il soggetto pericoloso (ciò che bensì giustifica, anche per l’abolizionista, il carcere): c’è semmai il desiderio di soverchiarne l’anima, il carattere, l’abito culturale, tramite l’afflizione del corpo. Pura inquisizione, dalla quale infatti il condannato si salva a una condizione: tradire il demonio con cui è venuto a patti, pentirsi, collaborare, infine purificarsi nell’affiliazione al bene di Stato. Nel nome del quale, appunto, non si tiene in galera il boss (ma col terrorista il procedimento è pressappoco lo stesso) sul presupposto che possa essere ancora pericoloso, e neppure in ottica semplicemente retributiva (ha fatto tanto male, gli tocca tanta galera): no, lo si restringe perché e finché “non si pente”, e quando lo fa gli si riconoscono benefici altrimenti inusitati perché il pentimento è la dimostrazione esemplare che il bene di Stato ha vinto, riducendo a sé il peccatore. In nome di questa giustizia è possibile rastrellare centinaia di persone e poi liquidare come “fisiologico” che molte risultino in realtà innocenti: perché esse sono sacrificabili, se si tratta di trovare il maligno da sottomettere al bene di Stato. E in nome di questa giustizia è possibile uccidere di carcere il criminale che a quel bene, non pentendosi, decide di non sottomettersi. È là dove la giustizia si pretende più giusta che essa si fa più temibile, meno civile: più ingiusta. Iuri Maria Prado

Ferrua: «Anche gli imputati di mafia hanno diritto a un processo di ragionevole durata». Il professor Paolo Ferrua stronca la riforma Cartabia e soprattutto l'improcedibilità che «rappresenta la più nichilistica e vuota delle possibili conclusioni, perché dissolve il processo, lasciando in vita e priva di risposta l’ipotesi di reato». Valentina Stella su Il Dubbio il 30 luglio 2021. Cinque Stelle, Lega e Governo sembrano aver trovato un accordo sulla riforma della giustizia che adesso dovrà passare il vaglio dell’Aula. Nel momento in cui scriviamo le notizie ancora non sono dettagliate ma raccogliamo intanto il parere di Paolo Ferrua, Professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Torino, uno dei massimi esponenti dell’accademia giuridica italiana. 

Come giudica dal punto di vista politico questo tipo di trattativa?

Con una scelta, a mio avviso radicalmente errata, la riforma “Cartabia” ha deciso di percorrere la strada della “improcedibilità” come mezzo per assicurare la ragionevole durata del processo nei gradi di impugnazione. È stata così costretta ad ipotizzare rigidi termini per la conclusione di ciascuna fase, con altrettanti rigidi termini di proroga e di sospensione. Soluzione a priori inadeguata, fatalmente destinata all’insuccesso, perché i tempi ragionevoli vanno misurati in base alla complessità del singolo processo, che non può essere ipotizzata astrattamente né per categorie di reati, ma va verificata empiricamente, con riguardo al caso concreto e all’evidenza disponibile. A quel punto, come prevedibile, sono insorte le varie forze politiche in un coro di piccole e grandi signorie, ciascuna volta a reclamare termini differenziati a seconda del tipo di reato o, addirittura, l’esclusione di qualsiasi termine per determinate categorie di reati, come quelli relativi alla mafia o al terrorismo o alla violenza sessuale. Quest’ultima idea parrebbe alla fine, almeno in parte, tramontata, ma è già grave anche averla semplicemente ipotizzata.

Perché professore?

Non solo perché, come appena detto, i termini non possono essere astrattamente ipotizzati, ma per una ragione più assorbente. Se quei termini sono davvero volti ad assicurare l’osservanza del precetto costituzionale sulla ragionevole durata del processo – secondo una prospettiva, a mio avviso, fortemente criticabile – allora vanno garantiti ad ogni imputato, quale che sia il reato che gli viene ascritto. Nessuno nega che mafia e terrorismo rappresentino emergenze criminose da affrontare con la massima efficienza e severità: la Corte europea dei diritti dell’uomo ne è ben consapevole. Ma questo non significa che gli imputati di quei reati non abbiano diritto ad una giustizia tempestiva, che, anzi, proprio in tali casi, dovrebbe esserlo quanto più possibile. Anche gli imputati dei più gravi reati potrebbero essere innocenti, ingiustamente accusati; è la stessa Costituzione, come d’altronde la Convenzione europea, ad imporci di non cadere in presunzioni di colpevolezza. Perché ammettere per loro un processo potenzialmente senza fine o, comunque, con termini eccessivamente lunghi (si parla, ad esempio, di sei anni per l’appello nei reati con aggravante mafiosa), quando è noto che il processo è già di per sé fonte di sofferenza? L’esperienza insegna che, quando si prevedono termini massimi per lo svolgimento di determinate attività, quei termini tendono a segnare non soltanto la durata “massima”, ma anche quella “media”. Parlando di “ragionevole durata” del processo, l’art. 111 comma 2 Cost. fissa un principio che riguarda, senza eccezioni, ogni imputato, nessuno escluso; pena l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che vi deroghino. E con ciò si torna al punto di partenza. Non è attraverso la previsione legislativa di termini massimi che si può garantire al processo una durata ragionevole.

Siamo pratici: con tutti questi aggiustamenti, norme transitorie, allungamenti dei tempi per i processi di appello e Cassazione si raggiunge l’obiettivo della ragionevole durata dei processi? 

La riforma “Cartabia” è ormai entrata in un labirinto dal quale difficilmente potrà uscire, offrendo soluzioni coerenti sul tema della durata ragionevole dei processi. Per comprenderlo è necessaria una premessa. Il disastro – o, proseguendo nella metafora, l’ingresso nel labirinto – è avvenuto quando si è pensato che la prescrizione potesse essere un mezzo per garantire tempi ragionevoli alla giustizia penale, in conformità all’art. 111 comma 2 Cost. In realtà chiunque capisce che quel precetto, parlando di ‘ragionevole durata’, sta ad indicare l’esigenza che il processo si concluda in tempi ragionevoli con una decisione sul merito dell’accusa.

Soluzione che può essere perseguita essenzialmente con tre tipi di intervento: a) una coraggiosa politica di depenalizzazione, interrompendo il circolo vizioso che alimenta l’inflazione penalistica; b) l’aumento delle risorse, a cominciare dall’organico dei magistrati e del personale addetto alla giustizia; c) l’eliminazione dei tempi morti del processo e delle fasi superflue, secondo la logica del modello accusatorio: ad esempio, la soppressione dell’appello del pubblico ministero, non tutelato da nessun precetto costituzionale né dalle fonti sovranazionali; l’eliminazione dell’udienza preliminare, come sostenuto con validi argomenti da Marcello Daniele, o, quanto meno, la sua ammissione solo a richiesta dell’imputato; una maggiore fluidità nello svolgimento delle indagini preliminari, ecc.

Quindi conferma che la improcedibilità non è la soluzione.

È evidente che né la prescrizione sostanziale né quella processuale (ora chiamata “improcedibilità”) possono servire alla ragionevole durata del processo perché non hanno nulla – proprio nulla – a che vedere con il relativo impegno contemplato nell’art. 111 comma 2 Cost. Con una differenza, tuttavia. La prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato – legata alla funzione rieducativa della pena e all’oblio che il trascorrere del tempo determina sulla memoria del reato – non contrasta con alcuna disposizione costituzionale. Dichiarando estinto il reato, segna la fine del processo con una decisione che è, almeno parzialmente, di merito: a seconda della fase in cui è emanata, accerta che non vi è la prova dell’innocenza o che il reato sussiste, pur essendo estinto.

Al contrario, la “improcedibilità” rappresenta la più nichilistica e vuota delle possibili conclusioni, perché dissolve il processo, lasciando in vita e priva di risposta l’ipotesi di reato; come tale, entra in tensione con l’art. 112 Cost, relativo al principio, rectius alla regola dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non so sino a che punto la Corte costituzionale possa tollerare il vulnus; ma, quand’anche ciò avvenisse, il mio timore è che sul valore di questa disposizione – come di quella relativa alla ragionevole durata – cada un gran discredito che rischierebbe di coinvolgere l’intera disciplina costituzionale del processo.

Il 40% dei processi è inutile. Ma la Cartabia non li elimina. Luca Fazzo l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. Quasi metà finisce con l'assoluzione in primo grado. E la "ragionevole previsione di condanna" è ambigua. La vera sfida - se, come vuole Mario Draghi, il «pacchetto giustizia» verrà approvato senza modifiche del Parlamento - si sposta ora nei tribunali e ancor più nelle Procure della Repubblica. Perché tra le condizioni indispensabili per raggiungere l'obiettivo della riforma Cartabia ce n'è soprattutto uno: la riduzione del numero dei processi, la cancellazione dai ruoli d'udienza delle decine di migliaia di fascicoli portati avanti per ostinazione e inerzia anche quando è evidente che le prove non ci sono o che si tratta di vicende insignificanti. Solo se si riduce il numero dei processi, ritiene la ministra, diventano realistici i tempi stretti che la riforma prevede per la celebrazione dei giudizi d'appello e di Cassazione, pena l'improcedibilità del reato. E la strada più ovvia per ridurre il numero dei processi passa per l'intervento sull'enorme percentuale di processi che in primo grado terminano con l'assoluzione dell'imputato: le statistiche ufficiali parlano del 40 per cento di assoluzioni. Sugli oltre 1,6 milioni di processi penali pendenti oggi in Italia, 600mila sono destinati a finire in nulla. Il rimedio proposto dal governo sta tutto in una frase: gli imputati potranno essere rinviati a giudizio solo se il giudice riterrà che gli elementi raccolti giustificano una «ragionevole previsione di condanna». Sarebbe una rivoluzione copernicana rispetto alla situazione attuale, dove il criterio per mandare a processo è quello assai più blando della «sostenibilità della accusa in giudizio», e in pratica solo l'evidente innocenza dell'imputato (a volte nemmeno quella) dissuade il giudice preliminare dall'accogliere la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura. La stessa bozza della Cartabia riconosce che oggi come oggi l'udienza preliminare è ridotta quasi a una formalità: il filtro non funziona, e le aule si intasano. E qui è complice la Cassazione, che spesso e volentieri accoglie i ricorsi delle Procure. Il problema è dunque: come interpreteranno i giudici la espressione «ragionevole previsione di condanna» contenuta nella nuova norma? Se i giudici dovessero adeguarsi davvero allo spirito della riforma, dovrebbero sommergere con decine di migliaia di rifiuti le richieste dei pubblici ministeri, risparmiando oltre tutto ad imputati innocenti anni di sofferenze inutili. Ma dovrebbero in teoria le stesse Procure fare propria la linea Cartabia, rinunciando ad accanirsi. In concreto il rischio è che non accada niente, visto che l'espressione proposta dal ministro, la «ragionevole previsione» appare quanto mai elastica. Oltretutto la bozza Cartabia se con una mano sembra togliere potere alle Procure dall'altra parte allarga la loro libertà di movimento, perché propugna l'allargamento dei casi in cui il pm può mandare l'imputato a processo senza neanche passare per il vaglio di un giudice preliminare, la cosiddetta «citazione diretta»: uno strumento finora riservato a reati di poco conto. È vero che anche i pm dovrebbero adeguarsi al nuovo criterio della «ragionevole previsione di condanna». Pia illusione. Insomma, anche ora che se ne conoscono meglio i dettagli la riforma del ministro conferma di portare con sé molti buoni principi basati su formule indebolite dalla mediazione. Come conferma anche l'analisi del testo sul punto criticato più apertamente dal professor Franco Coppi nell'intervista di ieri al Giornale: nel caso che un processo superi i due anni di durata in appello e quindi venga dichiarato improcedibile, che fine fanno i risarcimenti alle parti civili concessi con la sentenza di primo grado? Il testo Cartabia dice che «l'improcedibilità non pregiudica gli interessi delle parti civili, che potranno avere un risarcimento del danno davanti al giudice civile». Ma è ovvio che non sarà mai un giudice civile a poter valutare la innocenza o la colpevolezza di un imputato, e nessun risarcimento potrà essere concesso in mancanza di una condanna penale definitiva: a meno che non si voglia sostenere che basta quella di primo grado. Difficile che la Corte Costituzionale sia d'accordo. 

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

I dazi pagati ai Cinque Stelle. Giustizia, i tre successi dell’era Conte-Bonafede-Travaglio-Davigo che gettano ombre sulla riforma Cartabia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Luglio 2021. Con lo strappo sulla prescrizione, la bandiera dei Cinque stelle è ormai lacera e si volta pagina dopo l’era Conte-Bonafede-Travaglio-Davigo. Il principio è ormai demolito e non è un fatto simbolico. Ma stiamo attenti (nell’attesa che i cittadini dicano la loro con i referendum), perché a volte anche nel cestino del miglior pescato può annidarsi un pesce che puzza. E nella riforma Cartabia-Draghi ce ne sono almeno tre. D’accordo, comunque vada probabilmente non ci saranno più i processi eterni che volevano uccidere insieme gli imputati e le vittime. Il blocco alla prescrizione dei governi Conte uno e Conte due è stato ormai rosicchiato, la strada è aperta per poter rispettare quella riduzione del 25% della durata media dei processi penali che da tempo ci chiede l’Europa. E che trova in Italia l’ostacolo di una Casta in toga che non pare arrossire davanti a questi numeri: dal 1959 a oggi, l’Italia è stata condannata per l’irragionevole durata dei processi 1.202 volte. Vogliamo sillabarlo insieme questo numero? Milleduecentodue volte. Sul podio del disonore l’argento spetta alla Turchia (la Turchia!) con 608 richiami, cioè la metà. Bronzo alla Francia con 284 rimproveri, e poi piccole tirate d’orecchi, 102 alla Germania, 30 alla Gran Bretagna e solo 16 alla Spagna. Con questi chiari di luna della nostra storia ci sarebbero voluti più indulti e amnistie, che sono atti politici del Parlamento. Che i reati cadano in prescrizione per pigrizia o incapacità dei magistrati è qualcosa che non piace a nessuno. Ma ancor meno convince quel che ha fatto l’ex ministro Bonafede, cioè far pagare a due diverse categorie di vittime –gli imputati e le parti civili- l’inconcludenza dei suoi amici togati bloccando la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Una vera bestemmia, già pizzicata anche di recente dalla Corte Costituzionale. Si è presto resa conto la ministra Cartabia di quanto sia diverso governare il Paese rispetto all’emettere sentenze. Ha dovuto rapidamente trovare in sé la sapienza della tessitrice e mandar giù un bel po’ di nocciolini nel presentare la sua proposta, così come formulata dalla commissione Lattanzi, presieduta da un altro prestigioso ex Presidente della Corte Costituzionale. Con un piccolo gioco verbale di prestigio ha spiegato che il suo problema non era la prescrizione (come a dire: mettiamo un attimo da parte la parolaccia), ma la durata del processo. E se per ottenerne la riduzione del 25% si doveva anche toccare il mostro sacro, la bandiera identitaria di qualcuno, ebbene lo strappo andava fatto. E così è stato. Ma hanno ragione anche gli esponenti di governo del Movimento cinque stelle a rivendicare i propri successi. Se fossero un po’ più sensati, un po’ più colti e studiosi, sia Conte che Bonafede darebbero un occhio ad almeno tre tacche da mettere sul proprio cinturone da cow boy. La prima è la più politica, ed è stata da molti sottovalutata. La Commissione Lattanzi proponeva che ogni anno spettasse al Parlamento (che non è una scatola di sardine da espugnare, come gridava Beppe Grillo nei suoi comizi, ma uno dei poteri dello Stato) dare gli indirizzi di politica giudiziaria sulle priorità di indagine. Un principio sacrosanto che non avrebbe tolto il potere alla magistratura (semmai al singolo sostituto procuratore), ma avrebbe incrinato l’imbroglio della finta obbligatorietà dell’azione penale. Un orpello tutto italiano in contraddizione con il sistema processuale accusatorio cui dovrebbe far parte il nostro dalla riforma del 1989. La proposta è stata eliminata: decideranno ancora i procuratori e continueranno ad abusarne. Ed è molto grave aver ceduto alla sub-cultura di coloro che in fondo il Parlamento lo disprezzano, insieme allo Stato di diritto. Seconda questione, il mancato divieto al pm di ricorrere in appello contro la persona assolta con la sentenza di primo grado. Assistiamo ogni giorno a casi di vera persecuzione, con pubblici ministeri che inseguono l’innocente fino in cassazione e addirittura alla corte costituzionale. Abbiamo sentito magistrati imprecare contro coloro che l’avrebbero “fatta franca”. E questo mentre ben il 40% degli imputati rinviati a giudizio viene assolto proprio al processo di primo grado? La terza ferita (grave) ai principi dello Stato di diritto è anche quella più nota, quella già prevista nella tristemente famosa legge chiamata “spazzacorrotti” invece che “spazzagiustizia”. E cioè l’equiparazione di alcuni reati contro il patrimonio, in particolare quelli contro la Pubblica Amministrazione, ai più gravi reati contro la persona e a quelli commessi nell’ambito della criminalità organizzata. Che dire? Non crediamo che la ministra Cartabia e il presidente Draghi, che molto si sono spesi per riuscire a portare in Parlamento la riforma della giustizia (e per questo li ringraziamo entrambi), possano pensare di equiparare la mazzetta intascata dal vigile che controlla i mercati rionali al narcotraffico, agli omicidi e agli stupri. Pure, anche l’allungamento dei termini per le sentenze di appello e cassazione per il reato di corruzione puzza come un pesce marcio che rischia di rendere immangiabile l’intero pescato, cioè la riforma. Si può rimediare in Parlamento?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Così il giustizialismo grillino sta diventando minoritario nel Paese". Francesco Boezi il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. La deputata che ha firmato per il referendum sulla Giustizia spiega le sue ragioni. E parla di un vento garantista ormai maggioritario nel Paese. L'onorevole Raffaella Paita ha firmato per i quesiti sulla Giustizia. Quelli sostenuti dalla Lega di Matteo Salvini e dai Radicali. L'annuncio della sottoscrizione è arrivato in tempi non sospetti. Segno di quanto la presidente della Commissione Trasporti della Camera, che può porre qualche accento su una sua vicenda personale (la Paita è stata assolta due volte, dopo essere stata sottoposta a giudizio per vicende legata all'alluvione del 2014), sia certa dell'urgenza di quello che chiama "rinnovato equilibrio" in chiave garantista. All'epoca dell'indagine, il leader del MoVimento 5 Stelle Beppe Grillo - come si legge ancora su Twitter - ha domandato alla Paita di "ritirarsi" dalle elezioni liguri. Ma il fondatore grillino non era il solo a fare del giustizialismo un mantra: sempre sul social citato, la stessa onorevole Paita, a maggio scorso, ricordava come Luigi Di Maio, oggi ministro degli Esteri, avesse inserito il suo nome all'interno di un'elencazione che conteneva numerosi esponenti politici del Pd indagati, citati nelle inchieste, accusati, condannati e così via. Poi sono arrivate le scuse di Di Maio all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. Ma forse ci sono altri esponenti che aspettano delle scuse. In ogni caso, la Paita, per via dell'entusiasmo attorno al referendum, nota un vento garantista dirompente. E questo nonostante buona parte dell'Italia, fino a poco tempo fa, pareva aver sposato la causa grillina in materia, dice. 

Come mai ha firmato il referendum promosso da Salvini?

"Guardi, anzitutto il referendum è promosso anche dai Radicali: io ho firmato presso il loro banchetto. Che poi Salvini condivida la battaglia e si stia impegnando a me non disturba affatto: io non ho la fobia della destra. Questa è una battaglia giusta e condivisa dalle forze che sostengono una giustizia garantista. Una giustizia, quindi, che abbandoni la logica giustizialista che ha prevalso in questo Paese per un certo tempo. Poi certo: non ho firmato il referendum per Salvini, ma perché lo stavano promuovendo i Radicali e perché ne condivido il contenuto. Piuttosto sono felice che ancora una volta sto facendo una battaglia condivisa anche dal leader del mio partito Matteo Renzi".

Quindi attorno a questo referendum possa nascere un "fronte garantista"?

"Io ho una grande fiducia nel ministro Marta Cartabia. Non avevo dubbi nemmeno prima ma, dopo averla ascoltata in questi giorni in aula, mi è venuta la pelle d'oca. Il ministro ha manifestato nettezza verso fatti gravissimi avvenuti (l'onorevole si riferisce ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ndr) e una capacità di lettura degli eventi davvero senza eguali. Mi viene in mente l'invito inoltrato ai parlamentari: quello di andare a visitare le carceri. Sono convinta che la Cartabia stia per mettere in campo una riforma convincente. I referendum possono essere da stimolo e di aiuto. La quantità di adesioni è ormai enorme, mentre il clima nel Paese sta cambiando".

In che senso sta cambiando?

"Noi abbiamo pensato che il clima rappresentato dal fronte populista, soprattutto dal MoVimento 5 Stelle, avesse attecchito in Italia. Invece adesso ci ritroviamo un Paese che vuole guardare, con ritrovato equilibrio, ai poteri costituzionali".

Quindi lei sarebbe d'accordo con la separazione delle carriere?

"Sì, credo possa essere un elemento giusto in un nuovo disegno della giustizia. D'altro canto, ora ci stiamo occupando della tempistica del processo penale: è chiaro che quello è un requisito indispensabile, ma non sufficiente di un ridisegno complessivo. Dobbiamo attuare il Pnrr ad esempio, pure per non scoraggiare gli investitori. La riforma della Giustizia va approcciata con uno spirito organico, dunque deve riguardare pure la separazione delle carriere".

Senta ma Conte vuole alzare la posta sulla Giustizia, vero?

"Sa che ritengo che aver presentato 917 emendamenti sia un segno di debolezza per Conte ed i 5 Stelle? E' del tutto evidente che quegli emendamenti, nel caso fossero un tentativo di rimettere in discussione l'accordo con il premier Mario Draghi, sarebbero allora il frutto di logica politica sbagliata. Se invece ci sarà una discussione in Parlamento, quest'ultimo potrebbe dare un esito insperato per i grillini. Le forze garantiste sono maggioritarie in Parlamento".

Però il Pd non ha espresso la solidarietà a Renzi in relazione all'inchiesta appena emersa... Non è che la sinistra sta diventando troppo giustizialista per voi?

"In tutta franchezza, ritengo che il Pd debba avere un atteggiamento più coraggioso nei confronti della Giustizia. E non solo in riferimento al caso specifico di Renzi. Più in generale, penso che questo sia un grande tema di civiltà. Andare dietro alle tesi dei 5Stelle non mi pare una grande linea riformista. Noi non abbiamo dubbi: il garantismo deve prevalere, mentre il giustizialismo ha fatto tanti danni".

Se la sente di dire che senza Salvini questo referendum non avrebbe fatto poi tutto questo rumore?

"Le ho già detto che ritengo la battaglia di Salvini un fatto positivo: non credo di doverle dire altro in merito. Tuttavia, non credo che le sorti di questo referendum dipendano da una persona sola. E' come se le dicessi che, poichè oggi Renzi ha firmato, allora il referendum avrà un esito positivo. Penso piuttosto che sia importante che leader politici condividano una battaglia giusta. Ne do atto a loro due, ma anche ad Emma Bonino e a tutti coloro che sposeranno l'iniziativa. Mi impressiona in particolare la quantità di cittadini che stanno aderendo. E' una grande battaglia di popolo. Pensi ai tempi dei processi e quante persone riguardano. C'è una consapevolezza nuova, che è lo specchio di quel referendum. C'è qualcosa di più profondo della singola iniziativa seppur lodevole dei leader politici".

Ascolti, l'ultimo rapporto Ue sulla Giustizia italiana pone una serie di questioni, tra cui quello della fiducia nei giudici...

"Guardi che le due cose sono collegate. Io questa battaglia la faccio anche per tutelare i tanti, tantissimi giudici seri di questo Paese, che magari hanno anche pagato un prezzo altissimo. Se la giustizia funziona, questo va a vantaggio anche delle persone serie che lavorano nel mondo della giustizia, che sono la prevalenza. E' proprio l'assoluta fiducia nella Giustizia che mi suggerisce la necessità di un miglioramento". 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 21 luglio 2021. Matteo Renzi stava presentando il suo libro a Castenedolo (Brescia) che è il paesino natìo del giornalista più avvelenato con lui in assoluto, una discreta ossessione: Maurizio Belpietro. È lì, comunque, che Renzi ha annunciato la sua firma ai referendum sulla giustizia: domani alle 11,30. Ha detto: «Quando ci penso, non penso a Salvini, ma a Enzo Tortora». Stava presentando il suo libro Controcorrente nello stesso paese, come detto, del giornalista che ha scritti due contro di lui. Renzi: «Quella sulla giustizia e politica è una guerra che dura da 30 anni, da Tangentopoli a oggi. C'è una contrapposizione che arriva all'estremo con Bonafede, un dj, più che un ministro... Da boy-scout di provincia mi hanno fatto diventare un gangster internazionale. La vicenda che più mi fa arrabbiare è quella di Open: è lo stesso procuratore che ha arrestato i miei genitori, portato a processo mio cognato, indagato me, manca la mi' nonna, che ha 101 anni». L'annunciata firma di Renzi crea stupore: ma è anche il fatto che crei stupore, francamente, a creare stupore: perché non si dovrebbe firmare? Al di là dei significati politici - tra i quali spicca il rompere le palle ai grillini in tutti i modi possibili - sono le motivazioni di chi i referendum non vuole firmarli a incuriosire di più nella loro pretestuosità. Poi ci sono quelli che ne firmano alcuni, e non altri: ma, se vogliamo, è un segno di attenzione. Il fatto che a un certo punto siano diventati «i referendum promossi dalla Lega e dal Partito radicale» invece interessa pochi e poco, soprattutto ora che di adesioni ne sono arrivate tante anche da sinistra: Gianni Pittella, Goffredo Bettini, l'europarlamentare Giuseppe Ferrandino, l'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti (e ti credo) più altri esponenti di Italia Viva, Raffaella Paita e Roberto Giachetti. Pittella ha detto che «è un errore lasciare il garantismo alla destra». Tra le poche cose chiare, c'è che a firmare non sono solo elettori o simpatizzanti leghisti e di area radicale, ma soprattutto cittadini non particolarmente politicizzati e tuttavia consapevoli di tutte le promesse farlocche circa sempre annunciate riforme della giustizia, in sostanza mai fatte in termini perlomeno efficaci. Per questo chi firma, in genere, firma l'intero pacchetto dei 6 referendum, nonostante quello per la responsabilità civile dei magistrati appaia trainante. Abbondano perciò nomi noti del mondo della cultura e spettacolo e sport e impresa, compresi i direttori di Confimi industria e del ministero della Cultura. Non è chi ha firmato che deve spiegazioni, oggi, ma il contrario. Ettore Maria Colombo, giornalista ed elettore di sinistra, ha detto che «la malagiustizia è un male endemico dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadini, e ha caratterizzato l'intera vita della Repubblica italiana». Poi c'è gente di sinistra che non può certo rappresentare una sorpresa, come gli avvocati Giuliano Pisapia e Sergio Spazzali. E c'è l'ex magistrato Luca Palamara, che volente o meno fece scoperchiare il marciume della magistratura grazie al suo libro scritto con un certo Alessandro Sallusti. E c'è aiuto annunciato da Fratelli d'Italia: «È necessario iniziare un processo di riforma radicale della magistratura», anche se, nei gazebo di Giorgia Meloni, non compariranno i quesiti sulla custodia cautelare e quello sulla legge Severino: che - parere personale - è puro timore che la gente, quella di grana grossa, possa non capirli. Poi c'è qualche giornalista come Paolo Mieli, il grande Vittorio Feltri, Giovanni Minoli e Gaia Tortora. Che a firmare sia stato anche un magistrato come l'ex pm Carlo Nordio ha destato comunque sorpresa. Ma forse altre sorprese verranno ancora da sinistra: che da quelle parti i referendum siano largamente condivisi non è un segreto, ma che molti preferiscano astenersi, in attesa di vedere come andrà a finire, neppure. Molti firmano e non dicono niente. E siccome la raccolta sta andando alla grande a prescindere, è probabile che molti si palesino nel rush finale rendendo la vittoria un trionfo ancor superiore alle previsioni.

“Io, Bettini, figlio di avvocato e garantista da sempre…” Polemiche dopo la decisione del Richelieu del Pd di firmare i referendum sulla giustizia. Ma lui spiega al Dubbio i motivi di quella scelta. Antonella Rampino u Il Dubbio il 9 agosto 2021. Ma perché Goffredo Bettini ha deciso di firmare, così avallandoli, a quanto pare ben tre dei referendum in materia di giustizia, cosa che farà stamattina? Perché proprio Bettini, l’uomo che nella sinistra che discende da Botteghe Oscure è stato magna pars, costruendo le condizioni che portarono Veltroni alla segreteria, e letteralmente “inventando” Rutelli sindaco di Roma, oltre ad esser stato talent scout e mentore di Nicola Zingaretti? Qualche volta, e particolarmente in questo caso, l’uomo è la sua biografia. Lo dice lui stesso: «Io sono sempre stato garantista, ho sempre pensato che il garantismo sia democrazia liberale, e sì , anche che sia cosa di sinistra, come del resto ritiene anche gran parte del nostro elettorato, perché l’ho appreso sin da piccolo, da mio padre. Dentro il garantismo, io ci sono cresciuto. Basta aver letto uno dei miei libri per capirlo…». Vittorio Bettini, repubblicano sodale di Ugo La Malfa, famiglia di proprietari terrieri marchigiani, è stato un grande avvocato penalista, tra i fondatori della Camera Penale di Roma. Il resto lo han probabilmente fatto i casi personali dei politici inquisiti nell’inchiesta Mafia Capitale ed usciti assolti, dopo anni di peripezie. Ma è respirando quel clima familiare -ti spiegano dal Pd quelli che Bettini lo conoscono da anni e anni- che «Goffredo è diventato uno spirito libero, e lo era anche da segretario della Fgci. Adesso poi è addirittura uno spirito liberissimo…». Liberissimo anche da incarichi ufficiali, e sempre descritto da amici e nemici come un Richelieu -cosa che comporta il riconoscimento di una notevole intelligenza politica- Bettini si è scelto il ruolo di regista invece che di prim’attore della politica sin da quando si rifiutó, moltissimi anni orsono, di candidarsi sindaco di Roma. Per personale valutazione delle proprie capacità, e proponendo invece al Pci il radicale Rutelli. La firma che apporrà oggi a tre referendum -separazione delle carriere, custodia cautelare, abrogazione delle parti della legge Severino che vietano di candidarsi se si è indagati- non sarà a un gazebo leghista, ma nella sede del partito radicale. Perché naturalmente a Bettini non sfugge che il suo gesto potrebbe essere strumentalizzato politicamente. Da destra -e infatti precisa di esser sempre stato garantista, ma «non del garantismo che serve a coprire il malaffare» - come da sinistra, visto che Renzi e vari parlamentari di Italia Viva hanno aderito entusiasticamente ai referendum di Salvini (Renzi, per inciso, si riferisce correntemente e anche sprezzantemente a Bettini come alla “corrente tailandese del Pd”, per via dei legami di Bettini con quella terra, dove ha a lungo avuto casa e pure adottato 6 famiglie). Nemmeno è ipotizzabile una lettura politicista del gesto come fatto in accordo col Nazareno per non ritrovarsi in splendido isolamento sui referendum. Perché non solo altri esponenti del Pd hanno firmato o annunciato di volerlo fare (Pittella, Ferrandino, Marcucci…). Soprattutto perché il Pd di Enrico Letta è davvero schierato a difesa della riforma Cartabia, e i referendum sono al più un pungolo, non certo uno strumento con cui si possano fare le riforme. Spiriti liberi a parte, insomma, il Nazareno non ha cambiato idea. E Goffredo Bettini nemmeno. Ma, ci tiene a precisare, non firmerà i quesiti sulla responsabilità dei magistrati, «proprio no, perché possono essere usati come strumento di intimidazione, e questo non va bene». Perché poi il garantismo vero, i magistrati li rispetta. Ovviamente.

"Ho firmato anche io i referendum. Un errore lasciare il garantismo alla destra". Chiara Giannini il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Il senatore del Partito democratico: "Sono uno stimolo per cambiare. Attenzione alla responsabilità civile dei giudici, può diventare un boomerang". Anche dal Pd arrivano adesioni ai referendum sulla giustizia proposti da Lega e Radicali. L'ultimo ad aver firmato è il senatore ed ex europarlamentare Gianni Pittella.

Ha dato il suo assenso solo a 5 dei 6 quesiti. Quale non la convince?

«Non ho firmato quello relativo alla responsabilità civile dei giudici. Non sono d'accordo su questo tema, non perché neghi che esista un problema di responsabilità del magistrato che andrebbe ripensata, ma credo che un tema così delicato debba essere affrontato non con un quesito referendario il cui accoglimento potrebbe indurre la pubblica accusa all'inazione, alla paralisi difensiva per timore di conseguenze civilistiche. Lo dico da medico. Ogni volta che si eleva oltre il ragionevole il profilo di responsabilità civile del medico si finisce per impegnarlo in calcoli discutibili non sulle cure migliori, ma su quelle che espongono meno il medico al rischio. E quindi lo stesso si rifugia in una sorta di medicina difensiva».

Da uomo di sinistra firma per dei referendum proposti anche dalla Lega, perché?

«Intanto io ho firmato da cittadino e da socialista che vive da sempre la cultura del garantismo. Secondo, la mia firma non impegna né il gruppo del Pd, né il partito, ma soltanto la mia persona. Terzo, io non intendo lasciare a quella destra, alla Lega, a una destra che in alcuni momenti è stata anche manettara e anti garantista il vessillo del garantismo che è storicamente di una forza riformista e socialista».

Pensa ci sia molto da cambiare nel mondo della giustizia?

«Certo, i referendum possono essere uno stimolo che non toglie il merito al ministro Cartabia di aver svolto in questi pochi mesi un grande lavoro di proposizione con equilibrio e saggezza. Che in questo campo serve più che mai per evitare che gli aggiustamenti e le riforme necessarie possano sembrare una sorta di clava contro i magistrati, mentre invece si tratta di agire nell'esclusivo interesse dei cittadini e portare avanti quelle riforme che riequilibrino i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario nel nostro Paese».

Crede dunque che il Pd avrebbe potuto proporre gli stessi referendum?

«Il Partito democratico sta lavorando nelle sedi parlamentari dove è giusto che si lavori. I miei colleghi Mirabelli e Rossomando al Senato stanno facendo un grande lavoro sulla giustizia. C'è chi preferisce lavorare in Parlamento e chi si butta ora sugli strumenti referendari. E forse è la prima volta per la Lega nel senso che è un nuovo inizio per Salvini. Forse è un modo per compensare il suo ruolo di governo, per non perdere terreno rispetto alla Meloni. Io la vedo così. In ogni caso, comunque, visto che il meglio dei referendum, cinque su sei, mi convince, perché non firmarlo»?

Palamara descrive quello dei tribunali come un sistema. Ritiene anche lei sia così?

«Certamente ci sono dei problemi e delle criticità che vanno affrontati. Ma con la saggezza e l'intelligenza di chi vuole cambiare in meglio salvando la parte migliore della magistratura. Perché c'è tantissimo di eccellente e di equilibrato al suo interno e non bisogna fare assolutamente di tutta l'erba un fascio. Le riforme necessarie vanno fatte senza l'idea che bisogna sfasciare tutto, perché questo sarebbe un modo per non fare nulla o soltanto propaganda».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Referendum Giustizia, firme anche da sinistra. FdI: "Sostegno a quattro quesiti". Raffaello Binelli il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. "La questione della ‘mala giustizia’ è un male endemico dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadini che ha caratterizzato l’intera vita della Repubblica italiana", spiega il giornalista Ettore Maria Colombo, che da elettore di sinistra sostiene i referendum proposti da Lega e Radicali. Prosegue la raccolta delle firme sui referendum per la Giustizia proposti dalla Lega e dai Radicali. Secondo i dati diffusi dal Carroccio in un solo weekend sono state superate le 100.000 firme. "È un grandioso segnale di cambiamento e voglia di giustizia - dichiara Matteo Salvini -. E da lunedì si potrà firmare, con calma e al fresco, in tutti i Comuni italiani. Altro che milione di firme, puntiamo a raccoglierne tante di più". Intanto, mentre prosegue lo sforzo capillare su tutto il territorio nazionale per raccogliere nuove adesioni, si allunga l'elenco delle personalità che hanno firmato i referendum. Non si tratta solo di elettori del centrodestra. Anche a sinistra cresce il numero di persone convinte della necessità di cambiare profondamente la giustizia italiana. Una di queste, Ettore Maria Colombo, giornalista, in una lettera al Giornale.it motiva la propria scelta: "La questione della ‘mala giustizia’ è un male endemico dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadini che ha caratterizzato l’intera vita della Repubblica italiana. Senza entrare nel merito e senza perdersi in dotte ricostruzioni storiche, lo stesso fenomeno di Mani Pulite e di Tangentopoli è stato rivisto e riletto, pur solo dopo molti anni, evidenziandone i limiti, gli abusi, i tanti errori (l’abuso della carcerazione preventiva, le ‘confessioni’ estorte a forza, l’avviso di garanzia che diventava un ‘avviso di colpevolezza’, l’uso smodato dei media come grancassa indebita, etc.)". Colombo prosegue ricordando che a quei tempi a sinistra, "un misero calcolo politico – la speranza di approfittare del ciclone Mani Pulite pensando di risultarne esenti – portò a un’acritica adesione a quel fenomeno. Solo un piccolo partito (Rifondazione comunista con Giovanni Russo Spena), alcuni penalisti insigni (Giuliano Pisapia) e alcuni avvocati difensori (Sergio Spazzali) misero in luce, vox clamans in deserto, le storture che quel tipo di indagini provocano e compivano, snaturando i principi fondamentali del diritto, ledendo diritto di difesa e principi costituzionali". "La magistratura italiana - prosegue Colombo - divisa in correnti diventate pure fazioni di potere, non ha mai smesso di ‘influenzare’ la politica italiana, condizionandone corso e natura. Cosa fatta, si potrebbe dire, capo ha. Solo pochi, come i Radicali italiani, hanno mantenuto alta la bandiera e la lotta per una ‘giustizia giusta’. Gli stessi decreti Berlusconi, più volte reiterati, hanno impedito, per finalità di lotta politica, di capire che il principio della divisione tra magistratura giudicante e magistratura inquirente è e deve essere un caposaldo di qualsiasi democrazia che voglia dirsi liberal-democratica e occidentale". Ad aprire gli occhi a tutti, anche ai più restii a criticare il totem della giustizia italiana, è arrivato lo scandalo scoperchiato grazie al libro di Luca Palamara, "Il Sistema", scritto con Alessandro Sallusti. Nessuno ora può più dire "non sapevo". Ma dopo la denuncia viene il momento delle riforme, che è possibile accelerare grazie ai referendum, come spesso è già avvenuto in passato. Senza togliere poteri al Parlamento: "I sei referendum non cozzano con la riforma della Giustizia, targata Marta Cartabia, presto all’esame del Parlamento, con il consenso di tutte le forze politiche – quindi anche quelle di centrosinistra – che lealmente sostengono il governo Draghi". A chi ritiene che con questi referendum si voglia mettere un pericoloso freno alla magistratura Colombo cita Falcone a Borsellino: "Il loro esempio resta forte e inscalfibile, ma se la magistratura non riesce, per propri vizi interni, a cambiare dall’interno, con una autoriforma sempre rinviata, è arrivato il tempo che cambi dall’esterno. Come per altri referendum promossi dai Radicali, il Paese reale si imporrà, con la forza delle sue idee, sul Paese ‘legale’, restio a ogni cambiamento".

L'impegno di Fratelli d'Italia. "Raccoglieremo le firme per i referendum relativi alle necessarie riforme della magistratura al fianco di tutto il centrodestra", annuncia Giorgia Meloni. "È necessario iniziare un processo di riforma radicale della magistratura dopo le inquietanti vicende del caso Palamara. Bisogna riformare la magistratura per scardinare il sistema delle correnti che ne ha fatalmente compromesso l'immagine. Faranno eccezione, nei nostri gazebo, due quesiti - aggiunge la leader di Fdi - per i quali non ci uniremo alla raccolta firme: quello sulle misure cautelari e quello sulla legge Severino, figli più della legittima cultura radicale che quella della destra nazionale". Raffaello Binelli.

Giovanni Minoli, furioso contro l'Anm per le critiche ai referendum sulla giustizia di Lega e radicali. Giovanni Maria Jacobazzi su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. «L'Associazione nazionale magistrati dovrebbe semplicemente vergognarsi di sé stessa: ha un livello di credibilità talmente basso che farebbe meglio a stare zitta». Giovanni Minoli risponde così alle critiche dell'Anm nei confronti della campagna referendaria sulla giustizia promossa dal Partito Radicale e dalla Lega. La raccolta delle firme, 500mila il numero da raggiungere, è iniziata l'altro ieri e terminerà il prossimo 30 settembre. Minoli, giornalista e autore di famosi programmi televisivi Rai come Mixer, Report e La Storia siamo noi, è fra i sostenitori più convinti dei sei quesiti sulla giustizia.

Direttore Minoli, allora ha deciso di appoggiare i referendum?

«Sì, senza dubbio. Anche perché è l'Europa a chiederci di mettere mano in maniera seria ed efficace al nostro sistema giudiziario. È una scelta obbligata».

Il quesito che l'ha convinta maggiormente?

«Penso a quello sulla responsabilità diretta dei magistrati».

Il tema è ricorrente. Già nel 1987 i Radicali, dopo quanto accaduto ad Enzo Tortora, avevano promosso un referendum sulla responsabilità dei magistrati.

«Ricordo molto bene. Il referendum fu vinto con oltre l'80 per cento di "sì", ma poi un Parlamento succube dei magistrati varò la legge Vassalli che limitava al massimo la possibilità di rivalsa nei confronti del giudice che aveva procurato dei danni ai cittadini per il suo comportamento».

Gli ultimi dati disponibili dicono che dal 2010 al 2021 sono stati solo otto i magistrati condannati per i loro errori.

«Ecco, credo che sia un numero che renda bene l'idea di quale è ora la situazione in Italia. E aggiungo un elemento: oltre al fatto che nessuno paga per gli errori commessi, tutti rimangono tranquillamente al proprio posto. Anzi, fanno anche delle brillanti carriere, come la fecero a suo tempo i magistrati che arrestarono Tortora (uno venne anche eletto al Consiglio superiore della magistratura, ndr)».

Uno dei quesiti riguarda la separazione delle carriere. Argomento incandescente da sempre. Dopo il concorso in pratica il magistrato dovrà scegliere se fare il pm o il giudice e non potrà più cambiare funzione durante tutta la carriera.

«Sono favorevole anche in questo caso». 

"Sulla separazione delle carriere ci sono criticità che a me sembrano non superabili. Creare un corpo di pubblici ministeri separato da tutto è probabilmente più pericoloso dell'attuale assetto". Sa chi lo ha detto?

«No».

Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia secondo cui la separazione delle carriere è considerata addirittura pericolosa in quanto la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe quella della dipendenza del pm dal ministro della Giustizia e quindi dal potere politico.

«Vuol dire che i vertici dell'Anm non hanno molta fiducia nella professionalità e nella moralità dei magistrati. Si conoscono bene, evidentemente».

Il segretario del Pd Enrico Letta è contrario ai referendum, vede meglio la riforma della giustizia a cui sta lavorando la Guardasigilli Marta Cartabia.

«Voglio ricordare che tutte le riforme della giustizia che ci sono state in questi ultimi trent' anni non hanno cambiato nulla. Il potere lobbistico della magistratura è riuscito sempre a stroppare qualsiasi tentativo di cambiamento. E comunque non ho ancora visto un testo definitivo di questa riforma».

È pessimista anche questa volta? Eppure c'è un clima di grande fiducia intorno alla ministra Cartabia.

«Ripeto, prima di giudicare voglio leggere cosa ha scritto. Se tiene conto della realtà, ottimo, sarò il primo ad essere contento. La condizione della giustizia in Italia è drammatica. Serve una svolta».

A proposito di "svolte", sono ormai due anni che è esploso lo scandalo delle nomine lottizzate al Csm. Mi riferisco alla vicenda Palamara. Un commento?

«Dopo tutto questo marasma che ha colpito il Csm mi aspettavo una reazione forte. Invece nulla». Chi doveva intervenire? «Il capo dello Stato, che è anche il presidente del Csm».

Cosa avrebbe dovuto fare Sergio Mattarella?

«Credo che sarebbe stato opportuno che avesse sciolto il Csm. Serviva un intervento convinto».

Palamara dice che le nomine e gli incarichi vengono decisi dalle correnti della magistratura presenti all'interno del Csm. Le correnti sono così potenti?

«Assolutamente. E forse anche il mancato scioglimento del Csm è la prova del potere che hanno le correnti».

È possibile fare qualcosa per arginarle?

«Sorteggiare i componenti del Csm. Non vedo altre soluzioni».

Alessandro Sallusti, magistrati e verginelli della politica mi fanno più paura del Vaticano. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 giugno 2021. Tutti a dire che "il parlamento è sovrano" e che di conseguenza la nota di protesta sulla legge Zan in discussione al Senato inviata dallo stato Vaticano al governo italiano è irricevibile in quanto costituisce una indebita interferenza. Non so, a me risulta che i rapporti tra Stati, soprattutto se tra due Stati intercorrono trattati vincolanti, siano regolati anche da pressioni più o meno debite, altrimenti dovremmo abolire la diplomazia sia nelle sue forme sotterranee che esplicite. E mi sembra altrettanto chiaro che comunque nessuno, tantomeno il Vaticano, abbia mai pensato che il nostro parlamento non sia sovrano. Esattamente come facciamo noi a parti opposte: il fatto che l'Egitto sia uno stato sovrano non ci impedisce di protestare con Il Cairo per l'arresto dello studente Patrick Zaky, il giovane attivista egiziano che studiava all'università di Bologna. Ma soprattutto mi piacerebbe che altrettanta fermezza nei confronti dell'autonomia del parlamento venisse esibita anche in campi diversi dalla legge Zan, per esempio per quanto riguarda la riforma della giustizia. I minacciosi comunicati dell'Associazione nazionale magistrati, le esternazioni altrettanto dure di singoli magistrati verso qualsiasi tentativo della politica di riordinare il sistema giudiziario costituiscono o no una "indebita ingerenza" di un potere nei confronti dell'autonomia di deputati e senatori? Su questo il presidente della Camera Fico e la sinistra tutta non hanno nulla da obiettare? Quelli che fanno i verginelli sono una delle categorie peggiori della politica, mi preoccupano più loro del Vaticano. Solitamente accade che le "pressioni" sono accolte se provengono da ambienti amici tipo appunto i magistrati, denunciate e respinte con sdegno se intralciano i propri piani. La laicità dello Stato va ribadita contro ogni fede invasiva, compresa quella dei giustizialisti che in quanto a violazione dei diritti e dogmatismo cieco sono assai più pericolosi di cardinali e vescovi. 

I MAGISTRATI E LA “STATURA” DA RECUPERARE. Carlo Nordio si Il Corriere del Giorno il 25 Giugno 2021. Il sistema Palamara ha rivelato il mercimonio dei voti e delle cariche negli altri gradi delle toghe. Il Csm che era già stato decapitato dopo le rivelazioni di Palamara, tenta maldestramente di mettere il coperchio sulla pentola radiando quest’ultimo con un processo sommario, e fingendo che per il resto vada tutto bene. Parlando a Taormina, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha deplorato la perdita di fiducia degli italiani nella magistratura; ha annunciato una serie di riforme radicali, e ha aggiunto che queste non saranno sufficienti senza un qualcosa “di più nobile e più alto” Ma sopratutto ha pronunciato una frase terribile: “Dobbiamo fare di tutto perchè il giudice torni ad essere con quella statura che la Costituzione gli chiede nel momento del giuramento. L’art. 54 chiede disciplina ed onore”. Perchè sono parole terribili? Perchè Cartabia non ha detto che i magistrati devono “tenere” quell’alta statura, na che devono recuperarla. Il che significa che l’hanno perduta. Nessun guardasigilli si era mai espresso in termini così severi in questi ultimi 25 anni. Eppure da tempo gli italiani hanno perduto la fede, e anche la speranza, nella giustizia e in chi l’amministra. E allora perchè queste parole proprio ora? Le ragioni, a nostro avviso, sono tre. La prima è la personalità e l’autorevolezza di chi le ha pronunciate. Cartabia è stata presidente della Corte Costituzionale, ha una competenza tecnica straordinaria, e sopratutto, non avendo mai fatto politica, non ha quella vulnerabilità di chi ha partecipato a competizioni elettorali, dove un’inchiesta su corruzioni o scambi di voto è sempre in agguato. In altre parole non corre il pericolo di essere raggiunta da un’informazione di garanzia o peggio di finire sui giornali per la pilotata divulgazione di intercettazioni ambigue. Circostanze che hanno eliminato ministri, sindaci ecc. successivamente prosciolti senza nemmeno le scuse. La seconda è il disgusto dei cittadini davanti agli scandali che hanno travolto e stanno travolgendo la magistratura. Il sistema Palamara ha rivelato il mercimonio dei voti e delle cariche negli altri gradi delle toghe. Peggio. Le ammissioni dell’ex capo del sindacato hanno consolidato il sospetto che alcune indagini fossero rivolte ad eliminare personaggi sgraditi: la frase “Salvini è innocente ma bisogna attaccarlo” è deplorevole in bocca au politico ma è un sacrilegio in quella di un giudice. Come se questo “mercato delle vacche” (espressione usata da un alto magistrato) non fosse bastata, ecco lo scandalo di Milano. Un sostituto accusa il suo capo di aver imboscato un’inchiesta su una loggia segreta, e quel che è peggio passa i verbali secretati ad un membro del Csm che, peggio del peggio, li mostra ad un parlamentare in un sottoscala. Poi sempre a Milano, un procuratore aggiunto viene indagato per aver omesso il deposito di atti essenziali in un processo costato milioni e risoltosi nel nulla, con una reprimenda del Tribunale; infine il Csm che era già stato decapitato dopo le rivelazioni di Palamara, tenta maldestramente di mettere il coperchio sulla pentola radiando quest’ultimo con un processo sommario, e fingendo che per il resto vada tutto bene. Come se questo non bastasse, ecco la recente infelicissima sortita dell’Anm, che di fronte alla prospettiva del referendum ha minacciato una “forte reazione”. Il cittadino allarmato si domanda che reazione possa essere, e si augura che non sia quella che nessuno oserebbe nemmeno pensare, cioè un uso strumentale dell’enorme potere di cui dispongono le procure. In ogni caso è una contraddizione che svela l’arroccamento autoreferenziale di questo sindacato, che si era opposto all’istituzione di una commissione d’inchiesta sul sistema Palamara sostenendo che il Parlamento non poteva interferire con la magistratura, e ora si oppone al referendum sostenendo che il popolo non può interferire sul Parlamento. Insomma dovremmo tutti accontentarci dell’autocertificazione di virtù dell’Associazione Nazionale Magistrati. Non ci crede più nessuno, e men che mai ci crede la Cartabia. La terza ragione riassume le altre due. La politica ha chinato il capo negli ultimi 25anni davanti alle toghe, perchè la prima era debole e le secondi forti. Ora le parti si stanno invertendo. Draghi – e Cartabia – sono inamovibili, per le ragioni che sappiamo. La magistratura invece è ai minimi storici di credibilità e di fiducia. E’ di ieri la diffusione della notizia che il poliziotto di Roma che ha ferito un ghanese che seminava il panico brandendo un coltello è stato iscritto nel registro degli indagati: sarà anche un atto dovuto, ma è una flagrante, ennesima violazione del segreto istruttorio che rivela quantomeno un difetto di vigilanza da parte di chi avrebbe dovuto assicurarlo. E’ presumibile che anche presso le Forze dell’Ordine crescano le perplessità verso i magistrati manifestate dalla ministra delle Giustizia. Riuscirà tuttavia quest’ultima a realizzare le radicali riforme promesse, di cui si sa ancora poco o nulla? Ne dubitiamo. Non solo perchè per essere efficaci richiedono tempo ed energie, e le priorità del Governo in questo momento sono altre. Ma sopratutto perchè le riforme le fa il Parlamento, che nell’attuale composizione non è disponibile ad assecondare una volontà realmente innovatrice. Forse sarà il referendum a dargli uno scossone, ed è per questo che molti lo temono. Ma è comunque incoraggiante che la ministra abbia dimostrato due delle tre doti fondamentali che Gibbon richiede allo statista: il cervello per comprendere, e il cuore per decidere. La terza, il braccio per eseguire, non dipende da lei. Ma con questo atto di intelligenza e di coraggio Cartabia ha già ipotecato, per il futuro, un posto d’onore nella Giustizia. E forse anche più in alto.

I cittadini non si fidano più. Perché servono i referendum sulla giustizia: si è sgretolato il patto sociale. Giuseppe Rossodivita su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Il 22 giugno l’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, grazie alla tenacia di Matteo Angioli, del Sen. Roberto Rampi (Pd) e di Andrè Gattolin – vicepresidente del Consiglio Generale il primo e consiglieri generali del Partito Radicale gli ultimi due – ha approvato una risoluzione che cristallizza il “diritto alla conoscenza” come diritto umano fondamentale. Una delle due battaglie alle quali Marco Pannella ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. L’altra era quella, più antica, per ottenere una “giustizia giusta”. Cosa c’entra il diritto alla conoscenza con i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega? C’entra eccome. Per gli addetti ai lavori il sistema di (auto)governo della magistratura era faccenda nota. La politica sapeva come funzionava (e funziona) e ha cercato, per timore e per convenienza, con alterne fortune, di entrarci in contatto, di ricavarsi strapuntini di impunità o occasioni di aggressione all’avversario di turno. Il quarto potere, quello dei media, tanto ne conosceva i meccanismi che lo ha sostenuto e fatto crescere nel tempo, nascondendolo agli occhi dell’opinione pubblica, anche in questo caso per timore, per ricavarsi strapuntini di impunità o di privilegi sul versante delle inchieste da sparare in prima pagina con il mostro di turno. La magistratura non allineata pure ne era perfettamente a conoscenza, così come l’avvocatura, ma di rivolte non se ne sono viste in tanti anni, meglio conviverci, fare spallucce, bofonchiare qualcosa, purché sottovoce e farsi amico qualche potente, tanto questo è il paese di “io speriamo che me la cavo”. Ebbri di questo immenso potere di condizionamento di tutta la vita democratica del Paese, i nostri hanno commesso un errore, come tutti gli errori determinati dalla eccessiva consapevolezza di sé stessi. Quando sono uscite le chat e le intercettazioni di Luca Palamara, i tenutari del potere dentro la magistratura hanno pensato di agire more solito: un paio di importanti giornali nazionali amici pronti a mettere all’angolo “il cattivo” di turno eletto a capro espiatorio di tutti i peccati; i Tg della concessionaria del servizio pubblico in ordinata scia; un paio di processi disciplinari lampo per Anm e Csm, senza dar la parola a 133 testi chiesti dalla difesa con conseguente espulsione “della causa di tutti mali” da Anm e Csm. Partita chiusa e si torna a fare come prima senza doverne mai rispondere a chicchessia. Qualcosa è andato storto, però, perché se da un lato era evidente a tutti che Palamara non è che chattava o parlava da solo, dall’altro è stata anche evidente l’opera di copertura ed insabbiamento delle responsabilità di una intera categoria: la classe dirigente interna alla magistratura, con i suoi metodi di selezione. Ed è la classe dirigente più potente del Paese. Fatto di tanta imbarazzante evidenza che è deflagrato non appena Palamara ha annunciato, dalla sede del Partito Radicale, di volersi mettere a disposizione per raccontare come sono andate le cose per tanti anni, nelle segrete stanze (e nei sottoscala) del Csm e dell’Anm. E i racconti del libro Il Sistema – al di là delle singole vicende e dei personaggi coinvolti che il grande pubblico neanche conosce – hanno profondamente indignato l’opinione pubblica. Una parte della stampa ha capito che dietro l’inaspettato successo editoriale – un libro che il Segretario del Pr Maurizio Turco ha definito uno strumento di lotta politica – c’era e c’è la volontà dell’opinione pubblica di conoscere e di sapere come funziona quel mondo dal quale escono indagini e sentenze che possono distruggere la vita delle persone, di conoscere quel mondo che, da tangentopoli in poi, gli era stato raccontato come un mondo di eroi senza macchia e senza paura, che a colpi di inchieste e di arresti, stava “smontando” l’Italia (Governi, Regioni, Comuni) dell’illegalità e dell’immoralità. Si è aperto così un varco di conoscenza e di indignazione che ha scompaginato vecchi equilibri determinando, a valanga, altri racconti: quello di Storari e quello di Davigo, quello del senatore Morra e quello di Ardita e via elencando. E il potere della conoscenza, quando viene consentita, si è dimostrato quello di una bomba atomica, che ha portato ai minimi termini la credibilità dell’intero sistema della giustizia italiana. Lo stesso Salvini, pronto ad intercettare gli umori dell’opinione pubblica, ha scritto sui suoi social, insieme a Giulia Bongiorno, che il racconto di Palamara ha consentito alla gente e alla Lega di rendersi conto dell’urgenza delle riforme. Ed è un dato di fatto che un anno fa i referendum non sarebbe stato possibile convocarli: non c’erano le condizioni e la stessa Lega, un anno fa, non ci sarebbe stata. Oggi si registra invece una amplissima convergenza di forze politiche e sociali. Ed è per questo che oggi la classe dirigente dell’autogoverno della magistratura è terrorizzata dai referendum: ha ragione, ha fallito e farebbe bene a farsi da parte lasciando spazio alle nuove leve, nell’interesse del Paese e della Giustizia. La ministra Marta Cartabia è lacerata dalla domanda che gli viene posta più frequentemente di questi tempi: “Ministra, come facciamo a tornare ad avere fiducia nella Giustizia in Italia?”. Per Piero Calamandrei, il giudice era colui che nell’unica trattoria del paese, siede da solo all’ultimo tavolo, con sua unica commensale la sua indipendenza. Quanto è distante questa figura anelata da Calamandrei con lo spettacolo penoso che finalmente l’opinione pubblica ha potuto conoscere? Il patto sociale sulla giustizia è venuto meno, si è sgretolato. Perché mai il cittadino messo sotto processo dallo Stato dovrebbe accettare sentenze pronunciate da persone a cui non viene più riconosciuta quella autorevolezza del giudice austero e rigoroso di Calamandrei o del giudice che soffre il potere di togliere la libertà di Sciascia, piuttosto che goderne ed abusarne? Se c’è una cosa che gli italiani non perdonano è quella di essere giudicati da chierici che predicano bene e razzolano male, almeno quanto quelli che condannano riservandosi per loro solo autoassoluzioni. Cosa c’entrano i referendum con queste riflessioni? Cosa c’entra l’abrogazione di quelle norme che impediscono di citare a giudizio il giudice in caso di danni cagionati nell’esercizio delle funzioni o l’abrogazione delle norme che consentono ai pm di diventare giudici e viceversa nello sviluppo della loro carriera, o ancora di quelle norme che impediscono agli avvocati di partecipare alla valutazione della professionalità dei magistrati in quei mini Csm che sono i Consigli giudiziari, solo per fare tre esempi: cosa c’entrano con quanto abbiamo appena visto? Sono riforme sufficienti, quelle proposte con i sei quesiti referendari, per rimettere in ordine un sistema impazzito, dove l’unica parola che conta è potere, dove non c’è traccia di responsabilità, di qualsiasi specie e natura, civile, professionale, disciplinare? Ovvio che no, non sono riforme sufficienti, non possono essere altro che l’inizio di un percorso riformatore di un sistema che ha consentito abusi e soprusi senza controlli e contrappesi. È un sistema, che anche a livello Costituzionale non ha retto al trascorrere del tempo e alla trasformazione profonda della società: i tempi di Calamandrei sono lontani e sono lontani anche i modelli di giudici a cui i nostri padri costituenti si riferivano. Ed è per questo che i sei referendum sulla giustizia sono l’occasione per ricostruire il patto sociale su cui si fonda l’amministrazione della giustizia. La politica ha fallito, non è stata capace e non ha avuto la forza di evitare quel degrado che per la prima volta è stato fatto conoscere. Ora i cittadini pretendono di dire la propria, di decidere direttamente, non solo sull’abrogazione di quelle norme indicate nei quesiti, ma evidentemente pretendono di indicare una direzione di marcia che alla politica converrà seguire. Come si ricostruisce la fiducia dei cittadini nella giustizia? Dandogli ascolto senza tradire la loro volontà. Per questo i referendum, in questo momento storico, sono un’occasione irripetibile, sono l’occasione per restituire ai cittadini parola, voce e fiducia nei confronti della giustizia. Giuseppe Rossodivita

Cassese: «La magistratura non è una cittadella che si autogoverna». «La Costituzione attribuisce indipendenza all’ordine giudiziario, non conferisce ad esso potere di autogoverno». Il Dubbio il 20 giugno 2021. «Un referendum sulla giustizia o, meglio, su alcuni particolari aspetti dell’ordinamento della giustizia in Italia è costituzionalmente ammissibile». Taglia corto così, in un’intervista al Giornale. Sabino Cassese, uno dei più autorevoli giuristi italiani e giudice emerito della Consulta, cercando di mettere fine alle polemiche sorte tra Anm, che ritiene i referendum sulla giustizia inammissibili, e la Lega e il Partito Radicale, che quei referendum li hanno proposti. Eppure il presidente dell’associazione magistrati, Giuseppe Santalucia, continua a sostenere che le funzioni e le prerogative della giustizia non sono materia da referendum. «Un approccio di questo tipo – sottolinea Cassese – mi pare corrispondere a quell’idea sbagliata, che è andata maturando in questi anni, dell’ordine giudiziario e, di conseguenza, della magistratura come una cittadella separata, che si autogoverna». E chiarisce: «La Costituzione attribuisce indipendenza all’ordine giudiziario, non conferisce ad esso potere di autogoverno» e se «la Costituzione non esclude il referendum abrogativo in materia di giustizia questo è certamente ammissibile».

Il dibattito sul referendum e le minacce. Anm è monarchia assoluta, per questo nega i referendum sulla giustizia. Armando Mannino su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Nella sua relazione al direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) il presidente Giuseppe Santalucia ha criticato le sei proposte istitutive dei referendum sulla giustizia depositate dai radicali e dalla Lega, perché i temi trattati per la loro rilevanza istituzionale e intrinseca complessità avrebbero dovuto essere discussi e valutati nelle aule parlamentari. La preferibilità di questa soluzione rispetto a quella referendaria è indubbia. Non si può però trascurare che le proposte in discussione in Parlamento, certamente utili, sono timide e in larga misura non idonee a rimuovere le cause della pesante crisi in cui da troppo tempo si dibatte il “sistema giustizia” in Italia. Inoltre, indipendentemente dal merito delle singole proposte di referendum, sulle quali saranno chiamati a pronunciarsi i cittadini se com’è prevedibile sarà raggiunto il numero di firme necessario, l’effetto non secondario di fatto perseguito è anche quello di accertare la misura del consenso dell’opinione pubblica nei confronti di misure sostanziali di riforma della magistratura, senz’altro utile per rimuovere quegli ostacoli politici che in Parlamento ne impediscono l’adozione. Sembra questo il vero timore di Giuseppe Santalucia e dell’associazione che presiede. Egli aggiunge infatti che «il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura». Conclude poi che «spetta all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo», perché è suo compito operare «affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali». Per valutare queste affermazioni è opportuno partire dalla contrapposizione esistente tra la costituzione formale, cioè i principi sanciti nella Carta costituzionale, e la cosiddetta costituzionale materiale, derivante dall’assetto concreto che la magistratura ha progressivamente assunto in questi ultimi trent’anni. La prima si fonda sulla concezione della magistratura come un “ordine” (art. 104 cost.), privo in quanto tale di una organizzazione e di un vertice che di fatto potessero consentirle, avvalendosi dei poteri coercitivi ad essa affidati, di assumere un’indebita supremazia sui poteri costituzionali. Questo ordine è caratterizzato dai principi di indipendenza da condizionamenti interni ed esterni e di autonomia nell’esercizio della funzione, necessari per assicurare la subordinazione del magistrato alla legge, cioè alla volontà sovrana dei cittadini espressa direttamente con il referendum o indirettamente per mezzo degli organi che li rappresentano. La costituzione materiale della magistratura si fonda invece su principi opposti, il cui fondamento si rinviene nell’associazionismo sindacale. Messo fuori legge nel 1925 dal regime fascista, nel 1944, quindi ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i magistrati costituiscono l’Anm, al cui interno nel 1950 si organizzano le correnti sulla base dei diversi orientamenti culturali e politici. In tal modo la magistratura ha assunto una struttura unitaria e si è trasformata in un potenziale potere politico, poi divenuto effettivo a partire dagli inizi degli anni 90 del secolo scorso con la stagione cosiddetta di “Mani Pulite”, che ha prodotto il collasso della tradizionale classe politica di governo e l’avvento di nuove organizzazioni partitiche. Con la contestuale soppressione della prerogativa costituzionale dell’immunità penale dei parlamentari – avventata perché non sostituita da altre forme di garanzia della politica nei confronti di una magistratura politicizzata e dominata dalla corrente di sinistra -, la classe politica ha perso la sua autonomia, condizionata dalla minaccia sempre latente di iniziative penali inconsistenti, politicamente orientate, destinate a concludersi con un proscioglimento a distanza anche di decenni dopo avere stroncato carriere politiche e prodotto danni notevoli di natura personale, familiare, economica e politica. Approfittando dei poteri coercitivi ad essa assegnati dalla Costituzione e dalla libertà di associazione sindacale, la magistratura si è così trasformata in uno Stato nello Stato, assumendo di fatto la supremazia su tutti gli altri poteri. Ha un proprio organo politico-rappresentativo (l’Anm), costituito a sua volta da entità in prevalenza politicizzate (le correnti) e un proprio organo esecutivo (il Consiglio superiore della magistratura), per mezzo del quale controlla e condiziona, con le modalità descritte da Palamara, tutta la carriera dei magistrati e di riflesso la loro indipendenza e autonomia, distorcendo di fatto principi fondamentali della Costituzione. È questo il contesto in cui si collocano le affermazioni del Presidente dell’Anm, che, considerata l’assenza di qualsiasi forma di dissociazione o dissenso, appaiono rappresentative della generalità della corporazione. Esse sono espressione e rivendicazione da parte della magistratura, e per essa della cerchia ristretta di magistrati che la governa, della sua supremazia sulla società e sull’organizzazione costituzionale dello Stato. Viene addirittura sindacata la sovranità popolare e con essa i diritti dei cittadini che ne sono espressione! Al referendum vengono posti limiti inesistenti in Costituzione, perché ad esso non sarebbe consentito esprimere, sia pure implicitamente, una valutazione di «sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo» nei confronti dell’ordinamento giudiziario: impianto riformatore che tra l’altro è quello predisposto dall’ex ministro Bonafede, il cui progetto di legge, largamente condizionato nei suoi contenuti timidi e insufficienti dagli ambienti giudiziari interni ed esterni allo stesso Ministero, è il testo-base dell’esame parlamentare in corso. Quindi l’avvertimento è rivolto anche al Parlamento, nel suo raccordo con il Governo in carica, che nell’esercizio del potere legislativo non potrebbe né dovrebbe modificare quell’ “impianto riformatore”. Le affermazioni del presidente dell’Anm tendono ad attestare e rafforzare la supremazia assoluta che la magistratura ha assunto nella costituzione materiale dello Stato. Il popolo, i cittadini sovrani, non potrebbero pronunciarsi nemmeno implicitamente sul loro “gradimento” nei confronti della magistratura, perché si teme che possano «formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che [ne] danno in discesa l’apprezzamento». È questa la prerogativa essenziale del sovrano assoluto, che in quanto tale è per principio esente da qualsiasi critica. Ma rivendicarla è espressione di grande debolezza. Presuppone la consapevolezza che il consenso dell’opinione pubblica è requisito indefettibile della magistratura, come ha ripetutamente ammonito il presidente Mattarella, e manifesta il fondato timore che l’esito del referendum ne attesti l’avvenuto declino, aprendo la strada a effettivi interventi riformatori non solo di natura legislativa ma anche costituzionale. Il sovrano è nudo e cerca disperatamente di difendersi. Per questo l’Anm, quale organismo sindacale rappresentativo dei magistrati, preannunzia “una ferma reazione”, che non è espressione della libertà di manifestazione del pensiero, mai in discussione, ma esercizio della libertà di associazione, nella specie sindacale, che si dovrebbe sostanziare in un’attività volta ad impedire lo svolgimento del referendum comprimendo i diritti costituzionali dei cittadini. Sembra escludersi però che questa attività possa risolversi nella proclamazione di uno sciopero, non solo perché la sua legittimità costituzionale sarebbe molto dubbia, ma specialmente per gli ulteriori effetti pesantemente negativi che produrrebbe sull’opinione pubblica, perché contribuirebbe a delegittimare ulteriormente la magistratura. Non si comprende quindi quali dovrebbero essere le forme e modalità della “ferma reazione” preannunziata dal Presidente dell’Anm, che questi ha omesso di precisare, creando una situazione di incertezza e di preoccupazione che si fonda sui poteri coercitivi costituzionalmente spettanti alla magistratura e sui tanti casi in cui il loro uso si è dimostrato non corretto. Il silenzio con cui queste affermazioni sono state accolte dalle forze politiche sembra confermarlo. Si comprende quindi la particolare prudenza con la quale la ministra Cartabia sta seguendo la riforma dell’ordinamento giudiziario: prudenza che non è dovuta a debolezza o a interessi politici personali, estranei alla sua formazione e personalità, ma alla preoccupazione che iniziative giudiziarie inconsulte possano intralciare il cammino del Governo e della sua maggioranza, mettendo a repentaglio il raggiungimento di quegli obiettivi di riforma a cui ci siamo impegnati nei confronti dell’Unione Europea. È quindi più che opportuno che tra le tante riforme in cantiere vi sia anche quella di ricostituire le garanzie della politica, riaffermandone l’autonomia nei confronti del potere giudiziario.

Armando Mannino

I partiti s'indignano? No, hanno paura. Il presidente Anm Santalucia minaccia i partiti: “Chi appoggia i referendum la pagherà”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Giugno 2021. L’appello alla rivolta che il presidente dell’Anm ha indirizzato ai magistrati, invitandoli ad opporsi ai referendum sulla giustizia, è probabilmente l’atto di insubordinazione al potere democratico più grave, nella storia della repubblica, dopo le minacce golpiste dell’estate del 1964. Il dottor Santalucia per la verità non ha usato la parola “rivolta” ma la parola “reazione”. Ha detto testualmente: “Credo che spetti all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo”. La distinzione tra reazione e rivolta è una semplice questione di linguaggio. Di solito la sinistra usa la parola rivolta e la destra la parola reazione. Santalucia ha usato la parola che gli è venuta più semplice, ma la sostanza è quella: il rifiuto delle regole del gioco stabilite dalla Costituzione, o dalle leggi, o dal diritto, o dai principi essenziali della democrazia. Il dottor Santalucia è un giurista esperto e io no. Però leggendo l’articolo 338 del codice penale ho la netta sensazione che con la sua dichiarazione egli abbia violato quell’articolo. Ne copio qui alcuni passaggi, che mi sembrano inequivocabili. “Chiunque usa … minaccia (1) ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, ai singoli componenti o ad una rappresentanza di esso… per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni… alla stessa pena soggiace chi commette il fatto per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio o l’adozione di un qualsiasi provvedimento, anche legislativo”. È vero che questo reato, credo, è stato sin qui contemplato una sola volta: per il folle processo in corso a Palermo e soprannominato il processo sulla “trattativa Stato-mafia”. E infatti a me non viene neanche in mente di invocare contro il Presidente dell’Anm una legge bislacca (come molte altre leggi) che oltretutto confina con le leggi contro i reati di opinione, alle quali (tutte, compresa la legge Mancino) sono contrarissimo. Penso però che con le sue dichiarazioni di sabato scorso il presidente dell’Anm abbia reso chiare alcune cose.

1) Che l’Anm è una organizzazione politica, assolutamente politica, che si presenta come organizzazione politica, si comporta come organizzazione politica, ritiene che tra i suoi compiti ci sia quello di battersi contro i partiti e i gruppi politici che considera ostili, e che forse immagina anche di dovere usare i poteri dei suoi iscritti (l’inchiesta, l’arresto…) come mezzi per la propria battaglia politica e ideale.

2) Che l’Anm ritiene che ogni riforma in materia di giustizia spetti a lei e solo a lei, in nome dell’indipendenza della magistratura. E che violare questa sua prerogativa da parte dei partiti equivalga a violare la Costituzione.

3) Che l’Anm è diventata a tutti gli effetti un gruppo politico estremista, extraparlamentare, che a differenza di altri gruppi politici extraparlamentari detiene un immenso potere: il potere di controllo assoluto sullo svolgimento della giustizia.

Quel che lascia allibiti non è l’arroganza del gruppo dirigente della magistratura. Che, oltretutto, straccia l’idea dell’indipendenza del giudice, effettivamente sancita dalla Costituzione. La Costituzione parla esplicitamente ed esclusivamente di indipendenza “del giudice”, non della magistratura associata. Mentre il richiamo alle armi di Santalucia esclude l’indipendenza del singolo giudice, nel momento in cui chiede una reazione della categoria a difesa dei propri interessi. Quel che lascia davvero allibiti è l’assenza di reazioni, a parte quelle scontate dei promotori dei referendum. Non solo non si è sentita una voce di protesta da parte di gruppi di magistrati, che pure dovrebbero sentirsi imbarazzati da questo appello “para-golpista” dell’Anm, che finisce per coinvolgere tutti loro. Ma neppure da parte dei partiti. Una volta i partiti democratici insorgevano di fronte ai rischi di attacco dall’esterno alla costituzione e allo stato democratico.

Prima ricordavo il tentato golpe del ‘64: Moro e Saragat si recarono furiosi al Quirinale e avvertirono il Presidente che se non avesse stroncato la minaccia i loro partiti sarebbero scesi in piazza. Oggi, invece, silenzio. Personalmente sono sempre contrario ai provvedimenti che mettano fuorilegge delle organizzazioni politiche. Per questo sono contrario anche all’ipotesi di mettere fuorilegge l’Anm. Però non c’è dubbio che l’Anm è una organizzazione illegale e che la sua presenza mina alla radice la credibilità della magistratura e del sistema giustizia. 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

I cittadini non credono più nella magistratura. Pm imparziali? Ormai non ci crede più nessuno…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Paura del referendum. “Reagire” per paura di dare la parola ai cittadini. Proprio come un tempo si esortava a “resistere” sulla linea del Piave per paura nei confronti delle riforme di un governo non amico. La democrazia è come una scossa elettrica, a volte. Se il sindacalista dottor Giuseppe Santalucia, capo della casta togata più potente, teme che il referendum del Partito radicale e della Lega possa istigare gli elettori a impugnare la matita rossoblù e dare il voto alla magistratura, allora può rilassarsi. La smetta di difendersi “dal” processo. Eventualmente, se si sente giudicato insieme ai suoi colleghi, si difenda “nel” processo. Ma si rilassi, perché sull’amministrazione della giustizia gli italiani hanno già le idee piuttosto chiare, senza bisogno di un ulteriore referendum, dopo le decine di sondaggi da cui emerge che almeno i due terzi degli intervistati con crede nell’imparzialità dei magistrati. E la fiducia nelle toghe, persino in tanti che votano Movimento cinque stelle, è in caduta verticale. Diciamo che quello del referendum non sarà un processo indiziario, ormai sono state raccolte numerose prove. Del resto, per capire che “c’è del marcio in Danimarca”, anche senza metter mano ai sondaggi o aver letto il libro di Sallusti e Palamara, basterebbe esaminare la documentazione che nei giorni scorsi il Ministero di giustizia ha inviato al Parlamento sulle ingiuste detenzioni. E subito dopo esaminare la giurisprudenza della Commissione disciplinare del Csm, per vedere se e in che misura i magistrati vengono sanzionati per i loro, chiamiamoli così, “errori”. Prima domanda: è uno Stato di diritto quello in cui solo nel 2020 lo Stato ha dovuto pagare 37 milioni di euro per risarcire 750 casi di ingiusta detenzione, sia per le assoluzioni, ma anche per la tortura della custodia cautelare? I casi più frequenti riguardano i tribunali delle città del sud: Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro, Bari. E non è perché da quelle parti i magistrati siano più incapaci. Temiamo che il problema sia un altro. Che riguarda l’uso spesso improprio dei reati associativi, in particolare dell’aggravante mafiosa, comodo grimaldello per poter arrestare e intercettare. Ma che spesso è destinata a cadere già al primo esame del gip o del tribunale del riesame e poi della cassazione. Troppo spesso i procuratori hanno l’abitudine in certe zone d’Italia di guardare tutto con le lenti di una certa visione ideologica, quella che fa confondere fenomeni sociali con criminali, o reati “comuni” con l’attività dei boss. Del resto, a che cosa servirebbero le pompose conferenze stampa allestite dopo gli arresti, se non per comunicare di aver sgominato qualche potente cosca mafiosa che esiste solo nella mente di chi ha organizzato il blitz? Ma è impellente, a questo punto, la seconda domanda: è uno Stato di diritto quello in cui, a fronte di questa valanga di rimborsi dovuti a coloro che hanno patito il carcere ingiustamente, nessuno (o quasi) paga per gli errori fatti? E teniamo presente che stiamo parlando solo di detenzione ingiusta. Considerando che, come diceva Calamandrei, già il processo è qualcosa di violento da subire, anche senza passare per il carcere, per tutte le migliaia di cittadini trascinati in un’aula di tribunale anche quando era da subito evidente che l’imputazione era quanto meno temeraria, c’è qualcuno che paga? Qualcuno che viene processato e giudicato? Vediamo, nella stessa relazione del Ministero, i dati sulle responsabilità disciplinari dei magistrati non solo del 2020, lo stesso anno in cui dobbiamo risarcire con 37 milioni di euro i cittadini indebitamente tradotti in ceppi da chi non doveva, ma addirittura dell’ultimo triennio. Tra il 2018, il 2019 e il 2020 la giustizia deve aver funzionato in modo meraviglioso in Italia, dal momento che le azioni disciplinari promosse nei confronti delle toghe sono state in tutto 61 (57 su iniziativa del ministro guardasigilli, 4 del pg della Cassazione). Considerando che dei 61, 25 procedimenti sono ancora in corso (non tutti sono veloci come quello nei confronti di Luca Palamara), su 17 si è già stabilito di non doversi procedere, 12 sono state le assoluzioni e 4 le censure. Non c’è bisogno di una laurea in matematica, per vedere il nulla sanzionatorio da parte delle toghe del Csm nei confronti dei propri colleghi. La sentenza è: nessun colpevole, il magistrato non sbaglia mai. Neanche quando si accanisce, e ne abbiamo visti tanti. Non avevano forse ragione i padri costituenti quando avevano ipotizzato, nei primi atti, di comporre il Consiglio superiore di un numero pari di togati e di laici, attribuendo a questi ultimi, con l’aggiunta del Presidente della repubblica, la maggioranza? Una bestemmia, ovvio. Ma potrebbe pensarci la ministra Cartabia, dopo aver sostituito il capo della commissione che se ne sta occupando, ovviamente. Sarebbe una buona riforma del Csm, questa, senza tanto arzigogolare sui sistemi elettorali. Ma la vera bestemmia è il concetto di “autogoverno” della magistratura, un potere che, come ricorda (in un’intervista al Giornale) il presidente emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, la Legge delle Leggi non ha mai attribuito all’ordine giudiziario e che non va confuso con l’indipendenza. La paura di qualunque forma di cambiamento dell’ordinamento giudiziario, senza arrivare ai toni ultimativi da capopopolo del presidente del sindacato unico dei magistrati, era stata espressa, da quando era apparso all’orizzonte il referendum, anche da toghe (o ex) più autorevoli, e con toni più eleganti. Come l’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati (sul Foglio) o l’attuale presidente della corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli (su Domani), ambedue di Magistratura democratica. C’è uno dei referendum che sta loro particolarmente a cuore, quello (secondo me troppo timido) della separazione delle carriere tra il giudice e il rappresentante dell’accusa. La loro contrarietà usa argomenti apparentemente sofisticati, ma un po’ troppo furbetti e poco degni della loro autorevolezza. Il pm separato dal giudice, dicono in sintesi, diventerebbe un personaggio pericoloso, una specie di superpoliziotto che perderebbe dal suo dna la “cultura della giurisdizione”, quella che gli impone di trovare anche le prove a favore dell’imputato. Ora io sfido i due illustri magistrati, e tutti i loro colleghi ormai collaboratori fissi di quotidiani (Pignatone, Davigo, Caselli) a scrivere un bell’articolo ricco di casi in cui ciò è accaduto e in cui il pm si è speso per portare in giudizio le prove in favore dell’imputato. Io ne ricordo solo uno, un caso piuttosto clamoroso quanto assurdo capitato a Milano, su cui conviene stendere un velo pietoso perché sembrava più che altro un caso di sintonia politica tra accusato e accusatore. Credo che i milanesi Bruti e Castelli non lo ignorino. Del resto, cari magistrati, per stare sulla cronaca, vogliamo parlare del processo Eni dopo che due pubblici ministeri, quelli con la cultura della giurisdizione, sono indagati per averle nascoste, le famose prove che avrebbero potuto scagionare gli imputati? O preferiamo sbirciare dal buco della serratura e ricordare le registrazioni del trojan sul telefono di Palamara in cui si diceva per esempio che Salvini aveva ragione ma che bisognava attaccarlo? Cultura della giurisdizione le conferenze stampa dopo i blitz o la convocazione del premier Berlusconi a mezzo stampa mentre presiedeva un convegno internazionale sulla criminalità? Convocazione tanto urgente per un reato da cui sarà assolto? Cultura delle giurisdizione –per restare su fatti più recenti- indagare il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, nome forte per la conferenza stampa, per associazione mafiosa per aver partecipato a un pranzo di cui non c’è neanche uno straccio di intercettazione a supportare l’ipotesi accusatoria? E che poi viene stralciato, quando le luci delle telecamere sono ormai spente, dalla stessa Procura? Tutto questo si chiama potere, e non c’entra niente con la cultura della giurisdizione e neanche con il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che è una finzione e lo sanno i magistrati per primi. Luca Palamara ha spiegato che lui e i suoi colleghi brigavano per le carriere. Quel che c’è da chiedersi è se lo spintonarsi l’un l’altro per occupare i posti di vertice, soprattutto delle Procure, fosse solo un fatto di ambizione professionale o se non fosse qualcosa di peggio, di molto più grave, finalizzato al controllo dell’intera società, a partire da quella politica, attraverso l’uso della giurisdizione. L’uso politico della giustizia. Per questo il referendum fa paura. Perché il suo esito, come lo fu quello successivo all’arresto di Enzo Tortora, comporta davvero un giudizio dei cittadini sulla magistratura. Per questo il suo sindacato vuole “reagire”. Vuole difendersi “dal” processo, invece che “nel” processo. Come spesso le toghe hanno rimproverato ai politici.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Carlo Nordio contro la magistratura: "Le minacce sul referendum Lega-radicali? Pericolose, il punto più basso nella storia delle toghe". Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. "Siamo al punto più basso nella storia della magistratura". Carlo Nordio non usa mezzi termini per descrivere l'opposizione del presidente dell'Associazione nazionale dei magistrati ai referendum radical-leghisti. "Quello di Giuseppe Santalucia, quel quasi minacciare una ferma reazione davanti all'iniziativa referendaria, mi pare un'affermazione impropria, ambigua e pericolosa", tuona sulle colonne del Giornale. Per Nordio uno dei più noti pm italiani non può attaccare un altro potere. Il pericolo infatti è dietro l'angolo: "Chi ha letto il libro di Luca Palamara può legittimamente coltivare sospetti e scoprire singolari coincidenze nello sviluppo di certe indagini". Ed è proprio sul caso Palamara che il Consiglio superiore della magistratura ha commesso uno dei tanti scandali, "pensando bene di espellerlo dalla magistratura e di metterci una pietra sopra". Evitando, dunque, "di interrogarsi seriamente e di fare autocritica". Niente di più di "una manifestazione di arroganza e anche una contraddizione in termini", la definisce l'ex pm facendo notare come "l'Anm ha ipotizzato una ferma reazione davanti all'idea di dare voce al popolo con i referendum". Salvo poi mettersi di traverso all'idea di costituire in Parlamento una Commissione d'inchiesta che si occupi degli scandali delle toghe. E la conclusione non può che essere una: il Csm "non vuole interferenze del Parlamento, ma non vuole nemmeno lasciar esprimere il popolo". L'unico a poterci mettere mano sarebbe stato Sergio Mattarella che comunque, nonostante lo presieda, non avrebbe potuto far dimettere il Csm delegittimato: "Capisco la sua prudenza se pensiamo a Cossiga. Cossiga si scontrò con le toghe e fu delegittimato e infangato per la vicenda Gladio". Avanti così con i referendum - è l'appello di Nordio - d'altronde "sono sacrosanti. E semmai sono uno stimolo al Parlamento che è paralizzato". Lo dovrebbe imparare anche l'Anm che invece "sbaglia nel contrapporre il Parlamento al popolo.. È un grave errore di valutazione, ma anche uno sconfinamento non gradito". 

La tangentopoli della magistratura e la vendetta sbagliata della politica. Toghe in crisi di credibilità e sale la sfiducia dei cittadini ma la riforma va fatta senza pensare a Mani Pulite. Carlo Fusi il 22 giugno 2021 su Il Quotidiano del Sud. Nel Palazzo e nelle piazze spira un venticello che, come sussurrato nel Barbiere di Siviglia, “insensibile, sottile, piano piano va ronzando nelle orecchie della gente, e le teste ed i cervelli fa stordire, e fa gonfiar”. Non si tratta della calunnia cantata da Giacchino Rossini bensì della voglia di una Tangentopoli bis col segno rovesciato, che dalla politica colpisca i giudici. Fu un devastante errore allora, lo sarebbe anche oggi. Ma ciò non toglie che i magistrati possano immaginare di sottrarsi “reagendo fermamente” al giudizio popolare di referendum legittimamente e costituzionalmente promossi e svolti. All’inizio degli anni ‘90, i partiti storici, figli delle ideologie e degli equilibri politici del Dopoguerra, furono spazzati via non da una autoriforma politica bensì da un ciclone giudiziario. I partiti avevano perso la loro capacità di indirizzo e il discredito popolare, anche alla luce di fenomeni corruttivi, li aveva sommersi. Caddero come alberi rosi all’interno dalle termiti e anche il Pds che pensava di trarne vantaggio alla fine ne fu travolto sotto il profilo politico. Oggi, come dicevamo, il vento è cambiato e soffia all’opposto. L’infinita guerra fra correnti, il verminaio di interessi e intrecci personali fatto emergere dal caso Palamara, la lunghezza biblica dei processi e lo strapotere dei Pm con risultanze spesso sconcertanti nei processi: tutto concorre ad una perdita di prestigio e di credibilità delle toghe e mina uno dei pilastri del sistema democratico. Per avere una dimensione concreta della situazione basta ascoltare le parole della Guardasigilli Marta Cartabia laddove richiamandosi alla tragica morte del giudice Livatino ha confermato con parole inequivocabili la crisi che sta attraversando il mondo giudiziario: “Una crisi di credibilità e, ai miei occhi più grave, di fiducia dei cittadini. Bisogna fare di tutto affinché il giudice torni ad avere quella statura che la Costituzione gli chiede nel momento del giuramento”. Di cosa sia fato questo “tutto” è sempre Cartabia a precisarlo: “Cambieremo ciò che si deve cambiare sulle sanzioni disciplinari, sui sistemi elettorali, sulle progressioni di carriera”. Dunque sulle toghe s’abbatte lo stesso tifone che sradicò i partiti politici della Prima repubblica e il richiamo alla fiducia persa dei cittadini ha rintocchi cupi. Chi ricorda l’inchiesta Mani Pulite può avvertire lo stesso sapore di cenere. Allora ci furono tanti che alimentarono il tifone distruttivo battendo la grancassa della palingenesi possibile e necessaria del Paese attraverso la magistratura, lasciando intendere che la politica cattiva sarebbe stata divelta dalla giustizia buona, con un impeto di supplenza che avrebbe rigenerato il sistema. Era un gigantesco e strumentale abbaglio. Lo sarebbe anche adesso se si alimentasse sempre strumentalmente un sentimento di rivalsa mosso da una impropria voglia di voler pareggiare i conti. Allora come adesso, l’autoriforma è un abbaglio. Valse allora per i partiti, vale oggi per le toghe. Ma adesso c’è l’occasione del Recovery che può essere decisiva. La Ue reclama una riforma complessiva della giustizia cui proprio il ministro Cartabia sta lavorando tra difficoltà, ostacoli, freni, intoppi. E, soprattutto, totem ideologici: vedi alla voce prescrizione. Tuttavia la riforma, complessiva e articolata su più versanti, si dimostra tanto necessaria quanto inevitabile. È giusto e indiscutibile che questo compito tocchi al Parlamento, pur se provoca un certo stordimento il fatto che alcuni di coloro che adesso invocano il suo intervento sono gli stessi, dentro e fuori le aule, che in più fasi hanno moraleggiato sulle Camere piene di inquisiti, sull’inadeguatezza dei loro componenti e perfino sulla loro funzione: nient’altro che “scatolette di tonno” da aprire e magari gettare nell’indifferenziata a favore di meccanismi e sistemi democrazia diretta. Ma il sacrosanto lavoro parlamentare non può diventare impedimento per la raccolta di firme referendarie. Se partiti, associazioni, singoli cittadini intendono avvalersi di questo strumento non c’è ragione per bloccarli. È giusto, come detto, allontanare eventuali intimidazioni e tentazioni di rivalsa: naturalmente sempre che esistano. Riforme e miglioramenti sono lo scudo migliore contro ogni “venticello” che minaccia di creare mulinelli di danni e devastazioni. Ma se il Parlamento diventa preda di inerzie e impedimenti – e sulla giustizia i ritardi sono ormai così conclamati da risultare inaccettabili – allora il ricorso all’arma referendaria come pungolo e stimolo è una mossa legittima, che può perfino diventare necessitata. Sotto questo profilo, la reazione dell’Associazione nazionale magistrati, con l’annuncio di reazioni “ferme” è sconfortante. Le giustizie “domestiche” sono sempre in odore di sospetto. Se i magistrati, interpretando al meglio il loro ruolo e i loro compiti, vogliono espungere la mala pianta del correntismo e del carrierismo, lavorino fianco a fianco del Guardasigilli e delle forze rappresentate in Parlamento per definire un impianto riformista all’altezza dei problemi. Senza timori verso iniziative di consultazione popolare che per prima cosa riguardano temi che la riforma non tocca e che poi possono essere superate con provvedimenti ad hoc. In un sistema democratico la sovranità appartiene al popolo. Chi intende usarla per azioni di rivalsa, la snatura. Chi usa il proprio usbergo per sottrarsene, la nega. All’interno di questi paletti, c’è il libero confronto, il dialogo costruttivo e la virtuosa competizione per trovare le soluzioni più conformi ai bisogni dei cittadini. C’è un bivio riformista da affrontare e voltarsi dall’altra parte non si può.

MA PER CASO IL CSM HA ANCORA CREDIBILITA’? Fabrizio Cicchitto su Il Corriere del Giorno il 21 Giugno 2021. La magistratura è l’unica categoria che giudica anche se stessa e che da sempre è portata ad autoassolversi a meno che nel mirino non ci sia un magistrato disarmato in contrasto con un altro molto potente. L’Anm non si sta rendendo conto che la corda si è spezzata, che dopo la presa del potere politico da parte della magistratura fin dal 92-94 essa adesso è implosa sia per le contraddizioni interne sia per gli incredibili errori commessi. L’attuale Csm non ha alcuna credibilità. E doveva essere sciolto da quando è esploso il caso Palamara, che non è, per usare una celebre frase di Togliatti “un pidocchio annidato nella criniera del nobile destriero”, ma è un esponente del Sistema. Se l’Anm pensa di risolvere il problema espellendo Palamara e chiamando alle armi i 9000 magistrati contro i referendum (questo è il senso del suo proclama sulla “ferma reazione”) dimostra che non ha capito nulla. Non è che le cose sono cominciate da oggi, ma esse risalgono molto indietro nel tempo, per esprimere una data, diciamo dal caso Tortora, quando una categoria, dotata non della pura e semplice autonomia, ma da enormi poteri, in primis quello di poter privare le persone della libertà individuale, e in secondo luogo (anche grazie ai suoi organici rapporti con i media, in primis i cronisti giudiziari e i gestori dei talk show) può realizzare nei confronti di chi fa politica quello che il procuratore Borrelli ha chiamato la sentenza anticipata (se fai politica sono decisivi il prestigio ed il consenso: se ti arriva un avviso di garanzia sparato sui giornali e nelle televisioni la sentenza è già fatta; poi è anche possibile che 7 anni dopo tu sia assolto, ma a quel punto il danno è fatto) non sottopone se stessa a nessun vaglio critico e autocritico è evidente che l’autoreferenzialità arriva al massimo. Adesso poi dopo che si è verificato che l’identificazione di Roma con la mafia era basata su una forzatura e dopo i casi Palamara, Amara, loggia Hungaria e le vicende riguardanti la procura di Milano (Storari, Eni, etc) la situazione è diventata addirittura imbarazzante. La magistratura è l’unica categoria che giudica anche se stessa e che da sempre è portata ad autoassolversi a meno che nel mirino (il caso Lupacchini) non ci sia un magistrato disarmato in contrasto con un altro molto potente. A questo aggiungiamo un altro dato: non è affatto vero che l’inconveniente principale della carriera unica è costituito dalla consuetudine nei rapporti personali e nelle frequentazioni. In ballo c’è’ ben altro che il caffè preso insieme al bar, ma il “sistema” di potere. Tutto il “Sistema” è nelle mani delle correnti, le correnti sono nelle mani di pubblici ministeri, il CSM è dominato dai pubblici ministeri che da un lato hanno la connessione con i cronisti giudiziari ai quali forniscono notizie in anteprima (non c’è più l’obbligatorietà della azione penale di fronte alla violazione del segreto istruttorio) e dall’altra sono decisivi per la carriera dei magistrati giudicanti. Allora, se l’ANM non si è resa conto che la corda si è spezzata e che è finita la sacralità della categoria perché sono stati proprio alcuni dei suoi esponenti più dotati di potere a profanare la Chiesa, allora vuol dire proprio che non ha capito nulla. Si dice: “bisogna difendersi nel processo e non dal processo”. Certo, ma come ci si difende nel processo se alcuni materiali probatori non vengono travasati in esso dai pubblici ministeri? E’ come se a suo tempo Benvenuti (cioè la difesa) avesse dovuto affrontare Griffith (cioè l’accusa) con una mano legata dietro la schiena.

Marta Cartabia, l'attacco durissimo alla magistratura: "La riforma della giustizia? So che tutto ciò che verrà fatto non basterà". Libero Quotidiano il 20 giugno 2021. E'un attacco durissimo alla magistratura quello della ministra Marta Cartabia durante un colloquio organizzato da Taobuk per discutere dei tempi relativi alla possibilità di una "giustizia riparativa", così come avviene già in altri Paesi. "Tanto stiamo facendo su mille fronti, diversi cantieri delle riforme che sono enormi per vastità di materie. Tratteremo l'ordinamento giudiziario, il consiglio superiore della magistratura, cambieremo tutto ciò che si deve cambiare sulle sanzioni disciplinari, sistemi elettorali, progressioni di carriera", spiega la guardasigilli, "ma siamo consapevoli che tutto ciò che verrà fatto non basterà. Perché c'è bisogno di qualcosa che va oltre la cornice normativa di come si svolge la funzione giurisdizionale". E ancora, ha detto la Cartabia: "Mi colpisce che proprio in questo momento di crisi e credibilità e fiducia nella magistratura si cerchino degli esempi, questo celebrare Livatino è un desiderio di alzare lo sguardo e di identificarsi in qualcosa di nobile e alto. Ritengo che un aiuto enorme in questo complesso lavoro di ricostruzione della giustizia debba passare anche dal portare in evidenza i tanti 'Livatino, i tanti giudici magari non eroici come lui, i tanti giudici che in Italia svolgono una funzione nascosta in modo dedito disciplina ed onore e vengono travolti dai fatti più clamorosi che troppo spesso dobbiamo guardare. Un aiuto da parte dei mezzi di comunicazione nel far emergere questi esempi può aiutare". Parole alle quali sono seguite quelle di Matteo Salvini: "Ha ragione il ministro Cartabia, che parla di magistratura in crisi di credibilità e di fiducia", ha commentato il leader della Lega in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "La risposta possono darla governo e parlamento con le riforme, e i cittadini con i referendum sulla giustizia".

La condotta discutibile di alcuni Pm, Gip e Gup. Magistratura, lo squallore del sistema: chi sono i non controllori. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 20 Giugno 2021. La legittimazione della magistratura, che nel nostro ordinamento democratico si basa sul consenso e sulla credibilità del corpo giudiziario presso l’opinione pubblica, sta attraversando un periodo molto difficile. Mi limito qui a richiamare quanto è emerso dalla sciagurata vicenda Palamara, che ha svelato in tutto il suo squallore un sistema che ha messo nelle mani delle correnti tutto ciò che riguarda lo stato giuridico dei magistrati. Assegnazione della sede, trasferimenti, promozioni, incarichi direttivi, applicazioni presso istituzioni e uffici esterni alla magistratura sono stati lottizzati sulla base di una logica spartitoria a seconda dell’appartenenza alle varie correnti, attraverso un sistema di raccomandazioni e di scambi di favori a cui hanno dovuto sottomettersi molti, troppi magistrati per perseguire le loro legittime aspettative di carriera. Di questa brutta storia, documentata nel libro-intervista rilasciata da Palamara a Alessandro Sallusti, si è già molto parlato. Oggi intendo occuparmi, senza entrare nei particolari dei singoli casi, di come sia stato possibile che alcuni organi giudiziari monocratici, quali sono i pubblici ministeri e i giudici per le indagini preliminari, abbiano impunemente svolto in modo improprio le loro funzioni, senza alcun intervento dei titolari degli organi di supremazia e di controllo. Mi riferisco, evidentemente, ai capi dei rispettivi uffici, al Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), al ministro della Giustizia. Nel corso delle vicende che hanno turbato il normale funzionamento della giustizia abbiamo registrato dei grandi assenti, a seconda dei casi i procuratori della Repubblica presso i tribunali e i procuratori generali presso le Corti di appello, i presidenti dei tribunali e delle Corti di appello. Salvo il caso della tragedia della funivia del Mottarone, in cui è stata la stessa procuratrice della Repubblica di Verbania a esser messa in discussione, nelle altre vicende non mi risulta che siano intervenuti i capi degli uffici. E proprio di loro vorrei occuparmi. L’organizzazione delle attività svolte dai giudici dei tribunali non spetta, come nel passato, ai capi dei rispettivi uffici, che decidevano discrezionalmente come distribuire le funzioni e i casi ai singoli magistrati, ma è sorretta dal principio costituzionale del “giudice naturale precostituito per legge”. In base a questo fondamentale principio, posto a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice, i magistrati sono assegnati alle diverse funzioni secondo il cosiddetto sistema tabellare. Il capo dell’ufficio predispone ogni tre anni piani organizzativi circa la distribuzione delle funzioni e del lavoro tra i giudici, che vengono sottoposti alla valutazione degli stessi magistrati e del consiglio giudiziario del distretto di corte di appello prima di essere inviati per l’approvazione del Csm. Si formano così le “tabelle” che stabiliscono secondo criteri obiettivi e predeterminati le funzioni e i casi di cui sarà titolare ciascun giudice, che diviene così il “giudice naturale precostituito per legge”, che non può essere sostituito se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Al riguardo, è presumibile che la giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verbania sia stata legittimamente sostituita perché secondo le “tabelle” il disastro della funivia spettava alla collega che era il giudice naturale precostituito per legge, mentre la giudice che aveva preso in esame la convalida dei fermi era intervenuta essendo quel giorno di turno per gli affari urgenti. Del tutto intempestivo è stato quindi l’intervento dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che ha denunciato la gravissima violazione del principio del giudice naturale, senza verificare quali fossero secondo le tabelle i rapporti tra i due giudici del Tribunale di Verbania. Meno rigide sono invece le tabelle relative agli uffici del pubblico ministero: il procuratore della Repubblica può infatti revocare, con provvedimento motivato e ricorribile al Csm, la delega per i casi che erano stati discrezionalmente assegnati ai singoli sostituti procuratori. Da questo quadro emerge la grande importanza che assume il ruolo del capo dell’ufficio, sia esso il presidente del tribunale o il procuratore della Repubblica, ai fini del buon funzionamento della giustizia in casi di particolare gravità e complessità quale è appunto la tragedia della funivia del Mottarone. Il giudice “naturale precostituito per legge” a cui secondo le tabelle è assegnata la pratica dovrebbe essere opportunamente affiancato dal presidente del tribunale o da altro magistrato da lui designato; nel caso della funivia del Mottarone par di capire che titolare dell’inchiesta fosse la stessa presidente del piccolo Tribunale di Verbania e forse allora sarebbe spettato al presidente della Corte di Appello di Torino affiancarle a titolo di sostegno altro magistrato temporaneamente applicato da altra sede. Più semplice invece, come abbiamo già visto, la situazione degli uffici della Procura, ove non vige il principio del pubblico ministero naturale precostituito per legge. Qui il procuratore della Repubblica può discrezionalmente assegnare la pratica al sostituto procuratore che ritiene essere più adatto per quel determinato caso, ma anche in tale contesto nei procedimenti di particolare gravità il capo dell’ufficio dovrebbe sempre affiancare in prima persona il sostituto procuratore, fermo restando il suo potere di delegare altro o altri sostituti e di revocare quello già nominato. Vi sono dunque tutte le premesse perché le indagini sulla tragedia del Mottarone, particolarmente difficili e complesse sia per l’accertamento delle cause tecniche del disastro, sia per l’individuazione degli imputati cui attribuire la responsabilità a titolo di colpa, procedano sollecitamente, rispondendo al prepotente bisogno di giustizia dei parenti delle vittime e di sicurezza dell’opinione pubblica. Guido Neppi Modona 

Eni, Ilva, Tempa rossa: i disastri della giustizia costano miliardi. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 19 giugno 2021. In questi giorni si è parlato di una Caporetto per la madre di tutte le procure che negli ultimi decenni si sono qualificate – con grande sostegno massmediatico – come le benemerite guardiane dell’etica pubblica. Infatti, la procura di Brescia, competente per territorio, sta indagando due pubblici ministeri di Milano, Fabio De Pascale e Sergio Spadaro, coinvolti nel processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria.  

LA PREMEDITAZIONE. Secondo l’ipotesi investigativa, i due magistrati inquirenti avrebbero nascosto informazioni e prove favorevoli alla difesa dell’Eni. Un’operazione che non sarebbe neppure riuscita nell’intento, visto che tutti gli imputati sono stati assolti in giudizio «perché il fatto non sussiste».  La manipolazione delle prove, ove venisse accertata, (siamo garantisti anche con i pm), sarebbe di una gravità eccezionale in sé. Ma lo sarebbe ancora di più per il danno provocato all’economia nazionale e alle relazioni internazionali dell’Italia. Lungi da noi l’idea che il management delle multinazionali (la responsabilità penale è personale) non possa essere indagato.  Esiste, però,  una premeditazione nel costruire un procedimento senza prove solide (nel caso Eni-Nigeria si è arrivati al punto di attribuire alle parole un significato diverso da quello che risultava dalle verbalizzazioni); poi, quando ci si accorge che i principali testimoni d’accusa, Vincenzo Armanna e Piero Amara, sono persone non affidabili, si mettono a bagnomaria le indagini di un altro pm, Paolo Storari, il quale,  ritenendo che i vertici della Procura di Milano, suo ufficio, stessero insabbiando le indagini sulle rivelazioni di Amara relative alla loggia massonica coperta, denominata Ungheria, per autotutelarsi si è rivolto a Piercamillo Davigo, consegnandogli gli atti, che il Sommo Inquisitore ha  tenuto per sé (salvo, come ha confermato il presidente Nicola Morra, mostrarglieli nel ballatoio delle scale di Palazzo dei Marescialli) fino a quando non arrivarono ai quotidiani (trasmissione per la quale è indagata l’ex segretaria di Davigo al Csm). Peraltro non è la prima volta che l’Eni viene coinvolto in un intrigo di corruzione internazionale, sulla base del presupposto che le somme erogate ai mediatori in realtà sono tangenti.  Ovviamente anche in quel caso il fatto si rivelò insussistente. Forse sarebbe l’ora di chiedersi come si possono combinare affari in certi Paesi e magari ricordare come Enrico Mattei, partendo da un piccolo appezzamento di terreno dove il regime fascista cercava in via sperimentale il gas in una logica di autarchia, costruì una multinazionale dell’energia tra le prime al mondo. Si diceva a quel tempo che Mattei non esitasse a fornire armi al Fln algerino in lotta per l’indipendenza. Ed è a questo punto che ci permettiamo un volo pindarico sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su cui la procura di Palermo continua a essere molto attenta. Mi sono sempre chiesto a cosa servirebbe un servizio segreto se non per gestire operazioni che per definizione e necessità non possono essere conclamate e trasparenti e spesso sono costrette a viaggiare borderline rispetto alle stesse norme di legge. Quando Joe Biden ha assegnato 90 giorni alle agenzie di intelligence Usa per trovare elementi probanti delle origini “cinesi’’ del virus maledetto, pensiamo che la giustizia a stelle e a strisce troverebbe da ridire se la Cia distribuisse qualche mazzetta nell’Impero già celeste e ora rosso?

IL CASO TEMPA ROSSA. E come la mettiamo da noi con il caso “Tempa rossa’’? Se si considerano i dati tecnici, la Basilicata naviga su di un mare di idrocarburi. A regime, l’impianto – tra i più evoluti nel settore petrolifero – avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50mila barili di petrolio, 230mila metri cubi di gas naturale, 240 tonnellate di Gpl e 80 tonnellate di zolfo. Eppure – in questo caso il “saracino della giostra’’ era la Total – la procura di Potenza si è data molto da fare, peraltro con una lentezza che ha fatto scattare per quasi tutti gli imputati la prescrizione, per cui di questa vicenda rimane soltanto la campagna negativa del pregiudizio: sviluppo=corruzione.  

Qualche cineamatore potrebbe andarsi a rivedere il film “I Basilischi’’ che Lina Wertmuller girò nel 1963 dedicandolo ai giovani di allora, residenti in Lucania. Ma la vicenda più eclatante fu quella degli elicotteri venduti all’India. Dopo la solita trafila giudiziaria furono assolti per insufficienza di prove, l’ex-direttore di Agusta Westland, Bruno Spagnolini, e l’ex-amministratore delegato Giuseppe Orsi per le presunte tangenti al maresciallo dell’aeronautica indiano Sashi Tyagi in cambio di una modifica alla gara d’appalto per la fornitura di 12 elicotteri Vip per il trasporto dei membri del governo del valore di 556 milioni di euro. Ovviamente lo scandalo ebbe un risalto internazionale e il governo indiano annullò la commessa.  

LA VICENDA ILVA. Poi troneggia il caso ex Ilva. Qualcuno si è preso la briga di definire “storica’’ la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Taranto che ha comminato condanne “esemplari’’ a tutti gli imputati. Quando nel 1995 la famiglia Riva venne invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento allora pubblico perdeva 4 miliardi l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 ha effettuato investimenti per 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 per misure di carattere ambientale. Queste operazioni sono ribadite in una sentenza del 2019 del Tribunale di Milano, confermata in appello, nel procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta. Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi all’epoca vigenti.  Il pm ha detto esplicitamente che la questione era irrilevante: «Ma come facciamo a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?». Sono proprio le condanne inflitte all’ex governatore della Puglia e al professor Giorgio Assennato, ex direttore dell’Agenzia regionale dell’ambiente, a rendere palese l’arbitrio che ha sorretto le indagini e la sentenza della Corte. Nichi Vendola, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, avrebbe concusso in modo implicito Assennato perché moderasse la valutazione d’impatto ambientale dello stabilimento; ma anche il direttore è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento perché ha negato di aver ricevuto minacce da Vendola. Come ha scritto Anna Digiorgio in un’accurata ricostruzione del caso ex Ilva, su Il Foglio, è la logica del profitto che per l’accusa è divenuta «allo stesso tempo, reo, movente, arma del delitto e reato». Ma la verità di questi nove anni di calvario, di “caccia allo stabilimento”, la magistratura tarantina (che peraltro ha qualche problema con la giustizia per le incaute frequentazioni con l’avvocato Amara, colui che fu arruolato a Milano per sostenere le accuse all’Eni) non si è limitata a esigere misure di risanamento più importanti e in tempi più rapidi. No. Ha impedito che si procedesse in questa direzione e si trovassero soluzioni; è intervenuta senza scrupoli per far saltare ogni programma di risanamento. C’è stato persino un momento in cui ad Arcelor Mittal venne ordinato da due tribunali diversi di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti. Ora, dopo il commissariamento/esproprio del 2012, siamo arrivati alla confisca degli impianti in attesa del giudizio del Consiglio di Stato. Pare però che il governo non intenda consentire lo smantellamento dell’Acciaieria d’Italia, come si chiama adesso, proprio nel momento in cui il sistema produttivo ha bisogno   di acciaio per risollevare la testa dopo la crisi.

«Sì all’abrogazione della Severino: esiste solo per ragioni di demagogia politica». Intervista all'ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio: Il referendum è una buona occasione «per dare uno scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia». Simona Musco su Il Dubbio il 21 giugno 2021. Il referendum è una buona occasione «per dare uno scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia». E l’abrogazione della legge Severino non solo è giusta, ma anche necessaria per far ripartire il Paese. A dirlo è Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia.

Radicali e Lega propongono l’abrogazione della legge Severino. È d’accordo?

Sostengo da sempre l’abrogazione di questa legge, che è nata male, in quanto è stata applicata subito nei confronti di Berlusconi in modo retroattivo. E da lì si è vista l’anomalia di questa legge, perché aveva colpito una persona per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore della legge stessa. Alle critiche come la mia, si rispose che la sanzione della decadenza dall’incarico pubblico non era una sanzione penale, che come tale sarebbe stata ovviamente irretroattiva, ma e amministrativa. Al che io risposi, e non fui il solo, che si trattava di una risposta ignorante, perché anche le sanzioni amministrative sono irretroattive, come previsto dalla legge del 1989 e anche dal 231 sulle sanzioni amministrative degli enti. Al che si disse che si trattava di una sorta di condizione di permanenza in una carica pubblica e che quindi, non essendo sanzionatoria, poteva essere retroattiva. Ma il punto è che si tratta pur sempre di una norma afflittiva e tutte le norme afflittive seguono il principio dell’irretroattività.

Cosa dimostra questo?

Che questa legge non è stata fatta dopo una opportuna valutazione tecnica, ma per ragioni di demagogia politica. Ed è nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione. In secondo luogo confligge con la Costituzione, che stabilisce la presunzione di innocenza, dato che è applicabile anche alle sentenze che non sono passate in giudicato. Ma secondo me è anche inopportuna perché ha un effetto deterrente nei confronti di chiunque ambisca a cariche pubbliche. E qui mi aggancio ad un’altra proposta -che non è nel referendum ma io spero che questo o il prossimo governo attui – che è in questo momento invocata dai sindaci, ovvero l’abolizione di reati come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, che sono alla base della cosiddetta amministrazione difensiva. È tutto un complesso di norme che secondo me va eliminato, per ridare fiato alla pubblica amministrazione e, quindi, per un’utilità concreta, in vista anche di una ripresa economica del Paese.

È la famosa “paura della firma”.

Esatto e provoca la paralisi o il rallentamento della pubblica amministrazione per la paura che un domani si possa essere denunciati. I sindaci chiedono da anni questa revisione e se non avviene la pubblica amministrazione non riparte. E se non riparte la pubblica amministrazione non riparte nemmeno l’economia. C’è un discorso concreto e urgente da fare, in vista anche dei soldi che l’Europa dovrà darci con il Recovery Fund.

Il referendum, secondo lei, è una buona occasione o ha ragione chi dice che in questo modo il Parlamento viene esautorato?

Sulla formulazione tecnica dei quesiti ho qualche dubbio, ad esempio sulla responsabilità civile dei magistrati, ma questi dubbi spariscono o sono superati da un fatto molto più strategico: questo referendum è l’unica occasione per dare un forte scossone al sistema giudiziario italiano che è incancrenito e che questo Parlamento non riuscirà mai a cambiare. Non è un sovrapporsi al Parlamento, è fare ciò di cui il Paese ha bisogno e che il Parlamento non è in grado di fare, perché sulla giustizia penale è dannatamente diviso e, anzi, è dominato da una corrente che potremmo dire “giacobina”, giustizialista. Una maggioranza che probabilmente col prossimo Parlamento cambierà, ma che con questo non è assolutamente in grado e non ha nemmeno intenzione di fare quelle riforme fondamentali, con la revisione totale del nostro sistema, soprattutto penale. E poiché questo governo, anche giustamente, ha delle altre priorità, come la sanità e l’economia, l’urgenza della riforma della giustizia è messa da parte.

Quindi manca la volontà politica?

Si vede perfettamente che questo Parlamento, al di là delle priorità, le riforme sulla giustizia non le vuole fare, perché si è già diviso su tutte le questioni più importanti. E poiché le riforme sono indispensabili, ma non sono certo quelle proposte da Cartabia, che ha le mani legate dall’esistenza di un Parlamento che non glielo farebbe mai fare, il referendum è l’unica, vera, grande occasione per dare un forte scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia italiana, che va rifatta da capo a fondo. Altra cosa è avere dei dubbi, ed io li ho, sulla perfezione tecnica di alcuni quesiti e se devo dirla tutta anche sull’opportunità della responsabilità civile dei magistrati. Perché è inutile colpire un magistrato incapace sul portafoglio, dal momento che è assicurato, va colpito sulla carriera o addirittura sul mantenimento del posto che occupa. Un magistrato che non sa fare il magistrato va cacciato via dalla magistratura.

"Niente giudizi", "Parole gravissime": scontro Salvini-Anm. Federico Garau il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Il referendum sulla giustizia agita le toghe. Il presidente dell'Anm Santalucia: "Fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura". Salvini: "Parole gravissime". Caso Palamara, intercettazioni, inchieste, sino ad arrivare al più scottante caso Amara ed alla presunta loggia "Ungheria": grande imbarazzo per la magistratura e l'Anm, oramai finite al centro di una vera e propria bufera che sembra non volersi in alcun modo placare. Adesso ad impensierire le toghe è la proposta di referendum sulla giustizia avanzata dalla Lega e dal Partito Radicale, che hanno già depositato i sei quesiti in Cassazione. Il prossimo 2 luglio partirà la raccolta firme per portare i cittadini ad esprimersi sull'elezione del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere dei magistrati, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino. Un fatto che preoccupa l'Associazione nazionale magistrati, che vede nei quesiti referendari una sorta di richiesta di valutazione sul mondo della giustizia da proporre ai cittadini. "Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura", ha dichiarato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia durante il suo discorso di apertura del direttivo del sindacato delle toghe, "quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura". "Credo che spetti all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo", ha poi aggiunto Santalucia, come riportato da Agi. "Prima ancora dei contenuti, c’è una questione di cornice entro cui collocare l’azione riformatrice, e, come recita il nostro Statuto, è compito dell’Anm 'dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali'". Santalucia ha quindi ribadito la necessità di opporre una "ferma reazione". Il cambiamento, ha dichiarato il presidente dell'Anm, non deve dipendere soltanto dalle singole riforme, che a poco servirebbero per recuperare la fiducia degli italiani. Molto dipende dai singoli individui che fanno parte della magistratura. "Non occorrono, su questo versante, grandi opere", ha detto in conclusione Giuseppe Santalucia. "Quel di cui si avverte il bisogno è la riaffermazione nel quotidiano del modello di magistrato che leggi e codice etico tratteggiano. Noi ne siamo i soli possibili interpreti". "Non ci sfugge la forza deformante di un cattivo approccio con i mezzi di comunicazione, stampa e tv. La sobrietà ragionata ed informata, nei casi in cui è necessario parlare, serve a consolidare una percezione di affidabilità non solo dei singoli ma dell'intera magistratura", ha quindi affermato Santalucia, specificando come"recenti e meno recenti episodi di cronaca hanno segnato la direzione contraria: occorre dunque tenere alta l'attenzione sull'importanza della cautela e della compostezza comunicativa, specie in questi tempi in cui ogni errore rischia di essere amplificato e reso funzionale ad un canovaccio guidato dall'idea di fondo di una magistratura in irrimediabile crisi". "Il programma referendario può divenire lo strumento formidabile per mettere in ombra una modalità di approccio, fatta di impegno nel distinguere, nel selezionare il tipo e la struttura degli interventi di riforma, per saggiarne il rapporto di compatibilità costituzionale e non cancellare, in nome dell'idea che il sistema non sia redimibile, un assetto di regole costruito intorno ad alcuni principi che non dovrebbero mutare", ha concluso.

Il commento di Salvini. Le affermazioni di Giuseppe Santalucia hanno naturalmente provocato la forte reazione del leader della Lega, uno dei principali promotori del referendum. "Il presidente dell’Anm attacca i referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito Radicale e annuncia una "ferma reazione"? Parole gravissime", ha dichiarato il segretario del Carroccio, come riportato da Agi. "Non si può aver paura dei referendum, massima espressione di democrazia e libertà, e di confrontarsi con il giudizio e la volontà popolare", ha aggiunto.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Anm, Bruti Liberati: "Mettere il bavaglio ai magistrati è una preoccupante lesione dei principi costituzionali”. Liana Milella su La Repubblica il 20 giugno 2021. L'ex procuratore di Milano ed ex presidente dell'Anm di Salvini dice: "È spesso in conflitto con i principi acquisiti in Europa". Il referendum sulla separazione delle carriere? "Solo propaganda, la Consulta lo boccerà". "Insensato" il quesito sulla custodia cautelare. La responsabilità civile? "Renderà il giudice più timoroso di fronte ai casi difficili". Lei, Edmondo Bruti Liberati, è stato procuratore di Milano, ma anche leader dell'Anm negli anni caldi dello scontro con Berlusconi. Nonché figura di spicco di Magistratura democratica. L'ultimo protagonista ad aver organizzato uno sciopero per garantire l'autonomia delle toghe. Cosa vede adesso? L'Anm, con Giuseppe Santalucia, interviene sui referendum radical-leghisti e subito Matteo Salvini insorge e lo invita al silenzio, mentre il segretario radicale Maurizio Turco chiama addirittura in aiuto Mattarella.

Referendum giustizia, la magistratura al di sopra della Costituzione: “Non serve, è un giudizio su di noi”.

Giovanni Pisano su Il Riformista il 20 Giugno 2021. Il referendum sulla giustizia spaventa la magistratura, già nell’occhio del ciclone per i recenti scandali emersi al suo interno. Le toghe tremano e l’Associazione nazionale dei magistrati non perde occasione e attacca Matteo Salvini e il Partito Radicale, impegnati nella raccolta firme. Sono quasi surreali le dichiarazioni di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, che nel corso del suo intervento di sabato 19 giugno al comitato direttivo centrale ha annunciato una “ferma reazione” poiché “il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Parole che lo stesso Santalucia ha provato successivamente ad ammorbidire in una intervista al Corriere della Sera: “Di solito la funzione del referendum è fare da pungolo quando un governo è distratto. Ma ora non è così. Il motivo è un altro. In questo momento di crisi della magistratura, che non neghiamo, avere un voto popolare significa cristallizzare questa situazione” quindi “bollarla e incatenarla alla crisi”. Secondo il presidente dell’Anm, “il governo ha aperto un cantiere ricchissimo sula giustizia. Non c’è aspetto non sottoposto a revisione. E noi siamo collaborativi. Lo ha riconosciuto anche la ministra Marta Cartabia. Allora perché il referendum?”. Secca la reazione del leader della Lega cha auspica un intervento a tutela della Costituzione. “Ho visto la reazione scomposta di una corrente dei magistrati che parla di un pericolo quando ci sono i referendum – afferma Salvini -. Mi spiace di aver letto certi toni da chi dovrebbe essere al di sopra delle parti. Suona come una minaccia quella del presidente dell’Anm. Guai a chi minaccia. Io spero che chi di dovere intervenga, chiedo il rispetto della Costituzione”. Parole poco gradite anche da Maurizio Turco, segretario del Partito radicale, che chiama in causa il presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura Sergio Mattarella: “Questa cosa dell’Anm è gravissima, è un attacco alla democrazia e il presidente della Repubblica deve intervenire. Il silenzio di Mattarella in questi anni sulla giustizia è qualcosa di incomprensibile”. “In tutta franchezza, le parole del Presidente dell’Anm risultano pressoché indecifrabili, se non per l’ingeneroso giudizio sul referendum, strumento di democrazia diretta previsto dalla costituzione. Si può certamente dissentire sul merito dei singoli quesiti, ma è grave che la rappresentanza politica della magistratura italiana consideri alla stregua di una minaccia la legittima consultazione della volontà popolare”. Così all’AdnKronos il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Gian Domenico Caiazza, commentando le parole del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, in apertura dei lavori del comitato direttivo centrale. “Siamo invece lieti – aggiunge – che Anm abbia finalmente compreso la necessità, per la riforma dei tempi del processo, di aumentare il numero dei magistrati togati, piuttosto che surrogarlo con figure precarie e non professionali delle quali sentiamo annunciare mirabolanti assunzioni”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 20 giugno 2021. Referendum su tutto, ma sulle toghe no. L' Anm insorge contro la raccolta delle firme che inizia il 2 luglio, promossa da Lega e Radicali, per una consultazione popolare sulla giustizia. Il presidente Giuseppe Santalucia, al direttivo del sindacato delle toghe, avverte: «Credo che spetti all' Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo». Per i vertici dell'associazione i cittadini non hanno il diritto, peraltro sancito dalla Costituzione, di esprimersi sull' elezione del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l'equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere di giudici e pm, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l'abolizione della legge Severino. «Il fatto stesso - afferma Santalucia - che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell'impianto riformatore messo su dal governo e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura». Un' operazione volta «quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l'apprezzamento della magistratura». Nessuna autocritica sui motivi della sfiducia nelle toghe, legata anche agli scandali Palamara (l'Anm ha deciso ieri di costituirsi parte civile nel processo per corruzione a Perugia) e Amara, ma un attacco frontale di quelli che non si ricordano dall' epoca berlusconiana. Il leader della Lega, Matteo Salvini, reagisce subito: «Parole gravissime. Non si può aver paura dei referendum, massima espressione di democrazia e libertà e di confrontarsi con il giudizio e la volontà popolare». Poi si augura che «chi di dovere intervenga», di fronte a queste «reazioni scomposte». Perché «i referendum sono un trionfo di libertà e democrazia. Guai a chi minaccia italiane e italiani». I Radicali chiedono al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, presidente del Csm, «una ferma reazione a difesa della Costituzione». Il M5s, invece, offre una sponda all' Anm e il presidente della Commissione giustizia della Camera Mario Perantoni, condividendo il giudizio di Santalucia sulla «strumentalità del referendum», chiede appoggio agli emendamenti contro le «porte girevoli» per le toghe in politica. La corrente di sinistra Area si schiera con l'Anm, contro è l'Unione dei penalisti. «Il referendum non è una minaccia», dice il presidente Domenico Caiazza. Il sindacato delle toghe trasforma l'iniziativa referendaria in una battaglia tra due fronti opposti, anche se Giulia Bongiorno della Lega precisa: «Non stiamo dichiarando guerra ai magistrati indipendenti». Ma il presidente dell'associazione insiste che «prima ancora dei contenuti c' è una questione di cornice entro cui collocare l'azione riformatrice, e, come recita il nostro Statuto, è compito dell'Anm «dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali». Per i rappresentanti delle toghe, «il programma referendario può divenire lo strumento formidabile per mettere in ombra una modalità di approccio, fatta di impegno nel distinguere, nel selezionare il tipo e la struttura degli interventi di riforma, per saggiarne il rapporto di compatibilità costituzionale e non cancellare, in nome dell'idea che il sistema non sia redimibile, un assetto di regole costruito intorno ad alcuni principi che non dovrebbero mutare». L'associazione rivendica un potere esclusivo d' ispirazione delle leggi che sta preparando la Guardasigilli Marta Cartabia, perché il cambiamento «non deve dipendere soltanto dalla singole riforme», ma molto dal comportamento dei singoli. Per Santalucia, bisogna riaffermare il modello di magistrato «che leggi e codice etico tratteggiano, noi ne siamo i soli possibili interpreti». Un plateale rifiuto di ogni giudizio, se non quello interno. Il numero uno dell'Anm insiste che conosce «la forza deformante di un cattivo approccio con i mezzi di comunicazione» e la necessità della «sobrietà ragionata ed informata», dimenticata da pm e giudici star, come dimostrano «recenti e meno recenti episodi di cronaca». Il segretario dell'Anm, Salvatore Casciaro, sulla riforma che ci chiede l'Europa, spiega che per ridurre in 5 anni del 40% i tempi dei processi civili, servono concorsi rapidi altrimenti si arriverà «a vuoti d' organico di ben 2.000 magistrati ordinari negli uffici di merito nei prossimi 2 anni». Se rimangono le scoperture attuali del 12,61%, oltre a quelle amministrative del 26,19%, «potrebbero rivelarsi francamente non realistici gli obiettivi fissati nel Recovery fund, soprattutto per la velocizzazione dei processi civili», avverte.

"L'Anm tutela i propri privilegi, non i cittadini". Fabrizio Boschi il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. L'avvocato radicale: "Da parte di certi magistrati solo difesa corporativa delle correnti". Il referendum sulla giustizia innervosisce la magistratura, già travolta dallo scandalo dei recenti intrallazzi emersi al suo interno. Le toghe hanno paura e l'Associazione nazionale dei magistrati non perde occasione per attaccare Lega e Partito Radicale, promotori dei quesiti e dal 2 luglio impegnati nella raccolta firme. L'avvocato Giuseppe Rossodivita, segretario del comitato Radicale per la Giustizia «Piero Calamandrei» tratteggia un quadro della situazione partendo dalle scomposte dichiarazioni di Giuseppe Santalucia, presidente dell'Anm, che ha annunciato una «ferma reazione» poiché «il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell'impianto riformatore messo su dal governo».

Avvocato Rossodivita, come interpreta la reazione dell'Anm?

«La ferma reazione annunciata da Santalucia a me fa solo piacere».

Come mai?

«Perché così il popolo italiano può comprendere che l'Anm tutela solo interessi di parte, una tutela corporativa di privilegi non solo dei singoli magistrati ma soprattutto delle correnti dei magistrati e non tutela invece l'interesse della gente. Questo i cittadini lo devono avere ben chiaro».

Forse la ferma reazione avrebbe dovuto essere di altro tipo...».

«Esatto. Se ci fosse stata davvero una ferma reazione da parte della magistratura al suo interno probabilmente oggi non saremmo qui a parlare di referendum. Dopo quello che è accaduto la gente si sarebbe aspettata una ferma reazione sì, ma per fare la pulizia dentro la magistratura. L'Anm avrebbe dovuto attuare subito questa ferma reazione invece di scagliarsi oggi contro i referendum. Sono passati due anni senza che abbia mosso un dito».

In effetti il referendum è ancora uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, no?

«Infatti, eppure, rispetto ad uno strumento previsto dalla Costituzione i giudici si permettono di dire che ci vuole una ferma reazione. È evidente che questa ferma reazione non tutela chi va a votare, non tutela il popolo trattato come uno stupido sciocco che non è in grado di capire certe dinamiche. I nostri padri costituenti, invece, scrissero che i cittadini avrebbero potuto esprimersi anche su temi legati alla giustizia ma questo a certi membri della magistratura non va giù».

E chi invece dice che i quesiti si sovrapporrebbero al percorso di riforma del ministro Cartabia?

«Dice una bugia. I quesiti riguardano la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei magistrati, la valutazione della professionalità dei magistrati anche da parte degli avvocati, l'abolizione della legge Severino, la limitazione al ricorso della custodia cautelare e l'abolizione della raccolta firme per presentare la candidatura dei magistrati per l'elezione al Csm. I nostri referendum affrontano nel 90% temi che non sono all'ordine del giorno delle riforme proposte dal ministro Cartabia e chi lo afferma lo fa solo per strumentalizzare il problema».

I Radicali ci hanno visto lungo.

«In tempi non sospetti auspicai una spallata referendaria perché si è in parte inverato il tema del diritto alla conoscenza cioè gli italiani hanno potuto conoscere il mondo della giustizia attraverso il libro di Palamara».

Che, infatti, è passato dalla vostra parte.

«Le racconto un aneddoto. Quando ci incontrammo un anno fa, mi venne incontro e mi disse: Alla fine avevate ragione tu e Pannella, io stavo dalla parte del regime. E io gli risposi: vuoi venire con noi a raccontarlo? Palamara presentò la sua collaborazione col Partito Radicale il giorno stesso della radiazione da parte del Csm e non è stata una scelta casuale».

«Non basta essere innocenti, se i magistrati sono asserviti alle correnti». L'affondo dell'avvocata Giulia Bongiorno, responsabile del dipartimento giustizia del Carroccio, durante la manifestazione leghista a Roma. Il Dubbio il 19 giugno 2021. «Non basta essere innocenti, e talvolta nemmeno avere prove della propria innocenza. Serve trovare un magistrato non asservito alla logica delle correnti». Comincia così l’affondo di Giulia Bongiorno, responsabile del dipartimento giustizia della Lega, intervenuta in piazza Bocca della Verità a Roma alla manifestazione indetta dal Carroccio. Parlando dei referendum promossi dal suo partito assieme ai Radicali, Bongiorno lancia un atto di accusa contro «il gioco delle correnti, degli scambi di favore tra magistrati», sottolineando che «se c’è un pm che può incidere sulla carriera del giudice, questo non va bene». «La separazione delle carriere è l’unica vera riforma che può cambiare qualcosa. C’è qualcuno che dice che stiamo facendo la guerra ai magistrati. No, non stiamo dichiarando la guerra ai magistrati indipendenti», chiosa l’avvocata leghista. L’appuntamento leghista nella capitale torna a distanza di quasi un anno dalla manifestazione in cui il centrodestra si radunò in Piazza del Popolo contro il governo Conte-Arcuri. L’evento – lanciato con lo slogan “Prima l’Italia! Bella, libera, giusta” - è incentrato sul «ritorno alla vita» dopo mesi di chiusure e divieti, ma è soprattutto l’occasione per lanciare i referendum sulla Giustizia proposti dal Carroccio in tandem con i Radicali, con gli interventi sul palco di Giulia Bongiorno e Maurizio Turco, segretario del partito radicale.

Giustizia, l'affondo di Gaia Tortora contro Sergio Mattarella: "Cossiga sguainava la spada", dal Colle un silenzio sospetto. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Il dolce sorriso di Gaia Tortora è increspato da un furore biblico. Le cronache registrano l'ennesimo scandalo sulla magistratura (stavolta i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro indagati per rifiuto d'atti d'ufficio per Eni Shell/Nigeria), la riforma della giustizia rischia di diventare materia plotiniana, logge segrete spuntano come funghi, complotti, arresti. Per chi come lei fa l'anchorwoman e il vicedirettore del TgLa7 e soprattutto porta le stigmate domestiche della malagiustizia è davvero troppo.

Cara Gaia. Non ti ho mai sentito così inferocita. Sei colpita dalla pioggia di arresti (Ilva, Taranto), scontri fra bande e avvisi di garanzia?

«La magistratura sta offrendo uno spettacolo intollerabile, terribile. Ancor più terribile è che non ci sia nessuno che alzi la voce. Qua siamo oltre la riforma del processo. L'altro giorno, addirittura, Palamara in tv lanciava messaggi a chissà chi facendo vedere il WhatsApp su Capristo, procuratore arrestato: "Le pressioni riguardavano solo le correnti nella magistratura. Non mi occupai delle nomine di Taranto ma quando Capristo si presentò per la mia corrente a Bari", come dire: non indagate a Taranto, guardate a Bari. Ma che roba è?».

Il segno dei tempi. La crisi del Csm, la procura di Brescia che indaga su Milano, quella di Taranto su Potenza, logge Ungheria come piovesse, pentiti come Amara che sparlano da Formigli e una settimana dopo vengono arrestati. Che succede?

«Niente, come al solito. Niente. Guarda, il caso De Pasquale su Eni è emblematico di una situazione di assuefazione alla malagiustizia. Tutti a parole condannano, poi nessuno fa niente e i magistrati rimangono alloro posto. E quelli che come me credono ancora nella giustizia si ritrovano invece a filosofeggiare sul "sorteggio" dei membri del Csm, sul "voto singolo trasferibile". Ma dài. E la gente comune resta a guardare tra errori giudiziari, giustizia lenta, corruzione».

Stai descrivendo l'apocalisse...

«Sì. Mi chiedo come sia possibile che la gente non scenda in piazza a fare la rivoluzione, qua ci vorrebbe il lanciafiamme. Mi sarei aspettata che Mattarella, presidente anche del Csm, avesse preso posizione, dicendo: "Vi garantisco personalmente che quello che è successo non succederà più", come ha fatto Draghi con l'Europa. Cossiga lo faceva, sguainava la spada. Invece qui vanno avanti a piccoli accorgimenti, pannicelli caldi, ignorando gli enormi problemi».

Via, ci sono comunque molti magistrati onesti che fanno il loro dovere. Non siamo forse noi giornalisti a sobillare il peggio in tv e sui giornali, ad insistere nell'ombra, ad invitare, per dire, Davigo con il suo ipergiustizialismo per fare audience?

«Un po' sì. Davigo fa Davigo e noi lo invitiamo per vedere l'effetto che fa. Ma è vero che la maggioranza dei giudici è onesta. Dopo aver visto Palamara in trasmissione una magistrata giovane si è lamentata ché davamo spazio alla parte oscura senza parlare dei pm silenziosi, che tutti i giorni rischiano facendo il loro lavoro. Le ho risposto: dottoressa, ha ragione, ma svegliatevi, reagite, datevi una mossa. Ma molti non lo fanno per pigrizia, o perché hanno paura del sistema».

Il sistema, per citare Palamara. Ne ha parlato Berlusconi l'altro giorno. Ha detto: «La mia vera malattia sono i giudici». Concordi?

«Berlusconi dal suo punto di vista ha ragione, con una vita scandita da appuntamenti giudiziari. Chi finisce in quel gorgo è destinato al calvario. Mi piacerebbe che i pm rimanessero in aula, evitando di convocare le conferenze stampa e di fare i tuttologi in tv. Mi piacerebbe che non ci fosse gente come Amara che parla col contagocce lanciando messaggi a chissà chi; sto con Paolo Mieli quando dichiara: Amara, lei è un genio e noi dei tontoloni che abbocchiamo alle sue esche. È pazzesco. Sarà che mi chiamo Tortora, ma non sai le lettere che ricevo di cittadini vittime di malagiustizia, di errori giudiziari, di processi lentissimi...».

Salvini e i Radicali stanno raccogliendo le firme per i sei referendum sulla giustizia. Credi che, data l'inerzia trentennale sul tema, sia il modo giusto per arrivare alla riforma del settore?

«Salvini sulla giustizia credo sia coerente. D'altronde, alcuni referendum dei Radicali li aveva già firmati; e dalle forche caudine dei processi c'è passato anche lui. Ed è vero anche che sul tema Giustizia ci sono caduti i governi; è una battaglia che non si può fare da soli. Ci vuole qualcuno che dica: "Signori, fuori tutti, via dal Csm, dall'Amn, da tutti gli organi di potere: azzeriamo, facciamo concorsi, compulsiamo curricula, e facciamo entrare in campo la maggioranza silenziosa, quelli che si fan no un mazzo così"».

Sì, ma i referendum sono la soluzione giusta? Per esempio Letta del Pd dice di no (anche se Bettini, sempre Pd, apre alla separazione delle carriere)...

«Mi sono stufata: Letta che si inventa la parola "impunisti" evitando "garantisti". Il Pd che si accorge solo ora del tema della separazione delle carriere. I giudizi che si modificano a seconda del momento politico. Scusa, ma non possono pensare di prenderci per il culo così. I referendum? Nel merito vanno bene, sono gli stessi dell'epoca di mio padre, figurati. Semmai ho dubbi nel metodo...».

In che senso nel metodo?

«I referendum sono uno strumento sacrosanto, ma per costruirli, una volta si partiva da un comitato che coinvolgeva tutte le forze politiche e le faceva convergere. Oggi questi sono molto connotati politicamente verso la Lega, c'è una logica di appartenenza, e questo non li fa avvicinare a quelli che sono contro Salvini. È una mossa sbagliata, non è roba da Pannella. Certo - parliamoci chiaro i Radicali si sono appoggiati alla Lega per avere il maggior numero di firme nel minor tempo possibile. Li capisco».

I precedenti storici non aiutano. Nell'87 i Radicali fecero quelli sulla responsabilità civile dei magistrati, ma poi l'applicazione della legge fu farraginosissima, di fatto finì nel nulla.

«Appunto. Votato dal popolo e naufragato perché non c'era una forza parlamentare che l'appoggiasse in Parlamento. Ecco il perché dell'avvicinamento dei Radicali alla Lega, adesso. Io per esperienza non sono affatto fiduciosa, se non entra a gamba tesa - ripeto - il Capo dello Stato. Quello che ha dichiarato il professor Flick mi ha fatto riflettere: per cambiare la giustizia in Italia non si può pensare di non toccare la Costituzione».

Si è discusso in questi giorni, sulla scia del rilascio di Brusca con i suoi 150 omicidi, di rivedere la legge sui pentiti. Sei d'accordo?

«Su Brusca sono d'accordo con Maria Falcone che, con dolore, accettava che venisse liberato in virtù di una legge voluta dal fratello. Ovviamente valutando carte, controllando documenti e avvenimenti. Vedi, io non ho perso la speranza, è perché credo ancora nello stato di diritto che tutto questo mi indigna».

Beh, immagino che la ferita del caso di tuo padre Enzo sia una stigmate antica. Tra l'altro i magistrati che lo perseguirono furono tutti promossi. Non ti chiedo quanto sia doloroso...

«Quei giudici, Di Pietro e Di Persia per esempio, sono stati assegnati a miglior incarico. Poi non mi sono più informata, era troppo. Per questo viene su di tutto quando leggo, oggi, del processo Eni; giro pagina di giornale, ho la sensazione che la gente si sia ormai anestetizzata. Penso a cosa succederà al pm De Pasquale. Continuerà ad esercitare? Lo rimuovono o lo promuovono? Poi ci sono Gip come quella di Verbania che dissente giudiziosamente dalla Procura e viene rimossa con un timing sospetto...».

La ministra Cartabia spinge per le riforme perché servono e perché ci portano i soldi Ue. Secondo te ce la farà a fare la rivoluzione? La politica e parte della magistratura (il Csm) si stanno già mettendo delicatamente di traverso.

«Lo spero. Cartabia è un po' arenata. Vedo che anche Conte, a DiMartedì, sulla prescrizione fa capire che farà poche concessioni, che messa così è un abominio. Ma il problema vero è la mentalità».

Cioè?

«L'altro giorno dicevo in tv che l'assoluzione di Uggetti, ex sindaco di Lodi, non aveva trovato lo stesso spazio dell'accusa sui giornali e che bisognava stare attenti a giocare con le vite di persone che hanno mogli, figli. Mi sembrava un'affermazione banale. Ma avevo Padellaro del Fatto e la Lezzi ex M5s con gli occhi sbarrati, come avessi detto bestialità. Poi Padellaro è stato sommerso da tweet che mostravano tutte le pagine giustizialiste del Fatto quando era direttore. In una il titolone era: "E adesso andate a prenderli uno aduno". Capisci?».

Capisco che forse tuo papà, fosse ancora in Parlamento, col sorriso un po' triste, si getterebbe a capofitto su questa riforma delle riforme. O sbaglio?

«Parti da un presupposto sbagliato. Mio padre in questo Parlamento non ci starebbe proprio...».

Magistratura, Pietro Senaldi: "Perché serve la riforma della giustizia. Se le toghe mettono in ginocchio anche Briatore..." Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi esamina tre casi di malagiustizia: "Flavio Briatore: accusa di evasione fiscale, processo cominciato dieci anni fa, gli hanno sequestrato lo yatch e svenduto. Poi si è scoperto che si erano sbagliati e ora bisogna ricomprare la barca a Briatore. Secondo caso: un pm della procura di Milano, un eroe, è indagato perché pare che nel mettere sotto processo l'Eni avrebbe omesso di allegare agli atti dell'inchiesta un video che scagionava l'Eni e quindi avrebbe smontato la sua accusa. Infine, Silvio Berlusconi, il quale giustamente sostiene che il suo problema non sia la salute ma i giudici. Queste sono però soggetti che se la possono cavare: pensiamo a tutti quei poveracci che sono perseguitati dagli errori giudiziari ma non sono dei miliardari e che quindi non hanno le disponibilità economiche per difendersi, per anni, da una giustizia che non funziona. Io mi chiedo quanto tempo ancora ci vorrà prima di avere una riforma. Una giustizia che non funziona, infatti, non danneggia solo i miliardari, che sono quelli che finiscono sui giornali, danneggia di più i poveretti". 

Guido Crosetto contro la magistratura: "Lo yacht è di Briatore? La cosa non interessa. Ma se fosse casa vostra..." Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Guido Crosetto fa una inquietante osservazione sul caso dello yacht di Flavio Briatore e sui danni che la magistratura può arrecare a tutti noi. Scrive infatti in un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Siccome si parla di una barca e lui è Briatore, la cosa non colpisce i più ma provate a pensare a cosa significa che la magistratura, senza attendere il giudizio definitivo, decide di sequestrare casa vostra, che vale 100 e la vende all’asta a 30. Poi vi assolvono. E nessuno paga". Ecco, così un magistrato può farci finire sul lastrico con una mossa sola. Un gravissimo errore, insomma, sul quale bisogna evidentemente fare una riflessione. Lo Stato italiano, infatti, rischia di dover risarcire Briatore, perché il suo yacht Force Blue non doveva essere confiscato e messo all'asta, come invece accaduto il 31 dicembre scorso. Clamorosa svolta giudiziaria: la seconda sezione della Cassazione ha annullato la sentenza emessa nell'ottobre 2019 dalla Corte d'Appello di Genova che aveva sì assolto per prescrizione Briatore, disponendo però la confisca del megayacht ormeggiato a Sestri Ponente. Dieci giorni fa, la Cassazione aveva già contestato un altro verdetto del Tribunale genovese, sempre sulla vendita affrettata dell'imbarcazione nonostante i ricorsi degli avvocati di Briatore. Invece avevano ragione loro, i legali di Mister Billionaire: un team "all star" composto dai Principi del Foro Giuseppe Sciacchitano, Cesare Manzitti, Andrea Vernazza, Franco Coppi, Massimo Pellicciotta e Fabio Lattanzi. E ora il Tribunale d'Appello di Genova dovrà riaprire il caso, annullando la sentenza precedente che confiscava il Force Blue. Piccolo dettaglio: lo yacht ora è proprietà di  un amico storico di Briatore, l'ex patron della F1 Bernie Ecclestone, che se l'era aggiudicato "a prezzo di saldo", per soli 7 milioni e 440mila euro. Il gioiellino dei mari, che era stato valutato 20 milioni di euro, rimarrà al suo nuovo proprietario, sarà lo Stato a doversi fare carico delle eventuali conseguenze legali di una vicenda che va avanti ormai dal 2010, tra condanne, confische e ricorsi. Ma pensate se quello yacht fosse casa vostra...

Otto e Mezzo, Paolo Mieli spiazza Lilli Gruber: "Sempre colpa dei politici, no. Qua è tutta colpa dei magistrati". Libero Quotidiano il 09 giugno 2021. "Sempre colpa dei politici, no". Paolo Mieli a Otto e Mezzo replica a Lilli Gruber che in studio ha ospite Nicola Gratteri. Nella puntata del 9 giugno del programma di La7 l'ex direttore del Corriere vuole precisare che "quello che sta accadendo è tutta colpa dei magistrati". Il riferimento è al caso Palamara e Amara che sta tenendo banco negli ultimi mesi e che scoperchia il vaso di Pandora, mostrando una giustizia tutt'altro che giusta e imparziale. Per evitare di essere accusato di fare di tutta un'erba un fascio, Mieli precisa: "Intendo ovviamente quella minoranza di magistrati e non tutti". Secondo il giornalista bisogna "prendere i magistrati che hanno fatto le migliori performance e mandarli da quelli che hanno fatto le peggiori". Insomma, una lezione a chi non ha fatto a dovere il suo lavoro. Qualche puntata fa, sempre Mieli aveva preso in contropiede la conduttrice. Tutta colpa di un botta e risposta. Il giornalista aveva infatti ricordato alcune parole di Mario Draghi sulla fine della legislatura. Ma Mieli non aveva fatto in tempo a concludere che la Gruber era intervenuta ricordando che quelle parole erano in realtà state pronunciate da Salvini. "Salvini, non Draghi". Un'uscita che aveva scatenato Mieli: "No Salvini, Draghi", aveva replicato. Ed effettivamente le parole era state del leader della Lega, ospite proprio a Otto e Mezzo. Qui il numero uno del Carroccio aveva esposto le intenzioni del partito: "Noi accompagneremo Draghi fino alla fine della legislatura, tra un anno e mezzo. Spero vada avanti il più possibile, sta dando energia e speranza nuova all'Italia. Se penso a Conte e ai banchi a rotelle, mi sembra che sia cambiato il mondo".

Paolo Vites per ilsussidiario.net il 10 giugno 2021. Torna agli onori delle cronache l’avvocato Pietro Amara, “primula rossa” della corruzione e degli intrallazzi con la magistratura, questa volta raggiunto in carcere, dove si trova, da una ordinanza di custodia cautelare per presunti favori relativi a procedimenti che riguardano l’ex Ilva di Taranto. Con lui arrestati o indagati una lunga lista di personaggi, tra cui l’ex pm di Trani, Antonio Savasta, l’ex gip Michele Nardi e Filippo Paradiso, funzionario del ministero degli Interni ed ex stretto collaboratore della presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. “Che Amara sia un abilissimo intrallazzatore capace di fare i suoi interessi lo sapevamo, ma va detto che è un privato cittadino”, ci ha detto Frank Cimini, giornalista che ha lavorato al Manifesto, al Mattino, all’Agcom, a Tmnews. Come corrispondente del Mattino di Napoli ha seguito le cronache di Tangentopoli ed è il fondatore del blog giustiziami “La cosa grave è come questa persona abbia sempre trovato una sponda negli organi di Stato come la magistratura e le procure, che invece hanno utilizzato lui”. Per quanto riguarda il presidente del Senato, ci ha detto ancora Cimini, “non risulta indagata, però anche qui emerge un tipo di rapporti poco chiari, quantomeno dal punto di vista deontologico e morale. Ci sono appoggi, raccomandazioni, e per chi svolge funzioni pubbliche importanti come la seconda carica dello Stato non è una bella cosa”.

Nuova ordinanza cautelare per Pietro Amara.

Dunque la saga continua. Il problema sono i meccanismi che ci sono e le volontà politiche. L’esito era scontato.

Perché?

Perché c’è un problema. Da un lato, Amara pensa di utilizzare le procure per quello che gli conviene, ma essendo un privato cittadino è meno grave di un ufficio pubblico come sono le procure, che pensano di utilizzare lui. Quindi la faccenda si è ingarbugliata non poco e di questo passo rischia di essere sempre peggio. 

In che senso?

Intanto va detto che Amara è stato arrestato per l’ennesima volta, però continua a non esserci una verifica puntuale dal punto di vista istituzionale sulla faccenda più grossa che ha detto, la loggia Ungheria. 

Infatti non se ne parla più, come mai?

Noi abbiamo diritto di sapere se questa loggia, di cui facevano parte magistrati, carabinieri, imprenditori, esiste o no. Lui dice che condizionava la vita pubblica. Intanto però Amara è di nuovo agli arresti, ma sulla vicenda di Brescia, dove è stato sentito Paolo Storari, che in pratica ha detto che Davigo si era preso la responsabilità di quelle carte, la cosa è ferma. Cosa è successo? 

Nella nuova inchiesta che riguarda l’ex Ilva sono coinvolti un ex pm e un ex gip. Siamo alle solite? Finirà tutto nel cestino?

Non è la prima volta che emerge un giro d’affari in cui ci sono di mezzo magistrati che inquinano le indagini e quindi per certi versi spaventa il ruolo di Amara, che era già sotto inchiesta e partecipava alle trattative per l’Ilva. Era considerato il testimone per arrivare alla condanna degli indagati dell’inchiesta Eni-Nigeria. Tutto questo significa che c’è una sistema di anticorpi che non funziona, non solo nella pubblica amministrazione: la cosa enorme è che neanche nella magistratura e nell’ordine giudiziario ci sono delle contromisure preventive. 

Amara a chi fa capo? Agisce per i propri interessi?

Lui è un signore che fa i suoi interessi, però – ripeto – è un privato cittadino, quindi sono problemi suoi, è inquisito da diverse procure, ma non demorde. Le sue responsabilità saranno accertate anche se ci vorranno anni, ma ha indubbie capacità di intrallazzare trovando una sponda perfetta nel sistema giudiziario. I magistrati sono interessati alcuni a fare affari, altri a fare carriera e lui ha avuto anche scambi di favore con Palamara. Il problema è il sistema che funziona così. 

È coinvolto anche un ex stretto collaboratore della presidente del Senato. La Casellati perde la speranza di essere eletta presidente della Repubblica?

La Casellati non è indagata, però anche qui emerge un tipo di rapporti quanto meno carente dal punto di vista deontologico e morale. Ci sono appoggi e raccomandazioni, e per chi svolge funzioni pubbliche importanti come la seconda carica dello Stato non è una bella cosa. Poi la signora Casellati è stata anche al Csm. Non è indagata e non lo sarà mai ed è anche giusto, perché da quanto emerso finora non c’è rilevanza penale, però anche questo concorre a produrre questo minestrone rancido. Qui c’è un problema di comportamenti pubblici che lasciano a desiderare, non se ne vede la fine. 

La riforma della giustizia che spinte e controspinte sta subendo?

La riforma ipotizzata da Cartabia non sta in piedi. 

Perché?

Perché non risolve niente e perché i partiti non sono d’accordo, non si riesce a fare la separazione delle carriere. È vero che i paletti che ci sono adesso sono molto labili rispetto al passato, ma il problema è che questa riforma dovrebbe avere un potente messaggio di tipo culturale. 

In che senso?

Prendiamo il caso della tragedia del Mottarone. Un pm che secondo il gip ha presentato richieste cautelari fuori dei canoni previsti dalla legge e se li vede respinti ha una reazione di pancia, dicendo: vabbè con il gip non prenderò più il caffè. Questo significa una certa forma mentis di una categoria, dove ognuno pensa ai suoi affari.

Csm, Gratteri: “Contro il correntismo la soluzione è il sorteggio”. Il Dubbio l'11 giugno 2021. Il procuratore di Catanzaro scontenta buona parte dei suoi colleghi, proponendo come soluzione alle degenerazioni del correntismo emerse con clamore con il caso Palamara l’unica che non piace proprio alle toghe. «Sulla giustizia, la madre di tutte le riforme è quella del Csm e bisogna partire da lì: e l’unico modo per limitare le correnti è il sorteggio. È necessario fare pulizia all’interno della magistratura, è vero, ma i magistrati non sono marziani ma uomini, anche loro un prodotto della società: non possiamo credere alla favoletta che i magistrati sono tutti onesti». Nicola Gratteri scontenta buona parte dei suoi colleghi, proponendo come soluzione alle degenerazioni del correntismo emerse con clamore con il caso Palamara l’unica che non piace proprio alle toghe: il sorteggio. Il procuratore di Catanzaro lo ha detto ieri sera, ospite di Lilli Gruber a “Otto e mezzo” su La7. «La riforma Cartabia? Non mi pare – ha aggiunto – una rivoluzione, non mi pare che si stiano centrando problemi e criticità. Io credo che dovremmo anzitutto ottimizzare risorse e i costi. Perché non è possibile, ad esempio, che a solo 65 chilometri da Palermo ci sia un’altra corte di appello, quella di Caltanissetta. O che ci siano 250 magistrati fuori ruolo. O che in uno stato moderno e serio, al problema di sovraffollamento delle carceri si risponda con indulto e amnistia, anziché costruirne di nuovi. Questi sono i problemi più importanti». «La prescrizione – ha detto poi Gratteri – deve rimanere così com’è fino a quando non si fanno quelle riforme che servono a velocizzare e digitalizzare i processi e a rendere la pena meno conveniente del delinquere». E poi una stoccata al governo Draghi: «Di concreto non ho visto ancora nulla se non questa commissione per il Sud che serve a spiegarci le “buone prassi”… Già l’impostazione, l’idea stessa di questa commissione è offensiva. Sia perché sono realtà totalmente diverse, sia perché anche al Sud ci sono procure molto efficienti e ci sono veri e propri modelli di efficienza e tecnologia, come l’aula bunker di Lamezia Terme o la nuova sede della procura di Catanzaro».

I padri costituenti indicavano quella strada. Sì alla separazione delle carriere dei magistrati: anche Calamandrei era favorevole. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Armando Spataro, sulla Stampa di ieri, spende appassionate parole per opporsi alla separazione delle carriere. Gli argomenti sono vari: pragmatici (nei fatti ormai i passaggi di funzioni sarebbero rarissimi), ordinamentali (il Pm è tenuto a ricercare la verità dei fatti anche a discarico dell’indagato, quindi sarebbe… una parte solo in parte) comparatistici (la separazione non è “in maggioranza” tra le democrazie avanzate); internazionalistici (il Consiglio d’Europa è contro la separazione). Malgrado la varietà di spunti, nessun degli argomenti pare decisivo per suffragare la tesi di fondo di Spataro. Secondo cui, l’Italia, in questo campo, sarebbe un vero e proprio modello, con buona pace degli oppositori, additati come “incongruenti”, affetti da “diffidenze plebee” (cit. da Francesco Saverio Borrelli), “incolti” nella conoscenza dell’esperienza comparata. Chi non ne condivide l’opinione è dunque chiamato in causa, nella sua stessa dignità di interlocutore. Vediamo gli argomenti. Tale non è, all’evidenza, quello che afferma l’irrilevanza della riforma, attesi i già stringenti limiti di legge al passaggio tra funzioni e la scarsità dei casi che, in concreto, si verificano. Ma la “limitata” rilevanza di una riforma non dice nulla sulla sua auspicabilità in termini di valore. Anzi non si comprende la veemenza dell’ostilità alla proposta se, nei fatti, le carriere sono già separate: much ado about nothing. Anche il secondo argomento non prova nulla. Ammesso e non concesso che i Pm si adoperino con la medesima alacrità a cercare prove a discarico dell’indagato, tale dovere è previsto anche in paesi in cui le carriere sono nettamente separate (es. Germania). Quindi, il dato non sposta nulla. L’evocazione dell’esperienza comparata, poi, è sfuggente. Perché, purtroppo, Spataro non ha “spazio per l’illustrazione degli altri sistemi”. Sarà per la prossima. Anche se rimaniamo curiosi di sapere quali siano le grandi democrazie che mantengono un sistema di fusione delle carriere così come previsto in Italia. Quanto al Consiglio d’Europa e alla sua raccomandazione del 2000, il discorso è più complesso. Basti dire che quel documento è stato adottato dal Comitato dei ministri di quell’organizzazione. Il fatto che, per difendere l’indipendenza dei Pm, si citi un documento adottato dai rappresentanti “dei governi degli Stati”, la dice lunga sul cortocircuito argomentativo. Nel merito poi il Consiglio d’Europa non esalta affatto un modello rispetto agli altri, ma anzi presuppone la presenza di scelte diverse nei singoli stati e si preoccupa, questo sì, di richiamare l’importanza delle garanzie del Pm persino quando esso sia gerarchicamente sottoposto all’esecutivo. Infine è vero che, a proposito delle carriere, si affermi (par 18): «Gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di Pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa». Ciò che però Spataro omette di ricordare è la premessa di quella disposizione: «Se l’ordinamento giuridico lo consente». Il passaggio delle funzioni è dunque una derivata rispetto alla scelta fondamentale dell’ordinamento di come concepire il rapporto tra giudici e Pm.Nessun argomento sembra pertanto decisivo. Mentre molto concreta e preoccupante ci pare la sottovalutazione della situazione esistente. E il fatto di considerare del tutto scontato e naturale che l’essere parte (d’accusa), da un lato, e giudice, dall’altro, sia perfettamente compatibile con la colleganza e la comunanza di interessi “professionali”. Io non so se pensarla in modo laicamente diverso sia offendere i giudici, avanzare “diffidenze plebee”, essere “incolti” o avere posizioni incongruenti. Quel che so è che chi la pensa in modo diverso da Spataro è in ottima compagnia, quanto a competenza e credibilità. Basta rileggere il dibattito sulla giustizia in Assemblea costituente (del resto abbiamo appena celebrato il 2 giugno). Si ritrovano cose interessanti, come l’affermazione di Giuseppe Bettiol (che avrei un po’ di timore a definire “incolto”) per cui «le funzioni del pubblico ministero non devono essere incapsulate accanto a quelle del giudice, ma devono essere tenute distinte. È proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia, mentre in tutti i regimi liberali esso è considerato come un organo del potere esecutivo». Oppure la proposta di Calamandrei (non proprio un plebeo sovvertitore dello stato di diritto). Preoccupato di trovare un equilibrio tra il rischio di soggezione dei Pm all’esecutivo e quello di una chiusura corporativa, rafforzata dall’arbitrio nelle gestione dell’azione penale. Fu lui a proporre la nomina di un “Procuratore generale commissario della giustizia”, organo di “collegamento” tra magistrati e governo. In parte magistrato, in quanto «scelto tra i Procuratori generali della Corte d’appello o di Cassazione» e in parte «rappresentante politico, in quanto sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica su designazione della Camera, prenderebbe parte alle sedute del Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponderebbe di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura». «Essendo tale commissario il capo dell’organo di accusa, con potere disciplinare sui magistrati, ove si verificassero nell’interno del corpo giudiziario inconvenienti di carattere politico, a lui potrebbe si far carico di non aver saputo esercitare le sue funzioni». Del resto, come Spataro sa bene, se i costituenti non scelsero già allora la separazione della carriere, fu perché le norme processuali e di ordinamento giudiziario dell’epoca prevedevano una natura dell’organo inquirente «ibrida» (Uberti e Ruini), «anfibia» (Leone), «mista» (Targetti). Ma ormai sono passati più di vent’anni da quanto il processo penale in Italia è stato radicalmente modificato. E gli inquirenti non hanno più nulla di “ibrido” o “anfibio”. Semplicemente non sono più giudici. Giovanni Guzzetta

Gli elementi negativi più rilevanti dei vantaggi. No alla separazione delle carriere dei magistrati: così i Pm dipenderanno dall’esecutivo. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Nel vasto programma di riforme della giustizia penale attivato dalla ministra Marta Cartabia è arrivato il momento dell’ordinamento giudiziario, tema già approfondito dalla Commissione ministeriale di studio presieduta da Massimo Luciani. Gli argomenti trattati sono numerosi e assai complessi, come lo sono in genere tutti i problemi relativi all’ordinamento giudiziario. Intendo per ora occuparmi della posizione istituzionale del giudice e del pubblico ministero, per i quali è attualmente prevista una carriera unitaria, ma da decenni si discute sull’opportunità di introdurre la separazione delle due carriere. Questa prospettiva è sostenuta con particolare forza dall’Unione delle Camere penali, che vede nell’unitarietà della carriera di pubblico ministero e di giudice un pregiudizio per il principio costituzionale della parità delle parti – accusa e difesa – davanti a un giudice terzo e imparziale, e tale non sarebbe un giudice collega del pubblico ministero nell’ambito della medesima carriera. Ebbene, ritengo che gli aspetti negativi della separazione delle carriere siano di gran lunga più rilevanti dei supposti vantaggi che deriverebbero per il principio della terzietà e indipendenza del giudice. Valga per tutte la constatazione che nella maggior parte dei paesi ove vige la separazione delle carriere il pubblico ministero dipende dal potere esecutivo. In prospettiva storica l’esempio italiano è particolarmente illuminante: nel corso dello Stato liberale, e poi in forma ancora più marcata nel periodo fascista, il pubblico ministero era posto alle dipendenze del ministro della giustizia, che ne dirigeva l’operato mediante circolari che indicavano le categorie di reati contro cui procedere con particolare severità e rigore (in genere si trattava di reati di natura politica); istruzioni che indirettamente coinvolgevano anche i giudici che ne venivano comunque a conoscenza. La memoria storica degli effetti della dipendenza del Pm anche nei confronti dell’indipendenza dei giudici era ben presente ai costituenti, che con un’apposita norma hanno stabilito nella Costituzione che il Pm goda delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’ordinamento giudiziario. No alla separazione dunque, ma regole molto rigorose volte a disciplinare il passaggio dalle funzioni di Pm a quelle di giudice e viceversa. Queste regole in gran parte già esistono, e alcune sono ulteriormente rafforzate nella Relazione della Commissione Luciani. A seguito della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, il passaggio dall’una all’altra funzione non è consentito all’interno del medesimo distretto di corte di appello; inoltre nel corso della carriera il magistrato non può mutare le funzioni di giudice o di Pm più di quattro volte e deve svolgere la medesima funzione per almeno cinque anni. A sua volta la Relazione Luciani riduce la possibilità del mutamento di funzione da quattro a due volte, ritengo soprattutto per ragioni di economia processuale, posto che potrebbero crearsi situazioni di incompatibilità nei confronti di un giudice del dibattimento che aveva a suo tempo svolto funzioni di pubblico ministero nel medesimo procedimento. Il passaggio dall’una all’altra funzione è comunque fenomeno di scarso rilievo quantitativo: Armando Spataro in un articolo di ieri su La Stampa ha opportunamente precisato che nei tre anni dal 2016 al 2019 i passaggi da Pm a giudice sono stati 80 e quelli nella direzione opposta 41. Alla luce di episodi in cui pubblici ministeri spinti da un’impropria smania di protagonismo hanno anticipato contenuti e sviluppi di improbabili mega-inchieste, la disciplina del passaggio dall’una all’altra funzione andrebbe integrata da un periodo iniziale in cui il futuro pubblico possa acquisire una solida “cultura della giurisdizione”. Il giovane neo-magistrato che intende esercitare le funzioni di pubblico ministero dovrebbe inizialmente essere assegnato per un congruo periodo – due/tre anni – a una sezione collegiale del tribunale penale, svolgendo così funzioni di giudice e acquisendo consapevolezza dei limiti entro cui normalmente opera la funzione giurisdizionale, limitata a fatti concreti e specifici, sorretti da acquisizioni probatorie altrettanto concrete e specifiche. Tutto il contrario di colossali inchieste nei confronti di fenomeni criminali diffusi sul territorio o nei confronti di vaste categorie di potenziali futuri imputati, talvolta preannunciate da pubblici ministeri alla ricerca di pubblicità e consenso sociale e poi rivelatesi prive di sbocchi processuali. Processi di tale natura sono esistiti – basti pensare a Tangentopoli dei primi anni Novanta, al terrorismo e alla mafia – ma appartengono alla storia, e non è detto che possano riproporsi in termini analoghi. Dal momento che si parla di pubblici ministeri, la tragica e dolorosa vicenda della funivia del Mottarone merita un cenno anche sul terreno processuale. Qui abbiamo assistito dapprima alle improprie dichiarazioni della procuratrice della Repubblica di Verbania su tutti i possibili risvolti delle indagini in corso, che una volta erano coperte dal c.d. segreto istruttorio; poi – mentre pensavo di menzionare a titolo di lodevole confronto il silenzio della giudice per le indagini preliminari – quest’ultima non si è limitata a parlare con l’ordinanza che disponeva la scarcerazione dei tre indagati (trasformata per uno in arresti domiciliari), ma si è spesa in dichiarazioni e interviste critiche nei confronti della procuratrice della Repubblica che aveva disposto il fermo degli indiziati. Nell’occasione l’opinione pubblica è anche venuta a conoscenza che la giudice per le indagini preliminari non sarebbe più andata a prendere il caffè con la procuratrice della Repubblica. Guido Neppi Modona

La posizione ambigua del segretario Dem. Il grido di allarme di Bettini mentre Letta si trastulla con l’insensata bufala dell’impunitismo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Un uomo della esperienza e della qualità politica di Goffredo Bettini non può certamente pensare che il suo invito al Partito Democratico di “non lasciare alla destra populista” l’iniziativa referendaria targata Matteo Salvini, possa seriamente ricevere ascolto. Quella iniziativa è stata concepita ab origine come un appalto blindato alla Lega di Salvini, unico partito – per come saldamente e tradizionalmente strutturato sul territorio – obiettivamente in grado di raccogliere ben più delle 500mila firme necessarie nel volgere di poche giornate di mobilitazione estiva. Dalla scelta dei quesiti, alla loro elaborazione tecnica, alla organizzazione della imminente campagna di raccolta delle firme, la natura esclusiva dell’accordo Partito Radicale-Lega è sotto gli occhi di tutti. Salvini ha pubblicamente promesso un milione di firme, come evidente prova di forza -anche ed anzi soprattutto a destra- del suo movimento politico. Dunque è semplicemente impensabile che il Partito Democratico prenda in considerazione l’idea di una qualsivoglia comprimarietà, comunque declinata, e Bettini lo sa benissimo. Tutto ciò, tuttavia, non toglie nulla alla importanza ed al coraggio di quelle parole; le quali giungono, non credo casualmente, dopo la desolante dichiarazione del segretario del PD Enrico Letta. Questi, non sapendo come orientare il proprio partito sulla strada dell’abbandono della stagione populista e giustizialista a guida grillina intrapreso dalla Ministra Cartabia, spara a casaccio la raccapricciante alternativa tra giustizialismo ed “impunitismo”. Immaginavamo ormai definitivamente tramontata e consegnata ad un già lontano passato questa vieta abitudine politicista di eludere le scelte mediante il ricorso ad espedienti retorici frustri e vuoti. Qui poi siamo largamente al di sotto del già mediocre standard, chessò, di un “né con lo Stato né con le BR”, che i miei coetanei ricorderanno. Lì almeno i due corni del dilemma erano ben chiari, mentre – spiace per l’on Letta – impunitismo non significa un bel nulla. Nelle intenzioni del leader del PD, l’impunitismo parrebbe essere una sorta – per restare nel mondo delle parafrasi- di malattia infantile, ma forse, meglio, paracula, del garantismo. L’invocare il garantismo per assicurarsi l’impunità. Ora, premesso che non si comprende a chi esattamente l’on. Letta stia facendo riferimento (individui, partiti politici, consorterie, Berlusconi?) converrete con me che qualunque idea, anche la più nobile, può essere invocata strumentalmente, per fini che non appartengono alla idea invocata. Posso fare campagne ambientaliste per fare denaro con le mie imprese di energia alternativa, ma cosa ha a che fare questo con l’ambientalismo? L’alternativa secca, pur necessariamente depurata da eccessi di semplificazione, è tra chi, in tema di giustizia penale, pone al centro delle priorità la libertà ed i diritti della persona, e chi invece la potestà punitiva dello Stato. O altrimenti, se non sono stato chiaro, tra chi concepisce il diritto penale come statuto del reo, e chi come armamentario punitivo dello Stato. Sono due mondi diversi ed opposti, che si riflettono a loro volta sulla idea del processo penale: luogo di esclusiva valutazione della responsabilità personale per i primi, luogo di soluzione o comunque regolazione dei conflitti sociali (terrorismo, mafia, corruzione) per gli altri. Goffredo Bettini, non a caso figlio di un avvocato penalista, come sempre orgogliosamente rivendica, sa bene che la gran parte dei suoi compagni di strada e di militanza politica sentono il proprio cuore battere sul terreno dei secondi. E mentre il suo segretario si trastulla con questa insensata bufala dell’ “impunitismo”, lancia il suo grido di allarme. Si respira – tra mille incertezze e contraddizioni, intendiamoci – un’aria nuova nel Paese, davvero vogliamo rimanere impelagati – dice in sostanza Bettini – nelle sabbie mobili della idiosincrasia verso il garantismo di matrice liberale, e di quel rapporto ancillare con la Magistratura italiana che rende quasi impronunciabile la parola “separazione delle carriere”, cioè il sistema ordinamentale della magistratura più diffuso nel mondo democratico occidentale? Possiamo essere così ottusamente testardi nella difesa di questo nostro tradizionale posizionamento, da lasciare la nobile bandiera del garantismo liberale a quel furbacchione di Matteo Salvini, che ha appena finito di citofonare in favore di telecamera a casa di presunti spacciatori nordafricani ed ora, con grande fiuto politico, mette senza riserve la faccia ed il simbolo della Lega al fianco della storia referendaria radicale? Tutti i garantisti e gli autentici liberali di questo Paese devono dare il benvenuto a chiunque imbracci la bandiera delle libertà e del Diritto, a cominciare da Matteo Salvini, e senza interrogarsi sulle ragioni di quell’approdo. Ma gli amici del Partito Democratico farebbero bene a riflettere sulla sortita di Goffredo Bettini, che si colloca ben al di là della contingenza referendaria. Non sarebbe una buona idea quella di fingere di non averlo compreso. Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

E il Pd che dice: fare la lotta politica? Mai! La barzelletta della riforma del Csm della Cartabia: scandali Amara e Palamara ignorati, resta tutto com’è. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Probabilmente il Csm è irriformabile. Come lo era la Russia di Breznev. Le proposte presentate dalla commissione Luciani e – credo – accolte dalla ministra Cartabia sono inguardabili. Rispondono a un ordine preciso: “Giù le mani dal Csm: è roba nostra” . Ordine perentorio firmato dal partito dei Pm. La proposta di riforma non cambia assolutamente niente. Non scalfisce neppure, anzi probabilmente rafforza il potere delle correnti, non blocca le porte girevoli tra magistratura e politica, non affronta la questione della separazione delle carriere, rifiuta un ruolo agli avvocati nei consigli giudiziari, eccetera eccetera eccetera. Chiamarla riforma è una barzelletta. È stata esclusa persino la blanda proposta, che veniva dalla stessa magistratura e che trovava supporto persino nei 5 Stelle, dell’uso del sorteggio per selezionare i candidati al Csm. Io penso che il sorteggio avrebbe ridotto di pochissimo le capacità di controllo delle correnti, ma almeno sarebbe stato un piccolo passo, e comunque un segnale. Un modo per dire, magari anche ipocritamente: sì, ridurre lo strapotere delle lobby e delle correnti è giusto. Invece no: niente. Lo scandalo Palamara ormai sembra lontanissimo. E sembra piuttosto lontano anche il recente caso Amara. I giornali non ne parlano più. Fingono che non sia successo niente. Eppure qualcosa è successo. A me pare che praticamente nessuno abbia contestato la sostanza della denuncia di Palamara. Magari qualcuno ha da ridire su singoli episodi (anche se mi sembra che Palamara abbia in mano ampi riscontri a quel che racconta). Ma nessuno, direi, mette in discussione il fatto che un “Sistema” esiste, che è governato in parte dalle correnti e in parte, probabilmente, da Logge segrete, e che le carriere sono decise non sulla base delle doti o dei meriti dei magistrati ma dei rapporti di potere. Probabilmente anche molte sentenze sono determinate non dalla verità, o dalla ricerca della verità, ma da quei rapporti noti o inconfessabili che legano l’uno a l’altro un certo numero di Pm e giudici. Ebbene, c’è qualche giornale che fa campagna su queste cose? Nessuno. Ne hanno fatte tante, di campagne, quando qualche politico finiva in difficoltà, o era sospettabile, o veniva messo in mezzo da qualche magistrato. Ora che l’evidenza del degrado ai vertici della magistratura è del tutto evidente, i giornali tacciono. Voi sapete niente di che fine abbiano fatto le indagini sulla Loggia Ungheria? Esiste o no questa Loggia? Chi ne faceva parte? Che poteri aveva? L’avvocato Amara dice di avere molte carte in mano per dimostrare di aver detto la verità. Qualcuno sta indagando? Qualche organo di stampa se ne sta occupando? In questa situazione inquietante è arrivata questa proposta di riforma che è più una burla che altro. Ed è arrivata mentre anche nei partiti si sta accendendo una battaglia. Almeno così pare. Prima le dichiarazioni coraggiose di Luigi Di Maio, che ha rotto con anni di giustizialismo grillino, poi l’uscita importantissima di uno dei padri storici del Pd, Goffredo Bettini. Il quale ha invitato il suo partito a compiere dei passi seri in direzione dell’idea garantista, nella giustizia e nella politica. Bettini, annunciando il suo favore ai referendum indetti dai radicali, ha invocato un “cambio di cultura” da parte del Pd sui temi della giustizia. Il partito ha reagito molto freddamente. Letta, addirittura, ha alzato un muro. Ha detto, mi pare con un certo sdegno, che i referendum sono solo “un modo per fare lotta politica”. Lasciando intendere che questa della lotta politica è una pessima abitudine e che i partiti devono liberarsi di queste abitudini pericolose. Non sono fatti, i partiti, per i rischi della lotta politica. Che oltretutto prevede anche l’ipotesi della sconfitta. Letta ha zittito Bettini, spiegando che lui semplicemente sta dalla parte di Cartabia e di Draghi e quindi è contro i referendum. Nei giorni scorsi aveva polemizzato con gli “impunitisti”. Termine inventato da lui e che lascia intendere una idea della giustizia molto vicina a quelle del vecchio grillismo. Cioè la giustizia vista come un valore che si basa non sul pilastro del diritto ma su quello della punizione. Il Pd si accoccolerà vicino a Letta o accetterà il grido di battaglia di Bettini? E Bettini, che oggi appare fortissimamente isolato, avrà il coraggio di tirare dritto, o si rassegnerà? È una cosa molto importante. Se dopo le ubriacature di tangentopoli e l’inseguimento dei populisti, la sinistra troverà almeno un lumicino garantista, cambieranno parecchio i termini della lotta politica. E gli schieramenti. Si uscirà dal medioevo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 5 giugno 2021. In pratica non ha detto niente, e il clima, francamente, non pare pre-rivoluzionario. La Guardasigilli Marta Cartabia ha aperto la riunione con i capigruppo di maggioranza della Commissione Giustizia della Camera, dedicata come è noto alla riforma dell'ordinamento giudiziario e del Csm: ma per ora si è limitata a enunciazioni generiche e di buon proposito, del genere buono per una commemorazione o tranquillamente pronunciabile da qualsiasi ministro della Giustizia che l'abbia preceduta negli ultimi 25 anni. Il resto sono indiscrezioni, magari anche fondate: ma non paiono rivoluzionarie neanche quelle. La Cartabia ha detto che la riforma dev'essere «fondata sui capisaldi della Costituzione». Sì. Quindi su «indipendenza, esercizio imparziale ed efficienza, perché fiducia e credibilità nei magistrati sono obiettivi che non possiamo mancare». Certo. «Il dibattito pubblico e accademico da tempo è maturo». Come no, è maturo. Poi ha ricordato le parole che il Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha pronunciato il 23 maggio scorso a Palermo (bene) e ha sottolineato «l'esigenza che la magistratura operi sempre su solide basi di indipendenza, esigenza sempre più urgente negli ultimi anni per tante ragioni». Ineccepibile, e quindi? Quindi non mancheremo del dovere di cronaca se riassumeremo senza virgolettati il resto del discorso preformato: ha aggiunto che la riforma è necessaria anche per la credibilità dei magistrati, che qualcosa si é guastato tra magistratura e popolo, che la maggioranza dei togati è fatta di gente che si adopera con professionalità e riserbo, che i tempi lunghi però sono un problema, che anche Falcone diceva che autonomia e indipendenza se non sono coniugate con efficienza diventano privilegi di casta, e molte, parecchie altre ovvietà che fungano da premessa per comunicarci come accidenti vuole riformare tutto questo la signora Ministro. Ma non l'ha detto, non ancora. Forse spetterà ai tecnici della Commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani, forse occorre vedere che cosa rimarrà dei 400 emendamenti presentati in Commissione giustizia al disgraziato disegno Bonafede sulla prescrizione: dipende da essi, presentati via via dal Ministero al disegno di legge delega già in discussione a Montecitorio, il dettaglio di ogni cambiamento. Intanto filtrano notizie, e sono notizie che, anche se incanalate nella giusta direzione, paiono talvolta generiche. Si parla di criteri più rigorosi per le nomine dei magistrati (quindi non solo legate a giochi di corrente) ma del sorteggio per l'elezione dei componenti del Csm, per esempio, non si sente più parlare. Si parla di incompatibilità ambientali per i magistrati che rientrino in carica dopo una parentesi politica (ma già era in uso, anche se non codificata) con divieto per i magistrati di candidarsi nella circoscrizione in cui i magistrati hanno operato negli ultimi due anni, peraltro dopo un'aspettativa di 4 mesi: e se parlava da una vita. Però non c'è traccia neppure di una vera e propria separazione delle carriere tra pm e giudici: si ipotizza solo che il passaggio di funzioni tra giudicanti a requirenti non possa avvenire più di due volte in una vita. In tema di Csm, poi, tutti i magistrati potranno candidarsi con «singolo voto trasferibile» (tutta da spiegare) ma anche per questo occorrerà attendere la pubblicazione della relazione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani, che poi è colui ha elaborato le proposte degli emendamenti sopracitati. La riforma, tecnicamente, sarà una somma di emendamenti alla riforma Bonafede. I temi che dividono di più la maggioranza, da quanto inteso, sono le cosiddette «porte girevoli» (la troppo semplice possibilità che un magistrato che ha fatto politica possa rientrare a giudicare) e il mancato accenno a un qualsivoglia sistema del sorteggio per la legge elettorale del Csm. Il Movimento 5 stelle ed Azione sono contrari sulla prima questione, Forza Italia e la Lega sulla seconda. Questa parziale divisione potrebbe essere un cattivo segno (perché ci sarebbe poco su cui dividersi) o potrebbe viceversa significare che le vere carte, celate negli emendamenti, devono essere ancora calate. Qualche esponente di Forza Italia si è detto perplesso circa i metodi proposti (complicati da spiegare) per superare la scadenza differenziata dei componenti del Csm mentre altre fonti parlamentari riferiscono di una modifica costituzionale per far eleggere il vicepresidente del Csm dal presidente della Repubblica. Della prescrizione per ora non si è neppure accennato. Della riforma del processo civile, neanche. Però c'è stato un chiaro riferimento a un rafforzamento delle valutazioni di professionalità dei magistrati e a una responsabilizzazione dei dirigenti sul controllo di performance e attività: come? Non sappiamo. Così come non sappiamo - ne parlano in ambienti Pd - che cosa sarà dell'idea di un'Alta Corte della magistratura con funzioni disciplinari, da adottare con legge costituzionale. Insomma, siamo in piena fase interlocutoria e lo si evince anche dal fatto che nessuno si sta scannando. Non è corretto comunque dire che la montagna ha partorito un topolino: non è una montagna - sono emendamenti a una legge precedente, per quanto dirompenti possano essere - e nessuno ha partorito niente.

Magistratopoli e riforma della giustizia: la libera stampa alla scoperta dell’acqua calda. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Quanti giornalisti folgorati sulla via del garantismo. Che il vento stia cambiando, per il partito delle procure e dei manettari, lo si capisce da molte folgorazioni sulla via di Poggioreale o di San Vittore. Due delle più celebrate carceri italiane. Delle quali, per molti agitatori di cappi, dovevano essere gettate le chiavi per ogni semplice indagato eccellente dalle procure della repubblica. E non mi riferisco ovviamente solo a quella recentemente più celebrata del ministro degli esteri Luigi Di Maio. Che si é scusato per i linciaggi, mediatici e del suo partito, subiti dall’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti.  Che ora, dopo l’assoluzione in appello, definisce «grotteschi e disdicevoli». Nonostante per decenni sia stata la sorte, disdicevole e grottesca, di un’infinità di altri «presunti innocenti colpevoli fino a prova contraria». Come riportava il titolo di un articolo del Foglio del 23 aprile 2016. Mi riferisco anche alla folgorazione di tanti colleghi giornalisti. Che ovviamente si difendono dalle accuse di un forse un po’ tardivo ravvedimento operoso, ricordando che sono sempre obbligati ad «attaccare il ciuccio dove vuole il padrone». Che nel loro caso é l’editore. E non si può certo negare che vi siano stati editori che per decenni hanno «appaltato» di fatto il servizio di portavoce delle procure della repubblica. Alla faccia del «watch dog» che, secondo gli anglosassoni, dovrebbe essere il ruolo della stampa. Cioè del cane da guardia contro gli eccessi di ogni potere. Che in Italia, per almeno tre decenni, é stato solo uno che meritasse di essere considerato tale. Quello giudiziario. O meglio, quello della magistratura inquirente. Alla faccia di quanto insegnato da Monsieur Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu. Meglio noto semplicemente come Montesquieu. Che sanciva la moderna dottrina del «checks and balances», che significa controllo reciproco e contrappesi. Oltre alla loro più conosciuta separazione, tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Sparare contro la crocerossa, aiuta a soccorrere i (presunti) vincitori. Ogni giorno sembrano crescere i giornalisti folgorati da questo nuovo garantismo de noantri. Forse perché ispirati dal cambiamento del vento. Che soffia verso la riforma della giustizia «perché ce la chiede l’Europa». O forse semplicemente perché Salvini potrebbe guidare il Paese nei prossimi anni.  E non si sa mai. Un caso tra i tanti che sembra dimostrare questo cambiamento, quello di Milena Gabanelli. Una delle più accreditate giornaliste italiane d’inchiesta. Che solo qualche anno fa qualcuno voleva persino alla Presidenza della Repubblica. E che io ammirai per il suo schernirsi. Dicendo che era laureata al Dams di Bologna (in arte, musica e spettacolo) e non riteneva quindi di averne le qualità. Certamente un merito, in un Paese dove tutti si dicono capaci di fare tutto. Soprattutto di gestire la cosa pubblica. Anche quando non possono dimostrare di aver fatto qualcosa di serio nella loro vita. Arrivando a candidandosi persino alla guida del paese, pur non avendo mai gestito in vita propria nemmeno un condominio o una tabaccheria. Meglio tardi che mai. Ma dove stavate prima? Milena Gabanelli, assieme a Virginia Piccolillo, nella rubrica Dataroom del Corriere della Sera, giornale cui confesso essere ancora abbonato, nonostante la grande cautela con la quale ha trattato la magistratopoli scoperchiata dal «Palamaragate», il 30 maggio ha pubblicato un video servizio dal titolo : « Giudici, cosa succede quando sbagliano : magistratura, processi e carriere». Alla brava Gabanelli, e con essa anche al suo giornale, mi verrebbe da dire meglio tardi che mai. Mi viene però anche da chiedere, e più che a lei a tanti altri giornalisti cosiddetti investigativi e della cronaca giudiziaria: ma dove stavate negli ultimi trent’anni? Non certo in Italia. Perché quelle raccontate oggi da Gabanelli e Piccolillo sono cose che Stefano Liviadotti aveva denunciato nei dettagli, quasi tre lustri fa, nel libro edito da Bompiani, “Magistrati. L’ultracasta”. Spiegando le ragioni tecniche per le quali era impossibile (e penso ancora sia) una riforma della giustizia italiana che non sia unicamente leopardesca. Ed il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga in un celebre intervento telefonico in diretta durante una trasmissione di Sky Tg24 dello stesso periodo, non si limitò ad umiliare pubblicamente l’allora presidente dell’ANM Luca Palamara. Che definí «faccia di tonno». Ma arrivò persino a definire l’Associazione Nazionale Magistrati come un’“associazione sovversiva di tipo mafioso”. Parole di una gravità assoluta seguì dall’assordante silenzio della stragrande maggioranza dei media italiani. Come se a lanciare quella devastante pubblica accusa, che in altro paese europeo avrebbe meritato ben più che l’immediata apertura di un’inchiesta giudiziaria (che non ci fu, da quanto ne so), seguita dalla costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, non fosse stato un presidente della repubblica emerito. Che come tale era anche presidente emerito del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che un professore di diritto costituzionale. Ma uno dei tanti imbecilli che, secondo Umberto Eco, «prima dell’avvento dei social media, parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Perché venivano subito messi a tacere».

Leggetevi Stefano Livadiotti e riascoltate Francesco Cossiga. Negli ultimi tempi, sempre più «giornalisti coraggiosi» sembrano invece diventati bravi a dare lezioni sulle scandalose storture nella magistratura italiana.  Stracciandosi i capelli con l’italica vocazione a fare i primi della classe, incuranti di aver per anni marinato la scuola. Fingendo di chiudere le stalle quando sanno che i buoi sono già scappati. Fingendo soprattutto di non sapere che in questi ultimi decenni solo Piero Sansonetti, e davvero pochissimi altri (oltre a Cossiga e Livadiotti), hanno avuto il coraggio di dire e scrivere ciò che era invece sotto gli occhi di tutti. Quanto meno degli addetti ai lavori (politici, forze di polizia, giornalisti e anche avvocatura) che non avessero avuto il prosciutto sugli occhi. Che tanti si si sono messi con piacere.  Perché molto utile alla propria carriera. Ed é noto che in italia non c’é nessuno che non «tenga famiglia». Ma a chi ora sembra essere votato al soccorso dei presunti vincitori del garantismo vs giustizialismo, voglio dare un consiglio. Quello di leggersi il libro di Liviadiotti. Poi quello di Palamara-Sallusti. Senza dimenticare, prima di cedere alla italica tattica del correre sempre in aiuto dei vincitori, di leggere quello più recente, edito da Feltrinelli, a firma di un capo di gabinetto ministeriale, che ha voluto però restare anonimo. Dal titolo «Io sono il potere. Confessioni di un Capo Gabinetto». Capirá così non solo che la luna é gia stata scoperta da tempo. Al pari dell’acqua calda. Ma anche che l’arrivo della riforma della magistratura, nonostante un premier del livello di Mario Draghi ed i proclami di Matteo Salvini, é tutt’altro che cosa scontata. Almeno sinché il Ministero della Giustizia ed i gabinetti dei Ministri rimarranno in mano ai magistrati. Fuori ruolo, certo. Ma pur sempre magistrati. E forse opterà per la scelta del più prudente rifoderarsi gli occhi di prosciutto. Prima di farsi magari rifolgorare sulla via del giustizialismo manettaro. Perché il ciuccio, come noto, si deve sempre attaccare dove vuole il padrone e l’editore. O forse, semplicemente, dove si trova il proprio particulare.

DAGONOTA l'1 giugno 2021. Dopo l’orgia giustizialista di Mani pulite che ha alimentato il fuoco del populismo che covava sotto la brace di un sistema politico e istituzionale già in crisi d’identità, la credibilità del nostro sistema giudiziario e del suo organo di controllo (Csm) sono ai minimi storici. Un populismo al suo “tramonto” anche se sulla “Repubblica” Ezio Mauro nel registrarne la novità l’addebita alla caduta del leaderismo straccione di Berlusconi e Beppe Grillo. Ma il populismo è figlio anche delle forche innalzate a Montecitorio dalla Lega di Bossi e dall’attacco tout court ai partiti e alla sua Casta epicamente esaltate dai giornali dei poteri marci. I partner più affidabili del pool di Mani pulite il cui “eroe”, Antonio Di Pietro, era il più ruspante e acclamato dalla folla in quell’osceno circo mediatico-giudiziario. La patologia (grave) che ha colpito la giustizia italiana non riguarda soltanto la lentezza dei processi, le lotte tra correnti (o logge) ai suoi massimi vertici, le guerre interne alle procure e neppure gli errori nel mandare in galera gli innocenti prima di un regolare processo. Un sistema quest’ultimo tanto caro al Puffo della Valtellina, il manettaro Piercamillo Davigo. La questione riguarda soprattutto come l’opinione pubblica percepisce il funzionamento di un sistema giudiziario che - sia pure codice alla mano -, nello stesso giorno lascia libero Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci, e in corte d’Assise condanna per disastro ambientale gli ex padroni dell’Ilva (i Riva) a oltre 20 di galera. Cioè poco meno dei 25 anni scontati dal boss mafioso che sciolse, prima di collaborare con gli inquirenti, un bambino nell’acido. E se non bastasse, in queste stesse ore assistiamo a Verbania al braccio di ferro tra il procuratore che indaga sulla strage della funivia di Stresa (14 morti) e il giudice delle indagini preliminari. Il primo arresta i tre tecnici, tra essi un reo confesso che dice di aver manomesso l’impianto; il secondo lascia andare due indagati perché le accuse raccolte dal Pm sono soltanto delle “suggestioni”. Già, ma quali? La funivia del Mottarone è caduta per qualche fatalità o per il cavo spezzato a causa della cattiva manutenzione? E le povere vittime sono soltanto “suggestioni” di chi assiste all’ultimo atto che assomiglia a una farsa in toga? Ah saperlo…

Da ansa.it il 4 giugno 2021. "Questo della riforma dell'ordinamento è un capitolo molto atteso. Il dibattito pubblico e accademico da tempo è maturo e sicuramente i fatti di cronaca, che hanno riguardato la magistratura nei mesi più recenti, hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi in questo ambito". Lo ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la riunione con la maggioranza sulla riforma dell'ordinamento giudiziario e del Csm. "I temi dell'indipendenza della magistratura e del reale rispetto del rule of law stanno attraversando tutta l'Ue in contesti diversi; hanno da molto tempo preso la scena nel dibattito costituzionale e istituzionale nell'Ue. Contesti diversi, ma tutti mirano all'unico obiettivo che ci preoccupa di più: l' esigenza che la magistratura operi sempre, nei fatti e nella percezione dell'opinione pubblica, su solide basi di indipendenza.  Esigenza sempre più urgente negli ultimi anni per tante ragioni". Lo ha sottolineato la ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la riunione con la maggioranza sulla riforma del Csm. Alla riunione con la maggioranza la Ministra Marta Cartabia cita le parole del Presidente Mattarella dall'aula bunker di Palermo nell'anniversario della strage di Capaci e poi dice: "Le riforme che il Ministero ha chiesto sono finalizzate allo scopo così accoratamente espresso dal Presidente della Repubblica: fiducia e credibilità nei magistrati sono obiettivi, che non possiamo mancare. Questa la preoccupazione che mi anima più di tutto. Qualcosa si è guastato nel rapporto tra magistratura e popolo, nel cui popolo la magistratura esercita. Occorre urgentemente ricostruirlo".  

"Le polemiche all'interno della magistratura minano il prestigio e l'autorevolezza della Giustizia". Capaci, Mattarella celebra Falcone e colpisce magistratura: “Divisioni delle toghe minano la Giustizia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Maggio 2021. A 29 anni dalla strage di Capaci le celebrazioni nell’aula bunker del carcere Ucciardone a Palermo. Il ricordo, gli omaggi, le riflessioni nel ricordo della morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta. Era il 23 maggio del 1992 quando Giovanni Brusca premeva il pulsante che faceva saltare in aria il convoglio. L’attacco frontale della mafia stragista alla Repubblica Italiana. Che sarebbe stato replicato due mesi dopo a via D’Amelio, nell’attentato a Paolo Borsellino. “È sempre di grande significato ritrovarsi nel bunker, un luogo di grande valenza simbolica, dove lo Stato ha assestato importanti colpi alla mafia”, ha detto il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, intervenuto nel bunker. IL RICORDO – Le celebrazioni si sono aperte con l’Inno di Mameli eseguito dall’orchestra degli studenti del magistrale Regina Margherita nel porto di Palermo. Sulla banchina Maria Falcone, sorella del giudice, e il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Presenti nell’aula bunker il Presidente della Regione Nello Musumeci, il Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. La Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, accompagnata dal Capo della Polizia Lamberto Giannini, ha deposto una corona d’alloro alla Stele commemorativa di Capaci, sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, in ricordo vittime attentato del 23maggio 1992. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha ricordato la figura di Falcone osservando: “Ha insegnato che nella lotta alla mafia non basta perseguire il singolo reato; bisogna agire su tutte le articolazioni su cui si radica il potere della mafia. Quelle sociali, quelle economiche. Quelle che oltrepassano i confini nazionali”. MATTARELLA – “O si sta contro la mafia o si è complici, non ci sono alternative”, ha detto il capo dello Stato Mattarella. “La mafia esiste ancora, non è stata sconfitta. È necessario tenere sempre attenzione alta e vigile da parte dello Stato”. E quindi: “Sentimenti di contrapposizione, contese, polemiche all’interno della magistratura minano il prestigio e l’autorevolezza dell’organo giudiziario”, un passaggio anche sugli scandali, dal caso Palamara ai verbali della presunta loggia Ungheria, che stanno travolgendo la magistratura italiana. “La credibilità della magistratura e la capacita di riscuotere fiducia è imprenscindibile per lo svolgimento della vita della Repubblica: gli strumenti non mancano, si prosegua a fare luce su ombre e sospetti: si affrontino in maniera decisiva i progetti di riforma”. Mattarella parteciperà anche ad altre iniziative come l’inaugurazione del progetto “Spazi Capaci/Comunità Capaci”, voluto dalla Fondazione Falcone e dal Ministero dell’Istruzione: un piano di design sociale curato da Alessandro de Lisi e che ha il patrocinio della Polizia di Stato. Come riporta l’Ansa.it: “Spazi Capaci vuol far tornare a vivere le città attraverso le opere in un percorso sperimentale di “memoria 4.0” che, partendo da luoghi di Palermo simbolo della vitalità della lotta civile contro la mafia, compie un viaggio attraverso tutto il Paese. Un cammino lungo tre anni, col traguardo nel 2023, anno in cui ricorre il trentennale delle stragi di Firenze, Roma e Milano”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Magistratura, l'affondo di Filippo Facci: "Sergio Mattarella lo ha detto, i giornalisti lo hanno nascosto". Toghe da ribaltare. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. «Si affrontino sollecitamente i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione» (...) doveroso e prevedibile - che «la mafia esiste ancora e non è stata sconfitta», non ha detto soltanto che il sacrificio delle vittime «è impressionante, una lista interminabile», non si è soltanto spostato alla vicina caserma per deporre una corona di alloro dedicata al Reparto scorte, davanti alla lapide che ricorda gli agenti morti anche in via D'Amelio. Ieri, anche se i siti internet dei giornaloni tendevano a mimetizzarlo, in pratica Mattarella ha anche detto: avanti con la Riforma. Ha detto: ditemi dove devo firmare. Ha detto: ora o mai più, cambiamo questa magistratura e questa giustizia, io ci sono.

Brusco risveglio - Ma forse non occorre neanche tradurre, per una volta: il capo dello Stato ha parlato chiarissimo e ha usato anche parole dirette, per esempio queste: «La credibilità della magistratura è imprescindibile per la vita della Repubblica si affrontino con decisione i progetti di riforma». L'unica traduzione possibile, dunque, riguarda la sua posizione politica e la sua disposizione da Capo dello Stato: che non è restato imbrigliato dalla consuetudine formale di restare simbolico e discreto, dal non disturbare o dividere troppo come fecero invece altre anime addormentate che lo precedettero. Anzi: da peraltro Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Mattarella ha suonato le campane più alte affinché si accompagnino al brusco risveglio dell'intero «sistema» togato, Mattarella sta decisamente contribuendo a ridestarlo dal sarcofago in cui lo si credeva rinchiuso. Il Presidente ha detto, al primo ministro Mario Draghi e alla Guardasigilli Marta Cartabia, che non ci sono più limiti nel fare ciò che è necessario: e non ha parlato da sedi improbabili, non ha metaforizzato attraverso discorsi agli studenti o inaugurazioni o tagli di nastro. Il pulpito era la commemorazione dell'assassinio di Giovanni Falcone (e scorta) il quale fu ostracizzato, e ammazzato per metà, anche e proprio dalle divisioni correntizie della magistratura, e questo ancora pochi giorni prima che saltasse in aria: e a convergere nel boicottarlo furono correnti di sinistra come di destra, correnti di un potere malato che Falcone denunciò pubblicamente già dal 1988 e che confondeva la serietà con l'opacità, l'indipendenza con la sacralità, la libertà di espressione con una sbandierata faziosità. Ma qui torniamo a tradurre Sergio Mattarella, visto che non ci ha girato troppo attorno. «Anche il solo dubbio che la giustizia possa non essere esercitata solo in base alla legge provoca turbamento», traduzione: siamo turbati da almeno cinquant' anni. «Se la Magistratura perdesse credibilità, s' indebolirebbe anche la lotta al crimine e alla mafia», traduzione: la lotta al crimine si è indebolita. «La credibilità della magistratura e la sua capacità di riscuotere fiducia sono imprescindibili per il funzionamento del sistema costituzionale», o anche «si affrontino sollecitamente i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione», traduzione: cari magistrati, o cambiamo la Costituzione o cambiate voi. «Gli strumenti non mancano, si prosegua rapidi e con rigore a far luce su dubbi, sospetti e responsabilità», traduzione: cari Mario Draghi e Marta Cartabia, le riforme vanno controfirmate dal Capo dello Stato, e il Capo dello Stato sono io, eccomi.

Freno allo sviluppo - Insomma, due giorni fa l’ha scritto Libero e in altre parole l’ha detto il Presidente della Repubblica: confidiamo che almeno uno dei due parli chiaro. La Giustizia è «il» problema di questo Paese perché racchiude tutti gli altri problemi. L’ingiustizia, nelle sue varie forme, non fa soltanto una rabbia terribile: è anche un freno allo sviluppo e alla ripresa di un Paese in ginocchio. Se non finisce un certo «sistema», oltretutto non condiviso da una maggioranza silenziosa di magistrati onesti, finisce questo Paese. Sergio Mattarella non ha usato proprio queste parole, ma ci è andato molto vicino.

E nel silenzio generale crollò un potere dello Stato. Alessandro Gnocchi il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Le toghe escono delegittimate dalle notizie di cronaca di queste settimane. Ecco da dove nasce il caos. Il potere giudiziario cade in una crisi devastante nel silenzio completo degli intellettuali, impegnati in battaglie al confronto marginali, dalle eterne litanie contro il fascismo (in assenza di fascismo) alle eterne litanie contro il razzismo (in assenza di razzismo) passando per le eterne litanie in favore dell'immigrazione senza chiedersi a chi giovi il traffico di carne umana tra le coste africane e le nostre. Poi ci sono stati altri casi «importanti», tipo le dichiarazioni di Fedez e altri personaggi di pari livello. Eppure una riflessione su cosa significhino i fatti di cronaca di queste settimane sembra indispensabile. Le toghe soffrono di una emorragia mortale di credibilità, come mai? È conseguenza del legame troppo stretto con la politica, come suggerisce uno dei bestseller di questi mesi, Il sistema (Rizzoli) di Alessandro Sallusti e Luca Palamara? E questo legame da dove arriva: sarà forse la conseguenza della lunga marcia nelle istituzioni teorizzata dalla sinistra comunista a partire da Palmiro Togliatti o è un retaggio della partitocrazia? Mani Pulite è stato un vero lavacro o un regolamento di conti politico realizzato attraverso le inchieste? Oltre a questo, che non è poco, manca anche una seria riflessione sul diritto. Qualcosa, dai tempi di Tangentopoli, è cambiato nelle garanzie per il cittadino. Ma una riflessione deve toccare anche l'uso spregiudicato di misure amministrative, come i dpcm, utilizzate per limitare diritti fondamentali del cittadino, come la libertà di movimento. Anche in questo caso, non c'è stato dibattito, nonostante alcuni prestigiosi costituzionalisti abbiano palesato forti dubbi sulle procedure adottate dal governo Conte. L'implosione della magistratura è dunque il tema portante delle pagine che seguono. Stefano Zurlo lo affronterà dal punto di vista storico, Carlo Lottieri si concentrerà su quanto sia cambiata la visione ordinaria del diritto. Una ampia bibliografia, non solo di saggistica, è stata preparata da Matteo Sacchi.

Magistratura, il sondaggio di Nando Pagnoncelli: in Italia sfiducia-record per i giudici. Libero Quotidiano il 15 maggio 2021. La vicenda sui verbali riguardanti l'avvocato Piero Amara che coinvolge alcuni magistrati della procura di Milano ed esponenti del Csm in conflitto tra loro sulla scelta di procedere o meno in un filone d'indagine su una presunta loggia massonica nella quale sarebbero coinvolti magistrati e uomini delle istituzioni è l'ultimo capitolo di una vicenda che vede gli italiani sempre più sfiduciati dell'operato della magistratura. Quest'ultima vicenda, quella della Loggia Ungheria rivela Nando Pagnoncelli, e stata seguita con attenzione da meno di un italiano su dieci, a cui si aggiunge il 27% che ha letto o ascoltato qualche notizia e il 22% che dichiara di averne sentito vagamente parlare, mentre il 42% ignora completamente la questione. Anche il caso di Luca Palamara, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm, è stata seguito con attenzione solo dal 14% degli italiani mentre il 32% la ignora e il 54% ne ha solo sentito parlare. Secondo il 45% degli italiani i due casi mettono in luce l'esistenza di comportamenti molto gravi (illeciti o corruzione) tra i magistrati, mentre il 20% è del parere che evidenzino l'elevata conflittualità esistente tra i vertici della magistratura e il 35% non ha un'opinione in proposito. Quanto alla fiducia nella magistratura, oggi quasi un italiano su due (49%) dichiara di non averne, contro il 39% che si esprime positivamente e il 12% che sospende il giudizio. Decisamente meno fiduciosi sono gli elettori del centrodestra: la sfiducia viene espressa dal 71% degli elettori di FdI, dal 64% dei leghisti e dal 53% degli elettori di FI. L'aspetto che più colpisce, rivela sempre Pagnoncelli sul Corriere della Sera, è il vero e proprio crollo di credito registrato in 11 anni, passando dal 68% di fiducia nel maggio 2010 al 39% di oggi. La maggioranza attribuisce il calo di fiducia ai tempi lunghi della giustizia (24%), alla presenza di magistrati politicizzati (18%) o corrotti (17%), oppure a sentenze discutibili (16%), mentre solo il 10% ritiene che ci sia una campagna denigratoria nei confronti dei magistrati. 

Serve una riforma che assomigli molto a una rivoluzione. Strapotere magistratura e politica ferma: referendum unica soluzione, i 12 temi caldi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Maggio 2021. Lo spettacolo dei magistrati in Tv che si insultano tra di loro, si sfidano, se le danno di santa ragione, si minacciano, è stato, francamente, uno spettacolo penosissimo. Mi riferisco alla trasmissione di Formigli su La7 dell’altra sera. Francamente non credo che esistano molti altri paesi al mondo nei quali la magistratura si comporta così e offre di sé questo spettacolo da osteria. Ricordo che fino a qualche mese fa molti giuristi, molti magistrati, anche molti politici, parlavano della necessità che la magistratura procedesse alla sua autoriforma. Lo stesso presidente Mattarella, quando il caso Palamara era appena agli inizi, rivolse al Csm un richiamo secco: spingete per una autoriforma – disse – perché la credibilità della magistratura sta scemando.

A forza di scemare questa credibilità è scomparsa. Oggi è zero. Credo che nessun giurista e neppure nessun magistrato oserebbe più proporre una autoriforma. Due cose sono molto chiare a chiunque sia in buona fede. La prima è che per riformare la magistratura occorre un intervento esterno. La seconda è che questa riforma deve prevedere la fine della incontrollabilità del potere della magistratura. Se questo non avviene, si creerà una situazione di distacco irreparabile tra magistratura e paese. Cioè ci verremmo a trovare in una situazione nella quale le persone raziocinanti non hanno nessuna fiducia nella magistratura, ne rifiutano l’autorevolezza, ne negano l’imparzialità. Probabilmente già siamo in questa situazione. I sondaggi dicono che la maggioranza dei cittadini non crede alla giustizia. Cosa vuol dire, questo? Può un paese democratico vivere in una condizione nella quale chi amministra la giustizia è considerato un prepotente e un fuorilegge? Può una democrazia resistere a lungo in una condizione di questo genere, fuori dallo Stato di diritto e fuori dalla stessa legittimazione popolare? Fino a qualche anno fa la situazione era diversa. In realtà non era molto diversa la magistratura, che comunque da mezzo secolo vive aumentando sempre di più il proprio potere e mantenendolo al riparo da qualunque controllo esterno. E dunque vive amministrando le sue capacità di oppressione e di sopraffazione. Era molto diverso però il rapporto con l’opinione pubblica che, guidata dai grandi giornali e dalle grandi Tv, nutriva una fiducia molto alta verso l’Istituzione magistratura. Vivevamo questa contraddizione: una magistratura in gran parte fuori dallo Stato di diritto ma coperta dal sostegno popolare. Ora il sostegno popolare non esiste più, e questo determina la crisi irreversibile. Intendiamoci bene: quando si scrivono queste cose non si sostiene che in Italia esiste una categoria di persone, i magistrati, costituita da puri e semplici mascalzoni. No. Il numero dei magistrati onesti e che non abusano del proprio potere è probabilmente più grande del numero dei malfattori. Il problema è che la gran parte dei malfattori è insediato al vertice della magistratura, la forgia, la guida, la comanda, e comanda sui giornali e sui mass media, e ha messo fuori gioco tutti gli altri poteri. Questo non succede in nessun altro paese del mondo. La prima riforma da fare deve consistere nel togliere alla magistratura il potere di essere fuori da qualunque controllo democratico. Questo vuol dire colpirne l’indipendenza? No, se l’indipendenza alla quale si tiene è l’indipendenza del magistrato e in particolare del giudice. Oggi questa indipendenza è messa in discussione dallo strapotere delle correnti e delle cosche. Non dalle intrusioni di altri poteri. I quali invece sono inginocchiati. L’indipendenza dei magistrati si conquista solo mettendo i magistrati al riparo dalle sopraffazioni delle gerarchie e delle camarille.

Il referendum e i 12 temi forti. Chi le può fare queste riforme? La politica non ce la fa. Lo dimostra il fatto che il Parlamento non è capace neppure di varare una commissione di inchiesta sulla magistratura. Non la vara perché teme di offendere lorsignori e sa che è pericoloso. E allora c’è un’unica soluzione: i referendum. L’altra sera Matteo Salvini ha annunciato che la Lega è pronta ad appoggiare i radicali e a raccogliere le firme per i referendum. Per quel che mi riguarda è la prima cosa buona che dice o fa Salvini da molti anni… Bene, è una grande novità. I referendum annunciati, finora, sono otto: responsabilità civile dei magistrati, Csm, Magistrati fuori ruolo, custodia cautelare, separazione delle carriere, Trojan, legge Severino, Valutazione professionale delle carriere. Sono otto temi forti. Soprattutto, credo, la separazione, la responsabilità civile e la custodia cautelare. Manca qualcosa. Mi pare che ne manchino almeno altri quattro: prescrizione, ergastolo, 41 bis, reato di clandestinità. Su alcuni di questi temi è tecnicamente molto difficile costruire un quesito referendario. Però i temi sono questi. Alcuni dei referendum supplementari che ho indicato non piacciono alla Lega. Salvini però farebbe un bel gesto se aiutasse la raccolta delle firme anche su referendum che non condivide. Solo per concedere la parola al popolo. E farebbero bene ad aggregarsi anche gli altri partiti democratici. Soprattutto il Pd (Forza Italia la do per scontata). Che avrebbe la sua grande occasione per staccarsi dai 5 Stelle, recuperare uno spessore liberale e socialista, e ripartire, rinascere. La storia dei referendum è una storia molto controversa nella politica italiana. Ha avuto momenti altissimi, soprattutto negli anni Settanta, quando i quesiti furono usati da Marco Pannella – che era alla guida di un partito piccolissimo – come una leva che moltiplicava per mille la sua forza politica e la sua capacità di scassare gli schemi precostituiti. Poi hanno avuto lunghi momenti di appannamento, hanno perso mordente, non funzionavano più. Pannella, attraverso i referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1978) non solo produsse dei cambiamenti profondissimi nella legislazione e nel costume di questo paese. Ma riuscì a modificare persino gli assetti ideologici dei grandi partiti. In particolare della Democrazia cristiana, che vide ampi settori del suo elettorato spostarsi su posizioni moderne e distaccarsi dai meccanismi del bigottismo. E del Partito comunista, che ruppe con il proprio conservatorismo e fece i conti, finalmente, coi diritti civili e con la necessità di non considerarli quasi dei nemici dei diritti sociali. Persino il Vaticano fu scosso dalla ventata modernizzatrice. Il grimaldello dei referendum consegnò a Pannella un peso politico, in quel decennio, infinitamente superiore al suo peso elettorale. I referendum furono usati ancora da Pannella negli anni 80. Il referendum più importante fu proprio quello sulla giustizia del 1987. Si chiamava il referendum-Tortora, perché nacque dalla via crucis che gli errori dei magistrati avevano imposto a uno dei più famosi personaggi della televisione. Il referendum fu vinto da Pannella e dai socialisti che lo sostenevano (e che erano al governo, anzi, detenevano per la prima volta la Presidenza del Consiglio). E impose la responsabilità civile per i magistrati. Per la verità non la impose, la scelse, ma poi la politica trovò il modo per varare una legge che di fatto annullava il risultato del referendum. Poi con gli anni il referendum perse forza, anche perché molti partiti iniziarono a usare il “freno” dell’astensione. Una specie di “trucco”. Che consisteva in questo: la legge prevede che un referendum sia valido solo se vota almeno la metà degli elettori. Siccome è fisiologica l’astensione del 25, 30 per cento dell’elettorato, ai partiti contrari al referendum era sufficiente dire ai propri elettori di non andare a votare. E così con il 20 o 25 per cento degli elettori, che si aggiungevano agli astenuti fisiologici, si vinceva il referendum. L’unica significativa eccezione fu il referendum elettorale del 1993, che rase al suolo la Prima repubblica. Promosso da Mario Segni. Stavolta l’attenzione dell’opinione pubblica per la giustizia è così alta, che davvero è improbabile che non si raggiunga il quorum. Vale la pena. Penso che a Pannella sarebbe piaciuto questo referendum. Magari i magistrati non saranno contenti, ma mica si possono accontentare tutti, no?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Se Gandhi incontra Alberto da Giussano. La riforma della giustizia di Salvini? Chiesta dai giustizialisti leghisti non convince. Roberto Rampi su Il Riformista il 3 Giugno 2021. Nella mia convinta e attiva partecipazione al Partito Radicale Transnazionale Trasparito e a quella che un tempo si chiamava “Galassia Radicale” in tutte le sue forme e, a maggior ragione, dopo l’onore di essere stato chiamato a partecipare al Consiglio Generale del Partito, ho sempre messo in conto e praticato, facendone un elemento caratteristico della mia storia personale e politica anche precedentemente e indipendentemente a quella radicale, il dialogo, il confronto e l’incontro con tutti. E sono assolutamente convinto sostenitore e difensore di quella pratica radicale profondamente e intimamente liberale e democratica che ritiene che si possa fare un pezzo di strada insieme con chiunque quando il cammino si incrocia e l’obbiettivo e la meta sono comuni e che non esistono in politica nemici, nemmeno avversari e men che men diavoli con cui non si può spartire nulla, ma invece vivano idee diverse con cui confrontarsi e rafforzarsi. Ero ragazzo quando difendevo la scelta, contestata da molti, di Marco Pannella di percorrere un importante tratto di strada insieme con l’allora innominabile Silvio Berlusconi, oppure quando decise l’operazione del gruppo tecnico al Parlamento Europeo pur di garantire spazi di partecipazione e di discussione persino con Le Pen padre. Tuttavia non mi convince la possibilità di raggiungere un obiettivo fondamentale come quello della Riforma della Giustizia insieme alla Lega e, in particolare, alla Lega di Matteo Salvini. In un rapporto esclusivo, non occasionale e dichiaratamente strategico per la “costruzione di una nuova classe dirigente”. Non è la Lega che mi preoccupa e tanto meno i singoli esponenti con cui capita quotidianamente di condividere pezzi di strada. Ad esempio, nelle battaglie per i diritti umani in Cina e Tibet (ma non in Russia, sic.). Non mi stupirebbe un cammino comune strategico, ad esempio su aspetti che riguardano le politiche economiche, la fiscalità, la piccola media impresa, l’approccio allo Stato. Ma su giustizia e carceri occorre ricordare che la Lega nasce e fiorisce nei consensi proprio sull’onda emotiva e anti politica degli anni ’90, detiene tutt’ora il non invidiabile primato di aver portato il cappio nelle aule parlamentari, ha coltivato il giustizialismo, la detenzione definitiva, il braccio violento della legge come caratteristica fondante e non occasionale della sua identità. La Lega di Salvini, poi, rinasce accentuando queste sue caratteristiche per l’oggi e per il domani e inquadrandole in un progetto sovranazionale di Nuova Destra Europea che incrocia i campioni delle nuove democrature ungheresi e polacche. Quella Polonia che fa della frattura dell’equilibrio tra i poteri dello stato e dell’attacco frontale ai giudici e alla loro indipendenza il fronte più avanzato di un modello che risuona nelle motivazioni di Salvini anche nel momento del lancio quella campagna referendaria. Non si tratta, purtroppo, di ricostruire un equilibrio spezzato, di dare valore all’intuizione costituzionale di una giustizia ripartiva, lontana da ogni forma di vendetta. Come possono coesistere la concezione giudiziaria di chi è per sbattere in carcere e gettare via le chiavi, di chi giustifica i pestaggi in carcere, di chi si scandalizza ogni volta che viene applicato un istituto di garanzia, di pena alternativa, di clemenza, di chi considera abominio la parola amnistia, di chi mimava il gesto delle manette nei giorni successivi l’arresto di Simone Uggetti, con il modello e le battaglie che solo in casa Radicale si sono potute praticare in tutti questi anni. Non mi scandalizzo. Non mi preoccupo, ma ne occupo. Credo che le finalità siano profondamente diverse. Sono pronto a ricredermi. Non siamo una caserma e non lo siamo mai stati, le idee possono convivere, nel confronto e nel dibattito, anche quando si raggiunge il massimo della distanza, avendo ben chiari invece i tanti momenti di massima vicinanza. Sarò felice se Gandhi riuscirà a far riporre lo spadone ad Alberto da Giussano, ma penso che su questo cammino i sentieri siano profondamente diversi e nemmeno si trovino nello stesso bosco, ma su pianeti caratterizzati da differenti ecosistemi. Roberto Rampi

La riforma del Csm e la proposta dei penalisti. Il Paese è in mano ai Pm, i giudici non ci sono più…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Maggio 2021. Cresce nella consapevolezza della pubblica opinione e dello stesso ceto politico l’idea che nessuna seria riforma dell’ordinamento giudiziario potrà prescindere dalla necessità di garantire, ai cittadini ed alla giurisdizione, la effettiva terzietà del Giudice. Lo vuole la Costituzione, lo vuole la logica del giusto processo, lo vuole il buon senso. Un giudice terzo, equidistante dalle parti processuali –Accusa e Difesa– poste in condizioni di parità. La c.d. “vicenda Palamara” ha reso chiara alla pubblica opinione soprattutto una cosa, e cioè che gli Uffici di Procura, nel nostro Paese, hanno assunto una dimensione politica del tutto impropria, letteralmente devastante per l’indispensabile equilibrio tra i poteri dello Stato. Non “la Magistratura”, come genericamente si tende a dire, bensì, per l’esattezza, gli Uffici di Procura. Che diventano perciò terreno di contaminazione e di scontro con il potere politico, giacché i primi -gli uffici di Procura- hanno da tempo definitivamente assunto la forza di determinare le sorti di quest’ultimo, a livello sia locale che nazionale. Quando un potere esonda dal proprio alveo costituzionale, occorre chiedersi responsabilmente quale sia il meccanismo regolatore che è saltato, che è venuto meno, così consentendo quella esondazione. E qui non ci sono dubbi sulla risposta: è il Giudice ad essere venuto meno. Cioè, per essere più precisi, il controllo giurisdizionale sui poteri di indagine e sull’esercizio dell’azione penale. Forse continua a sfuggire ai più che intercettazioni telefoniche, misure cautelari, sequestri, misure di prevenzione patrimoniali, rinvii a giudizio – cioè i provvedimenti che più impattano sul cittadino indagato- possono essere solo richiesti dai Pubblici Ministeri. Chi li dispone (o li convalida) è un Giudice, il cui compito è proprio quello di vagliare la fondatezza e la legittimità di quelle richieste. Così come si continua ad ignorare – per dirne un’altra- che la durata delle indagini, altro tema caldissimo, è (sarebbe) rimessa al Giudice, che ne autorizza la proroga solo quando motivatamente richiesta dal Pubblico Ministero. E potremmo continuare. Funziona nella realtà questo controllo? Niente affatto. Il GIP che nega al PM l’autorizzazione alla installazione di un trojan o la custodia cautelare dell’indagato è l’eccezione. Non a caso da anni chiediamo un dato statistico che invece nessuno vuole rendere pubblico: la percentuale di accoglimento da parte dei GIP delle richieste (cautelari, intercettative) dei P.M. E sapete quale è la percentuale di accoglimento delle richieste di proroga delle indagini avanzate dai P.M.? Pressoché il cento per cento. E di rinvii a giudizio da parte dei GUP? 97%. Dunque, è la terzietà del Giudice, soprattutto del Giudice designato al controllo giurisdizionale delle indagini e dell’esercizio dell’azione penale, il cuore del problema. E c’è un solo modo per assicurare questa terzietà: separando le carriere di Giudici e PP.MM., separando i CSM, separandone reclutamento, formazione e se possibile gli stessi organismi di rappresentanza associativa. L’idea che la terzietà del giudice possa essere garantita dalla famosa “cultura della giurisdizione” ha dato i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: un Paese, le sue istituzioni politiche e la sua economia, totalmente nelle mani degli Uffici di Procura. Ora, vediamo moltiplicarsi iniziative politiche e parlamentari di vario segno che invocano a chiare lettere la necessità di questa riforma, chi proponendo interessanti emendamenti perfino alla riforma del concorso in magistratura, chi preannunciando referendum abrogativi. Di questi ultimi nulla sappiamo, valuteremo leggendone il testo; ma siamo da tempo consapevoli che la strada della legge ordinaria, per di più attraverso lo strumento non agevole della abrogazione parziale di leggi vigenti, nasce inesorabilmente come un’anatra zoppa. È invece in Parlamento da tempo -ora di nuovo in Commissione affari costituzionali, addirittura dopo uno storico approdo in Aula- la proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere presentata dall’Unione Camere Penali insieme a 75mila cittadini italiani. È una proposta di legge di riforma costituzionale, perché è bene si sappia che è quella la strada maestra per realizzare davvero, in modo compiuto e strutturato, questa ormai indispensabile riforma. Tutto il resto potrà approdare, nella migliore delle ipotesi, ad una separazione delle funzioni, già dimostratasi un inadeguato pannicello caldo. Quella proposta di legge prevede due concorsi, e soprattutto due Consigli Superiori, nonché la modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale con affidamento al Parlamento delle scelte di priorità del suo esercizio. È quella la strada maestra, già segnata da un significativo consenso popolare e già arricchita di un lungo approfondimento parlamentare. Senza nulla togliere alla bontà di ogni altra iniziativa, sarebbe il caso di chiedersi se non valga la pena innanzitutto puntare su una forte ripresa del dibattito parlamentare intorno a quella proposta di legge. 75mila cittadini italiani, insieme ai penalisti italiani, attendono una risposta.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane

La riforma del Csm. Tutti i magistrati promossi, l’Unione Camere Penali: “Cambiamo chi valuta le toghe”. Angela Stella su Il Riformista il 21 Maggio 2021. Cambiare i valutatori per cambiare le valutazioni di professionalità dei magistrati, affiancando l’avvocatura e l’Accademia alla magistratura, spezzando così il potere delle correnti: è questo il cuore delle proposte in tema di riforma dell’Ordinamento giudiziario e del Csm che ieri l’Unione Camere Penali Italiane ha presentato durante una conferenza stampa alla Camera. Il Presidente Gian Domenico Caiazza e l’avvocato Rinaldo Romanelli, responsabile dell’Osservatorio Ordinamento Giudiziario dell’Ucpi, hanno illustrato gli emendamenti al testo Bonafede già inviati alla Ministra Cartabia, ai sottosegretari di Stato alla Giustizia, e ai capigruppo della Commissione Giustizia. «Si tratta di punti nodali indispensabili – ha detto Caiazza – per una riforma strutturale dell’ordinamento, a partire dalla responsabilità professionale dei magistrati». Fino ad ora, con valutazioni positive al 98%, il criterio per vedersi assegnato un incarico semi-direttivo o direttivo non è stato il merito ma l’appartenenza alla corrente più forte. E allora l’Ucpi chiede di modificare il sistema, con particolare attenzione agli organismi direttivi: «Si pensi al Consiglio Direttivo della Cassazione, dove si è proposto il dimezzamento del numero dei Magistrati, prevedendo che lo stesso, […], sia composto da 3 Magistrati giudicanti, da un requirente e da un Avvocato (che riequilibrerebbe la presenza del requirente) e due rappresentanti dell’Accademia». Con lo stesso spirito si propone la rimodulazione dei Consigli Giudiziari, i mini Csm distrettuali, «accordando anche ai non togati una inevitabile pienezza dei poteri». Ma le modifiche centrali riguardano appunto le valutazioni che con l’attuale sistema non permettono di promuovere i migliori. Per una reale differenziazione di soggetti meritevoli di avanzamenti di carriera «si è immaginato di aggiungere ai tre giudizi attualmente esistenti (positivo, non positivo e negativo), un quarto “più che positivo”, con l’introduzione di voti». Inoltre, «si è ritenuta ineludibile un’incidenza sulla valutazione di professionalità della “tenuta” delle proprie attività nelle fasi e nei gradi successivi». Come ha detto l’avvocato Romanelli «se un giudice monocratico emette 200 sentenze all’anno e di queste 180 vengono riformate in appello dobbiamo porci delle domande sulle sue capacità». Altro «importante snodo è rappresentato dalla Scuola della Magistratura, che si è voluta aprire alla formazione condivisa con l’Avvocatura, in modo da costruire una “palestra intellettuale” efficace e condivisa». Per quanto concerne l’ingresso in Magistratura, «si è esclusa la possibilità di accedere al concorso con la sola laurea, prevedendo altresì, in aggiunta a quello ordinario, un reclutamento laterale per concorso di due differenti fasce di Avvocati con almeno otto e sedici anni di esercizio della professione», come già avviene similmente in Francia. Poi, con riguardo al problema del ricollocamento di magistrati che si sono candidati o che sono stati eletti in qualche elezione politica si è prevista «la necessità di rendere più rigidi i paletti per il reintegro nelle file della Magistratura, prevedendone anche un distacco presso ruoli ministeriali». Per contenere poi «il ruolo di “quarta Camera” ormai sempre più diffuso, si è esclusa la possibilità per il Csm di rendere pareri sui ddl e di attribuirsi competenze che non siano esplicitamente previste per legge; prevedendo anche, per contenere le spartizioni fra correnti del Consiglio, una modifica della composizione della Segreteria e dell’Ufficio studi del Csm», quelli che appunto preparano i fascicoli per le valutazioni dei magistrati. Angela Stella

Lo trapotere delle procure. Perché non serve la separazione delle carriere tra Pm e giudici. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Su Il Riformista di ieri l’avv. Valerio Spigarelli ha censurato gli eccessi mediatici di molti, troppi pubblici ministeri, che tendono a considerare il processo come uno strumento di difesa sociale e a ricercare un vasto consenso comunicando gli elementi di accusa già raccolti nel corso delle indagini, talvolta mediante vere e proprie conferenze stampa. Questi comportamenti non solo inducono nell’opinione pubblica la convinzione della colpevolezza delle persone indagate, ma possono anche influenzare le stesse posizioni dei giudici chiamati a valutare nel corso del procedimento le richieste del pubblico ministero. Tra le misure volte a contenere il gigantismo e lo strapotere delle procure viene menzionata la separazione delle carriere di giudice e di pubblico ministero, ponendo così in una posizione di assoluta parità di fronte al giudice le posizioni dell’accusa e della difesa. Non credo che il rimedio proposto sia facilmente realizzabile, in primo luogo perché richiederebbe profonde modifiche del Titolo IV della Costituzione, dedicato appunto alla magistratura e contenente principi e regole che si riferiscono indifferentemente a tutti i magistrati, siano essi giudici o pubblici ministeri. Temo inoltre che il rimedio non sarebbe risolutivo; al contrario, potrebbe acuire gli eccessi mediatici degli uffici del pubblico ministero. Più semplicemente bisognerebbe riuscire a correggere l’attuale cultura di troppi pubblici ministeri che attraverso la divulgazione di informazioni e anticipazioni sulle loro indagini mirano ad acquisire un vasto consenso sociale. Il primo passo per raggiungere questo obiettivo non richiede rilevanti modifiche dell’ordinamento giudiziario: l’attività di pubblico ministero non dovrebbe essere affidata a magistrati di prima nomina, ma preceduta per un congruo periodo dalle funzioni di giudice in un organo collegiale quale una sezione penale del tribunale penale. Al suo ingresso in carriera il giovane magistrato acquisirebbe così la cultura della giurisdizione, che tra l’altro comporta che il giudice parli solo attraverso i suoi provvedimenti. Un giudice – sia esso quello dell’udienza preliminare o del dibattimento – non parla con i giornalisti e non convoca conferenze stampa, decide e poi a scrive la sentenza, senza anticipare o commentare la sua decisione. Sulla base di queste premesse, quando sarà chiamato a volgere le funzioni di pubblico ministero il giovane magistrato si limiterà nei rapporti con la stampa a trasmettere le notizie indispensabili per rispettare il diritto di cronaca giudiziaria e il diritto dell’opinione pubblica di essere informata. Questo è il primo vantaggio per un pubblico ministero sensibile alla cultura della giurisdizione, ma non è il solo. Chi prima di svolgere le funzioni di pubblico ministero è stato giudice del dibattimento è in grado di conoscere, per averne fatto esperienza diretta, quali sono gli elementi utili per la decisione. Ne trae vantaggio sia il giudice del dibattimento, che troverà nelle indagini svolte dal pubblico ministero tutti gli elementi necessari, sia l’ufficio del pubblico ministero, che si limiterà a raccogliere gli elementi utili per la decisione, con evidente economia per le risorse dell’ufficio. Ho avuto occasione negli anni in cui sono stato magistrato – dal 1963 al 1975 – di svolgere prima attività di sostituto procuratore e poi di giudice del dibattimento in una sezione del tribunale penale. Ho avuto la fortuna di occuparmi di vicende di grande rilievo e ne ho un ricordo entusiasmante, ma ora posso dire che se fossi stato prima giudice avrei svolto in maniera più funzionale l’attività di pubblico ministero, raccogliendo solo gli elementi necessari per la decisione del giudice. Quanto ai media, in quegli anni il pubblico ministero non aveva rapporti abituali con la stampa, ma credo che ora se il giovane magistrato svolgesse inizialmente per qualche anno attività di giudice sarebbe poi come pubblico ministero molto più contenuto e riservato parlando con i giornalisti, nel rispetto comunque del diritto di cronaca e del diritto all’informazione sulle vicende giudiziarie. Guido Neppi Modona

La Norimberga delle toghe non serve, serve la separazione delle carriere…. Davvero qualcuno pensa di risolvere la deriva della nostra magistratura mettendo sul banco degli imputati la magistratura? Serve una riforma radicale della Giustizia: separazione delle carriere, responsabilità civile, riforma del Csm.. e non una Norimberga dei giudici. Davide Varì su Il Dubbio il 30 aprile 2021. Ci risiamo: avevamo appena finito di commentare gli obbrobri del “sistema” Palamara, pensando e illudendoci di intravedere una luce in fondo al tunnel, ed ecco invece arrivare una nuova ondata di fango che travolge ancora una volta la nostra magistratura. La dinamica è sempre la stessa: un magistrato confeziona un’inchiesta e questa stessa inchiesta spunta miracolosamente nelle redazioni di alcuni giornali, i quali decidono di pubblicarla o non pubblicarla in base alle relazioni personali con questa o quella procura. Questa brutta storia arriva dopo lo stillicidio quotidiano delle chat di Palamara; dopo le istantanee dell’hotel Champagne e dopo la rivelazione di una guerra tra bande tra le varie correnti di magistrati che lottavano (e forse lottano ancora) per il controllo delle procure. Un tutti contro tutti senza fine e gestito in nome del potere per il potere. È dunque evidente che ci troviamo di fronte a un atteggiamento autodistruttivo che deve essere fermato o quantomeno arginato. Una magistratura in queste condizioni è infatti un pericolo, un pericolo per noi tutti. La crisi, il vero e proprio collasso, e la delegittimazione di uno degli attori principali della nostra giurisdizione mettono in pericolo l’intera giustizia italiana. Per questo, chi assiste a questa guerra deve trovare la forza per fermare questa deriva. Pensiamo alla politica naturalmente. Chi altri, se non la politica, ha infatti il diritto e il dovere di fermare questa resa dei conti e portare questa guerra sporca all’interno di un percorso di riforme? E allora in questo contesto così lacerato ci domandiamo: a che serve una commissione d’inchiesta parlamentare sulla magistratura? Intendiamoci, una commissione parlamentare è sempre legittima. Chi scrive pensa che la politica debba avere il ruolo di guida all’interno di una democrazia. La politica è quel potere legittimato dal voto popolare che deve esercitare un controllo critico sulle altre istituzioni. Magistratura compresa. E conosciamo bene le derive di alcune procure. In questi decenni alcuni magistrati hanno fatto e disfatto governi, hanno mandato a rotoli, spesso con gratuita ferocia, la carriera politica di decine di parlamentari, ministri, governatori, sindaci, semplici consiglieri comunali e semplicissimi cittadini. Spesso sulla base di indizi fragilissimi e attraverso inchieste che si sono sciolte come neve al sole già nel primo grado di giudizio. Ci sono procure che hanno sfruttato con grande spregiudicatezza i media, utilizzando giornali e tv come amplificatori delle loro inchieste. Hanno messo in piazza la vita privata di migliaia di persone senza alcun riguardo e hanno usato la galera preventiva trasformandola in una sorta di strumento di tortura. E hanno fatto tutto questo pensando di essere investiti di una missione di rieducazione etica e morale del nostro paese da realizzare per via giudiziaria. Insomma, di fronte a questa galleria degli orrori la tentazione di “fargliela pagare”, di chiedere il conto e di mettere la magistratura sul banco degli imputati è assai forte. Ma chi immagina una “Norimberga” delle toghe incorrerebbe in un gravissimo errore. Questo impulso dal deciso retrogusto vendicativo va frenato per quel che dicevamo prima: perché la politica ha il primato sul controllo della nostra democrazia e sull’equilibrio dei poteri. E questo primato va usato con grande responsabilità. Alla magistratura non servono processi, serve piuttosto il soccorso di qualcuno che la aiuti a uscire dal buco nero nel quale si è infilata. La politica deve trovare la forza e il coraggio di trasformare questa sciagura in opportunità andando a caccia di soluzioni radicalmente riformiste. Magari iniziando da una riforma radicale del Csm (consigliatissima, al riguardo, la lettura della proposta Vietti-Casini), dalla separazione delle carriere e dalla responsabilità civile dei magistrati. Così facendo raggiungerebbe due risultati: troverebbe la sua credibilità perduta e guiderebbe una riforma davvero radicale della nostra giustizia.

Aldo Torchiaro per "il Riformista" il 27 aprile 2021. Giustizia da riformare, necessità di rivedere il Csm, gli interventi sulla giustizia del Pnrr. Ne parliamo con Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che troviamo alle prese con le bozze di Intellettuali, un lavoro sul ruolo degli intellettuali nella società moderna che uscirà a settembre con Il Mulino, mentre è in libreria il suo Una volta il futuro era migliore, edito da Solferino.

Da dove partirebbe per analizzare la crisi della giurisdizione?

Dalla crescente domanda di giustizia. L'Italia repubblicana si è andata evolvendo secondo il modello statunitense, piuttosto che quello giapponese. Per i sociologi, questi rappresentano due tipi di sviluppo della giustizia. Quello statunitense è un modello che adotta la tecnica «third party dispute resolution». Quello giapponese è un modulo di risoluzione dei conflitti all'interno delle famiglie, delle aziende, dei gruppi, consensuale o compromissorio. Già nella grande ricerca comparata sui modelli di giustizia svolta dall'università di Stanford, nota con la sigla Slade, "Stanford law and development studies", diretta da John Merryman e da Lawrence Friedman, alla quale partecipammo, cinquant'anni fa, per l'Italia, io e Stefano Rodotà, si evidenziava un fenomeno di crescenti richieste ai giudici da parte della società. Oggi si può dire che non c' è fenomeno sociale o politico che non finisca in una decisione giudiziale. Ma, se questa domanda non viene soddisfatta, cresce anche la critica ai giudici e c'è l'altro pericolo che l'eccesso di domanda di giustizia faccia affogare la giustizia.

E i giudici riescono a tener dietro a questa crescente domanda?

I tempi della giustizia dimostrano che il nostro sistema giudiziario non riesce a dare una giustizia tempestiva. La qualità della giustizia resa è buona e spesso persino ottima, ma diventa pessima a causa dei tempi dei giudizi, sopra i 7 anni per completare i tre gradi nel settore civile e sopra i 3 anni per completare i tre gradi nel settore penale. Di qui il primo paradosso: c'è una crescente domanda di giustizia, ma anche una fuga dalla giustizia. Giustamente il Piano di ripresa e resilienza appena approvato dal Governo ha messo al centro degli interventi sulla giustizia il fattore tempo.

Perché il sistema giudiziario non riesce a tener dietro a questa crescente domanda di giustizia?

Il corpo dei magistrati è troppo limitato. Ha fatto una politica malthusiana. Basta vedere lo sviluppo della popolazione italiana e, in rapporto ad esso, la crescita dei dipendenti pubblici degli altri settori e compararlo con la crescita del numero dei magistrati. Il numero dei magistrati italiani di oggi è di poco superiore al numero dei magistrati dell'Italia di 70 anni fa, quando l'Italia aveva circa 10 milioni di abitanti di meno e una domanda di giustizia molto inferiore. A questo si aggiunge l'organizzazione rudimentale degli organi giudicanti, l'assenza di strutture di servizio, il fatto che i giudici nella maggior parte dei casi non hanno neppure un ufficio e quindi lavorano a casa, nonché il dolce far poco.

Lei ha però detto che apprezza la qualità della giustizia.

Nel corpo giudiziario italiano ci sono alcuni dei migliori giuristi italiani. La qualità delle sentenze è mediamente buona o ottima. I giovani migliori sono attirati dalla funzione giudiziaria per diversi motivi: retribuzioni più alte del restante pubblico impiego, una progressione economica che in altri settori non si ottiene, un lavoro svolto in maniera molto indipendente, non dover rispondere a un capoufficio, poter lavorare a casa; ma sono attirati anche da aspetti negativi come quello di non dover rispondere per la quantità e qualità del lavoro che si fa. Nel criticare la giustizia in Italia si fa spesso di tutta l'erba un fascio, sbagliando. Posso testimoniare, avendo insegnato per molti decenni diritto, che alcuni tra i migliori miei studenti sono diventati magistrati e lì stanno facendo molto bene. Aggiungo un altro aspetto positivo: l'alto tasso di femminilizzazione; più del 53% dei magistrati italiani è composto da donne e, se si vedono i risultati degli ultimi concorsi, la percentuale aumenta. Non credo che ci sia un tasso di femminilizzazione, se si esclude la scuola, così alto in altri settori in Italia. Per completare il quadro, aggiunga che molti giudici sono anche frustrati perché spesso sono chiamati a fare un lavoro minuto di risoluzione di conflitti molto modesti, che si potrebbero risolvere con la mediazione. Dall' altra parte, c è il fatto che l'ordine giudiziario è l' unico corpo dello Stato nel quale sono stati fatti sempre con scadenze quasi regolari concorsi, e quindi non si è verificato il fenomeno di altri settori in cui si sono alternati lunghi digiuni e grosse abbuffate di personale, con risultati pessimi.

Un quadro di chiaroscuri. Ma finora ha parlato delle singole persone. Poi ci sono le strutture che non funzionano.

Anche qui non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. Ci sono state esperienze molto positive: per qualche tempo il tribunale di Roma e in altre occasioni il tribunale di Torino hanno avuto presidenti che hanno fatto funzionare benissimo la macchina. C'è solo da meravigliarsi che queste «best practices» non siano state valorizzate e copiate.

 Fin qui ha parlato delle cose che funzionano. Parliamo ora della crisi.

Di un aspetto abbiamo già parlato: giustizia ritardata non è giustizia, dicono gli inglesi. Quindi la giustizia inefficace e la fuga dalla giustizia. Ma c'è un altro indicatore pericoloso che è l'immagine pubblica del magistrato. Una volta era una figura rispettata, nella quale si aveva grande fiducia. Ora non più. Basta leggere i sondaggi. O leggere i giornali. Nella sola ultima settimana abbiamo letto di un magistrato che si è dovuto dimettere perché non rispettava le obbligazioni assunte e di un altro finito in carcere.

Una questione morale, per dirla con Berlinguer, anche per le toghe?

Il tema della moralità dei magistrati è stato sollevato da un autorevole osservatore, che è stato anche magistrato, Luciano Violante, in un apposito articolo di non molto tempo fa. C'è quindi una crisi morale della giustizia, un preoccupante aumento di magistrati coinvolti in indagini penali, e in qualche caso arrestati. Questo, da un lato, consola, perché vuol dire che lo stesso corpo della magistratura riesce a porre rimedio, a tenere sotto controllo le «mele marce», ma dall' altro preoccupa perché in un corpo così ristretto non dovrebbero verificarsi così gravi infrazioni sia al codice etico, sia del codice penale. Di qui la percezione dei magistrati nella società. Una volta il magistrato era la difesa dei cittadini, ora i cittadini han no l'impressione di doversi difendere dai magistrati.

Come siamo arrivati a questo punto?

Per tanti motivi, dei quali ne voglio citare almeno uno: l'incapacità del corpo dei magistrati di modernizzarsi, di individuare sistemi di correzione e autocorrezione interni. I magistrati sono interessati al codice e alle leggi, non al funzionamento complessivo della giustizia. Vi dedicano un' attenzione per esigenze di corpo, di carriera e retributive. Ho letto pochi documenti con proposte interessanti sul funzionamento della giustizia, documenti che provengano dal corpo stesso della magistratura. Uno lo voglio citare ed è "Giustizia 2030. Un libro bianco per la giustizia e il suo futuro", del febbraio 2021, opera di un cospicuo gruppo di giudici, professori e componenti della società civile.

C'è poi lo spinoso problema dei rapporti tra giustizia e politica.

Anche qui mi faccia allargare lo sguardo. Questa dilatazione delle funzioni della magistratura comincia altrove, con l'occupazione del Ministero della giustizia. Questo ministero, l'unico citato dalla Costituzione, si deve interessare del funzionamento della giustizia. È un apparato del potere esecutivo. I magistrati, parte essenziale del potere giudiziario, non dovrebbero farne parte. Vi entrarono in epoca giolittiana, più di un secolo fa. Allora non esisteva una garanzia dell'indipendenza della magistratura e non esisteva il Consiglio superiore della magistratura così come configurato oggi dalla Costituzione. La presenza dei magistrati nel ministero era indirettamente una forma di tutela dell'indipendenza della magistratura nei confronti della politica. Dopo la Costituzione repubblicana e il ritardato avvio del Csm, tutto questo non ha più ragion d' essere. I magistrati dovrebbero tutti uscire dal Ministero della giustizia.

 Professor Cassese, non ha ancora neppure sfiorato il tema delle Procure...

Parliamone. Vi lavora circa un quinto dei magistrati. La funzione del procuratore è radicalmente diversa da quella del magistrato giudicante. Una volta un procuratore mi confessò di aver dimenticato il diritto. Doveva dirigere indagini di polizia e giudiziarie. La modificazione radicale avvenuta negli ultimi anni sta nel fatto che le procure non sono più in funzione dell'accusa, ma in funzione di un giudizio. Avviano l'accusa e danno il giudizio, tramite quello strumento che gli americani chiamano «naming and shaming», tenendo sotto la minaccia di indagini per anni persone, divulgando le informazioni, mantenendo stretti rapporti con i giornalisti. Di qui un distorto rapporto con la stampa, che è il contrario della trasparenza.

Con la tribuna stampa che diventa quella dei tifosi...

Sì, i giornali diventano i megafoni delle procure e diffondono quest' idea alla Robin Hood del magistrato-giustiziere. Ricordo ancora con tristezza la risposta che mi dette un mio bravo laureato quando gli chiesi quale professione volesse intraprendere. Mi disse: voglio fare il magistrato perché c' è tanto bisogno di fare giustizia. Ma i rapporti tra giustizia e politica non finiscono qui.

E dove continuano?

Con quella che in un lavoro sulla storia dello Stato italiano ho chiamato politicizzazione endogena, lo svolgimento di attività nelle procure come parte di un cursus honorum che finisce nella politica: vi sono quelli che aspirano a entrarvi e quelli che sono già arrivati nel corpo politico.

Ma il Csm non dovrebbe essere il supremo regolatore, evitare i rapporti con la politica, assicurare la giustizia?

Dovrebbe, ma non svolge questo compito. Ha, nello stesso tempo, ingrandito e diminuito i suoi compiti. Li ha ingranditi perché è stato inteso, da chi ne ha fatto parte, co me un organo di autogoverno, mentre nella Costituzione è semplicemente concepito come uno scudo per assicurare l'indipendenza della magistratura. In secondo luogo, proprio perché concepito come organo di autogoverno, è diventato la brutta copia del Parlamento. Infine, è stato incapace di individuare i criteri di scelta dei magistrati, specialmente dei titolari degli organi direttivi e quindi non ha svolto la funzione positiva che doveva svolgere. Che sia un organo fallito mi pare a questo punto sotto gli occhi di tutti.

Ma la magistratura non ha operato in un vuoto. La società italiana, il corpo politico?

Anch' essi hanno la loro responsabilità, hanno collaborato al degrado. Il corpo politico per assenza di seria politica, sostituita dalla morale ha preteso di avere il controllo della virtù, che è stato rapidamente trasferito a un organo professionale, proprio i magistrati. È proprio il corpo politico che ha moltiplicato le figure di reato. Esso non si è reso conto degli effetti sul sistema della forza dell'imitazione: altri corpi dello Stato scimmiottano le procure parlando in nome del popolo, dichiarando che rispondono al popolo.

E questo non è indifferente per il funzionamento della nostra democrazia.

Sì, incide fortemente sul funzionamento della democrazia. Il corpo politico si potrebbe difendere, ma, da un lato, ha rinunciato alle immunità che la Costituzione aveva introdotto; dall' altro, non riesce a farlo perché il corpo giudiziario fa ormai parte della politica e la condiziona dall'interno. Insomma, l'ordine giudiziario oggi non corrisponde al modello del "potere limitato" di Montesquieu.

E veniamo al tema sollevato dalla proposta della commissione di inchiesta: è veramente utile o è un modo per mettere sotto processo la magistratura?

Commissione di inchiesta, non vuol dire commissione di accusa. Vi sono state numerose commissioni di inchiesta che avevano uno scopo conoscitivo. Più di 50 anni fa ho fatto parte della segreteria tecnica della commissione di inchiesta sui limiti alla concorrenza presieduta da Roberto Tremelloni, che dette un contributo importante alla conoscenza del tema dei monopoli e della concorrenza e che ha posto le premesse per la disciplina intervenuta alla fine degli anni 80. Altre commissioni hanno prodotto risultati notevoli, sull' esempio delle «Royal Commissions» inglesi, che in molti casi sono stati i punti di svolta nella riforma dello Stato britannico.

Ma quale consenso c'è intorno ai problemi e ai bisogni di riforma della giustizia oggi in Italia?

Se non legge le dichiarazioni improvvisate, emotive e spesso umorali di molti politici, ma raccoglie le voci autorevoli di quelli che conoscono davvero il funzionamento della giustizia, si rende conto che c'è una complessiva valutazione di fondo che potrebbe costituire la base per una rinascita della giustizia in Italia. Per far nomi, Giovanni Fiandaca, Giuseppe Pignatone, Luciano Violante, Gaetano Insolera, Giovanni Maria Flick, Carlo Nordio, Guido Neppi Modona, Tullio Padovani, Glauco Giostra, Franco Coppi, Giovanni Canzio. Tutti questi si sono espressi, anche con punti di vista diversi, negli ultimi anni, sui temi della giustizia. Sono persone che hanno una conoscenza dall' interno del sistema, come studiosi, come ex magistrati, come avvocati, come osservatori. Partiamo dalle loro diagnosi per cercare di capire che cosa si può fare. È urgente.

LA QUESTIONE GIUSTIZIA. Scandali, correnti di potere, processi infiniti: la magistratura è in crisi. «I cittadini non ci capiscono più».

Ai minimi di credibilità e autostima, con un Csm lacerato dal caso Palamara, tra riforme gattopardesche e cronici problemi di efficienza e procedure, ora i giudici temono l’affondo finale della politica: «In pericolo la nostra indipendenza». L’Espresso chiede a otto protagonisti della storia giudiziaria, da Caselli a Spataro, dalle procuratrici antimafia a Calvi e Zagrebelsky, perché il sistema legale è al collasso e cosa bisogna cambiare. Paolo Biondani su L'Espresso il 22 aprile 2021. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Cesare Terranova, Guido Galli, Emilio Alessandrini e tanti, troppi altri. Sono magistrati che hanno sacrificato la vita per la giustizia, per liberare l’Italia dalla mafia e dal terrorismo. Sarebbe bastato ricordare i loro nomi, fino a ieri, per non cadere nella trappola politica e mediatica di scaricare su tutti i giudici le colpe di alcuni, strumentalizzando un caso giudiziario per screditare l’intera magistratura. In passato la giustizia italiana ha superato scandali molto peggiori del caso odierno di Luca Palamara, l’ex capo-corrente di Unicost intercettato mentre trattava le nomine dei procuratori con politici indagati, e ora accusato (da altri magistrati) di aver incassato tangenti e regali per favorire un amico imprenditore. Ci sono stati giudici illustrissimi incriminati per mafia, concussione, abusi sessuali, corruzioni miliardarie. Ma il blocco dei colleghi resisteva, reagiva con indagini, arresti e condanne delle toghe sporche. Anche negli anni più neri della nostra storia, la giustizia come istituzione aveva tenuto. Ma oggi la magistratura attraversa una crisi senza precedenti. Perché è una crisi interna. Grave. Di democrazia e rappresentanza. Di credibilità e reputazione. Amplificata dal cronico sfascio del sistema legale e processuale, che esaspera i cittadini onesti. Nei palazzi di giustizia chiusi dal Covid-19, da Milano a Palermo, molti magistrati confessano di sentirsi «disillusi», «demotivati», «sconfortati». Parlano di «una crisi generale», scollegata da vicende specifiche. Non credono più nelle «auto-riforme» annunciate dal Csm o dai vertici della loro associazione. E si aspettano invece contro-riforme punitive, decise da politici che rifiutano il controllo giudiziario. La posta in gioco è l’indipendenza della magistratura, la sua capacità di imporre la legalità a tutti, anche agli altri poteri dello Stato: una conquista del 25 aprile. Per capire le ragioni della crisi, l’Espresso si è rivolto a magistrati, avvocati e giuristi che hanno vissuto da protagonisti la storia giudiziaria. Molti, che lavorano ancora nei tribunali, preferiscono non esporsi in dichiarazioni. Ma spesso i loro giudizi, e le parole stesse, coincidono. Gian Carlo Caselli, come procuratore a Torino e Palermo, ha guidato indagini storiche contro il terrorismo e la mafia, proprio negli anni delle stragi di magistrati. Oggi è preoccupato come mai: «La parola epocale è abusata, ma ci sta tutta se riferita all’attuale crisi della magistratura. Con lodevoli eccezioni, è un corpo culturalmente indebolito, tramortito da crisi di efficienza, credibilità, autostima. Lo scenario di fondo è cupo: un processo farraginoso e incomprensibile, con tempi e costi che generano sfiducia nei cittadini; martellanti campagne mediatiche; personalismi e polemiche tra magistrati; rischio di derive illiberali, con un crescente rifiuto del processo, della giurisdizione stessa.Tutti questi fattori non possono non causare disagio nei giudici responsabili, quelli che patiscono il fatto di non poter rendere un servizio ai cittadini. Nel contempo, cresce la tendenza ad interpretare il ruolo in maniera burocratica, piuttosto che con l’etica della responsabilità. Significa accontentarsi del minimo sindacale. Dopo trent’anni di calunnie, insulti, aggressioni ai magistrati, è comprensibile che qualche collega si chieda: ma chi me lo fa fare? Qualche parte politica ostile cercherà sicuramente di approfittare di questa crisi per attaccare la giustizia, non le sue inefficienze». E a lei chi l’ha fatto fare? Perché è diventato magistrato? Il pensionato Caselli si prende in giro: «Era il lontano 1967... Era il lontano 1967... I miei genitori hanno fatto i salti mortali per farmi studiare, volevo ripagarli di tanti sacrifici. Allora i figli di operai che entravano in magistratura si contavano sulle dita di una mano». E che motivazioni aveva, un giovane dell’Italia di allora? «In quegli anni nella società italiana affiorava l’esigenza della difesa dei diritti, l’affermazione dei principi costituzionali di uguaglianza. Anche la magistratura cominciava a rompere la sua tradizionale sintonia col potere... Furono decisive alcune letture: Calamandrei, Bobbio, Galante Garrone, Ramat, Danilo Dolci, don Milani... Dopo due anni di tirocinio, ho avuto la fortuna di lavorare con un maestro, Mario Carassi, che guidava i giudici istruttori. Fu lui a creare il primo pool, che poi ispirò Caponnetto a Palermo. Quando le Brigate rosse uccisero il procuratore Coco con Saponara e Dejana, gli uomini della scorta, Carassi affidò l'istruttoria a tre magistrati, dicendoci chiaramente: così, se i terroristi ammazzano uno di voi, gli altri due vanno avanti. Fu Carassi a insegnarmi l'etica della responsabilità. L'esempio conta molto». La crisi allarma i grandi vecchi della magistratura, mentre tra i giovani genera sfiducia, apatia, impotenza. Armando Spataro è stato pm a Milano dal 1976, in una procura in trincea contro il terrorismo, e ha lasciato la toga nel 2018, dopo un’elezione al Csm e grandi indagini sulla mafia al Nord e i servizi segreti («ma anche i furti di biciclette», minimizza). Anche lui oggi è preoccupato: «Un senso di crisi covava da tempo, ma si è accentuato negli ultimi due anni, con il caso Palamara e soprattutto con l’impatto mediatico del suo libro, utilizzato per attaccare tutte le correnti, anzi tutta la magistratura. Bisogna reagire con durezza. E con la massima trasparenza. Mi piacerebbe vedere anche l’avvocatura al fianco dei magistrati». Come si spiega questa crisi? Spataro esita a rispondere: «Sulle ragioni vorrei essere prudente, temo di indulgere in rimpianti dei tempi andati. Certamente vedo comportamenti che non apprezzo. Magistrati che si propongono come eroi solitari in lotta contro i poteri forti. E dall’altro canto un atteggiamento burocratico, di fuga dalle responsabilità, purtroppo diffuso anche tra i più giovani. Negli anni di piombo la nostra generazione usciva dai palazzi di giustizia per dire no al terrorismo. C’era un fortissimo impegno civile, che oggi mi sembra scemato. Non so dire perché, non faccio il sociologo. Penso che influisca anche un'informazione distorta sulla giustizia: nell'era di Internet vince chi dà per primo una notizia urlata, anche se è sbagliata, falsa, e non la si corregge più. Ma quando si arriva ad approvare il sorteggio per selezionare le commissioni di concorso, o a proporlo per l’elezione al Csm, significa che anche nella magistratura si rischia di rinunciare alla competenza, alla valutazione del merito, al senso della propria dignità». Anche la fiducia dei cittadini è ai minimi storici. L’inefficienza della giustizia – tra processi civili lentissimi, migliaia di vittime dei reati beffate dalla prescrizione, strutture fatiscenti, deficit di personale e rivoluzioni informatiche che non decollano mai – dipende da leggi mal fatte dalla classe politica. Ma i magistrati più responsabili sanno che la gente incolperà loro dei disservizi. E fino a ieri cercavano di rimediare con più impegno, per senso del dovere. Oggi anche questo è in crisi. Laura Bertolè Viale è una donna di ferro che ha fatto il magistrato per 48 anni. Gli ideali di giustizia li ha assorbiti al liceo classico di Pescara, insieme a compagni di classe come Emilio Alessandrini e Vito Zincani. «Allora sapevamo che i magistrati rischiavano la vita. Poi, negli anni di Mani Pulite, ci siamo sentiti tutti osannati: altro errore. Oggi c’è rassegnazione, appiattimento, mediocrità. Non lo si dice, ma si accetta la disillusione dilagante: l’Italia non cambierà mai, la corruzione c’è sempre stata, con la mafia si può convivere, non uccide quasi più. Ho un buono stipendio e un posto sicuro, perché dovrei sacrificarmi? È in crisi il senso del dovere». Oggi più di metà dei magistrati sono donne, che stanno conquistando anche posizioni di vertice: sapranno far funzionare meglio la giustizia? «Beh, in questo il cambiamento è stato enorme. Quando ho fatto il concorso, con me c'erano solo Livia Pomodoro e pochissime altre. Credo che le donne, mediamente, tendano ad essere più laboriose, tenaci, combattive, proprio perché devono superare i pregiudizi che ancora esistono. La parità di genere è una bella conquista, ma di per sé non risolve i problemi. La degenerazione delle correnti ha rovinato tutto. Una volta i migliori magistrati fondavano le correnti e animavano un dibattito pubblico di altissimo livello. Ora i migliori escono dall'associazione magistrati». Le intercettazioni del caso Palamara hanno demolito l’istituzione. Il capo-corrente parlava con tutti. E ora la sua difesa è craxiana: il sistema delle nomine coinvolgeva tutte le correnti. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Le sue interviste indignano i tanti giudici che si dannano di lavoro e magari rischiano la vita. Ma pochi credono alle soluzioni proposte dai vertici, dal Csm o dall’Anm. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano e Reggio Calabria, se n’è andata dal direttivo di Unicost con un folto gruppo di colleghi. «Per una categoria composta in grandissima maggioranza da persone perbene, il caso Palamara è stato uno shock. A Milano abbiamo organizzato assemblee infuocate, con più di 400 giudici e pm, per dire basta, adesso si cambia. Presi la parola per chiedere scusa a nome di una corrente in cui avevo creduto. Servirebbe un’autocritica collettiva. Invece non cambia niente: si fanno riforme di facciata, gattopardesche, e noi all’interno ce ne accorgiamo. C’è molto disincanto. O disinganno. All’ultima elezione suppletiva per il Csm, circa il 40 per cento dei magistrati non è andato a votare». E lei perché ha fatto il magistrato? Cerreti sorride: «L’avevo scritto nel tema della terza elementare: da grande voglio fare il giudice che arresta i mafiosi... Sono siciliana, sono cresciuta col mito di Falcone». Cosa c’è dietro la crisi di oggi? «Ci sono tanti fattori, è anche il frutto avvelenato di trent’anni di attacchi vergognosi alla magistratura. Ci fanno guidare una macchina giudiziaria disastrosa, che fa acqua da tutte le parti, facendo credere ai cittadini che la colpa sia dei magistrati. Ma ora è più difficile difendersi. E c’è un problema di motivazione. Quando ho fatto il concorso, la sede più ambita era Palermo. Oggi un trentenne dopo il tirocinio tende a cercare un posto tranquillo, che non imponga troppi sacrifici. Senza l’impegno dei giovani non usciremo dalla crisi». Giuseppe Di Lello ricorda bene quel «periodo tragico, ma anche di grandi speranze», con «tantissimi giovani che volevano fare i magistrati a Palermo». Oggi è un sopravvissuto del pool antimafia di Falcone, Borsellino e Caponnetto. E avverte che nella giustizia italiana non è mai esistita un’età dell’oro: «Fino agli anni ’70 la magistratura era omogenea a un assetto sociale e politico conservatore. Al Csm si votava col maggioritario e Magistratura indipendente prendeva tutti i seggi. Dopo il ’68, con l’ingresso dei giovani, è nata Magistratura democratica e poi le altre correnti, che avevano fortissime motivazioni ideali. C’era il terrorismo, la mafia era impunita: si sentiva il dovere di difendere la democrazia, i cittadini. Negli ultimi anni le correnti sono degenerate in gruppi di potere per spartirsi le nomine. Questo scoraggia la partecipazione. E favorisce la commistione con la politica. Sono poteri dello Stato che devono restare separati. Dopo le stragi del 1992, tutti mi dicevano di andare via da Palermo. Ho fatto il consulente per la commissione antimafia e poi sono stato eletto in Parlamento, dove ho trovato Felice Casson e Gerardo D’Ambrosio. Nessuno di noi ha mai fatto comunelle di interessi con altri magistrati e tantomeno con politici. La giustizia deve essere indipendente. Un magistrato, come qualunque cittadino, ha diritto di candidarsi, ma deve cambiare mestiere». Giuliano Turone è l’ex giudice istruttore che, per citare solo le sue indagini più famose, ha scoperto la loggia P2 e arrestato a Milano il super boss di Cosa Nostra Luciano Leggio (detto Liggio), . Ha vissuto in prima persona la svolta storica della giustizia italiana, che colloca in un periodo preciso: «Ho iniziato a fare il magistrato poco prima della bomba di Piazza Fontana. In Italia i principi della Costituzione si sono affermati lentamente, gradualmente, solo a partire da quegli anni. L’indipendenza della magistratura si è affermata concretamente con l’istruttoria sulla strage di Milano. Con la scoperta della strategia della tensione, delle complicità di apparati dello Stato, è nata la consapevolezza dei valori della democrazia. E della necessità di difenderli dal terrorismo». All’epoca Guido Calvi, poi diventato senatore dei Democratici e membro del Csm, era l’avvocato di Valpreda, l’anarchico incarcerato ingiustamente con il marchio di stragista. Anche lui invita a non confondere le correnti con la loro degenerazione: «Va rivendicata la funzione positiva, dirompente, della nascita di Magistratura democratica. Negli anni ’50 e ’60 c’era il problema della continuità con il fascismo. Era molto peggio di oggi. Le correnti hanno avuto una grandissima importanza per la nostra democrazia: facevano cultura, le loro riviste entravano nelle università. Negli anni ’70 rappresentarono i momenti più alti di elaborazione del nostro pensiero giuridico». E oggi che ne resta? «I magistrati sono sfiduciati, stanno perdendo la consapevolezza di quanto è importante la loro funzione per i cittadini. La magistratura è l’istituzione fondamentale per la tutela della legalità, quindi va difesa soprattutto nei momenti di crisi come l’attuale. Per i casi individuali, c’è bisogno di severità, di maggior controllo ispettivo. Ma occorrono anche profonde riforme del processo e dell’ordinamento giudiziario. Ed è la politica, è il Parlamento che deve farle». Per i magistrati non sarà facile uscire dalla crisi. Il professor Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, sottolinea che nella giustizia funziona un micidiale effetto estensivo: «Ci sono professioni, che si richiamano ad alti valori ideali, per cui un singolo scandalo può inquinare la visione dell’intera categoria. Succede per i magistrati, i politici, i giornalisti, anche per i preti, chiamati ad agire in nome della giustizia, il bene comune, la verità, Dio. Se un dentista sbaglia, non si accusano tutti i medici. Ma ogni magistrato deve essere consapevole che il suo comportamento può compromettere la credibilità di tutta la giustizia. Nel caso Tortora, l’errore giudiziario fu commesso da pochi. Ma da lì nacque il referendum sulla responsabilità civile, che colpì tutti i magistrati. Per uscire dalla crisi servirebbero riforme di altissimo profilo».

Pietro Senaldi per "Libero quotidiano" il 19 aprile 2021. «La carriera non può basarsi solo sull' anzianità: il lavoro e le sentenze devono avere un peso negli avanzamenti, sennò anche ad alti livelli ti trovi davanti certa gente...» «Non bastano due o tre esami di diritto per decidere della sorte degli altri per tutta la vita. Vanno testate la morale e l'equilibrio di chi è chiamato a giudicare i cittadini». «La verità è che la politica ignora i problemi della giustizia, che si abbattono soprattutto sui cittadini comuni, e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano dei mali dell'amministrazione dei tribunali, però sono discorsi che sento da più di cinquant'anni senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi, ho l'impressione che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prenda la lunghezza dei processi: sembravano eterni già negli anni Settanta, oggi durano ancora di più La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che mi viene in mente». C'è un uomo solo che può parlare delle relazioni tra magistratura e politica senza essere accusato di imparzialità, perché ha difeso da pesantissime accuse dei pm i due leader più longevi della storia della Repubblica, Andreotti e Berlusconi, e li ha fatti assolvere, ma non ha mai ceduto alle lusinghe del Parlamento, che pure lo ha corteggiato. La sua toga è immacolata, il suo nome è Franco Coppi. L'avvocato più famoso d'Italia è disincantato, la passione per il diritto è la stessa di un ragazzino, malgrado gli 82 anni, la disamina è amorevolmente spietata, la diagnosi lascia poche speranze perché non si intravede volontà di ravvedimento operoso. «Riforme ne sono state fatte negli anni», per una volta il tono è quello della requisitoria e non dell'arringa, «ma stando ai risultati sono state quasi tutte inutili, non ho visto miglioramenti».

Franco Coppi, 82 anni, avvocato, giurista e accademico italiano Devo dedurne che la giustizia italiana è irriformabile?

«Nulla lo è, a patto che ci sia la volontà. Riformare davvero richiede il coraggio delle proprie decisioni e la disponibilità a esporsi a critiche anche feroci. Se pensi a quanti voti perdi se separi pm e giudici o se togli l'abuso d' ufficio, non vai da nessuna parte. Devi fare quel che ritieni giusto, senza curarti delle conseguenze».

I politici dicono che riformare la giustizia è impossibile perché i giudici non vogliono.

«Io penso invece che temano di perdere il consenso se toccano la magistratura».

Ma la magistratura non ha perso credibilità negli ultimi anni?

«Comunque meno della politica».

I politici dicono di temere la reazione dei pm, pronti a indagarli se smantellano il suo potere.

«Io non credo che ci sia una guerra della magistratura contro la politica tout court. Non creiamo falsi problemi: la magistratura ha un potere enorme ma quello del legislatore è ancora più grande. Se il Parlamento avesse la forza di cambiare la legge, alla fine Procure e Tribunali sarebbero costretti ad assoggettarsi».

Secondo lei quindi è stata la politica a cavalcare la magistratura più che la magistratura a tenere sotto scacco la politica?

«Questa è un'analisi che contiene della verità: certo alcune parti politiche hanno speculato sulle disavventure giudiziarie degli avversari. Sgradevole che quasi sempre sia avvenuto prima della sentenza definitiva, che spesso è stata di assoluzione, come nei processi che ho seguito per Andreotti e Berlusconi. Però, se intendo il senso provocatorio della sua domanda, il fatto che una giustizia così screditata sia in un certo senso funzionale agli interessi della politica è una tesi suggestiva e non infondata».

Ma se la politica non è ferma per timore della reazione della magistratura, perché allora la subisce?

«Sudditanza psicologica? O piuttosto anche una forma strana di indifferenza rispetto ai problemi. Il Parlamento oggi sembra avere dimenticato il motto latino "Iustitia fondamentum regni": con istruzione e sanità, il funzionamento dei tribunali è il cardine di un Paese civile. Noi invece abbiamo messo anche la giustizia in lockdown, ma i danni sono irreparabili».

È così difficile apportare queste modifiche?

«Basterebbero 24 ore. Però temo che uno dei grandi problemi sia il deficit di competenza. La politica in realtà non sa dove mettere le mani per migliorare il diritto. Non ha gli uomini, dovrebbe appaltare la riforma della giustizia a una commissione di una dozzina di giuristi».

I giudici insorgerebbero subito.

«Se le proposte fossero concrete e ragionevoli, non potrebbero opporvisi. E anche se lo facessero, chi se ne importa?».

Ritiene che le toghe siano troppo politicizzate?

«Di magistrati ne ho conosciuti tanti. Sono una piccola parte quelli condizionati dalla politica».

Captatio benevolentiae?

«Guardi, ho visto molti più giudici influenzati dall'opinione pubblica, dai giornali o dalle mode che dalla politica. C'è chi mi ha confessato, prima dell' udienza, di essersi fatto un'opinione guardando i talkshow».

Le intercettazioni di Palamara però hanno rivelato che Salvini è a processo perché ritenuto un avversario politico e non un sequestratore di immigrati.

«Sarebbe una cosa spregevole».

Cosa pensa di quello che sta venendo fuori sulla magistratura?

«Non tutto è una novità, di certe cose si parlava da tempo. La cosa più sgradevole è il sistema di nomine, tutte raccomandazioni, dispute, calcoli: se fosse davvero così, sarebbe sconcertante».

Che quadro ne emerge della magistratura?

«Un potere autoreferenziale concentrato su se stesso, più interessato alla politica interna che a quella nazionale».

Vede segnali di pentimento nella casta in toga?

«Vedo imbarazzo nei molti magistrati onesti. È auspicabile che l' intera categoria si senta ferita».

Cambierà qualcosa?

«Per cambiare serve volontà. Quel che vedo non mi fa essere ottimista».

Bisognerebbe abolire l'Associazione Nazionale Magistrati?

«L' abolizione del parlamentino delle toghe è un problema che non mi sono mai posto. La sua esistenza mi lascia indifferente: se c'è, è naturale che si divida in correnti, ma i problemi veri della magistratura sono altri».

Quali, secondo lei?

«Vedo troppa anarchia nei tribunali, ogni giudice fa quel che gli pare e i processi hanno spesso sviluppi cervellotici, sfociano in sentenze imprevedibili. Avrei paura a essere giudicato da questa magistratura».

Colpa del Consiglio Superiore della Magistratura?

«Il Csm non può intervenire sui processi ma sui comportamenti deontologici dei giudici. È il capo degli uffici, il Procuratore o il Presidente del Tribunale che deve far lavorare i suoi sottoposti e mettere un argine a decisioni e comportamenti stravaganti. Solo che, appena lo fa, si parla di attentato all' indipendenza del giudice. Invece secondo me è indispensabile un capo che riprenda e metta ordine».

La sua ex collaboratrice, Giulia Bongiorno, ha detto che nell' esame di magistratura bisognerebbe inserire un test psicologico. Lei sarebbe d' accordo?

«Sono d' accordo che servirebbero mezzi di selezione più rigorosi. Non è ammissibile che si diventi magistrati, acquistando diritto di vita e di morte sugli italiani, dopo due o tre compitini di legge. Ci vorrebbero esami più articolati attraverso i quali saggiare anche la preparazione morale e spirituale e l' equilibrio psicologico e politico del candidato».

Ipotizza anche verifiche nel corso della carriera?

«Queste dovrebbero farle i capi dei giudici. In realtà credo che bisognerebbe dare più importanza alla produzione di un giudice per valutarne gli avanzamenti di carriera. Oggi si procede solo per anzianità, ma questo ti porta in processi importanti, magari in Cassazione, a trovarti davanti a giudici che mai avresti immaginato a certi livelli. Dovrebbero contare anche i processi vinti o persi e le sentenze impugnate o cassate. Come in tutti i lavori, il risultato deve avere un peso nella carriera. Trovo molte diversità nei livelli di preparazione di una toga rispetto a un'altra».

Si dice che i giudici non pagano mai per i loro errori.

«Lavorare sotto il timore di uno sbaglio che può costare caro toglie serenità e distacco».

Però lei se sbaglia, paga.

«Io non ho mai desiderato fare il giudice perché mi angoscerebbe l'idea di decidere sulla sorte di un uomo. Pensi che ci sono certi processi, dove non sono riuscito a far assolvere imputati che ritenevo innocenti, per i quali ancora non dormo la notte a distanza di anni».

Che qualità dovrebbero essere indispensabili per un giudice?

«A parte la preparazione tecnica, che non sempre riscontro, un giudice deve avere equilibrio e umanità, per ricostruire i fatti e valutarli. Deve essere dotato di un alto valore morale e sociale, perché diventa interprete della realtà che sta vivendo».

Si ha l'impressione che certe sentenze vogliano cambiare la società anziché seguirne l'evoluzione.

«Talvolta nelle motivazioni dei verdetti c'è la volontà di impartire qualche lezioncina. Però quando parlo di valore morale non voglio dire intento moralizzatore, che è una cosa dalla quale il giudice dovrebbe sempre rifuggire».

Le mutazioni della società hanno portato anche a una proliferazione delle fattispecie di reato.

«Alcuni nuovi reati sono inevitabili, come quello che punisce le comunicazioni sociali che manipolano il mercato. Altri sono gratuiti».

Tipo il femminicidio o i reati della legge Zan?

«Talvolta introdurre un nuovo reato serve al legislatore per levarsi il pensiero. C'è un problema sociale? Creo un reato e sparo una condanna, così ho la coscienza a posto e mi mostro sensibile. La realtà è che bisognerebbe depenalizzare, non creare nuovi reati; oggi abbiamo liti di condominio che finiscono in Cassazione».

Com'è cambiata la giustizia da che ha iniziato lei?

«Essendo anziano non vorrei passare per un laudator temporis acti, ma non posso evitare di constatare un degrado generale, nella magistratura quanto nell'avvocatura. Ricordo che un tempo, quando andavo ad ascoltare i grandi per imparare, c'erano livelli di discussione giuridica ben più alti. Oggi, a causa anche del carico di lavoro eccessivo, i tribunali sono diventati delle fabbriche del diritto, le sentenze vengono scritte in fretta. Ma sono nostalgico anche per quanto riguarda la cifra stilistica: girando per le aule mi sembra che manchino l'eleganza e il decoro di un tempo».

È stato più facile far assolvere Andreotti o Berlusconi?

«Quello di Andreotti è un processo che non si sarebbe dovuto tenere».

E quello di Berlusconi, l'ha vinto in punta di diritto?

«No, l'ho vinto sui fatti: quelli contestati non configuravano un reato».

Però si era messa male.

«Per vincere non ho dovuto scalare le montagne, molto lavoro era stato fatto dai miei predecessori, io ho dovuto solo convincere i giudici che la qualificazione giuridica dei fatti portava necessariamente all' assoluzione».

Fortuna che quella volta non si è imbattuto in un giudice moralista?

«Non sono un mondano, la sera preferisco stare a casa con mia moglie e le mie figlie, abitiamo tutti vicini. Però alle cene di Arcore ci sarei andato, e mi sarei pure divertito».

Perché ha chiamato il suo cane Ghedini?

«Perché me l' ha regalato proprio Niccolò. Io sono un grande cinofilo. Il cane si chiama Rocki, io gli ho dato un cognome, ma è un gesto d' affetto verso chi me l' ha donato. Mi ha fatto un regalo che mi ha commosso e del quale gli sarò sempre grato».

Obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere: ora rileggiamo Falcone. Forse il caso Palamara inizia a determinare riflessioni concrete, anche se non produce ancora decisioni. Ma non c'è più tempo: occorrono riforme di sistema, prima che “il sistema” faccia sprofondare la nostra giustizia penale e con essa la stessa democrazia. Bartolomeo Romano su Il Dubbio il 18 aprile 2021. Forse il caso Palamara inizia a determinare riflessioni concrete, anche se non produce ancora decisioni conseguenti. Qualche giorno fa, su Il Fatto Quotidiano, Henry John Woodcock, pubblico ministero assai noto e talvolta discusso, ha posto due temi seri sul tappeto: la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale e quella della separazione delle carriere, nell’ottica della crisi di credibilità della magistratura alla luce di quello che lui stesso ha definito il “terremoto Palamara”. Si tratta di una presa di posizione quasi “scandalosa”, anche per la sede nella quale ha formulato le sue osservazioni, finalmente aperta a posizioni eterodosse. Tuttavia, per chi, come me, ritiene che è importante ciò che si dice o si scrive, piuttosto che la persona che sostiene certe opinioni o il luogo dove le esprime, conta soprattutto la sostanza. Rileva, cioè, un approfondimento libero da pregiudizi ed aperto a visioni prospettiche non asfittiche o miopi. Ora, occorre ammettere che il modello di processo penale esistente è solo in parte in linea con il complesso delle attuali norme costituzionali. Infatti, non ci si può certo limitare ad una analisi della Costituzione così come delineata nel 1948, la quale aveva come stella polare il processo inquisitorio; occorre, infatti, sviluppare i successivi dettati costituzionali, sulla scia del riformato articolo 111, ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che, con la formazione della prova in dibattimento, nel pieno contraddittorio delle parti, ha effettuato una scelta univoca, nel senso del modello accusatorio, del resto ormai decisamente prevalente nelle democrazie più mature ed evolute. Tale modello richiede la presenza di un giudice realmente terzo, di un pubblico ministero che svolga pienamente il compito dell’accusa e di un difensore in grado di controbilanciare, con la propria attività, quella del pubblico ministero. Non vi è dubbio, poi, che è necessario ragionare anche sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ( di cui all’art. 112 Cost.). Del resto, scriveva già Giovanni Falcone (allora, come oggi): tutto è «riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti… mi sento di condividere l’analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l’esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e di coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività» (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982/ 1992, Firenze, Sansoni, 1994, pp. 173 e 174). Pertanto, non è affatto pleonastico stabilire chi debba scegliere le notitiae criminis: se debba esserci una indicazione “politica” (parlamentare?); o se debba essere il vertice dell’ufficio a fissare i criteri ( si pensi alle opinabili circolari di alcuni procuratori della Repubblica); oppure se debba agire, come oggi prevalentemente avviene, in assoluta autonomia ogni singolo pubblico ministero con una totale discrezionalità che rischia di tramutarsi in arbitrio. E sono a tutti note recenti vicende-limite nelle quali si ha il sospetto che il pubblico ministero abbia esercitato il proprio delicato potere scegliendo più «le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare» ( R. H. Jackson, The Federal Prosecutor, «Journal of the American Judicature Society», 1940). Ma, forse ancora di più, occorre interrogarsi sui rapporti tra giudici e pubblici ministeri, e tra questi e i difensori, nella cornice del processo accusatorio. Ancora Giovanni Falcone (alcuni decenni fa): «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura» (Giovanni Falcone, interventi e proposte, cit., p. 179). Ed invece, quasi solo in Italia, ed in Francia – ove, però, il pubblico ministero è sottoposto gerarchicamente al Ministro della Giustizia, soluzione che io credo si debba evitare – pubblici ministeri e giudici sono reclutati con lo stesso concorso e possono passare da una funzione all’altra. Invece, nei Paesi nei quali si è affermato il sistema processuale accusatorio il pubblico ministero non appartiene allo stesso corpo dei giudici. A compiti e funzioni separate corrispondono, linearmente e coerentemente, carriere e ruoli distinti. Si tratta, mi rendo conto, di questioni delicatissime e complesse. Ma non c’è più tempo per lasciare tutto immutato, come da decenni: occorre fare riforme di sistema, prima che “il sistema” faccia sprofondare, ancora di più, la nostra giustizia penale e, in definitiva, la nostra stessa democrazia.

Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Ex componente Consiglio Superiore della Magistratura

Sorpresa Woodcock: «Ora separiamo le carriere». In un articolo a sua firma il magistrato napoletano ridicolizza il dogma dell’unità indissolubile: «Dopo il terremoto Palamara, diventino trasparenti sia le nostre promozioni che la genesi delle inchieste». Errico Novi su Il Dubbio il 17 aprile 2021. Poche volte capita di leggere articoli che con geniale nonchalance travolgono gli schemi immutabili della giustizia. Ancor più raramente capita che a una lettura del genere segua pure una doverosa richiesta di scuse. Nel senso che ieri Henry John Woodcock, pm noto (ai penalisti napoletani) per essere tanto brillante quanto sfrontato nello sfidare la difficoltà delle indagini, ha firmato sul Fatto quotidiano un articolo di tale intelligenza e tale coraggio che dalle colonne del Dubbio è necessario chiedergli perdono per tutte le volte in cui le critiche rivoltegli non siano state accompagnate dalla seguente postilla: “Ciò detto, Woodcock è uno di quei giuristi che la politica dovrebbe ascoltare come un oracolo, quando mette in cantiere riforme”. Ebbene sì, perché ieri l’inquirente Woodcock ha firmato non una requisitoria contro gli “impuniti”, ma una splendida arringa a favore della separazione delle carriere. E certo non si può negare l’onore delle armi a un giornale come il Fatto, che ha avuto la correttezza di ospitare idee così diverse da quelle proposte di solito. Non a caso Woodcock ha scritto innanzitutto in replica a una precedente analisi pubblicata, sul giornale di Marco Travaglio, da Gian Carlo Caselli. Alcuni passaggi vanno riportati alla lettera. A proposito di un’eventuale futura relazione fra priorità indicate dalla politica e indagini giudiziarie ( ingranaggio prefigurato, udite udite, nella riforma per la separazione delle carriere proposta dalle Camere penali), Woodcock, anziché lanciare un anatema, scrive: «Una soluzione del genere» sarebbe «quantomeno più trasparente del nostro attuale sistema, che ‘ nasconde’ genesi e gestione delle inchieste sotto l’impenetrabile coltre dell’indipendenza del pm e dell’obbligatorietà dell’azione penale» . Lo dice da anni il meglio dell’accademia processual penalistica italiana. Il pm della Procura di Napoli sostiene che tenere nel fascicolo quanto meno traccia della genesi di un’indagine potrebbe «avvicinare di più il sistema ai valori di trasparenza e di responsabilità che connotano un regime democratico». Ancora: la tradizionale critica con cui le toghe stroncano la separazione delle carriere, ricorda Woodcock, riguarda la necessità che il pm condivida la «cultura della giurisdizione» ; ma l’argomento, scrive il magistrato napoletano, «è un po’ doubleface, a ben vedere», giacché lo si potrebbe «rovesciare agitando lo spettro che la permanenza del pm nell’unico ordine giudiziario possa mettere a rischio la cultura del giudice, trascinandola verso una deriva poliziesca». Più che riflessioni, sono tuoni che scuotono le certezze della magistratura. Pensate sia finita qui? Macché. «Si potrebbe citare come spia e segnale di pericolo di una simile colonizzazione culturale del giudice da parte del pm la tendenza di alcuni giudici al ‘ copia/ incolla’ delle richieste del pm — pratica recentemente ‘ approvata’ perfino dalla Suprema Corte». Altro pilastro delle tesi avanzate dall’avvocatura. Fino alla riflessione più acuta: dopo il «terremoto Palamara» è ancora più urgente che le «decisioni» diventino «conoscibili e trasparenti», sia quando riguardano «la carriera dei magistrati» sia quando si tratta di «genesi e gestione delle inchieste». E qui siamo al cuore di quella che alcuni definiscono “egemonia del partito delle Procure”. «Io personalmente, in quanto pm, non vivrei in modo traumatico una separazione delle carriere, la considererei piuttosto come una nuova sfida positiva, anche sul piano della formazione e della professionalità». Woodcock è tanto nitido quanto esplicito. Da ultimo, non si può tacere un passaggio del suo articolo, sempre relativo alla “circostanza ostativa” abitualmente scagliata dai magistrati contro la separazione: Woodcock la sintetizza come «l’esigenza che il pm continui a coltivare come il giudice, pur nella diversità del ruolo, quella cultura del dubbio, che è un elemento essenziale della funzione giudiziaria» . Non perché ce ne si voglia approfittare: ma sentire evocata la cultura del “Dubbio” sul “Fatto quotidiano” suscita persino un sorriso di speranza. E, di sicuro, ammirazione per un magistrato, come Woodcock, capace di un discorso al limite del rivoluzionario.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 15 aprile 2021. Partono bordate contro la proposta di istituire una Commissione parlamentare d' inchiesta sull' uso politico della giustizia: e - forse non casualmente - partono da tre magistrati che sulle inchieste politiche hanno costruito buona parte della loro carriera. Dopo Pd e M5s, uno dopo l' altro sono Antonino Di Matteo, Luigi De Magistris e Giancarlo Caselli a prendere la parola ieri per chiedere che la Commissione, chiesta compattamente da Forza Italia e da Italia Viva, venga affossata. «Sarebbe un regolamento di conti», dice Caselli, invocando al posto della commissione «riforme serie con una strategia di ampio respiro». Sulla stessa riga Di Matteo, attualmente componente del Csm, e De Magistris. Unica voce parzialmente dissonante, tra i protagonisti dell' assalto giudiziario di questi anni, l' ex pm Antonino Ingroia: che però ipotizza che a occuparsi della faccenda sia una sottocommissione della Commissione giustizia, ovvero una struttura priva di poteri investigativi. La necessità di una commissione che abbia invece la piena facoltà di scavare in quanto è accaduto, interrogando e acquisendo documenti, è invece sostenuta in pieno da azzurri e renziani. Anzi, secondo Matilde Siracusano, deputata forzista, proprio l' ostracismo di alcuni magistrati è la riprova che si deve andare in quella direzione: «De Magistris e Di Matteo contro la commissione inchiesta? Allora stiamo facendo la cosa giusta», dice la Siracusano. «È arrivato - aggiunge - il momento che il Parlamento smetta di guardare dall' altra parte e faccia finalmente luce sul sistema" dei magistrati, indagando sugli intrecci tra politica e potere giudiziario». Sulla stessa lunghezza d' onda il deputato azzurro Andrea Ruggeri: «Il dottor Di Matteo faccia il suo lavoro e non si preoccupi di quello del Parlamento. La commissione d' inchiesta non vuole sanzionare, ma appurare e far conoscere agli italiani se c' è stato un uso distorto della giustizia che si dovrebbe amministrare in nome degli italiani, non di un ordine fattosi potere». Giusi Bartolozzi (Fi) promette una maratona in Aula «per l' immediata costituzione di una Commissione di inchiesta». Eppure nel muro che la magistratura oppone alle critiche che le stanno piovendo addosso qualche crepa, inaspettatamente, sembra aprirsi. E a chiamarsi fuori dalla linea ufficiale della categoria è un altro pm che sul potere politico ha indagato a lungo e con grande clamore mediatico, il napoletano Henry John Woodcock. In un articolo sul Fatto quotidiano, Woodcock si schiera a favore di riforme che il resto dei suoi colleghi considerano quasi golpiste: dalla separazione delle carriere tra giudici e pm all' intervento politico nelle priorità su cui indagare. Mantenere pm e giudici nella stessa categoria, secondo Woodcock, non rende migliori i pm ma peggiora i secondi, mette a rischio la cultura dei giudici «trascinandoli verso una deriva poliziesca». «Oggi i pm si sono abituati a vincere facile, loro compito è convincere un giudice già in perfetta sintonia con i loro argomenti perché si frequentano e chiacchierano agli stessi convegni, agli stessi matrimoni, alle stesse chat». Una svolta epocale, sulle cui motivazioni sarebbe interessante capire di più: ma ieri, raggiunto dal Giornale, Woodock dice cortesemente «Quel che volevo dire l' ho detto nell' articolo».

Da liberoquotidiano.it il 31 marzo 2021. Antonio Di Pietro non è d'accordo con la richiesta dei magistrati che chiedono che se non verranno vaccinati prima degli altri, potrebbero sospendere l'attività giudiziaria. "Allora, partiamo da una premessa. In un'aula di giustizia, durante le udienze di un processo, chi c'è? Escludiamo pure il pubblico perché c'è la pandemia. Dunque: ci sono i magistrati, gli avvocati, gli imputati, i testimoni, i cancellieri, gli uscieri. E un cartello con scritto: la legge è uguale per tutti. E allora, perché soltanto i magistrati dovrebbero essere vaccinati in via prioritaria?. Il vaccino è un diritto per tutti. Quindi ogni cittadino avrebbe diritto a essere vaccinato subito, adesso, in questi giorni. Ma siccome non ci sono vaccini sufficienti, bisogna proteggere per primi i più deboli. Gli anziani e i malati". I magistrati sbagliano? "Non direi che sbagliano. Sbagliare vuol dire commettere un errore. E questo non è un errore: è un abuso. Chiamiamo le cose con il loro nome". L'ex pm di Mani Pulite è duro con gli ex colleghi: "I magistrati conoscono, devono conoscere la legge. E sanno, devono sapere che la legge non concede loro alcuna priorità rispetto agli altri cittadini. Quello che stanno chiedendo è un ricatto. Sanno che c'è bisogno del loro lavoro e minacciano: se non ci vaccinate per primi, blocchiamo la giustizia. Ma se vogliamo parlare di professioni di cui tutti abbiamo bisogno, allora dico che una cassiera del supermercato viene sicuramente prima dei magistrati. Una cassiera è sicuramente indispensabile ed è sicuramente più a rischio di contagi". Di Pietro analizza l'attuale momento del sistema giudiziario italiano: "La magistratura viene vista come una casta. Una professione necessaria al Paese che sfrutta il proprio ruolo per raggiungere un fine, un privilegio. Quanto al confronto con i miei tempi, per favore: non mischiamo il grano col loglio. Quando facevo il pm io, se si trovava un reato si cercava il colpevole. Adesso spesso prima si cerca il colpevole, poi ci si dà da fare per trovare un reato da contestargli". Infine svela il troppo accanimento giudiziario sui politici. "Posso dirle una cosa? Per me anche Matteo Salvini è innocente. Cioè: non condivido quello che ha fatto. Ma era ministro di un governo che sapeva benissimo quello che stava facendo Salvini. E che facevano gli altri, in Consiglio dei ministri? Stavano a guardare? Si lavavano le mani come Ponzio Pilato? Forse sì, si sono lavati le mani come Ponzio Pilato. Ma Ponzio Pilato è colpevole della morte di Cristo! E allora dovrebbero essere processati tutti. Non Salvini solo", conclude Di Pietro. Il riferimento è al caso Open Arms, per cui pochi giorni fa la procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio del leghista per sequestro di persona. Salvini ha sempre sostenuto che la scelta fosse collegiale, presa di concerto con i ministri del governo gialloverde. E anche Di Pietro mostra di pensarla così.

Vaccini e magistratura: la polemica. Articolo 101 contro l’Anm. Redazione su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Dopo la presa di posizione dell’Anm, è ancora polemica su vaccinazioni antiCovid e operatori della giustizia. Ieri sono intervenuti i magistrati della lista Articolo 101 a sottolineare come l’invito a vaccinare prima i magistrati sia «inaccettabile» e «molto pericoloso perché riflette e alimenta una concezione della magistratura, gerarchizzata e verticistica, con caratteri antitetici a quelli scolpiti dalla Costituzione a garanzia del legale, indipendente e imparziale esercizio della giurisdizione». La “stella polare”, continuano gli esponenti di Articolo 101, va trovato nel “principio di uguaglianza”, mentre il documento dell’Anm, «rischia di far sì che la magistratura sia vista dall’opinione pubblica, non solo a causa degli scandali ai quali non si è ancora iniziato a porre rimedio, come “magistropoli” ma persino come “castopoli”». E, tra le toghe, c’è anche chi ha deciso di revocare la sua adesione all’Anm: è il caso della pm di Roma Antonia Giammaria, «a seguito dell’ennesima prova di incapacità della dirigenza dell’Anm di tutelare l’intera categoria dei magistrati, magari proponendo soluzioni sensate e utili per l’esercizio della giurisdizione in questa fase».

"Le correnti devono uscire dal Csm". Il magistrato leader di Articolo 101: "L'unica via è il sorteggio". Luca Fazzo - Mer, 31/03/2021 - su Inside Over il 30 marzo 2021. «L'unica possibilità per rientrare da questa degenerazione è recidere ogni tipo di rapporto tra l'Associazione nazionale magistratura e il Csm. Le correnti organizzate devono uscire dal Consiglio superiore della magistratura, che deve tornare ad essere un organo tecnico e non politico. E la strada maestra è quella del sorteggio. Se un magistrato è in grado di amministrare la giustizia è in grado anche di fare parte del Csm». A parlare è il giudice Andrea Reale, leader di Articolo 101: il gruppo che da due settimane chiede al presidente della Repubblica di intervenire con forza nel marcio emerso dal caso Palamara, e che ieri ha attaccato con un comunicato di fuoco i vertici dell'Anm per il comunicato che pretendeva l'accesso privilegiato delle toghe al vaccino anti-Covid. «Un madornale errore» che porta la gente a vedere la magistratura come «castopoli».

Castopoli è una definizione forte.

«Forte e provocatoria. Abbiamo voluto ricordare a tutti che non dobbiamo sentirci casta ma essere al servizio delle istituzioni. Se siamo percepiti come tale è perché le correnti nate come aggregazioni culturali hanno occupato tutti gli spazi istituzionali disponibili, in una sostanziale contiguità al potere politico. La conseguenza è che Anm e Csm anziché controllarsi a vicenda sono di fatto sovrapposti, un tutt'uno indistinto dove c'è addirittura un unico cursus honorum assolutamente inaccettabile, si passa dalla carica nell'Anm a quella del Csm come se fossero la stessa cosa».

Come se ne esce?

«Basta prevedere forme nette di incompatibilità. Chi ha ricoperto cariche nelle correnti e nell'Anm non deve essere candidabile al Csm per un congruo numero di anni. L'Anm deve smettere di essere un trampolino di lancio per le carriere successive».

Nella degenerazione del sistema hanno pesato di più le ambizioni dei singoli magistrati o l'invadenza delle correnti?

«Entrambe. E tutto nasce dalla riforma del 2006 che ha spezzato in due la magistratura, da una parte chi ricopre cariche direttive e dall'altra i magistrati senza distintivo. Questo ha determinato la ricerca del potere a tutti i costi, la caccia alle funzioni direttive o ai posti fuori ruolo. Le lotte di potere hanno fortificato le lobby correntizie che hanno occupato le istituzioni al fine di portare avanti i loro accoliti».

Le vecchie correnti della magistratura sono in grado di cambiare?

«Devono farlo e urgentemente. Per quanto siamo caduti in basso nella credibilità e nella fiducia dei cittadini, mi auguro che le correnti capiscano che l'autoriforma è indispensabile. Serve sensibilità e resipiscenza. Ma se questo, come temo, non accadrà, serve un intervento esterno del Parlamento che introduca il sorteggio dei membri del Csm».

La Costituzione non lo consente.

«La Costituzione si può cambiare. Altrimenti si cominci, come è possibile, a prevedere il sorteggio di un multiplo di magistrati in cui eleggere i componenti togati del Csm. È l'unico modo per tentare di portare la politica fuori dal Consiglio superiore».

La proposta di Ermini rompe il silenzio. Responsabilità professionale dei magistrati, rotto il muro del silenzio. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 28 Marzo 2021. Forse ci siamo. Dalli e dalli -cito il detto partenopeo- si spezza pure il metallo. Nessuna illusione soverchia, per carità, ma vedo che il tema della responsabilità professionale del magistrato, e dunque della assurda automaticità della sua progressione in carriera, comincia a varcare il recinto di indifferenza e di silenzio nel quale noi pochi sostenitori della questione siamo stati a lungo confinati. Quando addirittura il vice-Presidente del Csm David Ermini, con tutte le prudenze del caso, ha espresso l’opinione che, forse, nella valutazione professionale quadriennale dovrebbe trovare posto anche un bilancio dei risultati conseguiti dal magistrato nella sua attività giudiziaria, abbiamo compreso che non saremmo stati più soli, noi delle Camere Penali Italiane, insieme al prof. Giuseppe Di Federico e pochi altri. I termini della questione sono noti e facilmente comprensibili. Se le valutazioni di professionalità sono da decenni positive per tutti i magistrati in servizio (99,6%), significa che in Italia, unico Paese nel mondo democratico occidentale, non esistono valutazioni di professionalità dei nostri magistrati. E se i curricula sono conseguentemente tutti livellati e più o meno equivalenti, inutile lamentare ipocritamente che le scelte dei capi degli uffici seguano criteri di appartenenza correntizia o comunque schiettamente politici (opportunità, continuità o discontinuità con il vertice uscente, colore delle istituzioni politiche territoriali, eccetera). Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma ma soprattutto da tempo autorevole esponente della magistratura associata, in una interessante intervista sul Dubbio ci spiega perché reputa ingiusta la critica, ed impraticabile la proposta di Ermini. Le valutazioni di professionalità, dice, sono finalizzate a garantire uno standard medio accettabile, non a selezionare eccellenze. Insomma, sarebbe un sistema pensato solo per sanzionare le gravissime inadeguatezze, e questo spiega le percentuali. Ammette però la ricaduta paralizzante nei giudizi per le nomine dei capi degli uffici. Davvero sarebbe questa la logica? Beh, è una logica sbagliata e anzi francamente sorprendente. Sia perché non ci fa comprendere quali sarebbero le controindicazioni nel selezionare le eccellenze in una funzione pubblica di questa cruciale delicatezza; sia perché, percentuali alla mano, è un sistema che, come ben sappiamo, penalizza giusto gli squilibrati (ma nemmeno sempre) e qualche mascalzone. Ogni professione, ed a maggior ragione ogni funzione pubblica, ha il dovere di controllare severamente la qualità di chi la esercita, a garanzia della collettività, ed in tale contesto anche di selezionare le eccellenze. Il capo di una Procura, il Presidente di un Tribunale o di una Corte di Appello, devono essere espressione di una eccellenza, altroché! E di cos’altro, sennò? Ora, come si possono tenere fuori da questo vaglio i risultati dell’attività di ciascuno? Non il singolo risultato, per l’amor di Dio, nessuno è così qualunquista ed irresponsabile da pensare una insensatezza del genere. Altrimenti, ogni assoluzione sarebbe un titolo di demerito per il Pm che ha istruito il processo, per il Gip che ha disposto la misura cautelare, per il Tribunale che ha condannato in primo grado. Ma una valutazione complessiva e debitamente ponderata nel quadriennio, è tutt’altra cosa. Le statistiche in un arco di tempo significativo descrivono con una buona dose di precisione la qualità del magistrato. Tra un gip cui sia stato annullato il 20% delle proprie ordinanze custodiali, ed un altro a cui invece il 50%, non c’è differenza qualitativa? Non vogliamo valutare gli esiti complessivi delle attività di indagine dei Pubblici Ministeri? Se un giudice monocratico -non sto facendo esempi di fantasia- ha una percentuale di annullamento delle proprie sentenze superiore al 60%, non merita di essere valutato per questo? Non scherziamo, per favore. Si resiste alla forza incontrovertibile di questi argomenti perché si teme la responsabilizzazione del giudice, che -udite udite- ne verrebbe condizionato nella sua indipendenza. Quindi non responsabilizziamo il chirurgo, nel timore che altrimenti gli tremi la mano, o si rifiuti di intervenire? Poco dopo l’intervista all’amico Eugenio Albamonte, ho letto un articolo di Valentina Errante sul Messaggero, che ricordava solo alcuni casi di inchieste eclatanti e devastanti, conclusesi nel nulla. Per esempio, i processi ad Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli. Diciannove assoluzioni in diciassette anni, una carriera di uomo pubblico stroncata senza ragione. Vogliamo davvero credibilmente sostenere che sia giusto ed equo un sistema che non prevede, anzi non consente di chiederne conto a nessuno? E soprattutto, che non garantisce ai cittadini che chi se ne è reso responsabile venga infine messo in condizione di non più nuocere?

Parte il braccio di ferro. Ermini chiede test di qualità per i magistrati, Anm fa le barricate. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Weekend incandescente quello appena trascorso in tema di giustizia. Per una volta non si è trattato di retate ma di opinioni condivise sugli organi di stampa. Ad aprire le danze era stato l’ex pm Antonio Di Pietro ricordando la tendenza delle Procure, sempre più in voga dai tempi di Mani pulite, di “indagare prima su chi l’ha commesso senza accertare se il reato è stato commesso”. Riferimento del Tonino nazionale al procedimento Eni-Nigeria dove, dopo tre anni di dibattimento, gli imputati sono stati tutti assolti perché il fatto non sussiste. Una assoluzione che ha creato tensioni senza precedenti in Procura a Milano mettendo in forte crisi la leadership dell’attuale procuratore Francesco Greco che aveva condiviso totalmente le scelte investigative dell’aggiunto Fabio De Pasquale. A seguire, poi, è intervenuto il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini che per un giorno si è scordato di essere nelle chat dell’ex zar delle nomine Luca Palamara e ha sparato la proposta di valutare i magistrati a seconda dei risultati ottenuti. «Bisogna fissare criteri più stringenti nelle procedure di nomina. Personalmente, sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti: se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o no in una valutazione di professionalità?», ha detto Ermini. Proposta non particolarmente originale che ha però subito suscitato un coro di critiche da parte dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Che le valutazioni di professionalità dei magistrati siano tutte positive non è un mistero per nessuno. Nella tabella allegata al disegno di legge di riforma dell’Ordinamento giudiziario in discussione alla Camera ci sono numeri a dir poco sorprendenti. Le ultime statistiche raccontano che il 99,30 per cento delle toghe ha conseguito una valutazione positiva. E solo lo 0,20 per cento aveva avuto un giudizio negativo. Numeri che stridono con quella che è la realtà dei Tribunali italiani. Ma che il Csm sia di manica larga lo dimostra il caso del giudice Giulio Cesare Cipolletta, valutato positivamente dal Csm pur avendo squarciato con un pugnale le gomme delle auto dei colleghi con cui aveva avuto una discussione e azzoppato una signora al termine di un diverbio per motivi di traffico. A dire il vero esiste già adesso il criterio dell’incompatibilità “funzionale”. Criterio mai utilizzato dal Csm. Tornando all’intervista di Ermini, il vice presidente ha ricordato che il «sistema spartitorio nel Csm ora non c’è più. C’è trasparenza nelle decisioni». Ermini avrebbe dovuto aggiungere che le nomine al Plenum avvengono spesso con lo scarto di un voto o due. E quasi sempre questi uno o due voti sono quelli dei vertici della Cassazione, membri di diritto del Csm.

«Caro Ermini, le regole ci sono. È il Csm che “promuove” tutti i magistrati italiani…» Valutare i magistrati? Intervista a Giuseppe di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. Valentina Stella su Il Dubbio il 23 marzo 2021. Dalle pagine del Messaggero si torna a discutere di valutazione professionale dei magistrati. Il primo a parlare è stato il vice presidente del Csm, David Ermini: «sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato via sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti». Poi è stato Carlo Nordio con un suo editoriale a plaudire l’iniziativa di Ermini. Critico invece si è mostrato, questa volta dalle pagine di Repubblica, il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, che ha detto: «In questi termini così radicali non posso che esprimere un fermo dissenso. […] I magistrati devono poter agire certamente senza un’aspirazione a vantaggi personali di carriera, ma anche senza il timore di ripercussioni sulle loro carriere». Di tutto questo ne discutiamo con Giuseppe di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. È stato Presidente dell’European Research Network on Judicial Systems  e componente  del Consiglio Superiore della Magistratura.

Professore cosa ne pensa di quanto detto dal vice presidente Ermini?

Se me lo avesse detto personalmente, avrei ricordato ad Ermini che già adesso i nostri criteri di valutazione dei magistrati sono i più stringenti, i più analitici, i più penetranti di quelli di tutti i sistemi europei che hanno un reclutamento di tipo burocratico come il nostro. Ciononostante, i dati delle ricerche da me condotte analizzando i verbali del Csm a partire dagli anni 1960 mostrano che la percentuale dei magistrati valutati positivamente ha variato, nei vari periodi, tra il 99,1% ed il 99,5%. Quindi negli ultimi 60 anni il Csm ha deciso di sua iniziativa di promuovere tutti i magistrati fino al vertice della carriera in base all’anzianità,  fatta eccezione per i casi di grave e documentato demerito (come le più elevate sanzioni disciplinari o condanne penali). Anche i pochissimi magistrati bocciati di solito poi sono promossi con due o tre anni di ritardo.  Quindi se non funzionano i criteri che già esistono, è ridicolo pensare ad altri criteri: l’attuale Csm, quello che lui stesso presiede, non effettua da tempo le valutazioni di professionalità ai fini dell’avanzamento in carriera.  È di fatto una violazione dell’articolo 105 della Costituzione, che assegna espressamente al Consiglio il compito di effettuare le “promozioni” dei magistrati, salvo a non voler ritenere che il nostro Costituente volesse dare al termine “promozioni” un significato diverso da quello che ha nella lingua italiana.

Nordio sostiene che il discorso di Ermini è rivoluzionario perché tocca essenzialmente i pm. Pensiamo solo al caso di Nicola Gratteri e ai tanti pm mediatici le cui inchieste poi vengono smontate nei vari gradi di giudizio. Per l’opinione pubblica invece la tesi dell’accusa è quella che rappresenta la verità. Quindi fa bene l’Unione delle Camere Penali a sollevare questo dibattito.

Come faccio a non dichiararmi d’accordo con Nordio e con le Camere penali sul fatto che la proposta fatta dal V. Presidente del Csm avrebbe effetti positivi sia per la protezione dei diritti dei cittadini nell’ambito processuale sia per le casse dello Stato. Queste cose le ripeto da quarant’anni, anche nel lungo periodo in cui il dirlo era considerato sovversivo e avversato non solo dai magistrati ma anche nell’ambito universitario.  E a nulla valeva ricordare le soluzioni ordinamentali che in vario modo trovavano applicazione negli altri Paesi democratici.  E ha ragione Nordio nel ricordare che negli Stati Uniti i pubblici ministeri vengono considerati inadatti a svolgere le loro funzioni, e anche licenziati,   se ricorrentemente portato dinanzi al giudice cause che si  dimostrano prive di fondamento.

Contrario alla proposta di Ermini si è espresso su Repubblica il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia.

Io ho fatto ricerche sugli assetti e il funzionamento del pubblico ministero in numerosi Paesi democratici. Non dico che non esistano problemi che possono intimidire il pubblico ministero allorquando si valuta il suo operato. Questo è sempre possibile ma a fronte di questo c’è spesso il problema di evitare che cittadini innocenti vengano gravemente danneggiati sotto il profilo sociale, politico, economico, familiare e della stessa salute a causa di una azione penale irresponsabile. Quindi un equilibrio tra indipendenza e responsabilità va ricercato – anche se a parer mio in Italia non si farà nulla. A nulla vale ricordare che vigendo formalmente il principio dell’obbligatorietà dell’azione qualsiasi azione del PM, per discrezionale che sia, diventa “un atto dovuto”, il pm può sempre affermare che in regime di obbligatorietà non poteva agire diversamente.

Secondo il professore Tullio Padovani «le indagini preliminari non sono coperte dal dovere che si pretende di ritrovare nell’articolo 112 della Costituzione. L’obbligatorietà dell’azione penale non si riferisce espressamente alle indagini preliminari».

Queste sono elaborazioni teoriche che, per quanto corrette e interessanti, di per sé non producono effetti. Io sono uno studioso empirico. Il problema è che il cittadino viene danneggiato ricorrentemente da iniziative ingiustificate che dinanzi al giudice cadono con una frequenza elevata.

E all’origine c’è un pm in cerca di notorietà e carriera.

È inevitabile. Il nostro pubblico ministero dirige in via esclusiva la polizia nella fase delle indagini ed in tale contesto è di fatto un poliziotto indipendente. In un Paese democratico un poliziotto indipendente dovrebbe essere una figura inconcepibile. Da noi in Italia   questo non viene considerato un problema degno di attenzione. Poi c’è un altro aspetto da rilevare nell’articolo di Nordio.

Prego.

Lui dice: «Tralascio di citare i Paesi dove il pm, come in Francia, dipende dal potere esecutivo». La Francia la questione dell’indipendenza dal Ministro l’ha risolta in maniera conforme ai Paesi anglosassoni: il pubblico ministero quando compie le sue scelte di natura discrezionale sta effettuando scelte di politica criminale. Ora, tutte le scelte di politiche pubbliche in un Paese democratico dovrebbero essere inquadrate in un sistema di responsabilità politica. Nel 1997 il Presidente Chirac creò una commissione per la riforma del processo penale e chiese di considerare la possibilità di distaccare il pm dalla dipendenza del Ministro. Al tempo anche a me fu chiesto un parere da parte di Robert Badinter (già Ministro della Giustizia, ndr). Cosa venne risposto a Chirac da parte della commissione presieduta dal presidente della Corte di Cassazione francese, ma composta per la gran parte da non magistrati? Che siccome non tutte le violazioni penali possono essere perseguite, il pm deve fare delle scelte che sono di fatto scelte di politica criminale, e che tali scelte non possono essere fatte se non nell’ambito del processo democratico. Che quindi non era possibile sottrarre il pm dalla dipendenza gerarchica dal Ministro della giustizia. Alla stessa conclusione è giunta la Corte costituzionale francese decidendo su una questione sollevata dal sindacato della magistratura di quel Paese.

Alberto Gentili per “Il Messaggero” il 21 marzo 2021.

Martedì Mattarella presiederà il plenum del Csm, è il segno di una nuova legittimazione? 

«E' così. Il Presidente venne nel giugno del 2019 all'esplodere delle note vicende e il fatto che martedì sia ancora lui a presiedere il plenum è più che significativo e ci rincuora e rafforza. C'è stato da quel giugno uno stillicidio di chat e intercettazioni, sono emersi in tutta la loro evidenza i guai del carrierismo e del correntismo e comportamenti esecrabili, ma anche letture francamente denigratorie della magistratura. Un periodo di per sé molto travagliato, a cui si è aggiunta la terribile pandemia. In tutti questi mesi il presidente Mattarella è stato per noi guida preziosa, non ha mai fatto mancare il suo sostegno, i suoi consigli. Tutta la magistratura, non solo noi consiglieri del Csm, sa di avere nel capo dello Stato il difensore strenuo dell'indipendenza e dell'autonomia dell'ordine giudiziario. Inoltre martedì è uno dei passaggi finali affinché l'Italia prenda parte a pieno titolo all'avvio e al funzionamento della Procura europea che dovrà indagare e perseguire frodi e reati lesivi degli interessi finanziari dell'Unione: strumento indispensabile in vista del Recovery Plan. Si pensi all'imponente flusso di risorse che verranno dall'Europa e al rischio di frodi comunitarie». 

Lei parla di letture denigratorie della magistratura, lo scandalo Palamara ha però avuto effetti devastanti...

«E' vero. Ma dico denigratorie perché si arriva a mettere in dubbio l'imparzialità della magistratura e dunque la legittimità dei suoi provvedimenti. Ma quanti sono i magistrati coinvolti a vario titolo nello scandalo? Cinquanta? Cento? Sono però migliaia i magistrati che in tutti questi anni hanno garantito diritti e legalità, a volte rischiando anche la vita e a volte purtroppo perdendola.  Si badi, difendere la magistratura non è difendere una casta, ma è difendere la giurisdizione che è un pilastro della democrazia. Giurisdizione di cui fanno parte anche gli avvocati e le cui libertà sono sotto attacco in diversi Paesi europei. Se viene meno la fiducia nella magistratura, viene meno un pilastro della democrazia». 

Ma il Csm come ha reagito in questi due anni?

«Il Csm non ha mai mancato un plenum, mai una commissione, mai ha smesso di svolgere tutte le funzioni attribuite dalla Costituzione e dalla legge. In tutti questi mesi sono stati nominati capi di uffici giudiziari, sono state approvate circolari, valutati magistrati, votati pareri e linee guida per l'organizzazione dei processi in emergenza pandemica. La prima commissione è da mesi al lavoro su migliaia di trascrizioni inviate da Perugia, per individuare se ci sono i presupposti per il trasferimento per incompatibilità dei magistrati seriamente coinvolti nelle chat. Soprattutto è al lavoro la sezione disciplinare: abbiamo fissato e in gran parte già avviato tutti i procedimenti istruiti dalla procura generale». 

Sembra che descriva il migliore dei mondi possibili.

«Per carità, non dico questo. Risalire la china di un discredito così profondo non è per nulla facile. Critiche, delusioni, ci può stare tutto, ma un sistema spartitorio nel Csm ora non c'è più. C'è trasparenza nelle decisioni, nelle nomine prevale l'ordine cronologico, le istruttorie prevedono audizioni degli interessati. Ci stiamo seriamente provando, anche se resto convinto che i fatti incresciosi e dolorosi che hanno incrinato il prestigio e la credibilità della magistratura e del suo organo di autogoverno non possano risolversi solo attraverso sanzioni o trasferimenti dei colpevoli. Richiedono anche buone leggi di riforma e soprattutto una rifondazione etica, una vera rivoluzione culturale, da parte dei magistrati». 

Il pallino delle riforme ora è in mano alla ministra Cartabia. Sarà presente anche lei al plenum di martedì.

«E noi siamo ben lieti di accoglierla, nel Csm troverà sempre un interlocutore leale, attento e aperto al cambiamento. La ministra è una giurista eccelsa, ha un senso profondo della giustizia e delle istituzioni. Sa che le istituzioni vanno salvaguardate al di là delle persone. Va accertata fino in fondo e a tutti i livelli qualsiasi responsabilità, ma mai le colpe personali devono trascinare in basso le istituzioni». 

La legge di riforma del Csm è ferma, tra un anno e mezzo si vota per il nuovo Consiglio. Una corsa contro il tempo quella della ministra Cartabia.

«Ho piena fiducia nel suo metodo e nelle sue capacità di mediazione. Certo, la maggioranza che sostiene il nuovo governo è piuttosto variegata, sono però convinto che saprà fare sintesi tra posizioni anche diverse e portare in porto una riforma che è indiscutibilmente necessaria. E' necessario cambiare la legge elettorale e bisogna fissare criteri più stringenti nelle procedure di nomina. Personalmente, sono dell'avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti: se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o no in una valutazione di professionalità? Ma al di là delle mie opinioni, resta il fatto che la riforma del Csm va fatta». 

Lei dice che va fatta, però il Csm sulla riforma si è già spaccato.

«Respingo questa raffigurazione. C'è questo tic mediatico per cui opinioni diverse significano subito divisioni e spaccature. Mi chiedo: diciamo tutti che le correnti devono smetterla di gestire incarichi e potere e devono tornare a essere fucina di idee, e non è questo il caso? 

Qui si sta parlando di una riforma monumentale che riguarda tutto l'ordinamento giudiziario, se la discussione è giustamente animata, è proprio perché ci sono culture e sensibilità diverse. La riforma va fatta ma deve essere una riforma giusta, non punitiva o vendicativa. 

Alla fin fine, rimangono tre paletti: 1) rispetto dell'autonomia e indipendenza della magistratura e della giurisdizione, 2) rispetto del ruolo costituzionale del Csm, 3) rispetto del pluralismo ideale». 

E le riforme del processo civile e penale?

«Sono assolutamente necessarie anche queste. In primo luogo per i cittadini, perché la giustizia funziona se i processi sono giusti ma anche rapidi. Il tempo è variabile essenziale: avere giustizia dopo 10 anni non è giustizia. E' indispensabile una riforma nel civile, anche per le sue ricadute sull'economia, insieme a quella importantissima del fallimento. Specie in una situazione di crisi drammatica come quella che stiamo vivendo, un'impresa insolvente che salta rischia di travolgere tanti lavoratori, un intervento rapido della giustizia può evitare che la crisi d'impresa si risolva in crisi occupazionale e sociale. E poi, naturalmente, c'è il penale. Dico solo che sul carcere sono perfettamente d'accordo con la ministra Cartabia e che, se vogliamo deflazionare il carico dei processi, vanno sul serio agevolati (e fatti funzionare, e i primi a farlo dovrebbero essere i magistrati) i riti alternativi. Ma sia chiaro che le riforme del processo sono necessarie anche alla magistratura, perché rispondere alla domanda di giustizia in tempi rapidi accresce fiducia e credibilità». 

Ma lei crede davvero che il Parlamento riuscirà ad approvare queste riforme?

«Beh, ci voglio credere. E' però necessaria una sorta di pacificazione nazionale: i partiti, tutti i partiti, dovrebbero deporre le armi ideologiche e ragionare per il bene dei cittadini. Il funzionamento della giurisdizione non può e non deve essere tema divisivo. Io davvero auspico che vi possa essere un clima non conflittuale ma collaborativo nel risolvere i problemi più urgenti della giustizia. E poi, sa cosa le dico? Non so se compatibile con la nostra Costituzione, ma l'idea della ministra Cartabia di un rinnovo parziale del Csm mi convince non poco».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 22 marzo 2021. L' idea di una riforma che prevedesse anche le pagelle per i magistrati, Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte costituzionale, l' aveva avuta 25 anni fa, da ministro della Giustizia del primo governo Prodi, e aveva scelto come direttori generali di via Arenula alcuni dei magistrati più esperti ai quali adesso si è rivolta anche la Guardasigilli Marta Cartabia. Oggi non ha cambiato idea, ma ritiene che un intervento di questo tipo debba fare parte di una ristrutturazione sostanziale del sistema giudiziario. Ovviamente partendo dai tempi dei processi.

Il vicepresidente del Csm, David Ermini, ipotizzava che nella valutazione di un pm possa pesare anche l' esito dei processi che istruisce. Che ne pensa?

«Penso che un sistema che valuti le competenze di un magistrato sia indispensabile. Penso addirittura siano necessarie verifiche periodiche sulla preparazione e che debba essere valutata work in progress. Le pagelle non possono, ovviamente, diventare uno strumento di controllo; invece bisogna evitare che, dopo l' ingresso in magistratura, si entri in un sistema di autoreferenzialità. Le cose cambiano e anche i magistrati devono essere all' altezza dei loro ruoli. Credo che i criteri di valutazione oggi siano insufficienti. Raramente all' interno di un ufficio si leggono relazioni che mettano in luce lacune o impreparazione dei magistrati. Bisogna trovare un' unità di misura sulle conoscenze che si manifestano anche attraverso il modo di decidere dei magistrati, senza, però, intaccarne l'indipendenza».

Però tante inchieste si concludono con assoluzioni.

«L'articolo 25 della Costituzione stabilisce che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. La legge chiede al magistrato di accertare quel fatto e la responsabilità della persona, quando al fatto si sostituisce il fenomeno la situazione diventa problematica. Insisto, e non da ora, ci sono tre sfere concentriche di responsabilità per un magistrato: quella penale, come tutti i cittadini, quello disciplinare e quella deontologica. Quest' ultima, fondamentale per magistrati, è affidata alla reputazione e agli organi associativi. Ed è la premessa per la responsabilità disciplinare. Certi comportamenti, etichettati come espressione di libertà, andrebbero riconsiderati, nell' ottica di un possibile attrito con la deontologia. Al magistrato si riconoscevano un ruolo e una credibilità che adesso stentano a essere riconosciuti».

Quando è iniziato tutto questo?

«L' ho detto più volte, penso che questa tendenza sia iniziata con Tangentopoli. La magistratura ha ritenuto di dovere perseguire anche i costumi. Dopo Tangentopoli, abbiamo abbandonato il metodo di giudicare il fatto per guardare successivamente all' uomo. Oggi si giudica l' uomo, il corruttore, l' associato a delinquere, ossia il tipo di persona che è espressa da quel fatto; quest' ultimo è oggetto del trattamento penitenziario».

La giustizia è in crisi?

La crisi del processo è legata a due questioni: in primo luogo si è allargato a dismisura l' impiego della tecnologia come strumento di indagine. La violazione dell' articolo 15 della Costituzione deve avere un carattere di eccezionalità. Strumenti come l' intercettazione, e tanto più il trojan, dovrebbero essere utilizzati solo in casi indispensabili, per proseguire indagini già aperte. Invece si fa pesca a strascico, violando così anche il principio costituzionale della libertà di espressione».

Però c' è l' obbligatorietà dell' azione penale.

«L' obbligatorietà dell' azione penale è fondamento di eguaglianza ma rischia di diventare un' utopia, quindi deve esserci una legge che la regoli. Non può essere affidata alle circolari del Csm o dei capi degli uffici o alla discrezionalità dei singoli procuratori».

Il secondo dei motivi della crisi del processo?

«La durata dei processi viene scaricata sulla posizione di uno dei protagonisti, ossia solo sull' imputato. La ragionevole durata del processo è, invece, in carico allo Stato, che deve disporre degli strumenti per dare una risposta in tempi rapidi. Ma c' è anche una terza questione: la crisi del principio di legalità, legata alle troppe fonti normative. Alle nostre leggi, si aggiungono le decisioni della Corte dei diritti dell'Uomo, della Corte di giustizia europea e della Consulta. Oltre che l'interpretazione dei singoli giudici. Una confusione nella quale, da ultimo, abbiamo scoperto i Dpcm, che sono ordini amministrativi. Più le leggi sono numerose più c'è la possibilità di interpretarle; se poi chi deve interpretare la legge, rispetto a un fatto specifico, non ha adeguata cultura e preparazione, sorgono altri problemi. Al giudice è dato un potere molto ampio al livello di interpretazione. Ma la decisione non può essere una creazione. Il superamento della nomofiliachia (il rispetto delle precedenti decisioni), in assoluto, è un errore».

L'immagine della magistratura ha subito un duro colpo, pensa che una riforma del Csm sia indispensabile?

«Indispensabile, ma non dimezzando i tempi per cambiare metà del Consiglio, come sostiene Ermini. Bisognerebbe limitare il correntismo e invece, così, ci sarebbero doppie elezioni».

Nel pianeta Giustizia c'è anche la questione carceri.

«La pandemia ha fatto esplodere in maniera evidente una questione già aperta. In questo momento si vietano i contatti, i rapporti tra le persone avvengono da remoto, invece i detenuti hanno un obbligo di convivenza coattiva che favorisce i contagi; ma, il problema si poneva anche prima. Inoltre la sicurezza collettiva rischia di prevalere sulla funzione rieducativa e sul rispetto dei cosiddetti residui di libertà compatibili con la reclusione, attraverso l' ostacolo a concedere misure alternative ai condannati per reati gravi, come mafia e terrorismo, che non collaborino con la giustizia. Di questo si occuperà la Consulta questa settimana».

Parla l’ex vicepresidente del Csm. L’ex numero 2 del Csm Verde attacca i Pm: “Hanno troppo potere, serve una legge ad hoc”. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Marzo 2021. «Non c’è attività umana che non abbia controindicazioni e, paradossalmente, il rischio è la molla che spinge a osare e senza la quale si avrebbe la mediocre stagnazione. Questa è la situazione dell’Italia oggi, che da anni non cresce, in tutti i sensi, e sembra destinata ad un inarrestabile declino. Le riflessioni che ho condensato nel mio recente libro Giustizia, politica, democrazia – Viaggio nel Paese e nella Costituzione, nascono dalla convinzione – non vado oltre il mio campo, essendomi da sempre occupato di giustizia e di processo – che ciò che avviene è in qualche modo collegato al nostro sistema di giustizia». Il professor Giovanni Verde, giurista, tra i massimi esperti di processo civile, già vicepresidente del Csm, avvocato, docente universitario e per dodici anni magistrato, accetta di fare con il Riformista una riflessione sullo stato attuale della giustizia. «Il nostro sistema è afflitto da panpenalismo che, insieme con l’estensione incontrollabile della burocrazia, è il prodotto deteriore del giustizialismo. Purtroppo non abbiamo rimedi, se non riusciamo a correggere la nostra cultura, fondata sul sospetto e sulla sfiducia. E siamo destinati a perdere nella competizione con Paesi che hanno opposti punti di partenza». La cultura del sospetto, negli anni, ha alimentato il groviglio di norme che spesso paralizza le decisioni della pubblica amministrazione e rende biblici i tempi del processo. «Al lettore chiedo se si è mai interrogato su che cosa pensino della nostra giustizia gli altri Paesi, avendo appreso che spesso le nostre sentenze di condanna in materia penale sono annullate in appello o cassate dalla Suprema Corte perché il fatto non sussiste o non è stato commesso. Lo straniero si chiederà: “Ma come è possibile una condanna, se anche la vostra Corte suprema insegna che si può condannare soltanto oltre ogni ragionevole dubbio”? È evidente – ci direbbe – che i vostri giudici condannano anche in caso di dubbio e che, pertanto, si pongono fuori dalla Costituzione, se è esatto che nell’articolo 27 è implicita la presunzione d’innocenza». «Il nostro processo similaccusatorio – continua Verde – deve fare i conti con il giustizialismo che ci appartiene e che è latente nella stessa nostra Carta fondamentale che – unica o tra le poche al mondo – prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Questa è, sul piano logico, un ossimoro e, nella realtà, un’ipocrisia. Su di una contraddizione logica e su di un’ipocrisia regge l’impalcatura che ha dato ai pm un potere immenso. Le Procure sono oggi altrettanti “grandi fratelli” che penetrano, senza limite, nelle nostre vite private». Qual è il loro peso? «Le attuali vicende del Csm rendono chiaro che il problema è lì: nelle Procure. È in atto un’operazione di oscuramento o di depistaggio tendente a fare credere che il problema sia quello delle nomine e della carriera dei magistrati, da risolvere con un’ennesima (e inutile) riforma della legge con cui si eleggono i consiglieri del Csm. Non è così. Il problema delle nomine e della carriera non interessa il cittadino, che vuole giustizia rapida, prevedibile e ragionevole. Oggi vi è una sovraesposizione del potere inquirente sugli altri poteri dello Stato». Quali soluzioni sono possibili? «Il ministro attuale, così come quelli passati, pensa che i problemi possano essere superati lasciando fermo l’attuale contesto e modificando regole, riti e procedure. Così avviene che il tema della prescrizione dei reati diventi divisivo (mentre è un non problema: dopo venti anni la condanna si trasforma in vendetta). Il ministro chiama esperti – scegliendoli tra magistrati e teorici – che in un mese dovrebbero dare consigli appropriati. Il tema richiederebbe, piuttosto, oltre che tempo adeguato, la sensibilità del cittadino e il coraggio di affrontare il male là dove ne sono le cause. Si cura la febbre, mai la malattia». «Dal mio libro – aggiunge Verde – è possibile enucleare non poche proposte. Ne ricordo qualcuna: distinguere nell’ordinamento giudiziario lo “status” del giudice da quello del pm; scrivere una legge sulla responsabilità disciplinare del pm diversa da quella per i giudici; fare lo stesso per la legge sulla responsabilità civile; valorizzare la capacità del giudice di organizzare il processo, sanzionando l’attuale prassi per la quale il giudice studia sul serio il processo soltanto quando deve decidere (un’altissima percentuale di processi si allunga nel tempo perché non sono gestiti correttamente); introdurre filtri tesi a limitare il ricorso per Cassazione per controversie bagatellari; riesaminare il mito del doppio grado, anche perché l’attuale appello civile è un brutto doppione del giudizio di legittimità. Potrei continuare. Ma a chi parlo? A chi crede di risolvere i problemi allungando la prescrizione dei reati o costruendo modellini processuali? Auguri».

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 19 marzo 2021. Arriverà al voto probabilmente dopo Pasqua il parere del Csm sulla riforma della giustizia Bonafede, che alla Camera è in attesa degli emendamenti proposti da Marta Cartabia. La nuova Guardasigilli martedì sarà per la prima volta a Palazzo de' Marescialli, al plenum presieduto da Sergio Mattarella. E il giorno dopo riprenderà la discussione su 3 dei 6 capitoli della sesta commissione, ancora da esaminare e sui numerosi emendamenti. Ma al ministro della Giustizia il Csm già invia messaggi molto critici sulla riforma, respingendo nella premessa tentativi di «ridimensionare le prerogative costituzionali» dell' organo di autogoverno delle toghe, retrocedendolo a organo amministrativo, come dice il testo della relatrice di Area Elisabetta Chinaglia. Premessa che tutti i laici contestano, ottenendo da una parte dei togati l' assicurazione di una mediazione per correggere una presa di posizione difensiva, che appare corporativa e chiusa agli interventi del legislatore. Interventi più urgenti dopo il caso Palamara sui traffici correntizi per le nomine. Proprio l' ex presidente dell' Anm, già leader di Unicost e membro del Csm, dopo la radiazione e l' inchiesta per corruzione a Perugia, racconta nel libro-intervista con Alessandro Sallusti «Il sistema» (Rizzoli) una situazione che sembra molto simile a quella di questi giorni. Nel 2008 s' insedia il quarto governo Berlusconi e l' Anm si prepara, in un clima avvelenato, ad un' opposizione «feroce» con Palamara presidente e il leader di Magistratura democratica, Giuseppe Cascini, segretario. Quest' ultimo risponde al Cavaliere, che aveva definito la procura di Milano «un' avanguardia rivoluzionaria»: «La maggioranza di centrodestra non ha legittimazione storica, politica e culturale e anche morale per affrontare la riforma della giustizia». E lo fa dal palco di un convegno di Sel, il partito più a sinistra dello schieramento. È lo stesso Cascini che in plenum mercoledì, dopo aver attaccato il laico di Fi Alessio Lanzi che sosteneva il diritto del parlamento di intervenire sull' attività del Consiglio per impedire distorsioni, difende il parere che pretende la discrezionalità nelle nomine, respinge paletti troppo rigidi e dice che «il legislatore può dettare regole di indirizzo, anche fortemente vincolanti, ma è sbagliato fissare regole di dettaglio che finirebbero per ingessare l' attività del Consiglio». Più di un decennio fa, la frase di Cascini rischia di provocare la crisi di giunta dell' Anm e lo costringe a rettificare, ricorda Palamara che a sua volta va in tv per «metterci una pezza». Ma, dice nel libro, «era un avviso chiaro: qui non sono ammesse defezioni». Anche mercoledì Cascini, dopo l' affondo, si rende conto che il testo è andato oltre, quasi rivendica al Csm una «riserva di circolare» sopra la legge e, di fronte a togati di Magistratura indipendente e Autonomia&indipendenza che si schierano con i laici, fa marcia indietro assicurando che comunque il testo si può riscrivere. Quasi un déja' vu. Se allora, parole di Palamara, «la magistratura vuole farsi trovare pronta ai blocchi di partenza della nuova sfida a Berlusconi», ora si prepara a respingere intromissioni del governo Draghi. Vuole continuare ad autogovernarsi senza paletti politici, senza troppi controlli e regole fissate per legge.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2021. Per ricevere i bonifici di Next Generation EU, l'Italia deve dimostrare di avere progetti credibili per accelerare in due aree fondamentali: pubblica amministrazione e giustizia civile. La prima è affidata al ministro Renato Brunetta, che punta a rafforzare le strutture dello Stato assumendo migliaia di esperti e ad allargare le competenze ai vertici dei ministeri con centinaia di chiamate dirette. Nella seconda, tocca alla ministra della Giustizia Marta Cartabia delineare in poche settimane un piano che sia efficace, ma politicamente praticabile e tale da non aprire conflitti con gruppi e settori della società. Perché, almeno in questa fase di emergenza, l'approccio del governo di Mario Draghi ai mali del sistema Italia sembra avere esattamente questa priorità: ogni riforma nella cornice Recovery Plan va perseguita senza creare tensioni di gruppi sociali fra loro o verso l'esecutivo. Non adesso. Con decine di migliaia di nuovi contagi ogni giorno e la campagna vaccinale da rilanciare, questi sono i paletti che il premier sembra aver dato ai ministri: il massimo di efficacia raggiungibile senza generare strappi, che sarebbero deleteri alla tenuta del Paese. Nei suoi piani sulla giustizia civile, Cartabia applica esattamente questo approccio. «Sarebbe sleale impegnarsi nel contesto attuale a delineare programmi inattuabili», ha detto la ministra in parlamento. Intanto però la parte del Recovery riservata alla giustizia prende corpo sulla base di un budget da poco più di tre miliardi di euro. Di questi, 2,3 miliardi saranno impegnati per assumere con contratti triennali ventiduemila nuovi dipendenti nel sistema giudiziario dal gennaio prossimo. Almeno 16.500 addetti, laureati in Legge o Economia, devono dare forma al nuovo istituto dell'Ufficio del processo: di fatto assistenti e collaboratori di giudici e magistrati, sul modello dei clerk anglosassoni, con compiti di ricerca e stesura delle bozze dei provvedimenti. Sono poi previsti 1.660 nuovi posti con funzioni tecniche e amministrative per laureati sulla base di contratti triennali, 750 per diplomati specializzati e tremila per non specializzati. Servono anche perché Cartabia punta a investire 350 milioni del Recovery nella digitalizzazione degli archivi dei casi pendenti, nella sicurezza per il lavoro da casa e di una banca dati su cui lavorare con sistemi di intelligenza artificiale. Per accelerare i tempi della giustizia civile e smaltire i milioni di casi pendenti, la ministra vuole anche rafforzare il ricorso alla mediazione e l'imitazione delle pratiche più efficaci di altri tribunali. Inoltre per chi si candida a incarichi direttivi è previsto l'obbligo di una formazione gestionale, mentre 426 milioni del Recovery vanno all'edilizia giudiziaria. È un piano provvisorio, se non altro perché lascia nell'incertezza il futuro degli Uffici del processo quando saranno esauriti i fondi europei. Ma forse è l'unico piano praticabile oggi. Per sciogliere altri nodi della giustizia lenta, quelli che si trascinano da decenni, non basteranno i prossimi mesi.

Avvocati nei Consigli giudiziari? Il Csm apre “purché restino muti”…La curiosa posizione di Palazzo dei Marescialli nel parere sulla riforma targata Bonafede. Che istituiva il diritto di tribuna, nei “mini Csm”, per i “laici”. Oggi il plenum voterà un documento che chiede di vietare interventi ad avvocati e professori. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 marzo 2021. Si prevedono scintille oggi al Consiglio superiore della magistratura durante la votazione del parere sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e dello stesso Csm. Fra i temi più dibattuti, certamente, è prevedibile che rientri la partecipazione degli avvocati (e il loro ruolo) nei Consigli giudiziari. La decisione delle toghe del distretto di Bari di “espellere” nelle scorse settimane gli avvocati dal locale Consiglio giudiziario, quando si discute di promozioni e carriere dei magistrati, aveva fatto tornare l’argomento d’attualità. La riforma voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, attualmente in discussione in Parlamento, ha cercato timidamente di mettere alcuni punti fermi. Ma andiamo con ordine. I Consigli giudiziari – disciplinati dal d.lgs. n. 25 del 2006 – sono organi “ausiliari” del Csm chiamati, su numerose materie e provvedimenti di competenza di quest’ultimo, a esprimere pareri motivati (non vincolanti). Essendo costituiti presso ciascun distretto di Corte d’appello, i Consigli giudiziari hanno una conoscenza diretta del singolo magistrato o dell’ufficio interessato dalla decisione del Csm. Gli ambiti su cui vengono espressi i pareri sono molteplici. Ad esempio, le “tabelle” di composizione degli uffici (cioè i criteri di assegnazione dei magistrati alle sezioni e dei procedimenti ai singoli magistrati), le valutazioni di professionalità dei magistrati, le incompatibilità dei magistrati, gli incarichi extragiudiziari, le attitudini al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi. I Consigli giudiziari vigilano, poi, sul corretto funzionamento degli uffici del distretto, segnalando eventuali disfunzioni al Csm e al ministro della Giustizia. Il numero dei loro componenti, che restano in carica quattro anni, varia in funzione del numero complessivo di magistrati in servizio nel distretto. La composizione è mista e richiama quella del Csm. Vi fanno parte, come membri di diritto, il presidente e il procuratore generale della Corte d’appello, magistrati con funzioni giudicanti e requirenti in servizio nel distretto ed eletti da tutti i colleghi del distretto stesso, uno o più professori universitari in materie giuridiche nominati dal Consiglio universitario nazionale su indicazione delle facoltà di Giurisprudenza del territorio di competenza del Consiglio giudiziario, due o più avvocati, con almeno dieci anni di iscrizione all’albo, nominati dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei Consigli dell’Ordine degli avvocati del distretto. Il ruolo dei non “togati” è, a legislazione vigente, meno paritario di quanto avvenga nel Csm: essi hanno diritto di partecipare esclusivamente alle decisioni relative alle tabelle di composizione degli uffici e alle funzioni di vigilanza. La riforma voluta da Bonafede consente loro di “partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni” relative alla formulazione dei pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati. Resta, comunque, sempre esclusa la possibilità di concorrere alla decisione. In pratica ai componenti “laici” si vedrà riconosciuto un diritto di tribuna “allo scopo di accrescere la trasparenza dei procedimenti di valutazione”. Non una grande novità. Attualmente, infatti, alcuni Consigli giudiziari, nei propri regolamenti, prevedono già possibilità per i componenti laici di assistere, senza diritto di voto, alle sedute riservate alle valutazioni di professionalità delle toghe. L’apertura, come detto timidissima, non è stata ben accolta dai magistrati che hanno sottolineato la preminente esigenza di segretezza rispetto alla gran parte delle pratiche di competenza del Consiglio giudiziario. Il testo in esame, poi, sarebbe carente sotto vari aspetti. Per le toghe, il difensore che è parte processuale in un giudizio trattato dal magistrato in valutazione dovrebbe essere obbligato all’astensione poiché, anche in assenza del diritto di voto, una partecipazione alla discussione darebbe luogo a incompatibilità. Da escludersi ogni allargamento del perimetro della partecipazione degli avvocati alla discussione sulle valutazioni di professionalità, consentendo loro di introdurre informazioni ulteriori rispetto al materiale istruttorio in possesso del Consiglio giudiziario. Un’estensione del ruolo degli avvocati era stata ventilata da parte dell’allora presidente della Cassazione Giovanni Canzio. “Risulterebbe in tal modo assicurata una più apprezzabile razionalità dell’istituzione e una più solida efficacia del suo operato, funzionale al buon andamento e alla credibilità dell’organizzazione giudiziaria”, aveva detto Canzio.

«Il voto agli avvocati? Prima acquistino competenze…». Intervista a Marcello Basilico, presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, a proposito della mozione approvata dal Cdc di Anm che nega il diritto di tribuna e di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari. Valentina Stella su Il Dubbio il 26 maggio 2021. La proposta del Pd che vorrebbe dare diritto di tribuna e voto agli avvocati nei Consigli giudiziari ha creato fermento e contrarietà nella gran parte della magistratura. Ne parliamo con il dottor Marcello Basilico, presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, già componente della Giunta Anm per AreaDG.

Cosa ne pensa di quanto sta emergendo?

Credo che la proposta abbia dato luogo ad un dibattito che potrebbe rivelarsi molto fruttuoso. Non vi vedo una minaccia per l’indipendenza della magistratura, e maggior trasparenza non può far che bene, in quanto ho sempre pensato che i controlli incrociati siano utili. Tuttavia, per la magistratura progressista a cui appartengo esistono delle contrarietà di ordine pratico e storico. La proposta potrebbe avere una ragion d’essere, ma soltanto in un contesto culturale diverso.

Può spiegare meglio?

Sono stato in due Consigli giudiziari e partecipo ad un gruppo di confronto sulle attività dei consiglieri in carica. Devo dire che a oggi l’esperienza degli avvocati nei CG purtroppo risulta molto deludente: da quando dal 2008 ne fanno parte, abbiamo constatato una iniziativa inesistente da parte degli avvocati in ordine alle questioni organizzative. Le occasioni in cui formulano delle proposte o delle critiche all’organizzazione degli uffici giudiziari sono molto rare e spesso sono legate a ragioni di singoli o di gruppi di avvocati.

Quindi a suo parere non hanno l’autorevolezza per esprimersi sulle valutazioni di professionalità?

L’organizzazione degli uffici è uno temi che maggiormente dovrebbe stare a cuore dell’avvocatura perché investe la rapidità e l’efficacia dei processi e anche la scelta delle priorità nella trattazione degli affari giudiziari. I Coa dovrebbero dunque esprimere una avvocatura matura su questo versante, ma troppo spesso constatiamo invece il contrario: la gran parte degli avvocati ha una conoscenza minima dell’ordinamento giudiziario, ignora cosa siano i Consigli giudiziari o le tabelle. Emerge inoltre una diffusa tendenza degli avvocati nei Consigli giudiziari ad assecondare i “capi di Corte”, in una visione di fatto ancora molto gerarchica, che evidenzia un profondo deficit culturale. Difetta l’idea della distinzione dei magistrati solo per funzione che è alla base dell’autonomia del singolo magistrato e che dovrebbe esprimersi pienamente proprio qualora gli avvocati dovessero occuparsi delle valutazioni professionali.

La presenza nel Consiglio del Presidente dell’Ordine degli avvocati potrebbe essere una soluzione?

O gli avvocati sono nei Consigli giudiziari per incidere veramente sulla qualità delle valutazioni professionali o è inutile la loro presenza. Si rischiano solo ulteriori tensioni. Quindi benissimo il Presidente del Coa ma dovrebbe essere un organo capace di selezionare le criticità e cadute di professionalità in maniera autorevole, consapevole del quadro ordinamentale in cui il magistrato opera. Già oggi i Coa hanno la facoltà di fare delle segnalazioni in materia, ma i casi sono in realtà pochissimi e alcuni attingono non i peggiori magistrati ma quelli che hanno dato fastidio per un singolo processo o indagine.

Cosa propone allora?

Occorre rafforzare la cultura comune dell’ordinamento giudiziario di magistrati e avvocati; da questo punto di vista anche l’esperienza delle scuole di formazione post universitarie è molto deludente. Se non lavoriamo in quella direzione, la presenza degli avvocati nei Consigli Giudiziari resterà sempre legata a contributi estemporanei, anziché un valore aggiunto per la giurisdizione.

Diktat delle toghe: «Nei mini-Csm niente avvocati!». Altolà di Palazzo dei marescialli sulla riforma. Tra lo sconcerto dei laici, passa in plenum il parere negativo sulle aperture al Foro nei Consigli giudiziari. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 30 aprile 2021. No al diritto di tribuna, no agli avvocati nell’Ufficio studi, no alla valutazione degli esiti dei procedimenti per l’accesso in Cassazione. Il Consiglio superiore della magistratura fa muro e stronca le pur minime aperture alla classe forense contenute nel ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario e dell’organo di autogoverno delle toghe elaborato dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. La componente togata, soprattutto sul ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, ha votato in maniera compatta. Al punto da spingere il laico Alberto Maria Benedetti (eletto su indicazione del M5s) a esclamare: «Gli avvocati sono sopportati, nei Consigli giudiziari…». «Qui si offende l’intera categoria forense», ha aggiunto Alessio Lanzi, laico voluto al Csm innanzitutto da Forza Italia, stigmatizzando il paragone contenuto nel parere fra Consigli giudiziari e Csm. «L’avvocato nel Consiglio giudiziario», ha fatto notare il professore di Diritto penale della Bicocca, «è un responsabile territoriale. Come il magistrato. Entrambi continuano a fare il proprio lavoro. Non a caso, i magistrati del Consiglio giudiziario non sono messi fuori ruolo come avviene per i magistrati eletti al Csm. L’avvocato al Csm, un professionista di area culturale designato dal Parlamento, è invece un rappresentate della società civile. Il Csm gestisce la magistratura nell’interesse della cittadinanza, non dei magistrati», ha puntualizzato Lanzi, «è impensabile mettere entrambi sullo stesso piano». La riforma, va detto, non prevedeva che gli avvocati votassero le valutazioni di professionalità dei magistrati. Il loro ruolo si sarebbe limitato eventualmente a portare all’attenzione del Consiglio giudiziario «concreti elementi oggettivi a carico del magistrato». Quindi segnalazioni sul suo comportamento, non sul suo operato. Il diritto di tribuna, dunque, sarebbe consistito nella mera partecipazione alle discussioni, limitandosi ad assistere, quando si sarebbe passati alle deliberazioni sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. In alcuni Consigli giudiziari gli avvocati hanno già questo diritto di tribuna. Ma ciò dipende dalla sensibilità del presidente della Corte d’appello che è anche il presidente del “mini Csm” locale. A Milano, come più volte ricordato, l’allora presidente Giovanni Canzio era particolarmente favorevole al fatto che gli avvocati fossero presenti nei Consigli giudiziari e che, anche senza partecipare al voto, fornissero dei giudizi a proposito delle valutazioni di professionalità. Bocciata pure, come detto, la proposta di destinare all’Ufficio studi otto esterni, individuati mediante procedura selettiva con prova scritta, aperta anche a professori universitari e avvocati. Bonfade aveva ritenuto di “aprire” l’accesso a questa struttura strategica del Csm in modo da “contribuire ad aumentare la possibilità di apporti tecnicamente utili” e “arricchire l’attività dell’ufficio con apporti di esperienze culturali e formative esterne alla magistratura”. «L’esito era scontato: su certi argomenti i togati si compattano sempre», il laconico commento di Stefano Cavanna (di area Lega), che si è molto battuto per aumentare la pubblicità di tutte le attività consiliari. Bocciata, ancora, la norma che riduce da quattro a due i passaggi di funzioni, da pm a giudice e viceversa, consentiti ai magistrati, in quanto “introduce una separazione delle carriere non aderente all’impianto costituzionale che prevede l’unità della magistratura”. «Qualcuno mi dovrebbe spiegare dove è l’incostituzionalità di questa disposizione», ha commentato ancora Lanzi. Non solo: sul fronte degli incarichi “vengono rappresentate perplessità sull’obbligo di prevedere audizioni e interlocuzioni con i rappresentanti dell’avvocatura e con i magistrati e i dirigenti amministrativi dell’ufficio di provenienza del candidato”. Infine ieri, in apertura di plenum, il togato Antonio D’Amato (Magistratura indipendente) ha chiesto che si faccia chiarezza sui dossieraggi in corso in queste ore, con l’invio dei verbali, non firmati, dell’avvocato Piero Amara al Csm e alle redazioni di alcuni quotidiani. Vicenda che non stempera le tensioni, nelle ore in cui il Consiglio muove rilievi sulla riforma che lo riguarda.

Non basta il caso Palamara: il Csm boicotta la riforma. Oggi il plenum discuterà il parere al testo Bonafede. Ma c'è già l'altolà: no a paletti politici sull'autonomia. Anna Maria Greco - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Giù le mani dalla discrezionalità del Csm. L'organo di autogoverno della magistratura è sulla difensiva, avverte la politica che non accetta intromissioni. Su nomine e valutazioni di professionalità, poteri disciplinari e legge elettorale, toghe parlamentari e altro, niente interventi che limitino le prerogative attribuite dalla Costituzione. Oggi il plenum di Palazzo de' Marescialli discuterà il parere sulla riforma della giustizia, richiesto dall'ex ministro Alfonso Bonafede e che sarà la base anche del lavoro del nuovo Guardasigilli, Marta Cartabia. Il progetto di legge dell'agosto 2020 è stato calendarizzato per la discussione in Parlamento e dopo il caso Palamara appaiono urgenti profonde modifiche del sistema del Csm, soprattutto per la scelta dei dirigenti senza il condizionamento delle correnti. Ma il Consiglio vuole mandare un segnale preciso: se dobbiamo riformarci lo facciamo noi, non vogliamo imposizioni dal legislatore, dai partiti. Il rischio è che si difenda lo status quo, con lo strapotere sulla magistratura delle correnti. La giornata si preannuncia incandescente perché gli 8 laici di ogni colore politico(2 di Forza Italia, 2 della Lega, 3 del M5s e il vicepresidente David Ermini del Pd) sembrano compatti nell'opporsi ai 16 togati delle diverse correnti, almeno per contestare l'affermazione di principio della totale autonomia sulle nomine, che si traduce in completa discrezionalità. E infatti si preparano a presentare insieme un emendamento soppressivo del passaggio che, nella premessa del parere, definisce inaccettabili, perché troppo dettagliati, i paletti che la politica vorrebbe mettere alla selezione di toghe direttive e semidirettive. Insomma, la trasparenza di criteri oggettivi come l'anzianità e sostanziali come il merito, vengono visti come limiti all'autonomia del Consiglio. La corrente di sinistra Area guida l'opposizione a riforme troppo invasive, ma sembrano pronte ad accodarsi le altre, a incominciare da Unità per la costituzione fino a Magistratura indipendente e Autonomia&Indipendenza di Davigo. Riguardo allo scandalo dell'ex presidente dell'Anm (radiato dalla magistratura e sotto inchiesta a Perugia, che ha fatto esplodere il sistema interno del Csm mettendone in evidenza appunto la completa discrezionalità sulle nomine), Area rivendica una sorta di superiorità morale, anche se i suoi consiglieri nelle chat risultano partecipi dei traffici e dice in sostanza: noi non siamo Palamara, le riforme ce le facciamo da soli.

Liana Milella per repubblica.it il 15 marzo 2021. Duecento pagine stanno scatenando la "guerra" tra consiglieri laici e togati al Csm. Divise in sei capitoli, contengono il giudizio del Csm sulla legge dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede proprio sullo stesso Csm, sulla futura legge elettorale, sul destino dei magistrati in politica. Ma anche sui poteri disciplinari di palazzo dei Marescialli, sui criteri di organizzazione degli uffici, sulle valutazioni della professionalità dei colleghi. Sul sistema del sorteggio per scegliere ogni anno i componenti delle commissioni, affidandole così al caso, anziché alle correnti. Sistema che, appena fu reso noto, scatenò palesi malumori. Materia caldissima dopo il caso Palamara e in vista dell'arrivo dei fondi del Recovery plan che, come dimostra l'ultima versione del testo, mirano a rendere efficiente la macchina dei processi civili e penali. Ma soprattutto adesso che la neo ministra della Giustizia Marta Cartabia si è messa all'opera sulle leggi di Bonafede. E proprio da lei - come raccontano le indiscrezioni che circolano al Csm - è giunto l'input di fornire subito quel parere sul progetto di legge dell'agosto 2020 che Bonafede aveva già richiesto, ma che in questi mesi non aveva visto la luce. Adesso invece la sua approvazione è diventata urgente, ha detto Cartabia al vice presidente del Csm David Ermini quando i due, giovedì 4 marzo, si sono visti in via Arenula per parlare della procura europea e pianificare l'incontro a piazza Indipendenza del 23 marzo, alla presenza del presidente Sergio Mattarella. Urgenza ovvia perché Cartabia - che oggi per la prima volta alle 15 sarà di fronte alla commissione Giustizia della Camera per illustrare il suo programma e giovedì andrà al Senato - ha assicurato alle forze politiche che entro la fine di aprile presenterà i suoi emendamenti alle leggi di Bonafede. Quindi anche quella sulle competenze del Csm. Detto fatto. I sei pareri della sesta commissione (deputata a fornire pareri sulle riforme), che vedono altrettanti relatori - nell'ordine Elisabetta Chinaglia, Giovanni Zaccaro, Loredana Micciché, Fulvio Gigliotti, Alessio Lanzi, Sebastiano Ardita - figurano adesso nell'ordine del giorno che il Csm affronterà mercoledì. E dalle prime avvisaglie si preannuncia maretta perché i sette consiglieri laici indicati dal Parlamento - due da Forza Italia, due dalla Lega, tre da M5S - ma tra questi soprattutto quelli che fanno capo al centrodestra, contestano ai 16 togati di voler mantenere in piedi un Consiglio superiore con un forte strapotere sulla magistratura, e nel quale il sistema delle correnti di fatto continua ad avere un peso, nonostante il caso Palamara. Caso dal quale nasce proprio la legge di Bonafede che impone criteri molto rigidi per le valutazioni della professionalità dei magistrati e quindi per le nomine, nonché per la scansione temporale delle stesse. Al Csm, in buona sostanza, si riducono i margini di autonomia e s'impone una trasparenza che scaturisce da regole rigide. Un dato è certo, e lo mettono subito in chiara evidenza sia Chinaglia che Zaccaro, quando scrivono che la legge di Bonafede "determina una complessiva limitazione del potere discrezionale del Csm che viene in grande misura trasformato in potere amministrativo". Entrambi citano l'articolo 105 della Costituzione laddove recita: "Spettano al Csm, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati". E chiosano che proprio una lettura attenta del dettato costituzionale, tante volte già fatta dalla dottrina e dalla stessa commissione Palladin, "consente di escludere che il Costituente abbia inteso assegnare al Consiglio attribuzioni solo di carattere formale e che il ruolo di quest'ultimo si esaurisca nel dare attuazione a dettagliati precetti del legislatore". In concreto, alla legge Bonafede si rimprovera di essere talmente specifica e al contempo rigida da ridurre al minimo, fino quasi ad eliminare, il potere decisionale e discrezionale del Csm. Un'argomentazione che, alle sue basi, ha come fondamento la stessa Costituzione. Perché, come scrive Chinaglia,  "l'articolo 105 disegna un organo con proprie attribuzioni sostanziali, che implicano l'esercizio di una discrezionalita? amministrativa e non meramente tecnica, senza che la sua attivita? sia fortemente vincolata". Di conseguenza, "un irrigidimento dei parametri valutativi e degli indicatori e un eccessivo dettaglio nella loro formulazione privano l'azione consiliare della duttilita? necessaria per un intervento tempestivo ed efficace nel settore dell'organizzazione della giurisdizione civile e penale, e in tutte le declinazioni in cui tale intervento si attua, dall'organizzazione degli uffici alla carriera dei magistrati". Un assunto che poi si traduce in un esame dettagliato della legge Bonafede, criticando gli aspetti che più di altri limano le unghie al Csm. Una critica che i sei relatori distribuiscono poi nei singoli interventi, dal parere degli avvocati sulla carriera delle toghe, alla loro presenza nei consigli giudiziari, all'anzianità imposta come criterio imprescindibile per privilegiare un candidato piuttosto che un altro per un incarico direttivo, al divieto di poter passare da una funzione all'altra, quella di giudice e di pm, non più di due volte nell'arco della vita lavorativa, a fronte delle quattro attuali. Disposizione, quest'ultima, che per la sua rigidità "non sembra aderente all'impianto costituzionale che prevede l'unita? della magistratura". Regola però che, a fronte delle critiche dei togati, vede invece il giudizio opposto dei laico di Forza Italia Alessio Lanzi che vagheggia la netta separazione delle carriere. Lo stesso Lanzi, quando affronta il tema dei magistrati in politica, esprime un giudizio critico sulla futura regola di toghe che, una volta lasciati gli incarichi parlamentari, siano destinate a un'amministrazione "terza" con divieto di rientrare in magistratura. Una previsione che si risolverebbe in una sorta di "parcheggio" per il giudice in politica, "destinato a un prepensionamento di fatto, con un rilevante danno per l'amministrazione della giustizia, che non potrebbe piu? avvalersi della professionalita? di chi, a fronte di anni spesi nella giurisdizione, possa avere esercitato, per un tempo esiguo, un mandato elettorale o un incarico di governo". E da un altro consigliere laico, Fulvio Gigliotti, indicato da M5S, arrivano pesanti critiche sull'idea di sorteggiare ogni anno i componenti delle commissioni del Csm. Critiche che peraltro sono a loro volta soggette alle contestazioni degli altri colleghi laici del Csm che invece accusano Gigliotti di strizzare l'occhio alle toghe, le quali "mirano solo a mantenere in piedi il potere delle correnti". Ma, secondo Gigliotti, "applicando il sistema del sorteggio puro, per il connotato di casualita? che gli e intrinseco, potrebbe accadere che le commissioni siano composte per piu' anni dagli stessi consiglieri, ovvero che siano sorteggiati solo laici o togati, e, tra questi ultimi, unicamente gli appartenenti a una medesima categoria". Per Gigliotti, anche seguendo le indicazione della Consulta, le commissioni dovrebbero essere composte garantendo "la piu' ampia rappresentatività, nell'ottica di valorizzare i diversi contribuiti". All'opposto il sistema del sorteggio "si rivelerebbe farraginoso e disfunzionale". Infine le critiche - che arrivano dal togato Sebastiano Ardita - sulla nuova legge elettorale per il Csm, un sistema maggioritario uninominale, con doppio turno e preferenze plurime, garantendo anche la parità di genere, organizzato in 18 colleghi, con l'obiettivo, secondo Bonafede, di "assicurare la prossimità del candidato all'elettorato mediante una contiguità territoriale per depotenziare l'influenza delle correnti". Insomma, come spiega Ardita, l'obiettivo sarebbe quello di eleggere magistrati "scelti dai colleghi della porta accanto, e non dalle correnti, sulla base della stima personale e di un programma culturale individuale, e non del sostegno elettorale dei gruppi associativi e di un programma comune ai diversi candidati". Un sistema che però, pur con dei vantaggi, come quello "di avvicinare i candidati agli elettori, garantire la molteplicita? delle provenienze territoriali dei componenti, favorire la rappresentanza di genere e promuovere le candidature non formalmente collegate alle correnti della magistratura" tuttavia presenta - secondo Ardita - "il rischio di marginalizzare le minoranze associative e culturali".

Il presidente Mattarella inaugura l’Anno Giudiziario 2021 in piena crisi di governo. (PRIMAPRESS 29 Gennaio 2021) L’anno giudiziario 2021 che viene inaugurato oggi 29 gennaio, si apre in piena crisi di governo e con una riforma della giustizia ancora al palo per divergenze mai colmate tra le forze politiche. Ieri secondo calendario parlamentare, si sarebbe dovuta tenere la relazione  del ministro della Giustizia, Bonafede ma l’appuntamento è saltato. L’inaugurazione dell’anno giudiziario avviene presso la Corte di Cassazione nella data del 29 gennaio mentre  il 30 gennaio la cerimonia si tiene presso le 26 Corti di Appello. Con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005 è stata modificata la cerimonia d’inaugurazione. A partire dal 2006, infatti, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere, sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi - interventi previsti dall’art. 110 della Costituzione – per l’anno in corso. La Corte di cassazione e le corti d’appello si riuniscono successivamente in forma pubblica e solenne - cioè debbono partecipare tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura - per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello. La cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione avviene alla presenza del Presidente della Repubblica. Essendo la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario occasione di pubblico dibattito sull’amministrazione della giustizia, possono intervenire i rappresentanti degli organi istituzionali, cioè titolari di pubblici poteri, il Procuratore generale e i rappresentanti dell’Avvocatura.  - (PRIMAPRESS)

Giustizia, Mattarella ai giudici onorari: "Fondamentale il vostro lavoro". Liana Miella su La Repubblica il 12 gennaio 2021. Con una lettera all'Assogot, il consigliere per la Giustizia del Quirinale Erbani assicura che il capo dello Stato sta seguendo "con attenzione" il caso e ha segnalato al ministro della Giustizia le richieste della categoria. I giudici onorari chiedono e ottengono "l'attenzione" del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla loro situazione, sulle loro richieste, sulle agitazioni che ormai da due mesi si susseguono in tutta Italia, con scioperi della fame, con flash mob, con il preannuncio di uno sciopero che, tra il 19 e il 22 gennaio, fermerà 5mila giudici che tengono in piedi il 60% della giustizia italiana. Con una lettera del Consigliere per gli Affari dell'amministrazione della giustizia Stefano Erbani, la voce di Mattarella arriva all'Assogot che ha inviato il messaggio al Quirinale prima di Natale. Poche righe, ma dense di significato, e di grande importanza per chi, da anni, cerca di trasformare un lavoro precario, ma indispensabile, in un lavoro garantito dalle necessarie tutele. Scrive Erbani: "Il presidente Mattarella segue con grande attenzione i problemi della magistratura onoraria, nella consapevolezza del fondamentale contributo che la stessa apporta, con il suo costante operato, alla funzionalità e all'efficienza del sistema giustizia". Erbani scrive ancora che, però, non è nei poteri del capo dello Stato un intervento diretto, poiché "per posizione costituzionale", il Quirinale "non ha facoltà di intervento e di valutazione sulle questioni rappresentante". In questo caso, la condizione da sempre precaria di giudici che, pur esercitando appieno la giustizia con decisioni e sentenze, tuttavia vengono pagati a cottimo, non hanno coperture di alcun tipo, né sanitarie, né pensionistiche.  Tuttavia - e questo passaggio è ovviamente molto importante per i magistrati onorari - Erbani assicura che "nondimeno sarà assicurata la tempestiva trasmissione delle richieste avanzate nell'interesse dell'associazione al ministero della Giustizia, sollecitandone l'attenzione". E quelle ultime parole - "sollecitare l'attenzione" - hanno un valore enorme per i magistrati onorari, soprattutto in ore in cui - se il governo sopravvive - proprio via Arenula sarebbe intenzionata a trasformare in un decreto legge le nuove norme sui giudici onorari, come ha anticipato a Repubblica il capogruppo Dem in commissione Giustizia del Senato Franco Mirabelli. Proprio oggi, a palazzo Madama riprenderà, in commissione Giustizia, la discussione sul ddl Valente-Evangelista che dovrebbe poi trasformarsi in un decreto. Testo sul quale però gli stessi giudici onorari non sono d'accordo perché ritengono che sia un contentino per il passato e non garantisca la stabilità della categoria. Sono soprattutto convinti che la legislazione italiana su di loro debba fare un passo avanti dopo la sentenza della Corte del Lussemburgo che, a luglio, ha riconosciuto i loro diritti economici, come dimostrano anche le recenti sentenze, a cascata, dei  tribunali civili. Per questo le agitazioni continuano e culminano nello prossimo sciopero. 

Al via l'anno giudiziario in tempi di pandemia. In Cassazione sfila la "giustizia che non c’è". Liana Milella su La Repubblica il 29 gennaio 2021. Nella grande aula del Palazzaccio da 350 posti solo 32 presenti. Da Bonafede un intervento tecnico. Il presidente Curzio cita Draghi e lancia l'allarme sui giovani e la scuola. Dal pg Salvi la preoccupazione per i femminicidi. Protagonista silenzioso il caso Palamara con le azioni disciplinari. Il vice presidente del Csm Ermini invita le toghe a "superare le correnti".

Il Covid, ovviamente. E i fondi del Recovery. E i processi civili e penali a rilento. I giovani e la scuola. Un Guardasigilli, Bonafede, dimezzato dalla crisi di governo. La sua relazione è solo tecnica, niente politica. Ma i vertici delle toghe italiane non fanno sconti alla politica. Non nascondono nulla, né i reati, quelli gravissimi contro le donne, né la crisi della stessa magistratura per via del correntismo. In Cassazione, per la tradizionale cerimonia d'apertura dell'anno giudiziario, sfilano gli ermellini in toga rossa. Consegnano, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, seduto come sempre in prima fila, la fotografia di una giustizia a rilento, che però proprio dal Covid potrebbe rinascere diversa, digitale anziché cartacea. 

Solo in 32 nella grande aula del Palazzaccio. Nella grande aula della Cassazione da 350 posti ci sono solo 32 presenti. Il - da sempre - grande evento della giustizia italiana si auto comprime. Per la prima volta nessun giornalista guarda la cerimonia dal doppio ballatoio che sovrasta la sala. Tutte online le relazioni, e la diretta video trasmessa dalla Rai. Protagoniste sembrano le mascherine.  Il primo presidente della Suprema Corte Pietro Curzio, al suo primo anno giudiziario, riassume in un'immagine il senso della giustizia. Un bozzetto apre la sua relazione. Rappresenta il processo a Verre, "imputato di gravi concussioni e peculato in danno della Sicilia di cui per tre anni era stato governatore, un giudizio in cui l'accusa fu sostenuta da un ancor giovane Cicerone e la difesa da Ortensio, all'epoca principe del Foro romano". Ma, come spiega Curzio, l'affresco per il quale era stato stilato il bozzetto non è stato mai realizzato. Tant'è che "la parete qui alla mia destra è rimasta bianca. È l'affresco che non c'è?". 

Solo 32 presenti nella grande aula della Cassazione da 350 posti (ansa). Quel bozzetto rappresenta anche lo stato della giustizia in Italia, perché il Covid, dice Curzio, "ha comportato il sostanziale blocco per un certo periodo, una faticosa e difficile ripresa per la restante parte dell'anno e oggi ci pone dinanzi alla necessità di ripensare profondamente il sistema. Di partecipare alla costruzione di un qualcosa che ancora non c'è?". Appunto, la giustizia dopo il Covid che ancora non c'è. Perché "la pandemia ha ulteriormente mostrato l'inadeguatezza del sistema, la gracilità e vetustà di molti suoi gangli, e pone in modo deciso la necessità di un cambiamento profondo e incisivo, prima di tutto culturale". Curzio parla per primo, poi il Procuratore generale Giovanni Salvi, il vice presidente del Csm David Ermini, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, e due donne protagoniste entrambe del mondo della giustizia, Gabriella Palmieri, al vertice dell'Avvocatura generale dello Stato e Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense. Complessivamente una fotografia della giustizia in Italia che consegna un paese pressato dai reati (corruzione, mafia, omicidi delle donne), rallentato dalla pandemia, appeso ai fondi del Recovery, spaventato e dubbioso sul suo futuro politico.

Curzio e la citazione di Draghi. Nell'aula magna della Suprema corte risuona la citazione che Curzio fa di Mario Draghi, uno dei protagonisti silenziosi dell'attuale crisi di governo. "Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza". Curzio sottoscrive questa preoccupazione perché "il debito dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani". Per questo non sono ammessi ritardi e "ciascuno nel rispetto delle proprie competenze e in adempimento dei propri doveri" dovrà fare del suo meglio. A partire dalla giustizia e dai suoi ritardi. Anche perché lo stop "a quella stanza di compensazione che è la scuola ha prodotto un silenzioso aumento dei maltrattamenti in famiglia verso minori e più in generale l'incremento di minori maltrattati o abbandonati". Un ritardo che Curzio non minimizza. A partire dai numeri, perché "ogni anno sopravvengono in Cassazione più di 30mila ricorsi civili e 50mila penali. Un dato quantitativo unico nell'esperienza giuridica internazionale". È necessaria "tempestività", ma "i tempi del processo civile superano il livello di ragionevolezza; la qualità dei provvedimenti non sempre è all'altezza del ruolo della Corte; i contrasti, molto spesso inconsapevoli, sono diffusi e ricorrenti". Ma qui s'instaura un "circolo vizioso" perché "quanto maggiore è il numero dei ricorsi, tanto maggiore è il numero dei giudici necessari alla Corte; quanto maggiore è il numero dei giudici, tanto maggiore è il rischio di decisioni non omogenee o contrastanti tra loro". Sarà l'interrogativo del futuro. Per adesso Curzio non è pessimista sui suoi numeri quando dice: "Il terribile anno che ci siamo lasciati alle spalle ci ha visti impegnati fondamentalmente a limitare i danni e alla fine il bilancio è positivo. Grazie a un forte recupero nel secondo semestre, siamo riusciti a definire più di 30mila processi civili e nel penale siamo riusciti a conservare tempi di definizione dei giudizi inferiori ad un anno". Il primo presidente boccia l'idea di ridurre il processo d'appello, chiede al governo di far partire il processo telematico anche per la Suprema Corte. Quando affronta il momento "travagliato" della magistratura, Curzio cita una frase di Rosario Livatino, il giovane magistrato giustiziato da Cosa nostra, quando scrive che "non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili". E chiosa: "Forse il segreto è semplicemente, per ogni scelta che operiamo, di chiederci quanto siamo credibili". Un messaggio che impatta con le durissime polemiche sul correntismo, sulle chat di Palamara. Sui retroscena che turbano lo stesso Csm in quello che si può considerare come l'anno nero delle toghe. Sulle quali però apre una nota positiva il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia quando contesta le ricostruzioni dell'ex pm e le definisce un "affresco" che "dileggia un'istituzione dello Stato, che reca un grave torto alla realtà, in cui i magistrati sono ancora e autenticamente un potere diffuso, non governabile e non orientabile da mediatori improvvisati".

Bonafede ringrazia i magistrati. Certo non parla di toghe corrotte il Guardasigilli Alfonso Bonafede, perché la crisi politica gli impone di limitarsi a considerazioni tecniche, proprio com'è già avvenuto in Parlamento. Parte dalla pandemia che "ha inciso fortemente anche sul settore della giustizia". Bonafede esprime "la profonda gratitudine ai magistrati togati e onorari, avvocati, personale amministrativo, polizia penitenziaria che, con spirito di sacrificio, competenza e abnegazione, hanno permesso che la giustizia non si fermasse nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà". Poi vanta il calo dei detenuti, parla di "significativa diminuzione", fornisce la cifra di chi sta in carcere a oggi, 52.369 persone. Dal Covid anche  un fortissimo impulso alla digitalizzazione che potrebbe avere effetti positivi nel futuro, tant'è che il ministro cita l'uscita nella Gazzetta ufficiale della norma che consentirà dal 31 marzo il deposito telematico facoltativo con valore legale degli atti processuali e dei documenti presso le sezioni civili della Cassazione.

Ermini e i non raccomandati. Invece è proprio sul caso Palamara che arrivano input dal vice presidente del Csm David Ermini. Il suo invito è quello di superare le correnti, il correntismo, le raccomandazioni. E garantire chi chiede un posto solo con la sua faccia." Perché, secondo lui, "vanno salvaguardate le giuste ragioni di quei magistrati che, senza spudoratezza di rapporti o appoggio di cordate correntizie e del tutto alieni da una pratica indecente quale la cosiddetta coltivazione della domanda, aspirano legittimamente al riconoscimento delle loro capacità e delle loro attitudini". È una previsione realistica e praticabile ed Ermini la presenta così: "Occorre che ogni decisione sia preceduta da una congrua, preventiva istruttoria e sia corredata da una adeguata e approfondita motivazione; che le nomine agli uffici apicali siano prese nella rigorosa osservanza del metodo cronologico; che le assegnazioni di funzioni o l'attribuzione di incarichi che richiedono peculiari requisiti di idoneità siano precedute dalla sola, scrupolosa valutazione delle necessarie competenze tecniche, senza cedere alla tentazione di accordi preventivi volti alla ripartizione dei posti". Quello che tutti gli italiani pensano che già si faccia, ma che evidentemente rappresenta una novità.

Salvi, azioni disciplinari e femminicidi. E proprio sul caso Palamara il procuratore generale Giovanni Salvi parla di "reazione sanzionatoria pronta ed efficace". Quelle 26 azioni disciplinari aperte in piazza Cavour, di cui 17  sono già a giudizio sul tavolo del Csm. E le altre su cui sta lavorando il suo team di procuratori che peraltro, a quanto trapela, hanno più volte sentito lo stesso Palamara. Ovviamente Salvi non minimizza quanto è accaduto e che adesso deve spingere la magistratura a "ricostruire la sua credibilità duramente scossa dalle indagini che hanno portato all'emersione di un sistema diffuso di asservimento del Csm a logiche di interessi di gruppo, e che ha consentito anche condotte di assoluta gravità alcune delle quali in precedenza mai verificatesi". Ma Salvi ripete quanto ha detto più volte in questi due anni, e cioè che "l'auto raccomandazione è un meccanismo interno che esiste nella magistratura. Chi concorre a un posto vuole avere spesso un rapporto diretto con il consigliere del Csm". E in questo Salvi non ravvisa, di per sé, una colpa. Ma è sul Covid e sui reati più diffusi in Italia che la relazione di Salvi offre molte novità. A partire dai femminicidi. Perché se calano gli omicidi volontari - 268 nel  2020 con un calo del 13,5% rispetto ai 315 del 2019 - gli assassini delle donne aumentano. Erano 132 nel 2017 su 375 omicidi, salgono a 141 nel 2018 sul totale di 359, sono 111 nel 2019  e 112 l'anno scorso. Quindi il 42% rispetto al totale.

La pandemia ha portato Salvi a concentrarsi sia sull'uso dei processi da remoto, sia sull'effettiva necessità della permanenza in carcere, e sui detenuti, su quella che definisce  "l'esclusione degli ultimi dai benefici a causa della loro marginalità sociale". Salvi parla di "primi frutti, davvero positivi, così da far sperare che il distanziamento sia raggiunto senza ricorrere a rischiose scarcerazioni e che - passata la pandemia - coloro che hanno diritto a usufruire di misure alternative non debbano scontare due volte la pena, a causa della loro emarginazione sociale". 

Effetto Covid all'Avvocatura dello Stato. E c’è un effetto Covid anche per l’Avvocatura dello Stato, con i dati che fornisce la toga, al vertice da agosto 2019, Gabriella Palmieri Sandulli che può vantare il 60% di cause vinte tra tutte quelle che il suo ufficio ha affrontato nel 2020. “Gli effetti dell'emergenza sanitaria che ha caratterizzato gran parte dell'anno - dice Palmieri - si riverberano con evidenza anche da noi con una riduzione del numero di affari nuovi del 21% rispetto al dato del 2019, raggiungendo comunque la notevole cifra di 45.000 affari. Un effetto che si verifica anche nelle Avvocature distrettuali con un calo del 13 per cento”. E anche per i magistrati di via dei Portoghesi il Covid diventa l’occasione “per trasformare la situazione emergenziale in un fattore di accelerazione della digitalizzazione e della dematerializzazione degli atti”. Tant’è che, come dice Palmieri, “l’Avvocatura ha eseguito oltre 67mila depositi telematici nel civile, con un aumento percentuale pari al 30% rispetto al 2019”, mentre il numero delle notifiche di atti giudiziari via Pec “è salito alla cifra record di oltre 21mila”.  

Anno giudiziario, Bonafede: «La Giustizia non si è mai fermata». L’intervento del Guardasigilli Alfonso Bonafede nell’Aula Magna della Cassazione per l’apertura dell’anno giudiziario 2021. Il Dubbio il 29 gennaio 2021. «Anche quest’anno sento l’emozione e l’onore di partecipare a questa solenne cerimonia. Questa volta, lo faccio nelle vesti di ministro della Giustizia in carica per gli affari correnti e, dunque, non potrò che attenermi all’esposizione generale dell’attività portata avanti nel 2020 esimendomi, per doveroso rispetto dei rapporti istituzionali, da qualsiasi considerazione di indirizzo politico». Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha aperto il suo intervento nell’Aula Magna della Cassazione per l’apertura dell’anno giudiziario 2021.

“La Giustizia non si è mai fermata”. «La continuità dell’azione amministrativa durante la pandemia è stata assicurata anche grazie all’accelerazione delle politiche di digitalizzazione: in particolare, sono stati sperimentati nuovi modelli organizzativi, sia per il deposito degli atti che per l’accesso ai sistemi da remoto»,  ha sottolineato Bonafede. «Proprio ieri è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il provvedimento con il quale si consentirà, dal 31 marzo prossimo, il deposito telematico facoltativo con valore legale degli atti processuali e dei documenti presso le Sezioni civili della Corte di Cassazione», ha ricordato il ministro, aggiungendo che «per una maggiore condivisione delle innovazioni digitali introdotte, come ad esempio il sostanziale avvio del Processo Penale Telematico, nel luglio scorso è stato istituito lo Sportello permanente per la giustizia digitale, sulla base di un protocollo stipulato con il Consiglio Nazionale Forense. Con il medesimo metodo, sta procedendo la digitalizzazione in Corte di Cassazione». «Ovviamente, la pandemia ha inciso fortemente anche sul settore della giustizia. Voglio esprimere la mia profonda gratitudine ai magistrati togati e onorari, avvocati, personale amministrativo, polizia penitenziaria che, con spirito di sacrificio, competenza e abnegazione, hanno permesso che la giustizia non si fermasse nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà. Nel loro lavoro si è misurata la resilienza del nostro Stato di diritto», ha detto.

Istituti penitenziari, i dati. «Per quanto concerne il ministero della Giustizia, sono state adottate, in coordinamento con ministero della Salute e Protezione civile, tutte le misure necessarie per limitare il più possibile la diffusione del contagio sia negli uffici giudiziari sia nella difficile realtà degli istituti penitenziari», ha spiegato il ministro. «Nel 2020 – ha proseguito – c’è stata una significativa diminuzione della popolazione detenuta, che risulta oggi essere pari a 52.369 detenuti fisicamente presenti». «A livello internazionale, in occasione del ventesimo anniversario della Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale, l’Italia si è confermata Paese guida nelle politiche di contrasto alle mafie promuovendo due importanti risoluzioni approvate dalla conferenza degli Stati Parte», ha aggiunto il guardasigilli. Infine, un «auspicio» affinché «una giustizia rinnovata e più celere possa concorrere all’indispensabile rilancio del Paese».

Si apre l’anno giudiziario, Curzio: «Tribunali cadenti e carceri inadeguate». Il Dubbio il 29 gennaio 2021. La relazione del primo presidente Pietro Curzio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 nell’Aula Magna della Cassazione. «È importante il dialogo con l’Avvocatura, che concorre alla giurisdizione, anche di legittimità, svolgendo un ruolo fondamentale. Vi sono oggi le migliori condizioni per intensificare questo dialogo». Il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio lo sottolinea nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che quest’anno si svolge con una cerimonia “ristretta” nell’Aula Magna della Cassazione: 25 magistrati in toga rossa e una trentina di ospiti, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per rispettare il distanziamento necessario in questa fase di emergenza sanitaria. Presenti al Palazzaccio i presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, il premier dimissionario Giuseppe Conte, il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio, oltre ai vertici delle forze armate, della magistratura amministrativa e contabile. Dopo la relazione del presidente Curzio, segue l’intervento del Guardasigilli Alfonso Bonafede, quelli del vicepresidente del Csm David Ermini e del procuratore generale della Suprema Corte Giovanni Salvi, e, a seguire, dell’avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri e del presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi.

La relazione del primo presidente Curzio – Covid e Giustizia. «La pandemia ha ulteriormente mostrato l’inadeguatezza del sistema, la gracilità e vetustà di molti suoi gangli, e pone in modo deciso la necessità di un cambiamento profondo e incisivo, prima di tutto culturale», comincia Curzio. Nel 2020, sottolinea, «l’amministrazione della giustizia è stata, come ogni settore della vita della nostra comunità, segnata dalla pandemia. Ciò ha comportato il sostanziale blocco dell’attività giudiziaria per un certo periodo, una faticosa e difficile ripresa per la restante parte dell’anno e oggi ci pone dinanzi alla necessità di ripensare profondamente il sistema. Di partecipare alla costruzione di un qualcosa che ancora non c’è». «Di riforme del sistema giustizia e, al suo interno del giudizio di legittimità, ne sono state fatte molte negli ultimi anni, con un continuo, a volte turbinoso, susseguirsi di modifiche normative e organizzative, che a volte, invece di risolvere i problemi, hanno finito per complicarli», sottolinea Curzio. «Da tempo – aggiunge – siamo consapevoli che un sistema giustizia adeguato alla complessità dei problemi costituisce un fattore insostituibile per la garanzia dei diritti e doveri dei cittadini, per la vita delle imprese e delle amministrazioni, per la ragionevole certezza dei rapporti economici, civili, sociali». «Per fare fronte alla crisi si è scelto di impegnare risorse economiche in misura impensabile sino a un anno fa. Ma per ottenere dall’Europa i relativi finanziamenti è necessario tracciare un quadro di riforme, prima fra tutte della giustizia, che dia idonee garanzie di conseguire gli obiettivi prefissati». In particolare, ricorda il presidente della Suprema Corte, su temi quali «digitalizzazione, semplificazione, nuove risorse umane e strumentali, ufficio del processo» vi sono «impegni precisi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ci auguriamo che il 2021 sia l’anno della “svolta italiana” all’interno di una svolta europea, che il piano prospetta, e che il progetto si trasformi in un processo operativo articolato ed efficace». «Il terribile anno che ci siamo lasciati alle spalle ci ha visti impegnati fondamentalmente a limitare i danni e alla fine il bilancio è positivo», spiega il primo presidente. «Grazie ad un forte recupero nel secondo semestre – aggiunge – siamo riusciti a definire più di 30mila processi civili e nel penale siamo riusciti a conservare tempi di definizione dei giudizi inferiori ad un anno».

Edilizia giudiziaria. «La generalità degli uffici giudiziari presenta significative carenze strutturali, necessità di interventi di manutenzione straordinaria, anche per quello che riguarda gli impianti tecnici e di sicurezza, e una complessiva inadeguatezza degli spazi resa particolarmente evidente dalla necessità di adottare, a causa della pandemia, misure di distanziamento particolarmente incisive nell’accesso agli uffici e nella permanenza all’interno di essi di professionisti e utenti», sottolinea il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, nella sua relazione per l’anno giudiziario, affrontando il tema dell’edilizia penitenziaria e delle strutture dell’esecuzione penale esterna che «mostrano da anni gravi deficit di capienza e una significativa vetustà degli edifici che hanno determinato l’ormai endemica problematica del sovraffollamento carcerario, cui consegue un significativo contenzioso nel settore risarcitorio e situazioni di grave crisi, sfociate, durante la fase più virulenta della pandemia, anche in tumulti e rivolte, nonché una diffusa difficoltà di gestione». Al Governo deve essere rivolta la richiesta di proseguire il potenziamento del personale amministrativo della Corte, che ha bisogno urgente di nuove acquisizioni tanto sul piano numerico che delle competenze professionali», dice Curzio affermando che «la pandemia ci ha posto il problema di ricorrere al lavoro agile, ma le difficoltà sono state molteplici per la mancanza di accesso al sistema da luoghi diversi dall’ufficio. Questi problemi devono essere risolti, predisponendo meccanismi che consentano di passare con fluidità da una modalità all’altra di lavoro quando ciò si renda necessario o utile per il buon andamento dell’amministrazione». In prospettiva, secondo Curzio, «l’organizzazione della Corte dovrebbe essere modificata puntando più che sull’aumento del numero dei magistrati, sul rafforzamento delle strutture di supporto al loro lavoro, mediante la costituzione di un ufficio composto da giovani giuristi cui affidare compiti preparatori di studio dei fascicoli e di ricerca giurisprudenziale e dottrinale, volti a costituire la base delle decisioni. È questo l’assetto organizzativo di altre Corti supreme, che dovremmo importare nel nostro sistema».

Caso procure: «Credibilità magistratura appannata, no a degenerazioni correntizie». «Gli ultimi anni sono stati difficili per il Csm e per l’associazionismo giudiziario. La magistratura italiana ha le risorse per superare questo periodo travagliato, anche se non è facile. Bisogna avere l’umiltà di ascoltare ciò che ci hanno insegnato i migliori tra noi», si legge nella relazione di Curzio, che cita Rosario Livatino, il quale «lasciò scritto nel suo diario di uomo di fede “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”. Forse il segreto – osserva Curzio – è semplicemente, per ogni scelta che operiamo, di chiederci quanto siamo credibili». «La cultura del dialogo e la ricerca di soluzioni condivise creano un metodo di confronto capace di plasmare l’attività del magistrato all’ascolto e al rispetto delle opinioni diverse. Di questo si ha una prova evidente nella vita degli uffici giudiziari, là dove l’impegno della magistratura associata è capace di aiutare a superare i momenti di puro individualismo, sempre presenti, per ricercare soluzioni organizzative discusse e partecipate. Di questo si ha oggi più che mai bisogno, in una fase in cui la credibilità della magistratura e dei suoi organismi è fortemente appannata, al punto da consentire dubbi sul suo assetto voluto dalla Costituzione», si legge nella Relazione. «Il profondo e inscindibile legame che unisce lo Stato di diritto alla libertà di associazione dei magistrati deve però far riflettere attentamente i magistrati e le loro associazioni sulla responsabilità che assumono nel momento in cui esercitano tale libertà – aggiunge Curzio – Essa rappresenta un bene prezioso per la crescita culturale per l’attuazione dello Stato democratico e non tollera deviazioni verso logiche corporative e autoreferenziali, né, tantomeno, inquinamenti, forme di degenerazione correntizia, collegamenti con centri di potere».

Violenza sulle donne: crescono maltrattamenti e stalking. «Se per un verso non si segnalano particolari disfunzioni derivanti dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere introdotte dalla legge numero 69 del 2019, il cosiddetto “Codice Rosso”, dall’altro, si registra un incremento dei reati spia, quali i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e le altre violenze ai danni delle donne», sottolinea Curzio. «Viene da più parti segnalato l’incremento delle denunce di violenze da parte di donne straniere – prosegue – ritenuto indice della crescente integrazione sociale cui consegue un’accresciuta consapevolezza da parte delle vittime della possibilità di ottenere tutela e di affrancarsi da pratiche e costumi dei paesi di origine».

«Niente scorciatoie, serve una rifondazione morale». Ermini non fa sconti al Csm. Errico Novi su Il Dubbio il 30 gennaio 2021. David Ermini, nell’intervento pronunciato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, si conferma come un vicepresidente del Csm autonomo e realista. Niente inerzia, niente scorciatoie sommarie, magari col sacrificio di qualche singolo. David Ermini, nell’intervento pronunciato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, si conferma come un vicepresidente del Csm autonomo e realista. Arriva a chiedere alla magistratura una «rifondazione morale». Appello in cui riecheggia il discorso severissimo rivolto al plenum, nel giugno 2019, dal Capo dello Stato, da quel Sergio Mattarella che è il più alto vertice anche dell’organo di autogoverno. Al presidente della Repubblica, non a caso, Ermini si rivolge più volte nel suo intervento, innanzitutto per esprimergli «profonda riconoscenza». «Il doveroso accertamento delle responsabilità di singoli magistrati non deve trasformarsi in un modo per liquidare fatti dolorosi e inquietanti all’interno di una spiacevole parentesi da archiviare e dimenticare in fretta», è il passaggio in cui il vicepresidente del Csm pare in sintonia con i tanti che intravedono in Luca Palamara un facile capro espiatorio. E infatti, a pochi mesi di distanza dalla condanna all’espulsione pronunciata a Palazzo dei Marescialli nei confronti dell’ex presidente Anm, Ermini ricorda come «risulterebbe vana ogni decisione della sezione disciplinare o della prima commissione per le incompatibilità se ad essa non si affiancasse un profondo cambiamento di mentalità, una vera e propria rifondazione morale», appunto, «che coinvolga tutta la magistratura». Il che non vuol dire che si debba disconoscere il tentativo, compito in questi mesi, di scuotersi dalla normalizzazione spartitoria. «Nell’anno appena trascorso il Consiglio superiore, dopo aver rischiato di essere travolto dalle dolorosissime vicende venute alla luce l’anno precedente, che avevano reso evidente una degenerazione correntizia non più sostenibile, era chiamato a dimostrare di saper continuare ad assolvere la funzione di governo autonomo della magistratura attribuitagli dalla Costituzione: ciò non solo attraverso la serietà e puntualità nell’accertamento delle responsabilità disciplinari, ma anche attraverso le modalità di assunzione delle deliberazioni». E grazie al sostegno di Mattarella, tiene a dire Ermini, si può «affermare che il Consiglio ha dato questa dimostrazione». Evidentemente con qualche rischio di resistenza, se il vicepresidente sente il bisogno di raccomandare, per esempio, attenzione nelle «assegnazioni di funzioni che richiedono peculiari requisiti di idoneità: penso, ad esempio, all’incarico di membro del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura». Scelte che devono essere precedute, ricorda, «dalla sola, scrupolosa valutazione delle competenze tecniche, senza cedere alla tentazione di accordi preventivi volti alla ripartizione dei posti». Oltre a un passaggio sulla riforma all’esame della Camera, per la quale si chiede di audire anche lo stesso Csm, ce n’è un altro forse più significativo di tutti: serve una «autoriforma», secondo Ermini, innanzitutto nei «procedimenti di valutazione di professionalità dei magistrati, che dovranno prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti, in modo da consentire quella necessaria differenziazione dei giudizi, oggi spesso indebitamente uniformati in incolori e ripetitive espressioni di generica positività, che costituisce il presupposto indispensabile dell’affermazione del merito». Forse la svolta davvero necessaria, non a caso accolta poco dopo, in una nota dell’Unione Camere penali, con un plauso liberatorio.

Il pg Salvi dice basta ai pm showman. Simona Musco su Il Dubbio il 29 gennaio 2021. Inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione: «Discrasia tra clamore mediatico e fasi successive. No alla ricerca del consenso». «L’anno della pandemia ha visto gli uffici del pubblico ministero nell’intero territorio nazionale impegnati a svolgere responsabilmente il loro fondamentale ruolo. Non sempre al clamore delle indagini e degli arresti ha però corrisposto pienamente la conferma nelle fasi successive. Questa discrasia, quando significativa, dovrà essere oggetto di attenta analisi in sede di ricerca dell’uniformità nell’esercizio dell’azione penale e quindi anche nelle indagini preliminari». Quello che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi dedica alle inchieste spettacolo è solo un piccolissimo passaggio. Ma rimane comunque potentissimo, a fronte di una relazione di oltre 300 pagine che analizza un anno complicatissimo per la giustizia, devastata dal Covid e costretta a fare i conti con nuovi strumenti per non rischiare l’empasse. Il passaggio è delicato e tocca la questione della presunzione di innocenza, spesso dimenticata e sostituita con una condanna mediatica a priori, spesso irreversibile, anche dopo le assoluzioni pronunciate nei luoghi deputati al processo. Ed è forte la critica pronunciata da Salvi, nel corso del suo intervento in Cassazione, all’eccesso di protagonismo, alla ricerca smodata di consenso, all’uso del processo penale come risposta alle pulsioni della pubblica opinione e non come applicazione delle norme. «È ricorrente la polemica circa dichiarazioni rese dai magistrati del pubblico ministero. La moderazione nelle dichiarazioni, resa necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contraddittorio, è manifestazione della professionalità del capo dell’ufficio – ha dichiarato il procuratore generale -. La comunicazione nei toni misurati e consapevoli deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia cercata ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero». Ma non solo: affidare al diritto penale «l’orientamento valoriare di un aggregato sociale» vuol dire snaturarlo, portando «rischi preoccupanti». Così facendo, infatti, «si esigerebbe dalla giurisdizione che le sentenze dei giudici non applichino solo norme, ma veicolino contenuti ritenuti giusti e tali non perché ricavati dalla Carta fondamentale, ma dal sentimento, dalle passioni, dalle emozioni dei cittadini». E ciò, ha avvisato Salvi, porterebbe le politiche pubbliche a non affrontare i fenomeni criminali sulla base della loro natura, spostandosi soltanto «suoi risvolti punitivi». Si tratta di quella che il procuratore generale ha definito «la tentazione del governo della paura», che «ha riflessi anche sul pubblico ministero», in quanto «dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è troppo lungo».

«Avvocatura e magistratura unite nell’affermare i valori costituzionali». Salvi ha aperto il suo discorso rivolgendo un saluto anche all’avvocatura, «alla quale siamo legati dal comune sentire nell’affermare i valori costituzionali e che nell’esercitare in autonomia il suo ruolo garantisce anche la nostra indipendenza e alla quale va dunque il nostro rispetto», passaggio che corrisponde perfettamente alla base teorica della riforma per l’avvocato in Costituzione. Ricordando i magistrati caduti nell’esercizio della propria funzione, il pg ha ricordato lo scandalo che ha travolto la magistratura, resa meno credibile da «un sistema diffuso di asservimento del governo autonomo a logiche di interessi di gruppo, che ha consentito anche condotte di assoluta gravità, alcune delle quali in precedenza mai verificatesi». Per evitare tali degenerazioni, «sono state emanate linee guida» per distinguere i casi di effettiva rilevanza disciplinare da quelli di carattere etico e deontologico. Ma è evidente, si legge nella relazione, «che la disciplina non può che essere parte di un impegno ben più vasto, nel quale la sanzione non sia che l’aspetto residuale, l’ultima ratio. Non dobbiamo riprodurre nel giudizio disciplinare le dinamiche degenerative che hanno afflitto il diritto penale, così da farne non il luogo eccezionale della violazione del precetto tipico, ma quello di un diritto punitivo etico».

Il Covid e la sfida degli uffici giudiziari. L’emergenza Covid, ha sottolineato Salvi, ha spinto gli uffici giudiziari a sfruttare la tecnologia per non fermare la giustizia. Una sfida, tutto sommato, vinta, secondo il procuratore generale. «La giustizia ha molto sofferto – ha sottolineato -. Abbiamo avvertito innanzitutto il peso della nostra arretratezza, soprattutto nella diffusione del processo telematico. L’esperienza ha infine generato, anche grazie all’impegno indefesso del ministero della Giustizia, aspetti positivi, sui quali dobbiamo ora operare per non disperdere il patrimonio accumulato, cogliendo le opportunità che si aprono per l’innovazione organizzativa della giustizia nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza». Ma non solo: la pandemia ha aumentato il livello di condivisione tra gli uffici requirenti, «che vede al centro l’impegno per l’uniforme esercizio dell’azione penale, secondo i principi della correttezza dell’agire del pubblico ministero e del perseguimento dell’obiettivo della ragionevole durata del processo, in ogni sua fase». Rimane abnorme il contenzioso nel settore della protezione internazionale e in quello tributario, a causa di contrasti interpretativi che impediscono «la celere definizione dei processi sulla base del precedente consolidato e determinano sin dal giudizio di primo grado intollerabili disparità di trattamento di posizioni eguali».

Carcere, estremismo di destra e femminicidi. Un passaggio viene anche dedicato alla diffusione del virus nelle carceri, che ha reso evidente un problema annoso: «l’esclusione degli “ultimi” dai benefici a causa della loro marginalità sociale». Da qui l’impegno «per rendere disponibili alloggi e programmi di inserimento per i detenuti con pene brevi residue». Il pg ha anche fatto il punto sulle rivolte nelle carceri, sottolineando che i nove detenuti morti nell’istituto di Modena «sono deceduti per l’assunzione di sostanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti durante la rivolta dell’8 marzo a Modena». Ma la pandemia ha fatto emergere anche l’uso strumentale della paura, soprattutto dai partiti estremisti di destra: «Le formazioni vicine all’estremismo ed eversione di destra, negli ultimi mesi, hanno dimostrato interesse contro le politiche governative in tema di contenimento del Covid-19 e hanno cercato di sfruttare la particolare situazione problematica per incitare alla disobbedienza e ad atti di violenza, strumentalizzando il disagio economico e sociale diffuso in diversi strati della cittadinanza». Fenomeno al quale si associa «il riproporsi di antiche pulsioni razziste e antisemite, che si saldano a nuovi mezzi di comunicazione e all’affermarsi di movimenti che si richiamano al suprematismo bianco». Segnalato, infine, il calo degli omicidi, che solo in minima parte ha riguardato i femminicidi, divenuti «proporzionalmente tra le principali cause di omicidio».

E se Gratteri prendesse esempio dallo stile discreto di Ilda Boccassini? Ai magistrati star che fanno lunghe conferenze e interviste dovremmo contrapporre l’austerità istituzionale di Ilda Boccassini. Giorgio Coden su Il Dubbio il 3 febbraio 2021. Chissà perché quando leggo di Gratteri penso alla Boccassini. Un nesso dev’esserci, ancorché uno sia in attività e l’altra in pensione. Forse il mestiere di magistrato, le funzioni di pubblico ministero, forse perché entrambi da prima linea, entrambi tosti, entrambi catalizzatori di critiche. O, forse, si tratta di un accostamento che non dipende tanto dalle plurime convergenze professionali quanto da una netta dissomiglianza comportamentale: il rapporto con i media. Del dott. Nicola Gratteri, delle sue esternazioni alla stampa, delle sue apparizioni in tv sono pieni giornali e teleschermi, sicché altro non occorre dire se non che il troppo si commenta da sé. Una breve digressione sull’ultima delle maxi-retate curate dal procuratore di Catanzaro, però, è d’obbligo, perché presenta un paradosso gustoso. Partiamo da numeri e volti: in campo centinaia di agenti e carabinieri, coinvolte 81 persone, tra cui esponenti di spicco della ‘ndrangheta crotonese, personaggi eccellenti, tipo notai, imprenditori, ma anche politici di primo piano a livello locale (un assessore regionale) e nazionale (un segretario di partito). A corredo, perquisizioni a tappeto dalla Calabria a Roma, sequestri milionari, carcere, arresti domiciliari e, ovviamente, conferenze stampa urbi et orbi. Insomma, un carico da novanta che ha fatto sobbalzare la penisola. Bene, come l’hanno chiamata questa po’ po’ di operazione ? “BASSO PROFILO”, anzi, “basso profilo” in minuscolo. Una svalutazione nominale dell’inchiesta piuttosto singolare, a metà strada tra umorismo british e marketing comunicativo. In ogni caso, se questo è il  metro in uso nella procura di Catanzaro, vien spontaneo chiedersi cosa mai deve succedere perché un’indagine venga insignita del grado “alto profilo”. Sono convinto che gli avvocati penalisti di lungo corso, perlomeno quegli tra loro esperti in dinamiche mediatiche, hanno in serbo un prezioso suggerimento per il dott. Gratteri e per tutti i pubblici ministeri che s’imbattono in inchieste clamorose: guardatevi dall’enfasi autoreferenziale e dalla sovraesposizione mediatica, sono lusinghe infide che generano invidie, malignità e, spesso, reazioni interne che possono mettere a repentaglio anche quel che di buono abbia prodotto il lavoro inquisitorio. Suggerimento, certamente, improponibile alla dott. Ilda Boccassini, cui, semmai, si confaceva il consiglio contrario. Nella lunga attività di procuratrice e pubblico ministero, che l’ha vista impegnata da Milano a Palermo in inchieste di sostanza ed altrettanta risonanza, a nome della dr. Boccassini, salve le conferenze stampa di prammatica, non risultano interviste sui giornali e men che meno apparizioni in tv. Una discrezione ed un riserbo durati quanto la sua carriera e spesso praticati al limite dell’indisponenza, almeno stando alle critiche piovutele addosso dai cronisti di nera e dagli esponenti del foro che l’hanno incontrata. Oggi, dopo che sotto i ponti, in barba ai pressanti richiami alla moderazione lanciati ad ogni inaugurazione d’anno giudiziario, sono continuate a passare fiumane di inchieste spettacolo, di violazioni del segreto istruttorio, di processi a mezzo stampa, forse è il caso che il mondo della giustizia nel suo insieme riconosca di avere un debito verso la Boccassini, non per quello che ha fatto, su cui le opinioni inevitabilmente divergeranno a seconda del trattamento ricevuto, ma per quello che non ha fatto, quando, chiamandosi fuori dal circuito procure-stampa e rinunciando al protagonismo mediatico, ha indicato quale sia la condotta maestra che dovrebbero seguire, e non seguono, le procure della repubblica italiana.

Anno giudiziario, Masi (Cnf): «Giurisdizione a rischio, mai sacrificare le garanzie della difesa». Il Dubbio il 29 gennaio 2021. L’intervento della presidente facente funzioni del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 in Cassazione. L’intervento integrale della Presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 in Cassazione. «Oggi – consapevoli che la tenuta del sistema è stata messa a dura prova dall’emergenza sanitaria e dalle sue complessive ricadute e che i soggetti individuati come responsabili della tenuta della stessa, ovvero la politica ma anche avvocati e magistrati, sono stati attinti dalla necessità di adattare lo svolgimento delle attività alle rinnovate esigenze, con l’impegno non trascurabile di salvaguardare in ogni caso ruolo e funzione – sappiamo che la giurisdizione, quale strumento di garanzia e di equilibrio nell’ottica della risoluzione dei conflitti, ha rischiato e tuttora rischia di essere sacrificata. È evidente quanto e come la giustizia stia pagando il prezzo di approcci semplicistici finalizzati al rimedio e mai alla soluzione; della mancata visione d’insieme, necessaria e funzionale a qualsiasi proposta di riforma; del mancato o comunque non adeguato investimento in risorse umane, strutturali e infrastrutturali, il cui rafforzamento, al contrario, è passaggio necessario a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. Garanzia questa che, mai come nel corso dell’anno appena compiuto e, purtroppo si teme, anche per quello in corso, si rende necessaria, oltre che urgente, in conseguenza della situazione di emergenza generata dalla diffusione dell’epidemia. Garanzia che, fortemente condizionata, a tratti inibita, ha alterato il già fragile equilibrio tra i rapporti civili, etico sociali, economici, alimentando il senso di sfiducia nei confronti della giustizia e di chi la amministra. La crisi della giustizia è però problema che purtroppo prescinde dal momento e investe la società e la comunità civile, ai cui margini, ancora una volta, è relegata la tutela della Persona, soprattutto se detenuta, tenuto conto delle attuali condizioni degli istituti penitenziari. Anche nella bozza del piano nazionale di ripresa predisposto dal Governo ci si sofferma, soprattutto, sulla prospettiva economica, là dove si osserva che la lentezza della giustizia mina la competitività delle imprese, la propensione ad investire nel Paese e impone azioni decise per aumentare la trasparenza e la prevedibilità dei procedimenti civili e penali in termini di durata. In realtà, bisognerebbe riuscire ad ammettere che la prevedibilità della durata dei procedimenti civili e penali, anche nei termini dell’auspicata ragionevolezza, è condizionata dalle risorse (poche) e dall’inadeguatezza degli strumenti a disposizione, non certo dalle indefettibili garanzie difensive che non vanno e non possono essere sacrificate in nome di altri interessi pubblici o privati. Essenziale, nell’esercizio della giurisdizione, il pieno svolgimento del confronto processuale, ancorato alle garanzie ed espressione di diritti non comprimibili, soprattutto se riferiti ai più deboli, ai soggetti fragili. Ha destato e desta molta preoccupazione, perciò, la non gradevole sensazione provata dall’Avvocatura, nel constatare che i progetti di riforma del processo civile e del processo penale sono orientati a spostare il baricentro delle garanzie proprie del giusto processo, in un’ottica non condivisibile di mero efficientismo. L’Avvocatura, nel corso di questi lunghi e difficili mesi, ha dovuto resistere (non sempre riuscendovi) al rischio di una paralisi dell’attività giudiziaria che ha fortemente inciso sull’irrinunciabile aspettativa di tutela dei cittadini; ha dovuto subire le conseguenze di provvedimenti che non hanno ritenuto di dovere considerare, in adeguata misura, la necessità per gli avvocati di accedere, in sicurezza, agli uffici giudiziari. Le disposizioni organizzative, rimesse ai singoli capi degli Uffici, infatti, oltre a essere difformi su tutto il territorio nazionale, si sono rivelate, spesso, preclusive all’esercizio dell’attività difensiva, espletata nell’esclusivo interesse della parte assistita. Ecco perché qualsiasi proposta di riforma della Giustizia deve valorizzare la prospettiva della tutela della persona e non può limitarsi a quella prettamente economica. Ed è proprio in questa prospettiva che si inserisce la proposta dell’Avvocatura per il Piano nazionale di ripresa, in linea con quanto osservato negli ultimi anni, anche dalle istituzioni europee e internazionali, le quali hanno evidenziato il ruolo del sistema giustizia nell’assicurare lo sviluppo di una società inclusiva e caratterizzata da più ampi livelli di benessere collettivo, là dove si riesca a garantire ai consociati la soluzione migliore rispetto all’aspettativa di tutela da ciascuno espressa. Non si tratta di considerare solo la riduzione dei costi e dei tempi dei processi ma di migliorare la qualità della funzione destinata ai consociati e alle imprese, affinché il sistema giustizia riporti effettivamente al centro la persona e il suo bisogno di tutela. Tre le linee conduttrici della proposta: razionalizzazione e semplificazione del quadro normativo esistente; miglioramento dell’organizzazione della giustizia; accrescimento delle professionalità e delle competenze specifiche degli operatori del settore. In quest’ottica si inserisce anche l’invocazione di un modello organizzativo che sia preciso nella definizione di ruoli, compiti e attribuzioni rispettose delle prerogative costituzionali assegnate agli attori essenziali della funzione Giustizia e cioè la Magistratura e l’Avvocatura. Diamo atto alla Magistratura della considerazione rivolta all’Avvocatura, ritenuta coessenziale all’esercizio della funzione, affinché recuperi efficienza, prestigio e il ruolo centrale che merita. Confortati da questa consapevolezza, ci auguriamo che possano superarsi gli ultimi, ma non pochi ostacoli, all’auspicata, oltre che necessaria, reale collaborazione ed effettiva interlocuzione, nell’interesse superiore delle istituzioni che rappresentiamo e dei cittadini cui dobbiamo assicurare tutela. Mi riferisco, in particolare, alla dovuta considerazione dell’apporto che la magistratura onoraria fornisce all’esercizio della giurisdizione, alla composizione dei Consigli Giudiziari e al ruolo e alla funzione degli avvocati che ne fanno parte. Nel formulare osservazioni al progetto di riforma sull’ordinamento giudiziario, in tema di accesso alla magistratura, abbiamo evidenziato e richiamato l’opportunità di una formazione congiunta che partendo dall’Università, approdi ad un percorso comune di specializzazione. A proposito di effettiva ed efficace interlocuzione voglio sottolineare, anche in questa occasione, la proficua collaborazione tra Avvocatura e Corte Suprema di Cassazione, nell’affrontare e risolvere i problemi legati anche agli aspetti pratici dell’accesso alla giustizia e allo sviluppo del processo telematico che tiene conto delle indefettibili garanzie di difesa, avviato e sperimentato, non senza difficoltà, nella fase emergenziale e che diventerà pienamente operativo nei prossimi mesi. Viviamo un tempo in cui è facile cedere alla tentazione del pessimismo eppure, se siamo consapevoli dei valori che siamo chiamati a difendere – e sono quelli espressi (e non solo enunciati) dalla nostra Carta – l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà, sono certa che troveremo il modo, responsabilmente e con il massimo impegno, vocati al corretto funzionamento della giustizia, di rendere possibile la realizzazione di un nuovo o meglio rinnovato concetto di comunità della giurisdizione e, per l’effetto, di un nuovo rinnovato concetto di Democrazia».

Palamara, il convitato fantasma. Liana Milella il 29 gennaio 2021 su La Repubblica. Luca Palamara. C’è lui, ovunque. C’è, anche se fisicamente non c’è. Una presenza costante che mette in crisi la magistratura. Tra quello che è stata, che forse è tuttora, e che il cittadino non vorrebbe che fosse. Perché l’uomo della strada, colui che attende giustizia, vorrebbe una giustizia immacolata. Giudici altrettanto immacolati. Nel lavoro. Nei rapporti con i colleghi. Nella ricerca di un avanzamento. Anche nella vita privata. E invece, dopo il caso Palamara, scopre che non è così. Perché anche le toghe hanno dei punti deboli. Anzi, molti punti deboli. Vogliono fare carriera, e cercano gli appoggi per farla. Si comportano come i politici, creano e disfano maggioranze e minoranze. E, sulla base di queste, scelgono pure i capi degli uffici. Procure comprese. Si confidano segreti, perfino nelle procure, che invece dovrebbero restare tali. Sono protagonisti di faide drammatiche. Del resto...come non ricordare il caso Falcone? Lui adesso non c’è più, sono passati trent’anni, chi c’era allora magari ricorda poco, o non vuole ricordare, ma se andiamo a rileggere quelle cronache del palazzo di giustizia di Palermo e del Csm scopriremo che gli schieramenti c’erano anche allora. Ed erano terribili. Chi li ha vissuti in prima persona se li ricorda assai bene. E allora. Si apre l’anno giudiziario in Cassazione e lui - Palamara - non c’è, ma è come se ci fosse. È il convitato di pietra. Alludere a lui, parlare di lui, criticare lui, scusarsi perché si è parlato con lui, spiegare come, quando e perché lo si è fatto, dire che però non si è come lui, è inevitabile. Una maledizione dalla quale, dopo due anni, la magistratura non riesce ad uscire. Perché non ha la forza di mettersi a nudo, di andare oltre Palamara, di dimostrare che se lui ha tenuto determinati comportamenti, gli altri, in quello stesso momento in cui i fatti accadevano, hanno preso le distanze. Forse perché non le hanno prese. Tutt’altro. Ed è chiaro ormai che tutti parlavano con tutti e si raccomandavano con tutti. Che c’era una destra e una sinistra delle toghe. E delle trattative sotto banco. Servirebbe trasparenza. Servirebbe mostrare a tutti le proprie chat, invece di chiedere ossessivamente quelle di Palamara per spiegare che sì, l’avevo chiamato, ma non cercavo raccomandazioni. Ne viene fuori una magistratura che - drammaticamente - vive con il senso di colpa. Che la mattina compulsa nell’angoscia le rassegne stampa e la stampa alla ricerca dell’ultima verità di Palamara. Il quale, ahimè, ha pure una memoria da elefante. E corre da un palazzo all’altro, a Pertugia da Cantone, in Cassazione da Salvi, e adesso vuole andare anche al Csm, laddove si parla delle sue chat e si processano gli ex colleghi, per dire la sua. Il convitato di pietra vuole trasformarsi in essere vivente. L’ex toga vuole tornare toga. E se con lui la giustizia disciplinare è stata rapida - troppo rapida in barba al diritto di difesa - e altrettanto rapida è stata la sua espulsione dall’Anm, adesso gli accertamenti, tra Csm e Anm, fanno prevedere tempi lunghissimi. Così la magistratura italiana rischia di disfarsi inseguendo il fantasma di Palamara. Con un effetto assurdo. Ormai, tutto al Csm, passa per Palamara, promozioni e punizioni. Quasi che le chat siamo diventate ormai un’obbligatoria componente del curriculum. E sarà così per i prossimi dieci anni. Per cui s’annuncia un tramonto nero per la magistratura.

La sfida delle toghe per la credibilità, al di là di Palamara e delle sue «verità». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 30/1/2021. L’appello del presidente della Cassazione Curzio a recuperare «autorevolezza e fiducia perdute». «In gioco sono le vite dei cittadini che devono rivolgersi a un tribunale».

Il primo presidente della Corte di cassazione Pietro Curzio ha scelto le parole di Rosario Livatino, il giudice ragazzino trucidato dalla mafia trent’anni fa: «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Dopo di lui il procuratore generale Giovanni Salvi ha evocato altre vittime del crimine organizzato e del terrorismo per sottolineare che «il coraggio di tanti colleghi ci dà oggi la forza per ricostruire la credibilità della magistratura, duramente scossa».

Abbandonare le pratiche spartitorie. C’è dunque un problema di autorevolezza e fiducia perdute, e non ancora recuperate, da parte delle toghe, per stessa ammissione dei loro massimi rappresentanti. Ai quali si aggiunge il vice-presidente del Csm David Ermini, quando invoca «un profondo cambiamento di mentalità, una vera e propria rifondazione morale», che mandi definitivamente in soffitta logiche di appartenenza e pratiche spartitorie.

Reazioni e contromosse. Concetti e moniti già circolati nella stessa, solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario di un anno fa, dopo che era esploso il «caso Palamara». E se un anno dopo ritornano, significa che le reazioni e le contromosse non sono state sufficienti a risolvere problemi e degenerazioni smascherate da quella vicenda; né a rimuoverne tutte le cause. Qualcosa è stato fatto, come rivendicato proprio da Salvi e Ermini, ma evidentemente non abbastanza.

Le tossine di un sistema. Luca Palamara, l’architetto delle nomine pilotate, è stato espulso (temporaneamente, fino al giudizio definitivo) dall’ordine giudiziario, ma le tossine della malattia svelata dalle inchieste a suo carico (penali e disciplinari) sono rimaste in circolo. Rivitalizzate ora, sia pure con intenti sospettabili di strumentalità, dalla presunta «operazione verità» del protagonista: una ricostruzione molto parziale, fondata su episodi chirurgicamente selezionati (in alcuni casi già smentiti dagli ex colleghi chiamati in causa), nonché su palesi dimenticanze e omissioni.

I processi a Berlusconi. Un tentativo di riscrivere la storia giudiziaria dell’ultimo quarto di secolo, a cominciare dai processi a Silvio Berlusconi, attraverso un punto di vista molto particolare e politicamente orientato. E di colpire determinati bersagli; tra i quali, forse non a caso, anche il procuratore Salvi e il vice-presidente Ermini.

«Affresco che fa torto alla realtà». A questa manovra s’è ribellata l’Associazione nazionale magistrati, con la denuncia del neo-presidente Giuseppe Santalucia il quale — fatta salva la necessità di accertare le singole responsabilità per i singoli comportamenti — replica «indignato» a «un affresco che reca un grave torto alla realtà», e rovescia le accuse: «Non si può tollerare che un’intera istituzione paghi oggi un prezzo elevatissimo in termini di sfiducia collettiva e di pericolosa delegittimazione per l’opera di quanti hanno creduto di poterla utilizzare per personale tornaconto». Leggi Luca Palamara.

La tenuta di un apparato vitale per i cittadini. Tuttavia, per non trasformare questa forte denuncia in una scontata e poco efficace autodifesa d’ufficio, è necessario che pure il sindacato dei giudici si assuma l’onere di recuperare affidabilità e prestigio. Con comportamenti e iniziative che segnino concreta discontinuità da certe pratiche. Insieme con gli organismi istituzionali, dal governo autonomo a chi esercita la giurisdizione. A tutti i livelli. Per evitare anche solo l’apparenza di un sistema immutato e immutabile. Non è in gioco la conservazione di una casta e dei suoi privilegi, come pure sostenuto da qualcuno, bensì la tenuta di un apparato al quale sono affidate le vite dei cittadini che ogni giorno vengono chiamati o sono costretti a rivolgersi a un tribunale. È per loro, non per qualche categoria o potere, che le toghe devono ritornare a essere credibili.

Aperto nel trionfo dell'ipocrisia. Apertura anno giudiziario: ipocrisia senza limiti e cerimonia in un clima surreale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Gennaio 2021. Hanno aperto l’anno giudiziario in un clima surreale. Quasi non fosse successo niente nella magistratura in questi 12 mesi. Una cerimonia davanti al presidente della Repubblica, piena di toghe, ermellini, velluti, ori e princisbecchi. E poi montagne, montagne infinite di ipocrisia. Ehi, signori!!! C’è stato il caso Palamara, ve ne siete accorti? Vi riguarda: è uscito un libro che trascina nel fango decine e decine di alti magistrati, son state pubblicati pacchi di whatsapp e messaggi che spiegano come l’intera classe dirigente della magistratura italiana è nominata da un sistema occulto e illegale dominato da correnti e camarille, abbiamo capito che anche le inchieste vengono aperte o chiuse per ragioni di potere, che le sentenze sono orientate, che un gigantesco potere segreto e incostituzionale dilaga e sottomette i poteri democratici. Chiaro? Non bisogna essere giuristi per capire queste cose. Chi ha letto il libro di Palamara lo sa. E tutto quello che sostiene Palamara è sostenuto da riscontri solidi. E allora? E allora eccoli lì i massimi vertici della magistratura italiana, che parlano retorici e altisonanti all’inaugurazione dell’anno giudiziario, citano appena il caso Palamara con parole da far ridere qualunque spettatore di commedie («colpiremo, indagheremo, chiariremo, non lasceremo nessuna ombra…») e non si accorgono che l’istituzione magistratura, ormai, è del tutto delegittimata per colpa dei comportamenti dei suoi vertici. Ieri abbiamo pubblicato la notizia che un gruppetto di magistrati, una trentina, ha chiesto le dimissioni dei leader più importanti delle correnti e della magistratura. Di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, di Giuseppe Cascini, icona della sinistra penale. Hanno gridato che loro non ci stanno a lasciare che, in silenzio, tutta la categoria, piena di gente seria e onesta, sia trascinata nelle pozzanghere della sovversivismo dall’alto. Beh, nessuno, proprio nessuno che abbia sentito la necessità di rispondere a questi magistrati. Mi è venuta in mente questa immagine. Un comitato centrale del Psi, o della Dc, con Craxi e De Mita, tra il ’92 e il ’93, che si riuniva e non parlava di Tangentopoli. Discuteva del prezzo del sale, del regolamento delle comunità montane, e poi, magari, qua e là buttava giù qualche parola bella: pulizia, onestà… Cosa avrebbero fatto il giorno dopo i giornali? Avrebbero trasformato in braciole – come comunque hanno fatto – partiti e leader. Arrosto. E invece noi assistiamo a questo spettacolo indegno della magistratura, messa a nudo dallo scandalo più clamoroso della storia della Repubblica, nel silenzio generale. E nella viltà. La stragrande maggioranza dei mass media ha deciso di ignorare tutto. Volete sapere il perché? Perché la grande maggioranza dei mass media, ormai da molti anni, ha accettato di lavorare in una condizione di subalternità nei confronti della magistratura. Ha firmato un patto di sottomissione. È stata propria questa circostanza la causa principale della morte cerebrale del giornalismo italiano. C’è ancora il giornalismo in Italia? No: c’è Travaglio. Ora il problema è molto semplice. La magistratura non ha nessuna possibilità di autoriformarsi. I vertici della magistratura sono in gran parte corrotti, come ci spiega Palamara. L’urgenza di radere al suolo il “sistema” e di ripristinare il diritto e la legalità è chiara a tutti. Chi è che può intervenire? Una parola ce la saremmo aspettata da Mattarella. ma mi pare che ieri abbia assistito impietrito e silenzioso allo scempio. Resta la politica, il Parlamento. È in grado di reagire? Di istituire una commissione di inchiesta? Di chiamare a testimoniare tutti i testimoni evocati da Palamara e che il Csm ha ignorato? È in grado di fare una riforma della magistratura che azzeri i vertici attuali? Se non è in grado di fare queste cose, se resta accucciato, diventa inutile persino chiamarlo Parlamento.

L'inaugurazione alla corte di Cassazione. Inaugurazione dell’anno giudiziario è la fiera dell’ipocrisia. Angela Stella su Il Riformista il 30 Gennaio 2021. Il fantasma di Luca Palamara aleggiava ieri nell’Aula Magna della Corte di Cassazione durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, alla presenza delle massime autorità, prima fra tutte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I massimi vertici dell’ordine giudiziario non hanno potuto infatti non fare i conti con lo scandalo che ha devastato la magistratura in questo ultimo periodo. A sentire gli interventi i buoni propositi ci sono tutti per risalire dopo aver toccato il fondo. Ma ai bei discorsi seguirà una vera riforma della giustizia e della magistratura? «Gli ultimi anni sono stati difficili per il Csm e per l’associazionismo giudiziario – ha scritto nella sua relazione il primo presidente Pietro Curzio – La magistratura italiana ha le risorse per superare questo periodo travagliato, anche se non è facile. Bisogna avere l’umiltà di ascoltare ciò che ci hanno insegnato i migliori tra noi. Rosario Livatino lasciò scritto nel suo diario di uomo di fede “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”. Forse il segreto è semplicemente, per ogni scelta che operiamo, di chiederci quanto siamo credibili». Di credibilità ha parlato anche il Procuratore Generale di Cassazione, Giovanni Salvi: «Il coraggio di tanti colleghi ci dà oggi la forza per ricostruire la credibilità della magistratura, duramente scossa dalle indagini che hanno portato a emersione un sistema diffuso di asservimento del governo autonomo a logiche di interessi di gruppo, che ha consentito anche condotte di assoluta gravità, alcune delle quali in precedenza mai verificatesi. La reazione sanzionatoria è stata pronta ed efficace. Essa però non può che essere parte di un impegno ben più vasto, nel quale la sanzione non sia che l’aspetto residuale». E infatti a chiedere una «rifondazione morale che coinvolga tutta la magistratura» è il vice presidente del Csm, David Ermini: «Il doveroso accertamento delle responsabilità di singoli magistrati non deve trasformarsi in un modo per liquidare fatti dolorosi e inquietanti all’interno di una spiacevole parentesi da archiviare e dimenticare in fretta». In altre parole, non trasformiamo Palamara in un capro espiatorio, come qualcuno vorrebbe, amnistiando tutta la corte che per anni gli ha chiesto favori. Del discorso di Ermini c’è sicuramente da ricordare un altro passaggio molto importante che riguarda la valutazione professionale dei magistrati, tema a cui questo giornale sta dedicando da giorni pagine di approfondimento: «Auspico vivamente – sostiene Ermini – con riguardo ai procedimenti di valutazione di professionalità dei magistrati, che dovranno prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti, in modo da consentire quella necessaria differenziazione dei giudizi (oggi spesso indebitamente uniformati in incolori e ripetitive espressioni di generica positività) che costituisce il presupposto indispensabile dell’affermazione del merito e del rilievo delle diverse attitudini». Tale proposito ha raccolto il plauso dell’Unione delle Camere Penali Italiane che hanno aperto il fronte della discussione: «La riforma dell’ordinamento giudiziario non potrà prescindere dalla separazione delle carriere e da percorsi professionali che valorizzino merito e qualità. L’esigenza di nuove regole per le valutazioni di professionalità dei magistrati finalizzate all’affermazione del merito è risuonata nell’intervento del Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura; finalmente un nuovo approccio, che valorizza prospettive di riforma da sempre indicate dall’UCPI». Alle dichiarazioni di Ermini si legano sicuramente le parole di ammonimento del Procuratore Salvi verso certe Procure mediatiche e forse verso chi, come il Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, non è in grado di rispettare il libero dispiegamento della giurisdizione: «Non sempre al clamore delle indagini e degli arresti – dice Salvi – ha però corrisposto pienamente la conferma nelle fasi successive. Questa discrasia, quando significativa, dovrà essere oggetto di attenta analisi in sede di ricerca dell’uniformità nell’esercizio dell’azione penale e quindi anche nelle indagini preliminari». Sempre Salvi ha parlato di carcere come questione di gravità strutturale, che la pandemia ha solo messo sotto i riflettori: «L’esecuzione penale ha tuttavia rappresentato, nell’anno trascorso, il distretto penalistico di maggiore delicatezza ed importanza: e, pertanto, su di esso la Procura generale ha inteso profondere attenzione massima e notevole impegno di coordinamento. La pandemia, quale piaga sociale, ha infatti rivelato, in tutta la drammaticità, altre piaghe mai guarite ed altre emergenze mai davvero superate: in primo luogo, quella delle carceri italiane. Come noto le comunità chiuse sono un contesto in cui il diffondersi di infezioni può avvenire in modo particolarmente rapido; quelle più numerose nel nostro Paese sono costituite dagli istituti penitenziari i quali hanno, oltre a quella dell’affollamento, tre ulteriori caratteristiche che li rendono particolarmente meritevoli di specifica, massima attenzione»: essere aperti alla comunità esterna, ospitare molti reclusi in condizioni di salute precarie, dipendere da strutture sanitarie esterne. Infine, siccome il nostro Paese soffre, tra l’altro, del brutto male del panpenalismo è bene ricordare a chi chiede nuovi reati e aumenti delle pene che, come ha precisato sempre Salvi, « è significativa la tendenza alla diminuzione degli omicidi volontari. Nel 2020 essi sono infatti stati 268, con un calo del 13,5%, rispetto all’anno precedente in cui erano stati 315. […] L’Italia vede, dunque, un numero di omicidi in rapporto alla popolazione molto inferiore alla media europea e tra i più bassi al mondo»; tuttavia «è però drammatico il fatto che gli omicidi in danno di donne permangono pressoché stabili, molti di tali delitti sono consumati nel contesto di relazioni affettive o domestiche». Presente all’inaugurazione anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che nel suo intervento ha chiarito di essere «in carica per gli affari correnti» e, pertanto, «non potrò che attenermi all’esposizione generale dell’attività portata avanti nel 2020 esimendomi, per doveroso rispetto dei rapporti istituzionali, da qualsiasi considerazione di indirizzo politico».

Interrogazione di Zanettin. Inchiesta dura dieci anni, il governo: “Vabbè, può succedere…”. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. La Procura di Parma non riesce a gestire più di cinque fascicoli contemporaneamente. Soprattutto se questi fascicoli riguardano reati contro la pubblica amministrazione. Lo ha affermato ieri mattina, rispondendo alla Camera ad una interrogazione parlamentare, il sottosegretario per l’Ambiente Roberto Morassut (Pd), incaricato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di leggere l’incredibile risposta redatta dai burocrati di via Arenula. Il caso, sollevato dal deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, riguardava un procedimento penale le cui indagini preliminari erano durate un decennio. La Procura di Parma, pm Paola Dal Monte, a marzo del 2010 aveva iscritto nel registro degli indagati per il reato di abuso d’ufficio tutti i vertici dell’amministrazione parmigiana, dal sindaco al segretario generale, passando per il direttore del personale. Secondo l’accusa, nel quinquennio 2005-2010, ci sarebbero state alcune assunzioni di dirigenti del comune di Parma in violazione del Testo unico degli enti locali. Per i finanzieri che avevano condotto le indagini tali assunzioni violavano i principi costituzionali di imparzialità della Pubblica amministrazione, causando un danno alle casse del comune di Parma per diversi milioni di euro. Del fascicolo, dopo una proroga ad ottobre del 2010, si erano perse le tracce, tornando in auge solo a distanza di un decennio, a febbraio del 2020, con una richiesta di archiviazione di ben due pagine da parte della stessa Procura. “Gli investigatori sono incorsi in errori”, aveva scritto la dottoressa Dal Monte, aggiungendo che “il criterio previsto dalla legge (per le assunzioni) appare del tutto rispettato”. In dieci anni i finanzieri erano riusciti ad esaminare solo “due contratti su diciotto”. Il gip Mattia Fiorentini, compilando a penna un modulo prestampato, aveva disposto il mese successivo l’archiviazione per prescrizione per tutti gli indagati, senza entrare nel merito della vicenda. Per Morossut “non appare sussistere alcun allarmante o comunque anomalo stallo investigativo-procedurale tale da giustificare l’esercizio dei poteri ispettivi e di promozione dell’azione disciplinare di titolarità del Ministero di Grazia e Giustizia (sic!), considerato che allo stato non si rinviene alcun profilo di responsabilità da parte dei magistrati di Parma”. Il motivo? “L’immane impegno investigativo” per affrontare, appunto, questi cinque fascicoli. Morassut ha, quindi, elencato con dovizia di particolari i vari procedimenti che hanno inchiodato la Procura di Parma per un decennio, omettendo di indicare che, tranne alcuni posizioni definite con il patteggiamento in sede di indagini preliminari, nessuno di loro è ancora giunto ad una pronuncia definitiva.

Morassunt, per giustificare i pm, si è anche lanciato in una sfida alla legge Pinto, sottolineando che un fascicolo del 2011, “relativo ad ipotesi di concussione a carico di due dirigenti del comune di Parma”, “pende attualmente nella fase dibattimentale”. Viene da chiedersi che giustizia sia quella che in dieci anni non riesce a definire, nemmeno in primo grado, un processo a carico di due imputati. Ma tant’è.  Morassut, prima di concludere, ha poi giocato la carta valida per tutte le stagioni: la carenza d’organico. Una giustificazione tarocca dal momento che la Procura di Parma, la cui pianta organica è stata anche aumentata, non ha da molti anni scoperture degne di nota. Laconico il commento di Zanettin: “Una risposta farcita di giustizialismo. Pareva l’avesse scritta Piercamillo Davigo”. In serata è intervenuto anche uno degli indagati, l’ex assessore al Personale del comune di Parma Giovanni Paolo Bernini (FI): “Tanti cittadini onesti e incensurati sono stati sottoposti per anni ad una gogna mediatica prima di essere scagionati”. Due degli indagati, l’ex sindaco Elvio Ubaldi e la dirigente Raffaella Rampini nel frattempo sono morti. Bernini ha anche ricordato che “i finanzieri che hanno redatto i verbali errati sono stati tutti promossi”. Guido Mario Geremia, l’allora comandante provinciale della guardia di Finanza che condusse le indagini, dopo aver ricevuto un encomio per l’attività svolta, è stato promosso generale e destinato al prestigioso incarico di comandante regionale della Calabria, divenendo uno dei più importanti collaboratori del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

 “I magistrati che inseguono il consenso sono i meno capaci”, parla Giuseppe Santalucia. Angela Stella su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. Il dottor Giuseppe Santalucia, da poco eletto a guida dell’Anm, ha il privilegio di poter guardare alle questioni di politica giudiziaria avendo un bagaglio professionale e culturale costruito ricoprendo diversi importanti ruoli: sostituto procuratore, gip, giudice di Cassazione ma anche capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando. È esponente di Area ma conserva la tessera di Magistratura democratica e non si è sottratto ad affrontare la divisione tra i due corpi associativi.

Si è appena concluso un anno molto difficile sotto diversi aspetti. Lei per esempio è alla guida dell’Anm dopo la bufera del caso Palamara. Da dove si ricomincia?

«Si ricomincia dalla consapevolezza della gravità di quanto si è, ancora solo in parte, accertato; consapevolezza che è pungolo per la ricerca e per la realizzazione di un rinnovamento effettivo. L’evocazione del rinnovamento ad alcuni suona come stanca e ipocrita formula che vuol celare l’incapacità di cambiare le cose. So che oggi è forte il pericolo di non esser creduto, perché l’Anm sconta una diffusa sfiducia. Per questo ci affideremo alla concretezza delle nostre azioni».

Oltre il caso Palamara, per alcuni unico capro espiatorio, grandi divisioni ci sono state per l’affaire Davigo. Qual è la sua posizione su questo?

«Il tema del capro espiatorio è all’antitesi del rendere giustizia. Nessuno ha voluto o vuole caricare sul singolo le colpe di un sistema, polarizzare il confronto/scontro tra l’accusato e gli accusatori, in modo che sull’uno ricada l’intera responsabilità di una stagione triste, e tutti gli altri siano magicamente emendati. La giustizia è fenomeno più complesso, che necessita di tempi adeguati e di seri approfondimenti. Sbaglia chi ritiene che con il caso Palamara si sia cercato di mettere sotto il tappeto la (tanta) polvere che è venuta fuori. Nessuna rimozione, da un lato; nessun accertamento sommario, dall’altro. Sul caso Davigo ho veramente poco da dire. Si sono già pronunciati i giudici amministrativi, è una questione che ormai appartiene alle aule di giustizia più che al confronto politico-istituzionale».

Qual è la cura alle degenerazioni del correntismo?

«La cura è eminentemente culturale. Il correntismo si è affermato in un lungo periodo di distrazione dall’impegno collettivo e di ripiegamento in una dimensione privata. In molti la sfiducia verso l’assunzione di compiti nella sfera pubblica, latamente politica, ha comportato una chiusura egoistica in se stessi e nei piccoli e personali interessi di carriera. Le correnti sono state private dell’apporto diffuso di un collettivo ampio e le dirigenze associative si sono ritrovate più sole e meno vigilate, più fragili perché non irrobustite dal confronto sulle idee e sui progetti. In questo scenario di allontanamento dalla politica, dalla politica associativa, anche in nome di un malinteso modello di magistrato chiuso tra le sue carte e imprigionato alla sua scrivania, ha preso corpo il correntismo. Bisogna riscoprire l’essenzialità dell’impegno associativo come ineliminabile dimensione professionale di un magistrato che ambisca a rendere effettivo il valore dell’autogoverno».

In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere. È d’accordo?

«No, non sono per nulla d’accordo, ma raccolgo la preoccupazione. L’azione penale è esercizio, oltre che di un dovere costituzionale, di un potere per necessità fortemente invasivo. Questo non va dimenticato, perché, come è stato detto, la giustizia penale è un male necessario, ed occorre che sia sempre contenuta entro i margini della stretta necessità. Se i giudici adempiono con scrupolo la loro funzione di controllo, il pericolo di un “quarto potere”, di un potere dunque che si distacchi e si autonomizzi dal potere giudiziario, tradizionalmente inteso come “terzo potere”, non prende consistenza. Occorre, pertanto, avere a cuore l’efficienza di Tribunali e Corti, perché la soluzione non può essere ricercata nello spuntare le armi delle Procure, rimedio che sarebbe assai peggiore del male che si vuole evitare, ma nel rafforzare i legittimi controlli».

La proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere promossa dall’Ucpi giace in Commissione Affari Costituzionali della Camera. Sembra difficile solo discuterne. Qual è il suo pensiero su questo?

«Sull’argomento si discute da tanti anni, e non si è ancora delineata una proposta che possa tranquillizzare quanti temono che la separazione potrà essere un fattore di squilibrio nel delicato assetto tra i Poteri. Una volta che avremo separato il pubblico ministero, che ne faremo? Lo consegneremo al Governo, al potere politico? Oppure lo renderemo autonomo, inverando proprio quello che il prof. Cassese prospetta come timore, ossia la strutturazione di un “quarto potere”? È proprio necessario allontanarlo dalla giurisdizione, recidere quel legame di formazione comune e di condivisione di percorsi professionali, pur nella già accentuata separazione delle funzioni, che allo stato definiscono la cornice entro la quale il pubblico ministero può alimentarsi di una cultura delle garanzie? Per questo il progetto sulla separazione delle carriere fatica ad andare avanti. Perché sconta una pericolosa incompletezza del disegno ricostruttivo».

In un documento del 6 gennaio l’Ucpi si rivolge direttamente a Lei per sollecitare un dibattito sulla responsabilità professionale dei magistrati. Come risponde a questo appello? Bisogna chieder conto ai magistrati di inchieste completamente fallite, di accanimenti verso alcuni personaggi politici la cui carriera è stata stroncata?

«Sono certo che le Camere Penali non vogliano una responsabilità dei magistrati sulla base di risultati ottenuti o mancati. Sarebbe il peggior servizio alla tutela dei diritti e all’effettività delle garanzie far dipendere il giudizio di professionalità sui magistrati dall’esito dei processi. Si introdurrebbe un fattore di inquinamento dell’attività processuale, perché i magistrati, almeno a volte o in parte, agirebbero nel processo avendo di mira non tanto e non solo la verità e la giustezza delle soluzioni, quanto le sorti delle proprie carriere. Altro discorso è invece dare rilievo a dati abnormi nella conduzione e nell’esito di indagini e di processi. Spingersi al di sotto di questa soglia, con l’illusoria convinzione di sanzionare gli abusi, sarebbe, lo ripeto, prima ancora che una minaccia per i magistrati, un pericolo di compromissione della serenità di giudizio e della indifferenza ai risultati che, fisiologicamente intesa, è l’unica via per dare effettività al principio della neutralità della funzione».

L’anno scorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare, nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Eppure il fenomeno continua, con pm che intervengono in prima serata, reclamando attenzione alle loro inchieste, o addirittura lanciando accuse al Ministro della Giustizia. Qual è il suo pensiero su questo?

«Il monito del Procuratore generale della Corte di cassazione è sacrosanto. Esistono e convivono, dentro la magistratura, diversi modelli di magistrato, diverse opzioni culturali su come intendere la professione. Le differenze possono essere proficuamente oggetto di un dibattito interno all’Associazione, possono stimolare il confronto di opinioni e di sensibilità, concorrendo ad innalzare la qualità del livello professionale dell’intero Corpo».

La nuova legge sulle intercettazioni sembra aver scontentato un po’ tutti, avvocati e magistrati per vari motivi. Il professor Spangher su questo giornale ha criticato fortemente la "pesca a strascico" e il possibile abuso del trojan da parte dei pm. Lei condivide questa critica?

«L’aver scontentato tutti lo registro come un segnale che quella legge ha cercato di incidere effettivamente sull’esistente. Le varie modifiche, intervenute sino al varo del decreto-legge n. 169 del 2019, e la sua legge di conversione, hanno conservato il nucleo della riforma tanto criticata, che provo così a riassumere. Le conversazioni irrilevanti non entrano nel processo; il pubblico ministero deve vigilare affinché non siano riassunte nemmeno nei verbali delle operazioni onde evitare che, a causa della sommaria annotazione, possano essere esposte al pericolo di indebita divulgazione; le parti devono attentamente selezionare il materiale utile a fini di prova, in modo che il resto, tutto il resto, non transiti nel processo e quindi in una dimensione destinata a diventare interamente pubblica. Sul pericolo della cd. pesca a strascico, dico che si verifica soltanto se e quando pubblici ministeri e giudici perdono di vista che la legge consente le intercettazioni a condizione della loro indispensabilità o, in taluni casi, della loro necessità, criteri fortemente selettivi e di garanzia».

Secondo Lei è necessario dover rimettere mano alla riforma della prescrizione, come chiedono i penalisti visto che la riforma del processo penale è in una fase di stallo?

«Una riforma che liberi il processo dallo scorrere impeditivo del tempo della prescrizione deve farsi carico di un governo dei tempi ragionevoli del processo. La scelta, apprezzabile, di separare la prescrizione dei reati dal processo, il tempo dell’oblio sul reato dal tempo della memoria del reato che si consuma nel processo, deve affrontare il tema, complesso e rilevante in punto di garanzie e dei diritti dell’imputato come della vittima, dei tempi del processo e del loro controllo».

Esiste il rischio che la normativa emergenziale sui processi penali e civili diventi poi la normalità?

«È un timore che ritengo ingiustificato. Il cd. processo da remoto vive e vivrà solo in ragione dell’emergenza pandemica. Ma per tutto il periodo dell’emergenza è soluzione essenziale, perché è l’unica che può coniugare la tutela del diritto alla salute con il bisogno che l’attività giudiziaria non si arresti».

È indubbio che il nostro Paese soffra di un brutto male: il panpenalismo. Esiste un rimedio a questo fenomeno?

«Sì, il coraggio della Politica. La Politica deve saper rinunciare alla risposta penale sovrabbondante e quindi alla legislazione meramente simbolica e rassicurante. Di fronte alla complessità dei fenomeni, la scorciatoia è stata la criminalizzazione. Gli esiti non sono incoraggianti. È tempo di cambiare rotta in vista di una seria e robusta depenalizzazione».

Avvocati e giudici sono ormai accomunati dal fatto di ricevere minacce quando difendono quelli che il Tribunale del Popolo chiama “mostri” o quando emettono sentenze impopolari, soprattutto di assoluzione o di riduzione della pena. Qual è l’anticorpo a questo fenomeno?

«Il tasso di professionalità di magistrati e avvocati. Il facile e mediatico consenso rassicura gli insicuri, e gli insicuri sono quelli non attrezzati professionalmente. Non bisogna mirare al consenso ma alla credibilità della funzione, mostrandosi forti rispetto alle polemiche contingenti. Quelle passano, il bene della fiducia collettiva nell’istituzione giudiziaria si costruisce e si mantiene con un impegno costante nel tempo».

Durante la prima ondata la magistratura di sorveglianza è stata sotto attacco per alcune concessioni di detenzioni domiciliari per motivi di salute anche di detenuti al 41 bis o in alta sicurezza. Cosa pensa di quanto accaduto?

«Penso che non sia stata una bella pagina, ma sono contento di come la magistratura di sorveglianza abbia saputo reggere l’urto delle polemiche, spesso alimentate dalla disinformazione, e abbia proseguito, con serenità e senza disorientamenti, nella sua azione. Sono tanti i motivi di sconforto, ma bisogna anche saper compiacersi del grado di effettiva autonomia e di indipendenza che la magistratura italiana sa dimostrare; come è stato in quella occasione».

La pandemia avrebbe potuto rappresentare un pretesto per riflettere seriamente sul carcere. Così non è stato. Secondo Lei invece c’è bisogno di ripensare il carcere? E se sì, come? Con più carceri o puntando sulle misure alternative?

«Il carcere è un tema di riforma che non può essere eluso. Una occasione, qualche anno fa, è stata persa con la mancata attuazione della delega contenuta nella legge Orlando, ma la direzione che anche la giurisprudenza, di legittimità, costituzionale e sovranazionale, indica è netta e chiara. Il carcere non deve essere il luogo della segregazione avvilente, ma una offerta di opportunità risocializzanti, nel pieno rispetto dei diritti dei detenuti, riservata ai casi più gravi. Solo così, ed è stato già dimostrato, si riduce e di molto il rischio di recidiva».

In ultimo non posso non farle questa domanda. Lei è iscritto a Md. Qual è il suo pensiero su quanto sta accadendo tra Md ed Area?

«Non credo che ci sia da interpretare quanto è avvenuto. I colleghi che hanno lasciato Md hanno spiegato a sufficienza le loro ragioni e si è aperta una discussione con i dirigenti di Md che è stata portata, attraverso interviste e articoli di stampa, alla pubblica attenzione. Abbiamo avuto modo tutti di leggere e di comprendere. Io non avverto per quegli eventi timori o disagio, perché so che l’intera magistratura associata può contare, quali che siano le scelte dei singoli e dei gruppi, sulla vitalità di una sua componente, individuabile in quell’ambito senza differenze di sigle, particolarmente sensibile ai temi delle garanzie e dei diritti fondamentali, aperta al confronto con la società, formata ai valori costituzionali e consapevole della importanza dell’orizzonte europeo come futuro di crescita democratica della nostra comunità».

Anm, le sfide del presidente Giuseppe Santalucia per superare il Palamaragate. Alberto Cisterna u Il Riformista il 5 Gennaio 2021. L’anno appena trascorso sarà studiato a lungo e non solo sotto il più scontato profilo sanitario. Le istituzioni di ogni Paese sono entrate in uno stato di fibrillazione dal quale stentano a riprendersi e in Italia questo è successo più che altrove. Governo, Regioni, Parlamento, la pubblica amministrazione in generale hanno dato la sensazione di uno sfarinamento complessivo, di una insuperabile difficoltà a fronteggiare le mille emergenze che affliggono il paese, con il risultato di condurlo – dopo un lungo e doloroso abbrivio – alla paralisi quasi assoluta che si sta consumando in queste settimane. Niente vaccini, contagi alle stelle, crisi economica, ritardi nella programmazione economica, leggi finanziarie approvate all’ultimo secondo. In tutto questo fluttuare di incertezze e immobilismi, l’acquitrino si staglia come la meta più probabile dello sfociare di questo fiume irruento e malmostoso. La macchina giudiziaria non ha, anche lei, mancato di offrire inefficienze e manchevolezze. Con una particolarità, tuttavia, che per la giustizia è stato costruito un vero e proprio diritto della pandemia che ha riguardato non solo tutti i settori della giurisdizione, tra cui quella civile e penale, ma anche minutamente sfratti, esecuzioni, regime carcerario, indagini, processi in appello e in cassazione, e quant’altro. Un ordinamento speciale che, man mano, ha preso corpo e si è sostituito a quello vigente prima del Covid-19; un sistema che ha approntato i propri riti, ha disvelato i propri punti di forza e le proprie gravi cedevolezze, ha visto copiosamente all’opera anche puntigliosi e minuti esegeti. Qualcuno ha denunciato che la magistratura, al primo manifestarsi acuto dell’epidemia, si sarebbe collocata in “autoprotezione” con una serrata dei tribunali, coltivando l’idea di una giurisdizione “domestica”, ossia esercitata non nelle aule di giustizia, ma al riparo delle proprie abitazioni, insomma a casa. A questa accusa il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ha risposto con una certa ruvidezza in una recente intervista ammonendo che «sbaglia chi crede che la magistratura abbia interesse a fare i processi da casa. Quando si potrà torneremo a farli tutti in presenza» per cui le misure valgono «ovviamente soltanto per il periodo dell’emergenza». Una frase che tende a tranquillizzare le Camere penali, preoccupate dall’idea di una stabilizzazione del precariato normativo del 2020, e a ridare lustro all’immagine della corporazione che si è sentita vulnerata da una simile contestazione che coglie un sentimento diffuso. Nulla di peggio che passare per codardi di questi tempi, con tanta gente che rischia la vita ogni giorno. Potrebbe apparire che questo sia l’ultimo dei problemi con cui la magistratura è chiamata a fare i conti dopo l’affaire Palamara, ma la presa di posizione del presidente dell’Associazione non è casuale. Il credito che si è riversato sulle toghe italiane dopo la stagione della mattanza terroristica e mafiosa è stato enorme e, tuttora, resta grande. La prossima beatificazione di Rosario Livatino con le stimmate del martirio cristiano ne è solo l’ultima, importante manifestazione. In questi decenni, certo, non erano mancati scandali, inefficienze, deviazioni o malcostume, ma la crisi innescata dalla vicenda di Luca Palamara ha mandato in frantumi il pantheon della magistratura italiana, trasformandolo in un discutibile reliquiario con le foto e le frasi dei giudici uccisi adoperati come soprammobili sulle scrivanie a uso televisivo o come santini per celebrazioni spesso inquinate dalla presenza dei loro avversari di un tempo. La provocazione delle toghe serrate tra le comode mura domestiche in piena pandemia ha sferzato con durezza un corpo già esangue e febbricitante che non può sopportare di transitare dal sangue di Rosario Livatino alla codardia di don Abbondio. Il presidente dell’Associazione ha lucidamente avvertito il pericolo di veder andare in frantumi anche gli ultimi bastioni di una fortezza che, per anni e anni, ha resistito a ogni assalto e che, come tutte le fortezze, non per un assedio ha visto aprirsi una breccia nelle sue mura, ma per l’astuzia di un cavallo non a caso chiamato trojan. Non è dato sapere se l’arrocco deciso dalle toghe associate, con la scelta di un presidente di alto valore professionale e conosciuta dirittura morale, riuscirà a evitare lo scacco matto. Al momento si deve registrare che, in piena pandemia, all’interno della magistratura italiana si sono costituiti due altri gruppi, uno dei quali frutto di una scissione che non ha precedenti in quel lato del parlamentino associativo, sinora sempre coeso e compatto. È il segno dei tempi e delle urgenze che premono alle porte della magistratura italiana e che non spingono alla conciliazione e all’attesa. È anche il segno che la corporazione deve, forse, fare i conti con l’ultima maggioranza parlamentare a essa “non-ostile” se non “amica” nella storia recente e che le toghe potrebbero trovarsi – in una posizione di inedita debolezza e perduta credibilità – a doversi confrontare con una classe politica meno incline al compromesso e al dialogo della precedente. La clessidra di questa legislatura corre veloce e l’anno pandemico, lungi dal portare la moratoria che molte toghe auspicavano, ha solo aggravato la situazione aggiungendo critiche e insofferenza verso la magistratura. Di qui la mossa comunicativa più efficace e rassicurante del presidente dell’Anm: «Il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda dell’ex leader di Unicost, dal momento che anche vari altri colleghi sono coinvolti» e, poi, la prima indicazione operativa per il futuro della nuova compagine associativa appena eletta: «Su questo fronte sicuramente proseguiremo il lavoro fatto dalla giunta precedente e cioè quello di verificare e di accertare, sulla base delle regole del nostro codice etico, i comportamenti scorretti che sono emersi in quella vicenda». Un passaggio importante e da non sottovalutare. Se l’azione disciplinare ha dovuto selezionare fatti e condotte secondo regole stringenti, la giustizia deontologica ha altre, e ben più lasche, regole e molti di coloro i quali sono sfuggiti alla prima hanno ben donde si temere la seconda. In questo snodo un impegno preciso che, certo, non sarà indolore per i magistrati associati e per quanti fidavano nella tregua pandemica per rifiatare. La nuova peste non ha reso un buon servigio a tanti e anche alla magistratura italiana di cui ha portato a nudo inefficienze e limiti che ora sono chiari e vanno colmati. In questa tragedia immane bisogna sempre sperare che ogni sventura possa essere un’opportunità, lo auspicava anche il pavido dei pavidi alla morte di don Rogrido: «Ah! – diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: – se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’». Ovviamente a guarire.

Appello dei penalisti ad Anm e Bonafede: “I magistrati che sbagliano vanno giudicati”. Redazione su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Pubblichiamo il documento della giunta dell’Unione delle camere penali italiane sul tema della responsabilità professionale del magistrato. L’ennesima assoluzione di un uomo politico -come nel recentissimo caso dell’ex Presidente della Regione Calabria Oliverio – per riconosciuta insussistenza di quei fatti di reato la cui contestazione aveva però già irreversibilmente causato non solo la fine di una carriera politica, ma soprattutto – come in molti altri casi analoghi – la indebita alterazione delle dinamiche elettorali e dunque democratiche di una intera comunità territoriale, pone in modo non più eludibile la urgente necessità di mettere mano con determinazione al tema della responsabilità, ed anzi ad oggi della irresponsabilità, del magistrato nell’ordinamento giudiziario italiano. È giunta l’ora di affrancare il tema della responsabilità del magistrato dall’inaccettabile ricatto – culturale, politico, mediatico – di chi addebita ai suoi propugnatori, tra cui da sempre ed in prima linea l’Unione delle Camere Penali Italiane, l’indegno proposito di condizionare l’esercizio della giurisdizione e l’indipendenza della magistratura. È vero l’esatto contrario. La credibilità della giurisdizione è vulnerata agli occhi dei cittadini esattamente dal sempre più frequente spettacolo di indagini che prima travolgono vite private e pubbliche, carriere politiche, equilibri democratici di governi nazionali e locali, per non dire di attività economiche ed imprenditoriali, e poi, a distanza di anni ed ormai inutilmente, vengono riconosciute da giudici seri ed indipendenti come del tutto infondate, senza che nessuno sia chiamato a renderne conto in alcun modo. Ed anzi, siamo tutti chiamati ad assistere, attoniti, alle inarrestabili carriere ed alle imperturbabili celebrazioni ed autocelebrazioni mediatiche di magistrati che annoverano, come le implacabili statistiche raccontano senza appello, un numero di fallimenti delle proprie inchieste che sancirebbero esiti certamente pregiudizievoli in qualsivoglia altra attività professionale. È del tutto ovvio che il tema non si pone ogni qual volta un’accusa venga smentita da una assoluzione, la qual cosa rientra, salvo non sia abituale o statisticamente preponderante nel singolo curriculum professionale, nella normale dialettica processuale e nella fisiologica fallibilità del giudizio umano, non interrogando perciò la qualità professionale di alcuno; ma si pone con riguardo a quelle indagini – ed ai provvedimenti giurisdizionali che le hanno acriticamente assecondate – che siano connotate ab origine da quei profili di “accanimento investigativo” o di “incongruità logica” che lo stesso giudice, di merito o di legittimità, abbia ritenuto doveroso evidenziare e stigmatizzare nel giudizio assolutorio, quando non addirittura già nella fase cautelare. Solo chi vive fuori dal mondo, o peggio ancora rivendica con arroganza la propria impunità, può non comprendere le devastanti conseguenze per la credibilità della giurisdizione agli occhi di una pubblica opinione che assiste a questo esercizio di una funzione non responsabile dei propri atti, nello stesso momento in cui vede quotidianamente sanzionate dagli stessi giudici – come è giusto che sia – carriere professionali di medici per interventi errati, di ingegneri per ponti mal costruiti, di avvocati per patrocini infedeli, di imprenditori per patrimoni dissipati. Solo una politica ridotta ad una funzione ancillare non della magistratura, ma di alcune Procure ed anzi di alcuni Procuratori della Repubblica, intimorita e resa imbelle dal ricatto politico-mediatico che iscrive tra i favoreggiatori della criminalità comune e politica chiunque ponga il problema della responsabilità del magistrato, può ostinarsi a non comprendere come una democrazia nella quale dei tre poteri su cui essa si fonda, uno e solo uno è irresponsabile, è destinata alla rovina. Ma se il tema della responsabilità civile del magistrato, con i suoi indubbi profili di complessità e delicatezza, deve certamente essere rilanciato nel dibattito politico ed accademico, ciò che si può e si deve fare subito per restituire credibilità ed autorevolezza alla giurisdizione è riproporre con forza, già oggi in sede di progetto di riforma dell’ordinamento Giudiziario, il tema della responsabilità professionale del magistrato. Occorre infatti porre immediatamente rimedio a questo scandalo nostrano, non a caso unico al mondo, per il quale la carriera dei magistrati italiani progredisce automaticamente (il 99% delle c.d. “valutazioni di professionalità” sono positive), del tutto a prescindere da una valutazione di merito delle attività in concreto svolte dal singolo magistrato; uno scandalo imposto addirittura in nome della difesa della indipendenza della magistratura, qui declinata non come valore costituzionale da tutti noi condiviso e difeso, ma come inammissibile ed arrogante privilegio di impunità. Ed all’interno del tema della responsabilità del magistrato deve essere finalmente affrontato lo specifico problema di quella del Pubblico Ministero e della sua valutazione rispetto alla carriera: la solenne e reiterata bocciatura da parte dei giudici di teoremi accusatori non può più essere spacciata per fisiologia processuale, quando essa avvenga con gravi censure all’attività investigativa e si riproponga nel tempo. Chiediamo al nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati dott. Santalucia se egli non reputi sia giunto il momento di aprire con coraggio ed umiltà questa riflessione all’interno della magistratura associata; chiediamo al Ministro di Giustizia on. Bonafede se vi sia una plausibile ragione per la quale egli abbia ritenuto, e con lui la maggioranza di Governo, che questo inaudito privilegio professionale, impensabile per ogni altro comune cittadino, debba rimanere intatto e dunque estraneo alla indispensabile riforma dell’ordinamento Giudiziario, pur indicata come una assoluta priorità. L’Unione delle Camere Penali Italiane intende rilanciare con forza il dibattito civile, politico ed accademico sul tema della responsabilità, innanzitutto professionale, del magistrato, nella profonda convinzione che una simile riforma, al pari di quella della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, trovi la sua unica ragione ispiratrice nella esigenza, ormai indifferibile, di restituire forza, credibilità ed autorevolezza all’esercizio della giurisdizione nel nostro Paese.

I magistrati che sbagliano non possono essere promossi. Giovanni Ciappa u Il Riformista il 3 Dicembre 2020. L’intervento, qualche giorno fa, di Luigi Zanda in Senato, in merito all’assoluzione (la numero 19!) dell’ex sindaco di Napoli Antonio Bassolino; la morte di Francesco Nerli, ex presidente dell’autorità portuali Napoli assolto dopo otto anni tra indagini e processo; la sortita di Antonino Ingroia, oggi spoglio della toga inquirente, a proposito del supporto della ‘ndrangheta nella ingegnerizzazione del Coronavirus, dall’altro, ripropongono – assieme – le deflagranti tematiche afferenti alla responsabilità civile dei giudici e al preliminare test psico-attitudinale per accedere al concorso in magistratura. Tematica, quest’ultima, a mio avviso, quanto mai urgente e mai sufficientemente trattata, connessa, come dicevo, con la grande criticità del sistema giustizia nel nostro Paese: la responsabilità civile dei magistrati.  Ad oggi, le norme vigenti tratteggiano una totale irresponsabilità delle toghe, malgrado gli innumerevoli e clamorosi errori giudiziari che hanno avuto (e hanno) conseguenze gravissime sulle vite di singoli cittadini e sull’intera vita della nazione. Non è giustificabile né moralmente accettabile che questa privilegiata categoria di funzionari dello Stato non sia sottoposta a responsabilità civile per i propri errori, se non in casi estremamente rari, a differenza di tutti gli altri dipendenti dello Stato per i quali la responsabilità civile presenta maglie più larghe. Peraltro aiutata da una imbelle classe politica che non vuole mettere mano alla spinosa questione per opportunismo e per viltà. A questo punto mi chiedo: perché non immaginare almeno un serio percorso della Corte dei conti che possa indagare sugli sprechi (intercettazioni telefoniche e ambientali, trojan, attività di servizio e così via) al fine di sanzionare adeguatamente chi, con colpa grave, abbia in maniera spesso pruriginosa squassato le vite del prossimo senza patirne almeno conseguenze patrimoniali? Non è da sottacere che, nel caso dei processi a Bassolino come per altri in analoghe circostanze, il danno erariale è finanche acuito dai compensi da corrispondere agli ottimi avvocati che hanno assistito i perseguitati di turno nel corso di lunghi calvari giudiziari. Il test psicoattitudinale, dicevo: da premier, Silvio Berlusconi accennò a un timido approccio, ma venne stroncato con massiva levata di scudi della corporazione, forse scaturente dalla consapevolezza che ben pochi avrebbero potuto superare gli esami che da sempre caratterizzano gli ingressi nella pubblica amministrazione. L’accesso al concorso in magistratura non può essere basato solo su mnemoniche conoscenze (allora sia un computer a decidere!) o, anche, come emerso in recenti episodi ben raccontati dalla stampa, su compromessi che denotano un critico profilo neuropsicologico degli aspiranti candidati suscettibile, ad addendum, di futuri ricatti. Un excursus delle carriere di alcuni magistrati induce a ritenere che le scelte apicali del sistema giudiziario siano direttamente proporzionali ai flop giudiziari (caso Tortora docet) collezionati in carriera. Considerazione rafforzata dalla recentissima vicenda che ha visto sacrificare l’ex presidente del sindacato delle toghe ed ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Luca Palamara, all’altare di una giustizia sommaria che ha voluto individuare il capro espiatorio lasciando così intatta quella deriva irreversibile del sistema giudiziario italico che sovente consente di fare da trampolino di lancio per carriere politiche, giornalistiche, storiografiche e, spesso, fumettistiche.

I flop impuniti dei pm che anche Canzio definì un’assurdità. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'8 gennaio 2021. Fu l’ex vertice della Cassazione a denunciare al Csm il paradosso delle valutazioni top per tutte le toghe. Le ultime vicende giudiziarie, con il crollo di diversi “teoremi dell’accusa”, hanno fatto tornare d’attualità la responsabilità “professionale” dei magistrati. Il tema, in particolare, è stato rilanciato questa settimana dall’Unione Camere penali con un invito al neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, a partecipare al dibattito civile, politico e accademico per “restituire forza, credibilità e autorevolezza all’esercizio della giurisdizione nel nostro Paese. La credibilità della giurisdizione è vulnerata”, secondo i penalisti, “agli occhi dei cittadini dal sempre più frequente spettacolo di indagini che prima travolgono vite private e pubbliche, carriere politiche, equilibri democratici di governi nazionali e locali, per non dire di attività economiche e imprenditoriali, e che poi, a distanza di anni e ormai inutilmente, vengono riconosciute da giudici seri e indipendenti come del tutto infondate, senza che nessuno sia chiamato a renderne conto in alcun modo”, sottolinea la nota dell’Ucpi. Come esempio, appunto, viene citata la recente assoluzione dell’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio per la “riconosciuta insussistenza di quei fatti di reato la cui contestazione aveva però già irreversibilmente causato non solo la fine di una carriera politica, ma soprattutto – come in molti altri casi analoghi- la indebita alterazione delle dinamiche elettorali e dunque democratiche di una intera comunità territoriale”. Fatta questa premessa i penalisti ricordano allora “l’urgente necessità di mettere mano con determinazione al tema della responsabilità, e anzi ad oggi della irresponsabilità, del magistrato nell’ordinamento giudiziario italiano”. Un dato merita di essere ricordato. Ed è quello relativo proprio alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Le ultime statistiche disponibili, quelle del 2016, raccontano che il 99,30 percento delle toghe ha conseguito una valutazione positiva. L’anno prima, nel 2015, la percentuale era stata di circa il 99,60 percento. Solo lo 0,20 percento aveva avuto un giudizio negativo. In pratica solo quelli sotto procedimento disciplinare. Numeri che avevano sollevato forti perplessità da parte dell’allora presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio: “Io vado dicendo da moltissimo tempo che in un’organizzazione complessa, un potere dello Stato con migliaia e migliaia di magistrati, dove le valutazioni di professionalità sono positive per il 99.7 per cento, si evidenzia un deficit delle circolari in materia di valutazione di professionalità”, disse Canzio intervenendo al plenum del Csm nella scorsa consiliatura. Non esiste infatti, ad oggi, alcun rapporto fra la valutazione di professionalità e i risultati dell’attività giudiziaria. Al punto che, proseguono i penalisti, non possono non essere segnalate le “inarrestabili carriere” e le “imperturbabili celebrazioni e autocelebrazioni mediatiche di magistrati che annoverano, come le implacabili statistiche raccontano senza appello, un numero di fallimenti delle proprie inchieste che sancirebbe esiti certamente pregiudizievoli in qualsivoglia altra attività professionale”. Di contro, sono “quotidianamente sanzionate dagli stessi giudici – come è giusto che sia carriere professionali di medici per interventi errati, di ingegneri per ponti mal costruiti, di avvocati per patrocini infedeli, di imprenditori per patrimoni dissipati. Un inaudito privilegio professionale, impensabile per ogni altro comune cittadino”, che per ora alcuna delle riforme all’esame del Parlamento, incluso il ddl sul Csm, prevede di eliminare. Non è, ovviamente, il caso di generalizzare. I penalisti si riferiscono ai procedimenti che fin dall’inizio presentano “profili di ‘ accanimento investigativo’ o di ‘ incongruità logica’ che lo stesso giudice, di merito o di legittimità, abbia ritenuto doveroso evidenziare e stigmatizzare nel giudizio assolutorio, quando non addirittura già nella fase cautelare”. L’appello si conclude con un richiamo alla politica “ridotta a una funzione ancillare non della magistratura, ma di alcune Procure e anzi di alcuni procuratori della Repubblica, intimorita e resa imbelle dal ricatto politico- mediatico che iscrive tra i favoreggiatori della criminalità comune e politica chiunque ponga il problema della responsabilità del magistrato”. Una politica che non “può ostinarsi a non comprendere come una democrazia nella quale dei tre poteri su cui essa si fonda, uno e solo uno è irresponsabile, sia destinata alla rovina”. Sulla sfida lanciata dall’Ucpi il solo segnale finora registrato è nelle parole di Enrico Costa, il deputato di Azione che ha proposto il tema subito dopo il sì della Camera al rimborso delle spese legali agli assolti: “Ora va affrontato il nodo dei pm che vedono sistematicamente fallire le loro indagini”. Ma su questo, non sembrano esserci per ora, al di fuori dell’avvocatura, antenne sensibili.

Re Gratteri di Calabria fa destituire la Macrì: “Quella giudice non mi piace”. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Non sarà la dottoressa Tiziana Macrì a presiedere il prossimo 13 gennaio, la prima udienza del processo “Rinascita Scott”, il famoso Maxi (“secondo solo a quello contro Cosa Nostra”) voluto dal procuratore Nicola Gratteri che si celebrerà con grande spolvero di telecamere nell’aula-bunker della tensostruttura che la Regione Calabria ha messo a disposizione. La presidente Macrì è stata ricusata dalla Dda del dottor Gratteri, la corte d’appello di Catanzaro ieri ha convalidato la richiesta. Perdendo forse l’occasione, nel periodo più travagliato nei rapporti tra toghe, di consentire, sulla base di una questione formale su cui la cassazione ha sempre avuto un atteggiamento ondeggiante, che uno dei giudici più inattaccabili, da ogni punto di vista, dell’intera Calabria, sedesse sullo scranno più alto di un processo che, per motivi diversi e tra loro opposti, avrà addosso gli occhi di mezzo mondo. È stato lo stesso procuratore Gratteri, fin dal primo blitz del 19 dicembre 2019 e poi con il successivo del gennaio 2020, a vantarsi di aver pensato a quell’operazione fin dal primo giorno del suo insediamento a capo della procura di Catanzaro. Un’iniziativa avrebbe distrutto la ‘ndrangheta e soprattutto “l’area grigia” della complicità istituzionale. Quel terzo livello in cui Giovanni Falcone non aveva mai creduto, anche se il dottor Gratteri definisce se stesso proprio “il Falcone di Calabria”. Ora, venendo alla sentenza di ieri, va ricordato che la presidente Tiziana Macrì gode della massima stima, scrupolosa, precisa, severa, non influenzabile. Non se ne conosce l’appartenenza a una corrente sindacale, né la partecipazione a convegni o pubblici dibattiti. Dovrebbe essere l’ideale, una vera garante di terzietà nel processo per accusa e difesa. Invece succede qualcosa di strano. È arrivato un po’ prima di Natale, il colpo di scena. La stessa Dda presieduta dal procuratore Nicola Gratteri si fa promotrice della ricusazione del giudice. Il motivo formale richiama un provvedimento della presidente Macrì dei tempi in cui era giudice per le indagini preliminari a Catanzaro. In quella veste, nei primi giorni delle indagini preliminari dell’inchiesta “Rinascita Scott” (ma stiamo parlando del 2018, più di un anno prima del blitz), aveva autorizzato la proroga di un’intercettazione. Nella motivazione del provvedimento aveva fatto cenno al reato di associazione mafiosa, che diventerà poi, come sempre in queste inchieste, il collante di tutto il corpo del processo. È una questione sottile, su cui, come ricordato nel provvedimento di ieri, diverse sezioni della cassazione hanno emesso sentenze opposte, rimarcando soprattutto la differenza tra il giudice che dispone un’intercettazione e quello che si limita ad autorizzarne la proroga, come ha fatto la dottoressa Macrì. Questo è l’oggetto della discussione di ieri. Ma c’è un’altra vicenda, invece molto sostanziale, sollevata nelle scorse settimane da qualche quotidiano calabrese molto attento a celebrare tutti i successi del procuratore Gratteri. Qualche giornalista di quelli che aspirano a diventare i futuri Travaglio, aveva adombrato il problema dell’incompatibilità della presidente Macrì proprio all’indomani della sentenza sull’inchiesta “Nemea”, quella che per gli uomini dell’accusa non era stata proprio un successo, con otto assoluzioni su quindici imputati e pene dimezzate sulle sette condanne. “Nemea” era un ramo cadetto di “Rinascita Scott” e il processo avrebbe dovuto essere, secondo le aspettative della Dda, l’antipasto positivo di un glorioso successo. Chi era la presidente del collegio giudicante di quel processo? Esattamente Tiziana Macrì, proprio colei che, dopo la richiesta del procuratore Gratteri, ieri è stata ricusata. Per una questione formale, certamente.

La giustizia ridotta a cosa fra magistrati. L’espulsione dei laici dal “mini Csm” di Bari. Nicola Quatrano su Il Dubbio il 3 gennaio 2021. Non so se l’ex magistrato Palamara sia davvero responsabile di tutto quanto gli viene attribuito, addirittura l’inventore del sistema omonimo. Però, se davvero così fosse, dovrebbe oggi guardare con paterno compiacimento a quanto avviene a Bari, dove i suoi ex colleghi hanno espulso gli “estranei” dalle sedute del Consiglio Giudiziario che trattano la valutazione di professionalità dei magistrati.

Non foss’altro perché il “sistema Palamara” si nutre proprio di opacità, sostanziandosi nel tradurre in atti amministrativi (formalmente adottati da organismi collegiali), decisioni e “pacchetti” confezionati altrove, in cene riservate, o in complicate mediazioni tra petizioni e mugugni che si rincorrono via WhatsApp. La vera nemica di questo “sistema” è piuttosto la trasparenza, perché è certo più facile far finta di decidere questioni già decise altrove se si è “tra di noi”, senza sgradite presenze estranee. Ed è per questo che ci viene da immaginare un ideale Palamara strizzare l’occhio ai suoi ex colleghi, borbottando un: “Bravi! Siete sulla strada giusta!” Ma non sono queste le ragioni che hanno indotto i componenti togati del Consiglio Giudiziario di Bari ad approvare la risoluzione che elimina il “diritto di tribuna”, l’istituto che prevede la partecipazione – senza parola e voto – di componenti laici ( avvocati e professori) alle sedute che riguardano la valutazione di professionalità dei magistrati. La ragione vera – come ha precisato il presidente della locale Giunta dell’Anm – è che gli avvocati immagazzinerebbero in tal modo una gran massa di “informazioni delicate e sensibili”, che potrebbero usare – questo non si dice esplicitamente, ma va da sé – per influenzare le decisioni dei Giudici. Lo stesso rischio non si correrebbe, al contrario, per il parallelo accumulo di informazioni assicurato ad un’altra parte processuale, il Pm, che partecipa – con diritto di parola e di voto – al Consiglio Giudiziario. Ma della probità del Pm – al contrario degli avvocati – si può essere certi, perché un magistrato è degno di maggior encomio di non so quanti cherubini e di maggior gloria di non so quanti serafini. A chi – poco avvezzo a simili questioni – venisse in mente a questo punto che le informazioni “delicate e sensibili” trattate nelle sedute del Consiglio Giudiziario attengano a questioni privatissime, come l’orientamento sessuale dei magistrati, le loro opinioni religiose e politiche, tare familiari o difetti genetici, ricorderemo che si tratta in realtà di tutt’altro: di ritardi nel deposito delle sentenze, di beghe con colleghi e collaboratori, di addebiti disciplinari eventualmente segnalati dai capi degli Uffici nel parere che accompagna la procedura. Insomma tutte cose che il Popolo Italiano, in nome del quale i predetti magistrati operano, avrebbe magari il diritto di conoscere. E allora, altro che “sistema Palamara”! La vicenda è spia di qualcosa di ben più grave, che riguarda la famosa “difesa dell’autonomia e dell’indipendenza” che rischia di avvilirsi in arroccamento e superba sacralizzazione di sé, riducendosi a pura e semplice rivendicazione dei privilegi di categoria, non certo della funzione, come dimostra la scarsissima attenzione prestata, di contro, alla tutela dell’indipendenza del Giudice nei confronti del Pm. E denuncia una grave involuzione in senso autoritario della cultura della Magistratura associata, una tendenza a escludere gli “estranei”, perfino il “Popolo” in nome del quale pure si dovrebbe operare. La Giurisdizione, nell’idea di alcuni togati, è “cosa nostra”: una interlocuzione tra magistrato Pm e magistrato Giudice, e l’attività difensiva è una fastidiosa interferenza che mira solo a complicare le cose. Di qui le continue erosioni giurisprudenziali dei principi del giusto processo e dei diritti della difesa, e una legislazione – fortemente patrocinata dalle appendici della magistratura presenti nelle varie articolazioni dello Stato Profondo – che ha sostanzialmente finito con l’espellere perfino l’imputato dal processo, riducendolo ad una icona sullo schermo della video- conferenza, privandolo di ogni reale possibilità di interlocuzione. Ed è senza doverlo nemmeno guardare negli occhi che il Giudice può oggi – con agghiacciante leggerezza – dispensare ergastoli e decenni di galera. Viene in mente la detenzione amministrativa, un istituto della legislazione di occupazione israeliana, applicabile a tempo indeterminato da un giudice, senza che imputato e difesa possano aver conoscenza degli atti e nemmeno del capo di incolpazione. La giurisprudenza di quel paese ha affermato che ciò non comprime affatto la funzione difensiva, perché essa si sposta in capo allo stesso Giudice. Ecco il modello che sembra piacere a molti della Casta, anche qui da noi. Un processo in cui un Pm chieda una condanna e il Giudice decida, senza ulteriori intralci e ritardi, attento solo alla coerenza del testo e indifferente alla Verità. Ignorando perfino se riguardi un essere umano o solo un nome, un semplice tratto di penna sulla carta, da citare al massimo nelle autorelazioni ai fini della carriera. Una concezione non nuova, anzi antichissima. Che ha poco a che vedere con la Giustizia.

Lo scandalo. Magistratopoli fa acqua da tutte le parti: Bonafede manderà gli ispettori a Perugia? Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Dicembre 2020. Come può il ministro della Giustizia – se esiste – non mandare subito, con grandissima urgenza, gli ispettori a Perugia, per capire come sia stato possibile dimenticarsi di scaricare gli sms dal telefono di Luca Palamara e perdere, forse in maniera irrimediabile, materiale decisivo per ricostruire tutto il Palamaragate? È strano che non li abbia già mandati per la storia dei messaggi whatsapp insabbiati, che noi del Riformista avevamo rivelato il giorno prima, ma ora davvero la questione diventa clamorosa.

Proviamo a riassumere brevemente i fatti, poi giudicate voi. Il nostro Paolo Comi ha scoperto che tutti i messaggi whatsapp di Palamara coi suoi colleghi che chiedevano raccomandazioni varie e dei quali si disponeva già alla fine di maggio del 2019, non sono stati trasmessi né al Csm né alla Cassazione per un anno intero. In questo modo si è evitato che corressero i nomi di tantissimi magistrati importanti, e si è permesso di procedere a molte nomine ai vertici delle Procure e dei tribunali in una situazione sterilizzata. È una cosa gravissima, non vi pare? Occorrerebbe una giustificazione. Forse c’è anche un reato. E come mai né la Cassazione né il Csm si erano accorti che quei messaggini whatsapp erano rimasti rintanati nelle carte della Procura umbra e non arrivavano a chi doveva conoscerli per giudicare e per aprire, se necessario, procedimenti disciplinari? Il giorno dopo questa rivelazione, il Riformista ne fa un’altra, ancora più grave: gli inquirenti hanno avuto in mano il cellulare di Luca Palamara, sequestrato su ordine della Procura di Perugia, ma si sono scordati di scaricare gli sms. E hanno restituito il telefono a Palamara. Il quale forse ha mantenuto gli sms o forse li ha distrutti. Questo noi non lo sappiamo, e non lo sanno neppure i molti magistrati che sanno però di avere scambiato Sms con Palamara (molti magistrati usano ancora gli sms, non usano Whatsapp). E questi molti magistrati, probabilmente, dopo le rivelazioni del Riformista non stanno dormendo sonno tranquillissimi. E tuttavia resta la questione: è stato un errore gravissimo degli investigatori (un errore che ha distrutto una grande mole di materiale di indagine) o è stata addirittura una scelta consapevole? In questo secondo caso, ispirata da qualcuno? Da chi? Ecco: tutte queste domande me le pongo solo io? Al ministero si sono accorti che è esploso un nuovo scandalo ed è stato squarciato un velo: dentro la magistratura dilagano corruzione, complicità, omertà, atteggiamenti di ostacolo alla giustizia? Possibile che il ministro non abbia ancora deciso di inviare un ispettore? Recentemente, mi pare, il ministro ha inviato ispettori a indagare su perché qualche giudice aveva firmato sentenze di assoluzione che andavano contro la condanna mediatica, o aveva prosciolto qualcuno, o scarcerato. E se invece si scopre che la magistratura sta cancellando prove e ostacolando in tutti i modi la giustizia, silenzio? Provate a immaginare cosa sarebbe successo se quel cellulare invece di essere il cellulare di Palamara fosse stato il cellulare di Verdini, per esempio. E glielo avessero sequestrato e poi restituito senza sbirciare gli sms. Ditemi voi: cosa sarebbe successo? Cosa avrebbe scritto Travaglio? Che titoli avremmo letto sul Corriere della Sera, su Repubblica, sulla Stampa? Ecco, questa è l’altra questione. Come mai il mondo dell’informazione è del tutto disinteressato a questo scandalo gigantesco che riguarda la magistratura italiana? L’impressione è che non sia disinteressato, ma impossibilitato ad agire. Io credo che la maggior parte dei giornalisti giudiziari, prima di iniziare a fare questo mestiere, sia costretta ad un vero e proprio giuramento di fedeltà e obbedienza alle Procure. Di fronte a un santino, forse, o chissà, magari a una fotografia di Davigo. E non possano per nessuna ragione violare questo patto. Nei giorni scorsi abbiamo parlato di regime. Non c’è una forzatura polemica. È la realtà: in Italia criticare la magistratura è proibito, ed è proibito anche processarla. La magistratura è coperta dalla stessa magistratura, che è complice di ogni degenerazione, e dalla totale assenza di libertà di stampa. Come era a Santiago negli anni 70, a Praga negli anni 80, e come è oggi, forse, in Turchia o a Teheran.

Palamaragate, l’Anm attacca l’inchiesta del Riformista ma le domande restano. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Gennaio 2021. Con un comunicato diramato alla vigilia di Capodanno, l’Anm del capoluogo umbro ha voluto esprimere “completa fiducia sulla correttezza e sulla trasparenza dell’operato dei magistrati della Procura di Perugia”. Lo ha fatto dopo notizie su un’inchiesta “riguardante magistrati degli uffici giudiziari di Roma nella quale, all’esito delle indagini, sarebbero spariti o verrebbero celati una parte dei contenuti delle copie forensi dei cellulari sottoposti a sequestro nello stesso procedimento”. Seguono poi frasi di rito in cui si “stigmatizza con fermezza tutte quelle rappresentazioni delle vicende processuali che adombrano in capo ai magistrati che svolgono le indagini fini o obiettivi diversi da quelli strettamente giudiziari”. Dulcis in fundo, si “esprime completa fiducia sulla correttezza e sulla trasparenza dell’operato dei magistrati della Procura di Perugia, già vittime di attacchi e di strumentalizzazioni, impegnandosi a vigilare per assicurare la serenità, la dignità e l’indipendenza della magistratura, nell’adempimento del proprio servizio”. Senza mai citarlo, il riferimento è al Riformista, l’unico giornale nel panorama nazionale che ha manifestato in questo periodo alcune perplessità sulle modalità di conduzione dell’indagine a carico di Luca Palamara. Indagine che ad oggi ha prodotto tre risultati: l’annullamento della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, il ribaltone al Csm, con il cambio dei rapporti di forza fra le correnti, la cacciata di Palamara dalla magistratura. Fra le varie perplessità questa settimana il Riformista ha segnalato il “ritardo” della Procura di Perugia nel trasmettere (o non trasmettere) i dati contenuti nel cellulare di Palamara al Csm e alla Procura generale della Cassazione. Per chi si fosse perso qualche puntata del Palamaragate, ecco un breve riassunto. Il procedimento a carico di Palamara nasce da un fascicolo trasmesso dalla Procura di Roma, l’ufficio dove prestava servizio l’ex presidente dell’Anm, ai colleghi di Perugia, competenti per legge ad indagare sulle toghe della Capitale. Indagando su Fabrizio Centofanti, un faccendiere romano amico di decine di magistrati e finito al centro del “Sistema Siracusa”, l’organizzazione nata per aggiustare i processi e pilotare le sentenze al Consiglio di Stato, i pm di Roma scoprono che egli ha stretti rapporti con Palamara. A maggio del 2018 il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, parlando con il pm del suo dipartimento Stefano Rocco Fava, comunica che “l’informativa depositata dalla guardia di finanza sui rapporti fra Palamara e Centofanti l’abbiamo mandata a Perugia”. La nota, senza ipotesi di reato, è firmata anche dagli aggiunti Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli. Perugia inizia a svolgere accertamenti arrivando ad ipotizzare, dopo qualche mese, che Palamara, quando era al Csm, avesse preso una mazzetta di 40 mila euro per nominare il pm Giancarlo Longo procuratore di Gela. Tale nomina, in realtà, non avverrà mai ma l’ipotesi di reato di corruzione legittimerà, ai primi mesi del 2019, le intercettazioni telefoniche e l’utilizzo del virus trojan sul cellulare di Palamara. Sul punto, però, una recente sentenza della quinta sezione della Cassazione, relatore Giuseppe Riccardi, ha affermato che il trojan per i reati di corruzione è utilizzabile solo dal primo settembre dello scorso anno. Ciò renderebbe inservibile il materiale raccolto dai pm umbri. Ma questo aspetto, ai fini della ricostruzione temporale, al momento non è importante. Ci torneremo più avanti. Proseguiamo. Dalle intercettazioni telefoniche e dalle captazioni trojan sul cellulare di Palamara non emergono episodi di corruzione a carico di quest’ultimo. Quello che emerge con evidenza è il funzionamento del “sistema” delle nomine e degli incarichi a Palazzo dei Marescialli, dove Palamara era il leader incontrastato. Gli investigatori evidenziano, poi, una serie di rapporti “opachi” fra Palamara e Cosimo Ferri, storico leader di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, e attuale parlamentare renziano. L’ipotesi della tangente per la nomina di Longo evaporerà fin da subito e i pm ne chiederanno l’archiviazione a conclusione delle indagini preliminari. Il 29 maggio del 2019 l’indagine sfuma a causa di una fuga di notizie con la pubblicazione di tre articoli, sostanzialmente identici, su Repubblica, Corriere e Messaggero. Il giorno successivo i pm umbri decidono di sequestrare il cellulare di Palamara, disponendo l’estrapolazione di tutti i dati contenuti. L’operazione di backup avviene con successo il 31 maggio ad opera dei finanzieri del Gico, il reparto che sta conducendo le indagini. Passa qualche giorno ed il 3 giugno i pm trasmettono al Csm, e quindi alla Procura generale della Cassazione, le intercettazioni e le captazioni effettuate con il trojan. Non trasmettono, però, quanto contenuto sul cellulare, quindi le chat WhatsApp e i messaggini sms. Ciò avverrà in parte solo dopo un anno, alla fine di aprile del 2020, con la chiusura delle indagini. Ricevute le chat WhatsApp, il pg della Cassazione Giovanni Salvi nominerà una “task force” per esaminarle ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare. Lo spaccato che emerge dalla lettura delle chat non è edificante, con centinaia di magistrati che si rivolgevano a Palamara, anche ai limiti dello stalking, per auto sponsorizzarsi per un incarico o per denigrare il collega che aspirava al medesimo incarico. Per Salvi l’attività di auto sponsorizzazione con il consigliere del Csm verrà ritenuta, con una apposita circolare, legittima ed esente da profili di rilevanza disciplinare. Perché, ed è questo il dubbio sollevato dal Riformista l’altro giorno, tale materiale non è stato trasmesso subito al Csm e alla Procura generale? I pm umbri per le loro attività investigative hanno utilizzato a piene mani sia le intercettazioni che le chat. Avevamo citato il caso del funzionario di polizia Renato Panvino, il capo centro della Dia di Catania, interrogato l’8 luglio del 2019 a Perugia, secondo la Procura colui che acquistò un monile, probabile prezzo di una corruzione, per conto di Palamara. Ma come non ricordare un altro caso, decisamente più clamoroso, riguardante il giudice Massimo Forciniti, già consigliere del Csm con Palamara e ora presidente di sezione penale a Crotone. Forciniti viene interrogato dai pm di Perugia titolari del fascicolo Gemma Miliani e Mario Formisano il 4 ottobre del 2019. I pm gli fanno vedere le sue chat con Palmara e gli chiedono, fra l’altro, chiarimenti sul funzionamento del Csm dove “molte cose state decise dal cerchio magico” del magistrato romano. A farne parte Legnini (Giovanni, vice presidente in quota Pd, ndr), Fracassi (Valerio, esponente di punta di Area, il cartello progressista, ndr), Balducci (Paola, laica in quota Sel, ndr) e Fanfani (Giuseppe, laico in quota Pd). Un “cerchio magico” che avrebbe cercato di “orientare” l’attività dell’organo di autogoverno delle toghe. “Terminata la consiliatura (Palamara) si è avvicinato all’area moderata di Unicost, di cui non faceva parte, credo che tale sua scelta sia derivata dai suoi accresciuti rapporti con Ferri. Ritengo si sia posto come intermediario tra i colleghi di Unicost ed Mi all’interno del nuovo consiglio”, puntalizza Forciniti. Se i pm avessero proseguito nella lettura della chat fra i due magistrti avrebbero “scoperto” l’oggetto dell’attuale incolpazione disciplinare scritta da Salvi per la toga calabrese qualche mese fa. Forciniti “usando strumentalmente la qualità di componente del Csm perseguiva il fine di conseguire l’ingiusto vantaggio (per se stesso) della abrogazione” della norma che impediva ai consiglieri uscenti di concorrere subito per incarico direttivo, “sollecitando la presentazione e l’approvazione dell’emendamento alla legge di stabilità 2017”. Salvi prosegue: “Nell’occasione, dopo avere ispirato e messo a punto il testo dell’emendamento” avviava “varie interlocuzioni con parlamentari della Repubblica (tra cui l’onorevole Donatella Ferranti, allora presidente della Commissione giustizia della Camera in quota Pd, magistrato, ndr)”. Le interlocuzioni con i politici della maggioranza sarebbero state finalizzate “ad attuare una strategia idonea a superare le obiezioni delle forze politiche che sostenevano il governo nonché l’atteggiamento critico dello stesso ministro della Giustizia (il dem Andrea Orlando, ndr)”. In tal modo interveniva “occultamente nello svolgimento dell’attività legislativa”, spendendo la qualità di magistrato fuori ruolo, “per conseguire il vantaggio ingiusto”. Accusa gravissima per un magistrato. Se la Procura di Perugia avesse trasmesso fin da subito tutto il materiale contenuto nel cellulare di Palamara, i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati che si messaggiavano con quest’ultimo sarebbero iniziati un anno prima e molte delle ultime nomine del Csm avrebbero avuto (probabilmente) un esito diverso. Questo aspetto non è una “fissazione” del Riformista, avendolo sempre sostenuto, inascoltato, il pm antimafia Nino Di Matteo e ora consigliere del Csm: “Perché non possiamo (ai fini degli incarichi, ndr) valutare le chat? Con le conversazioni di terzi diamo ergastoli, indaghiamo politici ed amministratori”. Ecco, forse il problema è proprio questo: con Palamara non chattavano dei comuni mortali ma dei signori magistrati della Repubblica Italiana.

La giustizia corrotta. Palamaragate non finisce mai, il Parlamento uscirà dalla sudditanza a Beppe Grillo e a Marco Travaglio? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Dicembre 2020. Non finisce mai il Palamaragate. E ogni capitolo nuovo è una mazzata sulla credibilità di tutta la magistratura. Non perché tutta la magistratura sia corrotta, per carità, ma perché appare evidente che la corruzione ha minato profondamente la sua testa, il suo gruppo dirigente potremmo dire, e per questa ragione ha tolto ogni credibilità a tutta la macchina della giustizia. È un danno spaventoso per il Paese. Il grosso della magistratura fa il suo lavoro onestamente. Senza pregiudizi. Cerca la verità. C’è però un gruppo di circa 2.000 persone, che costituisce un quarto della magistratura, del quale fanno parte soprattutto i Pm, che ha assunto un ruolo sovversivo e che ha messo a soqquadro e posto fuorilegge tutta l’istituzione. Avete presente quella frase fatta: ho fiducia nella magistratura? È insensata. Anch’io avrei fiducia nella magistratura, ma se mi capita invece di finire sotto il tiro di uno di quei 2.000 magistrati del Palamaragate, altro che fiducia! So per certo che in quel caso macchina della giustizia e giustizia hanno divorziato. Il secondo e il terzo capitolo del Palamaragate, venuti alla luce in queste ore, ci dicono due cose sconvolgenti. La prima l’abbiamo raccontata ieri, ed è il “blocco” delle chat di Luca Palamara (alle quali partecipò il Gotha della magistratura italiana e soprattutto del partito dei Pm) deciso dalla Procura di Perugia, che le trasmise al Csm e alla Cassazione con un anno di ritardo. In questo modo si è evitato che magistratopoli potesse influire sulle nomine avvenute tra il maggio del 2019 e il maggio del 2020, tra le quali moltissime assai importanti, come la nomina del procuratore di Roma, cioè del successore di Pignatone. La seconda cosa che dicono questi nuovi sviluppi del Palamaragate è che addirittura sono andati perduti tutti gli sms del cellulare sequestrato a Luca Palamara, perché la Guardia di Finanza si dimenticò di scaricarli prima di restituire il telefonino al magistrato sotto inchiesta. Cosa c’era in questi sms? Nessuno può saperlo, ma probabilmente c’erano chiacchiere molto importanti, anche perché è noto che alcuni magistrati non usano Whatsapp – non lo possiedono – ma usano i vecchi sms. Voi provate a immaginare se due errori così clamorosi – sì, certo, vien da ridere a chiamarli errori…- fossero stati commessi in una indagine che riguardava dei politici. Sarebbe successo il finimondo: dimissioni, cadute di governi, arresti, gogne, campagne giornalistiche. E invece sembra che la magistratura riuscirà a inghiottire senza fare una piega anche questo nuovo scandalo. E continuerà ad operare, a giudicare, a disporre delle nostre vite, dei nostri patrimoni, della nostra libertà. Cioè a fare uso incontrollato e incontrollabile del proprio smisurato potere, del tutto incongruente con gli assetti di una democrazia moderna, di una società equilibrata, di uno Stato di diritto. È vero che dentro la magistratura sta succedendo qualcosa. Ci sono frange, gruppi, singoli, che iniziano a ribellarsi. A contestare i vertici, le correnti, il giustizialismo, il corporativismo, il moralismo senza morale, il davighismo, il partito dei Pm. La recente vicenda di Magistratura democratica è un esempio. Md è un pilastro della magistratura associata. Da decenni. Ha una storia lunga, forte, piena di pensiero, di cultura, in parte gloriosa in parte ingloriosa. C’è un mio amico magistrato che, un po’ per scherzo e un po’ seriamente, dice che Md è l’unico luogo della sinistra – nel mondo intero – che ha retto alla caduta del muro di Berlino. Già. L’unico che è stato capace di proseguire per la sua strada, forte come prima e forse, anzi, parecchio più forte di prima. Mai nella sua storia è stata oggetto di congiure interne. Tantomeno di scissioni. E invece, proprio in questi giorni, l’attacco si è scatenato. Dopo che Md aveva espresso dei dubbi sul caso Palamara (e ancora lo ha fatto ieri, con la bella e coraggiosa intervista di Mariarosaria Guglielmi, che è la segretaria di Md, al nostro giornale), e dopo che aveva mollato Davigo e ostacolato la sua pretesa di restare al Csm in violazione della legge, è scattata la controffensiva della sua componente conservatrice, che ha attaccato dall’interno e poi è giunta fino alla scissione. Cioè a un gesto clamoroso e inedito. Md reggerà, probabilmente, anche a questo colpo. E chiaramente il terremoto che è in atto cambierà i rapporti di forza all’interno della stessa Anm, dove recentemente Md, sfidando le tradizioni e i riti, aveva imposto alla presidenza, per la prima volta dopo decenni, un giudice, in contrasto evidente e sfacciato col partito dei Pm. Il presidente di Anm, da tempo incalcolabile, è un Pm. Tutto questo, insieme a molti altri movimenti e mal di pancia provocati, comunque, dal Palamaragate, scuoteranno l’ambiente fino a mettere in discussione gli assetti della magistratura, i suoi rapporti con la società e la legalità, la possibilità di immaginare, dopo decenni, una riforma profonda della giustizia e il ripristino dello Stato di diritto? Temo di no, per una ragione molto semplice. Il dibattito e il conflitto all’interno della magistratura non rispondono alle regole normali di una democrazia e di una società libera. Come mai? Perché quando si entra nel campo della giustizia, in Italia, si lascia il campo della libertà. Questo è un punto difficile da spiegare. È così. La nostra società, bene o male, è una società sostanzialmente libera, nonostante molte strettoie, molti grumi, molte spinte autoritarie. Però è in linea con le altre società occidentali. Forse solo un paio di spanne indietro. Nel campo della giustizia no: manca totalmente la libertà di informazione. In nessun altro settore del vivere civile è così. La stampa è libera, la televisione è libera, ed è libera di criticare, talvolta anche a sproposito, qualunque schieramento politico, o professionale, i medici, i commercialisti, gli architetti e i poliziotti, gli imprenditori, gli scrittori e i generali dei carabinieri, gli immigrati e gli homeless, senza limitazioni, come in tutto l’occidente. Non è libera neppure un poco quando si parla di magistrati. È del tutto subalterna e succube. Obbediente fino la servilismo. Il rapporto tra potere giudiziario e stampa non è diverso da quello che c’era da noi durante il fascismo, o nella Grecia dei colonnelli o nell’Ungheria o nella Germania comuniste. In nulla è diverso. La censura e l’autocensura sono assolute. I giornalisti ammessi alle sacre stanze devono far parte in tutto e per tutto della consorteria: altro che logge segrete! E questo rende difficilissimo l’emergere dei dissenso interno alla magistratura o di piccole o grandi ribellioni verso il partito dei Pm. Chi comanda in magistratura ha il potere di mettere a tacere ogni critica, e di punire chi ha criticato, senza che possa difendersi. Questo provoca la situazione di regime – sì, esattamente di regime, spesso anche violento, perché dispone delle prigioni, dei sequestri dei beni, della gogna – molto difficile da scalfire. Pensate solo a come la stampa ha reagito alla grande amnistia decisa dalla Cassazione sul caso Palamara. Quando ha stabilito che i magistrati che si autopromuovevano o che promuovevano, presso Palamara, propri amici, non violavano nessuna regola. Ho scritto amnistia: sì, amnistia piena, celebrata in contemporanea alla condanna e alla cacciata di Palamara. È lui, solo lui, esclusivamente lui il male, e tutti gli altri sono perdonati. Punto. Guai a chi obietta. E infatti mi pare che solo noi del Riformista abbiamo obiettato. Voi sapete quanti politici sono stati messi al bando per una raccomandazione. Qualcuno, anche recentemente, è stato persino arrestato. Da chi? Dai magistrati che decidevano che le raccomandazioni tra toghe, però, sono cosa buona e giusta. Avete letto qualche riga di critica? Forse Paolo Mieli sul Corriere. Un quadrifoglio. Apparso e poi rapidamente sepolto dalle righe e righe e righe dei “giudiziari di professione”. Qualcuno può fermare questo degrado? Può avviare una transizione? In Spagna, quasi mezzo secolo fa, fu il re che garantì la transizione tra dittatura e democrazia, dopo la morte di Franco. Qui da noi, forse, solo il Presidente della Repubblica potrebbe fare qualcosa del genere. Però dovrebbe chiedere lo scioglimento del Csm (lui, come ha detto più volte, non ha il potere per scioglierlo), chiedere una riforma che limiti il potere giudiziario, chiedere al Parlamento di uscire dalla sudditanza a Beppe Grillo e a Marco Travaglio. Lo farà?

·        Le Intimidazioni.

Quel processo al Dubbio è un processo al giornalismo libero. Il nostro Damiano Aliprandi è alla sbarra per la sua inchiesta antimafia e qualche giudice protesta perché diamo voce all'avvocatura e al diritto di difesa umiliato. Davide Varì su Il Dubbio il 21 dicembre 2021. C’è un pezzo di magistratura – un pezzo minoritario per la verità – che ha ancora qualche problemino con la libertà di stampa, che urla al bavaglio se viene approvata una legge a tutela della presunzione di innocenza degli indagati, ma non si fa scrupoli a portare alla sbarra giornalisti che fanno il proprio dovere: ovvero il pelo e contropelo al potere, a tutto il potere, anche a quello giudiziario. Noi del Dubbio in queste ore siamo finiti al centro delle attenzioni di chi non tollera critiche o un presunto “eccesso di libertà”. Niente di drammatico per la verità: di certo non consideriamo intimidatorio un comunicato di una sezione dell’Anm che si è mobilitata perché la nostra Valentina Stella ha osato dar voce ad avvocati che denunciano “censure” da parte di alcuni giudici; né ci spaventa il processo che sta subendo il nostro Damiano Aliprandi, il quale, in questi anni, ha provato a far luce su uno degli eventi più drammatici della storia del nostro paese: parliamo delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E qui occorre la massima chiarezza, perché se è vero che non siamo intimiditi, è altrettanto vero che la questione è terribilmente seria.

Il processo ad Aliprandi, infatti, non riguarda soltanto lui e il nostro giornale: sul banco degli imputati c’è infatti il giornalismo italiano e in gioco c’è la credibilità del nostro sistema giudiziario. Chi legge il Dubbio conoscerà di certo la storia: Aliprandi – forse il più preparato e scrupoloso giornalista antimafia – è stato querelato da due magistrati che si sono sentiti denigrati da una inchiesta a puntate sulla vicenda del dossier “Mafia e appalti”. Cos’è “Mafia e appalti”? Probabilmente è il buco nero dell’antimafia italiana, una vicenda che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle morti di Falcone e Borsellino. Riassumiamo in due parole: Giovanni Falcone e il colonnello Mario Mori – sì, proprio lui, il servitore dello Stato trattato come un criminale – indagavano da anni sui legami tra Cosa nostra e un pezzo di economia italiana. Il 23 maggio del ‘92 Falcone viene trucidato a Capaci e, poche settimane dopo cominciavano a redigere la richiesta di archiviazione, tanto che l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco – e parliamo di colui che venne accusato da un magistrato limpido come Caponnetto di aver emarginato, umiliato e isolato Falcone -, ecco quel Giammanco avrebbe avuto uno scontro in procura con lo stesso Borsellino sulla “gestione” di “Mafia e appalti”. E qui abbiamo la testimonianza di Domenico Gozzo, uno dei magistrati presenti a quella riunione, che parla esplicitamente di “contrasto più che latente”. Qualche giorno dopo lo stesso Borsellino strappa la promessa di poter proseguire l’indagine, ma di lì a poco viene trucidato con la sua scorta a via d’Amelio. Quante coincidenze. Solo molti anni dopo la storia viene ripresa da Damiano Aliprandi, il quale, grazie a un lavoro certosino e allo studio incrociato di migliaia e migliaia di atti giudiziari, ne coglie la straordinaria e sinistra importanza. Insomma, capite bene che questa inchiesta non solo fa emergere un filone dimenticato che potrebbe far luce sulle reali ragioni per le quali Falcone e Borsellino vennero uccisi, ma conferma ancora una volta l’inconsistenza del teorema Trattativa Stato-mafia, una indagine che del resto è già stata demolita dalla recente sentenza con cui sono stati assolti Mori, De Donno e Subranni.

Noi del Dubbio siamo certi che il nostro Damiano Aliprandi verrà assolto – troppo evidente la forza della sua inchiesta – eppure non possiamo non constatare il fragoroso silenzio della stampa italiana. Un silenzio assenso che rischia di assecondare un’azione giudiziaria capace – stavolta sì – di “imbavagliare” un’operazione giornalistica che ha l’ambizione di districare quel groviglio opaco di poteri e interessi che si sono mossi dietro la morte di Falcone e Borsellino. Ma quali sono i motivi di tanta inquietudine nei confronti di un lavoro giornalistico così rigoroso e trasparente? Il problema è dato dal fatto che l’inchiesta di Aliprandi riscrive il racconto ufficiale di quella vicenda e chi si discosta e contesta la Bibbia dell’antimafia diventa nemico, addirittura complice. Ed evidentemente non basta che quel “testo sacro” stia crollando anche nelle aule dei tribunali; né bastano gli appelli alla “continenza” da parte di magistrati più illuminati.

Una prova? I nuovi apostoli dell’antimafia di Stato se ne fottono anche di personalità cristalline come il procuratore De Raho che appena qualche giorno fa ha ricordato come sia dannoso per la credibilità della giustizia continuare ad alimentare “il protagonismo di alcuni magistrati attraverso la partecipazione ad alcuni circoli mediatici che tendono alla costruzione di verità alternative mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazioni”. Più chiaro di così. Ma è evidente che qui la lotta alla mafia c’entra poco: chi difende quel racconto – e non parliamo solo di magistrati – in realtà difende se stesso, la propria immagine pubblica, la propria posizione di potere. Insomma, siamo di fronte a una vicenda incandescente e non vorremmo che fossimo gli unici a dover ricordare, soprattutto all’ordine dei giornalisti, che in ballo non c’è solo il Dubbio ma l’articolo 21 della nostra Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Avete presente?

Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Sequestro preventivo di un’inchiesta di Fanpage.it: il problema non sono Durigon e Zafarana, ma la Magistratura. Fabrizio Capecelatro il 24/09/2021 su Notizie.it. La Magistratura sequestra un'inchiesta giornalistica prima che sia stato dimostrato che essa è un falso e quindi un reato. Tutti sono perseguibili di falsa testimonianza se in tribunale raccontano il falso. Tranne, ovviamente, l’imputato. Un principio cardine della nostra legislazione che si basa sull’evidenza che chi ha commesso un reato, o è sospettato di averlo commesso, debba poter perseguire il proprio diritto di difendersi. È compito della Magistratura stabilire o ristabilire la giustizia, attraverso propria attività prima di indagine e poi di giudizio. Lo stesso vale per chi diventa oggetto di un’inchiesta giornalistica, che ne smaschera le presunte (tali sono se da quell’inchiesta giornalista non ne parte una giudiziaria, che poi arriva a sentenza) attività illecite. Così come l’inquisito dalla magistratura ha – di fatto – il diritto di raccontare il falso, anche l’inquisito da un’inchiesta giornalista ha il diritto di provare in tutti i modi, leciti, a difendersi e proteggersi dalle accuse pubbliche che gli sono mosse. Nulla di eccepibile, quindi, nei confronti del Generale Giuseppe Zafarana, dell’ex sottosegretario Claudio Durigon e di chiunque altro avesse sporto querela per il contenuto dell’inchiesta Follow The Money, realizzata dai colleghi di Fanpage.it nel luglio del 2021: rientra nel loro diritto ed è il gioco delle parti. Ed è lo stesso Direttore di Fanpage.it, Francesco Cancellato a dirlo: “Per quell’inchiesta abbiamo già ricevuto diverse diffide e querele, com’è legittimo che sia. Chiunque si ritenga offeso o diffamato dai nostri articoli ha diritto di far valere le sue ragioni in un Tribunale, e ci sono un giudice e tre gradi di giudizio per accertarlo”. Diverso è invece che la Magistratura disponga effettivamente, come ha fatto, il sequestro preventivo di quell’inchiesta. Preventivo rispetto a cosa? Rispetto a una sentenza che stabilisca, eventualmente, che quell’inchiesta è falsa, diffamatoria e architettata: cioè che costituisca essa stessa, e non quello che dimostra, un reato. E non è sufficiente che nell’inchiesta, quella giornalistica, siano coinvolti un ex sottosegretario di Stato, un Generale della Guardia di Finanza e la possibilità che quest’ultimo possa non indagare come dovrebbe su un furto fatto dal partito del primo (la Lega) perché la Magistratura possa decidere di andare contro la legge. Al contrario è ammissibile che i due “inquisiti” cerchino, con i parametri imposti dalla legge, di richiedere quello che la legge stessa non gli permetterebbe di ottenere: l’oscuramento dell’inchiesta prima di aver dimostrato che essa è un reato. Ed è bene ricordare allora un altro principio cardine della nostra legislazione: è chi accusa che deve dimostrare le prove della colpevolezza dell’accusato e non quest’ultimo quelle della sua innocenza. E allora, visto che questo provvedimento è stato disposto in seguito a una querela per diffamazione presentata dal generale Giuseppe Zafarana il 28 luglio, è questo che deve dimostrare l’eventuale colpevolezza dei colleghi di Fanpage.it e non viceversa. La domanda allora sorge spontanea: la Magistratura italiana conosce i principi alla base della nostra legge o si limita a una mera applicazione delle norme?

Sdegno per Buzzi e Carminati che firmano i referendum: ma lo sapevate che l’imputato ha anche dei diritti civili? Un articolo del Corsera racconta l'adesione dei due principali accusati per Mafia capitale. E chi altri dovrebbe sostenere i quesiti se non qualcuno che ha ingiustamente scontato al 41 bis le misure cautelari? Simona Giannetti su Il Dubbio il 24 settembre 2021. Simona Giannetti, avvocato e militante Radicale. Esercizio di un diritto o propaganda di regime? Dalle pagine del Corriere della Sera di ieri scopriamo che un imputato non può neanche esercitare il proprio diritto di firmare una proposta di referendum. Peggio ancora se si chiama Carminati o Buzzi ed è stato condannato per il noto processo “Mafia Capitale”; anzi oggi solo “Capitale”, dopo il taglio della Cassazione alle teorie accusatorie della Procura romana. Il motivo del disdegno per la firma della proposta dei quesiti referendari sembrerebbe semplice: essere un condannato. L’articolo inizia cosi: “Roma, Forse vi siete persi una storia…”. La storia è quella di un gazebo per la raccolta delle firme del referendum “Giustizia giusta” – promosso dal Partito Radicale con la Lega -, organizzato dal quotidiano Il Riformista e dal suo direttore Piero Sansonetti; non solo, al gazebo si presentano a firmare Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Fine della storia. E invece no, perché sul Corriere si parla di due imputati descritti con il loro passato anche lontano, che stavolta non sono coinvolti in un processo ma in un “sit- in referendario”. Non solo, la storia prevede anche “il divo”: Luca Palamara. Ora, al netto della descrizione di una giornata romana di settembre con sole e gabbiani a pochi passi da Montecitorio, sarebbe stato interessante precisare, dalle pagine di un autorevole quotidiano come il Corriere, che l’articolo75 della Costituzione riserva il diritto di firma ad ogni elettore, purché non sia un condannato definitivo. Ebbene, purtroppo per il Corriere i signori Buzzi e Carminati sono solo degli elettori, molto prima di essere imputati. Ma la notizia, oltre alla minuziosa descrizione dei loro abiti e del loro arrivo al gazebo, è che gli stessi avrebbero anche la pretesa di cambiare la Giustizia. Persa sembra essere stata l’occasione di ricordare che il signor Carminati – precisamente descritto come quello con il casco – in seno al processo del “Mondo di mezzo” lo avevano anche mandato in regime di “carcere duro”, come si chiama in gergo, cioè in regime ex articolo 41 bis, salvo poi dire che il suo reato non era mafia: a quanto pare poco conta, nella narrazione della vita dell’elettore in questione, questo disguido sulla sua libertà personale e dignità, evidentemente lontano dall’obiettivo della divulgazione. Eppure, sarebbe stata buona l’occasione per ricordare la riduzione dell’abuso della custodia cautelare in carcere, che poi è anche un quesito referendario, e magari dedicargli uno spunto di riflessione, soprattutto là dove ci sono milioni di euro spesi dallo Stato italiano per risarcire ogni anno individui incarcerati ingiustamente. In effetti trascorrere una carcerazione preventiva in regime di 41 bis non dovuto potrebbe anche essere un buon motivo per decidere di andare a firmare un referendum per la giustizia giusta: bontà sua, dell’elettore, accidentalmente imputato, che decida di farlo. Ma c’è di più. È un peccato che il giornale storico della Milano degli anni di Tangentopoli, che molto poco si è occupato delle attualissime e localissime vicende del Palazzo della Procura da cui uscirono atti segreti con destinazione la tromba delle scale del Csm, abbia altresì dimenticato di cogliere l’occasione di riportare i numeri di questa campagna referendaria, in cui ormai ben oltre 500mila elettori hanno già firmato, perché sia permesso ai cittadini di occuparsi della riforma dell’ordinamento giudiziario e rompere un abbraccio mortale tra politica e magistratura. Forse si poteva cogliere l’occasione per ricordare che in fondo l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, anch’egli ampiamente citato come presente al gazebo della raccolta delle firme, altro non sia che un capro espiatorio di ciò che da solo non poteva reggere in piedi a suon di chat e messaggini, oltre che inevitabilmente un testimone di quel Sistema, di cui in questo caso non si è letto molto sulle pagine del giornale in questione. Dunque, i signori Buzzi e Carminati vorrebbero riformare la giustizia, e tutto questo sembra decisamente un colpo basso per il moralismo di un’Informazione che gioca sul populista disegno secondo cui se sei un imputato non devi esistere, pensare, avere dignità di elettore. Non solo, non si può neanche fare a meno di pensare male, che, come diceva un noto presidente si fa peccato ma spesso ci si azzecca: ad oggi il referendum potrebbe anche essere una realtà. Forse quel sogno di Marco Pannella ed Enzo Tortora, che camminano a braccetto nei volantini dei gazebo della campagna del Partito Radicale, si sta per avverare. Il messaggio non troppo in bottiglia sembra voler alludere all’idea che se firmi per il referendum, o sei un imputato o sei il suo difensore: la propaganda del Sistema continua, forse. Del resto nessuno ha mai creduto che con l’espulsione di Luca Palamara dalla Magistratura sarebbe cambiato qualcosa. Anzi, è anche troppo facile cadere nella tentazione di ricordare Tomasi di Lampedusa: deve cambiare tutto, perché nulla cambi. E allora perché non andare a firmare per arrivare al milione di firme per la giustizia giusta?

«Se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi», polemica per la frase del pm Salvati dopo il tweet garantista di Costa. Il magistrato ha chiarito che si trattava di una metafora, ma il deputato di Azione non è del tutto convinto. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 16 agosto 2021. Tutto è partito da un tweet di Enrico Costa, deputato di Azione, sulla vicenda di Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste, dopo essere stato per oltre 900 giorni in custodia cautelare. «Sono andati a prenderlo di notte alle 3.15, 45 giorni in isolamento, per 33 non ha visto nessuno. Fiumi di pagine sull’inchiesta. Poche righe dopo l’assoluzione», ha scritto Costa. Nemmeno il tempo di inviare il cinguettio garantista, che arriva una pioggia di commenti a favore e contro Costa, tra i quali tuttavia spicca quello di Antonio Salvati, giudice del lavoro presso il Tribunale di Reggio Calabria, che dopo una discussione con altri utenti scrive: «Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi». Ma Costa rincara la dose, chiedendo se è normale che un magistrato, proprio sotto al post garantista in difesa di Sorbara, utilizzi espressioni del genere. Salvati non fa in tempo a rispondere che della sua frase chiede conto anche Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma. Gentile dottor Salvati, in che modo dovremmo “scottarci pure noi” – scrive Calenda – Enrico Costa è un parlamentare che ha commentato un caso di malagiustizia. Mi può spiegare meglio? Perché a una prima occhiata quanto da lei scritto assomiglia a una minaccia. Immagino sia un errore…». E la spiegazione di Salvati, nemmeno a dirlo, non si fa attendere. «Lo spiego in poche parole, e sono certo, stimandola, che sarà tutto chiarito – commenta il magistrato – Io credo che in questo momento, nella nostra comunità Italia, uno dei problemi maggiori sia la totale sfiducia verso le istituzioni e i corpi intermedi: politici, magistrati, giornalisti, avvocati, carabinieri, polizia, insegnanti, professori, persino Chiesa e ONG. Tutti corrotti o corruttibili. A me non piace questo modo di pensare. Non sopporto frasi come “i politici sono tutti corrotti”. Ecco perché mi spiace vedere un parlamentare che si limita, di sicuro in buona fede e con riferimento a un caso gravissimo, ad alimentare sfiducia e malcontento. Il tutto, con ricadute negative che riguardano tutte le istituzioni, parlamento e parlamentari». Un tentativo maldestro di rifugiarsi in calcio d’angolo, con il risultato che, almeno agli occhi di Costa, la toppa è peggiore del buco. «Alimentare sfiducia e malcontento? – chiede il deputato – Si informi sui temi che affronto (con qualche risultato): spese legali assolti, presunzione innocenza, diritto all’oblio, regolamentazione conferenze stampa, ingiusta detenzione, prescrizione, intercettazioni, abuso custodia cautelare». Un botta e risposta alimentato certamente dalla disintermediazione dei social ma che, secondo l’esponente di Azione, denota un certo modo di pensare di alcuni magistrati. «Finché si tratta di opinioni ci intendiamo, se si lanciano slogan come quelli contenuti nelle parole di Salvati allora è tutto più difficile – racconta Costa al Dubbio – I magistrati dispongono di armi non convenzionali, ricordo quando ci furono frasi di un presidente dell’Anm che invitò addirittura alla mobilitazione. Forse bisognerebbe rimanere nell’ambito della critica, che è sempre costruttiva». Nel corso della giornata il magistrato ha poi chiarito la posizione, dando la colpa alla «troppa sintesi», alle «troppe certezze» e alle «troppe idee preconcette» dei social. Ha spiegato di essere garantista «fino alla radice dei capelli» e ritenendo che il concetto di bruciare le istituzioni a forza di soffiare sul fuoco del malcontento civile fosse in realtà una metafora. Parole che, a fine giornata, convincono Costa solo a metà. «Prendo atto dei chiarimenti ma non è accettabile è che si faccia passare la battaglia garantista che conduco assieme a tanti altri esponenti come qualcosa che possa alimentare il malcontento». Alla prossima puntata.

Il giudice Salvati: «Non ho minacciato il deputato Enrico Costa». Dopo la polemica con Enrico Costa, il giudice Salvati dice: «C’è un problema di narrazione, la giustizia è complessa ma la società va sempre più veloce». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 22 agosto 2021. Antonio Salvati, giudice del lavoro a Reggio Calabria, si era reso protagonista di un battibecco social con Enrico Costa, deputato di Azione, dopo il caso di Marco Sorbara, ex consigliere regione della Val d’Aosta rimasto in carcere 900 giorni da innocente. «Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi», aveva scritto Salvati sotto al post garantista di Costa. Ora, a polemica rientrata, parla della comunicazione sempre più complessa tra politica e magistratura.

Dottor Salvati, polemica rientrata?

La polemica è rientrata, ma penso che ci sia un problema di narrazione. L’opinione pubblica è convinta che la magistratura sia un corpo così coeso che un piccolo giudice del lavoro di Reggio Calabria possa minacciare un parlamentare addirittura a livello fisico e verbale e questo non riesco proprio a spiegarmelo.

Agli occhi degli utenti, e inizialmente anche dello stesso Costa, è apparso com il solito magistrato forcaiolo che minaccia la politica…

Organizzo a Palmi da otto anni il festival nazionale di diritto e letteratura e l’associazione è composta in larga parte da avvocati. La seconda edizione fu dedicata interamente all’errore giudiziario e fu seguita da Radio Radicale. Alla base del mio ragionamento, al di la del singolo caso concreto visto che non conosco nulla del caso Sorbara, volevo dire che se ci sono criticità, e sicuramente ci sono nel rapporto di garanzie difensive nel momento delle indagini preliminari, bisogna rappresentare la realtà per quella che è, cioè molto complessa, e non ci si può limitare a dire che è colpa della magistratura, che pure ha i suoi difetti. La mia critica è che se un rappresentante politico vede una cosa così complessa da un punto di vista così unilaterale e polarizzato allora questa narrazione è diversa dal modo in cui io vedo il mondo.

Quando è arrivato il chiarimento con Costa?

Costa non ha mai detto di essere stato minacciato da me, si è detto scioccato e ha chiesto spiegazioni che poi lo hanno convinto, almeno in parte. Stessa cosa ha fatto Calenda, che ha chiuso la questione in maniera molto corretta. Il problema è la reazione del popolo, che non è assolutamente secondaria. Per versanti diversi, sia Parlamento che magistratura sono espressione della volontà popolare e quindi il problema è che la gente pensa che davvero un magistrato possa arrivare a minacciare un politico ma non avrei mai nemmeno potuto pensare di fare una cosa del genere.

Dunque la sua esternazione è stata travisata?

I problemi della giustizia sono molto complessi, soprattutto quando si parla di ingiusta detenzione, e non si possono ridurre a trovare una soluzione che vale per tutti, rappresentando la Magistratura come un corpo privo di controlli e di responsabilità. Non si può rispondere con slogan. È stata travisata perché viviamo in un mondo sempre più veloce.

Ha parlato della complessità della giustizia. Pensa che la riforma Cartabia e i referendum possano migliorare le cose?

Prima di essere un magistrato sono un cittadino. Spero che le cose migliorino ed è ovvio che quali che siano le riforme che verranno approvate è compito della magistratura applicare le leggi. Ma ho l’impressione che siamo malati di velocità e non penso sia solo colpa dei social. Ma se non sui social mi chiedo dove ci si possa incontrare con i cittadini e spiegare queste problematiche.

Crede che Costa abbia fatto di tutta l’erba un fascio?

A me basterebbe soltanto che si sapesse che il problema degli squilibri narrativi e tecnici, come nel caso del diritto di difesa e del diritto all’oblio, è assai discusso in magistratura. Ormai anche a livello di media il vero processo è quello che c’è in fase di indagini preliminari e non quello che avviene nel dibattimento, ma se si pensa che la magistratura fa quello che vuole, manda tutti in galera e butta la chiave si dà una rappresentazione distorta della realtà.

Se pensiamo allo scandalo legato al Csm la magistratura non sta dando una grande prova di sé.

È ovvio che il problema c’è, ma non riesco a ragionare in termini di magistratura e politica. Si tratta di singole persone, politici e magistrati, che sbagliano come qualsiasi altra categoria professionale e se lo fanno per gravi responsabilità è giusto che vadano incontro a sanzioni. Alla notizia di una condanna definitiva di un politico io non penso che tutta la politica sia marcia e corrotta, così come credo che i politici non debbano pensarlo per la magistratura. È necessario trovare un terreno comune di toni bassi per ispirare nuova fiducia nei cittadini. Se invece picconiamo, rimangono solo macerie.

Parla il responsabile del dipartimento Giustizia di Azione. Costa difende l’innocente Sorbara perseguitato dai magistrati e viene intimidito dal pm: “Proteggiamo i poveri Cristi”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Enrico Costa, responsabile del dipartimento Giustizia di Azione – partito di cui compone il tridente di punta insieme a Carlo Calenda e Matteo Richetti – non perde occasione per manifestare il suo pensiero. L’altro giorno ha dedicato un tweet a Marco Sorbara, il consigliere della Val d’Aosta che dopo 900 giorni di custodia cautelare in carcere, di cui 45 in isolamento, è stato rimandato a casa assolto da ogni accusa. Un tweet asciutto, di racconto della vicenda in cui il parlamentare si indirizzava alla stampa: “Solo poche righe dopo l’assoluzione”. Ed ecco che un magistrato, Antonio Salvati, gli risponde piccato: “Complimenti per la competenza e la completezza. Io continuo a dirglielo, caro Costa: se soffiate sul fuoco vi scottate pure voi…”

Al telefono, Costa si dice scioccato. Anche Calenda ci vede l’ombra di una intimidazione.

Quello che è successo a me con quella risposta ci fa capire una cosa. Io ho gli strumenti e la serenità d’animo per interloquire con il magistrato. Ma uno dei tanti poveri Cristi che finiscono impigliati in una vicenda di mala giustizia e vogliono evidenziare la loro situazione, davanti a reazioni di questo tipo, come trovano la forza di reagire? È capitato più volte di parlare con le vittime della mala giustizia, uscite da vicende dolorose, da ingiuste detenzioni. Quando chiedo se vogliono intentare causa per il risarcimento cui avrebbero diritto, molti si tirano indietro: non vogliono più avere a che fare con la giustizia, neanche per tutelarsi.

Che cosa servirebbe, dunque?

Qualcuno capace di far sentire in modo autorevole la voce dei Presunti innocenti. Un garante della presunta innocenza. Lo avevo proposto con un emendamento alla riforma del processo penale, e lo riprenderò nell’ambito del recepimento sulla direttiva sulla presunzione di innocenza il cui decreto legislativo è stato predisposto dal governo. Se noi ci aspettiamo che lo Stato metta in piedi un meccanismo di tutela di questo genere, aspetteremo a lungo. Inizio ad essere sfiduciato. Ho fatto proposte di legge decine di volte per chiedere che tutte le ordinanze di ingiusta detenzione, che sanciscono in maniera riconosciuta l’errore dello Stato, vadano al titolare dell’azione disciplinare. Gli finiscano per lo meno sulla scrivania.

Oggi come funziona?

Coloro che a distanza di anni dopo aver comminato condanne detentive vengono smentiti dai gradi successivi della giustizia non lo vengono a sapere. Nel frattempo sono cresciuti, hanno fatto carriera o sono andati in pensione. E lo Stato riconosce i suoi torti ma non li notifica a chi li ha compiuti, con questo impedendone una lettura analitica complessiva e la capacità di correzione del sistema.

Una incongruenza, a dire poco. Da chi dipende?

Dall’ufficio legislativo del Ministero, dove ci sono praticamente solo magistrati, trovo ostilità su questa proposta. E tra l’altro andrebbe fatta una riflessione sul perché al Ministero della Giustizia dirigono tutto i magistrati. Si rende conto? Ho presentato un emendamento alla legge di bilancio (che va votata entro dicembre, ndr) sul rimborso dovuto da parte dello Stato delle spese legali degli assolti. Il governo doveva fare il decreto ministeriale attuativo entro sessanta giorni, siamo ad agosto e non lo ha ancora fatto.

Chi è che frena?

Glielo dico chiaramente. L’ufficio legislativo del Ministero rema contro. Il sottosegretario Sisto – che è un amico e un sincero garantista – è venuto in aula a dare una risposta preparatagli dagli uffici di Via Arenula dove si argomenta in modo funambolico che ci sarebbe una scarsa dotazione da dividere tra troppi aventi diritto. Io a Sisto glielo ho detto in faccia, così state facendo la campagna del referendum, perché se non riusciamo a risolvere la questione con la politica, la gente andrà a firmare e poi a votare quel referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati.

Lei però non li ha firmati.

Proprio perché voglio dare una opportunità, un senso al nostro agire politico, all’azione parlamentare. Il tema della responsabilità diretta va accompagnato da una serie di adeguamenti normativi; va tolta quella norma che dice che la “valutazione del fatto e della prova, e la loro interpretazione, non sono sanzionabili”. Ma non escludo che a settembre sui referendum ci sarà una posizione diversa del mio partito, Azione.

La riforma Cartabia è un compromesso al ribasso?

Era partita con il grande coraggio della ministra Cartabia. Dopodiché ha dovuto subire la pressione di certi partiti.

Teme qualche agguato in Senato?

Ho visto che Letta e Conte hanno preannunciato di voler riaprire il tavolo a Palazzo Madama. Benissimo, li aspettiamo: vogliamo cambiarla anche noi ma in modo opposto. E al Senato ci sono i numeri per cambiarla in modo garantista.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

«Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?». L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani: «La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti». Simona Musco su Il Dubbio il 14 agosto 2021. «Un attacco alla libertà di espressione». E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il «danno per le Istituzioni» legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, «presentato anche sulle spiagge». Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr), Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come «questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”», sottolineando anche come «i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro». Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione «non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento» e se «la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto». «È inaccettabile creare un clima di paura intorno a notizie che riguardano certi temi – ha commentato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito Popolare -. Ci auguriamo che l’Avvocatura dello Stato ripensi alle sue azioni contro la pubblicazione di un libro che rivela informazioni sulla magistratura e quindi sulla giustizia. Temi molto cari a tutti i cittadini. La storia e i valori di Forza Italia ci impongono di sostenere a pieno questa battaglia in favore della verità». La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di «un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara», mentre l’ex consigliere del Csm si è detto «turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?». Contro la richiesta dell’Avvocatura – che ha anche invocato il sequestro del libro – si è ribellato anche il Codacons. «Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale – aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana – proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio».

Follia anti Palamara: è un danno presentare il libro nelle spiagge. Lodovica Bulian il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. La teoria dell'avvocatura dello Stato nella richiesta di mixa-risarcimento da un milione. Con il libro intervista Il Sistema di Alessandro Sallusti, e con la sua presentazione in giro per l'Italia, l'ex pm Luca Palamara lederebbe ulteriormente l'immagine della magistratura e dunque del ministero della Giustizia: «Un libro a carattere denigratorio di tutto l'ordinamento giudiziario, che viene presentato in tutti i luoghi di villeggiatura e che continua a presentare una immagine distorta, viziata e di enorme discredito». Parlava così uno dei due legali dell'avvocatura dello Stato - come si legge oggi dalle trascrizioni - lo scorso 16 luglio, in una delle ultime udienze preliminari nel procedimento a carico di Palamara, prima del suo rinvio a giudizio con l'accusa di corruzione per l'esercizio della funzione. Il libro, che nulla ha a che fare con il processo e con quel capo d'imputazione, è stato invece citato dall'avvocatura - che rappresenta le parti civili della presidenza del consiglio dei ministri e del ministero della Giustizia - come un ulteriore danno all'immagine delle istituzioni: «Se l'evento offensivo è cessato non è cessato di sicuro il danno che viene richiamato, riprodotto costantemente da questi interventi mediatici che ne amplificano gli effetti in maniera esponenziale», continuano i legali. Che chiedono un risarcimento del danno da un milione di euro perché le condotte di Palamara sarebbero state «lesive degli stessi valori costituzionali di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria», e soprattutto «della percezione che la collettività» ha dell'ordinamento giudiziario. Era stato l'allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede, all'indomani dello scandalo che nel maggio 2019 ha travolto il Csm, a volere che il ministero si costituisse parte civile nel processo, così come la presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte. Che ha autorizzato il mandato all'Avvocatura dello Stato. Il trojan inoculato nel cellulare dell'ex consigliere del Csm che veniva intercettato per corruzione, aveva svelato anche le nomine pilotate negli uffici giudiziari. Uno scandalo che ha gettato «discredito sull'apparato» e provocato la «lesione dell'interesse alla imparziale e efficace organizzazione della giustizia», si legge nella costituzione di parte civile. Così come il danno provocato a Palazzo Chigi con la «lesione dei valori di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria».

Il libro poi, che svela altri retroscena sulla storia della magistratura degli ultimi vent'anni, con la sua grancassa mediatica non avrebbe fatto altro che aggravare il danno. Ma se Palamara ha subito gridato alla censura da parte delle istituzioni, fonti del ministero della giustizia ricordano che la decisione di costituirsi parte civile risale a novembre 2020 ed e è precedente alla pubblicazione del libro. La scelta di tirarlo in ballo in Aula farebbe parte della strategia processuale degli avvocati a cui il ministero è «del tutto estraneo». E nulla cambia per i legali dello Stato neanche la riformulazione del capo d'accusa da parte dei pm perugini, che contestano non più la corruzione in atti giudiziari ma quella per l'esercizio della funzione: «L'imputazione di corruzione per l'esercizio della funzione non è di sicuro un'ipotesi inferiore, anzi - dicono in aula - attesa l'ampia lesività e il costante comportamento di mercificazione contestato all'imputato. E soprattutto non modifica la posizione delle due parti civili che hanno chiesto il risarcimento di un danno non patrimoniale come danno esistenziale e di un danno patrimoniale per quanto riguarda il ministero della Giustizia». Lodovica Bulian

Annullata la sentenza del Consiglio di Stato. “Il sistema non si tocca!” l’avvertimento del Csm a Viola. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 18 Luglio 2021. Quando ieri ho letto l’articolo del Riformista Il Csm straccia la sentenza “La giustizia è cosa nostra”, sono scoppiata a ridere: ma come può un Csm che è stato dimezzato dalle dimissioni a seguito degli scandali sulle nomine intervenire contro il Consiglio di Stato che metteva in rilievo quello che dovrebbe essere considerato l’ennesima irregolarità in una nomina? Lo dice sia il Tar, sia il Consiglio di Stato: la nomina uscita dal Csm di Michele Prestipino a procuratore di Roma non è corretta dal momento che vi era un altro pretendente, Marcello Viola, che aveva più titoli, più esperienza e più anzianità di servizio e pertanto era più meritevole di occupare quell’importante poltrona. Il “radicamento” territoriale – valutato dal Csm per Prestipino – non è un parametro tra quelli da prendere in considerazione per le nomine. Dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato mi sarei aspettata che il Csm se ne stesse silente, con la coda tra le gambe e magari riflettesse seriamente sul perché è scaturita la nomina di Prestipino, da sempre molto vicino a Pignatone, al posto di quella di Viola, anche alla luce delle captazioni avvenute tramite il trojan del telefono di Luca Palamara. Parlando con Legnini, Palamara spiega perché Pignatone è interessato alla sua successione alla poltrona di procuratore capo di Roma. “Perché hanno paura che se va un altro mette le mani nelle carte, Giovà, e vede qualcosa che non va non c’è altra spiegazione come tipico di Pignatone questo è il discorso, è successo con me, è successo con Cisterna che devo dì che Pignatone mi ha chiesto tutte le cose parliamo di interferenze tutte le cose di Roma. Eh io l’ho fatto queste io le devo di ste cose o no. Dico io ho avuto sempre un ottimo rapporto, ogni cosa che mi chiedeva era funzionale all’ufficio”. Una frase che acquista senso anche alla luce della recente audizione di Luca Palamara alla Commissione parlamentare antimafia, quando ha spiegato che, per la sua successione a Reggio Calabria, Pignatone avrebbe voluto Prestipino perché vi erano vicende delicate che era meglio gestire con una certa "continuità", come quelle del magistrato Alberto Cisterna, del pentito Nino Lo Giudice, del ritrovamento del bazooka e del disciplinare a un altro magistrato del suo team, Beatrice Ronchi. Bene, alla luce anche di tutto questo, il Csm, anziché tentare di dimostrarsi minimamente credibile, lasciando che la questione se la risolvano i due magistrati che si contendono il posto, ha deciso di intervenire. E qui ho smesso di ridere. Perché se sono intervenuti con una delibera ‘adesiva’ al ricorso per Cassazione di Prestipino, significa che le “carte da gestire” sono molto, molto interessanti, che ci sono poteri in gioco ancora da difendere a spada tratta e che c’è tutto un sistema che non ha nessuna intenzione di cambiare, arroccato nella propria autodifesa e nell’avvertimento decisamente esplicito dato a chi non si piega alle decisioni del Sistema e presenta ricorso. Sabrina Pignedoli

Si faccia chiarezza con un’interrogazione. Vogliono zittire Palamara perché ha raccontato il marcio della magistratura: chiesto il sequestro del libro e 1 milione di euro. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Giuro che quando ho letto la notizia sono caduto dalla sedia. Ho pensato ad uno scherzo. Tanto che ho cercato conferme perché non avevo trovato – con l’evidenza che meriterebbe – la notizia sui quotidiani. A che cosa mi riferisco? L’Avvocatura dello Stato ha chiesto il sequestro del saggio Il Sistema di Luca Palamara ed Alessandro Sallusti e il risarcimento di un milione di euro per il danno di immagine dello Stato. L’Avvocatura non agisce motu proprio; non ha l’obbligo di esercitare l’azione difensiva. Quindi da chi ha avuto l’incarico? Presumibilmente dal governo. Che ruolo hanno avuto Draghi e Cartabia? Qualche parlamentare di buona volontà dovrebbe presentare al più presto un’interrogazione, perché non è consentito che finisca sotto silenzio un fatto tanto grave, una vera e propria intimidazione. Magari per persuadere con le cattive Luca Palamara a non cimentarsi con una seconda puntata. Nel libro un ex magistrato racconta la sua esperienza ai vertici del sistema delle correnti, cita episodi (che dichiara di poter documentare se necessario) e denuncia la gestione – nell’ambito dell’autonomia del Csm – delle nomine mediante una accurata lottizzazione che è sotto gli occhi di tutti, tanto che, anche a causa di queste pratiche, è aperto il problema di come riformare l’organo di Palazzo dei Marescialli proprio per eliminare quei vizi che Luca Palamara ha rivelato. Un ex magistrato che ha fatto e disfatto carriere ai vertici dell’associazionismo giudiziario meriterà pure per le ammissioni e testimonianze un po’ di quel credito che viene riconosciuto, d’acchito, ai pentiti di mafia! Chiedere il sequestro di un libro – senza indicare questioni specifiche e senza dimostrare la falsità di certe ricostruzioni che vi sono contenute – ha un solo significato: è proibito scrivere sulla magistratura; guai a parlare male del nostro Garibaldi collettivo. Ma l’aspetto più farisaico e disonesto sta nelle motivazioni della richiesta del sequestro e del risarcimento del danno: la tutela dell’immagine dello Stato. In sostanza, non si deve far sapere in giro che nell’ordine giudiziario si combinano giochi di potere e si fa politica attraverso le sentenze. Ma – mi chiedo – non è il Parlamento la più importante istituzione democratica della Repubblica, che viene al primo posto nella stessa Costituzione? Insultare, dileggiare, additare al pubblico ludibrio i parlamentari è divenuto – da La casta in poi – persino un genere letterario nel quale si sono cimentate le grandi (e piccole) firme del giornalismo, sfornando best seller che suonavano offesa già nel titolo. E la gogna non aveva per oggetto malversazioni, corruttele o violazioni di legge. No. Si sono prese di mira le indennità, i vitalizi, i prezzi delle buvette e tutto quanto potesse incrementare l’invidia sociale e rappresentare gli eletti del popolo come una massa di scrocconi propensi a condurre “la bella vita” piuttosto che occuparsi monasticamente della cosa pubblica. Poi è stata la volta delle “spese pazze” dei consiglieri regionali, con veline trasmesse dalle procure ai loro pennivendoli dove si raccontava di scontrini della toilette, acquisto di mutande verdi, residenze truffaldine, uso di denaro pubblico per partecipare ad iniziative di partito, feste di carnevale e quant’altro. E quando si è raccontato al mondo che Roma, la città eterna, era inquinata dalla Mafia? Quale discredito ricade sull’immagine di una Stato da un’inchiesta denominata “Mafia Capitale”? Anche a costo di ingigantire i reati e i protagonisti di quelle vicende, elevando (“il mondo di mezzo”) una congrega di mazzettari e di rubagalline a grandi capi di Cosa nostra. Su “Mafia Capitale” quando ormai era stato chiarito, a livello giudiziario, che la mafia non c’entrava nulla, è stato prodotto persino uno sceneggiato televisivo che nessuno chiese di sequestrare. E non si è prodotto – dopo il processo a Giulio Andreotti – un danno all’immagine dello Stato grazie alla montatura della “trattativa” con la mafia? Ricordiamocelo: è stato chiamato come testimone dell’inchiesta persino un presidente della Repubblica, mentre un valoroso servitore dello Stato, come il generale Mario Mori, è ancora alle prese col suo calvario giudiziario. Non parliamo poi del tafazzismo italiota in economia, chiarendo bene un punto in premessa: chi scrive non sostiene – al pari dell’Avvocatura a proposito del libro Il Sistema – che vi sia una “ragion di Stato” che induca a chiudere gli occhi davanti alle malefatte e agli intrighi dei cosiddetti poteri forti, perché – come si diceva un tempo – è bene lavare i panni sporchi in famiglia. Un’inchiesta giudiziaria o giornalistica che scopre un affare losco e lo denuncia è il sale della democrazia. Ma quando si arriva a falsificare la realtà, a non tener conto delle prove, a costruire dei teoremi al solo scopo di creare un “caso”, si producono davvero e apposta dei danni all’immagine del Paese. Si pensi all’ex Ilva. Non esprime una bella immagine di sé un sistema Italia che dichiara guerra alla più grande acciaieria d’Europa (le accuse della magistratura tarantina sono state smentite da sentenze del Tribunale di Milano per quanto riguarda sia il reato di bancarotta dei fratelli Riva, sia l’attinenza dello stabilimento agli standard vigenti in materia ambientale). E che spettacolo fornisce un combinato mediatico-giudiziario che ha perseguitato una delle più importanti multinazionali dell’energia – l’Eni – accusando, in pratica senza prove né indizi, i suoi amministratori di corruzione a fini petroliferi delle autorità dei Paesi produttori? Abbiamo visto troppi film americani nei quali un pugno di volenterosi vincono la loro battaglia contro la multinazionale di turno, per non apprezzare una giustizia che non guarda in faccia a nessuno. Ma quando in un Paese, non protesta, come a Cuba, un popolo affamato e in balia del contagio, ma scendono in piazza i sindaci chiedendo alle procure di lasciarli lavorare, viene da chiedersi che cosa pensano di noi all’estero. Certo, sarebbe singolare se il saggio Il Sistema venisse condannato al rogo come accadde al film Ultimo tango a Parigi. Oggi viene proiettato persino nella sale parrocchiali. Giuliano Cazzola

Sallusti e Palamara, Bonafede e Conte hanno ordinato di fermare l'ex magistrato. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi e la Guardasigilli Marta Cartabia sono a conoscenza dell'iniziativa dell'Avvocatura dello Stato di chiedere un risarcimento da un milione di euro per «danno d'immagine» a Luca Palamara? Sarebbe interessante saperlo. La decisione di costituirsi come parte civile nel processo a Perugia nei confronti dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati venne presa quando a Palazzo Chigi c'era Giuseppe Conte e a via Arenula Alfonso Bonafede. Una decisione, va detto, obbligata quando l'imputato è un dipendente pubblico e, a maggior ragione, come nel caso di Palamara, un magistrato peraltro accusato di corruzione. Nessuno, tuttavia, obbligava il governo ad arrivare a chiedere un milione di euro. L'aspetto sorprendente di questa vicenda è che la numero uno dell'Avvocatura dello Stato di Perugia, l'avvocata Francesca Morici, coadiuvata dall'avvocata Maria Assunta Mercati, ha tirato fuori dal cilindro, per supportare la maxi richiesta, il libro "Il Sistema" scritto da Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. In pratica, in un processo per corruzione, il danno d'immagine non sarebbe stato causato dalle condotte penalmente rilevanti eventualmente poste in essere da Palamara, quindi aver incassato favori e prebende varie dal faccendiere Fabrizio Centofanti, ma dall'avere raccontato cosa è successo nei tribunali italiani negli ultimi anni: dalle nomine pilotate, ai processi aggiustati, ai fascicoli scomodi lasciati prescrivere. 

CAIAZZA: «ASSURDO» - «È una cosa talmente assurda che dubito sia vera: ho un po' di riserve, dovrei leggere l'atto, perché mi sembra una cosa fuori da ogni logica», ha commentato il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. «L'idea che l'Avvocatura, quindi che lo Stato chieda a Palamara un risarcimento non per ciò che ha fatto insieme a tutta la magistratura associata per dieci anni, ma per ciò che ha raccontato di aver fatto è una cosa incredibile», ha aggiunto Caiazza. Per il capo dei penalisti, «l'Avvocatura può lamentarsi solo se Palamara ha scritto delle falsità», ma il racconto «è quasi tutto fondato su whatsapp che sono stati acquisiti in un processo penale». «Il danno d'immagine- ha quindi concluso Caiazza - lo avrà portato la magistratura nell'aver agito in quel modo, non certo Palamara nel raccontarlo». A tal proposito va ricordato che la ministra Cartabia, alla quale la Costituzione assegna la facoltà di esercitare l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non risulta abbia ancora esercitato i suoi poteri: nessuna toga citata nel libro da Palamara è stata nemmeno lontanamente destinataria di un avviso di apertura di un procedimento. E nessuna Procura, sempre da quanto risulta, sta indagando su quanto raccontato nel libro. 

UN MILIONE DI EURO - In compenso, però, l'Avvocatura dello Stato ha chiesto un milione di euro di danni a Palamara. Dietro questa richiesta è difficile non vedere una manovra per mettere pressione e costringere al silenzio l'ex presidente dell'Anm. L'Avvocatura dello Stato, in altre parole, verrebbe usata come "testa d'ariete" da parte di chi non vuole che Palamara continui a raccontare le nefandezze del sistema giudiziario italiano. Dopo averlo "affamato" sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio, arriva ora la mazzata finale. «Solo un regime cerca di fermare la presentazione di un libro: i magistrati puliti che sono la maggior parte in Italia non si facciano intimidire dal sistema correntizio e facciano sentire la propria voce libera», ha dichiarato l'attore Edoardo Sylos Labini, fondatore del movimento CulturaIdentità. Oggi, comunque, a Perugia è attesa la "deposizione spontanea" di Palamara prima del rinvio a giudizio. Non si escludono rivelazioni eclatanti. C'è solo da augurarsi che non venga interrotto dal procuratore Raffaele Cantone e dal giudice Piercarlo Frabotta.

L’Avvocatura dello Stato: «Censurate il libro di Luca Palamara». A Perugia durante l'udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L'Avvocatura dello Stato ha chiesto la censura del libro "Il Sistema". Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 luglio 2021. Ancora colpi di scena a Perugia durante l’udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L’Avvocatura dello Stato ha chiesto ieri la censura del libro ‘ Il Sistema’ scritto dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati insieme al direttore di Libero Alessandro Sallusti. «La richiesta dei pm di Perugia conferma che non ho mai commesso un atto contrario ai doveri di ufficio e che l’originaria accusa di aver preso 40.000 euro per la Procura di Gela è caduta. Sono certo di chiarire già alla prossima udienza del 19 luglio i residui fatti che mi vengono contestati, dimostrando di non aver ricevuto pagamenti e utilità. Sono turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’avvocatura dello Stato: vogliono forse silenziarmi?», ha commentato a margine l’ex presidente dell’Anm. Il procuratore Raffaele Cantone ha chiesto la condanna ad otto mesi per l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di rivelazione del segreto, che aveva optato per l’abbreviato, ed il rinvio a giudizio per Palamara e per l’amica Adele Attisani. La decisione è attesa entro la fine del mese. Le accuse nei confronti di Palamara hanno subito nel tempo diverse modifiche. Cinque per la precisione. Quando l’indagine esplose, a maggio del 2019, a Palamara venne contestata la “corruzione propria per atto contrario”, articolo 319 codice penale, per avere ricevuto 40mila euro per la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la ‘ corruzione in atti giudiziari’, articolo 319 ter codice penale, per avere ricevuto dal faccendiere Fabrizio Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, viaggi e vacanze. La Procura generale della Cassazione, il ministro della Giustizia ed Consiglio superiore della magistratura fecero proprie le accuse dei pm di Perugia, contestando a Palamara gli stessi fatti e sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di un mese. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ad aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio, si cambiò registro. Scomparve il 319 e pure il 319 ter e compare il 318 del codice penale, "corruzione per l’esercizio della funzione". Sparirono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Nel senso letterale del termine, perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che avevano suscitato clamore mediatico nel cautelare disciplinare. A Palamara si contestarono viaggi e vacanze e lavori edili mai pagati eseguiti non a casa sua, ma a casa dell’amica Attisani. Queste utilità Palamara le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte”, da Centofanti. Sparirono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, a maggio 2019, erano il motore della corruzione, essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, a novembre 2020, si cambiò ancora. Rimase la corruzione per l’esercizio della funzione, ma si specificò che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. Lo scorso febbraio si cambiò per tornare al passato. Vennero contestati insieme, per non sbagliare ancora e per non farsi mancare nulla, gli articoli 318, 319 e 319 ter. Le utilità rimasero viaggi e vacanze e ristrutturazioni ( non si riesumano i 40mila euro della nomina di Longo e l’anello da 2mila euro), ricevute da Palamara “prima quale sostituto della Procura di Roma ed esponente di spicco dell’Anm fino al settembre 2014, successivamente quale componente del Csm” per una congerie di “attività” che vanno dall’acquisizione di “informazioni riservate”, non meglio indicate, sui “procedimenti in corso” a Roma e a Messina su Centofanti ma anche su Amara e Calafiore ( che però non sono imputati) e per la disponibilità ad influenzare le nomine del Csm ( ritorna il nome di Longo ma non i 40mila euro) e i procedimenti disciplinari ( ritorna quello del pm Marco Bisogni citato nel decreto di perquisizione del maggio 2019 anche se non nei capi di imputazione). Con atto fuori udienza della scorsa settimana, e si arriva all’ultima modifica, i pm umbri “viste le dichiarazioni di Centofanti” che evidentemente ritengono “prevalenti” su quelle fatte da Amara nel febbraio 2021 e che avevano determinato la quarta modifica, modificano dunque per la quinta volta le imputazioni, ritornando all’ipotesi meno lieve della corruzione per l’esercizio della funzione. In particolare, l’esercizio della funzione sarebbe stato posto in essere consentendo a Centofanti di “partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm… nei quali si pianificavano nomine” .. manifestando Palamara disponibilità ad acquisire “informazioni anche riservate sui procedimenti in corso a Roma e Messina che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore” ed infine “per la disponibilità del Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare … nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare”. 

Alessandro Sallusti contro la magistratura: "Un milione di euro, tentativo di estorsione nei miei confronti". Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. L'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto un milione di risarcimento per i "danni d'immagine" che il libro Il Sistema avrebbe procurato alla magistratura e al paese. Non so se il presidente Mario Draghi - pur con una sua autonomia l'Avvocatura dipende da Palazzo Chigi- sia stato consultato e abbia dato il suo assenso a una simile iniziativa senza precedenti in Italia (nessuno fino ad ora aveva messo sotto accusa un libro). Me lo chiedo perché gli avvocati dello Stato stanno mettendo in discussione in un colpo solo la libertà di espressione, quella di informazione e quella di stampa. Il libro Il Sistema infatti è la ricostruzione meticolosa e documentata di che cosa è avvenuto dentro la magistratura dal 2008 ai giorni nostri e di come questa "cosa" si sia incrociata con il mondo della politica e dell'informazione interferendo sul libero corso della democrazia. Il libro in questione è in libreria da sette mesi, da sette mesi è in testa alle classifiche di vendita, i suoi contenuti sono stati sviscerati in numerose trasmissioni televisive, animano molti dibattiti dell'estate italiana e lo Stato, sotto la guida di un liberale come Mario Draghi sostenuto da partiti altrettanto liberali a partire da Forza Italia, che fa? Chiede i danni, non ai magistrati come avrebbe avuto senso fare alla luce del discredito che hanno causato all'Italia, ma agli autori del libro, cioè a chi attraverso un lavoro serio e certificato ha permesso agli italiani di conoscere i misteri (e le nefandezze) del sistema giudiziario italiano. Tutto ciò dimostra come il libro Il Sistema abbia colto nel segno e quanto il sistema sia ben più ampio e ancora oggi radicato di quanto svelato da Palamara. Questo è un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara: colpirne due per educarne cento e scongiurare altre confessioni imbarazzanti. A me l'Avvocatura dello Stato non fa alcuna paura, neppure quando come in questo caso punta la pistola alla tempia di cittadini inermi in combutta con i magistrati colpiti e affondati da un ex, Palamara, sul quale pensavano di scaricare tutte le colpe e farla così franca. Cari avvocatucoli, per questa storia vale la famosa battuta rivolta da Humphrey Bogart - giornalista nel film L'ultima minaccia - al potente di turno che tentava di fermare una notizia scomoda: «Senta il rumore delle rotative che girano. È la stampa, bellezza, e voi non potete farci più nulla».

Tre ore di interrogatorio a Padova. Raffica di querele, Palamara indagato per il libro “Il Sistema”: denunciano Ielo ed Esposito. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Raffica di querele per Luca Palamara, lo “zar delle nomine”, l’uomo del terremoto nella magistratura, l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) rimosso dall’ordine per il caso sulle nomine pilotate ai vertici delle Procure. Questa volta, per tre ore di interrogatorio, è stato ascoltato dai pm di Padova che stanno indagando sulle querele arrivate nei suoi confronti da magistrati citati in Il Sistema, il libro intervista di Alessandro Sallusti, ex direttore de quotidiano Il Giornale e attuale direttore di Libero, a Palamara. Un vero e proprio caso editoriale. Alla settimana scorsa erano oltre 300mila le copie vendute. Diversi magistrati si sono però sentiti diffamati dalle rivelazioni di Palamara. Si tratta di Paolo Ielo, Procuratore Aggiunto di Roma; Piergiorgio Morosini, ex gip del processo Stato-mafia e giudice del Csm; Giuseppe Cascini, membro togato del Csm ed esponente di punta della corrente di sinistra; Antonio e Ferdinando Esposito, padre e figlio, il primo ex presidente di sezione della Cassazione in pensione e il secondo ex pm di Milano ed ex giudice di Torino, radiato lo scorso anno dalla magistratura. Il Procuratore di Padova – l’inchiesta è stata assegnata lì perché il libro, edito da Rizzoli, è stato stampato in una tipografia della provincia veneta – Antonio Cappelleri ha assegnato i fascicoli ai suoi Sostituti, Valeria Spinosa, Marco Peraro e Andrea Zito. Il Procuratore Aggiunto di Roma Ielo si è sentito diffamato dal racconto di una cena organizzata nel 2014 a casa sua, alla quale era presente anche l’allora Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. Cena probabilmente per siglare, a quanto raccontato da Palamara, un patto e creare “un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di Pignatone…”. La querela di Antonio Esposito fa invece riferimento alla sentenza della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a quattro anni, di cui tre indultati, per frode fiscale. Il caso ruota intorno ad Amedeo Franco e alle sue “preoccupazioni per il modo anomalo in cui si era formato il collegio giudicante sia per le pressioni che si si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna”. L’azione di Ferdinando Esposito si riferisce invece a rivelazioni con frequentazioni con “un’indagata, Nicole Minetti” e “per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi, il quale con la procura di Milano qualche conto aperto lo aveva”. Aperte tre diverse inchieste, indagini penali. “Considerato che su queste vicende ci sono molti riflettori puntati, ho deciso di optare per la casualità dell’assegnazione dei fascicoli. A mano a mano che arrivano vengono così smistati sulla base del turno automatico, in modo da non concentrare tutto su un unico magistrato e preservare le indagini da strumentalizzazioni esterne”, ha spiegato al Corriere della Sera Cappelleri. Le querele degli Esposito fanno parte dello stesso fascicolo. Le altre sono fascicoli autonomi. È già polemica sulla vicenda: molti si chiedono a quali correnti appartengono i pm che stanno indagando.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il caso. È avvocato del boss, per i magistrati è mafiosa: ad Annamaria Marin 8 mesi e contestato il 416bis. Angela Stella su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Sempre più spesso nell’immaginario collettivo, ma soprattutto in quello della magistratura requirente, l’avvocato viene percepito e perseguito perché si sostiene che la sua funzione di difensore si trasformi in quella di fiancheggiatore dell’assistito. Da qui spesso anche un uso illegittimo delle intercettazioni tra legale e cliente. Se per l’opinione pubblica il difensore è molto spesso rappresentato come un azzeccagarbugli che vuole farla fare franca al colpevole, per alcune procure diviene il sodale dell’organizzazione criminale. Ogni caso è a sé stante ma esiste comunque un problema culturale nella giurisdizione su tale fenomeno. Oggi vi parliamo della vicenda dell’avvocata Annamaria Marin, condannata in primo grado nell’ambito dell’inchiesta contro il clan dei casalesi di Eraclea che, secondo la Procura di Venezia, avrebbe spadroneggiato per un ventennio nel Veneto orientale. I pm le avevano contestato il favoreggiamento personale con l’aggravante mafiosa per aver aiutato tre membri dell’organizzazione criminale, tra cui il boss Luciano Donadio che ha scelto il rito ordinario, «ad eludere le investigazioni dell’Autorità nei loro confronti fornendogli indebitamente informazioni acquisite in virtù del mandato difensivo esercitato in favore di altri ovvero di informazioni acquisite illegalmente ovvero divulgando informazioni che debbono rimanere riservate» e per aver agevolato l’attività di una associazione mafiosa. Accuse pesantissime per l’avvocata – professionista molto nota ed ex presidente della Camera penale di Venezia – soprattutto per la contestazione del 416bis. Il gup l’ha condannata a 8 mesi, rispetto ai due anni richiesti dell’accusa, per uno solo dei cinque episodi contestati (uno è andato in prescrizione, per gli altri tre è stata assolta perché il fatto non sussiste). Il gip già nel 2009 aveva respinto la richiesta dei pm di sospenderla dalla professione, così come ha fatto il collegio di disciplina del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Per il suo legale, l’avvocato Tommaso Bortoluzzi, la vicenda «mostra il pregiudizio secondo cui il difensore viene assimilato al suo cliente, sovrapponendosi ad esso ed evidenzia una grave lesione del diritto di difesa». Infatti «leggendo le motivazioni della sentenza ci accorgiamo che in nessun passaggio viene presa in considerazione la documentazione da noi prodotta a difesa della collega Marin che andava perfettamente ad incidere sui profili di responsabilità. Metà delle prove da noi prodotte riguardavano proprio il reato per il quale è stata condannata. Ma dalla sentenza sembrerebbe che io non abbia mai partecipato a questo processo perché quello da me detto e allegato non è stato minimamente affrontato». Al contrario, «il gup riprende tutte le argomentazioni del pubblico ministero, anche extra probatorie». L’avvocato Bortoluzzi fa riferimento al fatto che addirittura «il capo di imputazione conteneva anche un episodio verificatosi nell’anno 2002, che, pur se prescritto, è stato inserito a presunta dimostrazione della serialità dei comportamenti illeciti della mia assistita. L’episodio medesimo, peraltro, è riportato nella richiesta di emissione dell’ordinanza cautelare, nell’ordinanza di rigetto della richiesta stessa, nell’invito a rendere interrogatorio e, da ultimo, nella richiesta di rinvio a giudizio». Nello specifico la Marin è stata condannata per aver rivelato a Donadio che avrebbero fatto una perizia sulle armi sequestrate al suo sodale Furnari. «L’aspetto folle è che qualche ora prima di questa comunicazione era stato pubblicato un articolo su uno dei giornali locali più letti in cui un dirigente della squadra mobile diceva la stessa cosa. Pertanto la notizia era pubblica e la mia assistita non stava comunicando illegalmente nessuna informazione che avrebbe potuto alterare le indagini ancora in corso. Se l’avvocato Marin ha commesso favoreggiamento, allora anche il dirigente della Mobile deve essere accusato dello stesso reato». Inoltre l’hanno accusata di aver ricevuto il mandato a difendere Furnari da Donadio al di fuori delle norme di legge. «Peccato – dice l’avvocato – che io abbia prodotto il fax ricevuto dalla Procura in cui era il fratello del Furnari a nominare la Marin. Ma anche questo elemento è come se non fosse mai stato prodotto». Per quanto concerne l’annosa questione delle intercettazioni tra avvocato e cliente, che per legge sono – anzi sarebbero vietate – nel caso dell’avvocato Marin «lei è stata indirettamente intercettata perché erano sotto controllo alcuni dei suoi interlocutori: nella sentenza c’è scritto che siccome formalmente non erano suoi clienti le intercettazioni sono state ritenute legittime. Il gup, per far emergere l’associazione mafiosa, in sentenza ha scritto che Donadio, il boss, si preoccupava di trovare l’avvocato per tutti i sodali, ossia la Marin, per avere un controllo totale sulle investigazioni e tenere a bada i complici. Ma il nostro codice deontologico, prevedendo che la parcella dell’assistito possa essere pagata da un’altra persona, consente a quella stessa persona di conoscere gli sviluppi della causa: in questo caso Donadio era cliente pagante per altri, ma la sentenza non ha messo in luce questo elemento che è importante perché avrebbe potuto avere anche dei risvolti sull’utilizzabilità delle intercettazioni». In conclusione l’avvocato Bortoluzzi rileva che «sicuramente esiste il problema dell’utilizzo delle intercettazioni tra legale e assistito: cercare in tutti i modi qualche scappatoia per consentirle, dando ad esempio una diversa qualità al difensore, ha alla base una distorsione culturale del ruolo dell’avvocato. I pubblici ministeri primi e i giudici poi dovrebbero rispettare di più la nostra funzione. Probabilmente inserire l’avvocato in Costituzione potrebbe essere un segno importante». Angela Stella

Dopo il caso Sansonetti. Napoli, boom di querele e minacce contro giornalisti: a rischio la libertà di stampa. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Quando non è la minaccia, che da queste parti proviene quasi sempre da personaggi legati alla camorra, sono le querele temerarie, quelle dei politici o di altri centri di potere, a porre ostacoli al lavoro dei giornalisti, al diritto di cronaca e di critica. Negli ultimi sei anni il fenomeno è enormemente cresciuto. Basti pensare che la spesa affrontata dallo sportello antiquerele del Sindacato unitario giornalisti della Campania, nato a metà del 2015, è aumentata del 900%. «Nel 2016 la spesa sostenuta per dare sostegno ai colleghi querelati o minacciati ammontava a 2mila euro – spiega Claudio Silvestri, segretario del Sugc – Nel 2017 era già schizzata a circa 10mila euro e oggi rappresenta quasi il 10% del nostro bilancio, circa 20mila euro, una cifra altissima». Il 2020, l’anno del lockdown, è stato paradossalmente l’anno del boom delle minacce ai giornalisti: il dato è emerso nel corso del più recente incontro con il prefetto di Napoli Marco Valentini. Attualmente il sindacato sta dando sostegno a venti giornalisti vittime di querele temerarie e in dieci processi è parte civile al fianco di cronisti minacciati e costretti a vivere sono scorta o sotto tutela. Le venti querele che, in meno di un anno, alcuni magistrati hanno presentato contro il nostro direttore Piero Sansonetti per gli articoli di critica nei confronti di una parte della magistratura italiana pubblicati su Il Riformista, oltre quella che nei giorni scorsi il presidente della Regione Vincenzo De Luca ha presentato contro il quotidiano la Repubblica per gli articoli di inchiesta sull’affidamento del servizio tamponi durante la prima fase dell’emergenza Covid, sono soltanto gli ultimi episodi in ordine di tempo. Le statistiche evidenziano quanto, in questo periodo storico, l’indipendenza e l’autonomia dei giornalisti siano minacciate e ostacolate. «In Campania le querele arrivano soprattutto da politici – spiega il segretario del Sindacato unitario dei giornalisti – Nella quasi totalità dei casi si tratta di querele temerarie, che non si basano su nulla e servono solo a fermare i giornalisti per fare in modo che abbandonino il loro lavoro di inchiesta. La querela – aggiunge Silvestri – è uno strumento semplicissimo da utilizzare e un bavaglio a costo zero: chi denuncia non rischia niente e non spende niente, mentre chi viene denunciato è costretto ad affrontare una serie di spese per difendersi da accuse destinate a essere archiviate oppure a finire al centro di processi che durano anni e anni e sono come una spada di Damocle. Purtroppo questa delle querele temerarie non è l’eccezione, ma la prassi. E le vittime sono spesso i colleghi più fragili, quelli che lavorano sui territori, i corrispondenti dai piccoli Comuni. L’effetto è devastante perché rischia di ledere il diritto di cronaca del giornalista e il diritto del cittadino di essere informato». Sul piano normativo la situazione è arenata. «Tutti i progetti di legge per limitare le querele temerarie sono finiti in un cassetto e quelli che vengono discussi non arrivano in Parlamento, non vengono messi ai voti, perché c’è una volontà della politica di non occuparsi della questione», afferma Silvestri che con il sindaco ha più volte sollecitato una legge contro le querele temerarie. «Ma le iniziative vanno a cadere. – aggiunge il segretario del Sugc – Quando si tratta di apparire sui giornali, il politico di turno è sempre pronto a sostenerci, ma quando si tratta di votare e portare una legge al completamento dell’iter per essere votata in Parlamento, tutto diventa complicato». Dalla querela al carcere il passo per i giornalisti può non essere tanto lungo. Il Sindacato unitario della Campania è stato il primo a sollevare una questione di incostituzionalità della norma che prevede il carcere per il giornalista condannato e l’ha fatto in un processo per diffamazione a Salerno. Quell’iniziativa ha poi stimolato altri ricorsi, ma anche in questo caso una modifica alla legge sulla stampa non è arrivata. A giugno dello scorso anno la Corte Costituzionale, presieduta proprio dall’attuale ministro Marta Cartabia, aveva rilevato profili di illegittimità della norma rimandando al Parlamento un’iniziativa legislativa. Il termine scade tra due mesi. «Il paradosso – conclude Silvestri – è che le proposte alternative che stanno circolando in Parlamento sono altrettanto rischiose per i giornalisti perché prevedono maxi-risarcimenti con cifre che non stanno né in cielo né in terra».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'assalto giudiziario. Giudici e Pm non possono essere criticati: la casta degli intoccabili che intimidisce il Riformista. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Caro Direttore, ho letto nei giorni scorsi che negli ultimi dodici mesi sei stato raggiunto nella tua qualità di direttore de Il Riformista da oltre venti querele per diffamazione a mezzo stampa. La cosa in sé non mi ha impressionato, chi fa bene il mestiere di giornalista, verificando e poi raccontando la verità su fatti e persone, quali ne siano il loro ruolo e l’importanza, è inevitabilmente esposto al rischio di essere querelato, non fosse altro che a titolo intimidatorio. Ciò che mi ha stupito e inquietato è che le querele siano state presentate da altrettanti magistrati, cioè soggetti che svolgono il ruolo istituzionale di tutori della legge, in primo luogo dei diritti costituzionali di libertà, tra cui il diritto di informare e di essere informati. Come a dire che quel diritto non trova applicazione nei confronti di una casta privilegiata formata da giudici e pubblici ministeri che si ritengono intoccabili e per i quali non opera il diritto di cronaca e di critica. Sono certo che questa concezione di casta è estranea alla stragrande maggioranza dei magistrati, ma resta il fatto oggettivo di quelle venti e più querele che ti hanno raggiunto e che verranno giudicate da colleghi dei querelanti. Ho iniziato la collaborazione con Il Riformista da poche settimane, ne sono pienamente soddisfatto e vorrei continuare a lungo, sono certo che non ti farai intimidire da un gruppetto di magistrati presuntuosi. Guido Neppi Modona

Scarpinato: “La politica mette museruola ai Pm”. Ma intanto lui prova a metterla ai giornalisti…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Commemorando Rocco Chinnici – valoroso magistrato palermitano ucciso dalla mafia 37 anni fa, alla fine di luglio – il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha polemizzato, come ogni tanto gli succede, contro la politica che cerca sempre, secondo lui, di mettere la museruola ai magistrati. Ricopio alcune delle frasi che ha pronunciato Scarpinato, riprese dalle agenzie di stampa: «Un mondo politico che da tempo ha interessi a mettere la museruola alla magistratura (…) a subordinare la magistratura al potere esecutivo». «Il vero cambiamento nella magistratura avverrà all’interno della magistratura o non avverrà (…) occorre una autoriforma». Mi ha colpito questo discorso di Scarpinato, per due ragioni. Innanzitutto perché trovo improprio paragonare questi tempi a quelli (anche se non sono sicurissimo dell’intenzione di Scarpinato, che è vecchio quanto me, di paragonare oggi e ieri). Comunque lo si fa spessissimo, nella corrente polemica politica italiana. Basta pensare a un magistrato al quale sono particolarmente legato, come Nicola Gratteri, che ama accostare la sua figura a quella di Falcone. È un errore, perché in questo modo si violenta la storia. E ai giovani si consegna una idea paludata e distorta di quella che fu la battaglia contro la mafia negli anni di Chinnici e Falcone. Combattere la mafia, o più semplicemente indagare sulla mafia, trenta o quarant’anni fa era un’impresa temeraria. Ci si lasciava la pelle. Oggi ti applaudono: i giornali, i politici, ti chiamano in Tv, ti onorano. In quegli anni di fuoco ti tiravano tutti addosso, ti lasciavano solo, ti mettevano il silenziatore, ti esponevano a tutte le vendette. I magistrati, e anche i politici impegnati, e anche i giornalisti, cadevano come mosche. Chinnici, Costa, Terranova, e poi Dalla Chiesa, che era un carabiniere, De Mauro, che era un giornalista, e tanti leader della Dc e del Pci, sindacalisti, preti. I giornalisti che si occupavano di mafia erano pochi ed emarginati. Quelli de l’Unità, di Paese Sera, de l’Ora di Palermo. Pochi altri. I grandi giornali dubitavano persino che la mafia esistesse. Oggi le cose sono cambiate abbastanza; un giornalista che vuole un po’ di spazio sul palcoscenico ha bisogno della patente antimafia, e per ottenerla deve convincere un magistrato a concedergliela, o una delle tante associazioni ufficiali, o i 5 Stelle, o la Bindi. Gli stessi Pm fanno a gara per ottenere il timbro di antimafia sulle loro inchieste, sennò le inchieste valgono poco ed è anche più difficile portarle a termine, perché non si può ricorrere a tutti quegli strumenti che rendono le indagini più facili (trojan, intercettazioni, carcere duro, pentiti eccetera).  Pensate a “mafia capitale”, un giro di tangenti spacciato per il regno di Luciano Liggio. Conviene fare così: poi in Cassazione te lo smontano, ma intanto è andata. È una cosa molto scorretta, dal punto di vista politico e storico, accostare l’antimafia da operetta di oggi a quella feroce ed eroica dei primi quattro decenni del dopoguerra. La seconda ragione per la quale mi ha colpito questo intervento di Scarpinato è la parola «museruola». Mi sono chiesto: cosa intende per museruola Scarpinato? Qualcuno può citarmi delle inchieste avviate dalla magistratura e bloccate dalla politica? Può anche darsi che ci siano, ma io non le conosco. I principali partiti di governo di questi ultimi 25 anni, eccetto i 5 Stelle, sono stati tartassati dalle inchieste giudiziarie. Decine di esponenti politici sono stati azzerati e poi magari risultati innocenti. Alcuni partiti sono stati dimezzati. Silvio Berlusconi è stato messo sotto inchiesta quasi cento volte. Dov’era la museruola? E con che mezzo veniva applicata? L’ultima inchiesta su mafia e intrecci con il potere politico ed economico che io ricordi, e che è stata archiviata, è quella su mafia e appalti, avviata da Falcone e Borsellino, condotta dal generale Mori e poi archiviata dalla Procura di Palermo. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Falcone e Borsellino finirono uccisi, il generale Mori è vivo ma lo hanno messo quattro volte sotto processo, tre volte è stato assolto, la quarta è ancora in corso. Ha ragione Scarpinato, forse, in questo caso – ma è un caso di molti anni fa – può darsi che in quella occasione la politica premette per mettere la museruola. Io non posso saperlo.  Scarpinato invece può saperlo, perché fu lui a firmare la richiesta di archiviazione di quella inchiesta, appena pochissimi giorni prima della morte di Borsellino, che invece chiedeva che quella inchiesta gli fosse assegnata. Se in quel caso ci sono state pressioni, allora Scarpinato dovrebbe denunciarle. Dire: questi esponenti politici, questi partiti, questi imprenditori ci hanno chiesto di farla finita. Altrimenti non capisco a quale altra inchiesta possa riferirsi. Comunque la questione della museruola mi lascia molto perplesso anche per un’altra ragione. Insieme al mio amico Damiano Aliprandi, quando lavoravamo per il quotidiano Il Dubbio, scrivemmo alcuni articoli proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Argomento interessantissimo. Specialmente in relazione alla morte di Borsellino. Perché nel processo in corso a Palermo, contro il generale Mori, si sostiene che Borsellino fu ucciso per dare spazio alla trattativa Stato-Mafia. L’impressione mia e di Damiano era invece che il motivo fosse l’altro: bloccare il dossier mafia e appalti.  Non so chi abbia ragione. So che in quegli articoli domandammo proprio a Scarpinato di spiegare il perché della decisione di chiedere l’archiviazione (concessa poi, molto rapidamente, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno: stiamo parlando del 1992). Scarpinato però non ci rispose, anzi ci querelò. Cioè chiese ai suoi colleghi giudici di processarci e di condannarci. Siamo stati rinviati a giudizio. Il processo è in corso, la pena massima prevista con tutte le aggravanti (se critichi un magistrato la pena aumenta di un terzo) può arrivare a sette anni. Ed essendo io un anziano signore di quasi settant’anni, vi dirò che mi secca parecchio l’idea di dover restare in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni per aver fatto una domanda al dottor Scarpinato. (Per Damiano è diverso: lui ha poco più di trent’anni e a quaranta sarà fuori e potrà rifarsi una vita. Magari diventerà cancelliere…). E allora qui mi torna nelle orecchie quella parolina: museruola, museruola. Sapete, io colleziono querele di magistrati. Qualche nome? Scarpinato, appunto, Lo Forte, Gratteri, Di Matteo, Davigo (due volte), un altro membro del Csm che si chiama Marra, e poi naturalmente l’ex giudice Antonio Esposito e qualcun altro che adesso non ricordo. Voi sapete che se ti querela un politico puoi stare tranquillo, perché al 90 per cento vinci. Se ti querela un imprenditore vinci uguale. Se ti querela un magistrato le possibilità di non perdere sono tra l’1 e il 2 per cento. Più probabile l’1. A prescindere da quello che hai detto o scritto. Perché i magistrati querelano chi li critica? Non è difficile da capire: per intimidire. Peraltro ci riescono facilmente. L’idea è che la magistratura, per svolgere serenamente il proprio lavoro, per non dover sottostare alle pastoie dell’eccessivo garantismo, deve essere protetta dalle critiche. Capisco persino qual è il senso di questa idea (e capisco che possa essere ispirata da un modo un po’ contorto di coltivare il proprio senso del dovere). Su una cosa però non ho dubbi: nulla lede la libertà di stampa più di questa continua, incessante, opprimente attività intimidatoria e vessatoria di alcuni magistrati. Contro la quale non ci sono difese. O accetti la museruola, guaisci un po’ e poi ti inchini, o loro non ti mollano più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Venti querele dai pm, rischiamo di chiudere". Sabrina Cottone il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Il direttore Sansonetti: "E quando un giudice deve decidere su un collega...." Non si sa se è un record. «Siamo arrivati a venti querele tutte di magistrati» racconta Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista. In prima pagina ha titolato: «Vogliono farci chiudere?». Lo crede davvero? «No, ma rimani solo, perché l'Ordine e i sindacati dei giornalisti si muovono subito se ad attaccare sono i politici ma con i magistrati sono molto, molto più cauti (è un eufemismo, ndr). Sono anche stato censurato». Carlo Verna, presidente dell'Ordine, dice che «il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo». Il giornalista replica: «Mi insulta, farò un esposto contro di lui». La vicenda più attuale riguarda le ultime due querele, legate alle stragi di mafia del 1992, alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma soprattutto al misterioso dossier mafia-appalti. Sono arrivate dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e da Guido Lo Forte e sono un doppione: è la seconda volta che i due magistrati querelano Sansonetti per la medesima questione. Oggi come allora, il giornalista aveva chiesto loro perché nel 1992 archiviarono il dossier mafia-appalti, sul quale Falcone lavorò e continuò a vigilare anche dopo il suo trasferimento a Roma al ministero della Giustizia. «Ho usato "insabbiato" al posto di "archiviato"» ammette Sansonetti, ma «è gergo giornalistico» e «chiunque sa che una querela di un magistrato ha tra le 95 e le 100 possibilità su cento di essere accolta, il valore di intimidazione è evidentissimo». Ma che cos'è esattamente il dossier mafia-appalti? «È il dossier avviato da Falcone che ricostruisce i rapporti tra alcune grandi aziende italiane e aziende economiche di mafiosi siciliani. I Ros guidati dall'allora colonnello Mario Mori, uomo di fiducia di Dalla Chiesa che lo portò in Sicilia dove lavorò con Falcone, avevano trovato molte relazioni tra aziende del Nord e la mafia. Quando Falcone andò a Roma, Mori continuò a lavorare e lo consegnò alla Procura di Palermo». Il susseguirsi degli eventi, per chi non lo ricorda, è incalzante: «Il 13 luglio del 1992 (la strage di Capaci è del 23 maggio, ndr) Scarpinato e Lo Forte redigono la richiesta di archiviazione del dossier. Il 14 il procuratore Giammanco convoca una riunione di sostituti e aggiunti, alla quale Scarpinato non partecipa, durante la quale Borsellino mostra grande interesse per il dossier e chiede di convocare una riunione per decidere come far proseguire le indagini. Il 19 mattina, secondo la testimonianza della moglie Agnese, Borsellino viene informato da Giammanco, allora procuratore capo a Palermo, che gli avrebbe affidato il dossier. Dopo pranzo è ucciso con la scorta in via D'Amelio. La richiesta di archiviazione viene poi depositata ufficialmente il 22 luglio». Perché? «Scarpinato sostiene che non sapeva alcune cose di questo dossier, le più importanti, perché i pentiti non avevano informato direttamente lui, ma il pm che indagava con lui». Oltre alla querela, resta la domanda: perché un dossier tanto caro a Falcone e Borsellino è stato archiviato ufficialmente due mesi dopo la morte di Falcone e tre giorni dopo la morte di Borsellino?

L'assalto giudiziario. Vogliono chiudere il Riformista, offensiva intimidatoria dei Pm contro il nostro giornale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Ieri mattina, verso le 9, ha suonato alla mia porta un vigile urbano gentilissimo. Mi ha consegnato una busta verde. Era una notifica, veniva dalla procura di Lodi. L’ho aperta. Era un avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Mi sono un po’ innervosito. Cinque minuti dopo hanno suonato di nuovo. Di nuovo il vigile, di nuovo gentilissimo, di nuovo una busta verde. Era l’ avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela dell’ex Pm palermitano Guido Lo Forte. Ho detto: vabbè. Dopo mezz’ora il postino mi ha portato due raccomandate. Venivano dall’Ordine dei giornalisti. Riguardavano dei provvedimenti disciplinari dell’Ordine contro di me. Il primo era – per mia fortuna – di archiviazione. Il secondo di censura. Il primo, da quello che ho capito, era stato sollecitato da un giornalista del Corriere della Sera (Bianconi, suppongo), il secondo dall’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito. Bianconi si lamentava per un articolo del Riformista nel quale si riferiva di una sua telefonata nella quale il giornalista avvertiva Luca Palamara che erano state aperte delle indagini su di lui, quando queste indagini erano ancora segrete. Il Consiglio di disciplina dell’ordine ha accertato che il fatto è vero, ci sono i file audio sequestrati a Palamara, e dunque ha dovuto archiviare. Anche perché Bianconi è un semplice giornalista, non è un magistrato (spesso i giornalisti confondono le due funzioni, ma i privilegi sono riservati solo ai magistrati effettivi) e dunque non ha diritto a trattamenti di favore. Il secondo esposto invece è stato in larga parte accolto ed è stata decisa a mio carico una censura, che è una misura grave, specialmente per un direttore di giornale. L’episodio al quale ci si riferisce è abbastanza famoso: Il Riformista, l’estate scorsa, pubblicò il ricorso in sede europea (alla Cedu) degli avvocati di Berlusconi contro la sentenza che lo condannava a quattro anni di detenzione per evasione fiscale. Gli avvocati di Berlusconi in quel ricorso riferivano di un colloquio (registrato) con il giudice relatore in Cassazione (il giudice Franco), il quale spiegava che quella sentenza fu “una porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”. E poi esponevano i risultati di un processo civile nel quale era coinvolto Berlusconi (processo Mediatrade) , la cui sentenza era inconciliabile con la sentenza della Cassazione, emessa dalla sezione feriale presieduta dal dottor Antonio Esposito (autore dell’esposto oggi in pensione ed editorialista del Fatto Quotidiano). Il Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti ha stabilito – anticipando la sentenza che sarà emessa dalla Corte Europea – che la sentenza civile alla quale si riferiscono gli avvocati di Berlusconi non ha niente a che vedere con il processo sull’evasione fiscale e che io avrei dovuto dirlo, cioè che avevo il dovere di contestare il ricorso di Berlusconi e non potevo limitarmi a riferire. Il giornalista, secondo questa interpretazione, prima di raccontare deve giudicare, prima di fare il cronista deve fare il giudice. L’idea del giornalista giudice non è nuovissima, inizia però a strutturarsi. Ora sospendo il ragionamento sulla censura ricevuta dall’Ordine dei giornalisti (lo riprendo alla fine di questo articolo) per spiegare le querele di Scarpinato e Lo Forte. La questione è molto semplice. In varie occasioni io, su questo giornale e precedentemente sul Dubbio, ho sollevato la questione dell’archiviazione del dossier mafia-appalti (che adesso vi spiego cos’è) avvenuta a Palermo subito dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e lo sterminio della sua scorta nel 1992. Il dossier era il risultato di una indagine importantissima, avviata da Giovanni Falcone e realizzata dal Ros dei carabinieri guidato dal generale Mario Mori. Gettava luce sui rapporti tra mafia (non solo quella corleonese), imprese e grande finanza del Nord e rappresentava una vera bomba atomica nella storia delle indagini antimafia (in quegli anni l’antimafia era ancora una cosa seria, e anche molto costosa e dolorosa, perché chi la praticava spesso pagava molto caro il suo sforzo, talvolta anche con la vita). Quel dossier doveva finire nelle mani di Paolo Borsellino, che più volte aveva chiesto di potersene occupare e ne aveva parlato con diversi suoi colleghi, tra i quali Antonio Di Pietro. Forse quel dossier era stata una delle ragioni per le quali la mafia aveva condannato a morte Giovanni Falcone. Forse anche uno dei moventi della strage di via D’Amelio nella quale perse la vita Borsellino. Il dossier mafia-appalti invece fu archiviato. La richiesta di archiviazione viene redatta il 13 luglio del 1992 da Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Il giorno successivo il Procuratore di Palermo Giammanco convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, tra i quali Borsellino, e in quella sede, secondo le testimonianze rese al Csm da diversi magistrati che erano alla riunione, Borsellino mostrò interesse per il dossier, chiese che si convocasse una riunione apposita nei giorni successivi per discutere come far procedere le indagini, ma nessuno gli disse che il dossier era sul punto di essere archiviato. Il 19 luglio – questa non è una cosa certa ma ci sono varie testimonianze che lo sostengono – di prima mattina Giammanco informò Borsellino che gli sarebbe stato assegnato il dossier. Ma alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso. Il 23 luglio viene depositata la richiesta di archiviazione del dossier del Ros. Il 14 agosto, alla vigilia di Ferragosto, in grandissima fretta, il dossier è archiviato dal Gip. Ho chiesto varie volte il perché di questa archiviazione, che probabilmente ha compromesso il buon esito delle indagini antimafia e ha vanificato il lavoro, soprattutto, del generale Mori. La stessa richiesta che ho fatto io è stata in più occasioni ripetuta dalla signora Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo Borsellino. Non mi è stato risposto. Mai. Neanche alla signora Borsellino è stato risposto. La quale recentemente ha dichiarato: «Ci sono magistrati che continuano a negare l’interessamento di mio padre per il dossier mafia-appalti che invece era il pallino di mio padre. Persone come Scarpinato, che continua a dire che mio padre non era interessato». Invece, dice la signora Borsellino, suo padre era massimamente interessato e forse ha pagato anche per questo con la vita. Quale è stata la risposta di Scarpinato e Lo Forte alle mie domande? Mi hanno querelato. Mi hanno portato a processo davanti al tribunale di Avezzano. Il processo è in corso. E ora, mentre il processo è in corso, mi hanno querelato di nuovo e la Procura di Lodi mi informa che le indagini sono chiuse. Probabilmente dovrò rispondere in ben tre processi di avere chiesto a due magistrati perché hanno archiviato le indagini sulla mafia che Paolo Borsellino voleva condurre. Mi sarei accontentato di una risposta semplice. Potevano dirmi: “Perché quel dossier non valeva nulla e Falcone e Borsellino avevano preso un abbaglio”. Può anche darsi che sia così. Nessuno è infallibile. Ma allora perché non dirlo e chiedere invece che sia chiusa la bocca a un giornalista (anzi a due, perché insieme a me è a processo anche il bravissimo Damiano Aliprandi, giornalista del Dubbio). Ora, il problema che vi pongo è questo. Da quando dirigo il Riformista ho ricevuto più di venti tra querele e azioni civili contro di me e contro il giornale. Tutte da magistrati. Soprattutto da magistrati o ex magistrati importanti. Ne cito solo qualcuno: Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Caselli, Esposito, Davigo, Di Matteo (Di Matteo però per una cosa precedente) Sturzo e vari altri. Venti procedimenti giudiziari, dei quali almeno un terzo penali e dunque con la possibilità di essere ripetutamente condannato al carcere, sono tanti. Specialmente per la circostanza, nota, che è difficilissimo che un magistrato perda un processo. Se ti querela un politico, stai tranquillo: perderà e dovrà anche risarcire. Se ti querela un magistrato hai già perso. Mi chiedo: questo accerchiamento è un tentativo di chiudere il Riformista? Di metterlo in condizioni di dover tacere? Il Riformista, lo sa chiunque ormai, è quasi l’unico giornale che da un anno e mezzo combatte senza riguardi una lotta a viso aperto contro le sopraffazioni della magistratura, contro le illegalità, contro l’orgia del potere dei Pm. E denuncia l’esistenza del partito dei Pm, quello descritto piuttosto bene nel libro di Luca Palamara che, in passato, ne è stato uno dei capi. Devo pensare che il partito dei Pm, stressato dal caso Palamara (praticamente ignorato dalla grande stampa) si sente in pericolo solo per la voce flebile di questo piccolo quotidiano? Pensa di non potersi permettere che esista un giornale che continua a protestare, e intende adoperarsi per farlo chiudere? Quel che mi colpisce è che di fronte a questa ipotesi non succede quello che si potrebbe immaginare: che l’Ordine dei giornalisti, o il sindacato, intervenga a difesa della libertà di stampa. Succede il contrario: l’Ordine dei giornalisti dichiara in modo esplicito che sta dalla parte dei magistrati. Come nelle peggiori favole dei fratelli Grimm. Riusciranno a farci tacere? Non credo. Intanto andiamo a fare questi tre processi con Scarpinato e Lo Forte.

Piero Sansonetti

Verna si schiera con i magistrati, giornalismo sottomesso alle Procure. Atto intimidatorio e minaccia dell’Ordine dei giornalisti contro il Riformista: i Pm non si toccano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Dopo la nostra denuncia dell’aggressione che stiamo subendo dal partito dei Pm (più di 20 querele di magistrati in un anno) abbiamo ricevuto moltissime dichiarazioni di solidarietà. Ci è mancata la solidarietà dell’Ordine dei giornalisti che invece, con una dichiarazione del suo presidente, che si chiama Carlo Verna, si è schierato decisamente dalla parte dei magistrati. Ha detto che se uno fa cattivo giornalismo le querele se le merita. Ha detto che se un giornalista riferisce di un ricorso di Berlusconi contro un magistrato si merita di ricevere la censura dell’Ordine. Ha anche detto, di me, che sfido il ridicolo, usando un linguaggio che fin qui raramente avevo visto nelle esternazioni dei presidenti degli ordini professionali. Diciamo che Verna ha lanciato un avvertimento: state un po’ zitti, smettetela di criticare la magistratura, e vedrete che non succede niente. Se invece volete fare i pierini, sarete bastonati. Ricevuto. In parte lo immaginavo. Non è da oggi che denuncio la sottomissione del giornalismo italiano alle Procure. Non presenterò un esposto all’Ordine contro Verna per il modo maleducato con il quale si è espresso nei miei confronti. Mi piacerebbe invece sapere se negli organismi dirigenti dell’Ordine esiste unanimità intorno all’atteggiamento del Presidente. Per il resto prendo atto del nuovo atto intimidatorio e dell’evidente minaccia che viene mossa nei miei confronti. Vi dico subito: ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45. Mica mi intimidiscono tanto facilmente.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Informazione e regime. Il Riformista è sotto attacco, “Noi lo difendiamo”. Ondata di solidarietà a Sansonetti. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il Riformista è sotto attacco. Non si tratta di gridare al complotto né tantomeno di lanciare un allarme ingiustificato: il direttore Piero Sansonetti ha ricevuto due querele, una dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, l’altra da un ex magistrato celebre come Guido Lo Forte. Il numero delle querele arriva così a 20. Eppure «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», recita l’articolo 21 della Costituzione. E forse proprio di questo articolo si è dimenticato l’Ordine dei giornalisti del Lazio che ha fatto pervenire a Sansonetti un provvedimento di censura. Come se non bastasse, a rincarare la dose è stato il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, che giudicato la questione sollevata dal direttore del Riformista come «un ragionamento di complottismo che sfida il ridicolo». «Chi ha sbagliato deve pagare – ha aggiunto Verna – Io posso intervenire solo in un caso clamoroso, ma non per ogni querela normale dove uno si ritiene diffamato. Resto basito dal pezzo di Sansonetti». Basiti, però, sono rimasti anche alcuni colleghi giornalisti che, seppur con idee diverse da quelle del direttore di questo giornale, restano convinti della necessità di tutelare la libertà di stampa. 

Mario Giordano si è schierato apertamente: «Credo che quella delle querele intimidatorie sia una questione serissima in questo momento. Piero Sansonetti ha ragione, ormai è diffuso l’uso della querela a scopo intimidatorio, solidarietà totale a lui perché il suo è un giornale che ha delle idee, fa delle domande, solleva delle questioni importanti che aiutano tutti. Anche quelli che non la pensano come lui, come me, che non sono quasi mai d’accordo con lui».

Anche Nicola Porro, ha sottolineato la gravità del querelare giornalisti come se fosse normale: «Lo strumento delle querele è mostruoso perché anche se si ha la certezza di perdere la causa, si utilizzano a scopo intimidatorio. Se poi – sottolinea – uno dei presunti offesi è un magistrato o una persona molto importante il rischio di dover pagare è maggiore. E questo è un grandissimo freno ai nostri tasti». Infine, anche Sigfrido Ranucci ha voluto sottolineare la condizione del giornalismo italiano di oggi: «Finché c’è un sistema che consente di non pagare nulla a chi fa esposti o denunce ai giornalisti, io credo che la democrazia avrà un bavaglio per sempre. Si è cominciato da un po’ di tempo a colpire quei giornali non omologati, le voci che non sono nel coro». Perché si sa, una voce fuori dal coro infastidisce chi vorrebbe cantare indisturbato, distruggendo allegramente la democrazia e la libertà di stampa.

Lina Lucci (Ex segretario generale della Cisl Campania) – «Una richiesta al direttore: renda pubbliche nel dettaglio le imputazioni che gli vengono mosse per togliere l’alibi a chiunque di svilire quello che sta avvenendo. Serve chiarezza sull’operato della magistratura: un ruolo così determinante, in grado di modificare la vita di una persona, non può essere esercitato se non con la massima trasparenza. Vale Soprattutto se in discussione c’è la libertà di stampa. Per quel che attiene alla censura dell’Ordine, è grave se riferita al fatto che un giornalista debba giudicare anziché riportare i fatti fedelmente per quelli che sono. La libertà di stampa è parte integrante del processo democratico».

Raffaele Marino (Sostituto procuratore generale di Napoli) – «Dovrei conoscere il merito dei fatti con più precisione ma venti querele sono tante. Questa situazione mi ricorda quella di Tangentopoli quando i giornalisti che scrivevano del caso furono subissati di denunce e i magistrati che si occupavano di quei processi sottoposti a procedimenti disciplinari. È la vecchia storia del potere che si difende: tanto più il potere è autoreferenziale, tanto più forte sarà la reazione. L’indipendenza della magistratura, come concepita dal legislatore costituente, era un fiore all’occhiello dell’Italia ma scambiare l’indipendenza con un privilegio a tutela del proprio potere è veramente triste e pericoloso».

Antonio Tafuri (Presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli) – «Mi sembra grave che si sia censurata la voce di un direttore di giornale che si schiera con coraggio in favore del rispetto delle regole. Perché veramente Sansonetti rappresenta anche questo per noi avvocati, è una voce fuori dal coro e in quanto tale va tutelato e non censurato. È grave il tentativo di intimidazione dei magistrati che dietro le loro guarentigie censurano con le querele un giornalista, forse sarebbe stato il caso da parte dell’Ordine dei giornalisti di avere un po’ più di attenzione per il loro iscritto. I pm stanno mettendo in atto comportamenti prevaricatori nei confronti di avvocati e giornalisti. Sono due cose altrettanto gravi».

Paolo Macry (Storico, professore emerito Università Federico II) – «È una rete che strangola la politica, minaccia l’incolumità degli individui. E uccide la morale pubblica, lo stesso senso comune. Un giorno toccherà agli storici ricostruire i danni che la magistratura ha fatto a questo Paese. Perché la vicenda è lunga ormai di decenni. La persecuzione del Riformista costituisce soltanto l’ultimo tassello di una ghigliottina che ha tagliato a fette la fisiologia dello Stato di diritto e della lotta politica. Un caso unico, nell’Europa occidentale. Bisogna andare dalle parti di Visegrad o nella Turchia di Erdogan o nella democrazia fasulla di Putin per trovare un simile spregio delle garanzie».

Federica Brancaccio (Presidente dell’Acen – Associazione costruttori Napoli) – «Ho letto con il consueto interesse con cui, ogni mattina, leggo i quotidiani e, tra questi, anche Il Riformista diretto da Piero Sansonetti. Non avendo potuto consultare i documenti e i dossier a cui fa riferimento nell’editoriale il direttore, nutrendo stima per il suo operato professionale e riponendo – al tempo stesso – fiducia nell’operato dei magistrati e nell’oculatezza delle scelte dell’Ordine e del Sindacato dei giornalisti, non dubito nel buon esito dei giudizi in corso. In questo senso, mi torna alla mente una frase del compianto Aldo Moro: “Quando si dice la verità non bisogna dolersi. La verità è sempre illuminante”».

Fausto Bertinotti (Ex presidente della Camera) – «In una condizione ordinaria, sarebbe banale dover affermare la libertà di stampa, oggi dobbiamo gridarla perché minacciata, e questo vuol dire che è minacciata la democrazia. È curioso che vengano esaltati i meriti dei giornalisti che denunciano, ma quando poi toccano un potere, si pretende di zittirli. In questo caso c’è un ulteriore pericolo, perché chi interviene interdicendo l’esercizio libero della critica è la magistratura: istituzione che non ha contro poteri manifesti. E in quanto potere “eccezionale”, la magistratura dovrebbe almeno accettare la critica. Grave è anche la presa di posizione dell’Ordine dei giornalisti che avrebbe dovuto essere solidale con il collega».

Rita Bernardini (Già deputata dei Radicali – presidente Nessuno Tocchi Caino) – «A Piero Sansonetti e al suo giornale gliela vogliono far pagare perché l’involuzione del sistema informativo italiano è giunto a livelli ormai inauditi. Il Riformista paga perché non si piega ai desiderata di alcuni potenti pm che non ammettono né la critica né la cronaca. Che questo accada nell’anno del loro massimo sputtanamento (caso Palamara), lascia increduli. Non stupisce invece la pavidità dell’ordine dei giornalisti che continua a fare il mestierante di sempre, a danno del diritto all’informazione. Da parte mia massima solidarietà a Sansonetti e agli immondi tentativi di mettere il bavaglio a lui e al giornale che dirige».

Alessandro Barbano (Giornalista, scrittore, docente vicedirettore Corriere dello Sport) – «Auguro al direttore Sansonetti di continuare a essere paladino della libertà e della dialettica democratica con il suo bellissimo Riformista, di cui c’è tanto bisogno nella notte buia di questo Paese. La mancata difesa dell’Ordine dei giornalisti racconta lo smarrimento cosmico di questa professione, che è causa di regressione della nostra democrazia. Purtroppo la difesa dello stato di diritto e delle garanzie processuali, che il miglior giornalismo incarna, è una sfida impari in una stagione in cui il giustizialismo si è impossessato delle menti e attraversa la magistratura, la politica e la comunicazione come un veleno pericolosissimo».

Enza Bruno Bossio (Deputata del Pd – Direzione nazionale) – «L’editoriale a firma di Piero Sansonetti pone questioni assai rilevanti per lo svolgimento della vita democratica. Di fronte a fatti o sospetti inediti, uno Stato che si rispetti non si attarda in processi per ipotesi diffamatorie a carico dell’autore di tali denunce ma si pone il problema di come fare piena luce su quelle ombre inquietanti e accertare la verità dei fatti per come accaduti. Stupisce la censura dell’Ordine dei giornalisti. Certamente una rara eccezione, che lascia quantomeno molti dubbi. Piena solidarietà, dunque, a Piero e al giornale: è un dovere da parte di chi intende battersi a sostegno della difesa dei diritti di giustizia e libertà».

Roberto Giachetti (Deputato di Italia Viva e del Partito radicale) – «Sono contrario alle querele in generale: nel caso di querele a opera di pm credo che la questione sia ancora più grave: un conto è ricevere una querela da parte di un politico o di un cittadino, un altro è quando arriva da un magistrato. In questo caso c’è “un conflitto di interesse” e, nel migliore dei casi, il pm sarà particolarmente sensibile rispetto alla categoria. Credo quindi che questa azione da parte di magistrati sia una chiara forma intimidatoria nei confronti del Riformista. Per quanto riguarda la censura dell’Ordine dei giornalisti, conferma ciò che già pensavo: serve a poco e a volte fa scelte gravi. Prima lo si abolisce e meglio è».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La solidarietà alla testata e al direttore. Assalto giudiziario al Riformista e a Sansonetti, il web insorge: “Andate avanti, unica voce libera”. Vito Califano su Il Riformista il 16 Aprile 2021. C’è chi propone una raccolta fondi, chi chiede di continuare, chi per cominciare ha sottoscritto un abbonamento. Ha generato un’eco traversale e una solidarietà bipartisan l’editoriale del direttore de Il Riformista Piero Sansonetti. L’articolo ha reso noto un attacco senza precedenti contro la testata. Sansonetti ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili e penali avviati negli ultimi dodici mesi. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte per gli articoli sul dossier Mafia-appalti. L’Ordine dei Giornalisti ha invece censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il Riformista e il suo direttore hanno ricevuto solidarietà bipartisan per l’attacco ricevuto. Sia da politici che da giornalisti. Tra questi Fausto Bertinotti, già segretario di Rifondazione Comunista e presidente della Camera dei Deputati; Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e membro dei Radicali; il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri. Personalità e personaggi lontanissimi tra loro eppure sulla stessa lunghezza d’onda nell’affaire Riformista. E poi Nicola Porro, Mario Giordano, Alessandro Barbano, Rita Bernardini e Paolo Macry tra gli altri. La solidarietà più libera e spontanea è arrivata però da parte dei lettori, molti dei quali si sono proposti per sostenere le spese legali. Migliaia gli attestati di stima ricevuti nelle ultime ore. Qualcuno propone addirittura una raccolta fondi, come Antonella che ci ha scritto: “Sansonetti lancia una raccolta fondi per le spese processuali … sei un grande e non devi mollare”. E ancora Fausto scrive: “Tieni duro caro Sansonetti, se molli tu siamo fregati … cerco di sostenerti il più possibile e come posso … (compro due copie del Riformista, una la lascio su un tavolo del bar)”; Diego aggiunge: “Non potendo più attaccare il tuo editore attaccano le sue imprese, giornale compreso”; Daniele: “Ha tutta la mia solidarietà per le sue battaglie. Non molli, noi italiani onesti siamo tutti con lei. Vada avanti e guai fermarsi”; “La mia solidarietà in seguito al violento attacco che sta subendo da parte della Magistratura deviata. Non demorda, vada avanti a denunciare”; “Io oltre a comprarlo spesso, dopo questo ho deciso di abbonarmi”; Maurizio: “Se vi fanno chiudere, fuori l’IBAN per riaprire tutto”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

L'assalto giudiziario. Feltri difende Sansonetti: “Fior di giornalista, chiudete l’Ordine non il Riformista”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Vittorio Feltri, fondatore e direttore editoriale del quotidiano Libero, si aggiunge alle voci in difesa de Il Riformista e del direttore Piero Sansonetti. Il direttore di questo giornale, con un editoriale, ieri ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili o penali avviati negli ultimi dodici mesi per i suoi articoli. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte, per gli articoli sul dossier mafia-appalti. Il consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti ha intanto censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Cedu per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il direttore editoriale di Libero ha dedicato al caso un editoriale in prima pagina. Ha paragonato l’Ordine dei Giornalisti all’Unione degli Scrittori dell’Unione Sovietica. “Non è soltanto inutile ma dannoso”, ha aggiunto. Feltri si è dimesso dall’Ordine dei Giornalisti dopo 50 anni nella categoria lo scorso giugno 2020. Da allora è direttore editoriale di Libero, che ha fondato nel 2000. “Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l’età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maosticamente cento”. E il caso è quello de Il Riformista, e del suo direttore Piero Sansonetti, “un fior di giornalista nonché personaggio televisivo dalle argomentazioni chiare e distinte, una specie di pecora matta della sinistra di cui ripudia il giustizialismo”. La censura, dice Feltri, è “una forma di avvertimento, specie quando si combina, com’è nel suo caso, a una ventina di processi aperti da pm e giudici contro di lui, suscettibili di trasformarsi ognuno in azione disciplinare”. Una minaccia all’articolo 21 della Costituzione che recita che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Il Presidente dell’Ordine Carlo Verna ha osservato che “il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo”.

IL GIORNALE: “IL CASO RIFORMISTA” – Anche il quotidiano Il Giornale con un articolo ha dedicato spazio alla vicenda. Sabrina Cottone ha ricostruito il caso del dossier mafia-appalti, dal quale scaturiscono le querele di Scarpinato e Lo Forte, e si chiede se, queste venti querele, tutte da magistrati, siano un record o meno nella storia dei giornali e dei giornalisti. “Ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45 – ha fatto sapere comunque Sansonetti – mica mi intimidiscono tanto facilmente“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16 aprile 2021. Ho scritto circa mille anni or sono che l' Ordine dei giornalisti non è solo un ente inutile ma dannoso. È l' apparato italico che non ha paragoni nel mondo, salvo a suo tempo l' Unione degli Scrittori dell' Unione Sovietica che, a giornalisti e letterati conformi al regime, garantiva vacanze di lusso ai viventi e funerali di prima classe agli estinti; per i dissidenti vivi e morti a essere estinto era il diritto di vedersi stampati articoli e libri. Per chiudere questa fabbrica di privilegi e di leccaculo il popolo ha dovuto sopprimere l' Urss. Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l' età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maoisticamente cento. Ad esempio, il caso di Piero Sansonetti. Qui il sangue gocciola ancora fresco dalle orecchio mozzate di questo collega che conto di alcuni elementi incontestabili. Nelle classifiche internazionali riguardanti la libertà di stampa, che non è secondaria ai fini di valutare il livello di democraticità di una Nazione, l'Italia figura negli ultimi posti per motivi concreti. Intanto la stampa di casa nostra è quasi interamente di proprietà di imprenditori che, per quanto liberali, antepongono la propria tasca a quella dei lettori. Idem le radio e le televisioni, di sicuro non asettiche. La Rai non è privata e teoricamente non dovrebbe essere asservita a interessi personalistici, in realtà è un feudo della politica, dominio dei partiti di maggioranza. Quindi, quando si parla di autonomia dei giornalisti, si scherza ben sapendo di scherzare: la categoria a cui non appartengo da un po' è la più incline ad attaccare l'asino dove vuole il datore di lavoro. L'indipendenza, come si evince soffermandosi su ciò che ci circonda, è un mito, una illusione che tutti seduce e che nessuno è in grado di volgere in pratica. Se aggiungiamo che noialtri siamo i soli al mondo a disporre di un ordine dei giornalisti, di ispirazione fascista e deputato a sanzionare i soggetti più indomabili, il panorama si completa. Forse non siamo schiavi, ma camerieri sì. Pertanto il governo di Roma non è abilitato ad assegnare patenti di autocrate a nessuno se non a se stesso. Pure perché perfino le parole che usano i cronisti ormai sono soggette a censura. Se dai del frocio a un omosessuale vai all'inferno. Inoltre l'invidia sociale influenza la mentalità progressista: chi ha guadagnato quattro soldi è giudicato un evasore fiscale, come minimo. Il guaio non è Erdogan, bensì siamo proprio noi, perdio.

Informazione e regime. “Noi difendiamo il Riformista”, migliaia di messaggi di amicizia dopo l’attacco di Pm e Ordine dei giornalisti. Redazione su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Abbiamo ricevuto in questi due giorni migliaia di messaggi di solidarietà. Di persone note, di intellettuali, di giornalisti, di avvocati, di magistrati, di cittadini. Non ci sentiamo soli. Abbiamo la netta sensazione di poter continuare tranquilli la nostra battaglia contro le degenerazioni e le sopraffazioni di una parte della magistratura italiana, e in particolare del partito dei Pm. Pensiamo di poter resistere anche al fuoco amico, un po’ vile, che viene dall’ordine dei giornalisti, e cioè da quella parte della nostra categoria più sottomessa alla forza e all’egemonia culturale delle Procure. Abbiamo subìto intimidazioni pesanti, sia attraverso le querele dei Pm sia con le censure e gli avvertimenti minacciosi dell’ordine dei giornalisti. Ma non sempre le intimidazioni vanno a segno. Abbiamo capito proprio in queste ore che il Riformista è più radicato di quanto potessimo pensare. Siamo contenti e continuiamo la nostra battaglia. Senza farci spaventare dalla gigantesca potenza di fuoco di chi vuole annientarci. La nostra potenza di fuoco è piccola piccola. Però noi abbiamo idee e ragione, loro, purtroppo, no. Qui di seguito pubblichiamo una parte minuscola dei messaggi che abbiamo ricevuto ieri sulla mail e su WhatsApp.

Col Riformista mi sento più libero. Renato Brunetta

Esprimo tutta la mia solidarietà, la mia stima e il mio affetto al direttore Piero Sansonetti per la raffica di querele e azioni civili che sta subendo. L’opera del Riformista a guida Sansonetti è stata determinante in questi anni per mettere al centro del dibattito pubblico la questione giustizia e per sfidare il pensiero unico sul tema. Io con il Riformista in edicola tutti i giorni e con gli editoriali di Sansonetti mi sento più libero.

Scarpinato? Spiegategli bene il golpe in Cile…Giancarlo Lehner

Caro Direttore, mi sono a lungo occupato dei nostri magistrati di lotta e di governo, pagandone, fra l’altro, le conseguenze, avendo trascorso decenni nei tribunali di tutta la Penisola. Riguardo alle preoccupazioni per la sopravvivenza del tuo quotidiano, l’unico foglio con merito in prima linea per la giustizia giusta e il ripristino della lettera della Costituzione, fossi in te mi guarderei soprattutto dal procuratore Roberto Scarpinato, che passerà alla Historia per la micidiale supponenza non sempre sorretta da sicure basi culturali. Ricordo, così, soltanto per spaventarti un po’, il suo leggendario saggio apparso su MicroMega, dove Scarpinato, ignorando le date della storia, scrisse: «Chi conosce la storia occulta dell’Italia e la potenza delle grandi strutture criminali, sa che non è azzardato, né frutto di un cupo pessimismo antropologico, ritenere che la situazione attuale ricorda… quella che venne a crearsi in Cile negli anni Ottanta [sic!] conclusasi tragicamente con la fine del presidente Allende». Ci si può fidare della scientificità di chi fissa la fine del povero Allende negli «anni Ottanta»? Magari si dirà che sono prevenuto, data la mia origine israelita, ma mi parve un tantino antisemita il saggio col titolo (Dio dei mafiosi) e un sottotitolo (Per una ‘teologia’ di Cosa Nostra. L’etica adattata alla logica di una sola grande ‘famiglia’, dove si può uccidere perché si obbedisce a ordini superiori. Una piramide che vede nel Dio del Vecchio Testamento l’ultimo – e il più terribile – dei padrini), nel quale, appunto, il dottor Scarpinato inviò un avviso di garanzia al Creatore non per concorso esterno e neppure per associazione mafiosa, ma per essere indubitabilmente il Capo dei Capi della mafia. Quindi, tanto per non fare sconti ai cattolici, rinviò a giudizio anche Sancta romana Ecclesia: «Riprendendo il tema della cultura mafiosa, non è forse azzardato ipotizzare che l’interiorizzazione del valore dell’autorità e dell’obbedienza proprie di certa cultura cattolica abbia potuto costituire una precondizione perché su questo humus si innestasse, senza traumi e senza fratture, mediante un’inconscia sinergia ibridante, la “sacramentalizzazione” dei valori dell’obbedienza cieca e della gerarchia da parte del popolo di Cosa Nostra…». Data codesta terrificante Weltanschauung, credo sarebbe giusto preoccuparsi se Scarpinato dovesse partire lancia in resta contro Il Riformista.

Dobbiamo scendere in piazza. Amedeo Laboccetta

L’attacco a colpi di querele nei confronti del Riformista, e del suo Direttore in particolare, il coraggioso e bravo Piero Sansonetti, deve assolutamente spingere gli uomini liberi in Italia a prendere posizione. Quando si crede veramente in una battaglia di libertà e di vera giustizia, la solidarietà si pratica e non si predica. Qualcuno, anzi che dico, più di qualcuno, vorrebbe mettere a tacere questa voce coraggiosa e libera. Che da sempre va controcorrente. Tutto questo è inaccettabile. Non lasciamo soli Sansonetti e tutti i giornalisti del Riformista. Bisogna prendere posizione e manifestare pubblicamente. Ci si veda in tanti a Roma per bloccare il progetto di tappar la bocca a Sansonetti. Per fortuna di uomini liberi e giornalisti coraggiosi l’Italia è piena. Basta saperli organizzare per promuovere la resistenza della libertà di stampa.

Ma quelli che dirigono l’Odg si vergognano almeno un po’? Fabrizio Cicchitto

Ha detto giustamente Luciano Violante che il primo sdoppiamento delle carriere dovrebbe avvenire fra quelle dei pm e quelle dei cronisti giudiziari. Nel caso del Riformista siamo di fronte a due scandali fra loro intrecciati: i pm che fanno querele in modo sistematico, seguendo il principio che da un lato cane non morde cane e anzi dall’altro lato si unisce al compagno di cordata per aggredire e stendere il disturbatore. Poi c’è lo scandalo costituito dall’ordine dei giornalisti, uno scandalo istituzionale perché la sua ispirazione originaria è quella di un corporativismo di ispirazione fascista (il direttore responsabile deve appartenere per forza all’ordine). Poi da molto tempo la gestione dell’ordine è in mano ai portavoce dei potentissimi cronisti giudiziari, a cui fanno da sponda (i cronisti giudiziari contano nell’ordine dei giornalisti come i pm nell’Anm e nel Csm). Poi esistono le colpe individuali: il Riformista ha un gravissimo difetto che si traduce in una colpa da perseguire possibilmente non con una pena transitoria ma con il recupero di una condanna che purtroppo non sta nell’ordinamento giuridico italiano: vale a dire la pena di morte da raggiungersi attraverso strangolamento finanziario. La colpa del Riformista è gravissima. Pubblica notizie che non si leggono sul Corriere della Sera, su la Repubblica, su la Stampa perché lì i cronisti giudiziari fanno buona guardia. Così l’altro ieri il Riformista ha pubblicato una assai imbarazzante numero di file in cui forse è contenuta l’intercettazione del trojan sulla cena Palamara-Pignatone. La notizia è uscita solo sul Riformista e lì è rimasta. Ma comunque è sempre fastidiosa. E il dottor Cantone deve comunque misurarsi con essa. È chiaro che una voce di questo tipo va silenziata a ogni costo anche perché essa svolge un ruolo essenziale per garantire la libertà di informazione, una missione davvero impossibile. Ma coloro che dirigono l’ordine dei giornalisti non si vergognano almeno un po’? Non a caso Vittorio Feltri si è dimesso da esso.

Solidarietà al Riformista, voce di coraggio. Federico Mollicone

Esprimiamo la nostra solidarietà alla testata il Riformista, voce di coraggio su molti temi delicati. Uno di questi è certamente la vicenda del sistema Palamara che sembra tuttora persistere all’interno della magistratura offuscando il valido e coraggioso lavoro di molti magistrati onesti ed equilibrati. A Piero Sansonetti e al giornale che dirige rivolgiamo la nostra vicinanza. Spiace invece l’atteggiamento del presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, che ha rivolto toni denigratori verso un direttore e una redazione che per istituto dovrebbe difendere da eventuali aggressioni esterne. Proprio Verna lo avevamo apprezzato nella difesa del giornalista Silvio Leoni – ingiustamente rinviato a giudizio e poi archiviato – con l’unica colpa di aver intervistato il presidente di un Tribunale: per questo Leoni subì perquisizioni e il sequestro del telefono personale e sulla vicenda abbiamo già annunciato un question time al ministro Cartabia per chiedere che invii gli ispettori alla procura di Ancona.

Giornale e direttore sotto attacco. Giù le mani dal Riformista e dalla libertà di stampa: la solidarietà di Bassolino, Nappi, d’Alessandro e Di Donato. Francesca Sabella su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Le intimidazioni rivolte dalla magistratura al direttore Piero Sansonetti hanno compattato il fronte di chi crede che le toghe dovrebbero tutelare la libertà di stampa, pilastro della democrazia, e non lavorare per demolirla. Ne era convinto un giurista del calibro di Benedetto Conforti, ma la sua posizione è condivisa oggi da tanti intellettuali e politici napoletani che non hanno esitato a schierarsi a difesa del Riformista.

Antonio Bassolino – «Nel pieno rispetto del lavoro e del ruolo costituzionale della magistratura, non vanno dimenticati il ruolo e la libertà della stampa, anch’essi tutelati dalla Costituzione. Venti querele, quante sono quelle ricevute dal direttore Piero Sansonetti,  sono davvero tante, ma che l’Ordine dei giornalisti censuri preventivamente il lavoro di un giornalista, come avvenuto con lo stesso Sansonetti, è un atto inedito che può essere foriero di lesioni al lavoro di cronisti, opinionisti e della stampa in genere. Non esistono censura e autocensura di fronte alla ricerca della verità. La magistratura faccia il proprio lavoro e la stampa il suo, nel rispetto della legge. Conosco Sansonetti da sempre, da quando era un giovane giornalista dell’Unità e io un dirigente del Pci. Da sempre conosco il suo spirito critico e la sua autonomia. Quindi piena solidarietà a lui e un invito a una più approfondita riflessione all’Ordine dei giornalisti per la tutela di un diritto fondamentale della democrazia».

Giulio Di Donato – «Il Riformista è l’unico a trattare temi scottanti che gli altri giornali evitano completamente. Questa storia della giustizia, caratterizzata da una forte connotazione politica, viene sistematicamente esclusa dal dibattito. Se non ci fossero stati Il Riformista e il suo direttore Piero Sansonetti, capace di fare battaglie coraggiose e delicate, avremmo avuto un deficit democratico che ancora c’è. Le minacce dei magistrati che utilizzano le querele per intimidire sono inaccettabili in un Paese civile, perché il diritto di cronaca e la possibilità di fare giornalismo non devono essere inficiati da un’aggressività di carattere giudiziario. Dal canto suo, l’Ordine dei giornalisti ha dimostrato tutta la sua inutilità: avrebbe dovuto difendere con determinazione una voce così libera come quella di Sansonetti. Sono pronto ad aderire a qualsiasi iniziativa che Il Riformista vorrà lanciare a difesa di democrazia e libertà di stampa».

Severino Nappi – «Non sempre condivido le campagne lanciate dal Riformista, ma credo fermamente, per la mia cultura intrinsecamente liberale, nel principio della libertà di stampa, da difendere sempre anche quando attacca la nostra parte politica. Sul tema della giustizia, Il Riformista rappresenta con coraggio una voce fuori dal coro, tesa a ripristinare le possibili storture di un sistema giudiziario che da 30 anni necessita di un’adeguata riforma. La sensazione è che il giornale sia vittima di un cortocircuito tra magistratura, politica e mondo dell’informazione alimentato da una certa magistratura politicizzata a sinistra. Non dovrebbe esistere una caratterizzazione della magistratura, spesso invece soggetta a giochi di corrente, mentre probabilmente si gioverebbe di una separazione di carriera tra il ruolo di pm e di giudice. E le querele temerarie rappresentano soltanto una minaccia alla libera espressione».

Lucio D’Alessandro – «Sono impressionato e preoccupato. Quando è nato Il Riformista, e Il Riformista Napoli in particolare, lo abbiamo accompagnato con grande attenzione, con grande piacere e con l’idea che stesse nascendo qualcosa di nuovo, di importante e di libero. Tutti quelli che pensano alla democrazia pensano che la chiave della democrazia sia la possibilità di informare l’opinione pubblica. Jeremy Bentham diceva che il tribunale più importante di tutti è il tribunale dell’opinione pubblica e questo tribunale dev’essere informato. Non credo al complotto, non ci credo in generale e per principio, ma il ripetersi di alcune azioni può essere pericoloso. In particolare mi preoccupa il fatto in sé, che alla fine una voce libera si possa chiudere. Bisogna quindi stare vicino al Riformista e vicino ai giornalisti in generale perché la voce della stampa è una voce importante: è uno dei pilastri della democrazia».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Solidarietà al Riformista. Contro Sansonetti troppe querele di una magistratura tronfia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Caro direttore, non conosco il merito delle querele che hai ricevuto, ma già il fatto che ammontino a tante, e che provengano perlopiù se non esclusivamente da magistrati, dice che in questione non è il tentativo di punizione di un comportamento vietato, ma la pretesa di vietare il comportamento. Non è un gioco di parole. Un giornale può sbagliare, può pubblicare cose false e offensive, e deve risponderne, ma qui la sensazione è che non si tratti di isolate lamentazioni per precise vicende diffamatorie, bensì di iniziative che magari non intenzionalmente, ma negli effetti senz’altro, vanno a fare concerto in una chiara volontà di censura. Bisogna diffidare del giornalista che fa retorica sull’attentato alla libertà d’opinione solo perché ha ingiustamente sputtanato qualcuno che giustamente gli fa causa: ma come lo strumento giudiziario diventa a volte un mezzo di competizione tra imprese che si fanno la guerra sui mercati, così la querela può smettere di funzionare come la richiesta di riparazione di un diritto leso per trasformarsi in una inibitoria indiscriminata. Non la bacchettata sulla mano di chi ha scritto qualcosa impropriamente, ma il colpo di mazza che gliela maciulla e la rende inservibile a scrivere qualsiasi cosa. Non si può pretendere che i magistrati restino inerti davanti allo scritto che racconta su di loro cose non vere e insultanti, ma l’impressione è che ciò di cui in profundo essi si lagnano sia la contestazione del ruolo che hanno usurpato, il loro presunto diritto di annunciare rivoluzioni ai margini dei rastrellamenti e di far dottrina in tv sull’appello da abolire perché è l’inaccettabile lasciapassare compilato dagli avvocati complici di corrotti e mafiosi. Il sospetto è che la querela sia il rimedio indispettito verso un atteggiamento più grave, per loro, della diffamazione, e cioè appunto l’atteggiamento dei pochi, tra cui in prima posizione questo giornale, che vorrebbero il magistrato timoroso nell’uso del proprio potere anziché tronfio nel farne sfoggio. Iuri Maria Prado

"Lunga vita al Riformista". Il Riformista non si piega ai Pm, l’attacco a Sansonetti testimonia fastidio magistratura. Biagio Marzo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Lunga vita al Riformista. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, altrimenti saremmo privi di un quotidiano ch’è una delle pochissime voci veramente libere dell’informazione scritta e parlata. Le battaglie che sta conducendo sono sacrosante a favore dello Stato di diritto, a difesa del detenuto che vive in penitenziari super affollati, contro le ingiustizie sociali. E, comunque, non sarà mai dalla parte della lex est araneae tela. Non sono da tutti queste battaglie, in questi anni di populismo giudiziario, in cui si è visto di tutto e di più. Da un lato, i giornalisti che stanno in ginocchio e fanno interviste, baciando la pantofola ai magistrati. Dall’altro, la corporazione togata, con un corpo malato, alle prese con nomine, spartizioni, accordi segreti fra le correnti il cui potere è tale che quelle partitiche sono quisquilie. C’è di più. Fatti e misfatti di cui solo a raccontarli si resta increduli. Il posto in cui c’è una sorta di “lavanderia”, dove tutto si lava e si asciuga, è il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Al riguardo, Stefano Zurlo in Il Libro Nero Della Magistratura è riuscito a mettere insieme “i peccati inconfessati” dei magistrati italiani. Sansonetti non si piega al potere come, invece, fanno tanti suoi colleghi, ragion per cui, ha accumulato un sacco e una sporta di querele da alcuni Pm, per essersi battuto contro la “macelleria giudiziaria all’ingrosso”. A questo punto, siamo noi che ci facciamo carico di esprimergli solidarietà e affetto e lo preghiamo di continuare la lotta per la libertà di cronaca e di critica. E, naturalmente, noi siamo al suo fianco per la giustizia giusta. Il caso Tortora è l’esempio lampante passato alla storia come “giustizia spettacolo” in cui operò, per la prima volta, il “Circo mediatico – giudiziario”, dal titolo del best seller di Daniel Soulez Lariviere. Il popolare presentatore di Portobello fu arrestato dai Carabinieri all’alba, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, alla presenza di cronisti, fotografi e cameramen, per l’accusa di spaccio di droga e associazione di stampo camorristico. Un innocente fu arrestato e condannato, costretto a una tragica via crucis giudiziaria che, alla fine, lo portò alla morte. La premiata ditta magistrati&giornalisti lo sottopose a un processo e a una gogna mediatica malevola, i cui benefici furono tutti a favore dei magistrati che fecero, d’allora in poi, ottima carriera, e dei pentiti, anzi dei falsi pentiti che si garantirono una comoda vecchiaia. Insomma, nessuno pagò per quel grossolano errore giudiziario. Grazie a Marco Pannella e ai suoi compagni di partito, che lo portarono come effigie della giustizia ingiusta, fu candidato nelle liste radicali ed eletto al Parlamento europeo. Per non incorrere in casi come quello di Tortora, i radicali di Pannella e i socialisti di Craxi indissero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, l’8 novembre 1987. La vittoria referendaria radical-socialista non sortì alcun effetto, vuoi perché la Dc si mise di traverso vuoi anche per il fatto che le forze politiche non ebbero il coraggio di portare in porto una riforma che rafforzasse lo Stato di diritto ed evitasse che la giustizia fosse usata per scopi politici e per le carriere dei togati, senza che questi pagassero mai alcun pegno. Come dire, il referendum fu furia francese e ritirata spagnola. Al dunque, diciamo che tutto restò allo status quo ante. Da quella sconfitta prese l’abbrivio l’egemonia delle Procure sulla politica, con l’appoggio dei mezzi di informazione. Difatti, ai tempi del pool di Mani pulite, entrò in azione il combinato disposto del partito dei Pm e dei mezzi di informazione, con a capo la Procura di Milano e le corazzate Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, l’Unità e, in più, le reti televisive di Mediaset con le dirette di Brosio sotto il Palazzo di giustizia di Milano. La Rai, per non essere da meno, si adeguò. Si mossero in sincronia con la forza di uno schiacciasassi. La magistratura ha tutt’oggi un soverchiante potere, ha messo in crisi il sistema politico che è organizzato secondo il principio di separazione dei poteri, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. È sopportabile una situazione del genere in cui, peraltro, la giustizia è la mano punitiva dello Stato e, per di più, vive come Sistema, ossia come potere per il potere, al servizio di qualsiasi fine? Altro che Palamara. Preoccupati per la tenuta della democrazia, per il restringimento delle libertà e per il sorgere di uno Stato etico, occorre una riforma della giustizia. Alla luce dell’esperienze passate, si andrà incontro come sempre alla tacitiana corruptissima republica plurimae leges e al passo del Digesto: error communis ius facit. Il tentativo di mettere la mordacchia a Sansonetti – e a tanti giornalisti con le sue medesime idee garantiste, per esempio, evidenziamo il caso Salvaggiulo de La Stampa – per poi far chiudere il Riformista, non è per nulla una idea campata in aria. Per questa ragione, attorno al direttore Sansonetti bisogna raccogliere le forze che si battono per lo Stato di diritto, per indire un referendum sulla giustizia. Resta la sola e unica via praticabile. Biagio Marzo

Informazione e regime. Il Riformista è voce di libertà, Sansonetti non si lasci prostrare. Eduardo Savarese su Il Riformista il  18 Aprile 2021. Ho avuto la fortuna di svolgere un dottorato di ricerca in Diritto internazionale alla Federico II di Napoli negli anni in cui il professor Benedetto Conforti era rientrato in città, avendo concluso il mandato di giudice presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, e ho avuto il privilegio di essere uno dei suoi ultimi allievi. Dopo la pensione, cominciò a dismettere la sua biblioteca giuridica, conservando soltanto i libri sui diritti dell’uomo. Poco prima che lasciasse Strasburgo, la Corte europea decise il ricorso promosso dal giornalista Giancarlo Perna per violazione dei diritti al giusto processo e alla libera espressione del pensiero, per averlo l’Italia, attraverso i suoi giudici, condannato per diffamazione del magistrato Giancarlo Caselli. La Grande Camera diede ragione all’Italia, non ravvisando le violazioni lamentate dal giornalista. Un’opinione dissidente si levò: quella di Conforti. Il professore metteva in evidenza come, nel processo per diffamazione intentato da Caselli contro Perna, il giudizio, nei tre gradi, si fosse chiuso in tempi record. Quella velocità suonava sospetta in un Paese che accumulava condanne per ritardi nelle decisioni giudiziarie. Non solo, quella velocità si era consumata attraverso una compressione frettolosa del diritto alla prova del giornalista. L’opinione afferma (traduco liberamente dal testo originale in inglese): «Nel processo a carico di un giornalista per diffamazione di un organo giudiziario inquirente, la condotta dei tribunali interni, intenzionale o meno, dà la chiara impressione di un’intimidazione che non può essere tollerata alla luce della giurisprudenza della Corte sulle restrizioni alla libertà di stampa». E ancora: «È sorprendente quante azioni siano intentate da magistrati contro giornalisti in Italia e quanto congrui siano gli importi liquidati dai tribunali italiani per danni». Infine: «Poiché la libertà di stampa è la mia sola preoccupazione, mi duole avere espresso la mia opinione in questo caso che riguarda un magistrato per il quale ogni cittadino italiano deve provare ammirazione per aver rischiato la propria vita nella lotta alla mafia». Nella sua brevità e chiarezza, Conforti dà a tutti noi, soprattutto ai giuristi e ai tantissimi magistrati che hanno studiato sul suo manuale di diritto internazionale, una lezione esemplare: un rischio effettivo e grave di compressione della libertà di stampa discende dalle azioni per diffamazione intentate da magistrati contro giornalisti. Mi si obietterà: e allora i magistrati non possono difendere più la loro immagine, se diffamati? Certamente, possono e devono. Ma è necessaria una misura rigorosissima nell’esercizio della facoltà di sporgere denunce per diffamazione, sia perché la magistratura deve sapere affrontare le domande che le si rivolgono sul proprio operato, sia perché essa – e questo è un altro insegnamento di Conforti – è, o dovrebbe essere, il vero baluardo per la difesa dei diritti dell’individuo in uno Stato di diritto. Ciò detto, qualche notazione personale. Non conosco Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, se non da quanto scrive e dice in televisione. Quello che so è che Il Riformista, e Il Riformista Napoli sul quale scrivo da gennaio 2020, è una voce di libertà. A volte reputo eccessiva – e controproducente – la sua foga contro la magistratura italiana. Mi piacerebbe che prendesse – che so – di mira anche i poteri immensi (e molto più nascosti) di tanti anfratti delle pubbliche amministrazioni e delle società collegate al settore pubblico (i cui funzionari spesso ricevono compensi assai più lauti del magistrato). Ma è una voce di libertà e sa articolarsi in una complessità di linee anche molto diverse: ho scritto un articolo sulla omogenitorialità che nessun’altra testata oggi avrebbe pubblicato. Mi sono dimesso dall’Associazione nazionale magistrati e ho potuto ricevere un’intervista seria e rigorosa, senza inutili strumentalizzazioni. E poi, quel che mi preme di più: continua a mettere il dito nella piaga. La piaga purulenta e vergognosa dello stato delle carceri italiane. La piaga – strutturale e che pesa come colpa collettiva sulla struttura giudiziaria nel suo complesso – della giustizia civile lenta, ma soprattutto della giustizia penale che arriva troppo tardi ad assolvere persone duramente colpite da indagini e misure cautelari (che in sé non possono non avere un fisiologico margine di errore, ma il punto non è questo). La piaga della crisi che il caso Palamara ha aperto nella magistratura: solo leggendo Il Riformista, e poco altro su carta stampata, da magistrato che vorrebbe capire di più, riesco ad appurare certe informazioni (spetta a me, lettore, elaborarle e criticarle) sull’uso del trojan nell’indagine a carico di Palamara. Il mio augurio è che Il Riformista abbia ancora lunga vita, che il direttore Sansonetti non si lasci prostrare e che la magistratura, tra i tanti bagni di verità che è chiamata improrogabilmente a praticare, riesca anche ad affrontare il tema querela di magistrati/libertà di stampa secondo le linee magistralmente delineate da Benedetto Conforti. Con lui ribadisco che «freedom of the press is my only concern».  Eduardo Savarese

Si allunga l'elenco. Il Gip Sturzo ci ha fatto causa. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Si allunga l’elenco dei magistrati che hanno fatto causa al Riformista. Ci è giunta la notizia che anche il Gip Gaspare Sturzo ha avviato la richiesta di risarcimento danni nei nostri confronti perché si sente diffamato – se abbiamo capito bene – dalla pubblicazione sul Riformista di alcune intercettazioni dell’affare Palamara nelle quali lui sembrava chiedere un aiuto dell’ex capo dell’Anm per lo sviluppo della sua carriera. Gaspare Sturzo ha citato in giudizio l’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti. Chi è Sturzo? È il Gip che nel 2017 ordinò l’arresto di Alfredo Romeo (poi cancellato dalla Cassazione) e successivamente, nella vicenda delle indagini su Consip, ha respinto la richiesta di archiviazione del procedimento, sempre contro Romeo (e altri), che era stata avanzata dalla Procura, e in particolare da Pignatone, Ielo e Palazzi.

Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

Cantone vuole censurare il Riformista: “La libertà di stampa ha un limite”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Foto LaPresse – Mourad Balti Touati 08/10/2018 Milano (Ita) – Corso di porta vittoria – Tribunale Cronaca Presso il Tribunale il Presidente dell’ Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone partecipa al convegno sulla responsabilità penale e contabile nelle professioni sanitarie Nella foto: Raffaele Cantone, Presidente Anac. Il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha chiesto al Csm di aprire una “pratica a tutela” dei magistrati della sua città. Perché e contro di chi? Contro il Riformista che nei giorni scorsi ha riferito, sul celebre Palamaragate, notizie che non piacciono a Cantone. E cioè ha raccontato come le chat estratte dal telefono di Luca Palamara ai primi di giugno del 2019 furono mandate al Csm con 11 mesi di ritardo. Solo dopo che il Csm, senza conoscere le chat e i nomi dei magistrati implicati, aveva deciso un bel giro di nuove nomine nelle Procure e nei tribunali. E poi il Riformista ha anche spiegato come e perché fu silenziato il trojan di Palamara in occasione della cena che lui ebbe con l’ex procuratore di Roma Pignatone e con altri alti magistrati, cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore di Roma. (Il trojan è quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui). E infine il Riformista ha chiesto conto anche degli Sms che stavano nel telefono di Palamara (e anche quelli furono estratti dal Gico della Guardia di Finanza) e che pare non siano stati inseriti nel fascicolo a carico di Palamara. Cantone sostiene invece che gli Sms furono tutti consegnati e inseriti, però non ci ha detto (ne lo ha detto a Palamara) dove siano. Siccome noi abbiamo scritto queste notizie, e siccome non risulta che su questi fatti sia stata aperta nessuna inchiesta giudiziaria, Cantone ha chiesto al Csm questa famosa pratica a tutela. Cosa sia una pratica a tutela non si sa bene. Potrebbe essere una semplice dichiarazione di “intoccabilità” che vada ad arricchire il curriculum dei magistrati ritenuti responsabili delle mancanze investigative che noi abbiamo segnalato, oppure forse di qualche iniziativa più forte che possa ottenere il risultato di silenziare i giornali indisciplinati, cioè il Riformista. Naturalmente si tratta di un attacco violento e diretto alla libertà di stampa, e dunque anche alla Costituzione, che non credo abbia molti precedenti. E io immagino che l’Ordine dei Giornalisti vorrà intervenire a difesa del principio costituzionale e a difesa del diritto ad informare nostro o di altri giornali ai quali venisse voglia di ficcare il naso sul Palamaragate (senza scottarsi). Se passasse l’idea che in Italia è persino formalmente proibito ai giornali di criticare la magistratura, e addirittura è vietato dare notizie relative al lavoro dei Pm, diventerebbe molto difficile parlare del nostro paese come di un grande paese a democrazia liberale. Capisco l’obiezione: in realtà è già così. Si contano sulla punta di una mano i giornali che si sono occupati del “palamaragate”, dal momento in cui si è capito che era uno scandalo che coinvolge centinaia, o forse anche migliaia di magistrati, e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura. Ma questa non è un’obiezione seria. Il fatto che in Italia quasi tutti i giornali abbiano accettato una sudditanza e giurato obbedienza alle Procure (non alla magistratura: alle Procure) non ci autorizza ad accettare che il divieto di critica alle Procure diventi un divieto formale sancito dalla giurisprudenza. In Italia, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno, solo il fascismo ha imposto la censura ai giornali, cioè quella che viene chiesta oggi nei nostri confronti. Nei giorni scorsi vi ho elencato i nomi dei magistrati o ex magistrati, che mi hanno querelato, o hanno querelato il mio editore, perché innervositi dalle critiche ricevute. Tutti nomi altisonanti: l’ultimo è stato Gian Carlo Caselli (col quale, oltretutto, avevo avuto in passato un rapporto quasi di amicizia) prima di lui Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Davigo, Esposito (2: padre e figlio) e qualcun altro che ora non mi viene in mente (e mi scuso per l’eventuale omissione). Adesso si aggiunge Cantone. Dei nomi di grido mi mancano – a occhio – solo Ingroia, Greco, Prestipino e Melillo. Credo che l’iniziativa di Cantone vada interpretata nello stesso modo nel quale ho interpretato le querele: un sistema per intimidire il giornalista, metterlo in guardia, spingerlo a mollare la presa. Il problema per me è complicato: personalmente sono molto favorevole all’idea di lasciarmi intimidire e mollare la presa. Sempre. Io tendo a privilegiare il primum vivere a valori francamente molto vaghi ed effimeri, e inutili forse, come il coraggio. Il coraggio a me pare estetica. Il problema è che essendo il Riformista l’unico quotidiano cartaceo (radio radicale è una radio) che si occupa costantemente e criticamente delle vicende della magistratura, e che non concede mai nessuno sconto al partito dei Pm ( e alla loro rappresentanza parlamentare, che in questa fase è il dominus del governo) non possiamo permetterci il lusso di lasciarci intimidire. Se sparissimo anche noi, cosa resterebbe della libertà di stampa? Per finire vorrei fare due domande a Cantone e ai suoi colleghi. Noi abbiamo denunciato dei fatti gravi. Compreso il silenziamento intenzionale del trojan di Luca Palamara (un atto evidente di intralcio alle indagini). Quantomeno su questo fatto e sul ritardo nella consegna degli whatsapp di Palamara non abbiamo ricevuto nessuna smentita. Qualcuno, nelle Procure, ha aperto un’inchiesta, magari piccola piccola, magari ben strutturata allo scopo di farsi archiviare al più presto, ma almeno una inchiestuccia? A me non risulta. E invece risulta che nel corpo della magistratura ci sono molti malumori. Migliaia di magistrati, che lavorano sodo e correttamente, sono un po’ indignati per il modo nel quale il Palamaragate viene messo sotto il tappeto. Qualche giorno fa una cinquantina di magistrati hanno scritto a Palamara per chiedergli di renderli noti lui gli Sms, visto che la magistratura non li rende noti. E’ abbastanza grave, no? Gli stessi magistrati non si fidano più della magistratura e cercano le verità per vie private. Gli piace questa cosa a Raffaele Cantone? Seconda domanda, questa rivolta alla procura di Firenze, che è quella designata a indagare sulla procura di Perugia. Capisco che il vostro organico, al momento, è impegnato nella caccia a Renzi e che è una caccia difficilissima perché non si trova uno straccio di indizio per nessun reato. E oltretutto Renzi rema contro. Però almeno un sostituto – magari il più giovane – non potrebbe essere distaccato, anche solo per una settimana, per cercare di capire che è successo a Perugia nell’estate del 2019?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 10 aprile 2021. Da Mani pulite in poi il sistema della custodia preventiva in carcere ha assunto toni sempre più barbari, tanto che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morti. La triste storia di Sabatino Trotta (nel tondo), dirigente del dipartimento di salute mentale della Asl di Pescara, arrestato mercoledì scorso per corruzione nell' ambito di un' inchiesta su presunti appalti truccati, che a poche ore dalla sua detenzione si è suicidato in carcere, fa riflettere. Aveva 55 anni, tre figli e una vita fino a quel momento esemplare. Vox populi parla di un uomo buono, che spesso prestava gratuitamente la sua attività di medico chirurgo (specialista in psichiatria e abilitato nella psicoterapia), un atteggiamento rigoroso e un comportamento onesto, fondatore della onlus Cosma. Il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, Fratelli d' Italia, stesso partito del medico che si era candidato alle Regionali 2019, è «shoccato»: «Una persona di assoluto valore, etico e civile». Eppure, il medico è stato trascinato in questa brutta indagine avviata nell' estate 2020 e arrestato, portato in carcere: secondo l' accusa avrebbe beneficiato di viaggi, gioielli e Rolex, al fine di pilotare una gara d' appalto, indetta nel gennaio 2020, per la gestione di residenze psichiatriche extra ospedaliere. Una gara da 11,3 milioni di euro che lo psichiatra avrebbe fatto vincere alla cooperativa «La Rondine» scegliendo lui stesso, in quanto pubblico ufficiale, gli esperti della commissione giudicatrice. Finiti agli arresti anche due dirigenti della cooperativa. Un blitz in piena regola, disposto dal gip Nicola Colantonio, che ha impiegato 70 agenti della Finanza per arrestare tre incensurati. Trotta alle 16 è stato trasferito nel carcere di Vasto e posto in isolamento (non sottoposto a sorveglianza a vista) per via delle norme anti-Covid. Sottoposto a visita psicologica l'equipe del carcere ha scritto solo che «se avesse proseguito la carcerazione avrebbe avuto bisogno di un colloquio psicologico». La sera, dopo aver visto il Tg3 regionale e sentito il suo nome accostato ad una accusa così infamante, non ha retto il colpo e verso le 23,30 si è tolto la vita impiccandosi con il laccio della sua tuta alla finestra della cella. Forse una leggerezza commessa dalla polizia penitenziaria che lamenta carenza di organico: «Non era possibile prevedere il gesto terribile, auspichiamo non vengano immaginate responsabilità da parte degli insufficienti poliziotti in servizio». Anche la direttrice dell' istituto Giuseppina Ruggero cerca giustificazioni: «Da psichiatra ha mostrato una tranquillità terribile e purtroppo ci sono caduta. Ripenso a tutte le parole che mi ha detto e voglio capire dove mi ha ingannata». Trotta alla fine del colloquio avrebbe detto sardonicamente: «Direttrice, mica penserà che io mi voglia suicidare? Io c' ho tre splendidi figli». Dopo cena ha fatto richieste «tranquillizzanti»: una bottiglia d' acqua e batterie per il telecomando. Ha lasciato poi un biglietto alla moglie e ai tre figli. La Procura di Vasto ha aperto un fascicolo contro ignoti. In molti si chiedono come mai non si sia ricorso agli arresti domiciliari per un incensurato che mai ha avuto problemi con la legge. Spesso per i pm non è tanto il pericolo di fuga o l' inquinamento delle prove la ragione per la quale ordinano il carcere preventivo, quanto la volontà di spaventare l' indagato e costringerlo a confessare. A volte anche cose che non sa. Spesso questi arresti si basano su intercettazioni decontestualizzate che possono dare adito a fraintendimenti. In questo caso il contenuto di una delle intercettazioni chiave che hanno portato all' arresto è stato: «Tutto pilotato. È tutto pilotato perché deve essere così». Il legale della famiglia Trotta, Antonio Di Giandomenico commenta: «C' è stato un accanimento prematuro ed eccessivo».

La delibera di assunzione è anomala. Il Comune di Milano oscura i titoli del capo dei vigili, Ciacci aveva i requisiti? Paolo Comi su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il gabinetto del sindaco di Milano ha chiesto che venga presentata una querela – a tutela dell’Amministrazione – nei confronti degli organi di informazione, fra cui Il Riformista, che nei giorni scorsi, dopo il servizio televisivo delle Iene, si sono occupati della nomina del comandante della Polizia locale del capoluogo lombardo. Ad assistere Beppe Sala, come si legge nella delibera di giunta, gli avvocati della civica Avvocatura. Le spese di lite, prosegue la delibera, sono al momento “indeterminabili”. Nell’attesa che i magistrati decidano se nei vari articoli sono stati posti in essere “fatti lesivi” per l’immagine del comune di Milano e di Sala, sarebbe interessante sapere se Marco Ciacci aveva i titoli per ricoprire l’incarico di comandante della polizia locale di Milano. Nella delibera di assunzione, firmata da Sala, i titoli posseduti da Ciacci risulterebbero essere stati “omissati”. L’ex responsabile della sezione di polizia giudiziaria della polizia di Stato presso il Palazzo di giustizia di Milano venne scelto da Sala, a settembre del 2017, per sostituire l’allora comandante Antonio Barbato, dimessosi dall’incarico per circostanze mai del tutto chiarite. I titoli “omissati” sono una singolarità, trattandosi di un incarico pubblico. La nomina di Ciacci, che in passato aveva coadiuvato le indagini di Ilda Boccassini nei confronti di Silvio Berlusconi nel procedimento Ruby e che, divenuto comandante della polizia locale, era intervenuto in un sinistro stradale mortale, dove non vennero fatti accertamenti tecnici, causato proprio dalla figlia della pm antimafia, non era stata effettuata ai sensi dell’articolo 110 del Testo unico degli enti locali del 2000. La procedura utilizzata era stata quella del “comando”. La differenza non è di poco conto. I Comuni possono conferire, fornendone esplicita motivazione, incarichi dirigenziali in dotazione organica a soggetti esterni con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in possesso di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nell’Amministrazione. Queste persone devono aver svolto attività in “organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali”, o “aver conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e/o scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete e qualificate esperienze di lavoro, maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o provenienti dalle aree della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. La ratio della norma è chiara: si possono assumere, a tempo determinato, professionalità che non sono in quel momento reperibili all’interno dell’Amministrazione. Ed infatti, il regolamento del Comune di Milano prevede che un incarico dirigenziale apicale, come quello di comandante della polizia locale, possa essere affidato a un soggetto esterno all’ente soltanto dopo avere esperito una ricognizione interna, volta ad accertare la mancanza di figure qualificate e idonee ad occuparlo. Nel caso del comandante della polizia municipale sarebbe stato difficile assumere un “esterno” essendo presenti all’interno del Comune di Milano diversi dirigenti in possesso di tutti i requisiti previsti. Dunque, nessuna ricognizione e assunzione tramite l’istituto del comando, con richiesta all’allora capo della polizia Franco Gabrielli di “prestare” Ciacci. Il “comando”, però, è per un periodo limitato di tre anni, durante il quale l’amministrazione provvede a “rimborsare” i costi sostenuti per lo stipendio al “datore di lavoro” originario. In questo caso il Ministero dell’Interno. Il paletto dei tre anni è stato “by passato” da Sala lo scorso anno, disponendo per Ciacci una proroga di un altro anno, fino al prossimo mese di settembre. Se l’assunzione fosse stata effettuata con l’articolo 110, invece, poteva durare per l’intero mandato del sindaco, senza bisogno di proroghe. Il Comune di Milano ha diramato una nota sul disinteresse di Ciacci per la polizia locale di Milano. “Ciacci era già dirigente della polizia di Stato e responsabile della Sezione di polizia giudiziaria, per cui il comando come dirigente della polizia locale non ha certo rappresentato per lui un avanzamento di carriera.” I maligni fanno presente, però, che Ciacci prima di diventare comandante della polizia locale guadagnava circa 70.000 euro l’anno, che ora sono diventati 140.000. Un sacrificio sopportabile. Paolo Comi

Il cambio al vertice dei vigili urbani. Ci fu accordo tra Sala e la Procura? Il sindaco deve fare chiarezza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Questa volta non c’è moratoria per Beppe Sala, e non c’è un presidente del consiglio che venga a Milano per porgere i propri complimenti alla Procura della repubblica. La tegola c’è ed è pesante. Certo, è solo giornalistica, e oltre a tutto di un giornalismo di nicchia, come è quello delle Iene. Ma molto popolare. Tanto che se ne sta parlando parecchio a Milano, pur se non sui “grandi” giornali, che mantengono un atteggiamento ancora piuttosto british, con la deferenza dovuta al primo cittadino. In fondo non è neanche indagato, questa volta. Ma la tegola c’è. È la storia di quel licenziamento del capo dei vigili urbani Antonio Barbato nell’estate del 2017 e del velocissimo rimpiazzo del medesimo con il capo degli agenti del Palazzo di giustizia Marco Ciacci, braccio destro di Ilda Boccassini. C’è qualcosa di opaco in quella vicenda, protestano le opposizioni in consiglio comunale, e chiedono al sindaco di dare spiegazioni pubbliche. Che lui non dà, per non concedere palcoscenici agli oppositori politici, ma anche perché la situazione è molto imbarazzante, come lui stesso ha dimostrato sfuggendo nervosissimo davanti al giornalista delle Iene che lo aveva braccato con una certa insistenza, come è nello stile (un po’ scortese) della trasmissione. Certo, siamo in campagna elettorale, e il sindaco ha già messo su addirittura otto squadre per giocare al raddoppio. Non ha proprio bisogno di avere casini di questo tipo tra i piedi. Gli è già andata bene una volta, ed era molto più pesante, perché la tegola era giudiziaria, e riguardava il suo ruolo e alcuni suoi comportamenti nella veste di commissario di Expo. Una vicenda che va raccontata tutta, anche perché, dalla lunga “Nota dell’amministrazione comunale” diffusa alla stampa domenica pomeriggio traspare una certa astuzia non degna degli uffici del primo cittadino. Per replicare ai sospetti avanzati dall’ex comandante dei vigili Antonio Barbato, il quale ha esplicitamente denunciato un accordo tra il Comune e la procura della repubblica per far entrare al suo posto Marco Ciacci, la nota sostiene che «la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per tutti i fatti connessi alla gestione dell’Expo nel gennaio 2016, oltre un anno e mezzo prima che scoppiasse il caso Barbato». In cosa consiste l’astuzia? Nel fatto che in quella richiesta di archiviazione non c’era affatto il nome di Sala, ma altri cinque indagati. E lasciamo perdere quel che è successo in quel periodo al palazzo di giustizia, con il conflitto Bruti Liberati-Robledo, proprio intorno ai fatti di Expo, quelli per cui il presidente del consiglio ha ringraziato per due volte il procuratore della repubblica. Rimane il fatto che, se è vero quel che dice Barbato, e che gli avrebbe riferito l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza, sulla preoccupazione di Sala per l’inchiesta giudiziaria, tale da non poter rifiutare una richiesta della procura su Marco Ciacci, è perché era nel frattempo intervenuta la procura generale a sanare una grave ingiustizia. E cioè il fatto che si fosse consentito a un candidato alle elezioni comunali di avere una lunga moratoria, con le indagini messe su un binario morto fino a che lui non era stato eletto. Fino a che, non necessariamente “allo scopo di” farlo eleggere. Ma come si fa a non chiedere chiarezza? E siamo sicuri che, con il moralismo imperante anche nella laicissima Milano medaglia d’oro della resistenza, Beppe Sala sarebbe stato eletto sindaco, se si fosse saputo che era indagato per aver falsificato un atto pubblico? Perché del fatto che ci fosse un’inchiesta che lo riguardava tutti noi comuni mortali l’abbiamo saputo solo il 15 dicembre 2016, sei mesi dopo il suo ingresso a Palazzo Marino, quando la procura generale, che nel frattempo aveva avocato a sé l’inchiesta, evidentemente mostrando agli occhi di Matteo Renzi meno “sensibilità istituzionale”, aveva chiesto una proroga alle indagini. Ma l’estensore della “Nota” non demorde. Solo che trae dal ragionamento una conclusione sballata. Soprattutto perché pare ignorare il pesantissimo conflitto che proprio sulla vicenda giudiziaria di Beppe Sala ci fu tra procura della repubblica e procura generale. Semplificando rozzamente, l’una innocentista, l’altra colpevolista. E, se Barbato ha ragione, visto che non abbiamo mai visto una smentita dall’ex assessore Rozza, se amorosi sensi ci sono stati, non fu certo tra il sindaco e chi l’aveva indagato e aveva sostenuto l’accusa nei suoi confronti fino alla condanna (e in seguito la prescrizione). Per dovere di cronaca, ecco le conclusioni su questo punto della Nota: «Dunque è del tutto evidente che, poiché la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione molto prima che Sala diventasse sindaco e la procura generale ha invece portato avanti il rinvio a giudizio nei suoi confronti, la tesi dello “scambio di favori” risulta totalmente fantasiosa, infondata e a dir poco pretestuosa, quindi diffamatoria. E verrà perseguita in sede legale». Finale non molto elegante, pensare di chiedere a un giudice se è vero che un suo collega si è messo d’accordo con un sindaco per imbrogliare un vigile urbano. Ma sono tanti gli elementi di questa storia che non convincono. Anche perché gli interessati non rispondono, né in sede giornalistica né in quella politica. Ci hanno già provato a palazzo Marino nel passato e stanno insistendo in questi giorni. Il capogruppo in consiglio di Forza Italia Fabrizio De Pasquale, che vorrebbe vedere in volto (o in collegamento) il sindaco per chiarire come mai alle dimissioni di Barbato del 10 agosto sia seguita l’11 agosto la fulminea richiesta del Comune al questore per avere l’autorizzazione al comando di Marco Ciacci senza fare un bando. Analoghe richieste della presenza in aula del primo cittadino sono avanzate da Andrea Mascaretti, capogruppo di Fratelli d’Italia e il consigliere della Lega Max Bastoni. Sono tante le spiegazioni che la città si aspetta. Per esempio, se Antonio Barbato, per esser finito nelle intercettazioni di un’inchiesta di mafia in cui sarà sentito dalla pm Boccassini solo come persona informata sui fatti, non era più adatto a dirigere la polizia municipale, perché dopo le dimissioni è stato spostato in una società partecipata del Comune con lo stesso ruolo e le stesse mansioni? Insomma, era degno o indegno? E siamo così sicuri che il suo successore Marco Ciacci non abbia tratto, come dice la Nota, nessun vantaggio nel passare dalla polizia di Stato a quella locale? Neanche il vantaggio economico di veder triplicare la propria retribuzione? E siamo sicuri che questo passaggio così vantaggioso non sia stato anche un premio per il passato e anche in vista del futuro?

Giorgio Gandola per "La Verità" il 13 aprile 2021. C'è posta per la Procura di Brescia. Fra i documenti e gli esposti di routine, è arrivata dall'Anac (l'Agenzia nazionale anticorruzione) la segnalazione relativa a una vicenda che sta facendo rumore a Milano. Titolo del dossier: «Nomina illegittima del comandante del corpo di polizia municipale, senza selezione pubblica, senza titolo e con stipendio maggiorato». È il caso sollevato dall'ex comandante dei ghisa Antonio Barbato e da un'inchiesta del programma Le Iene. La storia riguarda anche il successore Marco Ciacci, agita i sonni del sindaco Giuseppe Sala e potrebbe avvelenargli la campagna elettorale. Barbato fu costretto alle dimissioni nel 2017 dopo una campagna mediatica micidiale. Fu accusato sui giornali (ma mai indagato) perché in un colloquio telefonico l'ex sindacalista Domenico Palmieri gli consigliò di far pedinare un vigile che faceva parte dei cosiddetti «furbetti del cartellino» (aveva utilizzato 60 permessi sindacali in modo irregolare, anche il 2 giugno e l'8 dicembre). Barbato rispose: «Meriterebbe questo e altro». Non fece pedinare nessuno ma la frase gli è costata la carriera; il dialogo era intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulle infiltrazioni delle cosche mafiose nella metropoli, Palmieri sarebbe stato arrestato. L'ex comandante dei vigili non era coinvolto, passava di lì, ma pagò con la defenestrazione. Allora la pietra tombale sui suoi tentativi di difesa venne posta dal Comitato per la legalità e la trasparenza presieduto dall'eroe di Mani pulite, Gherardo Colombo, che sentenziò: «Il solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi di far pedinare un collega depone in senso avverso alla correttezza che un comandante deve avere». Il sindaco Sala sembrava non aspettare altro: parere negativo il 10 agosto, cambio al vertice l'11 agosto con la nomina di Ciacci. Tutto in una notte senza ricognizione interna per verificare l'esistenza di analoghe professionalità (secondo l'Anci c'erano 13 posizioni adatte al ruolo) e senza concorso. È facoltà del sindaco non fare il bando, ma in passato Letizia Moratti e gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei conti per non aver eseguito «la ricognizione interna» prima di nominare dirigenti esterni. Il nuovo numero uno dei vigili era un esterno di prestigio, ex responsabile della polizia giudiziaria in procura, collaboratore di Ilda Boccassini, paracadutato con un blitz a Ferragosto. Al di là delle modalità, è l'accusa di Barbato a fare rumore: «La mia sostituzione era per far sì che Sala esaudisse un desiderio della Procura, considerando anche le inchieste giudiziarie a cui era stato sottoposto il sindaco. La gogna mediatica nei miei confronti serviva a velocizzare l'operazione di nomina di Ciacci. Si erano messi d'accordo per mandarmi via». Nel programma Le Iene, Barbato aggiunge che l'allora assessore alla Sicurezza, Carmela Rozza, gli disse: «Bisogna mettere Ciacci perché lei sa in che posizione giudiziaria è il sindaco, non possiamo permetterci di non esaudire la richiesta della Procura». Nel periodo di Expo, il deus ex machina Sala fu indagato per abuso d'ufficio (aveva affidato due padiglioni della ristorazione direttamente a Oscar Farinetti) e archiviato. Poi fu condannato a sei mesi con prescrizione per un appalto. Il dirottamento delle inchieste a Francesco Greco e Boccassini portò allo scontro fra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, conclusosi con l'allontanamento di quest'ultimo. Ricordando quel braccio di ferro scrive Luca Palamara: «Se cade Bruti, cade il Sistema». Nel periodo dell'Expo per due volte il premier Matteo Renzi rese pubblico tributo alla Procura di Milano per «sensibilità istituzionale». La storia è intricata, le opposizioni chiedono a Sala di spiegare in consiglio comunale ma lui non è ancora uscito allo scoperto. Max Bastoni (Lega): «Sala deve fugare ogni sospetto di scambio di favori». Fabrizio De Pasquale (Forza Italia): «Perché non ha voluto valutare più figure? Il sindaco abbia il coraggio di affrontare un dibattito democratico». Ciacci è un funzionario noto: indagò sulle cene eleganti ed è stato teste d'accusa nel processo Ruby contro Silvio Berlusconi. Da capo dei ghisa, nel 2018 si è occupato personalmente di un incidente stradale in cui un medico fu investito da una ragazza in motorino e morì. La responsabile dello scontro, condannata per omicidio colposo, era Alice Nobili, figlia di Boccassini e dell'ex marito pm, Alberto Nobili. Mai sottoposta ad alcoltest e a test antidroga. Ora saranno i pm bresciani a valutare se dentro il caso sollevato da Barbato ci sono irregolarità. Rimane una perplessità rispetto a quel «solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi» scandito dall'ex pm Colombo nel suo pronunciamento. Un anno lo stesso Comitato legalità e trasparenza non ha avuto niente da dire a Sala per la nomina di Renato Mazzoncini ad amministratore delegato di A2A, multiutility strategica con 12.000 dipendenti e un fatturato da 7 miliardi. Mazzoncini non aveva «ipotesi» pendenti, ma due inchieste a carico.

La storia dell'ex capo dei vigili di Milano Barbato. Le Iene News il 02 aprile 2021. Nel 2017 l’allora capo della polizia municipale di Milano, Antonio Barbato, si dimette dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Al suo posto il Comune nomina Marco Ciacci, fino ad allora in servizio presso la Procura. Ce ne parla Fabio Agnello. “Ho vissuto una storia molto brutta, che nessuno dovrebbe vivere in un paese come l’Italia”. A parlare con il nostro Fabio Agnello è Antonio Barbato, che fino al 2017 era il comandante della polizia municipale di Milano. In quell’anno però si dimette, dopo esser stato travolto mediatamente da uno scandalo. Uno scandalo che ipotizzava un presunto coinvolgimento perfino delle cosche della criminalità organizzata: Barbato viene accusato di aver incontrato dei mafiosi al fine di far pedinare un vigile sotto il suo comando. Una notizia che ha fatto discutere molto in quei giorni e che è finita al centro della cronaca cittadina. “Io sono stato sentito in qualità di testimone”, ci racconta Barbato. In quell’inchiesta infatti l’ex comandante dei vigili non venne indagato, ma sentito come persona informata sui fatti. Ma sulla stampa le cose vengono presentate in modo molto diverso. “Questa è una cosa che mi fa impazzire e non mi fa dormire la notte, sapendo quello che c’è dietro a questa storia”, ci dice Barbato: “Cioè la sostituzione del comandante Barbato con l’attuale comandante Marco Ciacci”. Al posto di Antonio Barbato il Comune, guidato dal sindaco Beppe Sala, nomina Marco Ciacci, che fino a quel giorno era a capo della polizia giudiziaria della procura di Milano. Possibile che ci sia qualcosa che non torna in questo cambio alla guida della Polizia locale della città? La Iena ce ne parla nel servizio in testa a questo articolo.

Il patto tra Procura e sindaco. Scandalo Expo, così il sindaco Sala si è piegato alla Procura (e fu salvato…). Frank Cimini su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Stop and go. Il bastone e la carota. La magistratura da tempo è consapevole di poter aumentare il potere della categoria e anche quello del singolo magistrato sia facendo le indagini che non facendole. A seconda delle convenienze e delle opportunità con tanti saluti al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale tanto celebrato nei convegni e nei comunicati stampa. Bisogna raccontare di nuovo la storia di Expo, della moratoria sulle indagini per approdare a uno “strano” incidente stradale con un morto e senza alcol test e test antidroga, una storia da nomenklatura moscovita sulla quale i giornaloni oni-oni scelsero di autocensurarsi. Beppe Sala il sindaco di Milano, pronto a ricandidarsi e a essere confermato come primo cittadino per mancanza di avversari decenti al di là dell’alleanza con i Verdi europei che in Italia e in città non esistono, fu uno dei principali beneficiari della moratoria decisa dalla mitica procura che fu di Mani pulite per salvare l’evento. Senza fare gara pubblica, Sala deus ex machina di Expo affidò la ristorazione di due padiglioni a Eatitaly di Oscar Farinetti senza che in un primo momento nessuno dicesse niente. Poi l’anomalia chiamiamola così fu segnalata dall’Anac all’epoca diretta da Raffaele Cantone. Sala venne indagato per abuso d’ufficio e non fu mai interrogato fino alla richiesta di archiviazione. Così ebbe modo di candidarsi a sindaco e di essere eletto nonostante il gigantesco conflitto di interessi tra amministratore di Expo e Comune di Milano che qualcosa da spartire con l’evento l’aveva. La procura nella richiesta di archiviazione ammetteva che di fatto Sala aveva favorito Farinetti ma senza averne l’intenzione. Insomma una sorta di “a sua insaputa” di scajolana memoria. L’accusa di abuso d’ufficio venne archiviata dal gip. Il giudice che firmò il provvedimento era stato tra i vertici del Tribunale che sui fondi di Expo giustizia avevano deciso di non fare gare pubbliche per l’affidamento dei fondi, ricorrendo ad aziende «in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione». Una di queste aziende aveva sede nel paradiso fiscale del Delaware e ancora oggi non sappiamo a chi appartenesse. Ma possiamo affermare tranquillamente che la società non era di Silvio Berlusconi. Insomma Sala fu salvato anche perché aveva assunto la stessa iniziativa dei giudici, oltre che per non far saltare del tutto l’evento. Sui fondi di Expo giustizia nacque un fascicolo di indagine che per il sospetto fossero coinvolti dei giudici in servizio a Milano fece il giro di diverse procure, Brescia, Venezia, Trento. E qui venne tutto archiviato senza neanche iscrizioni al registro degli indagati e interrogatori perché cane non mangia cane. Qui tornano in mente le parole dell’allora premier Matteo Renzi che per ben due volte ringraziò la procura che aveva dimostrato senso di responsabilità istituzionale. Per aver falsificato la data della sostituzione di due componenti di una commissione aggiudicatrice Sala venne indagato solo perché era intervenuta la procura generale della Repubblica avocando l’inchiesta. La procura aveva fatto finta di niente. Alla fine il sindaco è stato condannato sia in primo grado sia in appello a sei mesi mutuati in una sanzione pecuniaria. Nel frattempo scattava la prescrizione alla quale il primo cittadino non ha legittimamente rinunciato. A nessun imputato si può chiedere né tantomeno imporre di farlo. È un principio di civiltà. In tutta questa storia non possiamo non ricordare che la giunta Sala designò a capo dei vigili urbani Marco Ciacci fino ad allora capo della polizia giudiziaria. Ciacci una sera dell’ottobre di tre anni fa piomba letteralmente sul luogo di un incidente stradale dove era stato investito, morendo, un medico. Responsabile dell’investimento con il proprio ciclomotore era stata Alice Nobili figlia dei due procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Alberto Nobili. Come detto all’inizio niente alcol test né test antidroga. Risarcendo il danno (la somma sicuramente congrua è coperta legittimamente da clausola di riservatezza) la ragazza è stata condannata tramite patteggiamento a nove mesi per omicidio colposo. I giornali e le agenzie di stampa non diedero neanche la notizia della condanna. Pensate a cosa avrebbero e non avrebbero scritto nel caso in cui Piersilvio Berlusconi avesse tirato sotto un pedone. Ci pensò un povero blog, poi qualche quotidiano minore tornò sulla vicenda. Adesso grazie alla trasmissione delle Iene si ritorna a parlare della nomina di Ciacci. Sarebbe cosa buona e giusta che si riparlasse pure di Expo, celebrato come una sorta di miracolo economico ma di cui non conosciamo ancora i conti. Nonostante ciò i giudici per la storia del falso hanno riconosciuto a Sala l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Quel falso materiale e ideologico nella vicenda intricata e coperta da moratoria di Expo sarà sicuramente una quisquilia ma siamo sicuri spetti ai giudici affermare che l’evento fu un fatto tutto sommato positivo? Forse sì forse no. Aspettiamo i conti, la pipì fuori dal vaso non va bene mai soprattutto se fatta dai giudici chiamati a condannare o assolvere. E basta.

Lo scoop delle Iene sul caso Barbato. La Procura di Milano ha commissariato Sala: capo dei vigili cacciato e sostituito dall’uomo di fiducia della Boccassini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2021. È vero che nel 2017 nella città di Milano ci fu un accordo sotterraneo tra il sindaco, il procuratore della repubblica e un ex leader di Mani Pulite, per far fuori il comandante dei vigili urbani e sostituirlo con un agente di polizia giudiziaria, uomo di fiducia di Ilda Boccassini? E per quale motivo il Comune di Milano avrebbe dovuto essere tenuto a balia dalla polizia di Stato, o addirittura dall’antimafia? È la vittima in persona, quell’Antonio Barbato che fu braccato dai giornalisti e spintonato dal sindaco e dall’assessore finché stremato non accettò di lasciare il suo posto di capo della polizia urbana alla persona segnalata dalla procura, a raccontarlo. Alla fine, anche con un nodo in gola, al ricordo di quel che gli capitò. Una bomba di ventisette minuti, lanciata il venerdì di Pasqua dal programma delle Iene su una Milano già deserta alla vigilia dei tre giorni di zona rossa, destinata a un potente scoppio, anche se ritardato dai giorni di festa. Se scoppio ci sarà, visto il timore reverenziale (chiamiamolo così) che ormai pervade le redazioni al solo sentire i nomi di alcuni protagonisti. Di sicuro ci saranno le reazioni politiche da parte delle opposizioni a Palazzo Marino, già preannunciate da diversi consiglieri. Se fossimo in un’aula giudiziaria, e se ragionassimo con il metro di certi pubblici ministeri, alla sbarra ci sarebbero: Il sindaco di Milano Beppe Sala, il procuratore Francesco Greco, il presidente della “Commissione legalità” del Comune, Gherardo Colombo, ex divo di mani Pulite, l’ex assessore alla sicurezza Carmela Rozza. E se quanto raccontato nel super-documentato servizio delle Iene fosse anche solo rilanciato da una bella campagna stampa in stile Repubblica (le dieci domande) – Il Fatto (corsivo travagliesco) – Domani (imitazione degli altri due), un bel reato associativo agli imputati non lo leverebbe nessuno. Lasciamo parlare i fatti, un po’ come se nel processo italiano ci fosse davvero il rito accusatorio e la prova si formasse nel dibattimento. Il giornalista delle Iene Fabio Agnello ci ha lavorato per mesi, lo si capisce, e non ha tralasciato alcun indizio, né dimenticato di sentire alcun testimone. La parte lesa in primis, Antonio Barbato. Il quale racconta che, quando nel 2016 vinse il concorso e diventò comandante della polizia municipale milanese, l’assessore alla sicurezza Carmela Rozza (oggi consigliera regionale del pd) gli disse che era stato molto fortunato. Perché? Perché c’era stata una pressione da parte della Procura della repubblica perché a quel ruolo fosse nominato un altro, ma che il sindaco Sala non aveva potuto far niente perché ormai il posto era già stato assegnato a lui. L’ “altro”, quello segnalato dalla procura, si chiamava Marco Ciacci, era un agente di polizia giudiziaria assegnato al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, allora capo del dipartimento antimafia (andrà in pensione nel 2019). A pensarci questo aspetto della vicenda è un po’ inquietante. All’interno del corpo dei vigili urbani milanesi esistevano all’epoca, a quanto documentato anche in una relazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni Italiani, diverse posizioni adatte a quel ruolo, tredici per la precisione. E non va dimenticato che in passato Letizia Moratti e tutti gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei Conti proprio per non aver eseguito una ricognizione interna al Comune prima di nominare dirigenti esterni. Può anche essere una regola sbagliata, ma esiste. In ogni caso, per poter collocare a quel posto dirigenziale l’appartenente a un’altra amministrazione (come la polizia di Stato), il sindaco Sala avrebbe dovuto procedere a indire un altro bando. E forse chi in procura gli aveva chiesto quel favore avrebbe dovuto saperlo. In ogni caso in quel 2016 non successe niente e Ciacci rimase al proprio posto. Comunque sarà il caso, un anno dopo, a far virare il vento. E il caso porterà il comandante Barbato proprio a testimoniare, come persona informata dei fatti, davanti alla pm Boccassini. Certo, lui avrebbe preferito essere convocato per altri motivi, per un suo esposto. Perché, da bravo capo, si era allarmato sui comportamenti di un suo sottoposto, un sindacalista della Cisl di nome Mauro Cobelli, che esagerava nella richiesta di permessi , che capitavano quasi sempre di sabato e domenica piuttosto che in feste come quella del 2 giugno o dell’8 dicembre. Cobelli finirà in seguito rinviato a giudizio in un’inchiesta giudiziaria di nome “multopoli”, perché sospettato di far annullare le contravvenzioni agli amici. E ora, intervistato dalle Iene, prende tempo nel dare le risposte, senza trovare il modo di spiegare il perché di tutti quei permessi. Comunque il comandante Barbato aveva presentato il suo bell’esposto alla procura della repubblica di Milano che, al contrario di quanto accaduto in altre città dove le inchieste sui “furbetti del cartellino” spopolavano (a volte a sproposito) con arresti e licenziamenti, non aveva preso alcuna iniziativa. Fu a quel punto che la buona sorte del comandante Barbato cominciò a girare storta. Pensò infatti il tapino di chiedere consiglio a un altro sindacalista, Domenico Palmieri, un leader della Cisl molto conosciuto che lavorava in Provincia. I due si videro e si telefonarono. Palmieri la buttò lì: perché non lo fai pedinare da un investigatore privato? E lo sventurato rispose: meriterebbe questo e altro! Fu la fine. Palmieri era intercettato in un’inchiesta milanese chiamata “mafia appalti” (come quella siciliana che potrebbe aver segnato la fine di Paolo Borsellino), condotta da Ilda Boccassini, la quale sentì subito Antonio Barbato come persona informata sui fatti (una mezzoretta in tutto, ricorda lui), e la cosa pareva finita lì. Invece no, perché aleggiava sempre qualcosa di strano nell’aria. E perché qualcuno soffiò ai giornali la storia del (mancato) pedinamento. Parte da subito Repubblica, “Intercettati dall’antimafia, Barbato nei guai”, e poi “Milano, vigile pedinato dagli uomini del clan”, eccetera. L’assessore Rozza comincia a fare pressioni perché il comandante si dimetta. Lui non capisce: ma che cosa ho fatto? Non ho neanche poi raccolto quel consiglio sul pedinamento. Ed ecco che la stessa assessore –è il racconto di Barbato già reso pubblico in altre occasioni e mai smentito- gli dice chiaramente che il sindaco Sala sta passando un brutto momento perché indagato per reati connessi all’Expo e quindi non ci si può permettere di fare uno sgarbo alla Procura della repubblica. In poche parole: devi lasciare il posto a Ciacci. Questo è quanto lui intuisce, e la storia gli darà ragione. La situazione è molto delicata e Sala è in una posizione quanto meno imbarazzante. Perché la Procura di Francesco Greco vuol lasciar cadere le accuse nei confronti del sindaco e questo determinerà un clima conflittuale con la procura generale (proprio come nei giorni scorsi per il processo Eni), che avocherà a sé l’inchiesta fino a che il sindaco di Milano sarà condannato per falso ideologico e materiale e infine godrà di una prescrizione cui non rinuncerà. Ma cui aveva diritto, anche se la cosa non era piaciuta a Marco Travaglio, che da allora lo dardeggia ogni volta in cui è possibile. Ma sulla vicenda Barbato non fa certo una bella figura. Anche perché le parti più brutte di tutta la storia sono quelle che arrivano dopo. Il sindaco è in difficoltà, perché Barbato ha vinto il concorso, e nello stesso tempo, come si fa a dire di no a una richiesta della procura? Così passa la patata bollente a qualcuno che il Palazzo di giustizia lo conosce bene, Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani Pulite è infatti il presidente di una Commissione legalità del Comune, di cui, se mi si consente, non si capisce perché debba esistere, quasi ci fosse il bisogno di controllare, in aiuto alla magistratura, se Palazzo Marino commette reati. Così Gherardo Colombo e la sua commissione, in nome della legalità, mostrano il pollice verso che porterà infine il povero Barbato alle dimissioni. Ma non dimentichiamo che quello delle Iene è un programma satirico. E come tale non può non notare il linguaggio usato nella condanna a morte. Un linguaggio quanto meno ipocrita. Ecco il motivo della sentenza della Commissione legalità: “il solo ipotizzare di poter accettare l’ipotesi di farlo seguire… è il contrario della correttezza”. Cioè Barbato, nella telefonata con il sindacalista Barbieri, di cui ignorava (come tutti) la vicinanza a una cosca, avrebbe ipotizzato di poter accettare un’ipotesi. Naturalmente, inseguito dal giornalista delle Iene, Colombo non dà oggi nessuna spiegazione per quella decisione, così come Sala, nervosissimo. Viene anche rimandata l’immagine dei quei giorni, quando lui diceva che Barbato l’aveva fatta grossa, mentre alle sue spalle il vigile Cobelli rideva. Tutti oggi paiono voler dimenticare. Tranne la vittima. Che ricorda. Volete sapere come finisce la storia? Attenzione alle date. Barbato si dimette il 10 agosto. Il giorno dopo, 11 agosto, Franco Ciacci ha già ottenuto il nulla osta del questore ed è il nuovo comandante dei vigili di Milano. Senza ricognizione interna al Comune e senza bando di gara. Mai successo. Barbato aspetta giustizia. “Si erano messi tutti d’accordo”, dice con la voce rotta dal pianto. Aspetta giustizia. Non l’ha avuta dal sindaco Sala, non l’ha avuta dal procuratore Greco, non l’ha avuta dal presidente della legalità Colombo. Ha inviato tutta la sua documentazione all’Anac, che ha inviato una relazione alla procura di Brescia. Chissà. Non avendo molta fiducia in una nuova campagna di stampa che vada in direzione contraria alla gogna che aveva subito quattro anni fa, spera che tutti i consiglieri di opposizione di Palazzo Marino, che ci avevano già provato invano allora, si facciano sentire oggi. In una situazione particolare, con il procuratore Greco che sta per andare in pensione e il sindaco Sala ricandidato alle prossime elezioni. Ma, chiunque sarà il prossimo sindaco di Milano e chiunque sarà il prossimo procuratore capo, non sarebbe ora di separare le loro carriere?

Lo scandalo. Marco Ciacci, il fedelissimo della Boccassini: teste contro Berlusconi, promosso senza concorso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Lui c’era. Non appena è partita in quarta Ilda Boccassini, pubblico ministero antimafia distolta improvvisamente da indagini complesse sulla criminalità organizzata al nord per occuparsi dei peccati di Silvio Berlusconi, lui c’era. E fu un importante testimone dell’accusa al processo Ruby, il vicequestore Marco Ciacci, responsabile della polizia giudiziaria al Palazzo di giustizia di Milano, oggi comandante dei vigili urbani. Bisognerebbe chiedergli se quel salto di carriera, un distacco avvenuto senza bando dopo molte pressioni da parte di ambienti della procura sul sindaco Sala, sia stato per lui un premio. Certo non è routine, che un vicequestore di polizia diventi comandante dei vigili, improvvisamente uomo di potere in una città come Milano. Ma premio per che cosa? Per capacità, per lealtà? Nelle indagini sul presidente del Consiglio si era dato molto da fare, in quei mesi del 2010: intercettazioni, controlli e pedinamenti su chiunque entrasse nella villa di Silvio Berlusconi in occasione di una serie di cene, diciassette per la precisione. Marco Ciacci era stato l’uomo-macchina di Ilda Boccassini e responsabile della polizia giudiziaria. E forse sei anni dopo, quando per la prima volta si ipotizzò un suo passaggio dal palazzo del Piacentini di corso di Porta Vittoria alla piazzetta Beccaria (proprio quella dove tanto tempo fa Pietro Valpreda era stato sospettato di aver preso un taxi per percorrere venti metri fino a piazza Fontana per mettere la bomba) dove è la sede della vigilanza urbana, un premio lo meritava proprio. Certo, quando il vicequestore Marco Ciacci arriva davanti alle tre giudici della settima sezione del tribunale di Milano, quelle che Berlusconi definiva “comuniste e femministe”, e non era un complimento, parte nel racconto dal 3 settembre 2010, quando l’aggiustamento delle date è già stato fatto. Con tradizionale sistema ambrosiano, che poi è parte di quello nazionale così ben descritto da Sallusti e Palamara nel famoso libro. Se l’ex leader del sindacato delle toghe da Roma si è fatto cecchino, imbracciando il fucile nei confronti del presidente del Consiglio, a Milano ci fu un intero plotone di esecuzione in quei giorni del 2010. Lo stile ambrosiano aveva già regalato alla storia, dai tempi di Mani Pulite, ma ancor prima negli anni del terrorismo, una certa disinvoltura nell’applicazione delle regole. Competenza territoriale, diritti dell’indagato, obbligatorietà dell’azione penale, uso corretto della custodia cautelare: parole, parole, soltanto parole. Perché al sistema ambrosiano tutto era concesso. Lui era lì. Lo rivediamo impassibile nell’aula, bel ragazzo con il pizzetto alla moda, mentre snocciola l’elenco delle intercettazioni e parla di prostituzione, prostituzione, prostituzione. Silvio Berlusconi è rinviato a giudizio per concussione, prima di tutto, accusato di aver costretto un pubblico ufficiale che in realtà non si è mai sentito obbligato, a fare qualcosa contro i suoi compiti, cioè affidare la giovane Ruby a Nicole Minetti. Ma nel pentolone processuale pornografico dove si mescolano reati e peccati, parlare di sesso a pagamento è obbligatorio, se non si vuol far crollare l’interno impianto dell’accusa. Il vicequestore Marco Ciacci si presta. Viene trovata nella casa di una ragazza una lettera anonima scritta da un mascalzone che si riteneva in diritto di avvertire la madre sulla presunta professione della figlia? Ecco la prova che la ragazza sia una puttana. Certo, forse a quella ragazza sarebbe piaciuto ricevere dal vicequestore la stessa attenzione che lui dedicherà, qualche anno dopo, quando sarà già stato premiato con la nomina a comandante della polizia urbana di Milano, a un’incauta ragazza che di notte aveva investito e ucciso un pedone con il suo scooter. Era accorso subito sull’incidente, quella sera, il dottor Ciacci perché, aveva detto mentre un sindacato dei vigili protestava per quell’attenzione particolare, stava cenando in un ristorante vicino al luogo dell’incidente. Lodevole solerzia, la sua. Anche se poi nessuno aveva sottoposto la ragazza all’alcol-test, né l’aveva arrestata per omicidio stradale (reato che comunque noi consideriamo assurdo e sbagliato), come spesso succede se la persona investita decede. Lui c’era, al processo. E dichiarava di aver iniziato le investigazioni dal 3 settembre 2010, quando aveva ereditato generiche indagini su un giro di prostituzione di cui faceva parte anche Ruby. Resta il fatto che, nel frattempo, molti danni erano stati fatti. E neanche un bambino potrebbe credere a certe favolette. Perché da quella famosa sera di maggio in cui Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio in carica, aveva telefonato alla questura di Milano, ritenendo che fosse stata fermata la nipote del presidente Mubarak, era diventato lui il pesce grosso da prendere all’amo e poi giustiziare da parte dei famosi “cecchini” di cui parla Luca Palamara. Il plotone era pronto da tempo, si aspettava solo l’occasione. E quella fu ghiotta. Altro che generiche inchieste su giri di prostituzione! Non dimentichiamo che, per indagare su Berlusconi (e non su qualche Belle de jour), il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva anche sottratto le competenze al pm competente per materia, ingaggiando un robusto braccio di ferro con il suo aggiunto Alfredo Robledo, poi ghigliottinato dal Csm con l’aiuto addirittura del presidente della Repubblica. Fatto sta che le indagini, ci fosse o no il vicequestore Ciacci a condurle dall’inizio, presero origine fin da allora. E Ruby fu interrogata due volte nei primi giorni di luglio, e per mesi e mesi fu stesa la tela del ragno nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma il leader di Forza Italia sarà iscritto nel registro degli indagati solo il 21 dicembre, e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Sistema ambrosiano, ovvio. Nel frattempo è già accaduto tutto, il controllo ogni sera, per diciassette volte, nella casa del peccato, neanche si stessero spiando boss mafiosi di Cosa Nostra, per «ricostruire lo svolgimento delle cene e chi fossero i partecipanti». Si spiava il presidente del Consiglio per frugare tra le sue pietanze e le sue lenzuola. Per mesi e mesi, senza mai informarlo, come sarebbe stato suo diritto e come prevede la legge. Anche se lui, e anche le ragazze che frequentavano le sue cene, non avevano mai ucciso nessuno. Sono state solo trattate come puttane, nel processo pornografico che non finisce mai. E nessuna di loro ha mai avuto la fortuna di trovare un buon samaritano in divisa che corresse a dar loro conforto qualora una sera si fossero trovate in difficoltà. Loro.

Silvio Berlusconi, "quando disse no": Amadeo Laboccetta, in un libro tutta la verità sul golpe giudiziario. Amedeo Laboccetta su Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Un giorno di qualche anno fa, l'allora direttore del Tempo, Gianmarco Chiocci, mi fece intervistare per farmi raccontare quel mare di vicende opache che avevano visti protagonisti l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il vero autore del colpo di Stato contro Berlusconi, ed il ruolo del suo killer, Gianfranco Fini. Quell'intervista colpì molto il Cavaliere, tant' è che ricevetti nei giorni successivi una sua cordialissima telefonata. Mi invitò a raggiungerlo a Palazzo Grazioli, dove ci intrattenemmo per oltre tre ore. Fu in quella occasione che mi invitò a scrivere un libro per raccontare tutta la verità su quel che avevo visto e sentito in quei tormentati anni che portarono al colpo di Stato in Italia. Ero titubante. Non ero uno scrittore. Ma lui insistette vigorosamente. Telefonò durante un successivo incontro a sua figlia Marina, per chiedere una edizione speciale della Mondadori. Mi lasciai convincere. Cominciai a scrivere. Incontrai ex colleghi e tanti amici che avevano con me condiviso quei complessi momenti. Raccolsi prove inconfutabili e precise testimonianze. Fu un lavoro massacrante. Ma lo svolsi con puntualità e precisione. Direi un lavoro scientifico. Quando il libro era giunto quasi alla conclusione Berlusconi volle onorarlo con una sua bellissima prefazione. Che conservo gelosamente. Ricordo che volevo intitolare il mio libro "Intrigo a Palazzo". Ma il Cavaliere preferiva "Una storia Italiana". Vinse lui. Oramai era fatta. Il decollo era vicino. Me lo comunicò un entusiasta Cavaliere, sempre nel suo studio di Grazioli, davanti ad un fantastico gelato artigianale. Berlusconi ne è ghiotto. Ricordo che giunsero per salutarlo in quel che per me era uno storico giorno, Fedele Confalonieri, Niccolò Ghedini ed il mio amico Maurizio Gasparri, che da me era stato sempre informato, insieme al compianto Matteoli, su tutti i passaggi di quel mio nuovo impegno. Eravamo nel luglio del 2014. Ma il mio entusiasmo era destinato a durare poco. Dopo circa un mese, Berlusconi mi pregò di raggiungerlo urgentemente a Roma. Mi disse con tono cupo che lui era seriamente preoccupato per me. Che quel libro coraggioso poteva espormi ad enormi rischi, e mi chiedeva di riporlo in un cassetto. Ovviamente la presi molto male. Provai al tempo stesso rabbia e delusione. Ma lui fu fermo anche se lo fece con garbo e stile. Per me non era stato facile raccontare una valanga di episodi, ricostruire giorno dopo giorno quei terribili momenti. Compresa la famosa, agghiacciante telefonata, ascoltata in viva voce, tra Fini e Napolitano. Avevo scritto quel libro non solo per far conoscere la verità rispetto al golpe che ha cambiato la storia della nostra nazione, ma anche per liberarmi di un peso che non potevo più tenermi dentro. Quel libro non è stato mai smentito. Nessuno mai mi ha querelato. Ma non è stato mai pubblicato dalla Mondadori. Me ne tornai a Napoli con un profondo magone. Chiesi consiglio a molti. Tutti mi invitarono a lanciare il cuore oltre l'ostacolo. A provare con un'altra casa editrice. Portai in visione il libro a Marcello Veneziani nella sua magica casetta di Talamone. Il mio fraterno amico me lo restituì dopo solo 24 ore con una stupenda prefazione. La piccola ma combattiva Controcorrente del compianto Pietro Golia cominciò a studiare il libro. Nel dicembre 2015 con il titolo "Almirante Berlusconi Fini Tremonti Napolitano", e con sotto titolo "La vita è un incontro", andammo in stampa. La mia creatura fu presentata pochi giorni prima di quel Natale 2015 nei saloni dell'hotel Parker di Napoli, con Golia e Veneziani. Fu una serata magica. Le prime mille copie presero il volo. Il primo quotidiano che dette notizia del mio libro fu Libero con un pezzo che partiva dalla prima pagina a firma di Pierangelo Maurizio. Poi a seguire arrivarono il Tempo, il Giornale, il Mattino, il Roma... I giornaloni nazionali se ne guardarono bene dall'affrontare il tema.E le tv, salvo alcune, non furono da meno. All'epoca Giorgio Napolitano era ancora nel pieno della sua potenza. Tanto che fu riconfermato Presidente. Meglio non rischiare. Dopo quella serata a Napoli ricevetti telefonate da amici da tutta Italia per organizzare altre presentazioni. Da Berlusconi il più assoluto silenzio. Ma dopo pochi mesi si fece risentire. Nei primi di giugno del 2016 venne a Napoli per una manifestazione al Teatro Politeama. I suoi referenti mi chiesero di esser presente in sala. Il Cavaliere esordì con un ringraziamento nei miei confronti. Mi ringraziò pubblicamente per il mio coraggio e per aver voluto portare avanti una grande battaglia per la verità. Il giorno dopo ripeté la scena in un comizio ad Aversa. Nei giorni a seguire, ospite da Barbara D'urso, tornò sul mio libro. Lo fece anche a Porta a Porta. Ma il destino cinico era in agguato. Dopo qualche settimana da quella sua missione partenopea, il Cavalier Berlusconi fu colpito da gravissimi problemi al cuore. A questo punto penso proprio che dovrò scriverne un altro. 

Silvio Berlusconi contro la magistratura: "In 27 anni 86 processi, infiltrazioni ideologiche e opacità del sistema di potere". Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. "In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio, ho subito ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze": Silvio Berlusconi racconta le ingiustizie subite nel corso degli anni in un'intervista al Giornale e invoca la separazione dei poteri su cui si fonda ogni società liberale. A tal proposito aggiunge: "Da molti anni ho subito e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate". Il leader di Forza Italia, comunque, non se la prende con tutti i magistrati. Anzi crede che si debba fare una distinzione: "Tutto questo non riguarda i tanti magistrati che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi". Secondo Berlusconi, quello che gli è accaduto non solo ha rovinato la sua vita per oltre 20 anni, ma ha anche "arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato", continua nell'intervista. E non è tutto. Perché secondo l'ex premier le ingiustizie subite hanno finito per danneggiare anche "i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica". Parlando dei numerosi processi subiti, poi, il leader azzurro spiega: "Mettendoli tutti in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni. Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo". Insomma, Berlusconi al fianco di Marta Cartabia per una immediata e profonda riforma del sistema giudiziario.

«Quegli 86 processi e il mio incubo kafkiano. A Cartabia chiedo di cambiare passo». Silvio Berlusconi: «Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo». Il Dubbio il 28 marzo 2021. «Ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo». Silvio Berlusconi si racconta in un’intervista al Giornale e si rivolge alla guardasigilli Marta Cartabia per invocare un cambio di passo netto sulla Giustizia. «Siamo consapevoli – spiega il Cav – che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni – se tutti agiranno con senso di responsabilità – per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

"È una giustizia malata: fermiamo questi veleni". Il Cavaliere: "Da anni denuncio le infiltrazioni ideologiche tra le toghe e le opacità del sistema di potere che caratterizzano parte delle magistratura". Alessandro Sallusti - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale.

Presidente Berlusconi, Il libro Il Sistema racconta un'Italia sconosciuta al grande pubblico. A lei che effetto ha fatto leggerlo, immaginava che la rete da lei stesso più volte denunciata fosse così estesa e profonda?

«Non mi ha stupito, proprio perché da molti anni ho subíto e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate. Però fa molta impressione leggere queste stesse cose denunciate da chi ne è stato protagonista. L'ottimo libro-intervista che Lei, direttore, ha scritto con il giudice Palamara mette in luce un sistema che contraddice i cardini stessi dello stato di diritto, la terzietà della magistratura e la separazione dei poteri su cui si fondano le società liberali. Tutto questo non riguarda i tanti magistrati - sono una larga maggioranza - che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi. Per questo credo sia un dovere morale e civile fare chiarezza in tutte le sedi competenti. Quello che mi è accaduto non ha rovinato la vita per oltre vent'anni solo a me ma ha arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato. Soprattutto ha danneggiato i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica».

Secondo Palamara lei era nell'obiettivo della magistratura quasi a prescindere: «Se torna Berlusconi - dice ricordando la vigilia delle elezioni politiche del 2008 stravinte dal Centrodestra - dobbiamo tornare tutti in campo per fermarlo». Per capire meglio di che cosa stiamo parlando può ricordarci i numeri e i costi dell'offensiva che ha subito?

«Caro direttore, come direbbe Dante Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme, già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Mi fa male solo a pensarci. In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio a tutt'oggi sono l'ultimo premier arrivato a Palazzo Chigi come leader eletto dalla maggioranza che aveva vinto le elezioni ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo. Ogni udienza poi ha significato per me diverse ore, normalmente un intero pomeriggio, impegnate con i miei avvocati per prepararla. Non oso dirle quanto mi è costato tutto questo, e a quanto sono ammontate le parcelle dei 105 avvocati e dei 30 consulenti di parte che ho dovuto impiegare. Farebbe troppa impressione. A questi costi si devono aggiungere i 550 milioni che sono stato costretto a versare a De Benedetti a seguito di un processo sulla Mondadori (di cui il 53% detenuto dalla mia famiglia ha un valore in borsa di poco più di 200 milioni!), processo che continuo a ritenere ingiusto».

Offensiva che nonostante gli onori postumi che sta ricevendo dai suoi avversari politici non accenna a placarsi, vedi i processi in corso sul caso Ruby nati da un processo - il caso Ruby - in cui lei è stato assolto in via definitiva per non aver commesso il fatto.

«In effetti su questa vicenda ci sono ancora dei processi aperti. Si vorrebbe dimostrare che io abbia corrotto dei testimoni per indurli a nascondere la verità su quello che sarebbe accaduto nelle famose cene a casa mia. È una costola del cosiddetto caso Ruby, che come lei ha ricordato si è concluso con la mia piena assoluzione. È una storia che forse merita di essere raccontata».

Come si svolgevano queste serate? Sono circolate descrizioni quasi morbose, si è parlato del famoso bunga-bunga.

«Come sa benissimo chiunque mi conosca, ho sempre amato la compagnia, mi piace ricevere ospiti nelle mie case e farli stare bene. In quelle serate si cenava, si faceva musica, si parlava di tutto, i più giovani qualche volta ballavano. (Io no, perché per un antico fioretto sono impegnato a non ballare!) Tutto qui. Queste sono le famose serate sulle quali si è favoleggiato. E il bunga-bunga era semplicemente una storiella che mi aveva raccontato Gheddafi in occasione della sua festa del Re dei Re sul destino speciale capitato a suoi collaboratori rapiti dall'unica tribù che non gli era sottomessa. Solo questo, ma molto divertente».

Eppure proprio gli ospiti di queste serate sarebbero stati corrotti per mantenere il silenzio.

«Fra i partecipanti a queste serate naturalmente c'erano miei amici. Per esempio, per accompagnare le cene con un po' di musica il mio amico Danilo Mariani, pianista, e il mio amico Mariano Apicella, ottimo cantante e fantastico musicista con il quale ho composto addirittura 130 canzoni. Entrambi venivano da me gratificati con 3.000 euro al mese prima di questi fatti (da 10 anni il primo, da 15 anni il secondo) ed hanno continuato ad esserlo sino ad ora con gli stessi 3.000 euro ogni mese. Denari su cui hanno ovviamente pagato le tasse ed erano quindi alla luce del sole. Avrei dovuto non incontrarli più? Perché mai? E poi, avrei avuto bisogno di pagare degli amici per ottenere un loro favore? Eppure secondo l'accusa queste gratificazioni sarebbero la prova di una corruzione per farli mentire in tribunale. Lo stesso vale per diverse ragazze, che coinvolte nello scandalo mediatico-giudiziario su queste cene si erano viste abbandonate dal fidanzato, si erano viste venir meno la possibilità di trovare un lavoro e quella di ottenere una casa in affitto. Mi sono sentito in dovere di aiutarle, perché la loro reputazione era risultata gravemente danneggiata per il solo fatto di essere state ospiti del Presidente del Consiglio. Sono state fatte oggetto delle insinuazioni più volgari e contro di loro è stato eretto un vero e proprio cordone sanitario nel mondo della moda, dello spettacolo e della televisione. Qualcuna di loro si rivolse a me talmente disperata da minacciare il suicidio. Questa è l'Italia, questo è quello che intendo quando parlo di persecuzione. E io ho ritenuto mio dovere dare una mano anche a loro».

Alcuni magistrati sostengono però che proprio qui sta la corruzione... chi ha beneficiato di queste «gratificazioni» e di questi aiuti le avrebbe garantito in cambio il silenzio su quanto avveniva davvero in quelle serate.

«Ma le pare possibile? Tutti i versamenti sono stati fatti in forma esplicita, senza mai nasconderlo. Vi sono molteplici bonifici bancari perfettamente tracciabili. Lei crede che se avessi mai voluto corrompere qualcuno lo avrei fatto in questo modo? Così, pubblicamente, in modo scoperto? Chi dice questo oltraggia non soltanto la mia onorabilità, ma anche la mia intelligenza. Non sarei un criminale, sarei un pazzo incosciente se avessi agito così, se mi fossi reso colpevole di un reato grave, il reato di corruzione semplicemente per evitare dei racconti su miei comportamenti magari criticabili ma certamente non classificabili come reati. Il fatto che qualche Pm si ostini a sostenere questa tesi è davvero assurdo e incomprensibile».

Palamara svela che il partito delle toghe aveva arruolato in segreto Gianfranco Fini per mettere in difficoltà il suo governo. Possibile che non se ne fosse accorto?

«Guardi, io sono una persona leale, e per natura credo nella buona fede e nella lealtà delle persone. Per me anche in politica la parola data ha un grande valore, così come la coerenza con la propria storia e con le proprie idee. Forse è un approccio ingenuo, non da politico esperto, ma non intendo cambiarlo. Gianfranco Fini si considerava un professionista della politica a differenza di me - e purtroppo ha dimostrato di esserlo. Su di lui non voglio aggiungere altro, è già stato giudicato dagli elettori e dalla storia».

Nel libro si parla più volte della condivisione - quasi una copertura - del Quirinale guidato da Giorgio Napolitano della politica giudiziaria messa in campo dal Sistema che manovrava contro di lei. Eppure Forza Italia votò per la sua rielezione a capo dello Stato....

«Vede, direttore, io ho anche quello che è un altro difetto, in politica. Quello di agire sempre in buona fede. Quella volta il Parlamento era paralizzato e l'elezione del capo dello Stato sembrava impossibile. Il candidato concordato con noi dell'opposizione, quel grande galantuomo recentemente scomparso che era Franco Marini, fu battuto dai franchi tiratori, che poi impallinarono anche il candidato proposto dalla sinistra, Romano Prodi. Di fronte alla paralisi, mancando la possibilità di raggiungere un accordo su altre figure che avessero la statura, il prestigio e l'autorevolezza per salire al Quirinale, accettammo la proposta del Pd di un secondo mandato al presidente Napolitano. Da lui mi dividevano non soltanto la storia e la cultura politica, opposte alla mia, ma anche una serie di vicende negli anni dei miei governi. Tutto questo però rientrava nel dissenso politico: non conoscevo e mai avrei potuto immaginare il ruolo attivo di Napolitano contro di me in una serie di manovre giudiziarie per danneggiare il presidente del Consiglio e il leader politico che aveva vinto le elezioni. Il mio profondo rispetto istituzionale per il Capo dello Stato mi impediva anche solo di prendere in considerazione quelle che consideravo dicerie. Negli anni purtroppo sono giunte invece autorevoli conferme, l'ultima delle quali nelle affermazioni di Palamara. Sono stato ingenuo? Forse sì. Ma sono fiero di credere nelle istituzioni anche quando questa può apparire un'ingenuità».

L'unica sentenza di condanna da lei subita, Presidente, quella dell'agosto 2013 per frode fiscale, è ancora avvolta nel mistero. Lei ha capito che cosa intendeva uno dei giudici, il dottor Ercole Aprile, quando si lasciò scappare che in «camera di consiglio ho visto cose che voi umani non potete immaginare»?

«Non so esattamente cosa intendesse il dottor Aprile, ma so che quella sentenza, l'unica condanna su 86 processi, è viziata da tante e tali anomalie che persino il Giudice relatore l'ha sconfessata. Confido che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo farà finalmente giustizia su questa vicenda. In sintesi, sono stato accusato di una frode fiscale che non è mai avvenuta, ma che comunque non avrei potuto commettere io, visto che nel 1994 all'atto della mia discesa in campo avevo abbandonato tutte le cariche imprenditoriali e dirigenziali e non mi occupavo più in alcun modo delle aziende che avevo fondato. A riprova dell'inconsistenza di tutta la faccenda basti considerare che tutti i dirigenti del gruppo Fininvest che avevano i poteri loro sì - per commettere materialmente il reato sono stati giustamente assolti».

Le cito un passaggio del racconto di Palamara sulla sentenza Lodo Mondadori che le impose di versare 750 milioni a Carlo De Benedetti: Quella cifra apparve anche a noi oggettivamente esagerata ma dovevamo stare uniti attorno al giudice Mesiano... si stava dissanguando Berlusconi per di più a vantaggio dell'icona della sinistra Carlo De Benedetti.... Che effetto le fa?

«Il senso di chi ha dovuto arrendersi ad una profonda, totale ingiustizia, che ha danneggiato non solo me e la mia famiglia, ma anche una grande azienda patrimonio del Paese. Ho sempre considerato questa sentenza come qualcosa di infondato nel merito e illogico nell'entità. Per la verità, in sede di appello la somma che siamo stati condannati a pagare è stata ridotta a soli 550 milioni, una cifra comunque assurda, persino se avessimo avuto torto. La mia famiglia possedeva (e ancora possiede) il 53% della Mondadori, stimato in borsa poco più di 200 milioni. Meno della metà dell'indebito indennizzo che siamo stati costretti a versare a De Benedetti!».

Perché in tanti anni di governo il centrodestra non è riuscito a riformare il sistema giustizia?

«Alcuni nostri alleati lo hanno reso impossibile. Mi dissero chiaramente che avrebbero fatto cadere il governo se avessimo varato una riforma della giustizia sgradita all'Associazione nazionale magistrati. Quella di cui è stato a lungo Presidente proprio il dottor Palamara. Il Sistema che lui ha descritto ha condizionato la politica italiana, compresi certi nostri alleati, per tutti gli anni della Seconda repubblica».

Crede che la riforma potrà venire dal Governo Draghi?

«Questo è un governo di emergenza nato da una situazione di emergenza. Si basa sulla collaborazione fra forze politiche molto diverse tra loro come condizione per prendere decisioni rapide al fine di uscire dall'emergenza sanitaria ed economica legata alla pandemia. Noi intendiamo collaborare lealmente perché crediamo in questo governo e sappiamo che non ha alternative praticabili. Siamo consapevoli che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni se tutti agiranno con senso di responsabilità per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

Alessandro Sallusti, il giudice Esposito e il rinvio a giudizio "a tempo di record" per Feltri e Porro: "Ho una risposta, brutta aria". Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. La giustizia è mal ridotta, secondo Alessandro Sallusti e per capirlo basta vedere "tre recenti casi di cronaca che coinvolgono alcune delle star della magistratura. Il primo riguarda Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, famoso per le sue retate antimafia dagli incerti esiti processuali, che ha scritto la prefazione a un libro sul Covid di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni", scrive nel suo editoriale su Il Giornale. "I due autori il primo medico (?), il secondo magistrato presidente di commissione tributaria sostengono apertamente tesi complottiste e negazioniste". Insomma, per loro i vaccini sono "acqua di fogna e trasformeranno gli uomini in Ogm". Il secondo magistrato vip, continua Sallusti, "è Raffaele Cantone, procuratore di Perugia con giurisdizione sui reati commessi dai colleghi romani. Interrogato dal Csm sul caso Palamara, Cantone ha sostenuto che la famigerata microspia inserita nel telefonino di Palamara non era stata attivata negli incontri con il potente e intoccabile allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone perché «essendo presenti le mogli, era da escludere che i due parlassero di cose d'ufficio»". Una tesi quantomento "strampalata". Infine c'è il caso di "Antonio Esposito, il giudice della discussa sentenza che nel 2013 ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per evasione fiscale. Sentenza «discussa» anche da Amedeo Franco, uno dei giudici che parteciparono alla camera di consiglio, che in un audio reso noto nel giugno 2020 ha parlato di «forti pressioni per condannare Berlusconi» e della corte come di «un plotone di esecuzione»". Bene, conclude Sallusti, "l'attuale procuratore di Roma, Michele Prestipino (di cui racconta Palamara nel libro Il Sistema e la cui nomina è ancora oggi contestata dal Tar), si è mosso in prima persona, cosa assai rara, e a tempo record (soli sei mesi, funzionasse sempre così la giustizia) ha chiesto il rinvio a giudizio per quindici tra giornalisti (me compreso, e poi Feltri e Porro), deputati e senatori (tra cui la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e il sottosegretario Giorgio Mulè) che hanno osato commentare le inquietanti rivelazioni di Franco sulla trasparenza di quella sentenza". Insomma c'è un filo che lega Gratteri, Cantone e Prestipino. "Il senso di giustizia? Io una risposta l'avrei, ma con l'aria che tira la tengo per me. Meglio Pasqua a piede libero", chiosa lapidario Sallusti.

La giustizia mette il turbo solo con i nemici. Indagini sul caso Esposito chiuse in meno di 8 mesi. La media è 404 giorni. Massimo Malpica - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. La lentezza della giustizia è questione di punti di vista. Chiedere al pm romano Roberto Felici, che dopo aver ricevuto l'esposto del giudice Antonio Esposito quello della condanna al Cav del 2013 a proposito di una presunta campagna denigratoria ai suoi danni, ordina da giornali, politici e talk show, si è messo a indagare e non ha perso tempo. Il 7 marzo scorso, ecco arrivare i primi avvisi di conclusione delle indagini. E considerando che tutta la «campagna» sarebbe nata intorno alla registrazione audio di Amedeo Franco, giudice a latere nel processo che vide la condanna di Berlusconi, e che quell'audio è stato mandato in onda per la prima volta da Nicola Porro su Quarta Repubblica la sera del 29 giugno 2020, si capisce quanto veloci possono essere le indagini. Da quel giorno di fine giugno quelle parole in cui Franco si dissociava dalla sentenza definendola «guidata dall'alto» e «una grave ingiustizia», sono finite al centro di una serie di articoli su diversi giornali, dal Riformista al Giornale, fino a Libero, come d'altra parte accade di norma per le notizie. Esposito denuncia la «campagna diffamatoria». E otto mesi dopo, ecco l'avviso di conclusione indagini. Un caso di giustizia lampo. Soprattutto se confrontato con la durata media delle indagini preliminari, che per i dati del 2017 parlano di 404 giorni in media, 13 mesi e mezzo, contro i 240 giorni della denuncia del giudice Esposito. Inoltre, spesso il tempo necessario all'atto di conclusione delle indagini è ben più lungo: a Brescia, nel 2017, la durata media delle indagini era pari a 829 giorni, e a livello nazionale il 20 per cento dei fascicoli erano ancora nella fase delle indagini dopo due anni. Che non sempre le cose procedano spedite come per il «complotto» denunciato dal giudice Esposito lo dimostra la recente condanna dell'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo: esaminando proprio la durata delle indagini preliminari per una denuncia per diffamazione (non di un giudice, ma dell'ex patron della Casertana, Vincenzo Petrella), la Corte ha condannato il nostro Paese per aver fatto prescrivere il reato nel corso di indagini andate avanti per cinque anni e due mesi. Violando così non solo la ragionevole durata, ma anche il diritto di accesso a un tribunale e il diritto a un ricorso effettivo.

Da ilfattoquotidiano.it l'11 marzo 2021. “Penso che sia uno scandalo non riuscire a varare una norma che contrasti le querele temerarie: noi abbiamo fortemente appoggiato la proposta Di Nicola“. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, commenta così l’assenza nell’ordinamento italiano di una legge che contrasti l’abuso delle querele per diffamazione ai giornalisti. Un tema tornato di attualità dopo che Matteo Renzi ha annunciato proprio nuove querele nei confronti delle testate, La Stampa e The Post Internazionale, che hanno riportato la notizia della sua visita a Dubai. “Non conosco la vicenda specifica”, ha detto Verna, sottolineando però che “quando qualcuno contesta in una sede giudiziale quella che un giornalista ritiene sia una verità, se poi la notizia si rivela fondata non può finire con la semplice condanna alle spese, occorre un risarcimento per chi temerariamente è stato tratto in giudizio”. Una legge per il contrasto alle querele temerarie era già pronta a maggio 2019 e porta la firma del senatore Primo Di Nicola. Un solo articolo: è previsto che in caso di temerarietà della lite, riconosciuta dal giudice, questi può condannare il querelante a pagare una cifra pari ad almeno il 50% della pretesa. La norma però è rimasta in un cassetto, come ricorda il deputato M5s Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera: “Credo che abbia pienamente ragione il presidente dell’OdG Carlo Verna: il ritardo sul contrasto alle querele temerarie è inaccettabile. Il senatore Primo Di Nicola ha indicato una strada condivisibile con la sua proposta di legge ma ciò non ha avuto seguito, purtroppo. Intanto, questa prassi velatamente antidemocratica prosegue. Spero quindi che l’iter del provvedimento si sblocchi quanto prima”.

I magistrati sono al di sopra della legge. Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

La vicenda. Cantone vuole il bavaglio per il Riformista: “La magistratura è intoccabile”. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti ha pubblicato un video editoriale in cui racconta che “Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Questo si fa quando un magistrato è sotto tiro da parte di qualcuno e bisogna proteggerlo. In genere è una procedura di vantaggio per la carriera del magistrato poiché va a fare curriculum. Cantone l’ha aperta contro il Riformista, perché con gli articoli di Paolo Comi abbiamo riferito di alcune cose che non funzionano nel Palamaragate“. Secondo Sansonetti i motivi sono tre: “Primo: tutti i Whatsapp sono arrivato al Csm con un anno di ritardo, e nel frattempo erano state fatte molte nomine e questi nomi non sono arrivati al Csm. Secondo: a noi risulta che nel fascicolo a carico di Palamara non ci siano gli sms. Cantone contesta questo. Noi sappiamo che gli sms non sono stati scaricati nel fascicolo, e anche Palamara non ha notizia in merito a questo aspetto. Cantone ci dovrà dire dove li hanno messi visto che nel fascicolo non ci sono. Terzo: abbiamo scoperto che il trojan nel cellulare di Palamara che funzionava tutte le sere dalle 19 in poi, una sola sera non ha funzionato quando Palamara è stato a cena con Pignatone e altri magistrati importanti per discutere della nomina a nuovo procuratore di Roma. Da chi fu spento e come? Noi abbiamo detto da chi fu spento e come fu spento e provato che fu spento intenzionalmente intralciando le indagini“. “Invece di aprire una inchiesta sulla nostra denuncia – sottolinea Sansonetti – Cantone ha chiesto che intervenga il Csm per censurare il Riformista. Sono ormai gli stessi magistrati a ribellarsi. Recentemente oltre 50 magistrati hanno chiesto a Palamara di rendere noti i messaggi visto che la procura non lo fa. C’è una sfiducia addirittura degli stessi magistrati, figuriamoci dei cittadini nei confronti della magistratura che viene ritenuta non credibile, non attendibile“. “Cantone ha preso questa iniziativa di chiedere che si attacchi il Riformista, cioè che si affermi il principio che la libertà di stampa deve avere un limite: si possono criticare tutti ma non i magistrati. Si possono dare notizie di ogni genere ma non sulla magistratura. Questo è il principio che vorrebbe affermare Cantone, probabilmente anche con una riforma costituzionale. Mi aspetto che l’Ordine dei Giornalisti – conclude Sansonetti – intervenga visto questo attacco violentissimo alla libertà di stampa, credo con pochissimi precedenti forse negli anni ’80. Quale è lo scopo di questa iniziativa? L’unico mi sembra quello di intimidirci, così come viene fatto attraverso le querele. Voglio dire a Cantone che io per carattere tenderei a farmi intimidiere, non ho mai pensato che la grande dote sia il coraggio, non tendo più a don Abbondio. Ma in Italia c’è un solo quotidiano che critica la magistratura quindi non posso permettermi il lusso di farmi intimidire se no si crea una situazione di regime, una cosa simile a quanto successo durante il fascismo“.

La critica al Procuratore. Gratteri mi ha minacciato di querela, non è la prima volta che un Pm mi intimidisce. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Aprile 2020. Gratteri (Procuratore di Catanzaro) , mi pare, conferma tutto. I commissari prefettizi hanno ceduto a lui (al canone di 8 euro e mezzo al mese per dieci anni) un terreno di quattromila metri quadrati (però nella delibera c’è scritto ottomila: qualcuno non dice la verità) che appartiene a un ospedale costruito e mai inaugurato, e sul quale si era pensato un tempo di realizzare ricoveri per anziani, e che poi era stato richiesto dal Comune di Gerace. Del resto ci aveva confermato tutto già per telefono il giorno prima. Nel corso di un paio di chiamate un po’ burrascose: poi ne parliamo meglio. Solo qualche piccola differenza. Ieri ci aveva detto che lui non aveva firmato niente. Sembrava di capire che la richiesta di assegnargli il terreno non fosse venuta da lui ma da prefetto, questore e altri. Ora corregge, e spiega che prefetto, questore e altri lo hanno indotto a chiedere quel terreno. Quindi la richiesta l’ha fatta lui. Va bene, piccole imprecisioni. Un po’ di imbarazzo, si capisce. La ragione della richiesta? Difendersi da possibili attentati. Questo lo abbiamo già scritto. Anche perché noi siamo abituati, quando riceviamo una notizia che non fa fare un gran figura a una persona, ad ascoltare la persona (pratica abbastanza inusuale nel giornalismo che piace a Gratteri…). In quel terreno – dice Gratteri- poteva introdursi qualche mafioso e spararmi, perché da quel terreno si vedono le finestre di casa mia.  E quindi, se capisco bene, si è pensato che la cosa migliore per evitare che questo accada, non è mettere delle guardie, ma concedere il terreno a Gratteri in modo da rendere illegale, per eventuali attentatori, l’accesso. Un’idea – diciamo la verità – un po’ stile pantera rosa: ma comunque un’idea. Benissimo. Sicuramente tutto vero. Del resto già ieri abbiamo scritto che nella decisione della commissione prefettizia di sottrarre una proprietà a un ospedale, di non concederla al Comune o a un ente pubblico, ma di assegnarla un privato cittadino, non c’era niente di illegale. Citando Travaglio potrei dire: questione, magari, di opportunità…. I problemi sono tre. Primo: possiamo credere che lo Stato, di fronte a un pericolo per la vita di un magistrato, gli dice: difenditi da solo, noi ti diamo un terreno e poi pensaci tu? Speriamo che non sia vero. Anche perché francamente Gratteri che può fare con quel terreno per difendersi? Proprio niente. Se qualcuno ha pensato a una soluzione così scombiccherata c’è da preoccuparsi molto. E anche se un Procuratore l’ha ritenuta adeguata. Secondo problema. Cosa sarebbe successo se un terreno di un ospedale fosse stato assegnato a Oliverio, per esempio, l’ex presidente della Regione? Ditemi, sinceramente, cosa pensate che sarebbe successo ad Oliverio. Nessuno avrebbe immaginato che Oliverio aveva ottenuto quel terreno grazie al suo potere? Gratteri avrebbe lasciato correre o avrebbe indagato? Vabbé. Terza questione. L’altro giorno Gratteri ci ha minacciato di querelarci in due distinte telefonate, pur sapendo che stavamo scrivendo il vero e senza, peraltro, aver letto cosa avremmo scritto. Se un politico si fosse comportato così, cosa si sarebbe detto? Intimidazione. Giusto? Se lo fa un magistrato invece? A me non è la prima volta che capita di essere intimidito da un magistrato. Anche perché i magistrati – lo sapete tutti – sono abituati a non essere mai infastiditi dalla stampa. E quando succede a loro pare un sacrilegio. Pensano che se critichi un magistrato antimafia, o sei pazzo o sei mafioso. Bisogna dire che Gratteri, fin qui, è stato l’unico magistrato (tra quelli celebri) che non mi ha mai querelato e non ha mai querelato nessuno. Stavolta ha minacciato di abbandonare il suo stile e di procedere. Vedremo. Tanto, statene sicuri, del grandioso potere che hanno i magistrati sui giornalisti importa niente a nessuno.

"Diffamò l'ex pm Nino Di Matteo". Sansonetti condannato a risarcirlo. Il pm Nino Di Matteo, con i colleghi Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, al processo Trattativa. La sentenza emessa dal tribunale civile di Caltanissetta: "Ha utilizzato espressioni immotivatamente denigratorie". La Repubblica il 21 ottobre 2020. Il giudice civile del Tribunale di Caltanissetta, Alex Costanza, ha condannato il giornalista Piero Sansonetti a risarcire con 50.000 euro il magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che aveva presentato denuncia per diffamazione per un articolo pubblicato il 28 settembre 2014 dal quotidiano "Cronache del garantista". L'ex pm del processo trattativa Stato-mafia aveva presentato querela per l'articolo dal titolo "La rozza aggressione del Pm contro De Mita" in cui si raccontava l'interrogatorio del 25 settembre 2014 dell'onorevole Ciriaco De Mita nel corso del processo "Stato-mafia". Sansonetti scriveva tra le altre cose: "Il procuratore Di Matteo a un certo momento ha iniziato a rimproverarlo, in modo minaccioso e intimidatorio"; e ancora: "Gridava come uno sbirro asburgico". Nell'articolo il giornalista definitiva Di Matteo "il giovanotto al quale è stata assegnata la procura di Palermo", e accusava il magistrato di  avere "una così grande rozzezza" e "strabordante arroganza". Concludeva: "Ma cosa ha insegnato al piccolo Di Matteo la sua mamma?" Nella sentenza il giudice afferma che "sia dalla trascrizione di udienza, che in misura maggiore e dirimente, dall'ascolto dell'audio dell'esame del teste, ci si avvede invece che i toni utilizzati dal procuratore Di Matteo rimangono pacati e non trascendono per tutto l'espletamento della prova". "Alcune espressioni adoperate dal giornalista - scrive ancora il giudice nella sentenza emessa nei giorni scorsi - sono immotivatamente denigratorie, sia se isolatamente considerate che in rapporto all'intero contesto argomentativo". In particolare, il riferimento e l'accostamento dei comportamenti del pm a quelli di "uno sbirro asburgico e di un questurino ai tempi del fascismo...sono del tutto esorbitanti dalla forma civile della critica" e l'allusione sulle capacità educative della madre di Di Matteo "è diretta a mettere in dubbio non solo le qualità personali del pm ma anche di uno dei suoi affetti più cari".

I giornalisti Sansonetti e Aliprandi a processo ad Avezzano per diffamazione, denunciati dal procuratore generale Scarpinato.  Articoli su inchiesta “Mafia e appalti”, indagine di cui fu titolare Borsellino. Redazione su abruzzolive.it l'8 Luglio, 2019. Avezzano. Piero Sansonetti che ha diretto il quotidiano il Dubbio fino a inizio aprile, e Damiano Aliprandi, che continua a esserne una colonna, sono sotto procedimento penale  davanti al tribunale di Avezzano per una querela presentata dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dall’ex aggiunto della procura di Palermo Guido Lo Forte. I due magistrati ritengono diffamatori alcuni articoli sull’inchiesta “Mafia e appalti”, firmati appunto da Sansonetti e Alipandi sul giornale “il Dubbio”. Di quell’indagine, Paolo Borsellino non fu titolare fino alla fine dei suoi giorni. Sarà un gup di Avezzano a dover decidere, nell’udienza di martedì prossimo, se per quegli scritti i due giornalisti dovranno essere processati per diffamazione. Un procedimento difficile, per i nostri colleghi ma anche per la magistratura dell’ufficio abruzzese, competente perché è in un comune di quel circondario, Carsoli, che fino a pochi mesi fa veniva stampato il Dubbio (ora le tipografie si trovano in provincia di Roma e a Milano). Le difficoltà, secondo quanto riportato dallo stesso quotidiano il Dubbio, sono legate anche all’astensione a cui, a inizio marzo, si è vista costretta Maria Proia, gup inizialmente titolare del fascicolo. La magistrata ha rinunciato per le sue precedenti funzioni presso la Procura di Palermo nella sezione coordinata a suo tempo proprio da Lo Forte. Nell’atto con cui ha comunicato di doversi astenere, la giudice Proia ha voluto ricordare di aver «sempre intrattenuto ottimi rapporti» con il collega, del quale, ha aggiunto, «conserva profonda stima». Altro passaggio che ha finora segnato l’iter è l’istanza con cui il difensore di Scarpinato ha chiesto e ottenuto di anticipare la data dell’udienza preliminare, inizialmente fissata a settembre. Il legale ha sostenuto che le «medesime tesi» da cui i querelanti si ritengono diffamati «sono state ribadite sulla stampa nazionale», e che «la delicatezza dell’incarico ricoperto dal dottor Scarpinato, procuratore generale a Palermo, rende opportuno un pronto accertamento dei fatti». Il professionista cita anche un altro articolo del Dubbio, sempre «a firma di Sansonetti» successivo a quello oggetto di querela. Certo non capita tutti i giorni che un Tribunale efficiente ma dal piccolo circondario come quello abruzzese si trovi a giudicare una causa relativa a dirigenti di uffici giudiziario di tale peso. Ma al di là dei corollari, adesso si entrerà nel vivo delle questioni contestate, le sole che contino davvero.

Lucio Musolino (19 ottobre 2010).  Cara MicroMega - Lettere alla redazione. Io, giornalista anti'ndrangheta, licenziato da Sansonetti. Dal 2006 sono redattore di “Calabria Ora” e, dallo scorso gennaio, collaboro con il “Fatto quotidiano”. Da anni ormai mi occupo di nera e giudiziaria e ho scritto di inchieste delicate sulla ‘ndrangheta e, soprattutto sui rapporti tra le cosche e la politica. Per anni, con i miei colleghi, abbiamo sempre riportato i fatti. E sono quelli a fare paura in questa città e in questa regione dove non tutto è nero o bianco. Dove abbiamo una folta zona grigia che è oggetto di delicatissime inchieste delle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio e di Milano. Negli ultimi mesi, non ho fatto altro che pubblicare gli atti contenuti nei fascicoli delle inchieste “Meta”, “Crimine” ed “Epilogo”.

L’intimidazione. La notte del primo agosto, rientro a casa alle 4 e, sul tavolo della veranda, trovo una bottiglia di benzina con un biglietto di minacce con cui qualcuno mi invita a “smetterla con la ‘ndrangheta” e a seguire il mio ex direttore Paolo Pollichieni che si era dimesso assieme ad altri 8 colleghi. La benzina sarebbe stata per me e non per la mia auto. Sono entrati, quindi, nel mio cortile di notte, mentre la mia famiglia era in casa, e hanno lanciato un messaggio mafioso a una settimana da una precedente lettera anonima recapitata in redazione con cui si invitava “chi ha tenuto la mano a Pollichieni in questi anni” ad andarsene. Io non so chi, materialmente, è responsabile dell’intimidazione. So invece cosa ho scritto nelle settimane precedenti al gesto. Ho pubblicato il contenuto di un’informativa del Ros dalla quale è emerso che Scopelliti, con la scorta pagata dai contribuenti, ha partecipato assieme a molti consiglieri comunali a una pranzo invitato dall’imprenditore arrestato Domenico Barbieri. Lo stesso pranzo a cui ha partecipato il boss Cosimo Alvaro, oggi latitante. Incontro al quale lo stesso Scopelliti ha confermato di aver preso parte ai microfoni del “Fatto Quotidiano”. Proprio con Alvaro aveva rapporti un consigliere comunale del Pdl, Michele Marcianò, I due sono stati intercettati mentre discutevano di tessere di Forza Italia e di posti di lavoro. E sempre di posti lavoro discutevano il consigliere comunale del Pdl Manlio Flesca con l’imprenditore Barbieri. Al centro dell’intercettazione un pacchetto di 200 voti in cambio di un dell’assunzione in una società mista della moglie dell’indagato per associazione mafiosa. Cosa che è realmente avvenuta stando a quanto accertato dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Ho scritto anche dell’ex consigliere regionale Alberto Sarra che aveva rapporti con la famiglia Lampada (imprenditori legati ai Condello) a Milano, come è emerso da un’inchiesta della Procura lombarda dove è finita anche un’informativa in cui si descrivono incontri tra il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti e Paolo Martino, condannato per mafia e ritenuto il punto di riferimento della cosca De Stefano nel nord Italia. Proprio in questi giorni, infine, dall’inchiesta “Epilogo”, coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, è emerso che il consigliere comunale di maggioranza Tonino Serranò è stato filmato da una telecamera dei carabinieri mentre maneggia una pistola con un indagato ritenuto vicino alla cosca Serraino. La stessa cosca sospettata di aver organizzato l’attentato del 3 gennaio alla Procura generale. Un attacco allo Stato senza precedenti che ha dato il via a una strategia della tensioni in cui la ‘ndrangheta è solo uno degli attori della “tragedia”. Non è solo ‘ndrangheta. L’ex sostituto della Dna Enzo Macrì parla di “poteri occulti”. Io dico che la Procura di Reggio Calabria, guidata da Pignatone, sta andando in quella direzione e presto mi auguro che farà luce sulla “zona grigia” di questa città e di questa Regione. Questi sono i fatti. Non si tratta di attacchi politici ma di documenti, di stralci di informative scritte dagli inquirenti. Non spetta a noi stabilire se il comportamento di alcuni politici e del governatore della Calabria Scopelliti sia condannabile dal punto di vista penale. Lo stabilirà l’autorità giudiziaria. È sicuramente censurabile dal punto di vista morale e politico.

Il cambio di direttore. Dopo le dimissioni di Pollichieni, io sono rimasto a lavorare a “Calabria Ora”. Ho continuato a scrivere allo stesso modo. Ma il giornale è cambiato radicalmente da subito nonostante le garanzie degli editori i quali mi avevano garantito che la linea editoriale non sarebbe mutata con l’arrivo del nuovo direttore Piero Sansonetti. Non è stato così. Dopo l’intimidazione sono andato in ferie. Al mio rientro ho ripreso a scrivere riprendendo gli stessi argomenti di cui mi sono sempre occupato: la ‘ndrangheta e i rapporti tra quest’ultima e la politica. Sono iniziate le censure di pezzi in cui compariva il nome del governatore della Calabria. Pezzi che la redazione centrale mi aveva chiesto e che non ha pubblicato senza motivazione. E quando la giustificazione c’era era sempre la stessa: “E’ un attacco violento a Scopelliti. Il direttore mi ha detto che il pezzo non passa. Lo stabilisce lui quando attaccare il governatore” mi veniva risposto dai colleghi. A volte, inoltre, i pezzi venivano modificati senza preavviso e, soprattutto, senza che nessuno abbia avuto l’accortezza di ritirare la mia firma. Le richieste di spiegazioni formulate al direttore sono rimaste inevase. Solo al primo incontro con lui sono riuscito a chiedere il motivo delle censure che Sansonetti ha giustificato in nome di un garantismo più simile al “bavaglio” che a un modo di pensare. A fine agosto, gli editori e il direttore avevano contattato più di un collega di un altro quotidiano confessando espressamente a quest’ultimo l’intenzione di sostituirmi perché “legato al vecchio direttore”. Il tentativo fallì per il rifiuto del collega, così come fallì il tentativo mio di essere sentito dal Comitato di redazione. Dall’8 settembre ancora aspetto che il Cdr mi convochi. Nel frattempo sono stato licenziato.

Il trasferimento e il licenziamento. Ma andiamo con ordine: gli editori e Sansonetti non abbandonarono l’obiettivo di allontanarmi da Reggio. Sempre a settembre ricevetti una telefonata dal direttore che mi ha comunicato la sua proposta di andare a lavorare a Lamezia Terme. Una proposta che puntava “anche” a rafforzare la redazione di “Reggio” dove non ci sarebbe stato più nessuno che avrebbe ficcato il naso nei fascicoli delle inchieste della Dda. Naturalmente rifiutai sostenendo “che era la stessa proposta della ‘ndrangheta”. La risposta provocò la reazione di Sansonetti che mi chiuse il telefono in faccia senza darmi la possibilità di spiegare il motivo. Nessun contatto per una settimana a parte un’ammonizione formale in cui il direttore mi ha accusato di non essermi recato a lavoro un “famoso” martedì pomeriggio, poche ore dopo una retata dei carabinieri che avevano arrestato un imprenditore, accusato del rinvenimento di armi avvenuto il giorno della visita del presidente Napolitano. Dopo aver chiesto l’autorizzazione a uno dei coordinatori della redazione centrale, ero rimasto a casa per studiarmi l’ordinanza di custodia cautelare e scrivere una pagina e mezzo sull’inchiesta. Risposi, a tono, alla contestazione e dopo mezz’ora, Sansonetti replicò con la comunicazione che da lì a qualche giorno avrebbe disposto il mio trasferimento nonostante il parere negativo (e vincolante) mio e del Cdr. Pochi giorni ancora e sono riuscito a incontrare Sansonetti a Reggio. Un incontro breve durante il quale ho avuto modo di spiegare il mio rifiuto al trasferimento che consideravo punitivo e che, dopo il colloquio, ritornava ad essere solo un’ipotesi che, se si fosse concretizzata, avrei ostacolato con il sindacato e con gli avvocati impugnando il trasferimento davanti ai giudici del lavoro. Dopo qualche giorno, ho pubblicato lo scoop di un nuovo pentito nella ‘ndrangheta reggina. La notizia, in esclusiva, ha spinto uno degli editori a telefonarmi per i complimenti e a farmi capire che sarei rimasto a lavorare a Reggio. Lo stesso, tramite un collega, mi è stato riferito da Sansonetti e dalla “squadra centrale”. Ma quando non si è parlato più di trasferimento, dalle colonne di Calabria Ora il governatore Scopelliti mi ha tacciato come “giustizialista” sostenendo «ci sono molte persone che conoscono mafiosi e non per questo sono mafiosi». Secondo lui «anche qualche giornalista di Calabria Ora…». Effettivamente, molti mafiosi li conosco. Perché scrivo di loro e perché vengono fuori casa a minacciarmi. Non perché sono alla ricerca di voti o per fare affari. Lo stesso giorno della pubblicazione di quell’intervista sono stato invitato ad “Anno zero”, nel corso di un collegamento in diretta da Reggio. Ho parlato del mio lavoro, delle inchieste che ho seguito e dei rapporti tra la ‘ndrangheta e la politica. Tutti argomenti già trattati, assieme a pochi altri colleghi, in articoli vecchi di mesi scorsi. Questa volta, però, il presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio Scopelliti reagisce comunicando all’Ansa di aver dato mandato ai suoi avvocati di querelarmi. Nel frattempo, all’indomani dall’annuncio maldestro del governatore di adire alle vie legali, un editoriale del mio nuovo direttore Piero Sansonetti mi ha affibbiato l’appellativo di “forcaiolo”. Una campagna “pro-garantismo” con cui il mio giornale si è schierato dalla parte di Scopelliti isolando me senza, naturalmente, alcuna telefonata. A ventiquatt’ore dalla puntata di “Anno zero” viene diffusa la nuova piattaforma della redazione con cui Sansonetti è ritornato ha disposto il mio trasferimento. Questa volta, però, alla redazione di Catanzaro. La notizia trapela a causa della solidarietà del segretario cittadino del Pdci Ivan Tripodi. Io la confermo all’Ansa e Sansonetti mi querela. Decido di andare in ferie e arriva il licenziamento immediato. Non prima che qualcuno, senza alcuna autorizzazione, dal server centrale di “Calabria Ora”, si introducesse, sabato mattina, nella mia casella e-mail personale, cambiando la password ed impedendomi tutt’ora l’accesso. Il tecnico responsabile del sito mi ha candidamente riferito che l’editore avrebbe disposto di cancellare il contenuto della mia posta e di impedirmene l’accesso. Inutile sottolineare che si tratta di un fatto gravissimo e penalmente rilevante ed è per questo che su tale ultimo episodio indagano i carabinieri di Reggio ai quali, ancor prima di apprendere del mio maldestro “licenziamento” (via fax), ho presentato regolare querela e dai quali sono stato già lungamente sentito come parte offesa". Lucio Musolino (19 ottobre 2010)

·        Palamaragate.

Palamara spacca ancora l’Anm: «Santalucia gli nega il diritto alla difesa». Articolo 101 contro il presidente dell'Anm per la mancata consegna dell'elenco degli iscritti ai legali di Palamara. «Ma davvero dobbiamo ancora ricoprirci di ridicolo». Simona Musco su Il Dubbio il 4 dicembre 2021. L’Anm si spacca sulla mancata consegna degli elenchi degli iscritti alla difesa di Luca Palamara. A contestare la scelta del presidente Giuseppe Santalucia di respingere la richiesta avanzata dall’avvocato Roberto Rampioni è “Articolo 101”, la corrente “ribelle” delle toghe, che attraverso una lettera firmata dal magistrato Andrea Reale denuncia la mancanza di trasparenza all’interno dell’Associazione nazionale magistrati, nonché il rischio di ledere il diritto alla difesa dello stesso Palamara, imputato a Perugia per corruzione. «Da anni tutti sosteniamo la necessità che l’Anm – come anche il Csm – sia una “casa di vetro”, in considerazione della funzione pubblica da noi svolta e del nostro status costituzionale – afferma Reale -. Sembra strano, invece, che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm, e il presidente in particolare, continuino a comportarsi in modo diametralmente opposto a questo nostro onere deontologico (così come sbandierato ad ogni singolo passo)».

Palamara, Santalucia si era rifiutato di dare l’elenco degli iscritti all’Anm

Santalucia già a marzo era finito al centro delle polemiche per essersi rifiutato «di esibire integralmente ai componenti del comitato direttivo centrale alcuni atti giudiziari che interessavano la nostra associazione, adducendo ragioni di privacy di alcuni iscritti che neanche il giudice di Perugia ha mai ritenuto sussistenti». E nelle scorse settimane, paventando il rischio di ricusazione dei magistrati del processo perugino, aveva proposto al Comitato direttivo centrale «la revoca della delibera Anm volta alla costituzione di parte civile nel menzionato processo, per fortuna venendo platealmente smentito da quasi tutti gli altri componenti del Cdc, ivi compresi quelli della Gec».

Oggi, invece, la Giunta e Santalucia hanno deciso di negare alla difesa di Palamara «il loro diritto di conoscere il nominativo dei magistrati iscritti all’Anm, come se quest’ultima fosse un’associazione segreta o fosse composta da sconosciuti impiegati statali». Un paradosso, dal momento che secondo lo Statuto dell’Anm uno dei requisiti per iscriversi è quello di non appartenere «ad associazioni riservate», ovvero che non consentano «la conoscibilità dell’elenco dei soci» o del suo statuto e delle fonti di finanziamento o che non abbiano «una sede pubblica».

Ecco le motivazioni di Santalucia

Secondo Santalucia, la richiesta di Rampioni «eccede il fine a cui risponde, da lei indicato nell’esigenza difensiva di accertare la terzietà, l’imparzialità e l’indipendenza del Collegio del Tribunale di Perugia dinanzi al quale si svolge il processo penale contro il dottor Luca Palamara». La difesa, dal canto suo, era interessata a capire se chi dovrà giudicare l’ex magistrato appartenga o meno a quell’Associazione, ritrovandosi dunque ad occupare, contemporaneamente, il doppio ruolo di giudice e parte civile, data la richiesta del sindacato delle toghe di poter partecipare al processo al fine di vedersi riconosciuto il danno d’immagine.

Nella sua lettera, Santalucia evidenziava come la ragione del diniego «non è certo la segretezza dell’elenco dei soci», bensì la richiesta, «nei termini in cui è articolata, sembra non tener conto dei criteri di proporzionalità e necessità rispetto alla finalità perseguita, a cui ogni trattamento di dati personali deve uniformarsi».

Cosa aveva eccepito la difesa di Luca Palamara

Risposta che non aveva convinto Rampioni, secondo cui la richiesta appare, invece, «non “generica”, ma “prudente”, nell’ottica della (purtroppo) consueta tempistica del dibattimento: il “noto” processo – ed a spese della difesa – ha già subito un non breve differimento di udienza per il prossimo trasferimento di almeno un componente di quel Collegio e, quindi, per il non immediato ma necessario subentro di un nuovo magistrato. Dunque, si è soltanto inteso evitare la proposizione seriale di istanze all’Associazione da lei rappresentata e, soprattutto, scongiurare la necessità per il difensore di rivolgere domanda – spiacevolmente, in apertura di udienza – al singolo membro del Collegio circa la sua appartenenza all’Associazione».

Articolo 101 si schiera contro il presidente dell’Anm

Ora a dare manforte alla difesa di Palamara è anche Articolo 101, che cita l’articolo 7 dello statuto dell’Anm, secondo cui «il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati». Ma non solo: «Mentre il legislatore interviene con norme a maggiore garanzia della presunzione di innocenza dell’imputato e rafforza in ogni modo e in ogni sede il suo diritto di difesa, l’Associazione dei magistrati italiani, in persona del suo presidente, motiva ulteriormente il rigetto con un preteso difetto di proporzionalità e necessità rispetto alla finalità perseguita. Come se la comunicazione dell’iscrizione all’Associazione violasse il corretto trattamento dei dati personali dei suoi soci (tutti magistrati ordinari)».

Il fine, evidenzia Reale, è invece quello di valutare l’imparzialità e l’autonomia dei magistrati in ordine ad una eventuale richiesta di ricusazione da parte dell’imputato, di fatto «obliterando le medesime preoccupazioni che lo stesso Giuseppe Santalucia aveva avanzato al fine di proporre l’irricevibile proposta di ritiro dal processo – pubblico – penale per intraprendere la strada – molto più lunga e dal diverso onere probatorio, oltre che “privata” – del giudizio civile».

Dati personali, nuovo responsabile all’Anm

Il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha recentemente nominato il proprio responsabile del trattamento dei dati personali, un’avvocata esperta in tema di privacy e di data protection. «Ma davvero anche lei è contraria a fornire agli avvocati di Luca Palamara la notizia della iscrizione all’Anm dei giudici chiamati a pronunciarsi sulle sue accuse? Ma davvero il diritto di difesa ex art. 24 Cost. è stato ritenuto recessivo rispetto alle esigenze di proporzionalità e necessità del trattamento dei dati dei magistrati (funzionari pubblici per eccellenza) iscritti all’Anm? – conclude Reale – Ma davvero dobbiamo ancora ricoprirci di ridicolo, provando ad agghindare la casa di vetro con cartoni alle finestre?».

Palamara, la Procura Generale di Perugia impugna il proscioglimento: “Rinviatelo a giudizio”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2021. La Procura generale di Perugia non molla Luca Palamara. I magistrati umbri in una nota firmata dal procuratore generale Sergio Sottani hanno infatti annunciato di aver impugnato la sentenza del Gup di Perugia che lo scorso 15 ottobre aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti dell’ex pm di Roma e presidente dell’Anm per le accuse di rivelazione segreto d’ufficio in concorso con l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. La Procura generale contesta davanti alla Corte d’appello di Perugia la decisione assolutoria dello scorso ottobre, chiedendo il rinvio a giudizio di Palamara: secondo la sentenza di due mesi fa la rivelazione delle notizie, comunicate il 3 aprile 2019 al collega Palamara da parte di Fuzio, quale componente del Comitato di Presidenza del Csm, non erano coperte da segreto d’ufficio, in quanto ancora non secretate dal Csm, per cui si era ritenuto che “il fatto non sussisteva”. Se per un verso, spiega l’ufficio giudiziario di Perugia, “la decisione del Tribunale riconosce il concorso di ambedue i magistrati nella condotta rivelatrice di notizie d’ufficio, ad avviso della Procura generale perugina l’allora procuratore generale della Cassazione, quale membro di diritto del Comitato di Presidenza del Csm, era tenuto, proprio per la sua funzione, ad osservare il segreto sugli atti di cui era venuto a conoscenza, che nello specifico erano costituiti dal contenuto di un esposto presentato da un magistrato nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Roma“. Per cui, prosegue la nota, l’aver comunicato le notizie per telefono a Palamara, “ha costituito violazione del segreto a cui il magistrato, anche quale titolare del potere di azione disciplinare, era comunque tenuto“. “Sono cadute le principali accuse”, aveva commentato Palamara dopo il proscioglimento dall’accusa di rivelazione d’ufficio. L’ex presidente dell’Anm era stato invece rinviato a giudizio, assieme al magistrato Stefano Rocco Fava (ora giudice a Latina) con l’accusa di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio ai giornalisti di due quotidiani, Il Fatto Quotidiano e La Verità. L’accusa nei confronti di Palamara e Fava è di aver rivelato ai giornalisti che l’ex legale estero di Eni Piero Amara, ‘gola profonda’ della presunta Loggia Ungheria, fosse destinatario di una misura cautelare per il delitto di autoriciclaggio. Anche nei confronti di Riccardo Fuzio, per cui si è proceduto separatamente per lo stesso fatto ma con rito abbreviato, la Procura Generale di Perugia ha impugnato la sentenza assolutoria dello scorso 23 luglio.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 16 novembre 2021. Offesi nella reputazione e nell'immagine, i magistrati italiani chiedono i danni al loro ex collega Luca Palamara in un'aula di giustizia. La «portata lesiva» dei reati contestati al loro ex collega, sostengono, è «destinata a riflettersi sull'immagine e la reputazione della magistratura nel suo complesso, e sull'Associazione che la rappresenta pressoché totalitariamente»; per questo motivo, alla prima udienza del processo a carico dell'ex presidente dell'Anm radiato dall'ordine giudiziario e imputato di corruzione, il sindacato delle toghe chiede di costituirsi parte civile. L'avvocato Francesco Mucciarelli consegna al tribunale l'atto formale in cui ha scritto: «Il comportamento specifico posto in essere e contestato al dottor Palamara, anche in considerazione del ruolo rivestito dallo stesso all'interno della magistratura, si pone in assoluto contrasto con i principi che governano l'agire del magistrato e rappresenta fonte di danno diretto per l'Anm». E ancora: «La gravità e la numerosità dei fatti penali addebitati al dottor Palamara, inscindibilmente legati al contestato abuso della sua qualità di appartenente alla magistratura, unitamente al ruolo di spicco rivestito sia all'interno dell'Anm sia di componente del Csm, nonché di magistrato in servizio alla Procura di Roma, si riverbera direttamente in modo negativo ed è fonte diretta di danno in relazione al prestigio, all'indipendenza e al rispetto caratteristici della funzione giudiziaria, oggetto di tutela da parte dell'Anm». Una sorta di atto d'accusa aggiuntivo che si somma a quello sostenuto dalla Procura di Perugia - schierata in aula con il procuratore Raffaele Cantone e i sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani -, come avevano già provveduto a fare la presidenza del Consiglio, il ministero della Giustizia e lo stesso Csm, rappresentati dall'Avvocatura dello Stato. Palamara in aula non c'è, è rimasto a Roma in isolamento fiduciario, e della richiesta dell'Anm si discuterà alla prossima udienza fissata al 15 marzo 2022 (un tempo lungo per la necessità di sostituire uno dei tre giudici, destinato ad altro incarico). Ma da casa fa notare quello che considera un accanimento particolare: «Per la prima volta Anm e Csm si sono costituite nei confronti di un magistrato a differenza di quello che accade ad esempio in relazione ad altre vicende, come quelle milanesi sui verbali della loggia Ungheria». Per quei fatti un processo ancora non c'è, e Palamara è accusato di aver messo a disposizione del lobbista Fabrizio Centofanti (che per questo lo avrebbe ricompensato con viaggi, cene e altre «utilità») proprio le sue funzioni di leader dell'Anm, oltre che di pm e di consigliere del Csm. Situazioni diverse, quindi, rispetto alla presunta loggia Ungheria o altre storie. Ma la questione rilevante e inedita potrebbe essere un'altra: è legittimo che un tribunale composto da giudici a loro volta rappresentati dall'Anm, processi un imputato contro cui s' è costituita la loro stessa Associazione? Si può essere considerati imparziali e «terzi» se il proprio «sindacato di categoria» è schierato al fianco dell'accusa? Secondo l'Anm sì perché in gioco c'è la difesa di valori generali e la rappresentanza collettiva, non quella dei singoli magistrati (tantomeno quelli chiamati a giudicare), che peraltro non avrebbero da rivendicare interessi o risarcimenti personali. Tuttavia è probabile che i difensori di Palamara porranno la questione, quando se ne parlerà. Un processo destinato a cominciare con qualche scintilla, dunque. E altre ce ne saranno. Da tempo Palamara ripete che «il dibattimento sarà il luogo per chiarire la vicenda», e ieri ha aggiunto: «Ancor più dopo l'ammissione delle riprese audio e video in aula, per spiegare a magistrati e opinione pubblica come sono andate realmente le cose. A partire dal funzionamento del trojan». Il virus che trasformò il telefonino dell'ex magistrato in una microspia che ne registrava ogni movimento e ogni discorso, fu inserito per ipotesi di corruzione che poi si sono modificate - e in parte ridimensionate - nel corso delle indagini. Ed è stato scoperchiato lo scandalo che ha travolto il Csm. Alla fine l'accusa riguarda la «capacità e disponibilità» ad acquisire informazioni su processi in corso (quelli di Centofanti, che ha patteggiato una pena di un anno e mezzo, e altri) nonché a «influenzare e/o determinare» decisioni e nomine del Csm.

Caso Palamara: «L’ex capo Anm fu informato da Pignatone». Il giudice di Perugia su Palamara: «Notizia di dominio pubblico almeno dal 2018. Non ci fu alcuna violazione del segreto a vantaggio di Amara e Calafiore». Simona Musco su Il Dubbio il 10 novembre 2021. Adesso è un giudice a dirlo: ad informare Luca Palamara dell’indagine a suo carico in corso a Perugia per corruzione per i suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti non fu Riccardo Fuzio, ma «l’allora procuratore della Repubblica di Roma, dott. Giuseppe Pignatone, nel dicembre 2017». A scriverlo è il gup di Perugia Piercarlo Frabotta, nelle motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 23 luglio ha assolto l’allora procuratore generale della Cassazione Fuzio dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio al termine del processo con il rito abbreviato, reato contestato in concorso con Palamara, a sua volta prosciolto. Secondo l’accusa, Fuzio avrebbe svelato all’ex presidente dell’Anm dell’arrivo alla procura generale della Cassazione degli atti relativi all’indagine per corruzione avviata dalla procura di Perugia, a firma dell’allora procuratore Luigi De Ficchy, aggiungendo particolari relativi agli esiti delle indagini, ovvero il pagamento dei viaggi da parte di Centofanti, di cui avrebbe usufruito Palamara, e il riferimento al coinvolgimento di Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Elemento, questo, smentito a sua volta dal processo e che, dunque, mette in discussione anche la contestazione mossa nel troncone principale dell’inchiesta, che vede Palamara a giudizio per corruzione.

«IL SEGRETO DI PULCINELLA»

Secondo il gup «può affermarsi con certezza» che dalle conversazioni ambientali captate grazie al trojan installato sul cellulare di Palamara emerga come questi «prima» dell’incontro con Fuzio, avvenuto il 21 maggio 2019, «fosse già a conoscenza non solo delle indagini condotte dalla procura perugina circa i suoi rapporti con Centofanti ma anche del titolo di reato per il quale era stato iscritto nonché di molte circostanze» . In base alle motivazioni della sentenza, infatti, «non vi sono dubbi che la generica notizia di un’indagine penale a Perugia concernente possibili rapporti corruttivi tra Palamara e Centofanti fosse di “dominio pubblico” quanto meno dal settembre del 2018 e che di ciò si parlasse pressoché quotidianamente tanto all’interno del Consiglio superiore quanto nell’ambiente giudiziario romano». Così, quando i due si incontrarono, Palamara aveva già «piena consapevolezza che la comunicazione della sua iscrizione nel registro degli indagati della procura di Perugia fosse arrivata al Csm». Fu il pm Stefano Rocco Fava, in un interrogatorio del 2019, a confermare che «nel settembre 2018 iniziano ad uscire alcuni articoli di stampa e quando incontravo Palamara egli si premurava di dirmi che aveva tutte le prove dei pagamenti», a conferma della piena consapevolezza di quest’ultimo di essere sottoposto ad indagini dalla Procura di Perugia per aver ricevuto “utilità” dal Centofanti. E il pm romano Erminio Amelio, sentito a sommarie informazioni a Perugia a luglio 2020, affermò che «il fatto che Palamara fosse indagato a Perugia era il “segreto di Pulcinella”: a Roma se ne parlava ampiamente, e in occasione di quella serata ( cena di commiato di Pignatone del 9 maggio 2019, ndr), parlammo anche di questo fatto e io dissi a Palamara che doveva difendersi a fronte di quelle accuse che riteneva infondate». Insomma, tutti sapevano, tanto che, già a settembre del 2018, il Fatto Quotidiano pubblicò in prima pagina la notizia sul «fascicolo a Perugia che imbarazza il leader di Unicost», ben prima dell’incontro con Fuzio. Secondo la sentenza, sono le intercettazioni a far emergere in «maniera cristallina» tale circostanza: «È determinante, sul punto, il citato progressivo 16 del 16.05.2019 delle ore 00.48 con Luigi Spina (all’epoca consigliere del Csm, ndr) in cui Palamara affermava espressamente che già prima dell’arresto del Centofanti, avvenuto nel febbraio 2018, l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, nel dicembre 2017, lo aveva avvertito della emersione dall’analisi dei movimenti delle carte di credito di Fabrizio Centofanti di alcuni soggiorni pagati dall’imprenditore ed effettuati da Palamara con una donna diversa dalla coniuge».

AMARA E CENTOFANTI

Ma dalla sentenza emerge come per il giudice risulti «palesemente infondata» la contestazione a Fuzio di avere violato il segreto investigativo in relazione «al coinvolgimento di tali Amara e Calafiore nella vicenda». Infatti, il nome di Calafiore non veniva mai citato nell’informativa della Finanza del 3 maggio 2018 né nella nota del procuratore De Ficchy del 9 maggio, mentre il nome di Amara era menzionato nell’informativa solo in relazione a soggiorni dallo stesso assieme alla sua famiglia e a quella di Centofanti a Madonna di Campiglio, senza alcun coinvolgimento di Giancarlo Longo, l’ex pm al centro del “Sistema Siracusa”. Ma è anche il tenore stesso del colloquio Fuzio- Palamara a non lasciare «adito ad alcun dubbio circa il fatto che i due stessero rievocando le vicende degli arresti di Centofanti, Amara, Calafiore e Longo del febbraio 2018 e della condanna disciplinare di quest’ultimo cui aveva contribuito lo stesso consigliere Palamara, nonostante fosse a quell’epoca già chiaramente emerso il collegamento tra Centofanti e il medesimo Longo». Un elemento importante, in quanto sono proprio Amara e Calafiore gli assi portanti dell’accusa di corruzione: secondo la procura, infatti, Palamara riceveva «da Fabrizio Centofanti le utilità per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri» in particolare per la disponibilità dimostrata a Centofanti «di poter acquisire, anche tramite altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, a lui legati da rapporti professionali e/ o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso ed in particolare, su quelli pendenti presso la Procura della Repubblica di Messina e di Roma che coinvolgevano Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore; per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste di Centofanti finalizzate ad influenzare e/ o determinare, anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del Consiglio superiore della magistratura e/ o di altri colleghi, le nomine e gli incarichi da parte del Consiglio medesimo e le decisioni della sezione disciplinare». Se, dunque, Palamara non chiedeva informazioni per conoscere le sorti di Amara e Calafiore, per chi lo faceva?

Le motivazioni della sentenza. Colpo di spugna della Cassazione: il Sistema Palamara non c’è più. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Novembre 2021. Il Sistema? Semplicemente non esiste. È solo un titolo di un libro di successo. Lo hanno fatto notare ieri le toghe di Articolo 101, il gruppo di magistrati che cerca di opporsi al correntismo imperante in magistratura, commentando sul sito “toghe.blogspot” le motivazioni della sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione che ha confermato la radiazione di Luca Palamara dall’ordine giudiziario. Secondo la Cassazione, Palamara ha «agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira e al contempo e sinergicamente, ponendo in essere manovre strategiche tese a collocare in alcuni uffici giudiziari sensibili taluni magistrati in luogo di altri aspiranti». Nelle oltre duecento pagine di sentenza che hanno avallato la decisione del Consiglio superiore della magistratura di togliere per sempre dopo un turbo processo disciplinare la toga a Palamara, della parola “Sistema” non c’è traccia. E il racconto di Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti? Le trame svelate? Gli accordi sottobanco? Tutto finto. «Quel diavolaccio di Palamara ha fatto tutto da solo, riuscendo a condizionare un organo importante e collegiale come il Csm, composto da molti magistrati e politici, tutti messi nel sacco dal mefistofelico saggista», ironizza allora il giudice Nicola Saracino. Palamara e le sue malefatte hanno determinato le sorti della magistratura italiana per anni, piazzando i suoi amici nei posti di comando e sgambettando i nemici. Certo, è una tesi difficile da credere. Palamara non fa “sistema” da solo. Semmai, puntualizza Saracino, «nel sistema ci sguazzava alla grande viste le innegabili doti riconosciutegli dai mille questuanti, tra i quali anche altissimi papaveri ai vertici di uffici molto importanti». «Per il rispetto che gli si deve – prosegue Saracino – bisogna credere alla Cassazione. A non crederci, paradosso dei paradossi, sono i correntisti, cioè i togati organizzati in partiti politici interni alla magistratura che, secondo l’ingannevole racconto di Palamara, erano dediti a dividersi la torta degli incarichi direttivi, piazzando qua e là nel paese gli scudieri delle varie cordate, tanto indifferenti ai meriti quanto sensibili all’appartenenza dei loro protetti». Il tutto, peraltro, sarebbe avvenuto «senza finalità politiche che avrebbero poi connotato anche l’attività giudiziaria delle Procure delle Repubblica: bestemmia che la Cassazione ha sanzionato come bufala, così che tutti fossero più tranquilli». La sentenza della Cassazione, però, stride con quanto sta accadendo in questi mesi, con tutti gli operatori del diritto preoccupati delle conseguenze nefaste del correntismo in toga. «L’Associazione nazionale magistrati – ricorda Saracino – supplica la politica di fare presto perché il sistema clientelare è vivo e vegeto. E la ministra della Giustizia li ascolta e forma commissioni di cervelloni per arginare il sistema clientelare in magistratura, sollecitata persino dal Capo dello Stato che, a differenza della Cassazione, il sistema lo conosce e lo teme, essendo egli anche il presidente del Csm». Tutto questo agitarsi, continua il magistrato, del mondo correntizio e politico per giungere «ad una riforma anti-sistema mostra il lato comico della vicenda che evoca le collodiane bugie: una sentenza del più alto organo giudiziario italiano ha affermato che il sistema non esiste, respingendo la difesa dell’incolpato che di quel sistema si proclamava abile pedina». Il resto del mondo, quello fuori del Palazzaccio di piazza Cavour, sembra comunque ignorare quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione e «si schiera, inconsapevolmente, a difesa di Palamara, non più isolato artefice di malefatte dettate da ‘motivi personali’ bensì protagonista, con molti altri, di un sistema da scardinare», conclude Saracino. La pronuncia della Cassazione è l’ultima parola sul caso ed in Italia non è ulteriormente “discutibile” in sede giudiziaria: a Palamara restano solo i diritti umani da far valere in sede europea. Ma, considerate le tempistiche della Corte di Strasburgo, l’ex presidente dell’Anm farà in tempo a scrivere altri tre o quattro libri. Paolo Comi

Palamara, ecco la lista testi: «Ora via il velo d’ipocrisia». L’ex presidente dell’Anm chiede di autorizzare la citazione di 52 testimoni: tra questi l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara: «Ora spieghi se il suo pentimento è vero o no». Simona Musco su Il Dubbio il 6 novembre 2021. Cinquantadue nomi, dai procuratori aggiunti di Roma al procuratore di Napoli, fino all’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, passando per la presidente del Senato Maria Alberta Elisabetta Casellati, in qualità di ex membro del Csm e diversi giornalisti. È la lista testi depositata dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara al Tribunale di Perugia, dove lunedì 15 novembre inizierà il processo che lo vede imputato per corruzione. Insieme a lui a processo per concorso nel reato di corruzione per l’esercizio delle funzioni anche Adele Attisani. La difesa dell’ex pm romano, rappresentata dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, vuole dimostrare, in primo luogo, «l’inutilizzabilità delle operazioni d’ascolto con il trojan horse nonché la totale estraneità di qualsiasi ipotesi di asservimento funzionale del dottor Palamara nei confronti del dottor Centofanti (Fabrizio, che ha patteggiato un anno e sei mesi di condanna, ndr) e la assoluta regolarità dei provvedimenti disciplinari adottati in forma collegiale dalla sezione disciplinare del Csm nonché delle delibere plenarie in tema di incarichi direttivi. Infine l’inesistenza di qualsivoglia responsabilità in relazione alle residuali imputazioni» relative alla rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio. Palamara, dunque, contesta in primo luogo l’utilizzo del trojan, sollevando più di un dubbio sulla regolarità delle operazioni di captazione effettuate dalla Guardia di Finanza di Roma su delega della procura di Perugia. Il tema è, ormai, noto: la presenza, a Napoli, di un server “occulto” di proprietà di Rcs – la società che ha fornito ai magistrati gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico di Palamara – di cui nessuno, negli uffici giudiziari umbri, conosceva l’esistenza. Una macchina intermedia tra il telefono del pm e il server della procura di Roma, l’unico autorizzato a registrare i dati e trasmetterli alla sala di ascolto della Guardia di Finanza, che non si sarebbe limitata a fare da ponte per la trasmissione dei dati, bensì avrebbe immagazzinato file audio, tanto da essere ancora presenti nel momento in cui sono stati effettuati gli accertamenti irripetibili disposti dalle procure di Napoli e Firenze. I primi a finire sulla lista di Palamara sono dunque proprio i finanzieri incaricati di indagare sul suo conto, ai quali la difesa chiederà conto degli accertamenti eseguiti nei confronti dell’ex pm e del deputato Cosimo Ferri, comprese le modalità con le quali sono stati accertati gli asseriti “elementi di opacità” nel rapporto tra i due, l’identificazione dei partecipanti alla cena all’Hotel Champagne – durante la quale si discusse della nomina del procuratore di Roma -, sui progressivi mancanti e sulle modalità di predisposizione del servizio di ascolto delle operazioni di intercettazione. E la difesa vuole anche conoscere i motivi per cui, nonostante il pm di Perugia avesse intimato alla polizia giudiziaria di spegnere i microfoni in caso di incontri con parlamentari, ciò non è avvenuto. Una contestazione, questa, sollevata anche da Ferri davanti al Csm – dove ora si trova sotto procedimento disciplinare – e davanti alla giunta per le autorizzazioni della Camera, che mercoledì prossimo si riunirà nuovamente per decidere se rendere o meno utilizzabili quelle conversazioni, dichiarate «illegittime» dal deputato. A rendere conto di come abbia funzionato il trojan sarà anche Duilio Bianchi, direttore della divisione Ip della Rcs, al quale la difesa chiederà anche come mai alcune registrazioni siano state interrotte. A parlare della presenza dei server a Napoli anche il procuratore partenopeo Giovanni Melillo, chiamato a riferire sulle modalità di registrazione e programmazione del trojan. 

PROCESSO PALAMARA. SONO 52 I TESTIMONI PROPOSTI DALL’EX PM: AVVOCATI, GIORNALISTI, MAGISTRATI. Il Corriere del Giorno il 7 Novembre 2021. Palamara ha già annunciato che presenterà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la decisione di rimozione del Csm alla luce di quanto emerso dai verbali relativi alla Loggia Ungheria. L’ex presidente dell’ ANM è già stato prosciolto dal Gup Avila per l’ipotesi di reato contestata, relativa alla  rivelazione di segreto d’ufficio in concorso con l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio assolto nel procedimento a suo carico. Sono 52 i testimoni della difesa presenti nella lista depositata dagli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni difensori dell’ ex presidente dell’ ANM  Luca Palamara prima della prima udienza fissata dinnanzi al Tribunale di Perugia per il prossimo 15 novembre (ma che potrebbe slittare) nel processo che lo vede imputato per corruzione. Sono 43 invece i testi dell’accusa indicati dalla Procura di Perugia  a seguito delle indagini condotte dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani coordinati dal procuratore capo Raffaele Cantone . Saranno i giudici del Tribunale di Perugia a decidere quali testimoni ammettere. Secondo i difensori di Palamara “il tema di prova è finalizzato a dimostrare l’inutilizzabilità delle operazioni di ascolto con il trojan nonché la totale estraneità a qualsiasi ipotesi di asservimento funzionale del dott. Palamara nei confronti del dott. Centofanti e la assoluta regolarità dei provvedimenti disciplinari adottati in forma collegiale dalla sezione disciplinare del Csm nonché delle delibere plenarie in tema di incarichi direttivi”. Nell’elenco di testi di Palamara compaiono l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati in relazione al precedente ruolo di componente dal 2014 al 2018 del Consiglio Superiore della Magistratura, i magistrati Sergio Colaiocco, Stefano Fava, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli Luca Tescaroli, i giornalisti Giovanni Bianconi (Corriere della Sera), Marco Lillo (Il Fatto Quotidiano) Alessandra Ziniti (La Repubblica) . Nella lista compaiono l’avvocato Piero Amara ed il lobbysta Fabrizio Centofanti attualmente al centro delle indagini sulla presunta Loggia Ungheria. Gli ufficiali del Gico di Roma della Guardia di Finanza Gianluca Burattini,Roberto Dacunto, Fabio Del Prete e Gerardo Mastrodomenico; Duilio Bianchi, direttore di divisione Ip della Rcs Spa (società che effettua le intercettazioni per conto delle Procure) , i consulenti di parte Lello Della Pietra, Fabio Milana, Paolo Reale e , il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo, l’ex pm Stefano Fava, i pm Giancarlo Cirielli e Nicola Maiorano della Procura di Roma, i procuratori aggiunti di Roma Sergio Colaiocco, Paolo Ielo, Antonello Racanelli, Rodolfo Sabelli e Luca Tescaroli, i magistrati Achille Bianchi, Francesco Giannella. Presenti nella lista anche l’ex vicepresidente laico del Csm Giovanni Legnini (Pd), gli ex componenti del Consiglio Superiore della Magistratura Lucio Aschettino, Paola Balducci, Maria Elisabetta Casellati, Nicola Clivio, Giuseppe Fanfani, Claudio Galoppi, Valerio Fracassi, Antonio Leone, Lorenzo Pontecorvo, Maria Rosaria Sangiorgio . Indicati anche ex segretario generale del Csm Paola Pieraccini , l’attuale vicepresidente del Csm David Ermini, l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, l’ ex primo presidente della Suprema Corte Giovanni Mammone, l’ex consigliere Csm Luigi Spina, Sabrina Tolu e Pina Guglielmi.

Nell’elenco figurano anche il noto avvocato Federico Tedeschini, Cochita Grillo componente del Csm, l’ex presidente della Corte d’appello di Catania Giuseppe Meliadò e il magistrato Francesco Mannino, l’avvocato Piero Amara, Giancarlo Longo, Serio Santoro, Raffaele Squitieri, Davide Franco, Mario Giannini. Palamara ha già annunciato che presenterà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la decisione di rimozione decisa dal Csm “soprattutto alla luce di quanto emerso dai verbali relativi alla Loggia Ungheria”. L’ex presidente dell’ ANM è già stato prosciolto dal Gup Avila per l’ipotesi di reato contestata, relativa alla rivelazione di segreto d’ufficio in concorso con l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio (assolto nel procedimento a suo carico o il rito abbreviato)

«Complici di Palamara? Noi di Unicost abbiamo una storia che dice altro». Intervista a Rossella Marro, nuova presidente nazionale di Unicost: «Cartabia apprezza l’associazionismo giudiziario, dalla riforma Csm non mi aspetto purghe. Illogico il sì al referendum di alcuni colleghi». Errico Novi su Il Dubbio il 6 novembre 2021. Unicost si è rinnovata, i nomi parlano chiaro: il gruppo dirigente scelto dall’assemblea dello scorso luglio apre una nuova fase per la corrente che è stata a lungo protagonista delle competizioni in seno all’Anm e al Csm, e che ha pagato il prezzo più alto per le vicende emerse a partire dalla cena all’hotel Champagne: di Unicost, Luca Palamara è stato per anni esponente di punta. «Non si può parlare di una responsabilità collettiva del nostro gruppo associativo rispetto alle condotte per le quali Luca Palamara è stato condannato in sede disciplinare», dice Rossella Marro, nuova presidente nazionale di Unicost, subentrata l’estate scorsa a Mariano Sciacca. «Credo sia innegabile la fermezza della reazione che, già nella primavera del 2019, venne da Unicost rispetto alle modalità adottate da Palamara ed emerse con le indagini. Se ci fosse stata una condivisione, non credo che ci saremmo espressi con quella forza, e in modo così immediato», dice la magistrata in servizio come giudice penale presso il Tribunale di Napoli Nord.

Presidente Marro, partiamo dalla riforma che molti percepiscono come un possibile regolamento di conti, il ddl sul Csm: davvero c’è da temere che sia l’occasione di una vendetta da parte della politica nei confronti della magistratura?

Non credo, io ho un atteggiamento di fiducia. Non vedo come possa consumarsi una ritorsione. C’è un nodo delicato: la nuova legge per l’elezione dei componenti togati al Csm, ma non credo possa offrire l’occasione di penalizzare le correnti. Lo dico dopo aver ascoltato più volte la ministra Cartabia esprimersi sul valore dell’associazionismo giudiziario, sull’importanza del pluralismo culturale dei gruppi associativi.

Voi di Unicost vi sentire nel mirino? Cosa replica a chi vi addita come la corrente di Palamara e per ciò stesso corresponsabile di certe distorsioni?

Dobbiamo distinguere due piani. Il primo riguarda le modalità emerse con la cena all’hotel Champagne. Come già ho avuto modo di dire, si è trattato di una vicenda deflagrante, ma netta e chiara, appunto, è stata la reazione arrivata immediatamente da Unicost, che ha sentito l’esigenza di avviare la rifondazione del gruppo, di darsi nuove regole dello stare insieme, confluite nel nuovo statuto. Se ci fossimo riconosciuti in quelle modalità, avremmo fatto corpo unico con chi se n’era reso responsabile.

E il secondo aspetto?

Riguarda le cosiddette chat, divulgate successivamente. Credo sia chiaro che non si trattasse di distorsioni caratteristiche della nostra corrente ma di una consuetudine diffusa fra i gruppi, una tendenza generalizzata e senza dubbio deprecabile.

Nel processo disciplinare Palamara è stato privato di alcune garanzie al punto da diventare un capro espiatorio?

Non mi esprimo sul deliberato disciplinare, che è una sentenza a tutti gli effetti, un atto di giurisdizione espresso in seguito a un procedimento dotato di proprie garanzie, di un contraddittorio.

Oggi l’opinione pubblica è in grado di capire che le correnti hanno una funzione necessaria?

Scioglierle sarebbe incostituzionale, innanzitutto. La libertà di associazione non può conoscere esclusioni. Sarebbe anche una scelta disfunzionale, per non dire insensata, visto che la tendenza ad associarsi è incomprimibile e le aggregazioni che alcuni vorrebbero abolire finirebbero per ricostituirsi sottotraccia, segretamente: un’ipotesi priva di senso. E poi il pluralismo, la diversità degli approcci culturali in seno all’Anm e anche nelle sedi istituzionali è evidente, è un dato impossibile da disconoscere: basti pensare ad argomenti come l’organizzazione degli uffici giudiziari, in particolare quelli di Procura, o il regime delle incompatibilità ambientali, seppur la seconda materia dovrebbe essere suscettibile di margini discrezionali assai limitati. Negare le differenze tra le correnti della magistratura vorrebbe dire negare la realtà.

Cosa pensa della riforma elettorale attualmente sul tavolo?

Intanto una modifica del sistema attuale è doverosa. Il collegio unico nazionale, questo è indiscutibile, ha reso dominante il peso delle correnti nella selezione dei candidati. È chiaro che creare una pluralità di collegi dall’estensione contenuta favorirebbe l’affermarsi di candidature sulla base della riconoscibilità, della stima suscitata fra i colleghi. Il che necessariamente ridurrebbe l’incidenza delle correnti.

Alcuni danno per scontato che farete coalizione con Area: è vero?

Posso rispondere a preoccupazioni del genere e assicurare che siamo usciti dalla nostra costituente determinati ad affermare la nostra identità, costruita nel corso degli anni: un gruppo in cui si riconoscono i magistrati legati da un preciso modo di intendere l’attività associativa, professionale ed anche istituzionale, informato all’equilibrio, alla sobrietà, all’assenza di preconcetti ideologici, alla considerazione della delicatezza ed importanza del ruolo del magistrato, che non è una missione ma neanche semplicemente un comodo impiego ben retribuito.

La squadra di cui lei è l’espressione di vertice è in effetti totalmente nuova rispetto al passato. C’era chi pronosticava una fuga della magistratura di base da Unicost.

Le cose sono andate in modo diverso. Alcuni hanno lasciato il nostro gruppo ma molti altri hanno scelto di restare, e siamo riusciti a coinvolgere nuovi e giovani colleghi. Io ho fatto parte del comitato direttivo dell’Anm precedente all’attuale, ma gran parte degli altri componenti della direzione in effetti non aveva mai ricoperto cariche del genere. Però vorrei che una cosa sia chiara.

Cosa?

Noi non rinneghiamo affatto lo straordinario percorso vissuto per lustri da Unità per la Costituzione. Novità del gruppo dirigente non significa negare i valori del gruppo portati avanti in tutti questi anni da colleghi di assoluto valore. Il nuovo corso segna un patto generazionale tra ciò che di buono ha rappresentato finora Unicost, e non è affatto poco, e le nuove energie rappresentate dai tanti colleghi giovani che si sono avvicinati al gruppo proprio in occasione del processo costituente. Il che si riflette anche nel carattere che speriamo assuma il nuovo sistema di voto per il Csm: proprio per la fiducia che riponiamo nel pluralismo e nella nostra identità in particolare, pensiamo che il sistema proporzionale sia la soluzione migliore.

Nella riforma potrebbe trovare spazio il diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari: cosa ne pensa?

Condivido le preoccupazioni espresse dall’Anm in modo ampio e generalizzato. Se davvero i componenti laici votassero sulle valutazioni di professionalità, potrebbero derivarne rischi di condizionamento.

Perché?

Guardi, faccio un esempio diverso da quello più ricorrente: cosa penserebbe il difensore di una parte coinvolta in un giudizio civile, se l’avvocato della controparte fosse chiamato due giorni dopo a votare nel Consiglio giudiziario sulla valutazione di professionalità del giudice di quella causa? Potrebbe o no temere un condizionamento? Io non credo possa verificarsi in concreto, ma credo anche che la sola impressione del condizionamento vada scongiurata.

Cambierebbe idea se a sedere nei Consigli giudiziari fossero i presidenti degli Ordini, figure istituzionali che rivestono di per sé un ruolo di garanzia?

Scusi, ma mi chiedo perché si invochi la valutazione degli avvocati sui magistrati, che ha dei profili di asimmetria, non essendo prevista né richiesta dai magistrati la partecipazione di questi ultimi agli organismi in cui in varia misura si valutino le condotte degli avvocati, e, soprattutto, considerato che alimenterebbe l’idea di una magistratura non in grado, al proprio interno, di assicurare coerenza nei giudizi. Inoltre, è importante ricordare che il sistema attuale già prevede la possibilità per gli avvocati di segnalare al Consiglio giudiziario, attraverso i Consigli dell’Ordine, criticità relative all’operato dei magistrati.

Un rappresentante di Articolo 101, Andrea Reale, si è detto favorevole ad alcuni referendum. E lei?

Appena ho saputo delle posizioni espresse dal dottor Reale nell’intervista al Giornale, sono rimasta sorpresa. Riguardo al quesito sulla custodia cautelare, mi pare evidente che precludere le misure motivate dal rischio di reiterazione del reato crei problemi molto seri per la sicurezza collettiva, impedendo ad esempio di bloccare spacciatori, ladri e stalker nei casi di gravi molestie psicologiche e morali. L’altra proposta, eliminare la raccolta firme per candidarsi al Csm, punta ad abrogare una norma che allo stato attuale pare superata dalla storia, considerato che a breve sarà presentata una riforma che modificherà radicalmente il sistema elettorale. Va peraltro evidenziato nella pratica come un magistrato che non sia in grado di raccogliere un numero contenuto di firme per la candidatura, difficilmente riuscirebbe a ricevere consensi sufficienti alla elezione.

Stavolta si va a caccia del reato. Palamara e Fava entrano nella storia: primi magistrati a processo per fuga di notizie. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Ottobre 2021. Inizierà il prossimo 19 gennaio il processo a Perugia nei confronti degli ex pm della Capitale Luca Palamara e Stefano Rocco Fava, accusati di rivelazione del segreto d’ufficio. Confermate, dunque, le previsioni della vigilia. Il gup Angela Avila ha accolto la tesi della Procura diretta da Raffaele Cantone secondo cui Fava, istigato da Palamara, avrebbe fornito notizie riservate ai giornalisti del Fatto e della Verità per scrivere due articoli pubblicati il 29 maggio del 2019. La notizia “riservata” era che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti dell’avvocato Piero Amara – noto alle cronache per aver rivelato l’esistenza della loggia Ungheria – e che l’allora procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto apporre il visto. Fava, ora giudice a Latina, era in quel periodo il titolare di un fascicolo a carico di Amara e dell’avvocato Luca Lanzalone, l’ex super consulente della sindaca di Roma Virginia Raggi, poi nominato presidente della Multiutility Acea, incaricato di seguire il dossier sullo stadio della A.S. Roma. Il pm, allora in servizio al dipartimento reati contro la Pa di piazzale Clodio, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, oltre alla custodia cautelare, aveva chiesto nei confronti di Amara anche il sequestro di circa 25 milioni di euro. Pignatone, invece, non condividendo la gestione delle indagini da parte di Fava, aveva avocato i fascicoli, per poi riassegnarli al dipartimento di Ielo. Quest’ultimo, poco prima che Pignatone lasciasse l’incarico per raggiunti limiti di età, gli aveva scritto una nota in cui chiedeva di “soprassedere” sulle richieste di custodia cautelare avanzate da Fava, “ritenendo necessarie ulteriori attività istruttorie, valutando insufficiente la provvista indiziaria”. Il fascicolo, per la cronaca, venne poi mandato a Milano per competenza territoriale. Fava, dopo la revoca, aveva scritto una ventina di pagine di osservazioni al Csm per chiedere chiarimenti. Il Csm non ha ancora risposto. Secondo i pm di Perugia Fava e Palamara orchestrano una campagna mediatica per mettere in cattiva luce Pignatone e Ielo. Le indagini sulla fuga di notizie vennero affidate alla sezione di pg dei carabinieri del capoluogo umbro. Fra i testimoni ascoltati, gli aggiunti Rodolfo Maria Sabelli e Paolo Ielo, i togati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, la segretaria generale del Csm Paola Piraccini, l’ex pm antimafia Cesare Sirignano. Vennero interrogati anche i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Palamara venne sentito tre volte. E vennero sentiti anche i giornalisti del Fatto e della Verità che negarono che le loro fonti erano i due magistrati. Pur potendo avvalersi del segreto professionale, i giornalisti dissero che avevano avute la notizia da fonti interne al palazzo di giustizia e da ambienti imprenditoriali. Nel corso dell’udienza preliminare sia Fava che Palamara hanno rilasciato dichiarazioni spontanee. Palamara, che dopo aver terminato il mandato di consigliere al Csm era tornato a piazzale Clodio, confidandosi con Fava, una volta affermò di essere “sotto ricatto”. Il processo potrebbe essere l’occasione per chiarire anche questi aspetti rimasti nell’ombra. Giudice del dibattimento molto probabilmente sarà Giuseppe Narducci, ex assessore alla legalità a Napoli con Luigi De Magistris ma, soprattutto, ex pm che condusse, come Palamara, uno dei vari filoni di Calciopoli. Paolo Comi

Caso Palamara, il Csm si costituisce parte civile. Ma il plenum si spacca sul voto. Palazzo dei marescialli si costituirà parte civile nel processo a carico dell’ex magistrato Luca Palamara. Nove i voti a favore, otto i contrari e otto astenuti. Il Dubbio il 14 ottobre 2021.  Il Csm si costituirà parte civile, attraverso l’Avvocatura dello Stato, nel processo a carico dell’ex magistrato Luca Palamara, che si aprirà davanti al tribunale di Perugia il 15 novembre prossimo. Lo ha deciso il plenum questo pomeriggio: si tratta di una decisione sulla quale l’assemblea plenaria di Palazzo dei Marescialli si è nettamente divisa, perché i voti favorevoli sono stati 9, mentre 8 sono stati quelli contrari e altrettante sono state le astensioni. Il Comitato di Presidenza del Csm chiederà “il risarcimento del danno, certamente di quello non patrimoniale per la lesione del diritto all’immagine. La contestazione mossa al dott. Palamara di aver fatto mercimonio della funzione consiliare e di aver causalmente contribuito alla violazione dei doveri di correttezza e di imparzialità da parte di altri componenti è direttamente lesiva del prestigio istituzionale dell’Organo. Analogamente è a dirsi per le contestazioni aventi ad oggetto lo sviamento e il mercimonio della funzione giurisdizionale”. Nella delibera discussa dal Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, “tale conclusione non si pone in contrasto con il consolidato indirizzo giurisprudenziale che identifica nella Presidenza del Consiglio l’ente esponenziale della collettività, titolare dell’interesse a che le funzioni giudiziarie siano svolte in condizioni di indipendenza e di imparzialità”. La quantificazione del danno spetterà all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia. “In assenza di elementi di riferimento che possano condurre ad individuare il preciso ammontare della somma da ritenere un congruo ristoro (per la liquidazione di questa voce di danno non patrimoniale non sono esistenti tabelle, né constano precedenti relativi al risarcimento, in favore del Consiglio Superiore, del danno all’immagine) appare opportuno rimetterne la quantificazione, ove ritenuta necessaria, all’Avvocatura dello Stato, che potrà, a tal fine, tener conto delle risultanze processuali, con l’ulteriore indicazione di considerare, nel modulare la richiesta, che l’interesse dell’istituzione consiliare ad essere presente in giudizio come parte civile è prevalentemente quello di contribuire all’accertamento processuale dei fatti”.

Si sgonfiano le accuse per Palamara. Cade la rivelazione di segreto d'ufficio. Anna Maria Greco il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Si alleggerisce la posizione dell'ex magistrato e del collega Fava. E venerdì si decide sul rinvio a giudizio: "Dimezzati i rilievi". Venerdì a Perugia si deciderà sul rinvio a giudizio per Luca Palamara e Stefano Fava, ma intanto i pm riducono le contestazioni ai due per aver rivelato segreti d'ufficio ai giornalisti del Fatto Quotidiano e della Verità. Dall'udienza preliminare di ieri l'ex presidente dell'Anm che, radiato dalla magistratura continua a scuoterne gli equilibri, esce con un gran sorriso. «Prendo atto con soddisfazione - dice Palamara- che da parte della procura di Perugia, con la modifica della imputazione, c'è stato un dimezzamento delle accuse a mio carico, segno evidente che dalla lettura delle carte non può che emergere la mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati». A luglio l' ex consigliere del Csm è stato rinviato a giudizio per corruzione, ma questo è un filone diverso, appunto sulla fuga di notizie secretate. Per l'accusa l'allora pm della capitale Fava, con l'aiuto del collega Palamara, avrebbero usato queste armi per una campagna mediatica contro il capo della procura capitolina, Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Paolo Ielo. Ora, però, l'impianto accusatorio sembra zoppicare e, come nell'altra vicenda giudiziaria, si cambiano i capi d'imputazione. Così, si alleggerisce la posizione dell'uomo che, dopo essere stato al centro dei traffici tra le correnti per le nomine, è diventato il primo accusatore del Sistema, come lo chiama nel suo libro. «La procura in extremis - spiega Benedetto Buratti, difensore di Palamara con Roberto Rampioni e Mariano Buratti- ha modificato per sottrazione un'imputazione che rimane comunque infondata. A maggior ragione confidiamo che la vicenda si concluda con il proscioglimento il prossimo venerdì». Nell'udienza preliminare di fronte al Gup Angela Avila, la procura ha dunque cancellato per Fava e Palamara l'accusa di aver rivelato che l'ex avvocato esterno dell'Eni Amara fosse indagato per bancarotta e frode fiscale e che nei suoi confronti ci fosse una misura cautelare. I pm Gemma Miliani e Mario Formisano ai due contestano ancora di aver rivelato notizie d'ufficio «segrete». In particolare, che Fava aveva predisposto una misura cautelare per Amara per autoriciclaggio e Pignatone «non aveva apposto il visto» e che nel corso delle perquisizioni per il procedimento Fava «aveva recuperato documentazione che dimostrava come la società Napag era stata utilizzata per riciclare denaro che l'Eni aveva fatto pervenire ad Amara (25 milioni di euro)». Venerdì interverranno i difensori di Fava, accusato anche di accesso abusivo a sistema informatico. Il suo obiettivo, per i pm «era di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, per far avviare un procedimento disciplinare contro l'allora procuratore di Roma e per screditare l'aggiunto Paolo Ielo», con «l'ausilio» di Palamara, «a cui consegnava tutto l'incartamento indebitamente acquisito». Anna Maria Greco

Ecco il verdetto del giudice su Palamara: cosa ha deciso. Federico Garau il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex presidente dell'Anm è stato comunque rinviato a giudizio per rispondere dell'accusa di rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. Alla fine Luca Palamara è stato rinviato a giudizio insieme all'ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, come disposto dal giudice di Perugia Angela Avila. L'ex presidente dell'Anm, è stato tuttavia prosciolto dalle altre accuse, fra cui quella di rivelazione di segreto d'ufficio per quanto concerne l'esposto presentato dallo stesso Fava presso il Comitato di Presidenza del Csm. Già durante l'udienza preliminare tenutasi nei giorni scorsi, era stata modificata una parte del capo di imputazione proprio per quanto riguarda le accuse di rivelazione dei segreti d'ufficio, alleggerendo di fatto la posizione sia di Palamara che del collega magistrato. Palamara dovrà comunque comparire alla sbarra per rispondere dell'accusa di rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio, e con lui anche Fava.

La decisione del gup

Al termine di due ore di camera di consiglio, la gup Angela Avila ha infatti disposto il processo, che avrà luogo il prossimo 19 gennaio. In concorso con Stefano Rocco Fava, l'ex presidente dell'Anm, è accusato di aver rivelato notizie d'ufficio "che sarebbero dovute rimanere segrete", come riportato da AdnKronos. Non solo. Nello specifico si parla di Fava, che "aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto".

"Nel corso delle perquisizioni nell'ambito del procedimento Fava", prosegue il capo di accusa, "aveva recuperato documentazione che dimostrava come la società Napag era stata utilizzata per riciclare denaro che l'Eni aveva fatto pervenire ad Amara (25 milioni di euro)". Stefano Rocco Fava, inoltre, sarà processato per le accuse di accesso abusivo a sistema informatico e abuso d’ufficio. L'ex pm di Roma, infatti, è imputato anche per essersi "abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap, acquisendo verbali d'udienza e della sentenza di un procedimento". Un'operazione avvenuta, secondo i sostituti procuratori Gemma Miliani e Mario Formisano, al fine di "avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e dell'aggiunto Paolo Ielo". Lo scopo di Fava sarebbe stato infatti quello di far avviare un procedimento disciplinare nei confronti di Pignatone, che all'epoca ricopriva l'incarico di procuratore, ed allo stesso tempo screditare Paolo Ielo.

Le reazioni

Oggi l'ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura non era presente in aula, tuttavia la sua difesa si è detta soddisfatta. "Siamo soddisfatti per la decisione presa dal gup di Perugia. L'imputazione rimasta, già oggetto di ripensamento da parte della procura, arriva al dibattimento svuotata, priva di contenuto e in contrasto con le deposizioni rese. Insomma un dibattimento che si palesa inutile prima di iniziare", hanno infatti dichiarato gli avvocati Benedetto Buratti, Roberto Rampioni e Mariano Buratti. Positivo anche Luca Palamara, che venuto a conoscenza della decisione del giudice, ha affermato di aver preso atto dei fatti. "Sulla residua imputazione il dibattimento servirà a fare luce sulla mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati come già per altro chiarito dai giornalisti de Il Fatto e della Verità, i quali hanno escluso di avere appreso da me la notizia dell'esposto di Fava", ha commentato, come riportato da AdnKronos. "Sono certo che non solo questo ma che tutte le accuse che mi riguardano cadranno e lasceranno il posto alla verità", ha concluso.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Palamara, nuovo processo per la soffiata ai giornalisti ma incassa due punti a suo favore. Redazione venerdì 15 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Iniziative soggette a limitazioni. Prima della sottoscrizione leggere il set informativo e i dettagli su generali.it. Dopo il rinvio a giudizio per corruzione dello scorso luglio, Luca Palamara dovrà affrontare un nuovo processo per l’accusa di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio in relazione a uno degli episodi contestati dalla Procura di Perugia nel capitolo delle rivelazioni ai giornalisti del Fatto Quotidiano e della Verità. Ma, Palamara, incassa anche due punti a suo favore: il non luogo a procedere in relazione all’altro episodio di rivelazione ai giornalisti e il proscioglimento perché il fatto non sussiste in relazione all’accusa di rivelazione per l’esposto presentato dal pm Fava presso il Comitato di Presidenza del Csm. Ma partiamo dall’inizio. Il gup Angela Avila, dopo due ore e mezzo di camera di consiglio, ha disposto il processo, fissandolo per il prossimo 19 gennaio, in relazione all’accusa, contestata in concorso con l’ex-pm Stefano Rocco Fava, per aver rivelato notizie d’ufficio “che sarebbero dovute rimanere segrete“, e in particolare “che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti dell’ex-consulente Legsle dell’Eni, l’avvocato Piero Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto“. Accusa che era contestata all’ex-consigliere del Csm in concorso con l’ex-procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio: quest’ultimo, dopo aver optato per il rito abbreviato, lo scorso 23 luglio era stato assolto dal gup Piercarlo Frabotta. A processo andrà anche l’ex-pm di Roma Stefano Rocco Fava, all’epoca dei fatti sostituto procuratore nella capitale e ora giudice civile a Latina, oltre che per lo stesso episodio contestato a Palamara, per le accuse di abuso d’ufficio e accesso abusivo a sistema informatico. Esulta Palamara: “Prendo atto con soddisfazione che sono cadute le principali accuse. Sulla residua imputazione il dibattimento servirà a fare luce sulla mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati come già per altro chiarito dai giornalisti de Il Fatto e della Verità, i quali hanno escluso di avere appreso da me la notizia dell’esposto di Fava“. “Sono certo che non solo questo ma che tutte le accuse che mi riguardano cadranno e lasceranno il posto alla verità”, ha aggiunto Palamara. “E’ giusto che tutti sappiano come sono andate realmente le cose – sottolinea l’ex-consigliere del Csm. – Basta verita’ di facciata, basta ipocrisie. A breve presenterò il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la decisione di rimozione decisa dal Csm soprattutto alla luce di quanto emerso dai verbali relativi alla Loggia Ungheria“.

Farà ricorso alla Cedu. Palamara (e Fava) a processo per fuga di notizie: ma contro l’ex pm cadono le accuse più "pesanti". Redazione su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Luca Palamara e Stefano Rocco Fava rinviati a giudizio, col processo che prenderà il via il 19 gennaio prossimo. L’ex consigliere del Csm e il magistrato dovranno affrontare il processo, come disposto dal Gup di Perugia Angela Avila, con l’accusa di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio ai giornalisti di due quotidiani, il Fatto Quotidiano e La Verità. L’accusa nei confronti di Palamara e Fava è di aver rivelato ai giornalisti che l’ex legale estero di Eni Piero Amara, ‘gola profonda’ della presunta Loggia Ungheria, fosse destinatario di una misura cautelare per il delitto di autoriciclaggio. Secondo l’accusa Fava, “con l’aiuto e l’istigazione” di Palamara, avrebbe informato i giornalisti di aver predisposto una misura cautelare, in un procedimento a lui assegnato nei confronti di Amara per autoriciclaggio e che l’allora procuratore della Repubblica Pignatone “non aveva apposto il visto”. Lo stesso Gup Avila ha inoltre deciso di prosciogliere Palamara, difeso dall’avvocato Benedetto Buratti, per l’altra ipotesi di reato contestata, relativa alla rivelazione di segreto d’ufficio in concorso con l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio (già assolto con il rito abbreviato). Stefano Rocco Fava dovrà rispondere anche dell’ipotesi di reato di accesso abusivo a sistema informatico e abuso d’ufficio. Per Palamara il proscioglimento dall’accusa di rivelazione in concorso con Fuzio implica che “sono cadute le principali accuse. Sulla residua imputazione il dibattimento servirà a fare luce sulla mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati come già per altro chiarito dai giornalisti, i quali hanno escluso di avere appreso da me la notizia dell’esposto di Fava“, ha spiegato l’ex pm di Roma commentando la decisione del Gup di Perugia. Palamara si è detto “certo” che “non solo questo ma che tutte le accuse che mi riguardano cadranno e lasceranno il posto alla verità”. Palamara ha inoltre annunciato che presenterà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la decisione di rimozione decisa dal Csm “soprattutto alla luce di quanto emerso dai verbali relativi alla Loggia Ungheria”. Soddisfazione espressa anche dall’avvocato di Palamara, Benedetto Buratti. “Siamo soddisfatti per la decisione presa dal Gup di Perugia. L’imputazione rimasta già oggetto di ripensamento da parte della Procura arriva al dibattimento svuotata, priva di contenuto e in contrasto con le deposizioni rese. Insomma, un dibattimento che si palesa inutile prima di iniziare”, ha sottolineato il legale a LaPresse.

«Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?». L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani: «La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti». Simona Musco su Il Dubbio il 14 agosto 2021. «Un attacco alla libertà di espressione». E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il «danno per le Istituzioni» legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, «presentato anche sulle spiagge». Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr), Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come «questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”», sottolineando anche come «i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro». Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione «non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento» e se «la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto». «È inaccettabile creare un clima di paura intorno a notizie che riguardano certi temi – ha commentato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito Popolare -. Ci auguriamo che l’Avvocatura dello Stato ripensi alle sue azioni contro la pubblicazione di un libro che rivela informazioni sulla magistratura e quindi sulla giustizia. Temi molto cari a tutti i cittadini. La storia e i valori di Forza Italia ci impongono di sostenere a pieno questa battaglia in favore della verità». La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di «un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara», mentre l’ex consigliere del Csm si è detto «turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?». Contro la richiesta dell’Avvocatura – che ha anche invocato il sequestro del libro – si è ribellato anche il Codacons. «Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale – aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana – proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio».

Palamara: «Le correnti dicano tutta la verità e smettano di coprirsi dietro il mio nome». INTERVISTA ALL’EX CAPO DELL’ANM. Alla nuova presidente di Unicost Rossella Marro, sentita sul Dubbio di oggi, l’ex pm di Roma replica: «Do atto della chiarezza sulla consuetudine generalizzata delle spartizioni. Ma dopo le chat, i verbali anonimi e i video scomparsi, dovrebbero prendere la parola i leader che nelle correnti sono stati protagonisti, come il sottoscritto, di quel sistema, anziché usare il mio nome. O il presunto rinnovamento resterà un’operazione di facciata». Errico Novi su Il Dubbio il 4 novembre 2021.

«Sulla magistratura è come se ci fosse un tappo». Luca Palamara alla fine trova l’immagine efficace: «Un tappo sulla verità, che però si deve far emergere: va chiarito cosa è stato davvero il sistema delle correnti. Ne sono stato un protagonista, ma non è possibile che si usi ancora il mio nome per compiere operazioni di facciata e dare l’impressione di un falso rinnovamento nell’associazionismo giudiziario».

Ecco, l’intervista si conclude così, con una sintesi pesante eppure meritevole di essere ascoltata. Ma l’esordio della chiacchierata è più turbolento. La mattina presto l’ex presidente Anm Luca Palamara, radiato dalla magistratura ma in attesa di riparlarne alla Corte europea, vede in cima a tutte le rassegne stampa l’intervista concessa al Dubbio dalla dottoressa Rossella Marro, nuova presidente di Unicost, la corrente di cui proprio lui, Palamara, è stato leader per anni.

Nella sintesi del titolo si legge: “Noi di Unicost non siamo complici di Palamara”. Nel testo, la magistrata esprime il concetto con enfasi assai meno accentuata di quanto chi scrive  faccia nel titolo: “Non si può parlare di una responsabilità collettiva del nostro gruppo associativo rispetto alle condotte per le quali Luca Palamara è stato condannato in sede disciplinare”. Tra “complici”, che in genere si usa per gli illeciti penali, e “corresponsabili”, più adeguato a un contesto disciplinare, c’è differenza, ne va dato atto sia a Marro che a Palamara.

Ma appunto, l’intervista all’ex leader di Unicost e dell’Anm si chiude in un altro clima, anche se la prima frase di Palamara al telefono è «proprio dal Dubbio non mi sarei aspettato una rappresentazione del genere, uno scenario di complicità che non mi appartiene».

Titolo rumoroso, d’accordo. Ma la presidente Marro riconosce anche come le chat abbiano svelato una “consuetudine generalizzata”, che certo non riguardava solo Luca Palamara.

Sì, do atto alla dottoressa Marro di aver offerto una descrizione senz’altro meno negazionista di quanto sia avvenuto con il mio procedimento disciplinare. Ma sarebbe opportuno se a prendere la parola sulle spartizioni correntizie fossero i responsabili dei gruppi, che ne sono stati protagonisti come il sottoscritto, e che però diversamente da me esercitano ancora tutto il loro peso sull’attività delle correnti.

Non è bastato il suo libro, a far emergere le spartizioni?

Ancora oggi privati cittadini e magistrati esclusi da tutto mi chiedono: “Ma com’è possibile che comportamenti come quelli venuti fuori in questi due anni, pressioni e richieste di magistrati per ottenere e assicurare incarichi negli uffici giudiziari, non abbiano implicato accuse di traffico illecito di influenze, come sarebbe avvenuto a qualsiasi imprenditore che avesse tentato l’interlocuzione con un’amministrazione pubblica per ottenere un appalto? Perché l’imprenditore viene indagato per traffico d’influenze o corruzione e il magistrato no?

Appunto: perché?

Perché nella magistratura è scattato il meccanismo autoprotettivo della casta. Il consigliere Csm raccomandava il collega e compagno di corrente, il quale veniva a trovare il togato amico a Palazzo dei Marescialli e veniva da lui accompagnato in processione dai laici che avrebbero dovuto votare la nomina. Ma quel consigliere aveva l’impressione di aiutare semplicemente uno che faceva parte dello stesso gruppo. Anch’io la vedevo così. Non c’era la percezione dell’illecito. Ma vede, il punto è voler dimenticare, anzi glissare sul sistema e fare operazioni di facciata.

A cosa si riferisce?

Al fatto che ora la corrente di cui ho fatto parte, Unicost, provi ad accreditare un rinnovamento senza soffermarsi su quanto è avvenuto sia all’interno del gruppo, con l’elezione dei precedenti organi direttivi e con quella dei consiglieri Csm nel 2018, sia all’esterno, con le nomine che Unicost ha concordato con le altre correnti, in cui si sono verificati scambi, pressioni e richieste, che ovviamente ben conosco. Potrei raccontarle in dettaglio, ma credo sia preferibile lo facciano altri. Serve un’operazione verità, non riferirsi a me per far credere, in vista delle nuove elezioni per il Csm, che tutto sia nato e morto nella notte all’hotel Champagne.

Lei si assume la responsabilità di quanto dice, anche considerato che la dottoressa Marro ha rappresentato il quadro in maniera molto equilibrata.

Sì, ripeto, do atto che lei ha citato le chat emerse in seguito alle intercettazioni sull’hotel Champagne quali prova di come le spartizioni riguardassero tutte le correnti e certo non solo Palamara. Il punto è che i protagonisti di quelle spartizioni adesso devono parlarne.

Perché pensa sia urgente?

Dopo le intercettazioni sull’hotel Champagne sono saltati fuori verbali anonimi, magistrati indagati a Milano, video nascosti e poi riapparsi. Davanti a tutto questo cosa si fa? Ancora operazioni di facciata?

Ha la sensazione di essere il capro espiatorio col quale si vuol rimuovere il resto?

Sì, ma non sto a piangermi addosso. Ho abbozzato quando ero sotto processo disciplinare, adesso guardo avanti e voglio favorire una definitiva operazione verità. Lo chiedono tanti magistrati esclusi dal meccanismo delle nomine e che si aspettano un reale rinnovamento, anziché operazioni rievocative del Gattopardo.

Crede che il sistema del passato sia ancora in uso?

Lei crede di no?

Dopo quello che è successo?

Già sappiamo quali sono i pm e i giudici che si candideranno alle prossime elezioni, e per quali correnti.

Le si obietta: nessuno però aveva negoziato con un politico indagato in riferimento alla Procura che lo indagava.

Sono certo di poter ulteriormente evidenziare le ragioni della presenza di Luca Lotti quella sera, totalmente sganciate dai fatti e dalle vicende processuali che lo riguardavano. Ancora oggi aspetto qualcuno che mi spieghi perché Lotti poteva presenziare ad altre nomine.

Alla Cedu segnalerà la compressione del contraddittorio avvenuta nel processo disciplinare a suo carico?

Certo. Tra le incolpazioni c’era quella relativa all’esposto Fava e hanno escluso il dottor Stefano Fava dalla lista testimoni. Dubito che cose dal genere sembreranno normali alla Corte europea. Così come salterà agli occhi la scarsa imparzialità del collegio giudicante.

Scriverà la seconda parte del “Sistema”?

Certo che sì. Ci sono molte cose ancora da raccontare. C’è ancora un tappo, sulla realtà della magistratura: è evidente. Va tolto. Gli storici dell’antichità insegnano che per capire il presente si deve conoscere il passato. E nel passato ci sono tanti altri vertici delle correnti che si sono interfacciati con la politica, ad esempio. Nel corso di uno degli interrogatori a cui sono stato sottoposto mi è stato chiesto, in modo diretto: “I magistrati che lei ha aiutato l’hanno ringraziata?”. Ho risposto: escluse le persone vere e leali, normalmente il giorno dopo chi ha ricevuto il beneficio tende a rimuoverlo. Cosiddetta sindrome del beneficiato riottoso.

"Da radiato a candidato. Vi spiego perché ora sono sceso in campo". Anna Maria Greco l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ex toga cerca un seggio coi Radicali: "Conosco il sistema giustizia, lo cambierò".

Dottor Palamara, voglio essere brutale: come si può passare da radiato dalla magistratura, sotto processo per corruzione, a deputato in parlamento con la candidatura alle suppletive di Roma?

«Capovolgerei la domanda: se il problema è essere sottoposto a processo questo rinnega tutto quello che è sempre stato sostenuto soprattutto da una parte politica. Posso essere onesto e rinviato a giudizio, i fatti sono tutti da accertare».

Lei allude al garantismo del centrodestra, eppure la coalizione ha scelto un altro candidato, Pasquale Calzetta di Fi.

«I partiti fanno il loro gioco, seguono schemi tradizionali. Nel mio caso la decisione è stata presa dai vertici, come nelle nostre correnti, seguendo indicazioni di cosiddetti consigliori più attenti agli interessi di parte che a quelli della base. Ma la storia insegna che non sempre le indicazioni dei vertici vengono seguite dagli elettori».

Insomma lei spera in un voto non ideologico e sganciato dai partiti.

«Di elezioni ne ho fatte tante, un po' di esperienza ce l'ho. In magistratura si dice: Dammi la terna. Il 3 ottobre gli elettori avranno tre schede e io conto che decidano con la loro testa e non per disciplina di partito di sbarrare il mio nome sulla scheda rosa».

Perché un elettore del collegio uninominale di Primavalle dovrebbe votare per lei?

«Perché la mia candidatura tematica, sulla riforma della giustizia, nasce dal basso, dall'ascolto di tanta gente che affollava le presentazioni del libro scritto con Sallusti Il Sistema e mi diceva: Vai avanti. Quando ho deciso di candidarmi e di appoggiare i referendum attorno a me c'è stato un grande attivismo, dimostrato nella raccolta di firme in piena estate. Tutti cittadini motivati contro il degrado di un sistema che imbriglia la giustizia, convinti che per cambiare è meglio affidarsi a chi certi meccanismi li ha vissuti direttamente e li conosce bene. Forse, però, il tema della giustizia spaventa molto i partiti, per gli effetti collaterali che può avere una riforma e, al di là dei proclami, in realtà si preferisce assecondare il sistema, lasciarlo com'è».

A sinistra è difficile che la appoggino, dopo che ha scoperchiato il vaso di Pandora delle trame soprattutto delle toghe rosse, ma dal centrodestra, dopo un primo interesse della Lega, è venuto il no di Fi con il vicepresidente Tajani e il coordinatore Gasparri è stato molto duro, dicendo che lei rappresenta ciò che nella giustizia il suo partito combatte e che i pentiti si ascoltano ma non gli si offre un seggio.

«Il mio impegno è di verità e chiarezza. Ricordo a tutti che la nostra Costituzione attribuisce il diritto di voto ai cittadini, non ai partiti. Se i vertici non mostrano coerenza, io mi appello direttamente ai tanti militanti dei partiti che mi hanno creduto e appoggiato e che sapranno riconoscere che ora continuo il mio racconto in una linea di coerenza. Tante presentazioni del mio libro sono state organizzate da esponenti dei partiti che ora non mi appoggiano ed erano affollate da attivisti di centrodestra interessati ad una vicenda che ha condizionato il corso della politica. Io mi rivolgo alla parte garantista del Paese e mi presento con una lista autonoma, che ha un solo nome e nessun referente politico».

In questo collegio l'ultima volta ha vinto il M5s, che ora non presenta un candidato. Pensa di pescare tra i grillini delusi?

«Il mio racconto sul sistema giustizia interessa tanti cittadini dei più svariati colori politici. Anche elettori che hanno votato il M5s e che vedono nel mio percorso dal basso molte analogie col percorso di nascita del movimento e che ora non ci credono più, che hanno voglia di comprendere e far cambiare le cose. Io mi rivolgo a tutti. Soprattutto quelli convinti che in parlamento la mia esperienza serva a dare forza al cambiamento della giustizia».

Questo distanziamento elettorale dei 5S potrebbe pesare anche sulla ricandidatura della Raggi?

«Questo lo vedremo cammin facendo, per ora io sono concentrato sugli incontri con la gente del collegio, da Primavalle a Corviale e sui loro problemi che vanno capiti e portati all'attenzione pubblica. Già aver acceso un riflettore su quel collegio per me è un ottimo risultato». Anna Maria Greco

La candidatura alla Camera. “Mi candido per rifare la giustizia, chiave per sbloccare il Paese”, intervista a Luca Palamara. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Agosto 2021. Luca Palamara vuole scardinare il sistema da quel Parlamento da cui altri, andati per espugnare, sono finiti risucchiati. Parte da solo, conosce le regole del gioco e prova a rovesciare ancora una volta il tavolo a suo favore. Le elezioni suppletive per la Camera sono una occasione ghiotta, data la sua peculiarità: si può presentare una lista con 400 firmatari, anche con un simbolo inedito e nessun partito strutturato alle spalle. È il caso di Palamara. Ha fatto predisporre un logo essenziale con il suo nome al centro, in campo bianco. E ha incassato il sostegno del Partito Radicale e di Rinascimento con Sgarbi, decisi a supportare il candidato che porta con se il nome del più controverso (e popolare) magistrato d’Italia. Al telefono con il Riformista è ottimista, nessuna esitazione. Ma il centrodestra è titubante. «Dico no a Luca Palamara candidato del centrodestra a Roma», fa sapere il deputato di Forza Italia Andrea Ruggeri. «È stato la massima espressione di un sistema eversivo, si è occupato per anni di fare la guerra a Berlusconi per impedirgli di governare l’Italia». Palamara non vuole rispondergli ma guarda avanti, a un “impegno civile che riguarda tutti”. Permane il silenzio di Fratelli d’Italia, che a Roma dà le carte della coalizione, mentre Matteo Salvini – oggetto della famosa rivelazione sul "dargli comunque contro" – vedrebbe bene l’operazione. Che è comunque prima mediatica che politica.

Come è nata l’idea?

Per dare seguito a un racconto che non pensavo potesse destare così tanta attenzione e in seguito agli incontri con numerose persone, tra cui molti militanti.

Militanti di quali forze politiche?

Del centrodestra, soprattutto. Ma ricevo molta attenzione anche da soggetti di centrosinistra.

E lei si definisce di centrodestra o di centrosinistra?

Sono un uomo di centro, ancorato ai valori comuni della tradizione italiana. Ma non sono un tuttologo, il mio impegno vuole essere quello di chi dà un contributo alla riforma della giustizia, che non ci nascondiamo: è la chiave per sbloccare il Paese.

Una grande riforma dovrebbe interessare tutti, senza schieramenti.

Ma c’è sempre stata una parte politica più sensibile ai temi garantisti, io parto da lì per parlare a tutti. Voglio squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato il racconto della magistratura e deideologizzare il ruolo e l’attività dei magistrati.

Si candida a deputato di un vasto collegio di Roma, lo conosce?

Sono cittadino romano da moltissimi anni e conosco particolarmente la zona di Roma Nord dove si vota per le suppletive. E le tematiche del territorio mi stanno a cuore.

Come è stata amministrata Roma dalla Raggi?

È oggettivamente difficili amministrare la Capitale. Roma presenta aspetti problematici, fare l’amministratore pubblico non è mai facile. È una città che mette alla prova chiunque.

Chi è stato il miglior sindaco di Roma a suo modo di vedere?

Ogni sindaco si è contraddistinto per luci e ombre. Oggi Roma ha bisogno di un forte riscatto e penso che il deputato eletto a Primavalle dovrà svolgere una funzione di ponte tra le istituzioni per dare una mano alla Capitale, chiunque sia eletto sindaco.

Durigon e la scivolata su Mussolini, che cosa ne pensa?

A me interessano i contenuti più che le singole battute, le scivolate. Il fatto di strumentalizzare sempre le dichiarazioni lo vedo come un modo surrettizio per far inciampare qualcuno sulle situazioni.

Cosa risponde a chi in Forza Italia ha chiuso alla sua candidatura?

Voglio mettere al centro del tavolo un tema, mettendo senza personalismi la riforma della giustizia come priorità. Molti dei militanti di quei partiti mi hanno chiesto di candidarmi, voglio essere il collante per una intesa nuova che parta da lì per poi andare a riformare tutto il sistema, non solo giudiziario.

A quali incontri con i partiti ha preso parte?

È notorio l’incontro pubblico con Salvini. Ho incontrato la Lega, e poi anche i militanti di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Non mi nego a nessuno, fino a oggi mi hanno cercato loro. Parlo con tutti coloro che mi vogliono dare una mano. In questo momento Vittorio Sgarbi, il Partito Radicale, i liberali europei del Ple. Tutte interlocuzioni in corso, aperte.

Che cosa ha votato, fino a oggi?

Sono stato un elettore di centro che ha guardato sempre alla parte moderata della politica. Non mi sono mai sentito in contrapposizione con nessuno e sono stato sempre aperto al dialogo. Per me non c’è mai stato un nemico, c’è stata sempre la necessità di tenere ferme determinate idee, senza avere mai atteggiamenti pregiudiziali.

Vaccinato?

Certo, vaccinato. Non mi sento un tuttologo anche su questo: voglio dare credito ai medici e se dicono che dobbiamo vaccinarci, lo faccio. Ne abbiamo parlato in famiglia e abbiamo fatto tutti questa scelta.

E il green pass?

Scaricato. Serve per entrare ormai anche al ristorante.

Da presidente Anm parlava sempre con tutti, ora da candidato con chi parla, tra i big?

Con tutti coloro che sono interessati a cambiare la giustizia. Non ho fatto accordi con i grandi partiti, una volta eletto voglio mettere la mia passione civile a disposizione di tutti.

Qualche nome sentito in questi giorni? Berlusconi, Tajani? Meloni, Salvini?

Ho incontrato tutti quando ero in Anm, mi conoscono e hanno il mio numero. Ma in queste ultime settimane no, ho intrapreso un percorso con gli amici del Partito Radicale e ho iniziato a parlare con le associazioni, i comitati, il territorio.

“Il Sistema” ha superato le 300mila copie. È tra i libri più venduti degli ultimi anni. Se lo aspettava?

No, sinceramente. Ci fa capire che il momento della grande riforma della giustizia è arrivato. Il mio impegno per promuovere i referendum va in questo senso. Non dobbiamo rifugiarci in vecchi cliché di una politica che arretra, dobbiamo rispondere agli elettori, soprattutto del centrodestra, che vogliono e pretendono che si faccia qualcosa di concreto per voltare pagina.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste. 

Palamara: «Dal 2019 senza stipendio, ma non entro in politica per soldi». Palamara, in un'intervista a "Repubblica", parla della "discesa" in politica. «Non voglio stare in silenzio». E spiega: «Ma dal 2019 prendo un sussidio». Il Dubbio il 19 agosto 2021.

«Tutto è nato grazie al successo del mio libro, “Il Sistema”» scritto dal giornalista, Alessandro Sallusti. «La gente mi ferma per strada e mi dice: “Dottore, vada avanti”. Ovunque piazze piene. Mi hanno applaudito anche nei giorni in cui erano uscite notizie negative sul mio conto». Lo dice in un’intervista a ‘Repubblica‘ l’ex pm Luca Palamara che ha deciso di candidarsi alle suppletive di Primavalle il 3 ottobre, contro l’ex ministra Elisabetta Trenta. Ecco quindi il “Palamara-pensiero”.

Dicono che lei si candida perché ha bisogno di un lavoro dopo la radiazione dalla magistratura.

«La vita chiude le porte e apre i portoni. Ho scritto un libro che è piaciuto a molti italiani. Sto lavorando a un seguito».

Quanto ha venduto?

«Trecentomila copie. La prima tiratura, a gennaio, era stata di ventimila. Un fenomeno tipo La Casta».

È senza stipendio?

«Dal luglio 2019 fino alla conferma definitiva della radiazione, lo scorso 4 agosto, ho preso un assegno alimentare di 1800 euro al mese».

Perché non attende la fine del processo prima di scendere in politica?

«Non voglio stare in silenzio. Se fossi stato zitto non mi avrebbero rimosso».

Il libro l’avrebbe scritto lo stesso senza la radiazione?

«Non ho vendette da consumare. Né mi sento un esempio. Ho raccontato dei fatti, che rompono un’ipocrisia. Secondo cui non bisogna dire che per procedere con le nomine dei magistrati non si parla con la politica».

Per chi votava?

«Centro moderato. Mio padre, magistrato, era di area socialista».

Cosa intende per centro moderato?

«Margherita, Pd».

E adesso fa le battaglie con Salvini?

«C’è stata una convergenza sulla giustizia. Già nel 2018, nella chat, a proposito delle inchieste sulle navi dei migranti bloccate al largo, scrivevo: “Salvini ha ragione”. Lo ridirei”.

La Lega l’appoggerà a Primavalle?

«La mia è una lista personale, aperta all’appoggio di tutti’».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 19 agosto 2021. Ieri sera aspettava fiducioso un endorsement di Matteo Salvini al Versiliana festival, endorsement che non è arrivato. L'ex pm radiato Luca Palamara il 6 agosto era sceso in campo, decidendo di candidarsi alle elezioni suppletive per la Camera nel rione di Primavalle, ma lo ha fatto senza un esercito alle spalle. Lui e l'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, a inizio ottobre, si contenderanno lo scranno lasciato libero dalla grillina Emanuela Claudia Del Re. A un mese e mezzo dalle elezioni, non sono ancora saliti sul ring i pesi massimi, ovvero i candidati del centrosinistra e del centrodestra. Tre anni fa vinse di misura il Movimento cinque stelle con quasi 40.000 voti e il 34 per cento dei suffragi. Ad arrivare al fotofinish fu il candidato del centrodestra Pasquale Calzetta, esponente di Forza Italia, che portò a casa 38.200 voti. Per questo qualcuno vorrebbe Calzetta di nuovo in corsa. In realtà il seggio, in base a una dialettica interna ai partiti, dopo l'exploit nei sondaggi di Fratelli d'Italia e alcune incomprensioni interne alla coalizione (come la mancata nomina di un rappresentante del partito di Giorgia Meloni all'interno del Cda Rai), toccherà proprio a un candidato di Fdi. Tra i nomi più quotati Roberta Angelilli, già europarlamentare dal 1994 al 2014, periodo in cui è stata anche vicepresidente dell'Europarlamento. La Angelilli, particolarmente attiva nel denunciare le magagne negli acquisti di mascherine da parte della Regione Lazio, fa parte dell'esecutivo nazionale di Fdi ed è compagna di un altro pezzo da 90 del partito, l'ex senatore Andrea Augello. A quanto risulta alla Verità la Angelilli è in ballottaggio con uno dei leader di Gioventù nazionale, il movimento giovanile del partito. Palamara, sceso in campo sotto le insegne dei Radicali, ma certo del sostegno della Lega, annusato alla festa nazionale del Carroccio, non aveva fatto i conti con i delicati equilibri della politica. Alla sua candidatura si è opposto con parole pesantissime Maurizio Gasparri, ex compagno di partito della Meloni e oggi responsabile provinciale di Forza Italia, il quale ha definito l'ex consigliere del Csm «protagonista del degrado della magistratura» e ha aggiunto che «il Parlamento non può essere una discarica per i reietti delle altre categorie». Anche la Lega, dopo aver lanciato a Palamara qualche segnale incoraggiante per bocca di esponenti locali, ha fatto ieri marcia indietro, preferendo non entrare in collisione con Fdi, i cui vertici, in queste ore, hanno escluso categoricamente di poter appoggiare la ex toga: «Il centrodestra avrà un suo candidato. Ma Palamara sta dimostrando coraggio, denunciando la vergogna delle correnti e delle spartizioni in magistratura» è svicolato Salvini. Una posizione che non è cambiata neanche nell'intervista rilasciata al Versiliana festival al direttore di Libero Alessandro Sallusti, coautore con Palamara del best-seller Il Sistema. E adesso l'ex pm rischia di aver chiuso la sua carriera politica, ancor prima di iniziarla.

Palamara, un uomo della sua esperienza come ha fatto ad annunciare la propria discesa in campo senza aver fatto i conti con i partiti?

«In realtà, visti i temi che ho sollevato in questi mesi sulla giustizia e l'interesse che ha destato il mio libro, soprattutto tra i militanti del centrodestra, che in queste settimane di presentazione ho avuto modo di incontrare, mi aspettavo il sostegno di Salvini. Se non ci sarà per dinamiche interne alla coalizione me ne dispiacerò, ma di più non posso fare».

Tutti si chiedono se lei abbia visto il leader della Lega e ricevuto la sua investitura prima dell'annuncio del 6 agosto, anche perché tre giorni prima aveva parlato del suo libro alla festa nazionale del Carroccio

«Personalmente non l'ho mai incontrato, ma in occasione della presentazione è intervenuto telefonicamente riconoscendo l'importanza del racconto da me fatto». 

Non le ha mai promesso il suo sostegno?

«No». 

E su Giorgia Meloni non contava?

«Di lei mi ha colpito il coraggio di raccontarsi e di mettersi in discussione nella sua autobiografia di successo. Certo mi aspettavo che lei e i suoi elettori potessero appoggiare la mia candidatura».

Sembra che non sarà così. La Meloni, a quanto ci risulta, punterà su una donna d'area. Perché gli ex missini a Primavalle, un quartiere simbolo per loro a causa della tragica aggressione alla famiglia di un ex segretario di sezione, dovrebbero votare lei e non una loro vecchia militante?

«Perché ritengo che il tema della riforma della giustizia che tanto ha interessato quella parte politica possa essere un collante di unificazione tra le forze impegnate a dare al Paese una giustizia moderna e deideologizzata». 

Sa che a Primavalle senza i voti di Fratelli d'Italia o, in sub ordine, del Pd, secondo partito del collegio nel 2018, non si va da nessuna parte?

«Ne sono consapevole, per questo continuerò a inseguire il rapporto diretto con i militanti, auspicando di attirare anche il voto organizzato sul tema della giustizia». 

Ci risulta che, su questo argomento, lei abbia cercato contatti anche con i vertici dei partiti, trovando diverse porte chiuse. Perché?

«Come candidato ho cercato e cercherò interlocuzioni con tutti i leader. Temo che qualcuno possa aver soffiato sul fatto che io sia un imputato per corruzione e quindi non presentabile, dimenticando, però, che non sono stato ancora condannato neanche in primo grado. Inoltre, con questo metro di giudizio, molti altri politici non dovrebbero sedere in Parlamento. Infine, mi sorprende più di quanto mi addolori che alcuni esponenti di Forza Italia, partito che ha spesso difeso i suoi candidati sotto inchiesta, la mettano su questo piano, soprattutto dopo che io ho denunciato la strumentalizzazione di alcune inchieste a fini politici, proprio come Berlusconi e i suoi hanno giustamente denunciato per decenni». 

Gasparri l'ha definita un «pentito» e ha detto che candidare lei sarebbe come candidare il boss Tommaso Buscetta

«Io penso che ci debba essere un livello minimo di decoro nella dialettica politica e paragonare me, un ex magistrato, a un mafioso è un colpo davvero basso. L'equivalente di chi durante una partita di pallone fa un fallo da dietro».

Si aspettava un simile attacco da parte di Forza Italia, dopo che lei ha scritto un libro con l'ex direttore del giornale della famiglia Berlusconi e ha fatto le fortune della Mondadori con il suo tomo?

«Certo i dirigenti della casa editrice mi hanno ringraziato, ma qui la politica non c'entra» 

Silvio Berlusconi l'ha sentito?

«Mai». 

E Marina Berlusconi?

«Nemmeno». 

Pensa che qualcuno abbia suggerito loro di starle alla larga e di evitare scontri frontali con i magistrati?

«È una bella domanda. Qualche voce mi è arrivata, ma non è un quesito da rivolgere a me».

Ritiene davvero, come ha detto in conferenza stampa, di poter pescare voti a sinistra, dove viene considerato un ex amico passato con il nemico?

«Non penso di essere considerato tale. Ci sono delle idee sulle quali destra e sinistra possono convergere. Basti pensare che alcuni esponenti del Pd hanno firmato i quesiti referendari». 

Vive ai Parioli e in questi giorni, impegnato com' è tra cene e presentazioni del libro in spiagge esclusive, appare più come un personaggio da rotocalco o da «Dagocafonal» che un candidato adatto a un quartiere popolare come Primavalle

«Sono cresciuto a Montesacro, un rione quasi altrettanto popolare. L'idea di tornare alle mie origini mi intriga e mi fa risentire ragazzo. E certamente ho bisogno di un bagno di umiltà dopo che la mia immagine, anche un po' per colpa mia, è stata associata per mesi a una vita lussuosa, cene eleganti e viaggi all'estero». 

Sostiene di conoscere bene Roma e di essere a sua volta conosciutissimo, ma i problemi delle nomine tra magistrati a chi possono interessare nelle botteghe, nei mercati e nei centri per l'impiego di Primavalle?

«Sono d'accordo, infatti andrò a cercare di captare nei mercati gli umori e le istanze di chi ogni giorno deve sbarcare il lunario e che per tanti anni avevo smesso di frequentare». 

Parla già in politichese. Insisto: perché una vecchietta di Primavalle dovrebbe scrivere il nome di Palamara sulla scheda?

«In realtà le basterà mettere una croce. E davanti al lotto di candidati realizzerà che nessuno ha mai fatto parlare di Primavalle quanto io nelle ultime due settimane».

Si rende conto che se prenderà pochi voti avrà disperso un potenziale politico che oggi nessuno è in grado di quantificare?

«Io confido che nelle urne verranno confermate le mie buone sensazioni e lo dico sulla base dei miei primi giri nel quartiere» 

Non sta immaginando una possibile exit strategy, una ritirata dignitosa?

«Assolutamente no. Lo escludo. Sono più determinato che mai ad andare sino in fondo». 

Come pagherà la sua campagna essendo oggi senza lavoro? Per Roma girano già automezzi con sue gigantografie. Sta utilizzando i soldi del libro?

«Mi sto autofinanziando anche con i proventi del volume e, comunque, conto di essere aiutato dalle persone a me vicine e da quelle che apprezzano le mie battaglie, nel pieno rispetto delle prescrizioni di legge».

Niente cene elettorali pagate dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, il suo presunto corruttore, o da altri lobbisti della sua risma?

«Per favore non scherziamo. Io, come dimostrerò, non sono mai stato corrotto e farò politica ricordandomi di essere stato un magistrato».

Marco Antonellis per tpi.it il 12 agosto 2021. Era il lontano 2008: Palamara era uno dei tanti magistrati, appena assurto agli onori della cronache per essere da poco arrivato ai vertici dell’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati. Cossiga, uno che in fatto di magistratura (e non solo) la sapeva più lunga di tutti non perse occasione di asfaltarlo. “Teatro” fu il canale all news di Sky, all’epoca diretto da Emilio Carelli, poi divenuto grillino e poi altro ancora. Alla domanda della conduttrice Maria Latella sulle dimissioni dell’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, spinto a lasciare l’incarico per un’inchiesta a suo carico, aveva spiegato il ruolo della magistratura nella vicenda. A un certo punto la trasmissione viene interrotta dall’intervento dell’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, che immediatamente attacca Palamara con un sequenza di insulti e commenti al vetriolo. “Ha la faccia da tonno. I nomi esprimono realtà. Lui si chiama Palamara come il tonno. La faccia intelligente non ce l’ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere…”, afferma Cossiga. Palamara resta in silenzio e Cossiga rincara la dose: “Mi quereli, mi diverte se mi querela…”. Cossiga sul finale si rivolge direttamente alla conduttrice: “Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare i magistrati con quella faccia alle tue trasmissioni per carità. L’associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso”. Questo l’antefatto, ormai passato alla “storia” del costume politico e giudiziario di questa nostra travagliata repubblica. A distanza di più di un decennio torniamo a chiedere conto dell’episodio a Luca Palamara, nel frattempo radiato dalla magistratura, candidato alle elezioni politiche suppletive nonché scrittore di best seller assieme al neo direttore di Libero Alessandro Sallusti.

Nel 2008, lei e l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, avete avuto un duro scontro in tv. A distanza di anni, non crede che le vostre posizioni non fossero poi così distanti sulla magistratura?

È ovvio che nell’immediatezza, come ho sempre detto, furono parole che mi colpirono soprattutto sul piano personale. Col senno di poi, dal punto di vista politico, quelle parole hanno costituito una sferzata critica nei confronti del nostro mondo perché fotografavano, anche da chi aveva vissuto direttamente nel rapporto tra il presidente della Repubblica e il Csm, quella che era la realtà interna: il corporativismo e l’eccesso di chiusura che caratterizzava il mondo della magistratura. A distanza di tanti anni posso dire che anche quelle parole hanno costituito uno stimolo nella mia riflessione critica, soprattutto rileggendo quello che voleva fare Cossiga all’epoca con il Csm. 

Lei si è messo in testa di voler cambiare la magistratura. Crede sia un’impresa veramente possibile in Italia.

Si, ci credo veramente. Mi rendo conto che ciò è possibile sia quando incontro i cittadini e sia perché sono sicuro che anche all’interno vi sia una voglia di cambiamento. Come tutti i processi di cambiamento c’è necessità di tempo e di coraggio.

Non si parla mai dei concorsi per entrare in magistratura. È tutto così trasparente o, come spesso accade per la selezione di altri profili professionali, anche nei concorsi per magistrati c’è qualcosa che andrebbe rivisto?

Questo è uno dei grandi temi. Io posso dire che quando ci si laurea in Giurisprudenza il concorso in magistratura rimane uno dei concorsi più ambiti e difficili da superare. È ovvio che, soprattutto quando c’è un ampliamento forte degli ingressi, si rischia di abbassare il profilo quantitativo. Io mi auguro e spero che le nuove generazioni ancora di più riescano ad avviare il processo del cambiamento, però indubbiamente anche le modalità di svolgimento del concorso necessitano di trasparenza. Così come dovrà essere trasparente qualunque richiesta di incarico direttivo. Mi pare evidente che ormai non si può più auto raccomandarsi, una prassi che mi auguro sarà estesa a chiunque farà domande che implicheranno decisioni del Csm.

Luca Palamara: «Col senno di poi, Cossiga aveva ragione…» L'ex magistrato, Luca Palamara, oggi candidato per le elezioni suppletive per la Camera dei Deputati, torna sullo scontro che ebbe anni fa con Cossiga. Il Dubbio il 17 settembre 2021. Il ritorno di Luca Palamara. L’ex magistrato, radiato dal Csm, dopo l’inchiesta della procura di Perugia, in un’intervista rilasciata al quotidiano “Cultura identità”, tuona contro chi l’ha costretto a lasciare la toga. L’ex pm della procura di Roma, tuttavia, vuole intraprendere una nuova carriera: quella politica. E’ candidato infatti alle elezioni suppletive per la Camera dei Deputati per i cittadini residenti a Primavalle, Boccea, Trionfale, Aurelio, Bravetta, Pisana, Casalotti, Montespaccato, Casetta Mattei, Corviale.

Le parole di Luca Palamara. «Io fuori dalla magistratura? Non è una cosa definitiva. Porterò all’ attenzione dell’Europa la mia vicenda. Le sentenze si rispettano, ma questa sentenza non la condivido perché ritiene illecita la cena per il procuratore di Roma, mentre ritiene lecita la cena per il presidente del Csm Ermini, nonostante le persone a quei due tavoli fossero le stesse. È una ingiusta disparità di trattamento». Poi spiega i motivi che lo hanno portato a scrivere il libro “Il Sistema” con il giornalista, Alessandro Sallusti. «Per un dovere di verità e di chiarezza ho ritenuto di dover raccontare il funzionamento dei meccanismi interni alla magistratura, il ruolo delle correnti e gli accordi che precedono le nomine squarciando il velo di ipocrisia che aveva caratterizzato la vicenda che mi ha riguardato. In queste settimane di intensa campagna elettorale ho battuto in lungo e in largo il territorio per far conoscere la mia storia e ho trovato che molte persone già la conoscevano e mi facevano domande ed erano interessate a saperne di più». 

Lo scontro con l’ex presidente della Repubblica. L’intervista, infine, ricade sulle parole del compianto presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che tanti anni fa a Skytg24 criticò Palamara. «Con il senno di poi quelle osservazioni che faceva il Presidente Cossiga volevano in realtà essere uno stimolo di critica allo sconfinamento dell’attività giudiziaria sul terreno della politica. In quel momento però per rispetto decisi di non replicare al Presidente Cossiga sapendo che era solito eccedere nelle sue esternazioni». E aggiunge: «Nonostante formalmente difesi la magistratura che rappresento, di fatto le affermazioni di Cossiga furono per me una sferzata a riflettere sulle ragioni per cui la magistratura appariva agli occhi esterni eccessivamente politicizzata».

Da corriere.it il 6 agosto 2021. Luca Palamara scende in politica. Su candiderà «da libero cittadino» alle elezioni politiche suppletive nel collegio Roma-Primavalle lasciato libero dalla deputata Cinquestelle Emanuela Del Re nominata rappresentante Ue per il Sahel. L’annuncio è stato dato nel pomeriggio di oggi dallo stesso magistrato che ha fatto esplodere lo scandalo che ha travolto la magistratura italiana. «Mi candido con un mio simbolo» ha chiarito Palamara.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 7 agosto 2021. Chiusa la porta della magistratura, ora Luca Palamara punta a entrare nel porticato del Parlamento. E lo fa a due giorni di distanza dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione che ha bocciato il suo ricorso contro la radiazione. Riposta la toga nell'armadio, come lui stesso ha ammesso, l'ex presidente dell'Anm decide di candidarsi nel collegio uninominale di Roma Monte Mario-Primavalle, vacante da quando la grillina Emanuela Del Re è stata nominata rappresentante speciale dell'Ue per il Sahel. Alle tre del pomeriggio Palamara convoca i cronisti nella storica sede del Partito radicale, in via di Torre Argentina. Al suo fianco c'è il leader del Partito radicale Maurizio Turco, il quale mette subito in chiaro: «È dal 1989 che il Partito radicale ha deciso di non presentarsi alle elezioni in quanto tale». E se gli eredi di Marco Pannella non ci sono, allora da chi sarà sostenuto l'espulso dalla magistratura? A oggi dice di candidarsi con una sua lista, con tanto di simbolo dove si vede una dea che regge una bilancia e il cognome dell'ex magistrato. Di fatto, spiega, la sua discesa in campo è utile «a dare più forza al racconto» sul sistema delle correnti che ha denunciato nel libro con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. In parallelo continuerà a difendersi nel processo in cui è imputato a Perugia, impugnerà davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo la sentenza «ingiusta» contro la sua espulsione dalla magistratura, e sosterrà i referendum sulla giustizia proposti dai Radicali e dalla Lega di Salvini. Li firma tutti, eccezion fatta per quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Alla fine della conferenza stampa la novità è rappresentata dalla candidatura. Ha avuto contatti con la coalizione di centrodestra? «Da parte mia non c'è preclusioni né per la destra, né per la sinistra», risponde. Semplicemente, insiste, «voglio sposare i problemi di alcuni territori, partendo dal basso». Tuttavia l'impressione è che voglia essere più una mossa per vedere l'effetto che fa. Nel Palazzo nessuno si è scomposto. Anzi. L'azzurro Maurizio Gasparri boccia Palamara: «Lo cacciano dalla magistratura in maniera definitiva e allora propone la sua candidatura, come se il Parlamento fosse il ricettacolo di tutti gli errori del Paese. Non sarà eletto. Cerca solo protagonismo, venderà qualche libro, apparirà grazie alla par condicio qui e là». E anche Guido Crosetto di Fratelli d'Italia storce il naso: «Palamara in politica? Beh, non mi pare nulla di nuovo, molti magistrati fanno politica dal mattino alla sera, a favore o contro alcuni partiti».

Luca Palamara a tutto campo: dall'impegno politico a Gratteri ed Enzo Tortora. Paolo Orofino su Il Quotidiano dle Sud il 10 agosto 2021. Il calabrese Luca Palamara scende in politica e si candida a Roma, nelle elezioni suppletive per la Camera dei deputati. L’ex numero uno dell’Anm, ormai, è definitivamente fuori dalla magistratura a seguito dell’inchiesta che ha subito ad opera della procura di Perugia. Ma lui non demorde, convinto delle sue ragioni. In una nuova intervista al Quotidiano – una delle prime che rilascia da politico – ci parla della sua scelta di candidarsi per il Parlamento; ci parla di alcune frasi di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, in pole position per andare a dirigere la procura nazionale antimafia; ci parla della vicenda di Enzo Tortora. Gli abbiamo pure chiesto se votasse in Calabria, a chi voterebbe alle regionali di ottobre e ci ha dato una risposta un po’ “democristiana”. Ma va bene lo stesso.

Perché ha deciso di scendere in politica?

«Ho deciso di dare gambe al racconto che è nato soprattutto per la richiesta dei tanti che volevano sapere la verità: in molti infatti mi hanno chiesto di capire il funzionamento del sistema delle correnti. Penso che per coerenza io debba mettere a disposizione quella che è stata la mia esperienza e quello che è il mio bagaglio di informazioni e di conoscenza per provare a riformare la giustizia. Rispetto a questa esigenza di cambiamento credo che i quesiti referendari possano rappresentare una nuova linfa per una magistratura credibile e autorevole e dare la possibilità a quei tanti magistrati che sono stati esclusi dal sistema di diventare protagonisti. E’ con questo spirito riformatore che mi candido al collegio uninominale di Roma Trionfale, Primavalle, Bravetta Pisana, Gianicolense, Corviale Casetta Mattei ,Aurelio, Boccea, Casalotti. Voglio metterci la faccia e tutta la mia esperienza e andare fino in fondo in questa battaglia per la verità e la Giustizia».

Se eletto, si toglierà qualche sassolino (per usare un eufemismo) dalle scarpe, contro qualcuno? Ricordando, magari, la morale del suo libro preferito, il Conte di Montecristo.

«Non ho nessun intento vendicativo ma la volontà di rendere una testimonianza civile sul tema della giustizia e sulla volontà di rappresentare le istanze di un quartiere importante della città in cui vivo».

Gratteri, qualche giorno fa, parlando del putiferio scatenatosi nella magistratura a seguito dell’inchiesta su di lei, ha detto: «vorrei sapere perché ha pagato solo Palamara». Come ha preso questa frase, bene o male?

«Mi ha fatto piacere. L’ho trovata di una grande onestà intellettuale, soprattutto da chi ha sempre avuto una visione autentica e genuina sul meccanismo delle correnti in magistratura. E questo, lo dico nonostante le nostre posizioni, su alcuni temi del processo, tra cui riforma Cartabia e carcerazione preventiva, non siano sempre

coincidenti».

In Calabria, a ottobre, si vota per le elezioni regionali. Ora che è sceso in politica, da originario calabrese, a chi voterebbe Palamara, fra i candidati in lizza nella nostra regione?

«Sono visceralmente legato alla terra di mio padre. La amo profondamente. Per questo farò il tifo per il candidato che farà diventare la Calabria ciò che merita ovvero la regione più bella d’Italia».

Ci parli, infine, di Enzo Tortora.

«La vicenda di Enzo Tortora mi ha sempre insegnato che è necessario non accontentarsi mai di una verità superficiale e, soprattutto, che bisogna sempre riscontrare le dichiarazioni che provengono da chi può aver interessi individuali a raccontare una cosa, piuttosto che una altra».

Intervista a Luca Palamara: “Mi batto per la giustizia giusta, ora voglio farlo in Parlamento”. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Agosto 2021. «Credo sia giunto finalmente il momento di dare una risposta ai tanti cittadini che chiedono una giustizia efficiente e, soprattutto, giusta», afferma Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex potente componente del Consiglio superiore della magistratura, presentando ieri nella sede del Partito Radicale a Roma la propria candidatura alle prossime elezioni suppletive per il collegio uninominale Lazio 1.

Dottor Palamara, non per voler usare una frase inflazionata, ma ha veramente deciso di scendere in campo?

Si. Ho deciso di candidarmi. Con una mia lista. Ho anche registrato il logo (Un tondo con all’interno la dea della giustizia bendata, il tricolore nazionale, e la scritta PALAMARA, ndr).

Che cosa l’ha convinta?

Guardi, è discorso che parte da lontano, da quando la Sezione disciplinare del Csm lo scorso ottobre pronunciò la sentenza che disponeva la mia rimozione dall’ordine giudiziario. In quel momento ho capito che era necessaria una operazione verità.

Sul funzionamento della giustizia in Italia?

Anche.

La pubblicazione del libro-intervista con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, un successo editoriale senza precedenti, rientra in questa sua “operazione verità”?

È stata la prima parte del percorso. Che ora prosegue con la candidatura al Parlamento.

A dire il vero in molti, soprattutto fra i suoi colleghi, hanno visto dietro la pubblicazione del libro la sua voglia di vendetta…

Non è vero. Non mi sono voluto vendicare di alcunché. Ho solo raccontato delle storie di cui sono stato protagonista. Poi lascio al lettore le valutazioni del caso.

Ammetterà, però, che la sua candidatura sarà molto criticata?

Io sono un cittadino libero. E ho solo voglia di rilanciare il mio impegno per una giustizia giusta.

Una candidatura di servizio?

Diciamo che mi candido per raccontare il funzionamento interno del sistema giudiziario. Anzi, voglio aggiungere una cosa.

Prego.

Sa quanta gente mi ferma per strada e mi racconta dei problemi che ha avuto avendo a che fare con i tribunali? Tantissimi. È evidente che qualcosa non funziona.

Ha già pensato a possibili alleanze?

No. E voglio dire fin da subito che non ho alcun tipo di preclusione. Sono aperto al confronto con tutti.

Chi dovrebbe votarla?

Come ho detto, mi sento di raccogliere le istanze del territorio. In prima battuta di coloro che chiedono, come detto, una giustizia efficiente. Sono per una rinnovata cultura della legalità.

Ieri la Cassazione ha confermato la sua rimozione. Come si sente?

Questa mattina ho riposto la mia toga e quella di mio padre (Rocco, ex magistrato, scomparso nel 1990, ndr) in armadio. Spero solo momentaneamente.

Pensava ad un esito diverso? Ad un annullamento del provvedimento della disciplinare?

Ho rispetto delle sentenze. Ma questa non la condivido. Questa è una sentenza ingiusta. E poi ci sono molte cose che non tornano.

Ad esempio?

C’è stato un tempismo perfetto. La mattina il Csm sconfessava il procuratore di Milano Francesco Greco, la sua vice Laura Pedio, ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che avevano chiesto l’allontanamento del pm Paolo Storari. E la sera la Cassazione depositava la sentenza nei miei confronti. Come ho avuto modo di dire, una ciambella di salvataggio per Salvi.

I giudici di piazza Cavour per confermare la sua rimozione hanno scritto quasi duecento pagine.

Le pare possibile tutte queste pagine per una cena? E poi, visto che si discute della cena all’hotel Champagne, perché non si fa luce sulla cena con cui è stata decisa la nomina dell’attuale vice presidente del Csm David Ermini? Non vedo molte differenze. E comunque mi auguro che questa sentenza non serva per fare carriera.

Si riferisce al magistrato che l’ha scritta?

Di solito le sentenze di questo genere vengono inserite nel fascicolo personale e si utilizzano quando si fa domanda per un incarico….

Oltre a presentare la sua candidatura, ha deciso di firmare i referendum sulla giustizia proposti dal Partito Radicale e dalla Lega. Tutti firmati tranne uno: quello sulla responsabilità dei magistrati. Perché?

Premesso che sono convinto che i referendum siano uno snodo fondamentale, non ho firmato quello sulla responsabilità diretta dei magistrati perché non dobbiamo ritrovarci con una magistratura “difensiva”. Il tema è molto delicato e serve un approfondimento.

Torniamo al suo processo, durato poco più di un mese. Lei continua a ripetere che molte cose non tornano.

Si. Tante cose.

Ne dica solo una.

Il 23 maggio del 2019 in Commissione incarichi direttivi il dottor Piercamillo Davigo aveva votato il procuratore generale di Firenze Marcello Viola per il posto di procuratore di Roma. Poi cambiò idea e votò per l’aggiunto Michele Prestipino che all’epoca non era stato preso in considerazione. Come mai? Cosa era successo? Davigo, poi, è stato il componente della sezione disciplinare che ha deciso la mia rimozione della magistratura. Immediatamente dopo la sentenza è stato pensionato. Bisogna fare quanto prima luce su questi passaggi. Paolo Comi

Il "deputato" Palamara: "Voglio rappresentare chi ha sete di giustizia". Anna Maria Greco il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Palamara si candida alle suppletive: «Corro con il mio simbolo, né di destra né di sinistra». «Voglio fare fuori dalla magistratura quello che facevo dentro la magistratura, quando avevo cariche ufficiali. Rispondere alle istanze dei cittadini è quello che mi piace di più». Diventare deputato è la nuova missione di Luca Palamara, che di vite ne ha avute più d'una, ma non si ferma neppure dopo la radiazione dall'ordine, confermata in Cassazione e in attesa del processo per corruzione a Perugia. «Stamattina (ieri, ndr) ho riposto la mia toga nell'armadio - dice- con la certezza di poterla indossare ancora alla fine di un percorso che sarà lungo, ma che ristabilirà la verità». Si candiderà «da libero cittadino» alle elezioni politiche suppletive nel collegio Roma-Primavalle, lasciato libero dalla deputata Cinquestelle Emanuela Del Re, nominata rappresentante Ue per il Sahel. Palamara l'annuncia nella sede del Partito Radicale, presentando il suo simbolo con la dea Giustizia che regge la bilancia e vicino un hashtag tricolore. «Non ho preclusioni - precisa - e non sono né di destra, né di sinistra». Questa è stata sempre la sua forza, quella di stare al centro, di mediare, leader della corrente di Unità per la Costituzione, che per anni si è alleata con la sinistra di Area e poi ha virato verso la moderata Magistratura indipendente, scatenando lo scandalo sulle nomine al Csm che ha travolto il mondo giudiziario. Ora Palamara vuol fare lo stesso in politica, correndo da solo per un posto in parlamento, slegato dai partiti. La sua candidatura, sottolinea, «non è calata dall'alto, ma viene dal basso». Nel senso che in questi mesi, in cui si è ritrovato a contatto con la gente come autore di un bestseller, Il Sistema, scritto con Alessandro Sallusti, ha scoperto che «tanti cittadini mi chiedono di non fermarmi e mi interrogano sui temi della giustizia». Se viene considerato un esperto di giustizia, ha ragionato, e non può più esserlo in magistratura, l'alternativa è la politica. Una mossa che crea qualche malumore, come sintetizza l'azzurro Maurizio Gasparri: «Ovviamente non sarà eletto. Cerca solo protagonismo». Insomma, dice di aver sentito un richiamo all'impegno sul fronte della riforma della giustizia, in particolare, quello che meglio conosce per vita vissuta. «Ho deciso di candidarmi - spiega l'ex magistrato - per dare più forza al mio racconto, per incoraggiare un cambiamento reale e appoggiare la battaglia per il referendum, nell'interesse dei cittadini che hanno sete di giustizia». I referendum promossi dai Radicali e dalla Lega lui li firma, tutti tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati. «Non lo firmo perché non voglio una magistratura difensiva, ma che rispetti le regole, questo è l'aspetto più importante. Per questo dico: discutiamone». Sul fronte personale, quello dell'espulsione appena confermata dalle Sezioni Unite della Cassazione e quello del processo che dovrà affrontare a Perugia, Palamara dice di portare avanti una «battaglia di verità», di non volere «vendetta», ma solo ristabilire i fatti. «Mai ho compiuto atti contrari ai miei doveri d'ufficio», ripete. Ha fiducia nel tempo. «Tutte le sentenze si rispettano e io rispetto anche l'ultima della Cassazione. È una decisione che ritengo ingiusta, anche per il tempismo con cui è arrivata», commenta. Il 25 novembre è fissata la prima udienza pubblica del processo per corruzione a Perugia e lui potrebbe arrivarci da deputato, anche se questo non cambierà l'iter ordinario. L'ex pm di Roma, ex consigliere del Csm ed ex presidente dell'Anm promette: «Parteciperò a tutte le udienze, rispettando i miei giudici. Nessuno mi silenzierà, mi difenderò nel processo». Ora Palamara inizierà la raccolta delle 250 firme necessarie alla candidatura e poi partirà la sua campagna elettorale, per farsi conoscere sul territorio. «Roma deve riabilitarsi, a partire dalle realtà più periferiche. Una delle mie ambizioni riguarda l'educazione alla legalità». È già un abbozzo di programma. Anna Maria Greco 

Vittorio Feltri su Luca Palamara radiato: "Il caso dell'ex pm insegna, se dici la verità in Italia finisci male". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 06 agosto 2021. Ormai Luca Palamara è più famoso di Lukaku, ogni dì i giornali e le televisioni si occupano di lui senza spiegare correttamente i motivi che lo hanno portato ai disonori della cronaca. Personalmente l'ho incontrato una sola volta, ci siamo stretti la mano e nulla più. Quindi se parlo di lui nessuno può dire che mi faccia velo l'amicizia. La sua vicenda, in base alla quale è stato radiato dall'Ordine giudiziario, mi ha sempre incuriosito per un semplice motivo: leggendo le sue requisitorie contro la categoria dei magistrati, ho capito che la ragione sta dalla sua parte. Egli non ha raccontato una fiaba bensì si è limitato a citare dei fatti verosimili alla luce di quello che è accaduto nella casta togata, il cui comportamento in linea di massima è valutabile da chiunque abbia gli occhi almeno semiaperti. Naturalmente evito con cura di entrare nei dettagli del polpettone di notizie riguardanti le prodezze, si fa per dire, degli amministratori della giustizia e specialmente dell'ingiustizia. In qualità di cronista mi occupai spesso di inchieste e processi. Ne ricordo uno emblematico, quello relativo al povero Enzo Tortora. Fui incaricato dal direttore del Corriere di allora, Piero Ostellino, di seguire le varie udienze a Napoli. Non capivo un accidente di quanto succedesse in aula, un groviglio di pentiti si affannava a lanciare accuse verso il famoso presentatore televisivo. Si discuteva soprattutto di droga. Sennonché la sera, a lavori ultimati, noi giornalisti in gruppo andavamo in trattoria. Poi i colleghi si radunavano in un locale per il poker fino a notte inoltrata. A me il gioco delle carte non piaceva e non piace, per cui me ne tornavo in albergo, sul comò della stanza era accatastato un plico contenente atti processuali. A cui per rompere la noia detti una occhiata veloce. Evi trovai delle contraddizioni sesquipedali. Per esempio era scritto che Melluso il 5 maggio, non rammento di quale anno, avrebbe consegnato a Tortora, in piazzale Loreto, una scatola zeppa di cocaina. Telefonai al nostro archivio e chiesi all'addetto di controllare i fascicoli per verificare dove si trovasse il pentito quel giorno. La risposta dopo un paio d'ore fu: era detenuto nel carcere di massima sicurezza di Campobasso. Mi si aprì il cervello e da quel momento  andai a caccia di stupidaggini e ne scovai parecchie, pertanto mi convinsi che Enzo fosse innocente, travolto da bugie enormi. La sentenza a suo carico fu comunque di colpevolezza, in primo grado: dieci anni di galera. Una follia che in secondo grado fu annullata con una piena assoluzione. Intanto però l'imputato era stato distrutto nell'animo e nel fisico e di lì a poco morì. Mi resi conto che i magistrati sono come i cronisti e i geometri: alcuni sono bravi, altri mica tanto. In seguito prestai attenzione a quanto accade nei tribunali e ho scoperto varie schifezze. Condanne insensate, assoluzioni tardive, pasticci giudiziari macroscopici. Tutti coloro i quali compiono un errore sul lavoro, tranvieri inclusi, pagano di tasca propria. Per i magistrati paga lo Stato, ovvio che essi se ne freghino di commettere sgarri. E qui torniamo a Palamara, che non sarà simpatico come Totò, ma suppongo che dica la verità nel descrivere i meccanismi che regolano le carriere nel baraccone giudiziario. Un intrigo di amicizie e complicità sta alla base delle carriere, anche nei livelli più alti. Risultato: invece di radiare i furbetti della toga, hanno radiato chi li ha denunciati, cioè Palamara. È un caso tipicamente italiano. Se uno afferma la verità lo mandano a casa come un reietto. Dovrebbero premiarlo, ma siccome sono giudici a decidere lo castigano. Un bel referendum non fu mai approvato. Peccato.

L'intervento del presidente dei penalisti italiani, Giandomenico Caiazza, all'indomani della radiazione definitiva di Luca Palamara dalla magistratura. Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 6 agosto 2021. È passata poco più che tra le brevi di cronaca la definitiva radiazione del dott. Luca Palamara dalla Magistratura italiana. Conosco da decenni quel magistrato e sento innanzitutto il bisogno di esprimergli pubblicamente un pensiero di vicinanza ed amicizia in un momento di immaginabile, profonda amarezza e solitudine. E ciò tanto più ora che tutti gli ossequienti amici e colleghi, petulanti sollecitatori di attenzioni e prebende di ogni sorta, hanno voltato le spalle, fuggendolo come un appestato, a colui che essi hanno in assoluta maggioranza liberamente scelto perché esprimesse -per quasi un decennio!- il vertice della magistratura associata. Ma l’atto finale di questo ad un tempo feroce e grottesco rito esorcistico non poteva scegliere momento migliore che ne esaltasse, in un’abbacinante controluce, l’insostenibile paradosso. Si applaude infatti a quella radiazione mentre la magistratura italiana, fin nei sancta sanctorum che l’hanno eroicamente rappresentata per decenni, è dilaniata -ed anzi, si dilania- tra ricorsi e controricorsi al TAR che delegittimano vertici di Procure importantissime, volantinaggi di verbali di indagine (in word, a quanto pare fa la differenza), giudici che nelle sentenze accusano i pm di aver nascosto prove a favore dell’accusa, altri che lumeggiano favori a presunte loggette massoniche, altri ancora che tolgono fascicoli al gip se questi respinge le richieste della Procura, mentre un provvedimento disciplinare proposto dalla Procura Generale della Cassazione viene respinto a furor di popolo magistratuale, che insorge pubblicamente, solidale con il proscrivendo PM, due giorni prima della decisione del CSM. Insomma, mentre prende corpo con inquietante precisione la ben nota profezia (o piuttosto anatema) di Francesco Cossiga (“finiranno ad arrestarsi tra di loro”), la magistratura italiana non trova di meglio da fare che espellere con disonore il suo già segretario nazionale, Presidente Nazionale ed infine Consigliere Superiore. Sarà bene ricordare i termini nei quali quell’accusa disciplinare è stata accortamente sagomata. Il dott. Palamara non viene processato ed espulso per essere stato l’incontestato ed anzi incensato interprete di un sistema degenerato di correnti e di potere (con annesse, frenetiche attività di “autopromozione” delle carriere), cioè per quei comportamenti che indignano l’opinione pubblica e ne sollecitano la più ferma censura; ma per avere, nella specifica occasione della imminente nomina del Procuratore Capo di Roma, coinvolto in alcune riunioni serali, perfettamente identiche a centinaia di altre tenutesi per centinaia di altre nomine per decenni, anche un politico in quel momento indagato da quella stessa Procura, e dunque indebitamente interessato alla manovra. Così, il dedalo inestricabile di chat, incontri, pranzi, cene, raccomandazioni di ogni risma, che ha riguardato un impressionante numero di magistrati di tutta Italia e pressoché le nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari del Paese negli ultimi dieci anni almeno, è rimasto prudentemente fuori da ogni censura disciplinare. Lì, se male non ho compreso, ce la siamo cavata con il mea culpa, e l’impegno morale ed etico al riscatto. Lo scandalo Palamara, quello che merita la radiazione (e solo la sua), è l’interlocuzione con il politico inquisito e dunque presumibilmente interessato a quella specifica nomina. Non mi intendo di giustizia disciplinare, ma converrete con me che questo esito appare francamente paradossale. Non voglio cadere in semplificazioni eccessive, comparando fatti e comportamenti così, un po’ alla carlona. Ma insomma, mi verrebbe difficile provare un sentimento di censura inferiore a quello che devo certamente riferire alle cene promiscue all’Hotel Champagne, se mi trovassi a giudicare – chessò, faccio il primo esempio che mi viene a tiro – pubblici ministeri che sottraggano al Giudice (al Giudice!) prove o principi di prova della indole calunniosa del principale teste di accusa. Forse saprete che tra le tante fesserie che ci vengono propinate per contrastare l’idea della separazione delle carriere, va molto di moda quella della cultura della giurisdizione (cioè della prova) che deve animare il P.M., tanto più che una norma lo obbliga (lo obbligherebbe, meglio) a raccogliere prove anche a favore dell’indagato (“ciao core”, chioseremmo romanescamente). Ora, se un PM, sollecitato per di più da un collega del suo stesso ufficio ad approfondire la calunniosità del principale teste di accusa, dice più o meno: “beh no, prima portiamo a casa la sentenza di condanna e salviamo l’inchiesta, poi si vede”, commette un fatto così sideralmente, incomparabilmente meno grave delle cene del dott. Palamara all’hotel Champagne? Evidentemente è così, non c’è che dire, non c’è altra spiegazione. O c’è?

"Gli imputati ora hanno paura dei tribunali". Luca Fazzo il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato: «Mi chiedono: Ma io devo esser giudicato da questi magistrati?». «Cosa è cambiato? In fondo nulla, tutto continua a funzionare come prima. Cioè malissimo». L'avvocato Ivano Chiesa è noto al grande pubblico come difensore di Fabrizio Corona. Ma del Palazzo di giustizia di Milano conosce, con decenni di processi sulle spalle, i pregi, i difetti, i riti. Ed è lui a raccontare come la tempesta del «caso Amara» sia vissuta dall'altra parte del banco, tra gli avvocati e gli imputati che del sistema giustizia sono gli interpreti più bistrattati. «Per gli avvocati - racconta Chiesa - quanto sta accadendo non cambia molto, tu il tuo lavoro cerchi di farlo comunque. Il problema riguarda gli imputati. Questo sistema funziona se anche loro hanno un po' di fiducia nei suoi confronti. Invece questa storia non fa che rafforzare il sentimento di disistima nei confronti della magistratura, la loro sensazione di essere in mano a un sistema fuori da ogni controllo».

Cosa le dicono i suoi assistiti?

«È da una vita che mi rivolgono domande imbarazzanti, quando si ritrovano indagati o sotto processo, e per la prima volta si rendono conto di come viene amministrata la giustizia in questo paese. Dal caso Palamara in avanti queste domande si sono moltiplicate. Mi chiedono ma cosa succede, ma cos'è questa roba?. Mi domandano: ma davvero devo essere giudicato da magistrati che fanno le cose che leggo sui giornali?»

Il «caso Amara» è andato ancora più in là del caso Palamara, i veleni tra le toghe sono esplosi, ci sono procuratori e pm sotto accusa. Come la vede?

«Come tutti mi chiedo chi abbia ragione e non so rispondere, perché non conosco le carte. Stando a quanto leggo, il dottor Storari ha sbagliato il metodo, altrimenti non si troverebbe indagato per rivelazione di segreto d'ufficio. Ma il suo obiettivo era quello di poter fare una indagine che riteneva necessaria. Allora mi domando: ma come, un pm che vuol fare le indagini tu lo trasferisci? È come se si punisse un medico del pronto soccorso che ha la pretesa di curare la gente. Sono queste secondo me le cose che la gente non capisce, e che portano il sentimento di sfiducia ai massimi livelli».

Era immaginabile quanto sta accadendo nella Procura di Milano?

«Assolutamente no. A me la Procura era sempre apparsa come un ufficio compatto, ora emergono spaccature profonde. Io resto basito e mi rincresce, anche perché i personaggi coinvolti li conosco tutti da anni. Forse sarebbe bastato un po' di buon senso in più da parte di tutti e tutto questo non sarebbe accaduto... Io non so se questi contrasti riguardino solo il caso Amara o nascano anche da altre vicende, di certo è che le modalità con cui sono esplose sono sconcertanti. E il fatto che il procuratore della Repubblica sia indagato non è una bella cosa».

Però se Storari non avesse passato la brutta copia dei verbali a Davigo...

«Io di quello che dice Davigo non condivido neanche che ora è, se per lui sono le otto per me sono almeno le otto e mezzo. Ma Davigo in quel momento era un uomo molto importante, non mi stupisce che Storari si sia rivolto a lui. Storari voleva fare una cosa buona, poi gli è scappata di mano. La risposta negativa del Csm alla richiesta di trasferirlo è un segnale molto forte. E adesso magari questa storia risulterà utile».

In che senso?

«È come col caso Palamara. Viene fuori un macello, la gente capisce, magari si fa un po' di pulizia e soprattutto si mette mano ai problemi veri».

Ovvero?

«Cominciamo da quelli contenuti nei referendum di Lega e radicali. Il vero obiettivo, il risultato indispensabile, è la separazione delle carriere. Sa qual è la prima domanda che mi fanno sempre i miei assistiti? Mi chiedono: ma davvero quello che mi giudica è un collega di quello che mi accusa?» 

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

La Cassazione conferma: Palamara è fuori. Lui: «Decisione ingiusta». Confermata la rimozione dalla magistratura dell'ex capo dell'Anm. Che fa sapere: «Porterò il caso in Europa: la battaglia continua». Simona Musco su Il Dubbio il 4 agosto 2021. Luca Palamara non è più un magistrato. Ufficialmente e, forse, definitivamente, in attesa della possibile pronuncia di Corti sovranazionali, alle quali l’ex zar delle nomine ha già annunciato di voler fare ricorso. L’ultimo capitolo della sua travagliata carriera è stato scritto stasera dalla Cassazione, che ha confermato la radiazione dell’ex presidente dell’Associazione nazionali magistrati. Una decisione che non lo ha colto di sorpresa, ma la battaglia, spiega al Dubbio, non è finita. «Ci aspettavamo questa decisione, nonostante tutto – ha sottolineato -. Non è questo il momento per ristabilire la verità, andremo avanti. Rispetto la decisione, ma la trovo ingiusta. Nei limiti del consentito, farò ricorso alla Corte di Giustizia europea sui profili delle intercettazioni. Pago il fatto che qualcuno ha ritenuto che non dovessi intromettermi nella scelta del procuratore di Roma, ma la mia lotta continua. Ormai me lo chiedono tutti e continuerò a farlo, per una giustizia giusta. In ogni caso attendiamo gli accertamenti delle procure competenti sui trojan. La battaglia per la legalità va avanti». Secondo i giudici della Cassazione, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira e al contempo e sinergicamente, ponendo in essere manovre strategiche tese a collocare – in alcuni uffici giudiziari sensibili – taluni magistrati in luogo di altri aspiranti». Una decisione, dunque, che conferma quanto stabilito dal Csm il 9 ottobre 2020, in un processo lampo durato poco meno di un mese. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è la cena del 9 maggio 2019 all’Hotel Champagne, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, conversazione che, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. Per il sostituto procuratore generale Simone Perelli e per l’avvocato generale Gaeta, che hanno rappresentato l’accusa a Palazzo dei Marescialli, il comportamento dell’ex magistrato è stato invece di «una gravità inaudita». Ma il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, ha contestato aspramente l’utilizzo del trojan, piazzato dai pm di Perugia per scoprire la presunta corruzione da 40mila euro poi eliminata dalle accuse, l’utilizzabilità delle intercettazioni e la riduzione della lista testi da 133 a sei. «Quando ero in disciplinare – spiegò allora Palamara – ho visto processi che saltavano per un certificato medico presentato più volte. Io sono stato processato in 10 giorni». Il provvedimento, lungo 187 pagine, respinge, punto per punto, le doglianze dell’ex pm romano. Al quale i giudici contestano un modus operandi che ha condotto alla «inevitabile ma necessaria conseguenza di sfavore di tutti i (numerosi altri) concorrenti rimanenti, diversi da quelli prescelti, programmaticamente selezionati non già sulla base di meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e dei suoi interlocutori». La condotta dell’ex zar delle nomine, secondo la sentenza, è «tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non addirittura scontata) interlocuzione tra magistratura e politica». I giudici, nel bocciare il ricorso, partono dalla richiesta di ricusazione avanzata dall’ex pm nei confronti di diversi consiglieri del Csm, tra i quali Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti, contro i quali, pochi giorni fa, ha presentato un esposto per mancata astensione dolosa e induzione in errore degli altri consiglieri. Palamara aveva chiesto l’astensione di Davigo in quanto lo stesso avrebbe «manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie», nel corso del pranzo con il pm Stefano Fava, durante il quale si sarebbe parlato dei contrasti con Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Secondo il Palazzaccio, però, Davigo si sarebbe limitato a parlare di «divergenze di vedute», acquisendo informazioni soltanto su una parte della vicenda, ovvero l’esposto presentato da Fava nei confronti dei vertici della procura, considerato dal Csm una campagna di delegittimazione ai loro danni. Le dichiarazioni di Davigo, inoltre, «non si configurano in nessun caso come esternazione con le quali, in relazione a quanto conosciuto, vengono prefigurati possibili esiti (ma nemmeno sviluppi intermedi) del procedimento disciplinare» a carico di Palamara.

 Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Quasi ossessionato dalla figura del procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, Luca Palamara avrebbe tentato di danneggiarlo con ogni mezzo a disposizione. Inoltre con, l'obiettivo di interferire nelle nomine di uffici giudiziari importanti come Roma e Perugia, avrebbe cercato di pilotare le nomine dei procuratori capo. Fatti «gravissimi» e un particolare «dispregio verso le regole codificate e gli standard di comportamenti dovuti» dimostrato da Palamara convincono i giudici delle sezioni unite della Cassazione a respingere il suo ricorso contro la radiazione dalla magistratura decisa nell'ottobre scorso dalla sezione disciplinare del Csm. Palamara non potrà più vestire la toga. E a Perugia è stato appena rinviato a giudizio per corruzione. I giudici di piazza Cavour bocciano la difesa dell'ex pm e confermano che vi fu «una strategia unitaria diretta da parte dell'incolpato a ricercare una soluzione di discontinuità rispetto alla gestione Pignatone alla procura di Roma». E così confermano le «manovre» per condizionare la scelta del nuovo capo dell'ufficio della Capitale. La Cassazione ha respinto la richiesta di non utilizzabilità delle intercettazioni effettuate all'Hotel Champagne nel maggio 2019, quando Palamara e cinque ex consiglieri del Csm discutevano delle nomine con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. I colloqui erano stati captati grazie al trojan inserito nel cellulare di Palamara e sono stati ritenuti utilizzabili dalla Cassazione perché la presenza dei parlamentari è stata ritenuta casuale. Quei discorsi non furono «libera manifestazione di idee e valutazioni personali in tema di politica giudiziaria» come sostenuto dai difensori di Palamara, bensì un tentativo di interferire sulle nomine. Concordano i giudici di piazza Cavour con la disciplinare del Csm: «Tutte le numerose condotte intenzionalmente poste in essere sono state concepite, preparate e messe in opera con assoluta consapevolezza della loro contrarietà alle regole codificate e con "chirurgica" determinazione strategica degli obiettivi, delle azioni da programmare allo scopo, dei soggetti da coinvolgere nelle iniziative, delle modalità di attuazione del programma così accuratamente architettato». Motivi e «rancori» personali avrebbero alimentato le decisioni dell'ex magistrato «avendo egli agito principalmente se non unicamente sotto la spinta di ragioni personali variamente calibrate tra la soddisfazione di aspirazioni rancorose in confronto di taluni soggetti e più radicalmente obiettivi egoistici di affermazione personale e non già in base al nobile proposito di procurare la collocazione negli uffici giudiziari di quelle professionalità soggettive che, nella sua particolare rappresentazione, gli apparivano come le più idonee». «La battaglia continua, porterò il mio caso in Europa», reagisce in serata Palamara. 

Palamara: «Come fa la Cassazione a dire che ero da solo?…» Dall’ex capo Anm, Luca Palamara, invito ai colleghi di un tempo: «Mi hanno condannato come unico attore del Sistema: dite voi come stanno le cose». E spunta l'ipotesi candidatura. Simona Musco su Il Dubbio il 6 agosto 2021. «Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto». Luca Palamara si affida ad una similitudine. Un modo come un altro per dire ai giudici della Cassazione che no, non è ipotizzabile che il “Sistema” delle nomine riguardasse solo lui, che lui ne fosse l’unico componente e l’artefice assoluto. Perché è impossibile immaginare che a decidere del destino delle procure di tutta Italia fosse una persona sola, indisturbata, capace di manipolare tutti, al Csm come nel mondo delle correnti. L’ex capo dell’Anm vuole dire la sua. E così come ad ottobre scorso, quando la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ne decretò la radiazione, decide di affrontare la questione dalla sede del Partito Radicale, dove oggi, alle 15, racconterà la sua versione dei fatti commentando le 187 pagine della sentenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che hanno decretato il suo allontanamento dalla toga. Ma parlerà anche di referendum ed elezioni suppletive, particolare che fa pensare ad una sua possibile discesa in politica. Qualcosa, però, intanto la anticipa. Centellinando le parole e chiedendo anche agli altri, a coloro che del sistema hanno fatto parte o perlomeno beneficiato, di raccontare la loro versione dei fatti. «Io e non solo io, ma tutti coloro i quali si sono relazionati con me – dice al Dubbio – sanno che ho sempre anteposto gli interessi altrui a quelli personali. Sarebbe bello a questo punto che non fossi più io a parlare, ma che fossero i diretti interessati a raccontare quello che accadeva». Un invito che probabilmente cadrà nel vuoto. Ma non si può ignorare, in ogni caso, che è lo stesso Csm a dire che il sistema contava, per lo meno, qualche altro membro: i cinque che si trovano tuttora sotto “processo” davanti alla sezione disciplinare e per i quali la procura generale ha chiesto la sospensione, definendoli, comunque, la “longa manus” di Palamara.

Palamara, la Cassazione dà ragione al Csm. La decisione della Cassazione racconta una verità che ricalca quella del Csm e che tenta di smentire la versione raccontata dall’ex pm nel suo libro: Palamara «ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali», ha voluto «colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira», ha messo in atto «manovre strategiche tese a collocare – in alcuni uffici giudiziari sensibili – taluni magistrati in luogo di altri aspiranti», non per «meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e dei suoi interlocutori». Una condotta «tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non addirittura scontata) interlocuzione tra magistratura e politica». Questa interlocuzione, per la Cassazione, è addirittura «eversiva».

L’autopromozione non è reato…? Ma se ciò fosse vero, allora dovrebbe esserlo per tutti. Con buona pace della tesi secondo cui l’autopromozione non rappresenterebbe un illecito. Una circolare della procura generale della Cassazione licenziata poco dopo lo scandalo nomine, infatti, stabilisce che per un magistrato chiedere una raccomandazione a Palamara non rappresenta un reato, né illecito disciplinare. Si tratterebbe, dunque, di semplice “autopromozione”. Recita, infatti, la circolare: «L’attività di autopromozione effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari, non essendo “gravemente scorretta” nei confronti di altri e in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari».

Il caso Storari. La sentenza si addentra nel tentativo di allontanare ogni sospetto dal mondo della magistratura nel suo complesso, facendo di Palamara, come lui stesso si è definito, il “capro espiatorio”. Riconducendo il tutto ad un interesse personalissimo: la smania di diventare procuratore aggiunto a Roma. La pronuncia del Palazzaccio arriva in un giorno particolare: lo stesso in cui la sezione disciplinare del Csm rende nota una decisione che, di fatto, sconfessa il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che aveva chiesto l’allontanamento da Milano e il cambio delle funzioni per Paolo Storari, il pm che ha consegnato a Piercamillo Davigo i verbali di Piero Amara per tutelarsi «dall’inerzia» dei vertici degli uffici di procura. Quella decisione, infatti, boccia le motivazioni di Salvi, in fatto e in diritto. E la Cassazione, in un profluvio di parole che servono a spiegare quanto fosse peccaminosa e fuori dalle regole la cena all’hotel Champagne, si pronuncia a favore della stessa procura generale, che aveva chiesto, con successo, di bocciare il ricorso di Palamara. Una coincidenza, forse, o forse un modo per restituire un equilibrio alle cose in un giorno importantissimo per le toghe. In ogni caso, «una situazione surreale», afferma ancora l’ex pm. Forte del fatto che, nonostante questa sentenza confermi la pronuncia del Csm, per tutti i fatti nuovi prodotti dalla difesa la strada che lo porta alla Corte di Giustizia e alla Cedu è una prateria.

«La battaglia continua». La Cassazione, infatti, sostiene di non poter affrontare le nuove questioni, tra le quali spiccano le indagini sul trojan – ancora in corso a Firenze e Napoli – e sulla collocazione effettiva del server che ha immagazzinato quelle intercettazioni, nonché l’esposto contro Davigo e Fulvio Gigliotti, accusati da Palamara di mancata astensione dolosa e induzione in errore degli altri membri della sezione disciplinare. Insomma, se tutto ciò dovesse produrre risultati, la via della revisione della sentenza è, per gli stessi ermellini, del tutto plausibile. E Palamara non nasconde l’intenzione di perseguirla: «La battaglia per la verità e per una giustizia giusta continua», dice. Ma finché ciò non avverrà, guai a dire che il sistema esiste.

  Il radiato Palamara ora si butta in politica. Oggi l'annuncio: "La battaglia continua". Anna Maria Greco il 6 Agosto 2021 su Il Giornale. L'ex magistrato tentato dalla candidatura alle suppletive di Roma coi Radicali. Luca Palamara si candida? Le Sezioni Unite della Cassazione hanno appena messo la pietra tombale sul suo ricorso contro la radiazione dalla magistratura ed ecco l'annuncio di una conferenza stampa che sa di clamoroso. Oggi, alla sede del partito radicale, l'ex pm di Roma, ex presidente dell'Anm ed ex membro del Csm, quello che ha fatto esplodere lo scandalo che ha travolto la magistratura italiana, parlerà di referendum giustizia, caos procure ed elezioni suppletive, annuncia asettico un comunicato. Elezioni suppletive? Forse Palamara si è stufato di essere «ex» di tante cose, vuole vivere nel presente e cerca un nuovo ruolo, ufficiale, per dire la sua su un mondo che conosce negli anfratti più nascosti, quello della giustizia. Perché, altrimenti, il grande manovratore delle nomine a Palazzo de' Marescialli, il dominus che creava e rompeva alleanze pericolose e sempre diverse tra le correnti, l'accusato di corruzione a Perugia che dovrà affrontare un processo, dovrebbe parlare del voto d'autunno? In un agosto in cui la riforma della giustizia è al centro del dibattito politico e divide il governo, la maggioranza, il Parlamento, magistrati, avvocati, giuristi in genere ed uomini della strada, ecco che Palamara sembra rispondere ad una mossa con una contromossa. La mossa del cavallo, che può tirarlo fuori da una situazione critica e rimetterlo in gioco. Palamara, allora, si candida? Ne avremo conferma solo oggi a via di Torre Argentina, sapremo se davvero è così, con quale forza politica e dove (magari alle suppletive di Roma?). Quel che certo è che ha avuto il suo peso, almeno nell'accelerazione dell'annuncio, anche il fatto che la decisione su di lui della Cassazione, che risale a giugno, sia arrivata puntuale nello stesso giorno in cui il titolare dell'azione disciplinare, il procuratore generale, Giovanni Salvi (che ha ottenuto dal Csm una condanna pesantissima ed «esemplare», quanto inusuale, per Palamara), prendeva uno schiaffo sonoro dallo stesso Consiglio sul caso del pm di Milano, Paolo Storari. Lui, l'autore con Alessandro Sallusti del libro bestseller «Il Sistema», diventato grande accusatore dei colleghi e assurto al ruolo di vero esperto, spesso interrogato su come correggere le anomalie della giustizia, ha forse intenzione di cavalcare l'onda di una notorietà che, nel bene nel male, ne fa un personaggio di primissimo piano. Forse, pensa di poter dare lezioni più di molti altri che pontificano sulle storture di un sistema giudiziario in cui ha agito dai vertici, in ruoli diversi e da ogni prospettiva. In Procura, nel sindacato delle toghe, nell'organo di autogoverno della magistratura e infine come accusato e imputato, in sede disciplinare e in sede penale. Dopo la notizia che non avrebbe mai più indossato la toga, salvo colpi di scena che a questo punto sarebbero più che clamorosi, Palamara ha promesso: «La battaglia continua». E forse non parlava solo del suo ricorso in Europa, contro una rimozione che considera ingiusta. Anna Maria Greco 

"Pago per aver sostenuto posizioni evidentemente non gradite". Perché Palamara è stato radiato dalla magistratura. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Agosto 2021. Luca Palamara da ieri non è più un magistrato. Le Sezioni unite civili della Cassazione hanno confermato la radiazione dall’ordine giudiziario per l’ex presidente dall’Associazione nazionale magistrati. In quasi duecento pagine di provvedimento, relatore Enzo Vincenti, i giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di Palamara contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura dello scorso ottobre. Palamara, dunque, avrebbe posto in essere attività per “condizionare in modo occulto l’attività del Csm” per le nomine dei procuratori di Roma e di Perugia, proponendosi egli stesso come procuratore aggiunto della Capitale dopo aver cercato di delegittimare Paolo Ielo. «Rispetto la decisione che però ritengo ingiusta perché so per certo di non aver mai leso le prerogative del Csm. Pago perché qualcuno ha ritenuto che io mi fossi intromesso nella scelta del procuratore di Roma e per aver sostenuto posizioni evidentemente non gradite», ha commentato Palamara all’Adnkronos dopo la decisione della Cassazione. «Il mio impegno per la legalità, per l’affermazione della verità e per squarciare il velo di ipocrisia prosegue. Porterò il caso in Europa, in attesa di tutti gli accertamenti sul trojan tuttora in corso», annuncia. L’ormai ex magistrato si era difeso pancia a terra in questi mesi sostenendo in tutte le sedi che l’incontro serale dell’hotel Champagne era un semplice confronto su temi importanti, negando la volontà di interferire con le nomine. Palamara, in particolare, aveva definito l’incontro «un laboratorio politico istituzionale di teste pensanti e volenterose rispetto al problema del più importante ufficio giudiziario italiano». Di diverso avviso, invece, la Cassazione secondo cui dietro quell’appuntamento, al quale aveva partecipato anche l’ex ministro Luca Lotti, all’epoca imputato a Roma nel processo Consip, vi fosse «una strategia unitaria da parte di Palamara, a ricercare una soluzione di discontinuità rispetto alla gestione Pignatone». Fatti considerati gravissimi e di particolare «dispregio verso regole codificate e standard». Palamara, comunque, nei giorni scorsi aveva presentato una denuncia contro due dei componenti della sezione disciplinare del Csm che lo aveva radiato: Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti. I due avrebbero violato l’obbligo di astensione. Davigo, nei giorni scorsi, in una intervista aveva affermato di aver mostrato i verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara a Gigliotti. Gigliotti, all’atto del decidere, avrebbe quindi utilizzato informazioni di cui era già a conoscenza rispetto a quello che doveva essere il materiale utilizzabile ai fini della decisione. Inoltre Davigo sarebbe stato anche a conoscenza dei contenuti dell’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava. Alcune delle incolpazioni nei confronti di Palamara riguardano proprio Amara, indagato in alcuni procedimenti pendenti innanzi alla Procura di Roma. Altri elementi a supporto della tesi di Palamara, quindi della preordinata violazione dell’obbligo di astensione di Gigliotti e Davigo nel procedimento disciplinare a suo carico, arriverebbero anche dal fatto che cinque componenti della sezione disciplinare si sono recentemente astenuti dal giudizio disciplinare promosso dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi contro il pm milanese Paolo Storari. «Appare evidente come il pregiudizio» di Gigliotti e Davigo «non solo fosse palese ma si fosse concretamente estrinsecato anche in sede di ammissione delle prove a discarico atteso che, pur apparendo necessario a chiunque, la Sezione disciplinare ha addirittura ritenuto di dover escludere la testimonianza di Fava». Paolo Comi

L'interrogazione parlamentare resta senza risposta...Le chat come prove d’accusa, ma Gaeta dimentica le sue…Paolo Comi su il Riformista il 4 Agosto 2021. Alla fine è rimasta senza risposta l’interrogazione presentata esattamente un anno fa dal senatore Maurizio Gasparri al ministro della Giustizia a proposito del coinvolgimento dell’Avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta nelle chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Gaeta è attualmente il responsabile della procedura disciplinare a carico dei cinque ex togati del Csm che parteciparono all’incontro serale con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e lo stesso Palamara all’hotel Champagne. Questa settimana Gaeta ha concluso la sua requisitoria chiedendo per loro la sospensione delle funzioni da uno a due anni. In una delle ultime udienze Gaeta aveva prodotto le chat fra gli incolpati Corrado Cartoni, Antonio Lepre e Paolo Criscuoli e Palamara, ritenute funzionali alle tesi di accusa, dimenticandosi, però, di produrre anche le sue. Il nome di Gaeta, esponente di Magistratura democratica e quindi della sinistra giudiziaria, come il procuratore generale Giovanni Salvi, ricorre molte volte nella chat tra Palamara e Pina Casella, sostituto procuratore generale della Cassazione ed esponente della corrente Unicost cui apparteneva Palamara. La magistrata era la “testa di ponte” tra gli aspiranti in servizio alla Procura generale (ma non solo) e Palamara. Il 6 dicembre 2017 Casella scrive a Palamara: “Grazie per Gigi Salvato hai davvero contribuito a migliorare l’ufficio. Un abbraccio”, riferendosi alla nomina di Salvato ad Avvocato generale della Cassazione, altro accusatore nella vicenda Palamara. Il 10 gennaio 2018 Casella scrive sempre a Palamara: “Ciao Luca. Carmelo ti porterà un mio messaggio…a cui tengo molto…. .poi la prossima settimana ci vediamo. Baci. Ps: sono qui con Maria Teresa Cameli. Aspetta tue notizie”. Il Carmelo “messaggero” è il successore di Piercamillo Davigo al Csm Carmelo Celentano, e a proposito della Cameli il 31 gennaio 2018 Palamara scrive alla Casella: “Votata Cameli”. Risponde dopo due minuti Casella: “Una buona notizia dopo tre giorni difficili. Grazie”. Dice Palamara dopo due minuti: “Stiamo recuperando su tutto”. Ribatte Casella dopo 4 minuti: “Volere è potere”. La Cameli venne nominata procuratore di Forlì. Casella, sempre sui medesimi argomenti, scrive a Palamara il 10 febbraio 2018: “Quando hai le idee chiare mi fai sapere come sei orientato per pst Rimini Ancona macerata e Pesaro? Baci”. Risponde Palamara: “Assolutamente si. Ancora nessuno in trattazione” . Ancora la Casella scrive a Palamara il 12 febbraio 2018: “Che aria tira per Carmelo Sgroi??” Risponde Palamara: “Non facile ma ci stiamo lavorando”. Ribatte Casella: “Mi raccomando Luca. Per l’ufficio è importante. Chiamerò anche Maria Rosaria per farglielo capire….”. Il magistrato segnalato è Carmelo Sgroi sostituto procuratore generale in Cassazione mentre Maria Rosaria che doveva “capire” era Maria Rosaria Sangiorgio consigliere del Csm insieme a Palamara. In questo contesto si inseriscono le “interferenze” citate nell’interrogazione parlamentare e che riguardano l’accusatore di Palamara. Il 26 aprile 2018 Casella scrive a Palamara: “Ciao Luca sono in ufficio con Piero Gaeta che vorrebbe salutarti come già sai. Io ritorno a Roma il 2. Riesci quella settimana a passare dalle nostre parti per un caffè??”. Risponde Palamara: “Si assolutamente si con piacere”. Ancora la Casella: “Ok allora ti chiamo il 2 e organizziamo”. Come promesso il 2 maggio 2018 Casella si fa viva: “Ciao Luca. Quando puoi sentiamoci un attimo. Baci”. Risponde Palamara: “Assolutamente si”. Ancora Casella: “Ti chiamo fra un’oretta ok?”. Risponde Palamara: “Ok”. Il 3 maggio 2018 Casella scrive ancora: “Alle 17 Piero deve andare via. A questo punto rimandiamo”. Casella non demorde ed ancora il 9 maggio scrive: “Ciao Luca. Rimandiamo il tuo appuntamento di domani con Piero Gaeta alla prossima settimana? Io questa non ci sono e mi fa piacere partecipare. Ti chiamo lunedì per accordi precisi. Ok?? Baci”. Risponde Palamara: “Ok va bene un bacio”. Con tenacia cadorniana il 14 maggio Casella scrive ancora a Palamara: “Buon inizio settimana. Quando ci si vede?” Risponde Palamara: “Mercoledì pomeriggio caffè? buon inizio settimana anche a te!!”. Ribatte Casella: “Perfetto. Ti chiamo in mattinata e mi dai l’orario esatto”. Puntuale mercoledì 16 maggio 2018 Casella scrive: “Ciao caro. Confermato il caffè? A che ora?”. Risponde Palamara: “Ok per le 15 ti confermo orario preciso appena finiamo plenum”. Ribatte Casella: “Perfetto”. Sempre il 16 maggio 2018 Casella scrive: “Siamo a pranzo al francese. Ti aspettiamo per il caffè come d’intesa”. Risponde subito Palamara: “Alle 15.15 sono da voi”. Ribatte Casella: “Bravo…”. Alle 15.18 Palamara scrive: “Sto arrivando”. Risponde subito Casella: “Siamo qui”. Finalmente si concretizza il tanto auspicato incontro con il riottoso Palamara che evidentemente non ne poteva più, dopo quattro anni, delle solite questue. C’è tuttavia una significativa coda. Infatti il 6 febbraio 2019 Palamara, pur non essendo più consigliere del Csm, scrive a Casella: “Mi mandi numero di Piero Gaeta? Noi ci vediamo venerdì?”. Risponde Casella: “Certo. Baci” e subito dopo “Piero Gaeta Cellulare 320 ………”. Gaeta verrà nominato, all’unanimità, Avvocato generale, qualche settimana dopo. Paolo Comi 

L’EX CONSIGLIERE DEL CSM PALAMARA RINVIATO A GIUDIZIO DAL GUP DI PERUGIA. ASSOLTO RICCARDO FUZIO EX PG DELLA CASSAZIONE. Il Corriere del Giorno il 23 Luglio 2021. L’inchiesta, coordinata dai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, aveva coinvolto l’intera magistratura: il trojan inoculato dalla Guardia di Finanza sul suo telefono è stato una vera e propria valanga per le toghe. La decisione del Gup Piercarlo Frabotta del Tribunale di Perugia era facilmente prevedibile. Luca Palamara, accusato di corruzione, va processato insieme alla sua amica Adele Attisani anche lei imputata per corruzione. Il Gup di Perugia ha deciso che l’ex consigliere del Csm deve rispondere in Tribunale, secondo l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri, per aver messo a disposizione la sua funzione in favore dell’amico imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti con delle presunte utilità ricevute. Il Tribunale di Perugia ha accolto la richiesta di Centofanti di patteggiamento ad un anno e sei mesi, dopo che a giugno aveva reso dichiarazioni spontanee ai magistrati della procura di Perugia. L’inchiesta, coordinata dai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, aveva coinvolto l’intera magistratura: il trojan inoculato dalla Guardia di Finanza sul suo telefono è stato una vera e propria valanga per le toghe. I pm Gemma Miliani e Mario Formisano dopo le dichiarazioni rese ai magistrati proprio da Centofanti avevano modificato nelle scorse settimane il capo di imputazione contestando, tra le accuse, la “corruzione in concorso per l’esercizio delle funzioni”, e non più la “corruzione in atti giudiziari. La decisione del giudice arriva a otto mesi dall’apertura dell’udienza preliminare che aveva preso il via il 25 novembre scorso. Fissato il processo per Palamara e l’Attisani con prima udienza il prossimo 15 novembre davanti al primo collegio del Tribunale di Perugia. “In concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo Adele Attisani quale istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria, altresì ed in parte, delle utilità ricevute, Luca Palamara, prima quale sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Roma ed esponente di spicco dell’Associazione Nazionale magistrati fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Consiglio Superiore della Magistratura e magistrato fuori ruolo ricevevano da Fabrizio Centofanti le utilità per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri” si legge nel capo di imputazione. Ed in particolare “per la possibilità consentita a Centofanti da Palamara di partecipare a incontri pubblici o riservati cui presenziavano magistrati, consiglieri del Csm e altri personaggi pubblici con ruoli istituzionali e nei quali si pianificavano nomine ed incarichi direttivi riguardanti magistrati, permettendo in tal modo a Centofanti di accrescere il suo ruolo e prestigio di “lobbista”; per la disponibilità dimostrata da Palamara a Centofanti di poter acquisire, anche tramite altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, a lui legati da rapporti professionali e/o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso ed in particolare, su quelli pendenti presso la Procura della Repubblica di Messina e di Roma che coinvolgevano Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore; per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste di Centofanti finalizzate ad influenzare e/o determinare, anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura e/o di altri colleghi, le nomine e gli incarichi da parte del Consiglio medesimo e le decisioni della sezione disciplinare“. Nella contestazione vengono elencati e documentati diversi soggiorni di cui avrebbe usufruito l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, tra cui quello a Madonna di Campiglio, il viaggio a Madrid con il figlio, la vacanza a Favignana, a Dubai, oltre ai lavori eseguiti a casa della sua amica Adele Attisani. Cinque consiglieri del Csm si dimisero, così come il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di aver rivelato a cinque consiglieri del Csm si dimisero, così come il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di aver rivelato a Palamara notizie sull’indagine che lo riguardava. Le sue chat su nomine, promozioni, trasferimenti hanno portato anche all’apertura di diversi procedimenti disciplinari a carico di magistrati suoi interlocutori. notizie sull’indagine che lo riguardava. L’ex Pg, per il quale la procura aveva chiesto la condanna a 8 mesi in abbreviato, invece è stato assolto. Le sue chat su nomine, promozioni, trasferimenti hanno portato anche all’apertura di diversi procedimenti disciplinari a carico di magistrati suoi interlocutori. Assolto con rito abbreviato l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio. Per un episodio con la formula “perché il fatto non sussiste” e per un altro “per la tenuità del fatto”. Nei suoi confronti i pm di Perugia avevano chiesto una condanna a otto mesi. “Ringrazio i miei avvocati e lo studio di Grazia Volo” si è limitato a dire all’uscita dall’aula l’ex pg della Cassazione. Il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone ha così commentato: “Il provvedimento del giudice conferma il buon lavoro della Procura e la correttezza delle scelte fatte anche con la modifica del capo di imputazione avvenuta durante l’udienza preliminare”. “La sentenza di oggi è la testimonianza della buona fede di Riccardo Fuzio, una persona rispettosa delle Istituzioni, che si è difeso nel processo e non dal processo ed è stato riconosciuto per quello che è”: ad affermarlo l’avvocato Grazia Volo, difensore dell’ex procuratore generale della Cassazione, assolto dal Gup di Perugia nel processo con il rito abbreviato dall’accusa di concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. “Sia i pm che il giudice sono state persone misurate e attente” ha aggiunto il legale. Fuzio era accusato di avere rivelato a Luca Palamara (il quale deve rispondere di concorso nello stesso reato ma ha scelto il rito ordinario e l’udienza a suo carico è stata rinviata a settembre) che era pervenuto al Comitato di presidenza del Csm un esposto presentato dal magistrato Stefano Fava “avente ad oggetto comportamenti asseritamente scorretti posti in essere dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, iscritto a protocollo riservato del Csm e come tale coperto da segreto”. Fuzio doveva anche rispondere di avere comunicato sempre a Palamara “le iniziative che il Comitato di presidenza intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti indicati nell’esposto”. Al centro del processo con rito abbreviato anche alcune notizie relative all’indagine in corso a Perugia nei confronti dell’ex consigliere del Csm. Per questo episodio il Gup Frabotta ha però riconosciuto la tenuità del fatto contestato a Fuzio di fatto assolvendolo. “Udienza preliminare passaggio stretto e obbligato. Sono certo che l’udienza pubblica servirà a far emergere la verità e la mia innocenza”. Così Luca Palamara dopo il rinvio a giudizio. “Le prove documentali dei pagamenti effettuati sono insuperabili. Continuerò sempre a battermi per una giustizia giusta”. “Non temiamo affatto l’approfondimento dibattimentale e siamo certi che in quella sede si potranno chiarire a 360 gradi tutti gli aspetti di questa vicenda ed emergerà pienamente l’innocenza del nostro assistito” ha detto l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende l’ex consigliere del Csm. Nei giorni scorsi, Palamara aveva rilasciato delle corpose dichiarazioni spontanee, contestando il metodo di indagine e parlando addirittura di fatture false per accusarlo. “In qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto”, aveva affermato dinnanzi al Gup, producendo documenti relativi ai lavori di ristrutturazione della casa della coimputata Attisani, lavori che secondo l’accusa Palamara avrebbe fatto pagare al lobbista Centofanti. La Attisani, nel corso dell’udienza di lunedì, ha negato di aver fatto pagare ad altri i lavori a casa propria, depositando un bonifico da lei effettuato pari a 19.800 euro. “Il bonifico dimostra che la parte dei lavori relativa al cosiddetto lastrico solare era stata pagata già dal 2012 dalla signora – ha contestato Palamara – che si è assunta la piena titolarità delle lavorazioni commissionate, escludendo il coinvolgimento di terzi”. I difensori dell’ex consigliere del Csm hanno anche effettuato una perizia finalizzata a sgonfiare il residuo dei lavori. “Il dato che più ci ha inquietato – ha evidenziato l’ex pm – è che per calcolare il valore della veranda si è fatto ricorso addirittura a delle fatture false, ovvero non relative a lavori eseguiti su quella abitazione, ma su un’altra. Non trovando prova della corruzione, come già riconosciuto dal gip (Lidia Brutti, la quale ha negato l’esistenza di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ndr), l’unica soluzione era gonfiare i lavori di questa casa”. Relativamente, invece, al viaggio a Dubai, “c’è una intercettazione tra il titolare dell’agenzia viaggi e Centofanti, in cui quest’ultimo dice: “paga Luca, come sempre”. L’intercettazione, proveniente da un altro procedimento, era rimasta sommersa negli atti”. L’avvocato Cesare Placanica, difensore di Adele Attisani, ha osservato: “E’ un rinvio a giudizio che senza i limiti di valutazione dell’udienza preliminare non ci sarebbe stato. Non credo che il dibattimento possa mai portare a una sentenza di condanna”.

Caso Palamara, chiesta la sospensione per i cinque ex togati della cena all’Hotel Champagne. I cinque ex togati sono sotto procedimento disciplinare per la riunione notturna del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne, alla quale parteciparono con Luca Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, e in cui si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Simona Musco Il Dubbio 31 luglio 2021. Sospensione dalle funzioni per i cinque ex togati del Csm Luigi Spina (nella foto), Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni. È questa la sanzione chiesta dai rappresentanti della procura generale della Cassazione – l’avvocato generale della Corte Pietro Gaeta e il sostituto pg Simone Perelli nella requisitoria pronunciata ieri davanti alla sezione disciplinare del Csm. I cinque ex togati sono sotto procedimento disciplinare per la riunione notturna del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne, alla quale parteciparono con Luca Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, e in cui si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Gaeta ha evidenziato che le condotte dei cinque non sono sovrapponibili, per gravità, a quelle di Palamara, ma si troverebbero un gradino immediatamente sotto, per il contributo causale fornito a Palamara, con la piena consapevolezza delle modalità e delle finalità della sua condotta. Per tale motivo ha optato per la sospensione anziché per la radiazione – come fatto nel caso Palamara. Per Spina, Morlini e Lepre è stata chiesta la sospensione dalle funzioni «nella massima entità» , ovvero 2 anni. Spina, ha affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, è stato «il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare – ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Sarebbe stato, dunque, «la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare», mentre Morlini e Lepre – all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo – «ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave – ha detto Gaeta – la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne». Per gli ex togati Cartoni e Criscuoli, invece, il pg ha chiesto la sospensione per un solo anno. Il processo, che ha preso il via un anno fa, proseguirà il 6 settembre, quando la parola passerà alle difese. «La procura generale – ha sottolineato il professor Vittorio Manes, difensore di Morlini – ha dato nella sua richiesta di sanzioni una valutazione di gravità dei fatti radicalmente diversa rispetto a quella relativa alla vicenda che ha riguardato Palamara».

Da uno a due anni di sospensione. Per i cinque dell’Hotel Champagne, Salvi sceglie la linea soft. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per un periodo da uno a due anni. Poteva andare molto peggio. È questa la richiesta di condanna della Procura generale della Cassazione nei confronti dei cinque ex togati del Consiglio superiore della magistratura che la sera dell’8 maggio del 2019 ebbero la malaugurata idea di partecipare ad un dopo cena all’hotel Champagne di Roma insieme a Luca Palamara e ai deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Oggetto dell’incontro conviviale, come ormai stranoto, la nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Il convivio togato, registrato con il trojan inserito nel cellulare di Palamara dalla Procura di Perugia che lo stava indagando per corruzione, finì sui giornali e successe il finimondo. Questa vicenda «ha segnato un punto di non ritorno, quello che è successo è irreversibile: l’impatto sull’opinione pubblica è stato pessimo ma proprio per questo c’è un gran desiderio di voltare pagina», aveva affermato severo il procuratore generale Giovanni Salvi durante la conferenza stampa in Cassazione in cui aveva illustrato ai giornalisti le mosse della Procura generale, competente per l’azione disciplinare. Il primo a finire alla sbarra era stato proprio Palamara, radiato poi dalla magistratura al termine di un turbo processo conclusosi ad ottobre dello scorso anno. Diverso destino, dunque, per i cinque ex consiglieri. Palamara venne accusato di «aver violato i doveri di correttezza ed equilibrio, tenendo un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei colleghi che avevano presentato domanda per il posto di procuratore della Repubblica di Roma». E poi di aver «interferito nell’esercizio degli organi costituzionali». Palamara, inoltre, avrebbe pianificato una strategia per danneggiare Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, uno degli aspiranti al posto di Pignatone. “Discredito” era stato posto in essere da Palamara anche nei confronti dell’aggiunto della Capitale Paolo Ielo e dello stesso Pignatone. L’astio di Palamara nei confronti di Ielo, in particolare, sarebbe dovuto al fatto che quest’ultimo aveva trasmesso a Perugia gli accertamenti della guardia di finanza sui suoi rapporti il faccendieri Fabrizio Centofanti. Accertamenti che avevano determinato l’apertura dell’indagine per corruzione, “sbarrandogli” di fatto la strada verso la nomina a procuratore aggiunto a piazzale Clodio. Il processo inizierà a novembre. «Gravi violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio, scorrettezza verso i colleghi e il tentativo di condizionare in maniera occulta l’attività della commissione incarichi direttivi del Csm» era stata, invece, l’incolpazione formulata nei confronti dei cinque ex togati: tre di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, e due di Unicost, il gruppo di centro, Gianluigi Morlini e Luigi Spina. Per la Procura generale, che ha usato la mano leggera rispetto a Palamara, avrebbero sostanzialmente subito il condizionamento di quest’ultimo che aveva interesse a diventare procuratore aggiunto a Roma, e di quello di Lotti che voleva un procuratore che in qualche modo sistemasse la sua posizione nel processo Consip dove era imputato. Nella prossima udienza, in programma il 6 settembre, sono previsti gli interventi delle difese. La sentenza entro l’anno. Paolo Comi

P. F. per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2021. Luca Palamara, dunque, paga per tutti. Non è una grande novità di questi tempi. Anzi. La Procura generale della Cassazione, al termine della requisitoria nel processo disciplinare nei confronti dei cinque ex togati che parteciparono la sera dell'8 maggio 2019 all'incontro presso una saletta riservata dell'hotel Champagne di Roma con Palamara e gli allora deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, ha formulato ieri richieste molto blande: sospensione delle funzioni per tutti da un periodo di uno a due anni. Praticamente un "buffetto" rispetto alla radiazione dall'ordine giudiziario, il licenziamento, richiesta ed ottenuta lo scorso ottobre per Palamara. Durante quell'incontro si discusse della nomina del nuovo procuratore di Roma. I colloqui, intercettati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara, divennero di pubblico dominio con la loro pubblicazione sui giornali, trascinando il Consiglio superiore della magistratura nel panico. La Procura generale era rappresentata ieri da Pietro Gaeta e Simone Perrelli. Palamara, Lotti e Ferri furono, quindi, gli artefici del tentativo di discredito posto in essere verso il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo. Palamara perché voleva vendicarsi del fatto che da piazzale Clodio, nella primavera del 2018, era stato trasmesso alla Procura di Perugia, competente per i reati dei magistrati romani, un incartamento con i suoi rapporti con il faccendiere Fabrizio Centofanti. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva presentato in quel periodo la domanda per uno dei posti di aggiunto a Roma e questa vicenda avrebbe potuto compromettere la sua corsa per diventare dirigente. Lotti, invece, era imputato nel processo per le corruzioni Consip, e voleva un procuratore che potesse agevolarlo. I cinque ex consiglieri sarebbero stati, allora, oggetto di un condizionamento esterno. Una tesi molto azzardata e che prevede la sopravvalutazione delle capacità di Palamara di influenzare le decisioni di un organo collegiale come il Consiglio Superiore della Magistratura. Il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, ed è questo l'aspetto più inquietante, il cui nome venne fuori quella sera come candidato ideale per Roma, si sarebbe dovuto prestare ai desiderata di Palamara e Lotti. Peccato, però, che nell'indagine non è stata trovata alcuna conversazione o messaggino fra Viola e Palamara. Nessuno. Di fatto solo illazioni e chiacchiere serali che ebbero, comunque, l'effetto di danneggiare gravemente Viola. Votato il 23 maggio del 2019, il Csm, appena iniziò la pubblicazione di questi colloqui registrati all'hotel Champagne decise di azzerare tutto. Viola, escluso sulla base del gossip notturno presso l'hotel Champagne, fece ricorso ottenendo ragione dal giudice amministrativo. Il processo a Palazzo dei Marescialli è stato rinviato al prossimo 6 settembre quando parleranno le difese dei cinque ex consiglieri. Per quanto riguarda Cosimo Ferri, l'altro grande imputato, si è ancora in attesa che il Parlamento dia il via libera all'utilizzo di queste conversazioni. Insomma, Luca Palamara si conferma ancora una volta il capro espiatorio per eccellenza delle nefandezze togate.

L'ex zar delle nomine rinviato a giudizio. Magistratopoli, tutto secondo copione: Palamara va a processo. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Luglio 2021. Luca Palamara è stato rinviato a giudizio. Il processo inizierà il prossimo 15 novembre. E’ quanto ha deciso ieri pomeriggio il gup di Perugia Piercarlo Frabotta. Confermate, dunque, le previsioni della vigilia, anche se l’ex presidente dell’Anm in questi dieci mesi si era battuto per dimostrare la propria innocenza, portando prove e sottoponendosi a diversi interrogatori. «Sono certo che l’udienza pubblica servirà a far emergere la verità e la mia innocenza», il primo commento di Palamara. La Procura di Perugia le ha provate tutte, sempre convinta che da qualche parte la corruzione ci fosse e che bisognasse solo impegnarsi a trovarla. Fondamentale è stato il “pentimento” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti, il presunto corruttore di Palamara che ha poi patteggiato un anno e mezzo. L’indagine esplode, anticipata da articoli stampa, il 30 maggio del 2019. A Palamara viene contestata la corruzione propria per atto contrario ai doveri d’ufficio (articolo 319 codice penale) per aver ricevuto 40mila euro per la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la corruzione in atti giudiziari (articolo 319 ter codice penale) per avere ricevuto da Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, viaggi e vacanze. Nell’avviso di conclusione delle indagini del 20 aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio si cambia: scompaiono le due corruzioni e compare la corruzione per l’esercizio della funzione (articolo 318 cp). Scompaiono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Scompaiono nel senso letterale del termine perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che avevano avuto grandissima risonanza mediatica. A Palamara si contestano viaggi e vacanze e lavori edili mai pagati eseguiti non a casa sua ma a casa dell’amica Adele Attisani. Queste utilità le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte” da Centofanti. Scompaiono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, al 30 maggio 2019, erano il motore della corruzione essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, il 25 novembre 2020, si cambia ancora. A luglio si è insediato Raffaele Cantone e quindi qualcosa doveva pur succedere. Si rimane nella corruzione per l’esercizio della funzione ma si specifica che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. All’udienza del 22 febbraio 2021 nuovo cambio. Si contestano insieme tutte le corruzioni possibili. Ma all’udienza dell’8 luglio 2021 il colpo di scena: Cantone e i pm Gemma Miliani e Mario Formisano “viste le dichiarazioni di Centofanti” che evidentemente ritengono “prevalenti” su quelle fatte da Amara nel febbraio, modificano per la quinta volta le imputazioni ritornando all’ipotesi meno lieve della corruzione per l’esercizio della funzione, posto in essere consentendo a Centofanti di “partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano nomine”, manifestando Palamara disponibilità ad acquisire “informazioni anche riservate sui procedimenti in corso a Roma e Messina che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore”, ed infine “per la disponibilità di Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare”. Con Palamara andrà a processo solo Adele Attisani, essendo stato assolto l’altro suo coimputato, l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, accusato di averlo informato che al Csm era arrivata la comunicazione dell’indagine di Perugia nei suoi confronti. 

Caso Palamara, ecco che cosa è. Tutte le tappe della bufera sulle procure. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 23 luglio 2021. La vicenda dell'ex pm della procura di Roma accusato di corruzione scoppia a maggio del 2019. L'inchiesta travolge l'intero Csm. Oggi il gip di Perugia ha deciso di rinviare a giudizio Luca Palamara, ex pubblico ministero della procura di Roma che, indagato per corruzione, ha travolto nel suo caso l'intera magistratura. Ecco le tappe principali di questa vicenda giudiziaria.

Scoppia il caso Palamara. Il 29 maggio 2019 l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara viene perquisito dalla Guardia di Finanza: è accusato di una serie di corruzioni per le quali avrebbe messo a disposizione la sua funzione giudiziaria. Una ha a che fare con la nomina del procuratore di Gela (accusa poi archiviata), le altre riguardano i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti. Quest'ultimo, amico dell'ex pm, gli avrebbe pagato cene, viaggi e lavori di ristrutturazione.

Le chat e la bufera sulle procure. Sul telefono di Palamara è stato inoculato un trojan che ha registrato tutte le telefonate e le chat dell'ex consigliere del Csm: la magistratura intera ne esce travolta. Si parla di nomine, incarichi, spostamenti. Particolarmente discussa è la successione di Giuseppe Pignatone al vertice della procura di Roma. Palamara ne discute con vari colleghi del Csm, con Cosimo Ferri e con l'ex ministro dello Sport Luca Lotti durante una cena all'hotel Champagne di Roma. Palazzo dei Marescialli ne viene devastato: cinque consiglieri vengono sostituiti. Non solo: tra gli indagati anche l'allora procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio: accusato di aver rivelato a Palamara dettagli sull'indagine a suo carico. E per 21 magistrati viene aperto un procedimento disciplinare.

Palamara espulso dall'Anm e radiato dalla magistratura. Il 19 settembre 2020 Palamara viene definitivamente espulso dall'Anm. Poco dopo, il 9 ottobre, la sezione disciplinare del Csm lo radia dalla magistratura.

La richiesta di rinvio a giudizio. A maggio 2020 la procura di Perugia chiude l'inchiesta e ne chiede il rinvio a giudizio: l'accusa è di corruzione per i "regali" ricevuti da Centofanti (che ha chiesto di patteggiare a un anno e mezzo). A processo anche la sua amica Adele Attisani. Oggi il gip deciderà se mandare Palamara a processo.

Magistratura corrotta, Paese infetto. Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2020. Il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande...ROMA – Le chat private di alcuni magistrati che esprimevano giudizi pesanti su Matteo Salvini sono state l’ultimo durissimo colpo alla credibilità della giustizia. Claudio Martelli, ex guardasigilli all’epoca del governo Craxi (1991-1993) ha commentato lo scambio di messaggi tra i magistrati Luca Palamara e Paolo Auriemma: “Da Palamara che cosa vuole aspettarsi? In questa situazione bisognerebbe arrivare a un rimedio decisivo. È del tutto evidente che l’Anm è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del Parlamento, del governo e del ministro della Giustizia ogni due minuti. È un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare”. Per Martelli a questo punto c’è solo una cosa da fare: “L’Anm andrebbe sciolta. Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”. Un commento profetico. Adesso l’Anm, l’Associazione nazionale dei magistrati, o meglio le sue correnti interne, sono state travolte dal grave contenuto delle intercettazioni, cercando di trascinare con sè persino il Consiglio Superiore della Magistratura. Più di qualcuno adesso chiede al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura che egli stesso presiede, di mandare a casa il vicepresidente David Ermini e i suoi consiglieri, nonostante il Capo dello Stato in realtà non abbia alcun potere in proposito, e peraltro sia anche prossimo alla scadenza del suo mandato presidenziale.  Pochi ricordano e molti dimenticano che soltanto quasi un anno fa, quando esplose il “caso Palamara” ed il conseguente terremoto che propagò all’interno della magistratura inducendo alle dimissioni dei componenti togati (cioè magistrati) al Csm, era stato lo stesso Mattarella a chiedere un cambio di comportamento, intervenendo in qualità di presidente al plenum del Csm pronunciando parole durissime con le quali chiedeva un “cambio dei comportamenti” sostenendo che “accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione“. Ruoli diversi, tra magistratura e politica, con quest’ultima che avrebbe dovuto provvedere ad «una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario». Sei mesi dopo attraverso il deposito degli atti d’indagine sul “caso Palamara” al Giudice delle Indagini Preliminari di Perugia trapelano le intercettazioni acquisite grazie al “trojan” inoculato nel cellulare di Palamara, che coinvolgono anche molti giornalisti di importanti quotidiani nazionali come la Repubblica, la Stampa, il Corriere della Sera, e strani collegamenti (peraltro vietati dalla Legge) di alcuni di loro con delle costole dei “servizi” italiani. “E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro”. Con queste parole Luca Palamara la mattina del 23 maggio 2019 contenute nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano, si mostrava aggressivo e sicuro del fatto suo. La 5a Commissione Incarichi direttivi del Csm aveva appena espresso con il proprio voto i tre candidati per la guida della Procura di Roma, che vedeva in testa Marcello Viola, appoggiato dal gruppo Magistratura Indipendente e reale candidato “occulto” di Palamara, anche se la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e quindi l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (nonché ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura) si “armava” contro i membri togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria più estremista, decisi ad ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. il quale li definiva con queste parole: «Sono dei banditi, vergognosi». Questa parte del dialogo intercettato si è rivelato utile per capire quale fosse la reale posta in gioco per la quale l’ex pm della procura di Roma oggi indagato per corruzione si preparava a giocare partita della sua carriera. Tutto questo è diventato “pubblico” la settimana successiva, contenuto nel decreto di perquisizione con il quale la Procura di Perugia rese pubbliche di fatto le trame occulte con cui Palamara stava “manovrando” dall’esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore capo di Roma, venendo sostenuto e spalleggiato spalleggiato dai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa e “leader” riconosciuto della corrente di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La rivelazione di quelle trame oscure provocò un vero e proprio “terremoto” all’interno del Csm, con le dimissioni di tre componenti di Magistratura Indipendente e due di Unicost e contestualmente la prima crisi interna all’Anm. La maggioranza a tre fra Area, Magistratura Indipendente ed Unicost si azzerò allorquando Magistratura Indipendente venne accusata di non aver agito con la necessaria fermezza nei confronti dei propri consiglieri che partecipavano alle “riunioni segrete notturne” organizzate dal “trio” Palamara-Ferri-Lotti, e fu così nacque una nuova maggioranza della giunta dell’ Anm composta da Area, Unicost che aveva «epurato» il suo leader Luca Palamara e i due componenti del Csm dimissionari, ed i togati di Autonomia e indipendenza la corrente guidata da Piercamillo Davigo. Dopo solo un anno siamo punto e capo con la nuova crisi dei nostri giorni. Ma questa volta la rottura fra le correnti della magistratura è avvenuta tra Area e Unicost, a seguito della chiusura dell’indagine nei confronti di Luca Palamara, per la quale la Procura di Perugia (competente sugli uffici giudiziari di Roma) ha depositato tutti gli atti d’inchiesta comprese le “bollenti” ed imbarazzanti intercettazioni. Ma non soltanto, ci sono anche le chat delle conversazioni su WhatsApp dal 2017 in avanti, trovate sul cellulare di Palamara che all’epoca delle intercettazioni era componente del Csm, sino al settembre 2018, e di fatto “governava” la magistratura raggiungendo spesso e volentieri accordi e alleanze con i togati di “Area” e i laici di centrosinistra, anche perché tra il 2008 e il 2012 aveva guidato l’Anm proprio al fianco di Area). Un esempio calzante delle manovre dietro le quinte del Csm, fu l’archiviazione del procedimento disciplinare nei confronti del magistrato tarantino Pietro Argentino, accusato dal Tribunale di Potenza e dal Gip di Potenza di aver mentito per coprire le malefatte del collega Matteo Di Giorgio (attualmente in carcere dove sta scontando 8 anni di carcere), il quale subito dopo è diventato procuratore capo a Matera, incarico scambiato a tavolino con la nomina di Maurizio Carbone, ex segretario dell’ ANM, nominato “all’unanimità” (con l’appoggio di Unicost e Palamara) procuratore aggiunto di Taranto al posto proprio di Argentino ! Attualmente nei confronti dei magistrati “scambisti” Argentino e Carbone pende un procedimento dinnanzi alla 1a Commissione del Csm, che qualcuno aveva cercato di insabbiare e fare sparire. Inutilmente. Le conversazioni di Palamatra con i colleghi della sua stessa corrente (ma non mancano quelli di Area e di Mi), che rivelano e portano alla luce patti e manovre occulte per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, per poi “fotterne” altri, risalgono a quel periodo. Una vera e propria spartizione di nomine e incarichi decisi con un bilancino correntizio, «espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela», per usare un comunicato firmato da Area che pretendeva delle prese di posizione più rigide da parte di Unicost, e così ha origine la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Palamara è stato in realtà un alleato della sinistra giudiziaria sino all’autunno 2018, ed è proprio da questa alleanza inimmaginabile che hanno origine gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private, a cui hanno fatto seguito delle folli aperture di indagini sul leader leghista. Alla fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma ex membro togato del Csm e compagno di corrente in Unicost di Palamara manifesta il suo dissenso sull’ inchiesta aperta a carico del ministro dell’Interno, per la vicenda dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti. Palamara al telefono gli rispondeva: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Chi era il mandante? Probabilmente il PD in cui all’epoca dei fatti militavano Renzi, Ferri e Lotti. Pochi giorni dopo Palamara manda una foto a Francesco Minisci (sempre di Unicost) a quell’epoca presidente dell’Anm, scattata a Viterbo alla festa di Santa Rosalia, che così commenta: «C’è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto». Minisci risponde diplomaticamente «Va dappertutto». Qualche mese dopo proprio Minisci a finire “azzoppato” da Palamara, che così scriveva a Sirignano: “Già fottuto Minisci”. Conclusosi il mandato al Csm a fine settembre cambiano alleanze, equilibri e schieramenti fra le correnti dei magistrati. Perché nel nuovo plenum di Palazzo dei Marescialli (sede del Csm – n.d.r.) la corrente di Area non è più quell’alleato affidabile come prima e soprattutto Palamara ha intuito che non potrà contare sul loro sostegno per l’ambita poltrona di procuratore aggiunto a Roma, lasciata libera dal collega Giuseppe Cascini, da poco eletto al Csm, proprio grazie all’appoggio dell’ex pm che così manovrando aveva preparato una vera e propria staffetta a tavolino. E’ così che ha origine l’alleanza raggiunta da Palamara con la corrente di Magistratura Indipendente guidata dal “nume tutelare” Cosimo Ferri ex magistrato diventato deputato, ben noto per le sue capacità di trasformismo politico, passato dalla corte di Berlusconi, per poi passare con il Pd guidato da Matteo Renzi, che ha recentemente seguito ad Italia Viva). Un’accordo con la politica finalizzato alla nomina del nuovo procuratore capo di Roma e subito dopo di se stesso come procuratore aggiunto. Ma l’inchiesta per corruzione a suo carico ha fatto saltare il “banco”. portando alla luce un anno tutte le manovre dietro le quinte del Csm, l’intreccio delle sue imbarazzanti relazioni e vergognose opinioni. Non mancano gli intenti vendicativi (da buon calabrese…) contro i colleghi di Area. “Bisogna sputtanarli”, gli scriveva Sirignano, magistrato che il Csm ha trasferito la settimana scorsa dalla Procura Nazionale Antimafia, a causa di un’altra intercettazione in cui parlando al telefono con recentemente del suo ufficio e della prossima nomina del nuovo procuratore di Perugia, replicava convinto: «Esatto». L’appello del Capo dello Stato in realtà aggiunge quindi ben poco allo scenario già noto di una continua e mai interrotta spartizione di poltrone ed incarichi in cui il Csm diventa la “centrale operativa” di magistrati eletti che ubbidiscono alle correnti che li hanno candidati ed eletti. Un sistema malato ricordato anche ieri con comunicati e prese di posizione che inducono il Governo e la maggioranza a ricordarsi che così la giustizia non può funzionare, e che occorre intervenire incidendo anche sui meccanismi di nomina del Csm. Qualcuno però dimentica che in questa maggioranza governativa politica siano presenti anche Cosimo Ferri (un magistrato in aspettativa) deputato del Pd ora passato con Italia Viva di Matteo Renzi, e Luca Lotti a lungo il braccio destro dell’ex-premier fiorentino, ora a capo di una propria corrente interna nel Partito Democratico. Al momento però il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande...Alquanto improbabile che si arrivi ad una reale riforma ed alla separazione delle carriere dei giudici come sono tornati a chiedere nuovamente anche ieri gli avvocati. La pubblicazione delle intercettazioni che continuano ad essere pubblicare in questi giorni dimostra che l’uso diabolico delle stesse continua ad essere utilizzato anche da parte di coloro che da tempo lo hanno criticato. Adesso più di qualcuno vorrebbe accompagnare alla porta d’uscita l’avvocato fiorentino Davide Ermini, il vicepresidente del Csm (indicato proprio dal Pd di cui è stato deputato) , l’unico ad essere uscito a testa alta dallo scandalo scoppiato un anno fa, dimostrando di non aver mai ceduto alle pressioni di Lotti, Ferri e del magistrato Palamara i cui comportamenti gli sono costati in via cautelare la sospensione dalla magistratura senza stipendio ed a breve un processo per corruzione. Questa nuova stagione di intercettazioni ha colpito e mandato in pezzi l’Anm. I nuovi scandali hanno riguardato il rapporto tra il Guardasigilli Bonafede, i magistrati del suo staff pressochè tutti dimissionari, intercettati e coinvolti in vari scandali, hanno un filo rosso che li collega fra di loro: l’inchiesta sulla famosa “trattativa Stato-Mafia”. E tutto ciò fa capire come mai Renzi fu bloccato dal Quirinale (presidenza Napolitano) quando voleva nominare ministro di Giustizia nel suo Governo il magistrato Nicola Gratteri, e spiega la mancata nomina ai nostri giorni del magistrato antimafia Nino Di Matteo a capo del DAP il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E dire che questa la chiamano anche “giustizia”.

Maurizio Carbone è il nuovo procuratore aggiunto di Taranto. Il Corriere del Giorno il 21 Settembre 2017. La nomina di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto di Taranto, per la quale ha ricevuto 18 voti, cioè quello tutti i presenti al plenum del CSM di ieri presieduto dal vicepresidente Giovanni Legnini, da quanto abbiamo appurato, parlando con alcuni magistrati del CSM, è strettamente collegata a quella del suo predecessore Pietro Argentino, nominato nei mesi Procuratore Capo di Potenza. Su proposta della 5a Commissione è stata approvata dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura nella seduta di ieri pomeriggio la nomina del dr. Maurizio Carbone a Procuratore Aggiunto della Procura della repubblica presso il Tribunale di Taranto. Carbone è esponente della corrente di “Area” ed in rappresentanza di questa corrente è stato segretario nazionale dell’ANM (l’ Associazione Nazionale Magistrati). Napoletano, Maurizio Carbone è arrivato a Taranto nel 1996 è esponente della corrente di “Area” la componente più di sinistra della magistratura italiana, quando gli iscritti e i simpatizzanti dei due movimenti “fondatori” di Area si potevano contare sulle dita di una mano, mentre attualmente nel distretto di Lecce – Taranto e Brindisi sono 66 i magistrati aderenti a questa corrente. Dopo avere svolto per 5 anni il ruolo di Presidente della sottosezione ANM di Taranto, è stato eletto nella lista di AREA al CDC, unico candidato unitamente a Stefania Starace non iscritto ai due gruppi di MD e Movimento per la Giustizia ed ha ricoperto per 4 anni (dal 2012 al 2016) il ruolo di Segretario Generale dell’ANM che ha ricoperto per un solo mandato non venendo rieletto.  Nello scorso mese di luglio Carbone è stato eletto dai suoi colleghi a fare parte del coordinamento nazionale di Area.  arrivando terzo con 181 voti. La nomina di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto di Taranto, per la quale ha ricevuto 18 voti, cioè quello tutti i presenti al plenum del CSM di ieri presieduto dal vicepresidente Giovanni Legnini, da quanto abbiamo appurato, parlando con alcuni magistrati del CSM, è strettamente collegata a quella del suo predecessore Pietro Argentino, nominato nei mesi Procuratore Capo di Potenza che ricevette appena 11 voti (solo 1 in più del minimo cioè 10). Infatti in occasione della nomina di Argentino proposta dai membri laici (ex deputati di Forza Italia) del Csm, incredibilmente anche dei togati (cioè magistrati) di Area, appoggiarono la candidatura di Argentino, che fu frutto di una delle tante “lottizzazioni” della magistratura italiana. Come ci ha raccontato un esponente di Area (che ci disse “ho votato per Argentino per indicazione del mio gruppo”) l’accordo fra le correnti delle magistratura è stato raggiunto con uno scambio di “poltrone”, con il quale i membri laici (quindi non magistrati) del centrodestra hanno piazzato sulla poltrona di procuratore capo di Matera Pietro Argentino (la cui ex-moglie è cugina dell’ex-sottosegretario di Forza Italia, Pietro Franzoso tragicamente scomparso alcuni anni fa), appoggiando a loro volta la nomina unanime di Maurizio Carbone a procuratore aggiunto della procura tarantina dove era in servizio come sostituto procuratore. Una Procura quella di Taranto, come ha ricordato il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini, è sotto organico di ben 6 magistrati, per un semplice motivo: nessun magistrato fa richiesta per prendervi servizio. Lasciamo ai nostri lettori di Taranto, che sono numerosi sopratutto a Palazzo di Giustizia ogni considerazione sulla motivazione, che per quanto ci riguarda è superflua. Ma come ha dichiarato ieri un magistrato membro del CSM al CORRIERE DEL GIORNO che per ovvi motivi ci ha chiesto di non essere citato, probabilmente “quella di Taranto non è ritenuta una procura che “conta” e che possa spingere i magistrati italiani a chiedere di prendervi servizio”. La recente condanna definitiva a 8 anni di carcere decretata dalla Suprema Corte di Cassazione nei confronti dell’ormai ex-magistrato Matteo Di Giorgio che era in servizio a Taranto, prima di essere arrestato, spiega tutto. Comprese le false testimonianze che risultano dalla sentenza del Tribunale di Potenza dell’ex procuratore capo di Taranto Petrucci e di un magistrato: tale Pietro Argentino. Sentenza quella del tribunale di Potenza che ha retto in appello ed è stata confermata appunto dagli ermellini della Cassazione. Ma più di qualcuno al Csm evidentemente ha dimenticato le riflessioni del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Canzio quando auspicava che il Consiglio Superiore della magistratura non diventi “terreno di conquista dell’associazione magistrati”. Al dottor Carbone gli auguri di buon lavoro dal CORRIERE DEL GIORNO auspicando che il suo nuovo incarico non risenta dei “condizionamenti” lasciati dal suo predecessore Argentino, il cui trasferimento da Taranto a Matera è stato celebrato e festeggiato nel bar di Palazzo di Giustizia da non pochi avvocati tarantini che credono ancora nella giustizia e sopratutto nel rispetto ed applicazioni della Legge.

Anm, cambiano i vertici Il nuovo presidente? È il pm dell'inchiesta P3. Chiara Sarra il 24 Marzo 2012 su Il Giornale. A sostituire Luca Palamara sarà Rodolfo Sabelli, il pm che condusse l'inchiesta sulla P3. Maurizio Carbone nominato segretario. Cambio ai vertici per l'Associazione nazionale magistrati. A sostituire Luca Palamara sarà Rodolfo Sabelli, il pm che condusse l'inchiesta sulla P3, quella su Enav e quella su Marrazzo. Segretario dell'associazione sarà invece il collega di Taranto Maurizio Carbone. Della nuova giunta fanno parte anche la vicepresidente Anna Canepa (sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia), Angelo Busacca (sostituto procuratore alla Dda di Catania), Alessandra Galli (consigliere di Corte d’appello a Milano), Cristina Marzagalli (giudice del Tribunale di Varese), Ilaria Sasso del Verme (sostituto procuratore a Napoli), Valerio Savio (gip del Tribunale di Roma) e Stefania Starace (giudice del Tribunale di Napoli). Nulla di fatto per Cosimo Ferri, leader di Magistratura indipendente, che, alle elezioni di febbraio, era risultato il più votato. Il Comitato direttivo centrale, il cosidetto "parlamentino", che ha eletto i nuovi vertici per il sindacato delle toghe sperava in una giunta unitaria, ma alla fine l'hanno spuntate le correnti di Unicost e Area, il cartello di sinistra che raggruppa Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, la stessa maggioranza dell’esecutivo uscente. Resta all’opposizione, invece, Magistratura indipendente. La giunta, in ogni caso, dovrebbe durare solo fino al 2013, quando le elezioni cambieranno il quadro politico e quando sarà possibile una giunta unitaria. "Intendiamo rappresentare tutte le sensibilità della magistratura. Ci proponiamo un’unità sostanziale e in un futuro, nei tempi più brevi, anche formale", ha detto Sabelli nella sua prima dichiarazione da presidente sottolineando che tutti i temi al centro dell’agenda politica (responsabilità civile dei magistrati, intercettazioni e corruzione) "sono alla nostra attenzione". Il neo presidente ha anche sottolineato: "Per noi è centrale la questione morale: no a compromessi, no a contiguità, no a gruppi lobbistici di ogni tipo". Chiara Sarra

Il discredito sul Csm inizia prima del caso Palamara. Intervista a Claudio Martelli: “Il fango che ha travolto le toghe è colpa dell’Anm”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 6 Agosto 2021.Il pianeta giustizia rivisitato da Claudio Martelli, Ministro di Grazia e Giustizia dal febbraio del 1991 al febbraio 1993, vice presidente del Consiglio, esponente di primo piano del Partito socialista italiano, ed oggi direttore dell’Avanti.

Molto si discute, e ci si divide, sulla riforma Cartabia, così come è stata licenziata dal Consiglio dei Ministri e approvata dalla Camera con il voto di fiducia. Lei come la pensa?

Penso che dobbiamo dire grazie a Mario Draghi e a Marta Cartabia per aver eliminato dalla nostra legislazione l’orrore giustizialista dell’abolizione della prescrizione dunque l’aspetto più incivile della legge Conte/Bonafede per altro votata prima anche dalla Lega e poi anche dal Pd quando l’una e l’altro sono stati al governo con i 5 Stelle.

Scrive Tiziana Maiolo: «Alla faccia della certezza del diritto, è il trionfo dei “salvo che”: dopo l’appello il processo può durare tre anni ma anche sei. Di certo c’è che il 70% delle prescrizioni si verifica durante le indagini preliminari e il primo grado. E che l’obbligatorietà dell’azione penale non esiste, esiste il totale arbitrio dei pm…». Insomma, è la vittoria del “travaglismo”?

Tiziana è generosa, veemente e anche esagerata. No, questa non è la legge di Travaglio e basta leggere gli argomenti e le ingiurie riservati da Travaglio a Draghi e a Cartabia per rendersene conto. Detto questo che alcuni processi – alla mafia, al terrorismo ecc – durino più di altri è nella natura delle cose. I processi al crimine organizzato sono più complessi e più lunghi di quelli con un solo imputato, la selezione delle prove e delle testimonianze valide più ardua. Tiziana ha ragione nel rilevare che il grosso delle prescrizioni avveniva nel corso delle indagini preliminari e il primo grado e su questo la legge è lacunosa e contraddittoria. Spero che i compromessi imposti dai 5 Stelle non si rivelino più forieri di abusi di quanto appaiono. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale interpretarla in modo intelligente e non scolastico dovrebbe essere compito della Corte Costituzionale, in assenza occorre una procedura di revisione per la quale oggi mancano sia il tempo sia la volontà politica della maggioranza parlamentare.

In un recente articolo sul “Corriere della sera” dal titolo: “Riforma della Giustizia: Toghe e doppie verità”, Paolo Mieli ha espresso, argomentandoli, un timore e un allarme. Il timore: «Che le loro istituzioni, a cominciare dal Csm, siano già sprofondate nel più assoluto discredito». L’allarme: «Che procure, passate alla storia come templi della legalità, siano oggi sconvolte da lotte fratricide». Che dire?

Che a dirlo sia anche Paolo Mieli per lunghi anni schierato con la Procura di Milano vuol dire che il vaso è proprio colmo. I garantisti e quanti hanno a cuore il buon funzionamento delle istituzioni e in particolare della magistratura non hanno aspettato l’ondata di fango sollevata dal caso Palamara. E, comunque, Mieli non va al fondo della questione: il Csm è sprofondato nel discredito da gran tempo cioè da quando la sua elezione e il suo funzionamento sono stati sequestrati dall’Associazione nazionale magistrati. Quello è il luogo in cui si unisce per i suoi scopi la magistratura politicizzata e clientelizzata, il luogo in cui le correnti ordiscono le loro trame, le loro spartizioni lottizzando nomine, promozioni ed esclusioni, trasferimenti e sanzioni disciplinari. L’Anm è il tempio delle correnti, l’epicentro che raccoglie e irradia il malcostume giudiziario.

La riforma della giustizia non si esaurisce con la Cartabia. Quali sono, a suo avviso, le questioni cruciali a cui dare risposta?

Cominciamo da quelle poste dai referendum radicali: separazione delle carriere, riforma del Csm, responsabilità civile del magistrato che sbaglia, gli abusi nella carcerazione preventiva, l’abrogazione della legge Severino che prevede la condanna e i suoi effetti di decadenza dalle cariche anche per chi sia stato condannato per un reato che tale non era al momento in cui fu commesso il fatto. Già queste riforme purificherebbero di parecchie storture il nostro sistema giudiziario riallineandolo almeno in parte con quello delle migliori democrazie. Suggerisco una ragionata depenalizzazione di reati che non minacciano la sicurezza pubblica non per “svuotare le carceri” ma per l’assurdità e l’inumanità di tenere in carcere malati di mente, tossicodipendenti per non dire dei tantissimi detenuti in attesa di giudizio e dunque innocenti fino a prova contraria. Aggiungerei di applicare finalmente il dettato costituzionale che mentre sancisce la piena autonomia e indipendenza dei giudici invitava – e invita! – il legislatore a definire con legge ordinaria l’autonomia e l’indipendenza dei pubblici ministeri. Dunque i padri costituenti avevano ben chiara la differenza sostanziale che c’è tra un giudice e un procuratore, sono i loro cultori accademici che se ne sono dimenticati. Infine è tempo di una riflessione sulla trentennale esperienza del codice Vassalli. Finché la parità nel processo e prima del processo – cioè nella fase delle indagini – non sarà assicurata nei fatti dall’autorità di un giudice dell’indagine dotato di veri poteri in molti di noi crescerà la nostalgia del giudice istruttore di un tempo cioè di qualcuno in grado di frenare l’esuberanza di troppi pubblici ministeri.

La metto giù un po’ brutalmente: perché al Pd e alla sinistra fanno così paura i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali?

All’inizio di questa storia ci fu l’incontro tra l’uso politico della magistratura da parte dell’opposizione comunista e la vocazione a essere contropotere di una parte della magistratura. Poi la voluta confusione tra questione morale e questione politica e tra sfera morale e sfera penale. Non dimentichiamo che il Pci screditò persino Falcone perché Falcone non si piegò mai a un uso politico della giustizia. Quanto al Pd nasce dalla fusione a freddo tra gli ex comunisti del Pds e gli ex Dc di sinistra, le due correnti scampate o salvate da Mani Pulite con i loro leader, Prodi e D’Alema. Forse fu un empito di gratitudine forse altro, sta di fatto che Il primo nomina Di Pietro deputato del Mugello, il secondo lo fa ministro dei lavori pubblici. Purtroppo quella fu la pasta e quello il lievito poi montato a dismisura nel ventennio dell’antiberlusconismo. Ancora nel 2008 Veltroni il Buono preferì allearsi con Di Pietro anziché col partitino socialista del tempo. Ulivo e Pd hanno avuto ministri della Giustizia Flick, Diliberto, Fassino, Orlando eppure nessuno di loro si è mai distinto per un approccio, tantomeno una riforma, di stampo garantista. Ci sono state nella storia eccezioni importanti come quelle di Emanuele Macaluso e di Gerardo Chiaromonte, di Giovanni Pellegrino e di Luigi Manconi, ma mai una revisione di fondo che insegnasse a guardare la giustizia dalla parte dei cittadini anziché dalla parte dello Stato e del suo apparato repressivo. Fa impressione riflettere che quella sinistra convertita in un batter d’occhio dall’Urss agli Usa, dall’anti capitalismo al liberismo e alla globalizzazione, non ha mai avuto il coraggio di divorziare da quel cancro della civiltà che è il giustizialismo. Giusto ma forse ozioso chiedersi se i compromessi peggiorativi imposti dal Pd alla riforma Cartabia siano la coda di quella malattia o la conseguenza dell’irresistibile fascino di Conte e Bonafede. Una cosa non esclude l’altra.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Le rivelazioni dell'ex zar delle nomine. Palamara senza freni: “Giovanni Salvi mi invitò a pranzo, voleva fare il Procuratore generale…” Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2021. «Giovanni Salvi mi offrì un bel pranzo con lo scopo di “autosponsorizzarsi” per l’incarico di procuratore generale della Cassazione». Lo ha detto ieri Luca Palamara, ormai senza più freni, davanti al gup di Perugia Piercarlo Frabotta. Durante l’ultimo giorno dedicato alle deposizioni spontanee, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ha prodotto anche la chat con l’allora procuratore generale di Roma. «È il mese di giugno del 2017 e Salvi, pg a Roma, capisce che è giunto il momento di attivarsi se vuole aspirare a diventare il procuratore generale della Cassazione», esordisce Palamara che in quell’anno era il potente presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. Il posto di pg a piazza Cavour è un incarico, ovviamente ambitissimo, e gli aspiranti iniziano a muoversi con almeno sei mesi di anticipo. Salvi, allora, decide di organizzare un “pranzo preparatorio” sulla terrazza del Martis Palace, un lussuoso hotel nel centro di Roma alla presenza anche del vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Il Martis Palace è uno dei più belli alberghi di Roma e d’Italia, almeno leggendo le recensioni. «Fiore all’occhiello – si legge sul sito dell’hotel – è uno splendido Roof Bar con una vista a 360° su tutti i monumenti e siti archeologici del centro storico romano: una vista che spazia dall’Altare della Patria al Pantheon e dal Gianicolo a Piazza Navona. In questa cornice mozzafiato è possibile rilassarsi con stuzzicanti aperitivi e dissetanti cocktail, o organizzare indimenticabili eventi esclusivi». Il prestigioso invito, però, non riscuote successo. Non per la qualità delle pietanze ma perché Palamara per l’incarico di pg in Cassazione ha già pensato a Riccardo Fuzio, all’insaputa di Legnini che puntava su Salvi. Il 14 dicembre è il giorno del voto alla Commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura. La sera prima Palamara poteva contare solo suo voto e su quello di Luca Forteleoni, togato di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. La mattina del voto, come i pesci del lago di Tiberiade, i voti raddoppiano. Per Fuzio vota il laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin e, soprattutto il togato Aldo Morgigni, davighiano della prima ora. Come ha fatto Palamara a convincere Morgigni? Con il solito gioco delle correnti. «Gli ho promesso che sistemavo in Cassazione un uomo di Autonomia&indipendenza, la corrente di Davigo”, ricorda Palamara. Il “baratto” va in porto e per Fuzio è fatta. Salvi verrà votato solo dal togato progressista Antonello Ardituro. Il laico Renato Balduzzi si asterrà. Le sorprese non sono finite. La sera del voto Palamara si precipita «dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone» per aggiornarlo. Pignatone, racconta Palamara, in quel momento era vicino a Fuzio e non era in buoni rapporti con Salvi, di fatto il suo “superiore”. Il motivo? Sempre nomine. Non ci si sbaglia. Salvi, ricorda Palamara «quando era consigliere del Csm lo aveva bocciato per diventare procuratore di Palermo preferendogli Francesco Messineo». Fuzio nel 2019 sarà poi costretto alle dimissioni e Salvi prenderà allora il suo posto. Fra i primi atti del neo pg della Cassazione l’anno successivo, la nota circolare che esclude la punibilità disciplinare per i magistrati che si “autosponsorizzano” per avere un incarico con i consiglieri del Csm. Terminati gli interrogatori, oggi è prevista la decisione di Frabotta sul rinvio a giudizio o meno di Palamara. Paolo Comi

Giacomo Amadori per "la Verità" il 23 luglio 2021. Circa un anno fa, presentando le linee guida per i giudizi disciplinari collegati al caso Palamara, il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, l'inquirente più alto in grado della magistratura, aveva stabilito che «l'attività di autopromozione» delle toghe nei confronti dei consiglieri del Csm, «effettuata direttamente dall'aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Alcuni giudici fuori dalle correnti avevano ironizzato: «Secondo l'indulgente Procuratore generale, il self marketing rientra nel necessario bagaglio professionale di ogni magistrato aspirante ad un incarico direttivo. Perché se lo fa uno allora anche il competitore è legittimato a farlo, anzi deve». Chissà cosa diranno adesso che Luca Palamara, nelle spontanee dichiarazioni rese ieri a Perugia, ha approfondito la vicenda della presunta «autopromozione» che Salvi, il Pg che lo ha fatto radiare, avrebbe portato avanti con lui. Davanti al gup Piercarlo Frabotta (che oggi dovrebbe decidere sull'eventuale rinvio a giudizio) Palamara ha dovuto spiegare, su richiesta del giudice, una chat con l'amico poliziotto Renato Panvino. Il quale, a un certo punto, mentre si lamenta del ministro dell'Interno Marco Minniti («Spero che il pelato non mi lasci qui a morire») chiede a Palamara di salutargli Salvi. Essì perché i due magistrati in quel momento stanno per vedersi. In una cornice davvero esclusiva, quella del Martis Palace, la cui terrazza affaccia sui tetti intorno a piazza Navona. Un albergo lussuoso il cui ristorante, come si legge sul sito, «grazie all'estro creativo dello chef», propone manicaretti che conciliano tradizione e modernità come lo «scrigno cacio e pepe con dadolata di pere» e le «tagliatelle di farro bio alla "gricia"». L'ex leader della corrente di Unicost ha persino consegnato una brochure ai magistrati perugini, accompagnandola con queste parole: «Questa è la terrazza con Salvi che non ha mai visto nessuno per dire che non avevamo bisogno del buon Centofanti (Fabrizio, il lobbista accusato di essere il corruttore di Palamara, ndr) per mangiare mangiavamo da soli». L'ex presidente dell'Anm ha esibito anche la chat con lo stesso Pg, il quale alle 12 e 14 del 23 giugno 2017 gli scrisse: «Perché non resti anche a pranzo? Colazione leggera, ma gustosa». Un invito che l'ex pm accettò «con piacere». Di fronte al gup ha dettagliato la presunta «autoraccomandazione» del Pg: «Il 23 giugno è il giorno del famoso incontro su questa terrazza romana tra me e Salvi (allora, ndr) Pg della corte d'appello []. Perché è importante la chat con Salvi? Perché testimonia come l'attività di lobbista di Centofanti non c'entrasse nulla con le nomine. Su quella terrazza io vengo invitato da Salvi e mi sono alzato dal tavolo senza avere pagato il pranzo che mi era stato offerto [] Questo era un sistema che funzionava. Se il Procuratore generale mi invita e si autoraccomanda è perché così funzionava, al punto che addirittura bisognava partire con 6 mesi di anticipo perché il procuratore Salvi sa del mio rapporto con Riccardo Fuzio (l'altro candidato Pg, coindagato di Palamara, ndr), sa che ormai io sto prendendo un'altra strada». Nel senso che sta sparigliando e sta mandando all'aria la vecchia maggioranza di centro-sinistra che comandava nella magistratura. Ma allora perché quel pranzo? «Io in quel momento ho un rapporto importante con il procuratore Salvi che origina dal suo trasferimento da Catania a Roma (sostenuto anche da Palamara, ndr), rispetto a quella situazione si cercano di ristabilire dei contatti». Però, al Martis Palace, l'ex pm non si sarebbe fatto convincere: il suo candidato e quello del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone resta il centrista Fuzio e non il progressista Salvi. In aula Palamara ha raccontato che il 14 dicembre 2017, senza dir niente al vicepresidente del Csm, il piddino Giovanni Legnini («che si arrabbiò molto»), in commissione sposta quattro voti su Fuzio lasciando a Salvi solo quello del consigliere di Md. L'ex pm ha spiegato a Perugia che a convincere Autonomia e indipendenza e Magistratura indipendente è stato «un accordo correntizio» per far votare da Unicost Giovanni Mammone (di Mi) come primo presidente della Cassazione e Stefano Schirò (di A&i) come aggiunto. La sera del 14 dicembre Palamara andò a casa di Pignatone a «esultare» visto che l'attuale presidente del Tribunale del Vaticano «era in quel momento più vicino a Fuzio perché nella sua testa Giovanni Salvi era il consigliere che all'epoca gli preferì Francesco Messineo come procuratore di Palermo». Insomma dietro alle nomine ci sarebbero anche vecchi regolamenti di conti. Ma dopo la sbronza di euforia Pignatone avrebbe rivelato a Palamara l'esistenza dell'inchiesta sui suoi rapporti con Centofanti: «Nel momento in cui mi stavo allontanando Pignatone mi richiama e mi fa quella che per me lo so che siamo al limite di una rivelazione, ma in quel momento sono rapporti umani e personali [ ] è un amico è un riferimento che dice "fai attenzione la tua frequentazione va avanti da un anno [] adesso, come è doveroso, dovranno essere svolti accertamenti su tutto ciò che è accaduto"». Nel febbraio del 2018 Centofanti viene arrestato e a maggio dello stesso anno il fascicolo viene trasferito a Perugia per gli accertamenti su Palamara. Ieri abbiamo contattato Salvi per raccogliere un commento sulle dichiarazioni di Palamara: «Valuterò il da farsi. Le posso dire che le cose non sono assolutamente andate in quei termini e per rendersene conto basterebbe leggere altre comunicazioni. Io non ho avuto nessun favore e non ho chiesto nessun favore. Non c'è nulla in questa vicenda di cui mi debba vergognare, al contrario e chiunque facesse una verifica su quello che è successo in quei sei mesi lo potrebbe vedere senza alcun bisogno di dichiarazioni da parte mia».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2021. Circa sei ore. Tanto è durata ieri a Perugia la deposizione di Luca Palamara davanti al giudice Piercarlo Frabotta. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, dopo aver rilasciato delle «spontanee dichiarazioni», si è fatto anche interrogare dai magistrati umbri per chiarire una volta per tutte come funzionava il «sistema delle nomine» al Consiglio superiore della magistratura. Secondo la procura di Perugia un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto Fabrizio Centofanti, un lobbista che era stato poi arrestato insieme all'avvocato Piero Amara, quest' ultimo noto alle cronache per aver rivelato l'esistenza della loggia segreta "Ungheria", una sorta di P2 finalizzata ad aggiustare i processi e condizionare gli incarichi ai vertici dello Stato. Palamara, in particolare, sarebbe stato corrotto con pranzi, cene e viaggi da Centofanti. In cambio di queste "utilità" il magistrato gli avrebbe consentito di «partecipare a incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm nei quali si pianificavano le nomine». Inoltre Palamara si sarebbe reso disponibile ad accogliere le richieste di Centofanti «finalizzate ad influenzare nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare». Niente di più falso, ha ribadito più volte Palamara davanti al giudice. Le nomine dei procuratori e dei presidenti, ha puntualizzato, sono state decise sempre e soltanto dalle correnti della magistratura. È impensabile, ha ricordato Palamara, che un soggetto estraneo potesse condizionare in alcun modo le scelte del Csm. Palamara ha fatto anche degli esempi. Il più emblematico, certamente, quello relativo alla procura di Milano. Dopo il pensionamento di Edmondo Bruti Liberati avevano fatto domanda per diventare procuratore Giovanni Melillo, Nicola Gratteri e tre procuratori aggiunti milanesi: Ilda Boccassini, Alberto Nobili e Francesco Greco. «I magistrati di Milano volevano Nobili», ha ricordato Palamara, «ma gli accordi fra correnti fecero però vincere Greco». E sempre per rimanere alla Procura di Milano, tutti i procuratori aggiunti, quindi i più stretti collaboratori del procuratore, verrebbero scelti per logiche che nulla hanno a che vedere con il merito, essendo condizionate dai legami territoriali-correntizi. Non ci sarebbe spazio, dunque, per candidature esterne. Un accenno Palamara lo ha fatto anche alla genesi dell'indagine nei suoi confronti. «Tutti sapevano che ero indagato», ha detto: «Nei corridoi della Procura di Roma non si parlava d'altro». C'era «diffidenza» da parte dei colleghi, al punto che «avevo anche pensato di abbandonare la Capitale per il clima che si era creato». Alcuni magistrati gli dissero di stare poi «lontano da Cosimo Ferri», deputato renziano di Italia viva e per anni ras indiscusso delle toghe di "destra". «Il trojan ha registrato una conversazione poco simpatica fra me e Cosimo Ferri in cui parlavamo della pm Gemma Miliani», legata alla moglie di Ferri da rapporti di amicizia e familiarità, ha ricordato Palamara. Dell'indagine, pare, fosse poi a conoscenza anche il consigliere giuridico del Quirinale Stefano Erbani. Il collaboratore di Sergio Mattarella avrebbe detto ad un consigliere del Csm che esisteva a Perugia una informativa sui viaggi e sulle cene nei confronti di Palamara. L'ex numero uno dell'Anm, infine, si è anche tolto qualche sassolino dalle scarpe. Nel mirino il funzionamento a singhiozzo del trojan che era stato inserito nel suo cellullare.  Il virus spia non aveva registrato, ad esempio, la sua cena con il procuratore Giuseppe Pignatone.

Lo sfogo di Palamara: «Hanno cucito su di me il vestito del corrotto». L'ex capo dell'Anm racconta la sua verità nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup di Perugia: «Non più parole, ma fatti». Simona Musco su Il Dubbio il 21 luglio 2021. «In qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto». Parla tanto Luca Palamara, ex presidente dell’Anm ed ex zar delle nomine, che non accetta di essere un capro espiatorio. E lo fa nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup di Perugia Piercarlo Frabotta, raccontando per otto ore la sua versione della storia. «Non più parole, ma fatti», ha spiegato l’ex pm romano. E i documenti riguardano soprattutto i lavori di ristrutturazione della casa della coimputata Adele Attisani, lavori che secondo l’accusa Palamara avrebbe fatto pagare al lobbista Fabrizio Centofanti, che ha chiesto di patteggiare un anno e sei mesi. Attisani, nel corso dell’udienza di lunedì, ha negato di aver fatto pagare ad altri i lavori a casa propria, depositando un bonifico da lei effettuato pari a 19.800 euro. «Il bonifico dimostra che la parte dei lavori relativa al cosiddetto lastrico solare era stata pagata già dal 2012 dalla signora – ha evidenziato Palamara – che si è assunta la piena titolarità delle lavorazioni commissionate, escludendo il coinvolgimento di terzi». Ma la difesa dell’ex consigliere del Csm ha anche effettuato una perizia finalizzata a sgonfiare il residuo dei lavori. «Il dato che più ci ha inquietato – ha sottolineato l’ex pm – è che per calcolare il valore della veranda si è fatto ricorso addirittura a delle fatture false, ovvero non relative a lavori eseguiti su quella abitazione, ma su un’altra. Non trovando prova della corruzione, come già riconosciuto dal gip (Lidia Brutti, che ha negato l’esistenza di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ndr), l’unica soluzione era gonfiare i lavori di questa casa». Per Palamara, il processo non può essere un regolamento dei conti tra accusa e difesa: «Tutte le anomalie che sono emerse sono state per noi la spia di qualcosa che non ha funzionato. L’ipotesi è che in realtà i problemi sono altri, legati al trojan e all’hotel Champagne (dove si discusse della nomina del procuratore di Roma, ndr): in qualche modo mi si doveva cucire addosso il vestito del corrotto», ha aggiunto. E anche sui presunti viaggi pagati da Centofanti, l’ex toga ha tirato fuori un’intercettazione che potrebbe aiutarlo: «Relativamente al viaggio a Dubai, c’è una intercettazione tra il titolare dell’agenzia viaggi e Centofanti, in cui quest’ultimo dice: “paga Luca, come sempre”. L’intercettazione, proveniente da un altro procedimento, era rimasta sommersa negli atti». Nelle dichiarazioni rilasciate alla procura di Perugia, Centofanti ha raccontato di una cena con l’ex presidente del tribunale di Roma, Francesco Monastero, organizzata da Palamara in vista della nomina a febbraio 2016, cena alla quale avrebbero partecipato anche il deputato di Italia viva Cosimo Ferri (già leader di Magistratura indipendente), la presidente del Senato Elisabetta Casellati (all’epoca consigliera del Csm) e altri magistrati. «È inquietante che il 21 giugno del 2021, circa tre anni dopo l’inizio delle indagini, si facciano gli accertamenti su quella cena, che si tiri in ballo il presidente del tribunale di Roma Monastero, che si dica che c’è stata una cena pagata alla quale io avrei partecipato – ha sottolineato – e che non si controlli quello che già risulta agli atti, ovvero la mia agenda, dalla quale risulta che quel giorno sono stato a casa di Balducci (Paola, ex consigliere del Csm, ndr). È grave che non si facciano accertamenti del genere». Ma Palamara va oltre: non è mai esistita, sostiene, una cena finalizzata alle nomine alla quale abbia partecipato Centofanti. «Le nomine sono sempre state il frutto di accordi tra correnti – ha ribadito -. Troppo facile rendere dichiarazioni basandosi sulle mie chat e leggendo i miei interrogatori. Non bisogna ingannare i cittadini. Nessuno, e dico nessuno, ha influenzato le scelte e le decisioni da me fatte. Se altri vogliono raccontare situazioni diverse, e il riferimento è ad Amara, non si deve tirare in mezzo chi non c’era, cioè me. Io sono un uomo delle correnti e lì dentro operavo. Perché avrei dovuto portare Centofanti? Non c’è un motivo logico». Perché, dunque, Centofanti avrebbe raccontato circostanze del genere? La risposta alla domanda rivolta dal gup è semplice, secondo Palamara: «Sta cercando una via d’uscita dal processo, perché questo, nell’immaginario collettivo, viene visto come un regolamento di conti tra me e una parte della magistratura. Ovvio che chi non c’entra niente cerchi in qualche modo di tutelarsi – ha aggiunto -. Centofanti, che io ho frequentato in veste di amico e non di lobbista, dice il vero quando conferma che io pagavo da me i viaggi, di non aver pagato i lavori della casa e quando dice di avermi invitato a cena più di una volta, nell’ambito di un rapporto di amicizia con il procuratore Pignatone e con ufficiali della Finanza. Ma gli altri discorsi, relativi alla partecipazione alle cene, sono un tentativo di captatio benevolentiae». Durante l’udienza, Palamara ha confermato di aver saputo dell’indagine sul suo conto da Giuseppe Pignatone, già a dicembre del 2017. E in merito alla famosa cena di commiato dell’ex procuratore, della quale non c’è traccia nelle intercettazioni effettuate dal trojan inoculato nel suo telefono, l’ex pm ha affermato di aver discusso, in quella occasione, anche della nomina a procuratore di Roma, rimarcando la stranezza che nonostante sia stato proprio Pignatone ad autorizzare l’utilizzo dei server a Roma per azionare il trojan lo abbia invitato ad una cena ristretta.

Luca Palamara picchia durissimo sulla magistratura: "Al servizio di interessi superiori e politici". Libero Quotidiano il 15 luglio 2021. Dalla magistratura alla politica. Luca Palamara pensa già al futuro e si dice pronto a mettere in campo le sue esperienze: "Non sono mai stato alla ricerca di cariche - premette -, né mi sono mai proposto ad alcuno. Nello specifico nessuno ovviamente mi ha proposto tale candidatura. In ogni caso, il mio contributo per la cosa pubblica va verificato anche sulla base delle attitudini e della opportunità che una figura come la mia con il proprio vissuto e la propria esperienza può dare alla collettività". L'ex magistrato, ora indagato per corruzione, spiega al Tempo di non essere "un uomo per tutte le stagioni e per tutti gli incarichi", quindi "se ciò che mi venisse proposto fosse nelle mie corde e capissi di poter dare un contributo serio al pubblico, valuterò, perché no? Di certo Palamara non le manda a dire ai colleghi e, dopo aver scoperchiato lo scandalo della magistratura piena di falle, ecco che rincara la dose. L'ex membro del Consiglio superiore della magistratura attacca quel "Sistema" da cui prende il nome il suo nuovo libro, scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti: "Lo stretto rapporto pm-giornalisti è servito e serve ad intensificare e rafforzare il Sistema. Basti pensare alla fuga di notizie". A detta di Palamara ci sono cose, intercettazioni comprese, in mano a una ristretta cerchia di persone. Tra questi i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. "In altre parole - scende nel dettaglio puntando il dito -, la magistratura sembra avere una funzione servente rispetto ad interessi superiori e politici. Eppoi, il venir meno dell'autorizzazione a procedere ha fatto mancare quella linea di confine tra politica e magistratura e le doverose indagini sul potere che la magistratura deve sempre comunque svolgere finiscono in realtà per essere strumentalizzate agli occhi dell'opinione pubblica per favorire una parte politica a scapito dell'altra". E l'ex toga non ha dubbi su chi sia questa parte politica: "Non sono mai entrato nel merito dei processi, ma è indubbio che la caratterizzazione politica, che in alcune circostanze anche la magistratura associata facendo sponda con il più grande partito di sinistra, ha finito per trascinare nel vortice anche quei giudici titolari di delicate inchieste nei confronti del potere politico".

Giacomo Amadori per "la Verità" l'8 luglio 2021. Con un ultimo colpo di teatro la Procura di Perugia ha proceduto a «derubricare» il reato di corruzione in atti giudiziari, punito con una pena da sei a dodici anni, contestato a Luca Palamara soltanto a febbraio di quest' anno a seguito delle dichiarazioni del pentito prêt-à-porter Piero Amara, sostituendolo con il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione, punito oggi con la pena da tre a otto anni, che, però, nel caso di Palamara, scende da uno a sei anni poiché si tratta di fatti commessi prima della cosiddetta legge Spazzacorrotti del 2019. Cioè Palamara non si sarebbe fatto corrompere con cene e viaggi per sistemare un procedimento giudiziario, bensì per il solo fatto di essere stato un magistrato e consigliere del Csm. Resta da valutare quale possa essere l'atteggiamento del gup Piercarlo Frabotta all'udienza di oggi, posto il principio di obbligatorietà e irretrattabilità dell'azione penale, dopo l'abbandono da parte della Procura dell'ipotesi più grave contestata. Infatti a solo cinque mesi di distanza dalle nuove accuse di Amara contro Palamara, anche la Procura di Perugia deve aver capito che puntare su questo pentito così chiacchierato avrebbe potuto trasformarsi in un clamoroso autogol, soprattutto dopo che è scoppiato il caso dei verbali milanesi e della fantomatica loggia Ungheria e lo stesso è stato accusato di calunnia. In Umbria hanno così preferito «aggrapparsi» alle più recenti spontanee dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti, il presunto corruttore dell'ex presidente dell'Anm. Peccato che Amara, dopo essere stato arrestato su richiesta della Procura di Potenza l'8 giugno avesse dichiarato di essere stato lui ad «aver costretto a pentirsi» lo stesso Centofanti a Perugia. Un'affermazione suffragata dal fatto, che in teoria, l'avvocato siracusano, nulla avrebbe potuto sapere dei verbali dell'amico. Vale la pena di riprendere le ondivaghe contestazioni perugine per comprendere la labilità delle accuse. Nel decreto di perquisizione del 29 maggio 2019 a Palamara veniva contestata la corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio (da 6 a 10 anni) per una presunta mazzetta da 40.000 euro che avrebbe ricevuto per la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la corruzione in atti giudiziari (6-12 anni) per avere ricevuto da Centofanti, Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2.000 euro, viaggi e vacanze con l'obiettivo di far sanzionare nel disciplinare del Cms l'allora pm siracusano Marco Bisogni. Subito dopo la Procura generale della Cassazione, il ministro della Giustizia e il Csm hanno contestato a Palamara gli stessi fatti e lo hanno sospeso dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di un mese. Nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari del 20 aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio viene contestata solo la corruzione per l'esercizio della funzione (per Palamara da 1 a 6 anni). Scompaiono i 40.000 euro per la nomina di Longo e l'anello. In quel momento Palamara è accusato di essersi fatto pagare viaggi, vacanze e lavori edili in gran parte mai saldati, né eseguiti a casa della sua amica Adele Attisani. E queste utilità Palamara le avrebbe ricevute «per l'esercizio delle funzioni svolte» dal solo Centofanti. Vengono infatti depennati Amara e Calafiore i quali, il 29 maggio 2019, risultavano essere il motore della corruzione, essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, il 25 novembre 2020, si svolta ancora. A luglio è arrivato il nuovo procuratore Raffaele Cantone e con lui viene specificato che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale «membro» del Csm «per l'esercizio delle funzioni svolte all'interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari». Nuovo colpo di scena all'udienza del 22 febbraio 2021, quando si cambia ancora, per tornare, in una certa misura, al passato, grazie ai verbali nuovi di zecca di Amara e Calafiore. Qui, per non farsi mancare nulla, vengono contestate tutte le sfumature della corruzione (tre diversi articoli) e questa volta Palamara avrebbe ricevuto in dono viaggi e vacanze «prima quale sostituto procuratore della Procura di Roma ed esponente di spicco dell'Associazione Nazionale Magistrati fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Csm» per una serie di «attività» che vanno dall'acquisizione di «informazioni riservate», non meglio indicate, sui «procedimenti in corso» a Roma e a Messina su Centofanti, ma anche su Amara e Calafiore (che però non sono imputati) e per la disponibilità a influenzare le nomine del Csm (ritorna il nome di Longo, ma non i 40.000 euro) e i procedimenti disciplinari. Ed eccoci a due giorni fa. Con un cosiddetto atto fuori udienza del 6 luglio 2021, ma verosimilmente in vista dell'appuntamento di oggi davanti al gup Frabotta, i pubblici ministeri Cantone, Gemma Miliani e Mario Formisano «viste le dichiarazioni di Centofanti Fabrizio», sono state modificate per la quinta volta le imputazioni ritornando all'ipotesi più lieve della corruzione per l'esercizio della funzione laddove Palamara l'avrebbe posta in essere consentendo a Centofanti di «partecipare a incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm [] nei quali si pianificavano nomine», ma anche «per la disponibilità dimostrata di poter acquisire [] informazioni anche riservate sui procedimenti in corso» e «in particolare» quelli già citati di Roma e Messina e, infine, «per la disponibilità del Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate a influenzare» anche attraverso altri consiglieri, «nomine e incarichi» del Csm e «decisioni della sezione disciplinare». Un'attitudine che, a dire dello stesso Centofanti, non si sarebbe mai tradotta in nulla di concretamente legato all'attività dell'ex magistrato, se non, grazie alle frequentazioni di toghe altolocate, nell'aumento di fatturato della propria agenzia di pubbliche relazioni. In pratica Palamara, in cambio della frequentazione di qualche magistrato, avrebbe spillato a Centofanti, per circa un decennio, viaggi e cene. Infatti tra le utilità contestate si sono aggiunti un trasloco di mobilio, trattamenti di bellezza e passaggi in taxi Roma-Fiumicino e mangiate per 31.000 euro, crapule che sarebbero state organizzate da Palamara in tre ristoranti romani, ma senza la specificazione delle date e dei partecipanti.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 7 luglio 2021. Nessuna novità esplosiva, e d' altronde la Commissione Antimafia non era la sede giusta per rivelazioni ad effetto. Ma il quadro che Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, traccia ieri davanti ai membri della commissione è più che sufficiente a capire perché in molti abbiano cercato di impedirne l'audizione. Palamara infatti descrive in modo ancora più crudo del solito i meccanismi di potere che governavano la magistratura italiana. E rivela qual era lo spauracchio che agitava i sonni della corporazione in toga: «Già da quando ero presidente dell'Anm la riforma che temevamo di più era quella del sorteggio, perché avrebbe scardinato il sistema delle correnti». È una ostilità che non si è placata: ora che di forme di sorteggio del Csm compatibili con la Costituzione si torna a parlare, l'opposizione da parte dell'Associazione è quasi compatta. Palamara non si tira indietro neanche davanti al tema più scottante, quello direttamente collegato alla sua convocazione a Palazzo San Macuto: la manovra che impedì che alla guida del Dap, la direzione delle carceri, approdasse il pubblico ministero palermitamo Nino Di Matteo, sorpassato in extremis da Francesco Basentini. «È stato messo in moto un meccanismo rispetto al quale il profilo di Di Matteo poteva essere ingombrante», ha spiegato Palamara. Di Matteo era «ingombrante» nonostante che «il tema del 41bis o tematiche dell'antimafia erano di più spiccata conoscenza di un magistrato impegnato in un processo sulla trattativa Stato-mafia». Al posto di Di Matteo arrivò Basentini, grazie a un meccanismo che Palamara definisce «parallelo» a quello delle correnti: «Direttamente o no, le correnti hanno influito sugli incarichi apicali del ministero della Giustizia. Nel caso di Basentini non c' è stata una diretta interlocuzione tra il ministro e i vertici della corrente», la nomina è avvenuta senza passare per le correnti ma sulla base di un «meccanismo parallelo». Lo strapotere delle correnti resta comunque il leit motiv della testimonianza di Palamara: «Vorrei tranquillizzare tutti e fare pulizia delle millanterie: se qualcuno sceglie sulle nomine sono solo le correnti, al di là dei racconti roboanti fatti in altre sedi. È difficile che il miglior influencer possa scavalcare il meccanismo delle correnti. I magistrati presenti in questa aula sanno bene che se un esterno ha un desiderio, ovvero che un suo amico possa essere eletto procuratore della Repubblica, ma quell' amico non appartiene alle correnti, non ci riuscirà mai». E sembra una risposta indiretta a chi, come l'avvocato Amara, dice a verbale di avere influito su nomine eccellenti.

Paolo Ferrari per "Libero quotidiano" il 7 luglio 2021. «Il sistema è imploso. Solo che adesso, dopo aver spazzato via i gruppi di centro e di destra, è tutto spostato a sinistra». L' intervento a gamba tesa è di Giusi Bartolozzi, magistrata e parlamentare di Forza Italia. Ieri, durante l'audizione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara davanti alla Commissione parlamentare antimafia, la deputata azzurra aveva chiesto se i gruppi della sinistra giudiziaria avessero partecipato alla lottizzazione delle nomine. Fino a questo momento, infatti, i gruppi coinvolti nello scandalo delle nomine, emerso dopo la pubblicazione delle celebri chat di Palamara, erano solo quelli di Magistratura indipendente e di Unicost Il primo, di destra, legato a Cosimo Ferri, il secondo, di centro, direttamente a Palamara. La magistrata, in particolare, aveva interrogato l'ex collega sulla nomina di Giuseppe Cascini a procuratore aggiunto a Roma. Cascini è ora componente del Consiglio superiore della magistratura ed è colui che sta valutando le chat di Palamara, sia ai fini disciplinari che per il conferimento degli incarichi. Nel 2017, ricostruisce Palamara che all' epoca era il capo della Commissione che effettuava le nomine, il pm romano Sergio Colaiocco, il magistrato che sta indagando sulla morte di Giulio Regeni, era in pole per diventare aggiunto. Nella spartizione degli incarichi romani, prosegue Palamara, quel posto spettava ad un magistrato di Unicost, la corrente alla quale era iscritto Colaiocco. Sembrava fatta quando spuntò il nome di Cascini, magistrato legato a Palamara per aver condiviso ai tempi il vertice dell'Anm. La candidatura di Cascini, «non doveva avere concorrenti» e venne quindi «consigliato» a Colaiocco di revocare la domanda, ricorda Palamara. Il motivo era dovuto al fatto che Cascini doveva essere messo nelle migliori condizioni per «affrontare la competizione al Csm», sottolinea Palamara. Colaicco, allora, rinunciò con la speranza di aver un credito futuro. Pur senza avere cognizione diretta, Palamara ha raccontato un curioso aneddoto. Dopo l'insediamento del governo gialloverde nel 2018, i capi delle correnti si aspettavano che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nominasse a via Arenula tutte toghe legate a Piercamillo Davigo, il magistrato idolo dei grillini. Il primo doveva essere il pm antimafia Nino Di Matteo, magistrato stimatissimo dai pentastellati. Per lui era pronta la poltrona di capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Bonafede, invece, per quell' incarico aveva nominato Francesco Basentini, procuratore aggiunto di Potenza, che sulla carta aveva «meno esperienza» per quel ruolo di Di Matteo. Come mai? Palamara ha fatto il nome di Leonardo Pucci, vice capo di gabinetto di Bonafede. Pucci era un ex compagno di Università di Bonafede e conosceva anche l'allora premier Giuseppe Conte. Va detto che Pucci ha sempre smentito questa ricostruzione affermando che «non ci sono state sponsorizzazioni». «Si è trattato di scelte discrezionali: per i vertici sono importanti discrezionalità e fiducia. Per quello che ho visto io, le scelte del ministro sono state sempre a discrezione sua, nei colloqui con le persone», aveva aggiunto.

L'ex zar delle nomine in Commissione antimafia. La confessione di Palamara: “De Ficchy mi avvisò che ero indagato…” Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Quando c’è di mezzo un magistrato il segreto istruttorio non vale: le indagini vengono immediatamente partecipate al diretto interessato. Peccato che ciò non avvenga per i comuni mortali. Sarebbe molto bello, quindi, che la Guardasigilli Marta Cartabia, nella sua prossima riforma della giustizia, prevedesse questa possibilità per tutti e non solo per le fortunate toghe. La sorprendente circostanza, anche se ormai quando si parla di vicende che riguardano i magistrati si fa sempre più fatica a sorprendersi, è stata raccontata ieri da Luca Palamara. L’ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal grillino Nicola Morra, ha ricostruito la genesi dell’indagine per corruzione aperta nei suoi confronti della Procura di Perugia. Il 3 maggio del 2018, ricostruisce Palamara, dalla Procura di Roma venne trasmesso a Perugia, ufficio competente per i reati commessi dai magistrati della Capitale, un fascicolo a suo carico. L’informativa, scritta dal Gico della guardia di finanza, riguardava i rapporti fra Palamara ed il faccendiere Fabrizio Centofanti. Quest’ultimo, in particolare, aveva pagato all’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati pranzi, cene e viaggi in cambio di varie utilità. La nota di trasmissione venne firmata dai tre aggiunti della Capitale: Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli. Il 15 giugno successivo, e qui viene il bello, il procuratore di Perugia Luigi De Ficchy si precipita a Roma da Palamara. L’incontro avviene lontano da occhi indiscreti: nell’ufficio di Palamara al Csm. Palamara avrebbe chat e messaggi che provano quell’incontro, oltre alla testimonianza della sua segretaria e di un usciere. De Ficchy, racconta Palamara, mi «avvisò che era arrivato un fascicolo da Roma e che riguarda i miei rapporti con Centofanti». De Ficchy gli preannunciò che comunque sarebbero stati fatti accertamenti e i “dovuti riscontri”. I riscontri dureranno mesi. A gennaio 2019, dopo oltre sei mesi, Perugia deciderà di iscrivere Palamara nel registro degli indagati per corruzione. E a febbraio, per avere ulteriori riscontri, chiederà di intercettarlo. Riscontri, evidentemente, non ancora non sufficienti dal momento che il successivo mese di marzo i pm umbri chiederanno di poter inserire il virus trojan nel cellulare di Palamara. Ottenuto il decreto da parte del gip, il trojan sarà però attivato solo dopo due mesi, a maggio. In questo modo tutto particolare di svolgere le indagini, Centofanti, il presunto corruttore di Palamara, sarà iscritto nel registro degli indagati solo alla fine di maggio del 2019, senza peraltro essere mai intercettato. Palamara, nella sua incredibile deposizione, ha anche affermato che Centofanti sarebbe stato in rapporti con lo stesso De Ficchy, il quale non avrebbe gradito di fare il procuratore di Perugia. La sua aspirazione, infatti, era di essere nominato a Roma. Nel 2013, racconta ancora Palamara, De Ficchy era il magistrato più titolato per essere nominato procuratore aggiunto a Roma. L’anno prima, il 2012, il Csm aveva nominato come procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, in precedenza procuratore di Reggio Calabria. Insieme a De Ficchy aveva fatto domanda Michele Prestipino, fino a quel momento aggiunto a Reggio Calabria con Pignatone. Prestipino, pur essendo più giovane e con meno titoli, era poi riuscito a spuntarla su De Ficchy. Lo “scontento” procuratore di Perugia, infine, secondo le testimonianze dell’avvocato Piero Amara ai pm di Milano, sarebbe poi uno degli esponenti di punta della loggia ‘Ungheria’, l’associazione segreta composta da magistrati, ufficiali delle Forze dell’ordine, professionisti, nata per pilotare gli incarichi nella pubblica amministrazione. Paolo Comi 

La testimonianza in Commissione antimafia. Palamara rivela: “Basentini fu scelto al Dap perché amico di Bonafede e Pucci”. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Francesco Basentini venne nominato capo del Dap “grazie” alla sua amicizia con il pm Leonardo Pucci, compagno di studi all’Università di Alfonso Bonafede. Lo ha confermato questa settimana Luca Palamara durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Interrogato a Palazzo San Macuto, l’ex zar delle nomine ha ricostruito come avvenne nella primavera del 2018 la nomina di Basentini, allora uno sconosciuto magistrato e senza particolari titoli, al vertice del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, posto per il quale era invece in pole position il pm antimafia Nino Di Matteo. «I capi delle correnti rimasero molto sorpresi quando il ministro della Giustizia Bonafede nominò Basentini al Dap», ha esordito Palamara. Tutte le nomine dei vertici degli uffici di via Arenula, a cominciare da quella del capo di gabinetto del ministro, sono sempre state il frutto di un “accordo fra le correnti”, premette Palamara. Nella spartizione correntizia un posto di primo piano lo ha sempre avuto il ruolo di numero uno del Dap, incarico particolarmente ambito fra i magistrati soprattutto per il suo maxi emolumento. Nel 2018 a seguito delle elezioni politiche, con la vittoria travolgente dei grillini, “cambiano i rapporti di forza” a via Arenula. Il Ministero era stato guidato fino a quel momento per cinque anni da Andrea Orlando, esponente di primo piano del Pd, che aveva preferito circondarsi, tranne rare eccezioni, da magistrati legati alla sinistra giudiziaria di Magistratura democratica e al gruppo centrista di Unicost, la corrente di Palamara. L’arrivo di Bonafede “sfugge ai rapporti” che Unicost aveva con via Arenula, creando “apprensione”. Le correnti, e quindi Unicost, temono che Bonafede attui un feroce spoil system fra le toghe di Md e Unicost che per anni hanno colonizzato il Ministero della giustizia. Favorite in questa partita dovrebbero essere le toghe di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, ben vista dai grillini e dal circuito mediatico che appoggia pancia a terra il M5s, come, ad esempio, il Fatto quotidiano di Marco Travaglio o il Gruppo Cairo. La mancata nomina di Di Matteo sorprende Palamara. «Non voglio offendere nessuno – mette le mani avanti l’ex zar – ma il profilo professionale di Di Matteo sul fronte del contrasto alla mafia era certamente diverso a quello di Basentini». Palamara conosce bene Basentini avendolo proposto a suo tempo per diventare procuratore aggiunto a Potenza nell’ambito di “accordi correntizi”. L’arrivo di Basentini al Dap, invece, è diverso: il magistrato pur essendo “legato” all’ambiente di Unicost, non è “espressione” di Unicost. Quindi una nomina non frutto della lottizzazione correntizia ma di rapporti di conoscenza che avevano comunque garantito un posto di prestigio nel risiko dei magistrati fuori ruolo a Unicost. A fare il nome di Basentini è dunque Pucci che aveva conosciuto Basentini quando lavorava a Potenza. Il compagno di studi di Bonafede, prosegue il racconto, era anche diventato il terminale delle segnalazioni e delle premure delle correnti in quel periodo. A supporto di quanto affermato, Palamara ha invitato tutti i componenti della Commissione parlamentare antimafia a rileggere la chat con Maria Casola, allora potentissima capa Dipartimento al Ministero. È il 22 giugno del 2018 quando la dottoressa Casola chiede a Palamara chi sia questo sconosciuto magistrato catapultato al vertice del Dap. «È del nostro concorso vicino a noi bravo ragazzo cugino di Speranza (Roberto, ndr) di Leu molto amico di Pucci. Che lo ha voluto», risponde secco Palamara. «Sono totalmente iniziative individuali e nessuno può essere ricondotto a noi», sottolinea quindi l’ex zar, escludendo di aver partecipato alla spartizione degli incarichi. Basentini, poi, si dimetterà dall’incarico travolto dalle polemiche per le rivolte nelle carceri a marzo dello scorso anno che causarono 13 morti fra i detenuti. Paolo Comi

Giacomo Amadori per “la Verità” il 4 luglio 2021. C'è una notizia che farà tremare i polsi di molte persone. Luca Palamara ha ritrovato il cellulare con cui aveva iniziato la consiliatura al Csm, con in memoria numerose chat inedite, che in parte compaiono in alcuni atti di mediazione civile in corso sul libro Il Sistema. Il telefonino, che i magistrati di Perugia non hanno sequestrato nel 2019, custodisce i segreti delle nomine dal 2014 al 2016. Le chat sino a oggi conosciute si fermavano all' inizio del 2017. Tra le conversazioni più sensibili del nuovo-vecchio cellulare ci sono quelle riguardanti la controversa nomina per la Procura di Palermo, quella in cui Palamara sosteneva formalmente Guido Lo Forte, ma sottobanco, su indicazione del suo vecchio capo Giuseppe Pignatone, spianò la strada a Franco Lo Voi. Nei giorni scorsi, davanti alla commissione Antimafia, come ha riportato La Verità, Palamara ha ricostruito le logiche che avevano portato all' aborto della candidatura di Lo Forte che «nell' ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale». E aveva evidenziato come l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che «nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», avesse cambiato «cavallo» nonostante fosse «molto amico di Lo Forte» e avesse spronato Palamara con queste parole: «Si va su Lo Voi». Una delle nuove chat, datata 17 dicembre 2014, giorno del voto al plenum, sembra confermare la ricostruzione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Palamara quel giorno scrive alla consigliera laica (in quota Sinistra e libertà) Paola Balducci: «Noi Lo Forte. Così via libera per l'altro con ballottaggio». «L' altro» chi è? Lo si capisce proseguendo la lettura. La Balducci chiede lumi sulla posizione del procuratore di Roma: «E Pigna?». Risposta secca: «Appunto vince Lo Voi». Che da Pignatone era sostenuto. Lo Forte nella precedente consiliatura era arrivato a un passo dalla nomina. A quel punto dal Quirinale era partita una missiva che invitava il Csm a procedere in ordine cronologico, ovvero partendo dalle Procura con il tempo di vacanza più lungo. Così il voto per Palermo slittò alla consiliatura di Palamara. Che nell' occasione non sfoderò le sue celeberrime doti di negoziatore. Infatti al primo turno il candidato della sua corrente, Unicost, si fermò a cinque preferenze, mentre Sergio Lari, sostenuto dal cartello di sinistra di Area raccolse sette voti. Lo Voi fu sostenuto dai quattro esponenti di Magistratura indipendente, la sua corrente, e da due consiglieri di centro-destra. A quel punto i commentatori erano convinti che i due gruppi alleati (Unicost e Area) convergessero su Lari o su Lo Forte. Invece Palamara trasformò Lo Forte in un candidato di bandiera e accettò la sconfitta. Al ballottaggio tutti i laici, anche quelli di sinistra, votarono per Lo Voi, nonostante fosse espressione dell'ala conservatrice. Pure i due membri di diritto del Csm, le cariche apicali della magistratura, lo appoggiarono. Alla fine Lo Voi totalizzò 13 voti e vinse a sorpresa. Infatti era il più giovane dei contendenti e l'unico a non aver mai diretto un ufficio giudiziario (gli altri erano stati già procuratore e Lari anche procuratore generale). Il vicepresidente di Palazzo dei marescialli, Giovanni Legnini, fu costretto ad allontanare i sospetti di intervento del Quirinale, negando «condizionamenti esterni». Nel gennaio del 2015 Lari e Lo Forte impugnarono la delibera di nomina e il 21 maggio il Tar del Lazio annullò la nomina di Lo Voi. A quanto risulta alla Verità Palamara, il 26 maggio, si recò personalmente a Palermo dove incontrò a una cena il procuratore sub judice, intenzionato a impugnare la decisione del Tribunale amministrativo di fronte al Consiglio di Stato. Una mossa a cui Palamara o, forse, i suoi punti di riferimento dovevano essere molto interessati. E le chat stanno lì a dimostrarlo. L'ex pm, quello che lui stesso ha definito un linguaggio in codice, iniziò a compulsare il procuratore di Palermo. Il primo messaggio è del 30 maggio 2015, quattro giorni dopo l'incontro siciliano. Scrive Palamara: «Benissimo. Un abbraccio». Lo Voi: «Caro Luca, spero stia bene. Io benissimo. Scusa se non ti ho chiamato prima, conto di farlo al più presto, sicuramente entro la prossima settimana. Un abbraccio, Franco». È un riferimento all' istanza di sospensiva di Lo Voi al Consiglio di Stato? Secondo Palamara sì. Il 4 giugno l'ex leader di Unicost pare in fibrillazione e comunica, a suo dire, in modo cifrato: «Caro Franco ancora non sono arrivati gli inviti. Sai dirmi esattamente quando?». La replica di Lo Voi pare coinvolgere Pignatone: «Giuseppe lo sa. Parla con lui». Se in parte l'interessamento di Palamara poteva essere giustificato, avendo la decisione del Tar sconfessato la scelta del Csm (che infatti farà ricorso), il ruolo di Pignatone risulta meno comprensibile, se non si prende per buono il racconto di Palamara. Il 5 giugno quest' ultimo sembra sollevato e manda un messaggio: «Grazie è arrivato l'invito. A presto un abbraccio». Palamara ha raccontato che, proprio in quei giorni di giugno, a casa sua si tenne un incontro tra Riccardo Virgilio, il presidente della quarta sezione del Consiglio di Stato che aveva in mano la pratica, e lo stesso Pignatone, una colazione a base di croissant in cui i due avrebbero parlato «in maniera molto fitta e riservata». Il 17 giugno i giornali comunicano che il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar. Nel gennaio del 2016 la stessa sezione ribalta definitivamente la decisione dei giudici amministrativi e conferma Lo Voi sulla poltrona di procuratore di Palermo. Il presidente Virgilio era un vecchio amico di Pignatone, mentre il giudice estensore e relatore della sentenza era Nicola Russo. Nei mesi successivi sono finiti entrambi sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari proprio in relazione ad alcune sentenze del Consiglio di Stato (non quella su Lo Voi) e successivamente sono stati rinviati a giudizio. Nel 2018, davanti al gip, Russo, che è stato anche arrestato, ha dichiarato «di avere ricevuto diverse segnalazioni su procedimenti a lui assegnati e indicato generali della Guardia di finanza e magistrati». A quel punto uno dei pm della Capitale gli ha chiesto: «Chi sono i giudici che si sono raccomandati?». E Russo ha replicato: «Suoi colleghi, anche pubblici ministeri che lei conosce bene». Ma si è fermato lì. Il 16 maggio del 2019, mentre è intercettato dal trojan, Palamara parla con il collega del Csm Luigi Spina. Questi domanda: «Ma è ricattabile Pignatone?». Palamara risponde: «Andiamo avanti a un'altra storia... Lo Voi lo fa fa Pignatone... il ricorso di Lo Forte c' è pure Pignatone in mezzo...vabbè è meglio che non ti racconto...». Il 21 maggio Palamara dice al vescovo Vincenzo Paglia: «Io sono stato uno dei fautori per aiutare Pignatone a portare Lo Voi a Palermo». Il 28 maggio, invece, Palamara parla con Cosimo Ferri (ex leader di Mi e oggi deputato di Italia viva): «E loro perché stanno a fa' i patti per Lo Voi (in quel momento candidato alla Procura di Roma, ndr)? Che faccio, mi metto a parlare di Lo Voi io? Io non mi posso mettere a parlare di Lo Voi eh!». Adesso quest' ultimo è in corsa per il posto di procuratore della Capitale. Per una sorta di contrappasso questa volta è lui ad aver impugnato la nomina del collega Michele Prestipino, attuale capo dei pm di Roma. Il Tar gli ha dato ragione. Ora, come sei anni fa, la palla è passata al Consiglio di Stato. Ma questa volta Palamara, Virgilio e Pignatone sono fuori dai giochi.

Palamara: «Il Csm non desecretò gli atti su Falcone e Borsellino». Luca Palamara in audizione in Commissione parlamentare antimafia ha parlato dei rapporti intercorsi fra la trattativa Stato-mafia e le nomine. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 2 luglio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura non avrebbe inizialmente desecretato tutti gli atti relativi alle vicende di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino «per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura». A dirlo è stato mercoledì scorso Luca Palamara, chiamato in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Fra i tanti argomenti toccati dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ampio spazio è stato dedicato ai rapporti intercorsi fra la trattativa Stato- mafia e le nomine, da parte del Csm, dei vertici degli uffici inquirenti del capoluogo siciliano. La desecretazione degli atti avvenne durante la scorsa consiliatura, in occasione della ricorrenza dei venticinque anni della morte dei due magistrati. Vice presidente del Csm era Giovanni Legnini (Pd), mentre Palamara, oltre ad essere il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, era il direttore dell’Ufficio studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli. Gli atti del fascicolo di Borsellino, in particolare, confluirono anche in un volume dal titolo “L’antimafia di Paolo Borsellino”. Nel testo, ancora oggi acquistabile tramite il portale del Csm, si raccontava il percorso professionale del magistrato, gli incarichi avuti, le valutazioni di professionalità. Fra gli atti degni di nota, anche il famoso verbale dell’audizione di Borsellino davanti alla prima Commissione del Csm nell’ottobre del 1991 nell’ambito della procedura per il trasferimento per incompatibilità ambientale dell’allora procuratore di Trapani Antonino Coci. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata alla data del 23 luglio 1992, «evitando di pubblicare la seduta del 30 luglio del 1992». Palamara si riferisce alla audizione svolta dal «gruppo di lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata». Nella seduta del 30 venne ascoltata la sorella di Falcone, Maria, e diversi colleghi dei due magistrati uccisi che avevano lavorato con loro a Palermo. Il verbale in questione verrà, comunque, reso pubblico lo scorso anno. Fra gli atti che invece non si trovano, ci sarebbe l’audizione fatta da Falcone nella primavera del 1990 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. In quell’occasione il magistrato aveva riferito dell’esistenza «di una centrale unica degli appalti» con valenza sull’intero territorio nazionale.

Giacomo Amadori per "la Verità" l'1 luglio 2021. L'ex presidente del Senato, Piero Grasso, esponente di punta del Pd, ha provato ad appellarsi a ogni cavillo del regolamento allo scopo di impedire la «libera audizione» dell'ex pm Luca Palamara di fronte alla commissione Antimafia. Al punto di far perdere la pazienza al presidente, Nicola Morra, ma anche a chi, vicino a lui, a un certo punto ha esclamato stizzito: «C'è il segretario, cazzo». Come a dire che c'era chi poteva controllare numero legale e altre questioni meglio di Grasso che, con il suo faccione, cercava di remare contro collegato da casa. «Capisco che voglia mettere i bastoni» ha commentato Morra, prima di concedere la parola a Palamara, al quale, evidentemente, qualcuno avrebbe preferito tappare la bocca. E forse dopo si è capito anche il perché. Infatti l'ex presidente dell'Anm ha depositato un appunto in cui sono citate diverse personalità di spicco del Pd. Del resto quello di Palamara è un osservatorio privilegiato del rapporto strettissimo tra toghe e sinistra, anche perché a un certo punto della sua carriera, tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, fu in predicato per un posto da parlamentare nelle file dei dem. Nel documento un ampio capitolo è dedicato alla nomina del procuratore di Palermo, ovvero dell'inquirente che avrebbe dovuto sostenere l'accusa nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Il candidato di Palamara, all' inizio, è Guido Lo Forte, a cui era stato assicurato sostegno anche dall' ex procuratore di Roma, il siciliano Giuseppe Pignatone: «Quest' ultimo, in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», scrive Palamara. «Ma Lo Forte nell' ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale». Il presidente emerito in questa vicenda è cruciale, visto che era stato intercettato nel procedimento palermitano e stava cercando in tutti i modi di stoppare la pubblicazione delle conversazioni che lo riguardavano. Palamara fa riferimento anche a una trattativa sulla Trattativa. A Palermo incontra uno degli inquirenti del processo, Antonio Ingroia: «Il quale mi riferirà di aver appreso dall' allora direttore di Repubblica Ezio Mauro che unitamente al predetto Mauro io sarei stato incaricato dal Quirinale per mediare i rapporti tra la Procura di Palermo e il Quirinale sulla vicenda intercettazioni». Un incarico che Palamara sembra ammettere: «Al riguardo io posso confermare di aver condiviso in quel periodo il disagio che Loris D'Ambrosio (consigliere giuridico di Napolitano, ndr) stava provando per il suo coinvolgimento nella vicenda (era stato intercettato anche lui, ndr) e soprattutto per la difficoltà di gestire il rapporto con il senatore Nicola Mancino (altro papavero piddino captato da Palermo, ndr) che in più occasioni gli chiese di interloquire direttamente con il presidente Napolitano. In tale ambito e in tale contesto affrontammo anche il problema relativo alla necessità di trovare un punto di equilibrio con la Procura di Palermo». In un altro passaggio l'ex toga ricorda la mossa di Napolitano: «In prossimità del plenum che doveva, come da accordi, varare l'operazione Lo Forte, arriva al Csm una lettera del capo dello Stato che invita a rispettare nelle nomine l'ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte quindi slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato alla tornata successiva». Cioè quella in cui verrà eletto Palamara. Il quale prosegue: «Pignatone sente puzza di bruciato e nonostante sia molto amico di Lo Forte cambia cavallo. Mi convoca e mi dice: "Si va su Lo Voi (Franco, ndr)". Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita». L'ex toga ricorda un pesantissimo editoriale di Eugenio Scalfari contro i pm di Palermo proprio di quei giorni. «È questo il clima che riaffiora al Csm nel dicembre del 2014, in occasione della nomina del nuovo procuratore di Palermo. Me lo fa capire anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (altro esponente Pd, ndr), che suo malgrado si allinea sul candidato Lo Voi, il meno rigido dei tre sull' inchiesta Stato-mafia. Rimango sorpreso, ma sono uomo di mondo e studio la pratica». A questo punto Palamara si inventa «un trucco concordato con le altre correnti», un tecnicismo, che garantisce la vittoria a Lo Voi. Confermata dalla quarta sezione del Consiglio di Stato «presieduta da Riccardo Virgilio, che nei racconti di Pignatone era a lui legato da rapporti di antica amicizia», ha sottolineato l' ex presidente dell' Anm. Il quale ha ricordato anche un incontro a casa sua tra Virgilio e Pignatone, in cui i due avrebbero parlato «in maniera molto fitta e riservata». Nel suo appunto e nell'audizione Palamara ha evidenziato anche la contrarietà dei vertici della magistratura al conferimento di un incarico presso la Direzione nazionale antimafia al pm palermitano Nino Di Matteo, al centro di «invidie e gelosie di prime donne», e svela anche un retroscena sulla scelta del capo della stessa Dna: «La nomina di Di Matteo è in concomitanza con quella di Federico Cafiero De Raho alla Procura nazionale antimafia in relazione alla quale visti i suoi trascorsi alla Procura di Reggio Calabria vi è stata una diretta interlocuzione con l'allora ministro degli interni Marco Minniti». Sembra di capire che il calabrese Minniti si sia interessato alla nomina del magistrato che aveva guidato la Procura reggina. Palamara, infine, fa riferimento al procedimento Tempa rossa, che portò l'ex ministro Federica Guidi a dimettersi senza essere mai stata indagata e che «arrivò a sfiorare Elena Boschi, che infatti venne interrogata a Roma». E qui Palamara svela un clamoroso retroscena: «Per me fu abbastanza singolare che, dopo l'interrogatorio della Boschi, Luigi Gay, Laura Triassi e Francesco Basentini (i pm del fascicolo, ndr) vollero incontrarmi per tranquillizzarmi sull' andamento della indagine quasi a cercare una copertura da parte del Csm. [...], presenti le scorte, l'incontro avvenne presso il bar Vanni. Mi venne riferito che l'interrogatorio della Boschi non era durato due o tre ore come dicevano i primi lanci Ansa, ma molto di meno e che le lungaggini erano dovute a una circostanza molto più banale e grottesca: il computer si era inceppato e con grande imbarazzo di tutti nessuno sapeva cosa fare. Le circostanze da chiedere alla Boschi erano minime. Non mi capacitavo a quel punto della necessità di tutto quel clamore sulla vicenda. Comunque mi era chiaro che essendo prossimo il procuratore Gay alla pensione tanto Basentini che la Triassi ambivano ad incarichi semidirettivi. Basentini verrà poi nominato procuratore aggiunto di Potenza».

Magistratopoli. Il retroscena della vicenda che agita la magistratura italiana. La faida contro la procuratrice Triassi: colpa del suo carattere o perché è estranea alle correnti? Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Prima si è vista negare la nomina al vertice della Procura di Potenza. Poi si è ritrovata nelle chat di Luca Palamara, dove si ipotizzava addirittura un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per impedire che le fosse assegnata la guida dell’ufficio giudiziario lucano. Infine è stata “impallinata” da 12 dei suoi 13 sostituti a Nola che hanno addirittura firmato un esposto per denunciare la presunta «gestione verticistica» della Procura vesuviana. Laura Triassi è nel mirino di una parte della categoria alla quale appartiene ormai da decenni, pur essendo riconosciuta come un pm serio e preparato. La sua colpa? Secondo qualcuno sarebbe stato il carattere non facile ad attirarle le antipatie non solo di molti colleghi, ma anche di dipendenti amministrativi e uomini delle forze dell’ordine. In realtà, la sua principale “responsabilità” sembra un’altra: non appartenere alle correnti che da anni si spartiscono gli incarichi negli uffici giudiziari. Così si è generato il paradosso per il quale Triassi, gip del Tribunale di Napoli ai tempi di Tangentopoli, è oggi identificata più con le turbolente vicende della sua carriera che con le inchieste che ha portato avanti nel corso degli anni. Tanto che qualcuno ipotizza che ci sia una “sottile linea rossa” tra la guerra a colpi di carte bollate per Potenza e l’attuale faida tra i pm di Nola. Procediamo con ordine. Triassi è arrivata al vertice della Procura vesuviana a luglio del 2020, dopo un lungo braccio di ferro con i colleghi. Ad assegnarle l’incarico è stato il Csm dopo che il Consiglio di Stato aveva confermato la sentenza con cui il Tar del Lazio  aveva bocciato le nomine di Francesco Curcio alla guida della Procura di Potenza, Raffaello Falcone come procuratore aggiunto di Napoli e Annamaria Lucchetta come procuratrice di Nola. Secondo i giudici, nell’assegnare gli incarichi, inizialmente il Csm non avrebbe valutato l’esperienza maturata da Triassi come reggente della Procura di Potenza spianando di fatto la strada a Curcio, alfiere di Magistratura Democratica. Insomma, una vittoria su tutta la linea per Triassi. E, stando a quanto emerso dalle chat dell’ex “re delle nomine” Luca Palamara, un motivo di apprensione per qualche esponente del Csm. A questo punto facciamo un salto indietro. Nella primavera del 2019, dopo l’ennesima sentenza che annullava le nomine fatte dal Csm ai vertici di alcune Procure, il consigliere di Area Valerio Fracassi scriveva a Palamara: «Altro annullamento a favore della Triassi!!! E sai che cosa voglio dire. È necessario che Ermini parli con Mattarella». Immediata la risposta di Palamara: «Cose da pazzi. Assolutamente sì». Quattro giorni più tardi, al telefono con Palamara, anche l’altro consigliere di Area Nicola Clivio esprimeva giudizi poco lusinghieri sull’accoglimento dei ricorsi proposti da Triassi. Fatto sta che, pur avendo i titoli per “pretendere” il posto di Curcio, Triassi si è ritrovata a Nola: Procura forse meno prestigiosa di quella di Potenza, ma almeno più vicina alla “sua” Napoli. Nell’ufficio vesuviano i problemi con i sostituti sono cominciati praticamente subito. A fine luglio 2020, infatti, risale la nomina di Triassi alla guida di Nola, mentre porta data 15 settembre la prima conversazione registrata da un sostituto (a insaputa della stessa Triassi) e ora al vaglio della Procura generale della Cassazione, titolare del procedimento disciplinare a carico della procuratrice. Contro quest’ultima si sono mossi persino la guardasigilli Marta Cartabia, che ne ha sollecitato l’immediato allontanamento, e più di 200 magistrati da tutta Italia, pronti a schierarsi in difesa dei 12 sostituti “ribelli”. Perché? Perché contro Triassi sono scese in campo centinaia di toghe appartenenti tanto alla destra quanto alla sinistra giudiziaria? Perché, dopo averle “sfilato” Potenza, qualcuno la vuole via al più presto via da Nola? «Il sospetto – sottolinea l’avvocato Domenico Mariani che assiste Triassi nel procedimento disciplinare – è che la procuratrice di Nola paghi lo scotto di essere un magistrato rigoroso e indipendente. E, soprattutto, estraneo alle logiche tipiche delle correnti».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Da un anno a Nola, trasferita per "incompatibilità". Terremoto a Nola, il procuratore capo Triassi trasferito dal Csm dopo gli esposti dei colleghi. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Terremoto nella Procura di Nola. Il Consiglio superiore della magistratura ha disposti il trasferimento d’ufficio per il procuratore capo Laura Triassi, un provvedimento adottato per “incompatibilità con l’ufficio di attuale assegnazione e con gli uffici che, nell’ambito del distretto, hanno competenze ordinamentali e procedimentali che presuppongono un coordinamento con la Procura di Nola”. Come ricorda l’Ansa, il procedimento sulla Triassi era stato avviato lo scorso 14 giugno dalla prima commissione del Csm dopo una nota prodotta dal procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli Luigi Riello a seguito di una serie di audizioni. Il riferimento era ad una serie di condotte poste in essere dal procuratore capo di Nola Triassi e al procuratore aggiunto Stefania Castaldi. Ad aprile 12 dei 13 sostituti procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Nola avevano anche depositato un esposto al procuratore generale, poi integrato, nel quale Triassi e Castaldi venivano ritenute causa di “un profondo disagio e penoso malessere” per l’intero ufficio che, veniva sottolineato, avrebbe determinato “verosimilmente, molteplici ed imminenti richieste di trasferimento ad altra sede”. Nell’esposto si evocava anche il rischio di una “crisi dell’indipendenza interna dei sostituti dell’ufficio” alla luce di numerosi episodi diretti “compromettere la dignità della funzione giurisdizionale dei sostituti dell’Ufficio”. Triassi era alla guida della procura di Nola da poco più di un anno. Redazione

Il caso della procuratrice Laura Triassi e dell'aggiunta Stefania Castaldi. Magistratura nel caos, la rivolta di 12 sostituti procuratori contro i vertici della procura di Nola. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Il plenum si esprimerà domani. Nel frattempo, però, la procedura di trasferimento per incompatibilità della procuratrice di Nola, Laura Triassi, getta l’ennesima ombra sulla magistratura. L’iter è stato avviato il 14 giugno scorso dalla Prima Commissione del Csm sulla base dell’esposto che 12 dei 13 sostituti in servizio presso la Procura di Nola avevano indirizzato al procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, esattamente due mesi prima. In tutto questo tempo, di una vicenda tanto delicata si è saputo poco o nulla e cioè che i comportamenti di Triassi e dell’aggiunta Stefania Castaldi sarebbero stati causa «di un profondo disagio e penoso malessere» per l’intero ufficio dove i sostituti avrebbero conseguentemente firmato «molteplici richieste di trasferimento ad altra sede». Non solo: Triassi e Castaldi si sarebbero rese protagoniste di «innumerevoli e preoccupanti» episodi, addirittura tali da «compromettere la dignità della funzione giurisdizionale» esercitata dai sostituti. Insomma, quelle mosse dai colleghi all’indirizzo di Triassi e Castaldi sono accuse piuttosto pesanti. Tanto più se si pensa che la procuratrice, balzata per la prima volta agli onori delle cronache all’epoca di Tangentopoli, quando esercitava le funzioni di gip presso il Tribunale di Napoli, è solo da un anno alla guida della Procura di Nola. Eppure, nonostante siano trascorsi più di tre mesi dall’invio dell’esposto al procuratore generale Riello e la notizia-bomba della richiesta di trasferimento della Triassi sia già deflagrata, ancora non è dato capire i termini esatti della vicenda. Che cosa induce quasi tutti i sostituti a parlare addirittura di «penoso malessere»? In che cosa consistono esattamente i «preoccupanti episodi» denunciati? In che cosa è stata lesa «la dignità della funzione giurisdizionale»? E in quante e quali circostanze tutto ciò sarebbe avvenuto? Interrogativi che meritano una risposta e la meritano al più presto, se non si vogliono alimentare dietrologie sul lavoro dell’intera Procura di Nola e della magistratura nel suo complesso. Qualcuno ha idea delle sensazioni che un cittadino, magari messo sotto inchiesta dai pm di Nola in quest’ultimo anno, è indotto a provare in questo preciso momento? Qualcuno ha idea di quali timori e sospetti sia capace di alimentare una vicenda tanto grave quanto torbida? Fino a questo momento, invece, la comunicazione da parte dei rappresentanti delle toghe è stata alquanto lacunosa, per non dire nulla. Il che restituisce, per l’ennesima volta, la fotografia di una magistratura ambigua, sempre pronta ad arroccarsi sulle proprie posizioni e tetragona rispetto a qualsiasi forma di dialogo trasparente. Come se le dinamiche interne all’ordine non si riflettessero sulla percezione che i cittadini hanno del lavoro svolto nelle aule di giustizia. Ecco perché sarebbe il caso che i vertici locali o nazionali dell’Anm prendessero posizione sulla vicenda, che tutti i magistrati coinvolti chiarissero le rispettive posizioni e che il Csm adottasse una decisione ponderata e trasparente, in modo tale da tradurre certe espressioni criptiche in linguaggio comprensibile. Tutto ciò è indispensabile per evitare che la magistratura e il lavoro svolto da pm e giudici non sia ulteriormente appannato, dopo le vicende denunciate da Alessandro Sallusti e Luca Palamara nel loro libro-intervista e i casi di cronaca in cui diverse toghe sono state coinvolte: in gioco c’è la credibilità non solo di un ordine dello Stato, ma la tenuta di quella fragile impalcatura sulla quale si regge la nostra comunità con le sue libertà e i suoi diritti fondamentali.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Intanto ad Aversa arriva Troncone. Triassi al Csm: “Contro di me accuse ingiuste”. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Luglio 2021. C’è stato chi, tra i consiglieri del Plenum, l’ipotesi di un complotto non l’ha esclusa a priori, ricordando come la storia recente abbia insegnato che nulla è impossibile, nemmeno i complotti tra magistrati. E c’è stato chi, praticamente la maggioranza, ha sottolineato la necessità di un’istruttoria prima di adottare una decisione grave come quella di trasferire il capo di una Procura. La seduta del Plenum del Consiglio superiore della magistratura sul caso del procuratore di Nola Laura Triassi è durata oltre tre ore e si è conclusa con la decisione, adottata con undici voti favorevoli, nove contrari e tre astenuti, di sospendere la procedura visto che riguarda vicende per cui c’è un procedimento disciplinare in corso, rimandando quindi gli atti alla Prima Commissione e bocciando per il momento la proposta di trasferire d’ufficio la stessa Triassi. Il caso è nato da tre esposti firmati tra marzo e giugno scorsi da 12 dei 13 sostituti dell’ufficio inquirente, da 23 unità del personale amministrativo e da alcuni carabinieri della polizia giudiziaria per lamentare incomprensioni e tensioni con il capo della Procura nolana accusato di avere una gestione verticistica dell’ufficio e di rapportarsi con toni aggressivi o mortificanti. Di qui la relazione inviata dal procuratore generale Luigi Riello al Csm e la delibera della Prima Commissione di proporre il trasferimento della Triassi. Ieri la seduta del Plenum, dinanzi al quale la Triassi si è difesa: «Se non c’è una regìa occulta, devo pensare che le accuse contro di me derivino dal malcontento per alcune mie iniziative organizzative, come l’ufficio degli affari semplici, iniziative su cui i numeri mi stanno dando ragione perché gli arretrati sono diminuiti». Triassi ha chiesto quindi al Csm di fare approfondimenti prima di decidere delle sue sorti professionali: «La relazione del procuratore generale di Napoli è inesatta e incoerente, poco obiettiva nella valutazione dei fatti». ha sostenuto depositando una memoria difensiva per replicare a ogni accusa e spiegare i dettagli di alcuni episodi con alcuni sostituti che la accusano, negando tra l’altro di aver ostacolato la trasmissione di atti alla Dda di Napoli. Inoltre, la Triassi ha lamentato la mancanza di un’istruttoria che prevedesse l’audizione sua, dei sostituti e di tutti coloro che la accusano. Un passaggio, questo della necessità di istruttoria prima di una decisione, che è stato l’aspetto affrontato da molti dei consiglieri intervenuti alla seduta del Plenum, tra i quali Nino Di Matteo, Antonio D’Amato, Loredana Miccichè, Sebastiano Ardita e Stefano Cavanna. Intanto ieri il Plenum si è occupato anche di un’altra Procura campana, quella di Napoli Nord approvando, all’unanimità, la nomina di Maria Antonietta Troncone alla guida del grande ufficio inquirente che ha sede ad Aversa. Troncone è attualmente capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere e la sua nomina al nuovo incarico arriva proprio nel bel mezzo dell’inchiesta sulle violenze avvenute in carcere il 6 aprile 2020: un’inchiesta particolarmente delicata e complessa, caratterizzata anche dai grandi numeri e dagli indagati eccellenti. Troncone è stata scelta tra i magistrati che si sono proposti per assumere la guida della Procura di Napoli Nord candidandosi a succedere al procuratore Francesco Greco. Dai consiglieri del Csm Michele Ciambellini e Antonio D’Amato sono state espresse parole di apprezzamento per la designazione di Troncone: «Alla Procura di Napoli Nord opererò con il medesimo spirito di servizio mostrato in questi anni alla guida della Procura di Santa Maria Capua Vetere – ha commentato Troncone – Mi preme operare per offrire ai cittadini un servizio giustizia efficiente». Maria Antonietta Troncone sa bene quanto sia importante la sfida professionale che si appresta ad affrontare. Quello di Napoli Nord è un ufficio particolarmente complesso, ha competenza su 38 Comuni della provincia a cavallo tra Caserta e Napoli, cioè il territorio della cosiddetta Terra dei Fuochi, l’hinterland segnato da un alto livello di criminalità e da ancora numerosi reati ambientali. «Non ho la bacchetta magica – ha aggiunto Troncone – ma auspico di poter dare anche alla Procura di Napoli Nord il mio contributo». Il procuratore assumerà il nuovo incarico a settembre, nel frattempo continuerà il lavoro di coordinamento dell’indagine sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, indagine che ha scatenato un autentico terremoto non solo all’interno del corpo della polizia penitenziaria ma anche tra i vertici dell’amministrazione penitenziaria.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

“Chiarezza sullo scontro inaudito tra la Triassi e i 12 sostituti”, la richiesta dei penalisti. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Subito chiarezza sullo scontro in atto tra la procuratrice di Nola, Laura Triassi, e i 12 sostituti che contro di lei hanno firmato un esposto. A chiederlo è la Camera penale di Napoli, dopo che il Plenum del Csm ha sospeso la procedura di trasferimento per incompatibilità di Triassi. I penalisti napoletani non nascondono i propri timori per quello che bollano come «un inaudito scontro»: «la situazione ha pochi precedenti per gravità – scrive il presidente Marco Campora – ed è preoccupante per il riverbero che può avere sulla qualità delle indagini ma, più diffusamente, sulle istanze di giustizia dei cittadini». Di qui la richiesta: «Riteniamo sia un diritto della comunità forense e della collettività in generale conoscere in forma particolareggiata gli avvenimenti che si stanno verificando a Nola». L’appello dei penalisti napoletani segue di poche ore quello dei vertici locali dell’Anm che, attraverso la presidente Livia De Gennaro, hanno auspicato che «gli accertamenti in atto facciano chiarezza sui fatti oggetto di denuncia» e invitato «gli organi competenti a procedere con celerità». La parola spetta ora alla Procura generale della Cassazione che ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Triassi, alla guida della Procura di Nola da circa un anno.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

I nodi della giustizia. Nola, avvocati in campo: “Troppe inchieste flop, ora la verità su Triassi”. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Le denunce sono tante ma le indagini che arrivano a conclusione non sono altrettanto numerose. E molte, sottolineano i penalisti nolani, sono quelle che finiscono in una bolla di sapone o in richieste di archiviazione. Anche a Nola, come in altre Procure del distretto di Napoli, nel settore della giustizia ci sono sproporzioni che rischiano di causare criticità. E se si considera il recente scontro tra sostituti e procuratore è chiaro che nella cittadella giudiziaria di Nola c’è una particolare tensione. «Avevamo avuto la percezione di dissidi, ma non conosciamo le dinamiche che hanno portato a questo scontro tra il capo della Procura e i suoi sostituti – spiega l’avvocato Vincenzo Laudanno, presidente della Camera penale di Nola – La nostra posizione è neutrale in questo momento, l’unica nostra pretesa è quella della chiarezza. Si tratta di una situazione particolare, si fa fatica a recuperare episodi di analoga gravità nella storia se non ricordando il caso dell’ex procuratore di Napoli Agostino Cordova, ma con le dovute differenze». Il procuratore di Nola Laura Triassi si era insediata un anno fa ed ora è al centro di una pratica di incompatibilità ambientale dinanzi al Csm sospesa in attesa della definizione del procedimento disciplinare aperto in seguito all’esposto che i sostituti dell’ufficio inquirente nolano avevano inviato alla Procura generale. «Credo sia un diritto della comunità forense e della comunità in generale avere chiarimenti – continua il presidente Laudanno – perché questa situazione rischia di interferire sulla qualità delle indagini e sulle istanze di giustizia dei cittadini». L’attenzione è in particolare rivolta alle indagini che si risolvono in un nulla di fatto, lasciando gli episodi-reato senza colpevoli e i cittadini senza risposte certe. «Le richieste di archiviazione sono tante, non ho il dato aggiornato, credo siano migliaia all’anno e rappresentano un problema perché è evidente che sono richieste che non fanno i conti con la fondatezza o meno delle istanze del cittadino ma hanno ragioni di natura deflattiva o legate all’assenza di risorse in forza alla Procura, carenze comuni anche ad altre Procure del distretto» spiega il presidente dei penalisti di Nola. «A proposito di riforma Cartabia, sento dire che bisogna fare in modo di non andare verso l’impunità, ma questa – dice Laudanno facendo riferimento al fenomeno delle indagini archiviate – è già una forma di impunità, perché cestinare e non prestare attenzione alle denunce e alla querele, anche per fatti di una certa gravità, significa che l’impunità è garantita in partenza, senza aspettare la famosa improcedibilità in Appello e questo è un problema rispetto al quale noi penalisti siamo sensibili». «Noi – chiarisce – crediamo che l’obiettività, la correttezza, l’equilibrio del pubblico ministero e il cercare notizie ed elementi anche a favore dell’indagato, siano valori assoluti, ma tutto questo non c’entra nulla con il fenomeno di cui stiamo parlando. Qui si tratta dell’impossibilità di portare avanti le denunce che vengono presentate e il Governo deve farsi carico anche di queste criticità, dotando la Procura di Nola delle risorse aggiuntive che sono eventualmente necessarie». «Auspico quindi – afferma Laudanno – un cambio di passo in relazione all’attenzione che ogni magistrato dovrebbe riporre nel vagliare le domande di giustizia che non possono essere mortificate o sacrificate. Nola è un territorio particolare, gravato da microdelinquenza e da forme di delinquenza più articolate: servono risposte adeguate, sia pure nel rispetto delle garanzie del cittadino che sono sempre insopprimibili». Ne va anche della credibilità della giustizia. «In questo momento – conclude – assecondare questo declino, guardarlo scorrere senza far nulla, è deleterio perché la credibilità nel sistema giustizia viene meno. Abbiamo bisogno che il cittadino abbia fiducia nella giustizia e per fare ciò c’è bisogno di un maggiore impegno e di maggiori sacrifici da parte di tutti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

250 toghe chiedono chiarezza. Faida tra Pm a Nola, sos dei magistrati al Csm: “È ora di decidere”. Viviana Lanza su Il Riformista il 4 Agosto 2021. «Chiarezza sul caso della Procura di Nola». Ora a chiederlo sono oltre 250 magistrati, firmatari di una petizione. «È necessario che sia fatta al più presto chiarezza sulla vicenda – si legge nel documento – al fine di consentire l’immediato ripristino delle condizioni indispensabili allo svolgimento della funzione giudiziaria attraverso una lettura dei fatti scevra da interpretazioni devianti». Chiarezza è ciò che servirà per placare tensioni e polemiche, dubbi e preoccupazioni che aleggiano attorno all’ufficio inquirente della grande provincia. Dopo la Camera penale di Nola, anche la magistratura rompe il silenzio e chiede chiarezza. L’iniziativa, di cui ha dato notizia l’agenzia Dire, è partita da un gruppo di magistrati di Torre Annunziata e ha trovato adesioni tra giovani toghe di tutta Italia a seguito della decisione, votata a maggioranza dal Plenum del Consiglio superiore della magistratura, di sospendere la procedura per il trasferimento d’ufficio, per incompatibilità ambientale, del procuratore di Nola Laura Triassi in attesa della definizione del procedimento disciplinare. Tutta la vicenda nasce da un esposto consegnato al procuratore generale Luigi Riello e firmato da dodici dei tredici sostituti procuratori dell’ufficio giudiziario nolano (il magistrato che non ha firmato l’esposto si è dichiarato disposto a essere comunque audito per confermare i fatti riportati e si è detto solidale con i colleghi). Nell’esposto si denunciano «un profondo disagio e un penoso malessere» dovuti a comportamenti del procuratore Triassi ritenuti «suscettibili di produrre l’inaccettabile rischio di una crisi dell’indipendenza interna dei sostituti dell’ufficio». Nell’esposto, inoltre, si fa riferimento a una «gestione verticistica» da parte del capo della Procura sfociato in episodi definiti «innumerevoli e preoccupanti» e tali da generare disagio nei sostituti ma anche nella polizia giudiziaria e nel personale amministrativo. Di qui il caso arrivato all’attenzione del Csm, con la Prima Commissione che aveva proposto il trasferimento d’ufficio di Triassi e il Plenum che ha congelato la pratica, rinviando la decisione a quando la vicenda sarà definita dalla Procura generale della Cassazione. Ci vorrà tempo, quindi, forse anche un anno. E nel frattempo, alla Procura di Nola, si continuerà a lavorare in questo clima. Intanto, il procuratore aggiunto Stefania Castaldi, anch’ella finita nel mirino di alcune critiche, ha già chiesto e ottenuto il trasferimento a Santa Maria Capua Vetere, mentre resta sotto i riflettori il caso del procuratore Triassi. I magistrati firmatari della petizione sono critici nei confronti del Csm. «Non si comprende come – si legge nella petizione firmata da oltre 250 magistrati – a fronte di un’iniziativa volta a denunciare una situazione di penoso malessere, sia stata di fatto paventata, senza ancorarla ad alcuna circostanza oggettiva, l’ipotesi di un complotto ai danni del procuratore e del procuratore aggiunto». I firmatari della petizione ritengono che alcuni consiglieri del Csm, intervenuti a favore della sospensione che ha di fatto bloccato il trasferimento di Triassi, «hanno adombrato l’idea che l’iniziativa assunta dai sostituti fosse finalizzata a danneggiare la dirigenza (per motivi, tuttavia, sconosciuti) e non, invece, a garantire il buon andamento dell’ufficio e la necessaria serenità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. «Sarebbe stata opportuna – scrivono – maggior cautela da parte dei consiglieri intervenuti». «L’ipotesi del complotto – aggiungono i firmatari della petizione, sottolineando l’attualità del problema in considerazione del fatto che l’ultimo esposto risale al 22 giugno scorso – ha, comunque, determinato un inaspettato cambio di prospettiva nell’esame della grave situazione in cui versa attualmente la Procura di Nola. L’esigenza di verificare una mera congettura – concludono – è parsa più rilevante, più urgente, rispetto a quella di ristabilire la piena funzionalità dell’ufficio».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Laura Triassi e la guerra in Procura. Pm, carabinieri, dipendenti e Cartabia contro la procuratrice di Nola: “Ma non me ne vado”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 17 Agosto 2021. All’orizzonte c’è un vero e proprio braccio di ferro. Da una parte la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che nei giorni scorsi ha chiesto il trasferimento d’ufficio in via cautelare di Laura Triassi; dall’alta, la stessa procuratrice di Nola, finita al centro di un procedimento disciplinare dopo che 12 dei suoi 13 sostituti hanno firmato un esposto per denunciare la «gestione verticistica» dell’ufficio giudiziario vesuviano. Assistita dall’avvocato Domenico Mariani, Triassi è pronta a opporsi alla richiesta firmata dalla guardasigilli chiedendone addirittura la declaratoria di improcedibilità. La tesi è chiara: l’iniziativa di Cartabia rientra nelle competenze della Procura generale della Cassazione, organo che esercita l’azione disciplinare e conduce le indagini; ma se la stessa Procura generale della Cassazione non ha ritenuto di disporre il trasferimento in via cautelare, vuol dire che mancano la gravità degli indizi a carico della procuratrice di Nola e l’urgenza di un suo allontanamento. Anzi, stando a quanto emerso nelle ultime ore, le indagini finora espletate dalla Procura generale della Cassazione avrebbero almeno in parte smentito le tesi sostenute dai pm e dai dipendenti amministrativi nei loro esposti indirizzati alla Procura generale della Corte d’appello di Napoli ad aprile scorso. In quei documenti si faceva riferimento, oltre che alla «gestione verticistica» della Procura di Nola, ai «toni aggressivi» usati da Triassi: circostanze che avrebbero generato nei sostituto procuratori «profondo disagio e penoso malessere». Questa ricostruzione sarebbe almeno in parte messa in crisi dalle verifiche condotte dalla Procura generale della Cassazione e raccolte in sette cd depositati nelle scorse ore. «Innanzitutto – spiega l’avvocato Mariani – l’organo titolare del procedimento disciplinare ha acquisito le registrazioni delle conversazioni tra i sostituti e Triassi. E dalle indagini espletate emerge, da un lato, come i sostituti procuratori abbiano accusato gli stessi problemi anche con chi ha preceduto Triassi al vertice della Procura di Nola, e, dall’altro, come i provvedimenti adottati dalla stessa Triassi fossero finalizzati solo ed esclusivamente a una corretta gestione dell’ufficio». In più, sempre secondo quanto trapelato nelle ultime ore, le indagini svolte dalla Procura generale della Cassazione smentirebbero anche un altro dettaglio della vicenda, cioè quello per il quale il 13esimo sostituto procuratore di Nola non avrebbe firmato l’esposto contro Triassi pur dichiarandosi pronto a confermare la tesi accusatoria sostenuta dai colleghi. Al contrario, è emerso che quel pm non solo non ha mai avuto problemi con la procuratrice, ma che è stato anche l’unico a chiedere e ottenere il trasferimento presso un’altra sede, a differenza dei colleghi firmatari dell’esposto. Sviluppi sono attesi per le prossime settimane, quando il caso tornerà davanti alla sezione disciplinare del Csm. Nel frattempo, la vicenda resta oggetto anche una di una procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale che il Plenum del Csm ha sospeso a fine luglio, proprio in attesa degli esiti del procedimento disciplinare. Insomma, la permanenza di Triassi alla guida della Procura di Nola è tormentata come gli esordi. La pm, infatti, era arrivata al vertice dell’ufficio giudiziario vesuviano dopo che il Consiglio di Stato aveva accolto i suoi ricorsi contro le nomine di Francesco Curcio, Raffaello Falcone e Anna Maria Lucchetta alla guida rispettivamente delle Procure di Potenza, Napoli e Nola. Il nome di Triassi era comparso anche nelle chat di Luca Palamara: dai messaggi tra l’ex magistrato e “re delle nomine” e due consiglieri del Csm in quota Area, Nicola Clivio e Valerio Fracassi, risultava come la nomina di Triassi, in quel momento aggiunto a Potenza, alla guida della Procura di Nola non fosse gradita a una parte della magistratura

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

La faida nella Procura di Nola. Il caso Triassi ci ricorda che per i membri del Csm è ora di dire addio all’immunità. Paolo Itri su Il Riformista il 19 Agosto 2021. C’è indubbiamente qualcosa di poco chiaro nella vicenda che vede suo malgrado protagonista l’attuale procuratrice di Nola Laura Triassi. Proviamo a riassumerla. Tra le fine del 2017 e il 2018 il magistrato, che nella prima metà degli anni Novanta era stata protagonista della Tangentopoli napoletana, era in corsa per tre incarichi direttivi e semidirettivi, ma le valutazioni compiute dal Consiglio superiore della magistratura dell’epoca l’avevano vista sconfitta su tutti i fronti. Triassi, che non appartiene ad alcuna delle correnti dell’Anm che da anni si spartiscono gli incarichi negli uffici giudiziari, decise quindi di impugnare i provvedimenti del Csm e presentò ricorso prima al Tar del Lazio e poi al Consiglio di Stato che successivamente le diedero ragione e, pertanto, annullarono le decisioni dell’organo di autogoverno della magistratura. A questo punto, la questione avrebbe potuto dirsi tranquillamente risolta essendo intervenute ben tre sentenze del massimo organo della giustizia amministrativa, tutte favorevoli al magistrato. Sennonché nella primavera del 2019 – cioè in un momento storico, è bene sottolinearlo, in cui il nuovo Csm si era insediato da circa sei mesi – Luca Palamara e un altro paio di ex consiglieri del Csm non più in carica commentarono in maniera negativa le decisioni del Consiglio di Stato arrivando a ipotizzare – non si capisce bene a qual titolo – addirittura un intervento del Capo dello Stato, evidentemente nella sua qualità di presidente dell’organo di autogoverno della magistratura. Nel luglio 2020, a ogni buon conto, il nuovo Csm, giustamente adeguandosi alla decisione dei magistrati amministrativi, nominava Triassi procuratrice di Nola. Fin qui è storia. Ci asteniamo da qualunque commento in ordine alla procedura per incompatibilità ambientale recentemente avviata nei confronti della procuratrice, trattandosi di una vicenda ancora sub iudice. Ebbene, pur non potendosi allo stato ipotizzare alcun collegamento tra le due diverse vicende, quello che colpisce è il fatto che sulla prima, ossia quella che si concluse con la nomina del nuovo vertice della Procura di Nola, non sembra che a tutt’oggi si sia fatta piena luce. Restano in particolare un mistero le ragioni per cui sembra che alcuni esponenti del vecchio Consiglio – tra cui lo stesso Palamara – si fossero così decisamente accaniti sulla questione delle nomine annullate dal Consiglio di Stato in favore di Triassi. Ed è intorno a tale aspetto che lo stesso Palamara potrebbe forse fornire dei preziosi chiarimenti, laddove gli venissero richiesti. D’altra parte, che alla base di tal genere di nomine vi fossero spesso degli accordi “sottobanco” tra le correnti è un fatto arcinoto, pacificamente ammesso dallo stesso Palamara nel suo beste-seller Il Sistema. Ecco, a nostro avviso è proprio questa mancanza di trasparenza la causa del maggior danno arrecato alla magistratura dal sistema delle correnti, non certo dal solo Palamara che quel sistema si è semplicemente limitato a portare alla luce. Così come resta un mistero il motivo per cui, anche a seguito dei recenti scandali che hanno colpito la magistratura, né il legislatore né il “partito dei referendum” si siano finora posti il problema dell’abolizione dell’immunità prevista (con legge ordinaria e non costituzionale) dall’articolo 32 bis della legge 195 del 24 marzo 1958 a favore dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, che pertanto ancora oggi non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni concernenti l’oggetto della discussione. A proposito di tale norma, la giurisprudenza ha peraltro chiarito che l’immunità riguarda ogni tipo di responsabilità, sia essa civile, penale o disciplinare. Sicché i singoli componenti del Csm, per i quali non opera neppure il congegno della cosiddetta “responsabilità politica”, non posso essere chiamati a rispondere neanche a titolo di risarcimento dei danni arrecati con le loro decisioni. Non solo. Le più recenti vicende hanno purtroppo dimostrato che quella immunità, oltre a offendere il comune senso di decenza, è anche criminogena perché disincentiva le denunce da parte dei magistrati ingiustamente danneggiati e impedisce l’emersione del malaffare. Sinceramente, se mi fossi trovato nei panni dei promotori dei referendum, prima di pormi il problema della responsabilità civile diretta dei comuni magistrati – che in silenzio e con sacrificio amministrano ogni giorno la giustizia, spesso in condizioni disagiate e senza mezzi adeguati – mi sarei piuttosto chiesto per quale motivo i rappresentanti delle correnti in seno al Csm dovrebbero continuare a godere di un simile antistorico privilegio del quale pare che non abbiano fatto finora nemmeno un buon uso. Ci auguriamo che il legislatore se ne ricordi quando verrà il momento di riformare il Csm, pur senza sperarci troppo.

La procuratrice nell’occhio del ciclone. Caso Triassi: dal Csm schiaffo alla stampa e alla difesa. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Chi si aspettava una decisione sulla richiesta di trasferimento in via cautelare di Laura Triassi è rimasto deluso. La sezione disciplinare del Csm ha rinviato al 16 settembre l’udienza al termine della quale si saprà se la procuratrice di Nola, contro la quale 12 dei 13 sostituti hanno firmato un esposto denunciando la «gestione verticistica» dell’ufficio, sarà allontanata. Nel frattempo, però, l’organo di autogoverno dei magistrati ha pensato bene non solo di vietare la trasmissione dell’udienza di ieri sulle frequenze di Radio Radicale ma anche di rigettare tutte le istanze di integrazione istruttoria presentate da Triassi attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Mariani. Il motivo? La sezione disciplinare ha ritenuto quelle integrazioni non necessarie, sebbene potenzialmente utili a chiarire i contorni di una faida che sta contribuendo a minare la credibilità della magistratura. La difesa di Triassi chiedeva innanzitutto una nuova audizione di Luigi Riello, il procuratore generale di Napoli al quale i sostituti di Nola hanno indirizzato l’esposto contro la numero uno dell’ufficio giudiziario vesuviano. L’obiettivo? Fare luce una volta per tutte sulla genesi e sull’esatta portata delle accuse mosse contro la procuratrice, “rea” di utilizzare «toni aggressivi» al punto tale da generare nei suoi sottoposti un «profondo disagio e penoso malessere». Perché Riello non ha dato conto del fatto che i contrasti tra Triassi e alcuni ufficiali dei carabinieri erano rientrati da tempo, come emerso dalle indagini svolte dalla Procura generale della Cassazione? Ecco il primo aspetto che la difesa della numero uno dei pm nolani puntava ad approfondire. Il risultato è presto detto: adesso sarà difficile comprendere il motivo per il quale quei pm hanno registrato le conversazioni con la procuratrice, ovviamente a sua insaputa, già poche settimane dopo il suo insediamento a Nola. Ma non finisce qui. La sezione disciplinare del Csm ha detto no anche a una nuova audizione dei 12 firmatari dell’esposto contro Triassi. Il risultato è presto detto: adesso sarà difficile comprendere il motivo per il quale quei pm hanno registrato le conversazioni con la procuratrice, ovviamente a sua insaputa, già poche settimane dopo il suo insediamento a Nola. Anche perché in quei dialoghi, la durata dei quali supera le 16 ore, la Procura generale della Cassazione non avrebbe riscontrato alcuna “parola fuori posto” da parte della Triassi all’indirizzo dei suoi sostituti. Infine l’ultima richiesta di integrazione istruttoria, puntualmente rigettata dalla sezione disciplinare del Csm: ascoltare Anna Maria Lucchetta, il magistrato che ha preceduto Triassi alla guida della Procura di Nola e che durante il suo mandato, come ricostruito sempre dalla Procura generale della Cassazione, pure era entrata in rotta di collisione con alcuni pm in servizio presso l’ufficio. Su tutte queste istanze, dunque, la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha deciso di “glissare”. Allo stesso modo, il Csm ha detto no alla trasmissione dell’udienza sulle frequenze di Radio Radicale come avviene per la maggior parte delle riunioni del Plenum. La difesa della procuratrice ne aveva fatto richiesta per ragioni di trasparenza e alla luce della risonanza mediatica della vicenda. L’organo di autogoverno dei magistrati ha risposto picche con questa motivazione: il caso Triassi riguarda anche altri procedimenti coperti dal segreto istruttorio che la pubblicità dell’udienza avrebbe potuto irrimediabilmente pregiudicare. Lo stesso timore, però, non aveva impedito ai 12 pm firmatari dell’esposto di registrare e trasmettere a chi di dovere le conversazioni con la procuratrice. Ora non resta che attendere il 16 settembre per conoscere le sorti di Triassi, la cui esperienza nolana è stata tormentata fin dal primo momento. La sua nomina era arrivata dopo un lungo braccio di ferro giudiziario con i colleghi Francesco Curcio, Raffaello Falcone e Anna Maria Lucchetta. Il suo nome era finito poi nelle chat di Luca Palamara che, insieme con i consiglieri Nicola Clivio e Valerio Fracassi, aveva sostenuto addirittura la necessità di un intervento da parte del presidente Sergio Mattarella per bloccare la nomina. Infine la faida di Nola col suo strascico di polemiche e sospetti.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

VELENI NELLA MAGISTRATURA. LAURA TRIASSI TORNA A POTENZA, ALLA PROCURA GENERALE. Il Corriere del Giorno il 3 Ottobre 2021. La procuratrice Laura Triassi ha respinto energicamente le contestazioni, negando di aver pronunciato le frasi che le vengono attribuite, sostenendo che in realtà alla base delle accuse, ci sarebbe un’insoddisfazione dei sostituti per le sue scelte nell’organizzazione dell’ufficio. Secondo la sezione disciplinare del Csm fra la procuratrice capo Laura Triassi e i pm della Procura di Nola si è determinata una “situazione di conflitto che appare oggettivamente insanabile” e quindi, in attesa della definizione nel merito del procedimento disciplinare, può essere superata solo attraverso il trasferimento d’ufficio in via cautelare della magistrata con le funzioni di sostituto alla Procura generale di Potenza, città dove per due anni è stata reggente della Procura. E’ stata così accolta per il momento la richiesta avanzata lo scorso 4 agosto dal ministero della Giustizia a seguito degli esposti presentati da dodici sostituti su tredici contro la procuratrice Triassi ed la procuratrice aggiunta Stefania Castaldi. I magistrati della procura di Nola accusano la dottoressa Triassi, che negli anni ‘90 è stato un magistrato in prima linea della “Tangentopoli napoletana”, di aver tenuto nei confronti dei colleghi un contegno definito «offensivo, sprezzante, indagatore» e caratterizzato da «aggressività verbale». Agli atti della sezione disciplinare del Csm ci sono nove file audio registrati di nascosto da alcuni pm durante conversazioni con il capo dell’ufficio e con la sua vice, la procuratrice aggiunta Stefania Castaldi, che nei mesi scorsi ha chiesto il trasferimento in “via preventiva” alla Procura di Santa Maria Capua Vetere. La sezione disciplinare ha escluso elementi a carico della procuratrice per quattro dei dodici capi d’incolpazione, compresi quelli che ipotizzavano la mancata trasmissione di fascicoli d’indagine al pool anticamorra ed ipotetiche condotte scorrette verso ufficiali dei carabinieri, ravvisando soltanto «gravi elementi di fondatezza» con riferimento ai comportamenti ritenuti «abitualmente scorretti» verso i sostituti e il personale amministrativo. La procuratrice Laura Triassi ha respinto energicamente le contestazioni, negando di aver pronunciato le frasi che le vengono attribuite, sostenendo che in realtà alla base delle accuse, ci sarebbe un’insoddisfazione dei sostituti per le sue scelte nell’organizzazione dell’ufficio. La sezione disciplinare ha invece ritenuto credibili i pubblici ministeri, evidenziando che non sono emersi elementi in grado di dimostrare la falsità delle loro affermazioni. Sulla vicenda è stata quindi aperta dal Csm anche una procedura di incompatibilità ambientale. Il 28 luglio scorso il plenum ne ha sospeso la trattazione in attesa della definizione del procedimento disciplinare. La difesa della Triassi, rappresentata dall’avvocato Domenico Mariani, adesso ha due settimane per proporre ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione. «Impugneremo certamente la decisione», ha dichiarato l’avvocato Mariani aggiungendo: “A partire dal 15 settembre 2020, meno di due mesi dopo l’insediamento della dottoressa Triassi, ogni colloquio dei pm con la procuratrice veniva registrato di nascosto. Anche le conversazioni su delicate questioni investigative. Si è trattato di un’iniziativa concordata tra i pm. Ciò nonostante, in questi file audio non si rinviene alcuna delle frasi che nell’esposto vengono attribuite, virgolettate, alla dottoressa Triassi“. Secondo la sezione disciplinare l’assenza nelle registrazioni delle frasi riportate negli esposti potrebbe valere al massimo come “mancata conferma”delle contestazioni, ma non come prova contraria. Resta da chiedersi se la Cassazione dovesse dare ragione alla Triassi che già in passato aveva contestato e ribaltato le decisioni sulle nomine del Csm, cosa dovrebbero fare i componenti della sezione Disciplinare ? Dimettersi ? Sarebbe un comportamento serio, rispettoso verso l’istituzione ma difficilmente i membri del Csm sanno rinunciare alle loro poltrone, che spesso sono un trampolino di lancio per le proprie carriere interne ed esterne alla Magistratura.

E' la vittoria dei dodici sostituti “ribelli”. Caso Triassi, il Csm fa dietrofront e la trasferisce a Potenza. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Alla fine hanno vinto i 12 sostituti che, in un esposto, avevano denunciato la «gestione verticistica» della Procura di Nola. Stesso discorso per i quasi 200 magistrati di tutta Italia e per la guardasigilli Marta Cartabia che si erano espressi per il suo trasferimento d’ufficio. Di chi stiamo parlando? Di Laura Triassi, la procuratrice di Nola. Anzi, l’ex procuratrice, visto che il Csm l’ha appena “spedita” a Potenza dove eserciterà le funzioni di sostituto procuratore generale. Ecco la decisione adottata dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli dopo l’udienza del 16 settembre scorso. Secondo il Csm, Triassi non può restare a Nola perché la sua presenza, alla luce della faida scatenatasi qualche mese fa, pregiudicherebbe «la funzionalità dell’ufficio». Una decisione con la quale l’organo di autogoverno dei magistrati smentisce se stesso: a fine luglio il Plenum aveva bocciato la proposta di trasferimento d’ufficio della procuratrice di Nola, in attesa che fosse definito il procedimento disciplinare a suo carico. A soli due mesi di distanza, dunque, la sezione disciplinare adotta per Triassi il provvedimento che il Plenum aveva sospeso. Non si tratta, però, dell’unico “salto logico” del caso che agita la magistratura. La sezione disciplinare, infatti, ha aderito alla tesi dei 12 sostituti “ribelli” secondo i quali i toni usati da Triassi e dall’aggiunta Stefania Castaldi (trasferitasi a Santa Maria Capua Vetere all’inizio ad agosto scorso) avrebbero generato «un profondo disagio e un penoso malessere» all’interno dell’ufficio. Perciò i 12 sostituti avevano registrato circa 16 ore di conversazioni con Triassi. Da quelle stesse registrazioni, però, erano paradossalmente emerse molte smentite alle accuse contro la procuratrice. Da Luisa D’Innella, unico sostituto procuratore di Nola a non aver firmato l’esposto contro Triassi, aveva sostanzialmente chiarito come i suoi rapporti con la titolare dell’ufficio fossero tutt’altro che tesi. Poi era stato anche un ufficiale della polizia giudiziaria a smontare la ricostruzione di un altro episodio contestato a Triassi: quest’ultima avrebbe apostrofato in malo modo un sostituto imputandogli di aver prodotto un atto d’indagine «schifoso», mentre il militare aveva chiarito come tra i due ci fosse stato solo un confronto sull’esatta qualificazione giuridica di un omicidio. Altre smentite erano arrivate da ufficiali della Guardia di finanza e anche da Anna Maria Lucchetta, magistrato che aveva preceduto Triassi alla guida della Procura di Nola. Tutto inutile: la sezione disciplinare ha ritenuto fondate le contestazioni mosse all’ormai neo-sostituto procuratore generale di Potenza che adesso, tramite l’avvocato Domenico Mariani, si appresta a impugnare la decisione davanti alla Cassazione. Per il momento, dunque, l’esperienza di Laura Triassi a Nola sembra concludersi così com’era cominciata, cioè con una guerra a colpi di carte bollate. La sua nomina era arrivata dopo un lungo braccio di ferro giudiziario con i colleghi Francesco Curcio, Raffaello Falcone e Anna Maria Lucchetta. Il suo nome era finito poi nelle chat dell’ex pm Luca Palamara che, insieme con i consiglieri Nicola Clivio e Valerio Fracassi, aveva sostenuto addirittura la necessità di un intervento del presidente Sergio Mattarella per bloccare la nomina di Triassi a Nola. Infine è stata la volta della faida con i sostituti che ha finora prodotto un doppio risultato: decapitare la Procura vesuviana e assestare un altro duro colpo a quel poco che resta della credibilità della magistratura nostrana.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Palamara all'Antimafia: «Gratteri e Di Matteo non fanno parte del sistema delle correnti». Il Quotidiano del Sud l'1 luglio 2021. «Penso di aver operato solo perché venissero attuati i principi di giustizia giusta. Mi sono trovato ad operare in quel meccanismo e quel meccanismo imponeva delle scelte e degli accordi. Io non mi sento di dire che tutte le nomine che sono state fatte sono state negative. Perché oggi dirigono uffici giudiziari quelli che sono stati eletti con quel meccanismo». Così Luca Palamara, ascoltato in audizione in Commissione parlamentare Antimafia. «Poi ha fatto comodo dare una rappresentazione diversa, ma chi oggi ricopre cariche importanti le ha ricoperte in virtù di un meccanismo che inevitabilmente imponeva il passaggio correntizio», aggiunge. «Per la esperienza diretta di quella che è stata la mia attività, Basentini non aveva requisiti per ricoprire quell’incarico al netto del curriculum che non metto in dubbio», afferma intervenendo sulla nomina dell’ex capo del Dap Francesco Basentini. «Dico che per quel determinato incarico che gestisce una mole di informazioni, il profilo del capo Dap è molto importante perché se si mette un magistrato che capisce certi meccanismi, penso a Di Matteo – prosegue Palamara facendo riferimento soprattutto all’esperienza sul fronte della lotta alla mafia – quella gestione e mole di informazioni può rafforzare ancora di più il personaggio di Di Matteo nella magistratura – continua – E quando si rafforza un personaggio così il sistema si preoccupa per trovare un punto di equilibrio». Come riferisce Palamara, il «punto di equilibrio poteva essere trovato nel nome di Basentini», una scelta che «evitava il rafforzamento» di Di Matteo. «Quando Gratteri è in predicato di diventare ministro della Giustizia, anche in quel caso nella magistratura si teme che Gratteri possa diventare ministro della Giustizia», afferma ancora in audizione. «Fatto sta che il nome di Gratteri, per come appreso in ambito politico, venne depennato dalla lista originaria», continua Palamara precisando che «Gratteri e Di Matteo non fanno parte del meccanismo che rappresenta lo schema dei partiti politici, le correnti attraverso cui si detiene ed esercita potere». L’esclusione dal gruppo stragi di Nino Di Matteo? «Fu una scelta presa autonomamente da Cafiero De Raho», scelta che fu «oggetto di dibattito anche nel Csm», spiega. «Ma la scelta e la motivazione – precisa – fu appannaggio esclusivo di De Raho e nessuna interferenza ci fu per quanto mi riguarda». E ancora: «La scelta di Basentini e del capo di gabinetto Baldi non sono scelte dettate dalle correnti, non hanno fornito il nominativo», spiega Palamara in merito alla nomina dell’ex capo del Dap Francesco Basentini. Nomina che, dice, fu «frutto di una sorta di scelta diversa che in quel contesto si stava verificando anche all’interno del ministero». «Per una pregressa conoscenza tra Minniti e Cafiero, risalente a quando Cafiero era procuratore a Reggio Calabria, ebbi modo di interfacciarmi con Minniti e ci fu quello scambio “Salvate il soldato Cafiero” per significare che la professionalità di Cafiero non dovesse essere persa e in qualche modo recuperata al passaggio successivo», afferma ancora Palamara rispondendo a una domanda su una chat tra Palamara e l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, raccontando della mancata nomina di Federico Cafiero De Raho nel 2017 alla Procura di Napoli e poi la successiva nomina a procuratore nazionale antimafia. Palamara ha aggiunto che «è capitato, e non solo con la nomina di Cafiero, di avere interlocuzioni con il mondo della politica».

Luca Palamara: «I colleghi calabresi non mi hanno voltato le spalle». Paolo Orofino su Il Quotidiano del Sud l'1 luglio 2021. Luca Palamara, l’ex numero uno delle toghe travolto da un’inchiesta, confida al Quotidiano del Sud che, nonostante la vicenda giudiziaria che lo ha colpito, nella sua Calabria ha ancora colleghi magistrati che non gli hanno voltato le spalle e che “silenziosamente” lo stanno sostenendo.

A differenza di molti altri giudici, che prima bussavano alla sua porta per essere aiutati ad aver incarichi direttivi nei tribunali e che ora neppure gli fanno gli auguri di Natale.

Dottor Palamara, ma è vero che appena è uscito il suo libro, tanti magistrati, ma proprio tanti, non hanno perso neanche un minuto per andare a comprarlo?

«Questo non posso essere io a dirlo».

Se le dico Alexander Dumas, lei che mi risponde?

«Che il conte di Montecristo è stata una delle mie letture preferite».

Ecco. Allora diciamo che nella magistratura c’è chi teme da lei una sorta di “vendetta”.

«Io non voglio nessuna vendetta, ma semplicemente ristabilire la verità. Questo perché i cittadini e tanti magistrati hanno il diritto di conoscere come realmente andavano le cose».

Soffre per i tanti “amici” magistrati che prima “bussavano” per essere aiutati nelle nomine e che ora nemmeno le fanno gli auguri di Natale?

«Mi sono sempre messo a disposizione di tutti. E ho cercato di assecondare le più svariate

richieste ma soprattutto di trovare un punto di equilibrio all’interno della magistratura che è un bene primario da preservare in tutti i modi. Fino a quando ha fatto comodo tanti magistrati che consideravo amici mi hanno cercato poi improvvisamente mi hanno voltato le spalle sostenendo che l’auto raccomandazione non è reato. Sembra grottesco ma è proprio così e per questo continuerò a battermi per una operazione verità».

Spieghi meglio cosa intende quando parla di auto-raccomandazione che non sarebbe reato

«Oggi si ritiene che se un magistrato in concomitanza di una nomina avvicina un componente del Csm per chiedere una raccomandazione può tranquillamente farlo.

Pensate a cosa accadrebbe se in occasione di un concorso per dirigente nella Pubblica

amministrazione uno dei concorrenti avvicinasse un commissario per raccomandarsi: finirebbe sotto processo penale. Insomma, due pesi e due misure o meglio la casta che cerca di proteggersi».

Ci dica dei ritorni nella sua Calabria, dove non tutti le hanno voltato le spalle, pur rispettando l’inchiesta che sta subendo.

«Ritornare in Calabria per me è sempre tornare a casa. È vero qui sono rimasti veri amici quelli che mi hanno trattato come il Luca di sempre».

C’è qualche magistrato calabrese che le è rimasto amico nonostante tutto?

«Assolutamente sì. Ci sono tanti che anche silenziosamente mi hanno sostenuto in questo

periodo difficile e che non dimenticherò mai».

Giustizia, Palamara: «Minniti mi chiese di "salvare" Cafiero de Raho». Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2021. Marco Minniti avrebbe, in qualche modo, “raccomandato” Federico Cafiero de Raho, attuale procuratore nazionale antimafia. Almeno questo è quello che trapela dalle parole di Luca Palamara, ascoltato in audizione in Commissione parlamentare Antimafia, rispondendo a una domanda su una chat tra Palamara e l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, raccontando della mancata nomina di Federico Cafiero De Raho nel 2017 alla procura di Napoli e poi la successiva nomina a procuratore nazionale antimafia. Palamara ha spiegato: «Per una pregressa conoscenza tra Minniti e Cafiero, risalente a quando Cafiero era procuratore a Reggio Calabria, ebbi modo di interfacciarmi con Minniti e ci fu quello scambio “Salvate il soldato Cafiero” per significare che la professionalità di Cafiero non dovesse essere persa e in qualche modo recuperata al passaggio successivo». Palamara ha aggiunto che «è capitato, e non solo con la nomina di Cafiero, di avere interlocuzioni con il mondo della politica che io ho sempre ritenuto fisiologiche e non lesive dell’indipendenza della magistratura».

I verbali del lobbista Centofanti: “Per 4 anni bancomat di Palamara”. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica il 12 giugno 2021. Cene con magistrati e politici sempre a carico dell’imprenditore: “Era un investimento”. I rapporti con Amara e il complotto contro il pm Ielo. Un pezzo della politica giudiziaria italiana è stata decisa a tavola in due ristoranti di Roma. Dove i magistrati e i capicorrente discutevano e decidevano i vertici di alcuni degli uffici giudiziari più importanti d’Italia. Ma, al momento del conto, fischiettavano. Nessuno degli attovagliati pagava. Perché alla cassa passava sempre un imprenditore, Fabrizio Centofanti, che ha deciso, ora, di collaborare con gli inquirenti di Perugia nell’inchiesta che lo vede indagato insieme con Luca Palamara.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 12 giugno 2021. «Io ho partecipato a cene finalizzate alla promozione delle nomine, si trattava di cene di "politica giudiziaria"», spiega l'imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti, amico di Luca Palamara e ora suo coimputato per corruzione, nelle dichiarazioni rese alla Procura di Perugia per «chiarire la mia posizione». Sono due verbali in cui Centofanti racconta come facendo coppia con Palamara prima presidente dell'Associazione magistrati e poi componente del Consiglio superiore della magistratura, coltivava relazioni utili al suo lavoro, fatto di «apparenza e credibilità». Ma nel 2016 arriva il primo incidente: perquisizioni ordinate dalla Procura di Roma in un'inchiesta per corruzione (poi archiviata); «da quel momento - dice Centofanti - non ho più partecipato a tali cene. Tuttavia ho provveduto comunque a pagare il conto». Soprattutto in due ristoranti della capitale: «I titolari sapevano che ogni qualvolta si presentava il dottor Palamara il conto doveva essere posto a mio carico con chiunque egli fosse. Io ero sostanzialmente uno sponsor dell'attività politico-correntizia di Palamara. I titolari sapevano che avrei saldato a fine mese mediante l'emissione di un'unica fattura alle mie società». Le spese arrivavano a «7.000/8.000 euro annui dal 2014 fino al febbraio 2018». Tra i magistrati frequentati da Centofanti in cerca di relazioni che gli fruttassero sponsorizzazioni, c'era anche l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone: «È stato sempre ospite a casa mia, solo una volta abbiamo mangiato in un ristorante e ha pagato lui», ma dopo le perquisizioni del 2016 i rapporti si interruppero. Con Palamara invece no: «Abbiamo continuato a vederci e a fare qualche viaggio, io ho adottato qualche cautela». Nel 2017 arriva una nuova perquisizione, e i rapporti diventano più «riservati». Fino all'arresto di Centofanti, a febbraio del 2018, per ordine dei giudici di Messina e di Roma. Dopo sei mesi il lobbista è libero, e con Palamara (non più al Csm), torna a incontrarsi tre volte. La prima a fine settembre 2018, all'hotel Hilton: «Fece intendere di essere ancora molto potente, tanto che aveva propiziato o stava per propiziare la nomina dell'attuale vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr ). Affermava che sarebbe diventato procuratore aggiunto di Roma». Per quell'obiettivo Palamara aveva promesso i voti di Unicost (la sua corrente) al candidato di Magistratura indipendente per la Procura della Capitale, Marcello Viola, in cambio dell'appoggio di MI a nominarlo aggiunto. Poi le famose intercettazioni dell'hotel Champagne hanno fatto saltare il disegno, scoperchiando la battaglia per il vertice della Procura non ancora conclusa dopo oltre due anni: l'altro ieri l'attuale capo dell'ufficio, Michele Prestipino, ha presentato ricorso al Consiglio di Stato per due «errori revocatori» nella sentenza con cui lo stesso organismo ha annullato la sua nomina; nel frattempo Viola ha rinunciato alla domanda per la Procura generale di Palermo lasciando intendere di puntare tutte le sue carte su Roma. Il secondo incontro avviene a casa di un comune amico, tra fine aprile e inizio maggio 2019: «Mi disse che Fava (ex pm romano, all'epoca titolare dell'indagine su Centofanti, entrato in conflitto con Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, ndr ), che mi aveva arrestato, ora voleva fare la guerra a Ielo». In precedenza, Palamara aveva spiegato a Centofanti che Fava l'aveva coinvolto nell'inchiesta per «colpire Pignatone», mentre «ora lo scenario era completamente cambiato... Mi disse che Fava stava preparando una "bomba atomica", e mi chiese di reperire presso Eni notizie sugli incarichi dati al fratello di Ielo. Rimasi sconcertato, pensai che Palamara volesse mettermi in mezzo ancora una volta a una guerra tra magistrati». Proprio ieri i pm di Perugia hanno ribadito davanti al giudice dell'udienza preliminare la richiesta di rinvio a giudizio di Palamara e Fava per il presunto complotto ordito ai danni di Ielo e Pignatone. Nel racconto di Centofanti c'è spazio anche per il terzo incontro casuale («solo qualche battuta cordiale») e il ricordo di alcune cene. Una con l'ex presidente del Tribunale di Roma, Francesco Monastero, in vista della nomina a febbraio 2016, presenti anche il deputato di Italia viva Cosimo Ferri (già leader di Magistratura indipendente), la presidente del Senato Elisabetta Casellati (all'epoca consigliera del Csm) e altri magistrati. Monastero ha confermato con qualche difficoltà nei ricordi, per esempio sulla presenza di Casellati, e nega successive richieste avanzate a Centofanti in favore del figlio avvocato. Altri pranzi o cene pagate e citate dal lobbista, coinvolgono l'ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy e l'ex procuratore di Taranto Carlo Capristo, coinvolto nell'indagine che ha appena riportato in carcere l'avvocato Piero Amara, che secondo Centofanti lo avvisò degli imminenti arresti nel febbraio 2018. Sui viaggi pagati a Palamara, l'imprenditore sembra confermare solo parzialmente la ricostruzione dei pm che li considerano il prezzo della corruzione del magistrato radiato dall'ordine giudiziario. Il quale commenta: « Non mi spaventa nessuna dichiarazione last minute , quasi ad orologeria per distrarre da fatti gravi perpetrati ai miei danni. Non mi lascio certo intimidire da manovre e operazioni "spintanee"».

Massimo Malpica per “Il Giornale” il 12 giugno 2021. Le dichiarazioni last minute di Fabrizio Centofanti non spaventano Luca Palamara. Nel giorno in cui il gup perugino Angela Avila dice no alla richiesta di Piero Amara di essere ammesso come parte civile nel procedimento che vede l'ex numero uno dell'Anm indagato con il pm Stefano Rocco Fava per rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio (per orchestrare una campagna mediatica contro Paolo Ielo e l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone come «vendetta» per non avevano dato l'avallo alla richiesta di arresto di Amara da parte di Fava, nel 2018), agli atti dello stesso procedimento finiscono i due verbali di Centofanti, che ha rilasciato «spontanee dichiarazioni» ai pm perugini Gemma Miliani e Mario Formisano il primo e il nove giugno, relativamente al filone principale che lo vede imputato con Palamara per corruzione. (..) E lo stesso Palamara replica sarcastico, ricordando la non ancora chiarita vicenda del trojan e delle intercettazioni a suo carico proseguite illegittimamente per tre mesi, proprio mentre la sezione disciplinare del Csm acquisisce gli atti sul server trojan nell'ambito del procedimento ai cinque consiglieri che presero parte alla famigerata cena dell'hotel Champagne. E di avere, invece, già chiarito sui fatti riportati da Centofanti. «Non mi spaventa nessuna dichiarazione last minute quasi a orologeria per distrarre da fatti gravi perpetrati ai miei danni», spiega l'ex toga in una nota. «La battaglia per la verità anche sul trojan continua: mi difenderò sempre nel processo dimostrando di non aver mai compresso la mia funzione di magistrato e continuerò a battermi per affermare i principi di una giustizia giusta». «Non mi lascio certo intimidire conclude l'ex consigliere del Csm - da manovre e operazioni spintanee che provano a infangarmi al solo scopo di far calare il silenzio sulla mia vicenda. Non accadrà».

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it l'11 giugno 2021. «Ammetto di essere stato lo “sponsor” di Luca Palamara. Gli ho pagato molte cene e pranzi, pagavo io anche quando non ero al ristorante con lui. Ho saldato anche il conto dei soggiorni a Ibiza e all’hotel Fonteverde a San Casciano. Il mio interesse? Non era legato a influenzare le nomine degli uffici giudiziari, ma alla mia attività di lobbista». Fabrizio Centofanti ha deciso di parlare. L’imprenditore di Artena, indagato per corruzione dai pm di Perugia insieme all’ex magistrato, ha ammesso per la prima volta le utilità date all’amico, imprimendo una svolta decisiva all’indagine coordinata da Raffaele Cantone. A Domani risulta infatti che la scorsa settimana Centofanti abbia confessato agli inquirenti le sue responsabilità, e consegnato anche dettagli inediti sul suo rapporto con Palamara e altri giudici di primo piano. Confermando, di fatto, più di una delle tesi accusatorie. L’imprenditore non solo ha ammesso il do ut des, ma ha pure deciso di cambiare la sua strategia difensiva: l’ammissione sembra prodromica alla richiesta di patteggiamento. Vedremo se la procura umbra accoglierà la proposta. Nel caso, sarà il gip a deciderne l’esito. Dovesse andare in porto l’accordo, per Palamara la situazione potrebbe precipitare, dal momento che si troverebbe solo in un processo difficile, con l’incubo di avere un coindagato che ha confessato di fatto la corruzione per funzione. Fattispecie grave che ancora oggi lui smentisce con vigore. Non è tutto: nel colloquio con i magistrati perugini Centofanti parla anche del presunto “complotto” contro Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo (ex procuratore capo di Roma e aggiunto) organizzato, secondo l’accusa, dallo stesso Palamara e dal pm Stefano Fava: non è un caso che il verbale sia stato depositato nel processo contro i due (sempre a Perugia) di cui è prevista oggi un’udienza delicata. Nell’interrogatorio il lobbista racconta anche di cene con i vertici istituzionali e del Csm: tra queste, ce ne sarebbe una nel 2016 con l’attuale presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Il conto l’avrebbe pagato sempre Centofanti.

Cene e viaggi. Il cielo per Palamara volge dunque al grigio plumbeo. La scelta di Centofanti di chiudere con il passato e ammettere (almeno in parte) comportamenti penalmente rilevanti rischia di mettere all’angolo l’ex pm, già espulso dalla magistratura a causa delle intercettazioni registrate dalla Guardia di finanza all’hotel Champagne. L’imprenditore ha infatti spiegato ai pm di Perugia che Palamara è sì un suo caro amico, e che gran parte dei viaggi fatti insieme sono stati pagati da entrambi. Ma ha pure aggiunto che negli anni – quando Palamara era un importante capocorrente – gli avrebbe offerto «pranzi e cene» perfino quando il lobbista non era seduto al tavolo: in pratica Palamara gli lasciava il conto in sospeso in ristoranti di lusso, che lui saldava in seguito. L’imprenditore ha anche detto di aver offerto all’ex magistrato anche un weekend a Ibiza. Non solo a lui, ma anche a Renato Panvino, un dirigente della polizia molto vicino a Palamara. Ma perché tanta generosità? Centofanti nega di avere, attraverso queste utilità, mai interferito nelle nomine nei tribunali e nelle procure italiane, come sembrano evidenziare anche alcuni passaggi dell’inchiesta di Potenza che giorni fa ha portato agli arresti di Amara e del poliziotto Filippo Paradiso. Essere «sponsor» del potente magistrato, ha confessato però Centofanti, gli consentiva grandi vantaggi sia per l’attività di lobbying sia per i lavori della Cosmec, società con cui l’imprenditore organizzava convegni ed eventi soprattutto nel mondo delle toghe. L’ex capo delle relazioni istituzionali di Acqua Marcia fa un esempio, e racconta di una cena in un hotel romano, avvenuta a inizio 2016 e, a suo dire, organizzata proprio da Palamara. Un rendez-vous durante il quale si sarebbe discusso della possibile nomina di Francesco Monastero a presidente del Tribunale di Roma: la cena fu «pagata da me», e vi parteciparono molti magistrati di magistratura indipendente. Alla tavolata, dice Centofanti, era seduta anche l’attuale presidente del Senato Casellati, anche lei già citata più volte nelle carte dell’inchiesta potentina. Incontri come questi, ammette Centofanti, gli avrebbero consentito di aumentare molto la sua reputazione agli occhi di potenti e possibili clienti, e di trarne così benefici importanti.

Contro Ielo. L’imprenditore ha anche voluto precisare alcune dichiarazioni del suo ex socio in affari Piero Amara, che qualche mese fa aveva affermato a verbale (con conseguente trasformazione del capo d’accusa contro Palamara da corruzione semplice e corruzione in atti giudiziari) come l’ex boss di Unicost avrebbe informato Centofanti dell’andamento di un’altra inchiesta congiunta delle procure di Roma e Messina, che poi nel 2018 il lobbista e l’ex legale dell’Eni in carcere per reati fiscali e corruttivi. Notizie riservate che Palamara avrebbe ottenuto giocando a tennis con il pm di Roma Stefano Fava, che deteneva il fascicolo romano insieme al procuratore Ielo. Centofanti riferisce ora che l’amico non gli avrebbe mai dato notizie coperte da segreto istruttorio come perquisizioni o possibili misure cautelari, ma solo discusso con lui dell’«inquadramento generale dell’inchiesta». Aggiungendo però come Palamara gli dicesse che Fava non ce l’aveva con lui, ma che di fatto Centofanti rappresentava in primis una strada per provare a colpire Pignatone, inviso a Fava da tempo. Quest’ultimo, è noto, è indagato in un altro fascicolo perugino per accesso abusivo al sistema informatico, abuso d’ufficio e violazione del segreto d’ufficio (in quest’ultimo caso in concorso con Palamara), per aver rivelato – secondo l’accusa – a due giornali il contenuto di un esposto segreto che aveva mandato al Csm contro Pignatone e Ielo. Centofanti racconta ora che tra l’aprile e il maggio del 2019 ebbe un incontro con Palamara, a casa dell’imprenditore Alessandro Casali (anche lui sentito dalla procura). Un appuntamento durante il quale Palamara gli avrebbe chiesto di cercare informazioni sul fratello di Ielo e sulle sue consulenze in Eni. Un dossier che sarebbe poi servito a Fava per la sua guerra contro il collega. L’episodio – fosse vero e provato – rischia di peggiorare il quadro indiziario drasticamente. Vedremo se le affermazioni del lobbista reggeranno alla prova dei processi. Un fatto è certo: l’inchiesta perugina ha preso una nuova direttrice, e per gli imputati eccellenti, Palamara in testa, tutto si fa molto più complicato.

A due anni dallo scandalo Csm, un solo colpevole: Palamara. Ma era proprio da solo…? Pochi giorni fa ha compiuto due anni la mitica cena all’Hotel Champagne, dove l’ex potente capo Anm fu intercettato via trojan mentre definiva strategie per assegnare la Procura di Roma a magistrati graditi. Ma ci sono altre centinaia e centinaia di chat con colleghi pm e giudici. Che non sono stati sanzionati né dal Csm né dall’Anm. Palamara è l’unica eccezione. Vuoi vedere che hanno trovato un comodissimo capro espiatorio? Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 maggio 2021. La prossima settimana saranno trascorsi due anni esatti dallo scoppio dello scandalo che ha travolto la magistratura italiana. Il 29 maggio, per la precisione, alcuni quotidiani diedero il via alla pubblicazione delle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare dell’ex togato Csm, ed ex potente capo della Anm, Luca Palamara, all’epoca sotto indagine a Perugia per corruzione. In particolare vennero pubblicati i colloqui avvenuti durante un dopocena presso l’Hotel Champagne di Roma la sera dell’8 maggio 2019 fra Palamara, alcuni consiglieri togati del Csm, e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Le reazioni a quegli scambi che avevano per oggetto le nomine dei capi di alcune Procure del Paese, a iniziare da Roma, furono durissime. Tutti i consiglieri coinvolti si dimisero, e cambiarono così gli equilibri all’interno del Consiglio superiore. Anche il presidente Anm dell’epoca venne costretto alle dimissioni. Il Capo dello Stato usò toni molto duri per descrive l’accaduto, parlando di “modestia etica”. La pubblicazione delle chat che Palamara intratteneva con numerosissimi colleghi che gli chiedevano nomine e incarichi, avvenuto dopo alcuni mesi, aprì poi altri scenari, mettendo plasticamente in luce la deriva correntizia e i condizionamenti dei gruppi associativi sulle scelte del Csm. A distanza di due anni, però, non è che molto sia cambiato, soprattutto per quanto riguarda l’accertamento delle responsabilità. Dopo il doppio “turboprocesso” a Palamara, sia al Csm che davanti ai probiviri dell’Anm, la voglia di rinnovamento, sanzionando ad esempio le condotte non consone allo status del magistrato, pare essersi fermata. Anzi, nel caso dell’Anm non è iniziata proprio. L’Associazione, presieduta dal giudice di Cassazione Giuseppe Santalucia, dopo aver avuto da Perugia le chat di Palamara, aveva dichiarato che si sarebbe proceduto per verificare le eventuali violazioni del codice deontologico. Le dimissioni dei magistrati coinvolti hanno però bloccato sul nascere ogni possibile iniziativa. Se un magistrato si cancella dall’Anm viene meno, infatti, la possibilità di sanzionarlo, fanno sapere da più parti. Tale “modus operandi” ha suscitato questa settimana la piccata reazione dei togati di Articolo 101, il gruppo nato proprio per contrastare la deriva correntizia. “L’Anm non è un tram, su cui si sale per accumulare punti per Csm, posti dirigenziali e altre posizioni gradite, e dal quale si scende in corsa quando arriva il controllore”, ha scritto Maria Angioni, un’esponente di Articolo 101 nell’Anm. «Male ha fatto la Giunta dell’Anm ad accogliere a rotta di collo le dimissioni di chi fugge dal disciplinare, senza rispettare lo statuto, deliberatamente omettendo di comunicare tali iniziative al Comitato direttivo centrale perché potesse decidere su esse, esercitando le sue legittime prerogative», ha aggiunto la dottoressa Angioni. E sul fronte disciplinare al Csm, esclusa la punibilità per i magistrati che si autopromuovevano con Palamara per una nomina, ed eccettuati gli ex consiglieri coinvolti nell’incontro all’hotel Champagne, sono poco più di una decina le toghe attualmente sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Il sospetto è che si voglia chiudere il prima possibile una pagina non proprio edificante per la magistratura, dopo aver trovato il capro espiatorio perfetto: Luca Palamara. Per la cronaca, infine, è stata archiviata ieri la pratica aperta da tempo dalla prima commissione del Csm per valutare la sussistenza dei presupposti per un trasferimento d’ufficio del sostituto procuratore generale della Cassazione Mario Fresa, a seguito di una vicenda di maltrattamenti denunciati dalla moglie, che poi aveva ritirato la querela. La delibera di archiviazione è passata con un solo voto di scarto: 9 sì, 8 no e 8 astensioni. La Procura di Roma aveva archiviato il procedimento penale per la remissione della querela ma anche perché le lesioni non sarebbero derivanti da una “condotta intenzionale”. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha dato atto “delle qualità professionali eccellenti” di Fresa, ricordando che il magistrato era stato sospeso e assegnato a settori diversi. Fresa, infatti, rappresentava spesso l’accusa davanti alla Sezione disciplinare del Csm.

Roberta Polese per corriere.it il 19 maggio 2021. Tre ore e mezzo di serrato colloquio tra il pm Marco Peraro, sostituto procuratore a Padova, e Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e membro togato del Csm, radiato nell’ottobre del 2020 dall’ordine giudiziario in seguito a un’inchiesta sul suo ruolo di “mediatore” tra le correnti della magistratura. La procura di Padova ha aperto un fascicolo per diffamazione a carico di Palamara, la denuncia era partita a gennaio dal magistrato Paolo Ielo, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Roma. Sotto i riflettori alcune affermazioni fatte da Palamara nel suo libro “Il sistema, potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”, edito da Rizzoli e stampato da Grafica Veneta a Trebaseleghe, in provincia di Padova (che quindi è foro competente per i reati connessi alla stampa).

Il libro. Parlando di Ielo, Palamara scrive che la sua candidatura al posto di “aggiunto” alla procura di Roma sarebbe stata caldeggiata al Csm da Giuseppe Pignatone all’epoca procuratore della capitale. Inoltre nel libro si ricostruiscono alcune indagini rispetto alle quali Ielo, a detta di Palamara, si sarebbe dovuto astenere per incompatibilità, tra cui l’inchiesta che riguarda l’imprenditore Francesco Centofanti e l’avvocato e faccendiere dell’Eni Piero Amara. Questa inchiesta era stata aperta inizialmente dal pm Stefano Rocco Fava il quale avrebbe confidato a Palamara di essere stato stoppato dalle indagini proprio da Pignatone e Ielo perché entrambi hanno parenti che dall’Eni avrebbero preso “incarichi ben remunerati”.

Gli altri fascicoli. Su questi fatti è chiamata a fare chiarezza la procura di Padova. Inoltre ci sono altri due fascicoli aperti per diffamazione, per altri magistrati che hanno denunciato quelle che loro ritengono essere falsità, raccontate nel libro di Palamara. Accompagnato dai suoi avvocati, Palamara dopo la deposizione al pm padovano, ha detto: “Sono qui per chiarire, il colloquio con il pm è stato lungo ma è giusto sia così, si tratta di temi molto complessi – ha spiegato – se è necessario tornerò a Padova per altri colloqui” ha spiegato Palamara affiancato dagli avvocati Rampioni e Toniolo.

Tre ore di interrogatorio a Padova. Raffica di querele, Palamara indagato per il libro “Il Sistema”: denunciano Ielo ed Esposito. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Raffica di querele per Luca Palamara, lo “zar delle nomine”, l’uomo del terremoto nella magistratura, l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) rimosso dall’ordine per il caso sulle nomine pilotate ai vertici delle Procure. Questa volta, per tre ore di interrogatorio, è stato ascoltato dai pm di Padova che stanno indagando sulle querele arrivate nei suoi confronti da magistrati citati in Il Sistema, il libro intervista di Alessandro Sallusti, ex direttore de quotidiano Il Giornale e attuale direttore di Libero, a Palamara. Un vero e proprio caso editoriale. Alla settimana scorsa erano oltre 300mila le copie vendute. Diversi magistrati si sono però sentiti diffamati dalle rivelazioni di Palamara. Si tratta di Paolo Ielo, Procuratore Aggiunto di Roma; Piergiorgio Morosini, ex gip del processo Stato-mafia e giudice del Csm; Giuseppe Cascini, membro togato del Csm ed esponente di punta della corrente di sinistra; Antonio e Ferdinando Esposito, padre e figlio, il primo ex presidente di sezione della Cassazione in pensione e il secondo ex pm di Milano ed ex giudice di Torino, radiato lo scorso anno dalla magistratura. Il Procuratore di Padova – l’inchiesta è stata assegnata lì perché il libro, edito da Rizzoli, è stato stampato in una tipografia della provincia veneta – Antonio Cappelleri ha assegnato i fascicoli ai suoi Sostituti, Valeria Spinosa, Marco Peraro e Andrea Zito. Il Procuratore Aggiunto di Roma Ielo si è sentito diffamato dal racconto di una cena organizzata nel 2014 a casa sua, alla quale era presente anche l’allora Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. Cena probabilmente per siglare, a quanto raccontato da Palamara, un patto e creare “un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di Pignatone…”. La querela di Antonio Esposito fa invece riferimento alla sentenza della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a quattro anni, di cui tre indultati, per frode fiscale. Il caso ruota intorno ad Amedeo Franco e alle sue “preoccupazioni per il modo anomalo in cui si era formato il collegio giudicante sia per le pressioni che si si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna”. L’azione di Ferdinando Esposito si riferisce invece a rivelazioni con frequentazioni con “un’indagata, Nicole Minetti” e “per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi, il quale con la procura di Milano qualche conto aperto lo aveva”. Aperte tre diverse inchieste, indagini penali. “Considerato che su queste vicende ci sono molti riflettori puntati, ho deciso di optare per la casualità dell’assegnazione dei fascicoli. A mano a mano che arrivano vengono così smistati sulla base del turno automatico, in modo da non concentrare tutto su un unico magistrato e preservare le indagini da strumentalizzazioni esterne”, ha spiegato al Corriere della Sera Cappelleri. Le querele degli Esposito fanno parte dello stesso fascicolo. Le altre sono fascicoli autonomi. È già polemica sulla vicenda: molti si chiedono a quali correnti appartengono i pm che stanno indagando.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L’ex leader Anm ascoltato a Perugia. Palamara di nuovo alla sbarra: accusato di campagna mediatica contro Pignatone e Ielo. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Dopo la corruzione, la fuga di notizie. Luca Palamara non si fa proprio mancare nulla e ieri è tornato ancora una volta sul banco degli imputati del Tribunale di Perugia. Il nuovo filone investigativo riguarda l’ipotesi di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, accesso abusivo a sistema informatico e abuso d’ufficio. A far compagnia all’ex zar delle nomine, Riccardo Fuzio, già procuratore generale della Cassazione, e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina. L’accusa è sostenuta sempre dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. La vicenda nasce dall’esposto presentato al Consiglio superiore della magistratura da parte di Fava a marzo del 2019. Il magistrato, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, stava svolgendo indagini nei confronti dell’ormai celebre avvocato Piero Amara, noto alle cronache, dopo aver ideato il “Sistema Siracusa”, per aver svelato l’esistenza della loggia super segreta “Ungheria”. Amara, arrestato agli inizi di febbraio del 2018 in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma, era tornato in libertà e aveva iniziato a collaborare con i magistrati. Fava non aveva creduto al pentimento di Amara e aveva chiesto che fosse nuovamente arrestato per una ipotesi di bancarotta e frode. L’aggiunto Paolo Ielo, e l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, non erano però d’accordo e tolsero il fascicolo a Fava. Il magistrato, allora, decise di segnalare al Csm quanto stava accadendo evidenziando anche mancate astensioni da parte dei due in alcuni procedimenti. Per l’accusa, invece, Fava sarebbe stato “istigato” da Palamara. I due avrebbero orchestrato una campagna mediatica contro Ielo e Pignatone che sarebbe sfociata il 29 maggio 2019 in due articoli pubblicati dal Fatto e dalla Verità. Il primo dal titolo: «Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo», il secondo: «Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli». Gli autori dei due pezzi vennero interrogati a Perugia e dissero che l’esposto era conosciuto da tante persone e di non aver avuto rapporti sia con Palamara che con Fava a tal proposito. Fuzio, sempre istigato da Palamara, è accusato del reato di avergli riferito “l’arrivo al Comitato di presidenza del Csm dell’esposto presentato da Fava e di avergli comunicato le iniziative che il Comitato intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti indicati nell’esposto”. Fava, invece, è accusato di essersi “abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento”. Fatto che secondo i pm umbri avveniva “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Al termine dell’udienza di ieri il gup Angela Avila ha ammesso la costituzione di parte civile presentata da Ielo. Prossima udienza fra un mese. Un punto a favore l’hanno segnato comunque gli imputati: dopo la recente sentenza della Corte europea non potranno essere utilizzate nei loro confronti le intercettazioni e le chat acquisite con il trojan inserito nel telefono di Palamara, trattandosi di atti riferiti ad un altro procedimento penale. Intanto ieri il Csm e Michele Prestipino hanno chiesto un rinvio al Consiglio di Stato della decisione sul ricorso presentato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi contro la nomina di Prestipino alla procura di Roma. Una richiesta poco comprensibile dal momento che si sta trattando un procedimento cautelare contraddistinto da carattere d’urgenza. Sul fronte giustizia si registra intanto un duro attacco di Matteo Renzi al Csm, travolto dal caso Amara. La riforma della giustizia? «Ora o mai più. Quello che sta succedendo sulla magistratura – ha tuonato il leader di Italia viva all’interno di Zapping, su Radio Uno – è incredibile. Si chiude un trentennio incredibile, se a Davigo si applicasse il metodo Davigo del Csm non resterebbe niente. Poi se non facciamo la riforma della giustizia non prendiamo i soldi del Recovery, quindi ora o mai più». Ma  Renzi ha anche aperto al referendum sulla giustizia. «Penso che il Parlamento possa e debba fare le riforme – ha detto Renzi – ma l’esperienza referendaria talvolta può essere uno straordinario stimolo, mette pepe al dibattito e sale sulle coda. Quindi l’iniziativa referendaria per me è molto utile». Infine, arrivano news dal caso Creazzo. Finito sotto procedimento disciplinare davanti al Csm dopo le accuse di molestie sessuali rivoltegli dal pm di Palermo Alessia Sinatra, il procuratore di Firenze ha chiesto il pensionamento anticipato. Paolo Comi

Da lastampa.it il 10 aprile 2021. La competenza del procedimento a carico di Luca Palamara resta a Perugia. E' quanto ha deciso il gup Piercarlo Frabotta nel corso dell'udienza preliminare che si è tenuta questa mattina nel Centro Capitini dopo che la difesa dell'ex pm nelle scorse settimane aveva sollevato la questione della competenza territoriale ritenendo che spettasse a Trapani procedere poiché una delle contestazioni mosse dalla Procura di Perugia era avvenuta a Favignana. «E evidente come non sia in alcun modo sostenibile la competenza per territorio del tribunale di Trapani - scrive il gup motivando la decisione - posto che l'utilità descritta, soggiorno a Favignana dell'agosto 2014, non costituisce né la prima né l'ultima delle indebite utilità che Palamara avrebbe ricevuto da Fabrizio Centofanti». «Ne deriva quindi che tanto con riferimento al reato di corruzione originariamente contestato e poi modificato» quanto con riferimento «agli ulteriori delitti di corruzione contestati in via suppletiva il luogo di consumazione deve essere individuato in Roma, alla data del 30 luglio 2017, epoca quest'ultima di ricezione dell'ultima utilità secondo quanto ipotizzato; e tale è la conclusione cui si perviene facendo applicazione della specifica regola, non mutando il locus ed il tempus commissi delicti rispetto al più grave delitto addebitato di corruzione in atti giudiziari». Va quindi «senz'altro affermata - conclude il giudice - la competenza funzionale del tribunale di Perugia». Il gup ha sciolto inoltre la riserva sulle costituzioni delle parti civili che contava, tra gli altri, la presidenza del Consiglio dei Ministri e il ministero della Giustizia. Il giudice ha ammesso la costituzione di parte civile della presidenza del Consiglio dei Ministri e del ministero della Giustizia «nei confronti di Luca Palamara, Fabrizio Centofanti e Adele Attisani in relazione all'imputazione di corruzione e concorso in corruzione». Ammessa inoltre la costituzione di parte civile del ministero della Giustizia nei confronti di Palamara e dell'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio «in relazione all'imputazione di concorso in rivelazione e di rivelazione di di segreto d'ufficio rispettivamente ascritte». Accolta anche la costituzione di parte civile della presidenza del consiglio dei ministri nei confronti di Giancarlo Manfredonia «in relazione al delitto di favoreggiamento personale». Entra, infine, come parte civile anche l'associazione Cittadinanzattiva «nei soli confronti di Luca Palamara, Adele Attisani e Fabrizio Centofanti limitatamente alle imputazioni di corruzione e concorso in corruzione loro ascritte». Il procedimento, che è in fase di udienza preliminare, vede riuniti i filoni che coinvolgono l'ex presidente dell'Anm ed ex consigliere del Csm e per i quali la procura guidata da Raffaele Cantone ha chiesto il rinvio a giudizio: in uno l'ex pm romano è accusato di corruzione insieme ad Adele Attisani, l'imprenditore Fabrizio Centofanti e Giancarlo Manfredonia, mentre l'altro vede coinvolto Palamara e l'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio per una rivelazione di segreto d'ufficio legata all'inchiesta a suo carico. A queste contestazioni nella scorsa udienza del 22 febbraio si sono aggiunte per l'ex presidente dell'Anm quelle di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio e di corruzione in atti giudiziari. La procura di Perugia, modificando il capo di imputazione e in seguito a ulteriori indagini, ha contestato all'ex pm le nuove ipotesi di reato in relazione a un'inchiesta che vedeva coinvolto l'imprenditore Fabrizio Centofanti a Messina e a Roma.

Palamara, è il giorno del (rinvio a) giudizio chiesto da Cantone. Oggi può arrivare il rinvio a giudizio ma anche il clamoroso trasferimento del processo. Decisivi i presunti contatti con il pg di Messina Barbaro. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 aprile 2021. È prevista per questa mattina la decisione del gup del Tribunale di Perugia, Piercarlo Frabotta, sulle eccezioni presentate dai difensori di Luca Palamara. Prima fra tutte, quella di incompetenza territoriale. Secondo la difesa dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, rappresentata dagli avvocati romani Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, il processo dovrebbe tenersi a Trapani, luogo dove sarebbe stata effettuata la prima dazione corruttiva, un soggiorno alle isole Egadi, da parte dell’imprenditore Fabrizio Centofanti. Palamara, comunque, ha fatto sapere di essere pronto a rilasciare dichiarazioni prima della decisione del giudice sul rinvio o meno a giudizio. Secondo i pm umbri, Centofanti era un lobbista, un faccendiere, che aveva tutto l’interesse a coltivare il rapporto con Palamara, soprattutto quando quest’ultimo era componente togato del Csm. Una attività di fidelizzazione che sarebbe avvenuta “a prescindere dall’utilizzabilità di una determinata attività o un determinato atto” da parte di Palamara. “Il lobbista ha interesse a coltivare il rapporto con il pubblico ufficiale per poterlo sfruttare al momento opportuno”, aveva ricordato in udienza il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone. Palamara, ed è una delle accuse, avrebbe dato indicazioni a Centofanti sulle indagini nei suoi confronti condotte nel 2017 dalla Procura di Messina. All’ultima udienza, il 19 marzo scorso, Cantone aveva depositato un nuovo verbale di interrogatorio reso il 4 febbraio dall’avvocato Piero Amara, uno dei coimputati di Palamara in questo processo, già condannato per altre vicende corruttive da diverse Procure, e fra gli artefici del “Sistema Siracusa”, creato per aggiustare i processi e di cui facevano parte professionisti e magistrati, sul quale aveva indagato appunto l’ufficio inquirente di Messina. Il verbale, di 6 pagine, era quasi tutto omissato in quanto, come aveva detto Cantone, “non abbiamo alcun interesse a renderlo pubblico: ci sono fatti di rilevanza investigativa che attengono ad altre vicende”. L’unica pagina non omissata era quella che riguardava il procuratore generale di Messina, Vincenzo Barbaro, e i suoi rapporti con Palamara. Cantone aveva anche aggiunto che questo verbale faceva parte di “un procedimento penale del 2021 in cui Amara viene sentito come imputato”. Barbaro, interrogato l’ 11 marzo 2021 da Cantone, aveva chiarito i propri legami con Palamara, dichiarando senza mezzi termini di “considerare calunniose le dichiarazioni dell’avvocato Amara” e, soprattutto, di non aver incontrato Palamara dopo le riunioni di coordinamento con la Procura di Roma del 14 febbraio 2017 e del 15 marzo 2017. Alla domanda posta da Cantone “si è incontrato con Luca Palamara dopo le riunioni del 14 febbraio 2017 e del 15 marzo 2017”, Barbaro aveva infatti risposto stizzito “assolutamente no”, portando come testimoni anche due colleghi con i quali era ripartito per Messina dopo la prima riunione e rispondendo in maniera certa anche sulla seconda riunione. Il Gico della Guardia di Finanza, che ha effettuato le indagini, nell’informativa del 19 febbraio 2021, depositata sempre da Cantone alla scorsa udienza, aveva inserito un capitolo intitolato “Riscontri investigativi” a proposito degli incontri tra Palamara e Centofanti successivi a quelli tra Barbaro e Palamara finalizzati, appunto, al passaggio delle “informazioni riservate sull’indagine” di Messina a favore di Centofanti. I finanzieri avevano ritenuto pienamente dimostrati, attraverso “l’attività di analisi orientata sul rilevamento dei positioning con localizzazione Gps dell’autoveicolo in uso al Centofanti” gli incontri di Palamara con Centofanti a Roma. Barbaro, comunque, non è indagato.

Alla faccia della terzietà del giudice. Palamaragate, il CSM si fa in tre: giudice, parte lesa e correo. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Aprile 2021. «Io non conosco un caso in cui il giudice sia anche persona offesa di quella vicenda», disse Stefano Giaime Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Luca Palamara. La frase venne pronunciata durante una delle udienze del procedimento davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in cui il suo assistito era accusato di aver interferito, durante il celebre incontro dell’hotel Champagne la sera dell’8 maggio del 2019, nella scelta del nome del capo della Procura di Roma da parte dell’organo di autogoverno delle toghe. Palamara era anche accusato di aver voluto screditare, facendo presentare un esposto al collega pm Stefano Rocco Fava, l’allora procuratore Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo. La Sezione disciplinare non ascoltò Guizzi e dopo un “turbo processo” durato poco più di un mese, in cui erano stati tagliati quasi tutti i testimoni, decise lo scorso ottobre di espellere l’ex zar delle nomine dall’ordine giudiziario. Il collegio era presieduto dal laico pentastellato Fulvio Gigliotti e vi faceva parte pure Piercamillo Davigo: due componenti della Commissione per gli incarichi direttivi che il 23 maggio del 2019 avevano votato proprio per il nuovo procuratore di Roma. Davigo, in particolare, votò, salvo poi cambiare idea, il candidato “scelto” da Palamara: il procuratore generale di Firenze Marcello Viola. A distanza di circa sei mesi da allora, il gup del Tribunale di Perugia Piercarlo Frabotta ha stabilito invece che il Csm deve considerarsi parte offesa nel processo per corruzione in corso nel capoluogo umbro nei confronti di Palamara. Frabotta ha invitato Palazzo dei Marescialli a provvedere di conseguenza. La decisione è giunta venerdì mattina (9 aprile) durante l’udienza in cui si doveva decidere se rinviare o meno a giudizio Palamara. Il Palamaragate, dunque, a distanza di quasi due anni non finisce mai di stupire, riservando ogni giorno una sorpresa. Con la decisione del giudice Frabotta, la sentenza disciplinare nei confronti Palamara assume una luce molto particolare. Per fare un parallelo è come se una sentenza nei confronti di uno scippatore fosse stata emessa da chi ne ha subito lo scippo. Alla faccia della terzietà e della serenità di giudizio. «Il vulnus è che non ci sia consigliere del Csm che non si sia espresso pubblicamente su questa vicenda. C’è chi ha paragonato il metodo Palamara al metodo mafioso, chi ha stabilito parallelismo con la P2. Non c’è serenità per affrontare giudizio», aveva aggiunto all’epoca Guizzi, ricordando che i giudici avevano «ritenuto legittimamente che questi dubbi non fossero fondati». David Ermini, presidente pro tempore del Csm dovrebbe, quindi, costituirsi adesso parte civile nel processo a Perugia e chiedere i danni a Palamara, cioè a colui che è stato, come riportato nel libro Il Sistema, l’artefice della sua nomina. Cosa farà il Csm? Frabotta ha rinviato l’udienza al prossimo 23 aprile. Entro quella data il Csm dovrà aver votato in Plenum la delibera per Perugia. In caso contrario chi sarebbe la persona offesa della corruzione commessa da Palamara? La vicenda, al netto dei tecnicismi giuridici, è quanto mai pirandelliana, essendo impossibile da mesi distinguere la realtà dalla finzione. Ed è anche la conseguenza della decisione del capo dello Stato Sergio Mattarella di non sciogliere, quando scoppio il Palamaragate, il Csm ed avallare, di fatto, il primo ribaltone della storia del Csm. Un dato certo è che ci si trova di fronte ad un corto circuito senza precedenti. La decisione ultima sull’espulsione di Palamara da parte delle Sezioni unite della Cassazione è attesa all’inizio del prossimo mese di giugno. La Cassazione è ad un bivio. Annullare il provvedimento del Csm e disporre un nuovo giudizio per Palamara che, nel frattempo, potrebbe anche tornare in servizio alla Procura di Roma. Oppure, avallare la decisione della Sezione disciplinare e prepararsi ad un ricorso di Palamara alla Corte di Strasburgo. Ricorso per il quale serviranno anni. Nel frattempo in molti sperano che la vicenda sarà dimenticata. Non una bella pagina per un Paese che si professa la culla del diritto.

Il processo allo zar delle nomine. Il Csm ha paura e non si costituisce parte civile contro Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Aprile 2021. Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di “riservare all’eventuale fase processuale” la valutazione dell’opportunità di costituirsi parte civile nel processo a carico di Luca Palamara. Palazzo dei Marescialli, dunque, prende tempo ed evita l’imbarazzo, dopo aver giudicato ed espulso Palamara dalla magistratura, di passare ora per il danneggiato dalle sue condotte. «Io non conosco un caso in cui il giudice sia anche persona offesa di quella vicenda», disse – profetico – Stefano Giaime Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore dell’ex zar delle nomine. La settimana scorsa il gup di Perugia Piercarlo Frabotta aveva invitato il Csm, nella persona del vice presidente David Ermini, “quale persona offesa e danneggiata dai delitti di corruzione contestati a Palamara” a costituirsi parte civile. «Ritenuto che la forma ancora inevitabilmente precaria della contestazione renda opportuna non pervenire immediatamente ad una decisione riservandosi all’eventuale fase del dibattimento quanto saranno definitivamente cristallizzati le ipotesi d’accusa», la risposta secca del Csm. Dopo aver buttato momentaneamente la palla in tribuna sul fronte Palamara, il Csm ha deciso di assolvere i chattatori che si rivolgevano all’ex presidente dell’Anm per chiedere nomine o incarichi. Oggi il voto in Plenum. Nei confronti di queste toghe era stata aperta una pratica per “incompatibilità ambientale”. Fra le archiviazioni di peso, quella del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e del procuratore di Milano Francesco Greco. Per quanto riguarda la Procura di Milano, nel 2017 erano vacanti ben sei posti di procuratore aggiunto su otto in pianta organica. La Commissione per gli incarichi direttivi si era riunita il 20 settembre 2017 e aveva formulato le proprie proposte, poi trasmesse al Plenum che aveva deliberato l’8 novembre 2017. Pochi minuti prima della seduta di Commissione, Palamara viene messo in allarme e invitato a sentire Greco. La “cinquina” prevede: “De Pasquale (Fabio), Dolci (Alessandra), Siciliano (Tiziana), Mannella (Maria Letizia), Pedio (Laura); sesto posto a Fusco (Eugenio) tra un mese”. Tutte toghe progressiste, come Greco, o di centro. Nessuna della destra giudiziaria di Magistratura indipendente, la corrente di Cosimo Ferri. Palamara chiede dove possa variare, rispetto a questi nomi, per poter esprimere il voto in favore di un appartenente al proprio gruppo associativo, Unicost, pur tenendo in considerazione i gradimenti di Greco. La Commissione formulò proposte unanimi per le dottoresse Siciliano e Mannella, a larga maggioranza (cinque voti a favore) per Fusco, De Pasquale e Dolci, e una proposta con tre voti a favore della dottoressa Pedio e tre voti a favore di Nunzia Ciaravolo. Il 4 ottobre successivo, il magistrato milanese Angelo Renna scrive a Palamara un messaggio sibillino: «Greco mi ha voluto dire che ieri avete preso caffè insieme. Laura Pedio – provo ad indovinare- è in gamba e non so quanto sia utile votare a perdere su Ciaravolo», ricevendo la seguente risposta: «Grande Angelo». «L’ipotesi avanzata da Renna, secondo cui nel corso dell’incontro Greco aveva sostenuto la candidatura di Pedio in luogo di quella di Ciaravolo, rimane confinata ad un dialogo tra terzi, privo di riscontri», puntualizza il Csm, stroncando sul nascere i sospetti di favoritismi da parte del procuratore di Milano. Nessuna sorpresa poi in Plenum dove sarà ratificata la di nomina di De Pasquale, Dolci, Fusco, Mannella, Siciliano e, appunto, Pedio. La dottoressa Ciaravolo, per la cronaca, revocò la domanda proprio la mattina della votazione finale. Greco su questa vicenda è stato sentito il 25 febbraio scorso. «Io non ho mai cercato nessuno. Ho avuto invece la visita di diversi consiglieri qui a Milano, diciamo, per usare un termine gergale, di tutte le correnti, anche perché dopo la mia nomina tutti hanno fatto la corsa a intestarsela o a dimostrare comunque che se anche avevano votato contro l’avevano fatto perché sapevano… queste logiche le conosciamo». Fatta questa premessa, ha aggiunto: «L’unica cosa che forse posso aver detto è ‘vorrei che fossero tutti magistrati del mio ufficio’». Palamara, sentito anch’egli, ha affermato che i nomi degli aggiunti vennero decisi «all’interno del Consiglio, previa riunione della corrente di Unicost e previo poi incontro con i rappresentanti degli altri gruppi». Fine della storia.

L'ennesimo paradosso del caso Palamara: il suo Csm è sotto accusa ma anche vittima. Accolta la richiesta della difesa: l'organo di autogoverno è «parte offesa». Anna Maria Greco - Sab, 10/04/2021 - su Il Giornale. Quello di Luca Palamara potrebbe diventare il processo dei paradossi. Perché ieri il gup perugino ha dato ragione alla difesa dell'ex presidente dell'Anm sulla possibile costituzione di parte civile del Csm. L'organo di autogoverno delle toghe viene definito, nell'ordinanza, come «persona offesa-danneggiata» dai reati contestati a Palamara quale suo componente. E dunque Palazzo de' Marescialli si trova ora nella doppia posizione di vittima a Perugia e di giudice a Roma, quando a ottobre ha tenuto contro l'allora leader della corrente Unicost il processo disciplinare che ha portato alla sua radiazione. Non un Csm istituzione astratta, ma quello stesso che aveva tra i suoi 27 membri il «dominus» delle nomine Palamara. Quello stesso guidato dal vicepresidente David Ermini che, secondo le chat, sarebbe stato nominato grazie alle sue manovre e riceverà presto gli atti da Perugia per far discutere in plenum se costituirsi parte civile. Nel capoluogo umbro si è svolta l'udienza preliminare del processo per corruzione contro l'ex magistrato e il gup Piercarlo Frabotta ha deciso che la competenza del procedimento resta a Perugia, respingendo la richiesta della difesa che passasse a Trapani perché una delle contestazioni dei pm guidati da Raffaele Cantone riguarda un soggiorno a Favignana dell'agosto 2014. «Non costituisce né la prima né l'ultima delle indebite utilità che Palamara avrebbe ricevuto da Fabrizio Centofanti», ha affermato il giudice. Quanto alle costituzioni di parte civile, il gup ha ammesso la presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero della Giustizia e l'associazione Cittadinanzattiva. Per i legali di Palamara Roberto Rampioni e Luca Buratti, però, non sarebbero loro i veri danneggiati dalla corruzione contestata all'exmagistrato, ma il Csm. Hanno chiesto «il contraddittorio» con il Consiglio come parte offesa e il giudice ha dato loro ragione, aprendo inquietanti scenari futuri. Per lui, è «pacifico» che Palazzo de' Marescialli sia danneggiato dal reato, se l'imputato viene accusato, «nella veste di componente togato del Csm,di aver asservito la funzione consiliare all'interesse privato dell'imprenditore Fabrizio Centofanti, ricevendone in cambio molteplici utilità per sé e per altri».

Questo potrebbe portare in aula gli attuali componenti del Csm, tranne i pochi che si sono dimessi, per spiegare se erano estranei o conniventi mentre Palamara dirigeva il suo Sistema di traffici correntizi. La prossima puntata, il 23 aprile. La difesa già preannuncia che darà battaglia sull'uso del trojan-spia, le cui intercettazioni passavano per un server di Napoli invece di arrivare direttamente ai pm di Roma, a quanto sembra. 

Massimo Malpica per il Giornale il 3 aprile 2021. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando? Suscettibile, a dir poco. Era Guardasigilli quando il «sistema» denunciato da Luca Palamara funzionava come un orologio svizzero, eppure se qualcuno glielo ricorda replica a forza di querele. Chiedere all'ex assessore spezzino Paolo Asti, che per aver difeso il suo ex sindaco, Pierluigi Pieracchini, da un attacco di Orlando, ricordando all'ex ministro di aver quantomeno «controllato male» uno dei «Proconsoli» nel Csm che si è poi dimostrato uno dei «più infedeli che la Repubblica abbia avuto». Un chiaro riferimento a Palamara, nemmeno troppo velenoso, infilato tra le righe di un articoletto uscito su un quotidiano locale della Spezia a ottobre dello scorso anno. Tutto era cominciato con un'intervista in cui Orlando aveva attaccato Pieracchini definendolo un «proconsole» di Toti, e paragonando il Governatore alla Russia e il sindaco alla Bulgaria «fedele alla linea». Il primo cittadino aveva replicato, e il giorno dopo anche l'allora assessore Asti aveva fatto lo stesso, con in più quell'accenno al caso Palamara. Solo che l'ex Guardasigilli l'ha presa malissimo. E l'11 febbraio scorso ha pensato bene di presentarsi in procura a Roma per querelare Asti per diffamazione a mezzo stampa, avendogli lo spezzino attribuito «responsabilità» in merito alla questione Palamara. Peccato, come è noto, che a coinvolgere Orlando non penalmente, visto che non è indagato, ma per il suo ruolo politico nella vicenda sollevata dall'ex numero uno dell'Anm è stato proprio Palamara. Con una serie di riferimenti all'ex ministro nel libro-intervista «Il Sistema» di Alessandro Sallusti. Così Asti ha preso nota, e tornando sei mesi dopo sulla questione, ha ribadito come i suoi riferimenti alle responsabilità di Orlando ricalcassero né più né meno quelli poi ribaditi nel libro uscito pochi mesi più tardi, nel quale a chiamare in causa l'ex Guardasigilli non è appunto Asti ma proprio Palamara, quanto basta ad Asti per ribadire come «pur essendo l'On. Orlando estraneo, fino a oggi, a qualsiasi inchiesta, gravano su di lui le responsabilità politiche da me richiamate». Vista la sproporzionata reazione dell'Orlando furioso, la questione sulla «inassociabilità» di un ex ministro della Giustizia a un ex potentissimo magistrato è finita pure in Parlamento. Grazie a un'interrogazione di Fdi, firmata da Andrea Del Mastro Delle Vedove, Giovanni Donzelli e Federico Mollicone. Nell'interpellanza i tre fratelli d'Italia si chiedono come mai Orlando se la sia presa tanto considerando, in primo luogo, che «la posizione di vertice al dicastero di via Arenula comporta quantomeno un'indubbia responsabilità politica in materia di giustizia», per poi ribadire le numerose citazioni dell'ex ministro fatte da Palamara e non smentite. Come i contatti, messi nero su bianco dall'ex presidente Anm, con il Guardasigilli sia in occasione della nomina di Legnini a vicepresidente del Csm che per la designazione a procuratore capo di Napoli di Giovanni Melillo, che all'epoca era proprio capo di Gabinetto di Orlando.

Caso Palamara, il Csm parte offesa a Perugia, ma poté giudicarlo nel disciplinare. Colpo di scena ieri mattina al palazzo di giustizia di Perugia durante l’udienza preliminare in cui si doveva decidere del destino dell'ex presidente dell'Anm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 aprile 2021. Colpo di scena ieri mattina al palazzo di giustizia di Perugia durante l’udienza preliminare in cui si doveva decidere del destino di Luca Palamara. Il gup Piercarlo Frabotta ha stabilito che il Consiglio superiore della magistratura sia “parte offesa” nel procedimento penale per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Frabotta ha, quindi, disposto con un’ordinanza «la notifica nei confronti del Csm quale persona offesa- danneggiata dai delitti di corruzione per i quali si procede». «È pacifico – scrive il gup – che rispetto alla contestazione di corruzione per l’esercizio della funzione nei confronti di Palamara il Csm rivesta la qualità di persona offesa dal reato, essendo addebitato all’imputato, nella veste di componente togato del Csm, di avere asservito la funzione consiliare all’interesse privato dell’imprenditore Fabrizio Centofanti, ricevendo in cambio molteplici utilità, per sé e per gli altri». «Nel quadro di tale stabile asservimento» sono state poi contestate in via suppletiva a Palamara le accuse di corruzione e corruzione in atti giudiziari «ipotesi d’accusa commesse sempre nella veste di consigliere superiore. Va pertanto disposta la citazione del Csm in persona del suo vicepresidente pro- tempore (David Ermini, ndr) quale persona offesa- danneggiata dai reati di corruzione per i quali si procede». La Procura di Perugia, diretta da Raffaele Cantone, aveva invece omesso nel provvedimento di rinvio a giudizio a carico di Palamara di indicare il Csm come parte offesa. Il Csm avrà ora dieci giorni, Frabotta ha fissato la prossima udienza per il 23 aprile, per approvare in Plenum la delibera di costituzione in giudizio. La decisione del gup umbro non è di poco conto, in quanto Palamara ha sempre affermato che il Csm fosse parte offesa nei suoi confronti e, quindi, non “terzo” ed “imparziale” nel procedimento disciplinare, come invece è poi avvenuto lo scorso anno conclusosi con la radiazione dall’ordine giudiziario. Nell’udienza di ieri il gup ha, poi, respinto tutte le eccezioni sollevate dalla difesa di Palamara, rappresentata dagli avvocati romani Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, ad iniziare da quella della competenza territoriale. Era stato chiesto, infatti, lo spostamento del processo a Trapani, in quanto il primo episodio corruttivo sarebbe consistito nel pagamento, effettuato da Centofanti, di un viaggio alle isole Egadi. Non è stata, invece, affrontata la questione dell’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate dal Gico della guardia di finanza attraverso il trojan che era stato inserito nel cellulare di Palamara. Il tema in punto di diritto sarà toccato, a questo punto, durante la prossima udienza, prima della decisione. Il magistrato ha comunque fatto sapere che è sua intenzione rilasciare delle spontanee dichiarazioni.

(ANSA il 31 marzo 2021) - Richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Perugia per l'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, già membro del Csm, e dell'ex magistrato romano Luca Palamara accusati di concorso in rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. In particolare Fuzio, "su istigazione" di Palamara avrebbe rivelato all'allora sostituto procuratore di Roma - secondo l'accusa - l'arrivo al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura di un esposto presentato dal magistrato Stefano Fava riguardante comportamenti "asseritamente scorretti" dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

DAGONEWS il 31 marzo 2021. Luca Palamara, nonostante il rinvio a giudizio chiesto per lui dalla procura di Perugia, si sente in una botte di ferro. E' sicuro che non verrà arrestato perché molte delle persone che hanno straparlato con lui di promozioni e nomine, e sono rimaste "impigliate" nelle intercettazioni, sono vicine al Quirinale…rovinosa. L'ex presidente dell'Anm, finito nel tritacarne nell'indagine sul "Sistema" sull'intreccio malato tra magistratura e politica, vuole la testa di quello che considera il responsabile numero uno della sua caduta nella polvere: Giuseppe Pignatone. L'ex capo della Procura di Roma fa parte di una "filiera" tutta sicula che comprende anche l'ex presidente berlusconiano del Senato Renato Schifani, l'ex capo dell'Aisi (fino al 2016) Arturo Esposito e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Se il bersaglio Pignatone dovesse essere mancato, gli "addetti ai livori" giurano che Palamara proverà ad alzare il tiro…Anche per l'aria fetida che s'annusa in zona giustizia-magistrati-procure, Mattarella non vuole essere coinvolto e si è reso indisponibile non solo a un settennato-bis ma anche a un biennio-bis alla Napolitano. Con l'intreccio tossico dei poteri, vendette in corso varie e potenziali, le ambizioni dei magistrati, chi glielo fa fare a restare ancora al Colle e dunque alla guida di quella santabarbara che è diventato il Csm? Per uscire dal tunnel di veti incrociati, s'avanza forse l'unica realistica riforma del Consiglio Superiore della Magistratura: sorteggiare i membri togati e lasciare al Parlamento la nomina dei laici. PS: Ricordate la chat tra i magistrati della procura di Milano la cui esistenza è stata svelata da "Il Giornale"? In quelle conversazioni le toghe si sono scambiate fendenti senza pietà, sia per le conseguenze del caso Palamara che per la sconfitta della Procura nel processo Eni. Ecco, la chat è stata chiusa. Ne è stata aperta un'altra, con un numero ristretto di partecipanti che sono alla ricerca della spia che ha spifferato i segreti della chat…PS-bis: a novembre andrà in pensione il procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Per la successione non ci sono solo le ambizioni sbagliate di Nicola Gratteri, attualmente procuratore della Repubblica a Catanzaro, che i poteri forti non vogliono a capo di una procura che è molto più "delicata" di quella romana, essendo anche una piazza finanziaria. C'è anche Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. Come finirà? Non si sa. Quel che si sa è che entrambi hanno molte carte da giocare…

Claudio Sebastiani per ANSA il 31 marzo 2021. La procura della Repubblica di Perugia mette un altro punto alle inchieste che ruotano intorno alla figura dell'ex magistrato e consigliere del Csm Luca Palamara. Lo fanno chiedendo il rinvio a giudizio, a vario titolo, dell'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio e del già sostituto procuratore di Roma Stefano Rocco Fava. Oltre che dello stesso Palamara, in un troncone d'inchiesta nel quale compaiono sullo sfondo alcune delle contrapposizioni all'interno della procura di Roma. Per tutti l'inizio dell'udienza preliminare è fissato il 13 maggio prossimo. In particolare la procura perugina - guidata da Raffaele Cantone che coordina l'attività dei sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano - ha chiesto di processare Fuzio, già membro del Csm, e Palamara per concorso in rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. Secondo la ricostruzione accusatoria Fuzio, "su istigazione" di Palamara avrebbe rivelato all'allora sostituto procuratore di Roma l'arrivo al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura di un esposto presentato dal magistrato Stefano Fava riguardante comportamenti "asseritamente scorretti" dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Fuzio inoltre - sempre secondo l'accusa - avrebbe reso noto a Palamara le iniziative che il Comitato di presidenza del Csm intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti descritti nell'esposto. Per la procura di Perugia in questo reato concorreva Palamara che "conoscendo le intenzioni di Fava" (già sostituto procuratore a Roma e ora giudice civile a Latina) aveva chiesto all'ex procuratore generale della Cassazione di verificare che l'esposto fosse stato effettivamente presentato. Fatti collocati all'inizio di aprile 2019. Nella richiesta di rinvio a giudizio è coinvolto anche lo stesso Fava di essersi abusivamente introdotto (nel maggio del 2019) in un applicativo del Ministero della Giustizia per la digitalizzazione degli atti acquisendo i verbali d'udienza e della sentenza del procedimento 62278/2012 "per ragioni estranee" a quelle per le quali aveva facoltà. Il suo obiettivo - emerge sempre dalla richiesta di rinvio a giudizio - era di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, che da poco aveva lasciato la guida della procura di Roma, e dell'aggiunto Paolo Ielo, anche con "l'ausilio" di Palamara. Fava e Palamara sono poi accusati di avere rivelato ad alcuni giornalisti notizie "d'ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete". Tra queste il fatto che l'avvocato Piero Amara era indagato per bancarotta e frode fiscale e che nei suoi confronti Fava aveva predisposto una misura cautelare per la quale però "non era stato apposto il visto". Per il solo Fava è stato poi chiesto il processo per abuso d'ufficio in quanto sostituto procuratore a Roma avrebbe acquisito atti di alcuni procedimenti penali per far avviare un procedimento disciplinare nei confronti dell'allora procuratore Pignatone e operato una raccolta di informazioni volte a screditare Ielo, anche attraverso l'apertura di un fascicolo a Perugia. Fava è chiamato tra l'altro a rispondere di avere svolto accertamenti investigativi, "raccogliendo atti di procedimenti penali a lui non assegnati, per dimostrare l'incompatibilità dei due magistrati e la violazione dell'obbligo di astensione ma anche di avere presentato un esposto al Csm in cui riportava una versione volutamente incompleta - ritiene l'accusa - degli atti adottati dal procuratore in ordine a supposte ragioni di incompatibilità per la trattazione di alcuni procedimenti".

(ANSA il 13 aprile 2021) - Non ha compiuto "un'impropria interferenza" nelle nomine di 6 procuratori aggiunti che il Csm decise nel 2017 il procuratore di Milano Francesco Greco. Con questa motivazione la Prima Commissione del Csm ha proposto al plenum di archiviare il fascicolo sul capo dei pm milanesi, proposta che sarà discussa domani dall'assemblea plenaria. Il fascicolo su Greco è uno dei tantissimi che sono stati aperti al Csm sulla base delle chat di Luca Palamara con un centinaio di magistrati contenute nel suo telefonino e trasmesse dalla procura di Perugia, che ha messo sotto procedimento penale l'ex presidente dell'Anm. Secondo i consiglieri sulle nomine degli aggiunti di Milano "è emerso sicuramente" che vi furono interlocuzioni tra i consiglieri del Csm dell'epoca, "Nicola Clivio e Palamara, e il dott. Greco, ma tali interlocuzioni furono attivate dagli stessi consiglieri e non si risolsero in alcuna segnalazione o promozione di specifici nominativi da parte del dottor Greco, quanto in una generale consultazione sulle problematiche dell'ufficio e sulle professionalità richieste per la miglior gestione del medesimo". Pertanto "non risultano condotte suscettibili di incidere sull'imparzialità ed indipendenza" del procuratore di Milano " neanche sotto il profilo dell'immagine, nella sede oggi occupata". Di qui la conclusione che "non vi sono provvedimenti da adottare" nei suoi confronti.

(ANSA il 13 aprile 2021) - La Prima del Csm ha proposto al plenum di chiudere con l'archiviazione il fascicolo che era stato aperto sul procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, sulla base delle chat dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara. Le chat scambiate da Cafiero De Raho con Palamara in occasione dell'assegnazione di due incarichi direttivi per i quali lui stesso concorreva -quelli di procuratore di Napoli e di procuratore nazionale antimafia che poi gli venne attribuito - non hanno determinato un "appannamento" della sua "credibilità, professionale e personale", hanno stabilito i consiglieri , notando che il procuratore "ha svolto sino ad oggi le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità". Conclusioni su cui ha pesato la considerazione che quelle chat sono "prive di qualsivoglia considerazione denigratoria degli altri aspiranti o di riferimenti ad ingerenze nelle scelte consiliari in relazione ad appartenenze associative". Al vaglio della Commissione anche alcune chat scambiate tra Palamara e Cesare Sirignano- all'epoca in servizio alla procura nazionale antimafia e poi trasferito d'ufficio dal Csm. sul decreto con cui Cafiero De Raho aveva disposto, dopo un'intervista in tv, l'allontanamento dal pool Stragi della stessa procura di Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm. Il provvedimento venne in seguito revocato. Per i consiglieri "non emerge che le scelte del Procuratore siano state dettate da impropri accordi con il dott. Palamara, con il quale non risultano conversazioni sul punto, nonostante questi fosse sottoposto in quel periodo ad intercettazione telefonica e ambientale, o con il dr. Sirignano, appartenente allo stesso ufficio". Di qui la proposta al plenum di archiviare la posizione di Cafiero De Raho.

(ANSA il 13 aprile 2021) - "Esprimo forte indignazione per le gratuite e infondate accuse, gravemente offensive anche della mia professionalità e credibilità personale, che mi vengono mosse da quattro componenti del Comitato direttivo centrale dell'Associazione nazionale magistrati di cui sono presidente". Lo afferma in una nota il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, riferendosi ai 4 eletti di Articolo 101 che ieri hanno chiesto le sue dimissioni, accusandolo di aver voluto "insabbiare" le questioni generali poste "dal disvelamento delle chat di Palamara". "Il mio comportamento è stato sempre ispirato al massimo rispetto dello Statuto dell'Associazione, delle leggi, degli atti normativi sovranazionali, delle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali, oltre che della piena autonomia del Collegio dei probiviri e del suo lavoro-sostiene Santalucia- Grazie al mio impegno, in linea con quello della Giunta esecutiva precedente, il Collegio dei probiviri è stato posto nelle migliori condizioni per operare". "Nessun altro commento intendo riservare alle scomposte accuse dei quattro componenti del Comitato direttivo centrale, le cui richieste ho già motivatamente riscontrato" conclude il presidente dell'Anm.

Csm, chat a doppio taglio: alla fine paga solo Palamara. La prima commissione archivia (e fa bene) le pratiche di trasferimento per Greco, de Raho e due ex togati: innocui i contatti con l’ex capo Anm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 14 aprile 2021. Quando questa vicenda sarà finita e dimenticata, l’unico ad essere uscito con le ossa rotte sarà Luca Palamara, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, fresco di “radiazione” dall’ordine giudiziario ( il ricorso contro questa decisione verrà discusso davanti alle Sezioni unite della Cassazione il prossimo mese di giugno, ndr). Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso, oggi il voto in Plenum, di archiviare le posizioni del procuratore di Milano, Francesco Greco, del capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, e di altri magistrati che avevano “chattato” con Palamara. Le chat di Palamara, diventate famose dopo essere state pubblicate su molti giornali lo scorso anno, erano state trasmesse dalla Procura di Perugia sia al Csm che alla Procura generale della Cassazione per gli aspetti disciplinari. Con la circolare del procuratore Giovanni Salvi si era ristretto il campo d’azione, ritenendo non sanzionabile "l’auto promozione" del magistrato. E anche sul fronte della incompatibilità funzionale, oggetto di valutazione da parte della Prima commissione del Csm, poco o nulla è emerso dalla loro lettura. Per il capo della Procura di Milano, in particolare, oggetto dell’attenzione della Commissione era stata la vicenda relativa alla nomina, avvenuta con delibera del Consiglio dell’ 8 novembre 2017, dei procuratori aggiunti milanesi. Su questo, si legge nella delibera, “non risulta che vi sia stata una impropria interferenza” da parte di Greco, anche se “emerge che sicuramente vi furono delle interlocuzioni” con i consiglieri del Csm dell’epoca, ma “furono attivate dagli stessi consiglieri e non si risolsero in alcuna segnalazione o promozione di specifici nominativi da parte di Greco, quanto in una generale consultazione sulle problematiche dell’ufficio e sulle professionalità richieste per la miglior gestione del medesimo”. Pertanto, “non risultano condotte suscettibili di incidere sull’imparzialità e indipendenza” del procuratore, “neanche sotto il profilo dell’immagine”. Quanto al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Cafiero de Raho, la Commissione ha esaminato le interlocuzioni con Palamara in relazione alla propria candidatura a procuratore di Napoli e poi a procuratore nazionale antimafia, contatti che non hanno determinato “appannamento della credibilità professionale e personale” di De Raho. All’attenzione della Commissione anche la vicenda dell’esclusione, decisa e poi revocata, del pm antimafia Nino di Matteo, attuale togato al Csm, dal gruppo di magistrati impegnati sulle stragi di mafia, dopo un’intervista televisiva. “Non vi sono elementi per ritenere che il provvedimento suddetto sia sintomo di difetto di imparzialità in quanto frutto di improprie interferenze, esterne o interne all’ufficio, sorrette da interessi o finalità diversi da quelli del buon andamento dell’attività della Procura nazionale antimafia”, si legge nella delibera. E “non emerge che le scelte” del procuratore De Raho “siano state dettate da impropri accordi con Palamara, con il quale non risultano conversazioni sul punto”. Dopo queste archiviazioni, per le toghe iscritte all’Anm rimarrebbe eventualmente in piedi quella di violazione del codice deontologico dell’associazione. Il giudizio in questo caso è in salita in quanto diversi magistrati coinvolti nelle chat hanno deciso di cancellarsi dall’Anm azzerando sul nascere ogni possibile futura contestazione. Il Csm ha poi deciso per il momento di non costituirsi in giudizio nei confronti di Palamara nel processo in corso a Perugia per corruzione. Si attenderà, eventualmente, il dibattimento essendo ancora tutto molto prematuro. E sono, infine, legittime le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano rispettivamente a primo presidente e presidente aggiunto della Corte di Cassazione, deliberate dal Csm il 15 luglio dello scorso anno. Lo ha stabilito il Tar del Lazio che ha respinto i ricorsi presentati da altri candidati ai due incarichi. Nel caso di Curzio il ricorso era stato presentato da Angelo Spirito, che al pari di Curzio era presidente di sezione a piazza Cavour. Il Tar del Lazio ha ritenuto che la scelta del Csm poggi su una motivazione immune da vizi e che “appare adeguata e coerente”. Diversi i ricorsi contro la nomina di Margherita Cassano: anche in questo caso i giudici amministrativi hanno giudicato la decisione del Consiglio “coerentemente argomentata” e senza incongruenze.

Caso Palamara, tutti d’accordo al Csm: archiviazione per Greco e Cafiero De Raho. Liana Milella,  Conchita Sannino su La Repubblica il 13 aprile 2021. La prima commissione si spacca invece sui casi di Claudio Fracassi e Nicola Clivio. Ma anche per loro, se il plenum di mercoledì lo conferma, non ci sarà il trasferimento per incompatibilità ambientale. Quattro archiviazioni "di peso", per altrettanti magistrati protagonisti delle chat con Palamara, decise dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. Repubblica ha letto le motivazioni appena depositate, che saranno discusse in plenum mercoledì prossimo, in qualche caso provocando polemiche e contrapposizioni. Ma qual è l'esito? Parlando con Luca Palamara non si compromisero, e quindi non devono lasciare i loro incarichi, né il capo della procura di Milano Francesco Greco, né tantomeno il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. All'unanimità, sulle loro specifiche posizioni, si sono espressi i sei componenti della prima commissione del Csm: quella che valuta i casi di incompatibilità ambientale prodotta da un comportamento che inficia la trasparenza ed indipendenza dell'incarico in corso. È la stessa che aveva sentito il 25 marzo scorso Palamara, ex presidente dell'Anm e leader di Unicost: oggi l'ex pm romano è sotto processo a Perugia per corruzione in atti giudiziari, è stato espulso dall'ordine giudiziario dopo lo scandalo sulle cene notturne all'hotel Champagne con i politici e gli accordi sottobanco per nomine e incarichi. Stessa archiviazione - ma in questo caso con una spaccatura della commissione che sicuramente produrrà mercoledì in plenum un vivace dibattito - viene proposta per Claudio Fracassi, presidente di sezione del Tribunale di Brindisi ed ex componente del Csm per la sinistra di Area nella consiliatura 2014-2018, quando a Palazzo dei Marescialli c'era anche Palamara per Unicost. E i due si scambiavano messaggi via chat. Votano per archiviare la relatrice Elisabetta Chinaglia di Area, Ilaria Pepe di Autonomia e indipendenza, Paola Maria Braggion di Magistratura indipendente. Invece vota contro Nino Di Matteo, mentre si astengono i laici di Forza Italia Michele Cerabona e Emanuele Basile della Lega. Per Nicola Clivio, consigliere di Area nel quadriennio 2014-2018, protagonista di chat con Palamara sulla questione dei procuratori aggiunti di Milano, in prima commissione finisce tre a tre. Per chiudere il caso sono la presidente della commissione Chinaglia, Basile e Alessio Lanzi, il laico di Forza Italia poi trasferito in quinta dopo il suo inopportuno colloquio con l'avvocato di Palamara Roberto Rampioni alla vigilia dell'audizione dello stesso Palamara. Tre invece le astensioni per Clivio: Di Matteo, Braggion e Pepe. I colloqui intercettati tra Palamara e Claudio Fracassi, oggi presidente di sezione del Tribunale di Brindisi e all'epoca della chat consigliere del Csm per la sinistra di Area, è stato tra quelli che ha fatto maggior discutere quando è finito sui giornali oltre un anno fa. In commissione lo affronta la relatrice Chinaglia. È il 12 dicembre 2018 quando Fracassi sollecita Palamara, in quel momento presidente della quinta commissione, la più importante e strategica del Csm perché decide gli incarichi direttivi, a non pubblicare il posto di presidente di sezione del tribunale di Brindisi in cui lui stesso vuole ritornare. "Ti prego di non pubblicare il posto di pst Brindisi che e? quello in cui tornero?. Il decreto di pensionamento del collega che e? andato via non e? stato notificato. E comunque e? una pubblicazione destinata alla revoca. E non mi sembra uno scandalo mantenere un posto in cui tra qualche mese per legge tornero? anche in soprannumero...". Palamara replica: "Ciccio su questo lo sai che hai un fratello ... Provvedo subito ... Gia? servito Ciccio ... L'ho fatto togliere". Ma non basta. C'è ancora un'altra chat imbarazzante. Il 15 marzo 2018 Fracassi chatta con Palamara: "Ricordati che ti ho votato Pasca a patto che mi sistemassi Orlando!!! Non mi mollare" e Palamara replica: "Assolutamente no. Tu ordini io eseguo". Ma non basta.

Ecco Fracassi il 17 settembre 2018: "Ti rinfresco la memoria. 1)Avevi promesso rinvio votazione in commissione per lavorare su pst Lecce (presidente di sezione tribunale, ndr.) e mentre io ti facevo pacchetto Cassazione mi hai bidonato; 2) nel colloquio con Balduzzi (laico del Csm, ndr.) avete promesso di rimediare poi diventato "cercheremo" e alla fine... rinviamo; 3) abbiamo lasciato passare Larino senza muoverci e mi avevi garantito che non ci sarebbero state sorprese su Lecce. Invece le sorprese ci sono e tu tenti di agganciare il tutto a faccende diverse dove c'erano gia? accordi diversi. Basta con queste prese in giro! Sai che a Lecce ci tengo...". 

Palamara replica: "Valerio ti ho detto che non si vota. Non si vota". Su un'altra vicenda di un magistrato che coinvolge un magistrato a lui vicino, Fracassi è sbrigativo con Luca: "Qui succede un casino... imponiti per un rinvio... c'era un accordo complessivo". E Palamara, come spesso fa, lo compiace: "Ciccio tu ordini, io eseguo".

La prima commissione, a maggioranza, decide di archiviare; anche se per la richiesta di mantenere il posto a Brindisi è in corso anche un'azione disciplinare.

Clivio, "ti raccomando gli aggiunti di Milano". "Sei un vero leader" scrive Nicola Clivio a Palamara dopo l'ennesima chat. Giudice presso il tribunale di Lanusei dal 2018 al 2020, dopo essere stato togato del Csm per Area, e oggi giudice presso il Tribunale di Milano, Clivio finisce davanti alla prima commissione per le sollecitazioni rivolte all'ex consigliere del Csm per la scelta e la nomina dei procuratori aggiunti di Milano. Come spiega la delibera della prima commissione "nel 2017 erano vacanti ben sei posti di procuratore aggiunto presso la procura su otto in pianta organica. La quinta commissione si era riunita il 20 settembre 2017 e aveva formulato le proprie proposte, poi trasmesse al plenum che ha deliberato l'8 novembre 2017. Pochi minuti prima della seduta, alle ore 9,17, sono avvenute delle conversazioni via chat tra Clivio e Palamara, entrambi non componenti della quinta commissione". Gli aggiunti proposti dalla commissione, anche se non tutti all'unanimità, De Pasquale, Dolci, Fusco, Mannella, Pedio, Siciliano. Ma ecco la chat: Clivio: "Ciccio allarme rosso su aggiunti Milano. Hai sentito Greco? Fatti due chiacchiere con lui per chiarirti il quadro". Palamara: "Ok Ciccio ... Ma chi gli ha detto che sono contro De Pasquale?... Dammi la tua cinquina". Clivio: "De Pasquale, Dolci, Siciliano, Mannella, Pedio, Sesto posto a Fusco tra un mese". Palamara: "Dove posso variare?... Serafini o Renna su chi?". E ancora palamara insiste: "Pedio o Dolci?". Clivio: "Ma fa incazzare Greco e tutto il mondo...Pedio". Palamara: "Greco la vuole?". Clivio: "E? sua". Palamara: "Ora ci parlo". Clivio: "Se vai sulla Dolci vai contro Davigo". Palamara: "Greco la Dolci la vuole per forza?". Clivio: "La Dolci e? forte di suo". La commissione vota e Palamara scrive: "Per trovare equilibrio mi hai fatto impazzire" e Clivio lo loda affermando "Sei un vero leader". Va sottolineato che, a proposito di tali conversazioni ("Hai sentito Greco?"), che nella sua audizione del mese scorso al Csm, era stato lo stesso Palamara a sottolineare che invece nessuna richiesta era arrivata dal procuratore capo di Milano.  Visto il tono delle conversazioni è inevitabile che la prima commissione si sia divisa sull'archiviazione per Clivio.

Greco, "io non ho mai espresso preferenze di Tizio o di Caio". Sono tutti d'accordo per chiudere la pratica a carico di Francesco Greco, che non avrebbe esercitato alcuna "impropria interferenza" per la nomina dei suoi aggiunti. Caso su cui lo stesso Palamara, nell'audizione di due settimane fa, è netto nel dire che con Greco non ha affrontato la questione. La prima commissione riassume il caso: "Nel 2017 erano vacanti ben sei posti di procuratore aggiunto presso la procura di Milano, su otto in pianta organica; la quinta commissione si era riunita il 20 settembre 2017 e aveva formulato le proprie proposte, poi trasmesse al plenum che ha deliberato l'8 novembre 2017". E scrive ancora: "Non risulta alcuna interlocuzione, via chat, tra Palamara e Greco nei giorni precedenti o il giorno stesso della seduta di commissione. Neppure vi sono messaggi successivi, sino all'1 ottobre 2017, data in cui Palamara chiese un incontro a Greco". Ecco la chat: Palamara, "Ci vediamo quando vieni a Roma?"; Greco, "Forse martedi?"; Palamara, "Ok ci vediamo anche per caffe??; Greco, "Si domani ti dico i miei spostamenti...Comunque verso le due e mezzo sono libero". La prima commissione scrive che "effettivamente i due si incontrarono a Roma il 3 ottobre 2017. Il giorno successivo, 4 ottobre, Palamara alle ore 11, 24 scrisse un messaggio a Greco: "Quando hai novita? fammi sapere un abbraccio a presto". La prima commissione riporta la decisione: "L'8 novembre 2017 vennero nominati, come da proposte unanimi (o di maggioranza) della commissione, Fabio De Pasquale, Alessandra Dolci, Eugenio Fusco, Maria Letizia Mannella, Tiziana Siciliano; venne nominata anche Laura Pedio, su proposta di tre componenti della Commissione, mentre risulta che la Ciaravolo aveva revocato la domanda". E qui è utile leggere quanto ha detto lo stesso procuratore Greco sentito dalla prima commissione: "Che sia chiaro questo: io non ho mai cercato nessuno. Ho avuto invece la visita di diversi consiglieri qui a Milano, diciamo, per usare un termine gergale, di tutte le correnti, anche perche? dopo la mia nomina tutti hanno fatto la corsa a intestarsela o a dimostrare comunque che se anche avevano votato contro l'avevano fatto perche? sapevano... queste logiche le conosciamo.....Io non avevo alcuna preferenza, avevo interesse all'armonia dell'ufficio, cioe? che non si facessero cose troppo negative nella scelta di uno o di un altro perche?, secondo me, un procuratore della Repubblica deve mirare acche? un ufficio viva in maniera armonica. Io dico sempre ai colleghi: siamo pagati per lavorare e non per litigare". Prosegue Greco: "I nomi erano quelli, non e? che ce ne erano tanti altri....Io non ho mai espresso preferenze di Tizio o di Caio; l'unica cosa che forse posso aver detto e?: vorrei che fossero tutti magistrati del mio ufficio, ma ce n'erano solo due o tre fuori, francamente, che tra l'altro conoscevo perche? erano stati in Procura tanti anni". Greco dice alla commissione di essersi espresso così: "Io ho bisogno di ripartire, ho bisogno di gente che conosca l'ufficio e che mi aiuti a far ripartire l'ufficio. Ma francamente e? un pour parler questo qui. In ogni caso, tutti i nomi dei candidati erano nomi di eccellenza". E qui il caso Greco si chiude all'unanimità.

Cafiero de Raho, "ha svolto le funzioni in piena indipendenza e imparzialità". Contatti e conversazioni corrono via chat intorno alla nomina del procuratore di Napoli, per la quale sono in corsa Cafiero e Giovanni Melillo. Emerge che il 17 e 18 luglio del 2017 de Raho è in Consiglio per parlare con "Francesco" (probabilmente Francesco Cananzi, all'epoca consigliere Csm) e con Palamara. Dieci giorni dopo, il 27 luglio, è Palamara a scrivere via chat al futuro procuratore nazionale antimafia: "Ho lottato insieme a te fino all'ultimo. Persa una battaglia non la guerra". E Cafiero risponde: "Sono convinto che ancora dobbiamo lottare insieme. Grazie, comunque, per avermi assecondato nella scelta, che non condividevi, di andare avanti. Sapevo della sconfitta ma per formazione vado avanti fino in fondo e non riesco a ritirarmi, mai. Un forte abbraccio a presto." Per la commissione, è emerso dal complessivo tenore delle conversazioni "che il dottor Cafiero faceva riferimento alla propria volontà di non revocare la domanda per l'incarico di Procuratore della Repubblica di Napoli, nonostante il contrario avviso del dottor Palamara, che evidentemente aveva tentato di convincerlo a quella scelta". E dall'esame della pratica si conclude che, per il loro il tenore, le conversazioni erano "prive di qualsivoglia considerazione denigratoria degli altri aspiranti o di riferimenti ad ingerenze nelle scelte consiliari in relazione ad appartenenze associative". Viene anche esaminata e risolta la distinta vicenda  - in epoca successiva, 20 maggio 2019 - della revoca da parte del procuratore Cafiero  dell'assegnazione del pm Nino Di Matteo dal gruppo "Mafie ed entità esterne nelle stragi" della Direzione nazionale  antimafia, avvenuta in seguito a un'intervista. Il pm è lo stesso che oggi siede in Prima commissione al Csm - sarà forse un caso, risulta assente al momento della votazione - e nella proposta di archiviazione è scritto che non vi sono elementi che possano far ritenere quel provvedimento "sintomo di difetto di imparzialità".

Caos procure, richiesta di rinvio a giudizio per Palamara e l’ex pg di Cassazione Fuzio. L'ex presidente dell'Anm Palamara e l'ex pg di Cassazione Fuzio sono accusati di concorso in rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. su Il Dubbio il 31 marzo 2021. L’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, già membro del Csm, e l’ex magistrato romano Luca Palamara rischiano di andare a processo. Per i due la procura di Perugia ha infatti richiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di concorso in rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. Richiesta avanzata anche per Stefano Fava, ex sostituto procuratore a Roma e ora giudice civile a Latina. L’udienza preliminare per esaminare la richiesta è fissata per tutti al 13 maggio. Protagonista della vicenda l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Secondo l’accusa, l’ex pg Fuzio, avrebbe rivelato all’allora sostituto procuratore di Roma – «su istigazione» dello stesso Palamara –  l’arrivo al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura di un esposto presentato da Fava in merito a comportamenti «asseritamente scorretti» di Pignatone. In base alla ricostruzione della procura perugina, guidata da Raffaele Cantone, Palamara concorreva al reato poiché, essendo a conoscenza delle «intenzioni di Fava», aveva chiesto a Fuzio di verificare che l’esposto fosse stato effettivamente presentato. Fava e Palamara sono poi accusati di avere rivelato alla stampa notizie «d’ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». E, sempre secondo l’accusa, Fuzio avrebbe inoltre rivelato a Palamara le iniziative che il Comitato di presidenza del Csm intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti descritti nell’esposto. Fava è accusato invece di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. Secondo l’accusa, il magistrato si sarebbe introdotto abusivamente in un applicativo del Ministero della Giustizia per acquisire i verbali di udienza e della sentenza di un procedimento «per ragioni estranee» a quelle per le quali aveva facoltà. L’obiettivo? Avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone – sostiene l’accusa – e dell’aggiunto Paolo Ielo, attraverso «l’ausilio» di Palamara. La procura di Perugia contesta a Fava anche il reato di abuso d’ufficio, sostenendo che l’allora sostituto procuratore a Roma avrebbe acquisito atti di alcuni procedimenti penali «a lui non assegnati, per dimostrare l’incompatibilità dei due magistrati e la violazione dell’obbligo di astensione ma anche di avere presentato un esposto al Csm in cui riportava una versione volutamente incompleta – sostiene l’accusa – degli atti adottati dal procuratore in ordine a supposte ragioni di incompatibilità per la trattazione di alcuni procedimenti».

Da giudice top a quasi imputato: Fuzio nei guai per una soffiata. Chiesto il processo per l'ex Pg di Cassazione, insieme agli ex pm Palamara e Fava accusati per uno scoop. Luca Fazzo - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Processo a colui che fu uno dei magistrati più potenti d'Italia, Riccardo Fuzio. Ma anche processo a uno scoop giornalistico, gli articoli che rivelarono una parte cruciale dei veleni della Procura di Roma. A chiederlo è la Procura di Perugia, che accusa Fuzio di rivelazione di segreti d'ufficio per una «soffiata» che fece a Luca Palamara; e sullo stesso banco degli imputati vuole portare Palamara e il suo ex collega Stefano Fava, accusati di essere le fonti dello scoop che rivelò i veleni romani. La richiesta è stata notificata ieri agli indagati. La vicenda che riguarda Fuzio è tanto semplice quanto significativa: il 3 aprile 2019 l'allora procuratore generale della Cassazione avvisa Palamara che al Csm è arrivato un esposto contro Giuseppe Pignatone, capo della Procura romana, e contro il suo vice Paolo Ielo. Cose che Fuzio, membro di diritto del Csm, dovrebbe tenere per sé: invece spiega a Palamara non solo che l'esposto è arrivato ma anche come verrà trattato. D'altronde Fuzio e Palamara sono buoni amici, militano nella stessa corrente. Nulla di inconsueto, ma la rivelazione è un reato. Più complessa ma forse più interessante la storia dello scoop. Anzi, degli scoop. Perché il 29 maggio sulle prime pagine di alcuni giornali finiscono due notizie diverse e in qualche modo opposte. La Verità e il Fatto Quotidiano rivelano dell'esistenza dell'esposto contro Pignatone e Ielo, firmato dal pm romano Stefano Fava. La stessa mattina, Corriere e Repubblica rivelano invece che al Consiglio superiore della magistratura sono arrivate dalla Procura di Perugia delle carte che accusano Luca Palamara, lo zar delle correnti delle toghe. Entrambi gli scoop hanno alla base, come ogni scoop che si rispetti, atti segreti. Chi sia la fonte di Corriere e Repubblica non si sa. Sulla fonte di Verità e Fatto, invece, la Procura di Perugia ha le idee chiare: e chiede di processare Palamara e Fava per rivelazione di segreto d'ufficio, perché «violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano a giornalisti dei due quotidiani notizie che dovevano rimanere segrete». Il problema è che negli atti dell'indagine non c'è traccia che siano stati Palamara e Fava a passare sottobanco la storia dell'esposto contro Pignatone. Anzi, interrogati sotto giuramento i due cronisti autori degli articoli hanno escluso che le fonti siano stati i due. La notizia dell'esposto, hanno detto, peraltro circolava nell'ambiente e ne ebbero conferme da più versanti. Ma né da Fava né da Palamara. I due cronisti peraltro sostengono di avere lavorato uno all'insaputa dell'altro. L'unica certezza è che il 29 maggio di due anni fa lo scontro interno alla Procura di Roma si trasferì sui mezzi di comunicazione ad opera dei due fronti in guerra, che usarono ognuno le proprie armi come accade da sempre. Ma si è indagato solo su uno degli scoop.

Una corruzione senza corruttore. Palamara era spiato per sapere delle nomine dei magistrati, ecco le prove. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Una corruzione senza corruttore. Più passano le settimane e più appare evidente che l’indagine della Procura di Perugia fosse rivolta a conoscere, come ha più volte affermato l’avvocato romano Luigi Panella, difensore davanti alla Sezione disciplinare del Csm di Cosimo Ferri, i rapporti fra quest’ultimo e Luca Palamara. In particolare tutto ciò che atteneva le nomine dei magistrati, ad iniziare da quella del procuratore di Roma. Ferri, esponente di spicco della destra giudiziaria, aveva sottoscritto un patto di ferro con Palamara per cambiare il volto della magistratura italiana, troppo spostata a sinistra. La prima nomina frutto di questo accordo era stata, come riportato anche nel libro Il Sistema, quella di David Ermini a vice presidente del Csm. L’indagine di Perugia aveva, però, fatto “saltare” il progetto. La prova del ragionamento di Panella è negli atti che il Riformista è in grado di pubblicare. Il presunto corruttore di Palamara, il faccendiere Fabrizio Centofanti, non solo non venne mai intercettato, ma la sua iscrizione nel registro degli indagati risale al 27 maggio del 2019, 24 ore prima che Corriere, Repubblica e Messaggero mettessero in pagina la notizia dell’indagine a carico di Palamara facendo, come detto, saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma e il cambiamento auspicato da Ferri e Palamara. Per la cronaca, invece, Palamara era stato iscritto il 16 gennaio 2019. Una ritardata iscrizione, quella di Centofanti, per un reato, la corruzione, a “concorso necessario”. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, sul punto, pare abbia detto al Csm che Centofanti “non era facilmente intercettabile”. Difficile intercettare, però, una persona che non è neppure indagata. Ma ripercorriamo, per la prima volta dal 29 maggio del 2019, quando naufragò il tentativo di cambiamento degli assetti della magistratura, la genesi di questa “corruzione”. Con il decreto di perquisizione e sequestro del 29 maggio 2019 (il giorno, come ricordato, della pubblicazione sui giornali dell’indagine a carico di Palamara, ndr), eseguito il 30 maggio successivo, al magistrato viene contestata la “corruzione propria per atto contrario”, prevista dall’articolo 319 cp, “per avere ricevuto 40mila euro per la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la “corruzione in atti giudiziari”, prevista dall’articolo 319 ter cp, “per avere ricevuto da Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, il pagamento di viaggi e vacanze”. La Procura generale della Cassazione, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il Csm, sulla base di queste imputazioni, sospendono Palamara dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di pochi giorni. Con la chiusura delle indagini preliminari il 20 aprile 2020 e nella successiva richiesta di rinvio a giudizio, il registro cambia: scompaiono le contestazioni di cui agli articoli 319 e 319 ter cp e irrompe la “corruzione per l’esercizio della funzione, prevista dall’art. 318 cp”. Scompaiono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Nel senso letterale del termine perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che l’anno prima avevano avuto tanta rilevanza mediatica e nel procedimento disciplinare. A Palamara vengono contestati solo i viaggi e le vacanze e dei lavori edili mai pagati eseguiti a casa di una sua amica. Queste utilità Palamara le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte” solo da Centofanti. Scompaiono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, al 29 maggio 2019, erano il motore della corruzione essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, il 25 novembre 2020, si cambia ancora. A luglio Raffaele Cantone è diventato nuovo procuratore di Perugia. Una nomina combattuta. Per quel posto, sembra, ci avesse fatto un pensiero anche il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, poi travolto dalla vicenda di banca Etruria. A novembre 2020 si rimane sulla corruzione per l’esercizio della funzione ma si specifica che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. All’udienza del 22 febbraio 2021 il colpo di scena con il ritorno al passato. A Palamara si contestano tutte le possibili corruzioni previste dagli articoli 318, 319 e 319 ter cp. Le utilità rimangono quelle: viaggi e vacanze e le ristrutturazione a casa dell’amica. Non pervenuti i 40mila euro della nomina di Longo e l’anello da 2mila euro. Le utilità, questa volta, Palamara le avrebbe ricevute “prima quale sostituto procuratore della Procura di Roma ed esponente di spicco dell’Anm fino al 24 settembre 2014, successivamente quale componente del Csm” per una mix di “attività” che vanno dall’acquisizione di “informazioni riservate”, non meglio indicate, sui “procedimenti in corso” a Roma e a Messina su Centofanti ma anche su Amara e Calafiore (che però non sono imputati) e per la disponibilità a influenzare le nomine del Csm (ritorna anche il nome di Longo ma non i 40mila euro) e i procedimenti disciplinari. La convinzione della Procura di Perugia, alla luce di questi cambi in corsa, è che da qualche parte la corruzione ci sia. Basta trovarla.

Altre anomalie dall'inchiesta di Perugia. Palamaragate, interviene Di Matteo: “Perché non furono intercettati i corruttori?” Paolo Comi su Il Riformista il 3 Marzo 2021. L’indagine della Procura di Perugia, che ha cambiato gli assetti di potere al Consiglio superiore della magistratura e stroncato la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, continua a rivelarsi una fucina di “anomalie”. Le ultime in ordine di tempo sono state evidenziate questa settimana con la deposizione dei finanzieri del Gico di Roma, il reparto a cui i pm del capoluogo umbro avevano delegato le indagini nei confronti dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. La deposizione è avvenuta nel processo disciplinare a carico degli ex togati che avevano partecipato al dopo cena a maggio del 2019 all’hotel Champagne con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. È stato il pm antimafia Nino Di Matteo, componente della Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli, a mettere in luce alcune di queste “particolarità” investigative. Va dato atto al magistrato siciliano, spesso oggetto di critiche per alcune sue prese di posizione, di ricoprire il ruolo di giudice disciplinare con grande attenzione e professionalità. Dopo un paio d’ore che il maggiore Fabio Di Bella del Gico cercava di ricostruire stancamente la genesi dell’indagine rispondendo alle domande della Procura generale della Cassazione e dei difensori degli ex togati, Di Matteo decide di chiedere la parola al presidente del collegio e formulare un paio di domande al teste. Ma facciamo prima un passo indietro. Nell’indagine di Perugia, Palamara è accusato di essere stato corrotto dall’imprenditore laziale Fabrizio Centofanti. In cambio di viaggi, cene, e altre utilità, il magistrato sarebbe stato a disposizione dell’imprenditore per favorire nomine di procuratori amici di quest’ultimo. Centofanti, si ricorderà, aveva rapporti di frequentazione con tantissimi magistrati, ad iniziare dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. I pm di Perugia per acquisire ulteriori prove, decidono agli inizi del 2019 di intercettare Palamara. Ma non Centofanti. Al telefono di Palamara, poi, verrà inoculato anche il virus trojan. Circostanza curiosa, dal momento che il reato di corruzione, è un reato a concorso necessario, in cui la presenza di almeno due soggetti, il corrotto e il corruttore, rappresenta l’imprescindibile elemento costitutivo dell’ipotesi delittuosa. A Perugia, invece, si concentrano solo sul corrotto. Alla precisa domanda sul perché di tale scelta investigativa, Di Bella non risponde e “scarica” la responsabilità sui pm di Perugia. Sibillina, poi, un’altra domanda di Di Matteo, proprio sulla genesi dell’indagine. Nella ricostruzione di Di Bella, il Gico era stato in precedenza delegato dalla Procura di Roma a svolgere accertamenti in un fascicolo sempre a carico di Centofanti e degli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara, quest’ultimo l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. Le accuse a loro carico erano quelle di corruzione in atti giudiziari e false fatturazioni. Uno stralcio di questo fascicolo, quando emergeranno i rapporti fra Centofanti e Palalamara, sarà trasmesso a maggio del 2018 da Roma a Perugia, Procura competente per i reati dei magistrati romani. La Procura umbra, come quella di Roma, si avvarrà del Gico della Capitale per le indagini. Di Matteo, anche in questo caso a bruciapelo, chiede se le risultanze delle indagini di Perugia, trattandosi di soggetti che erano stati già indagati a Roma, venivano per caso riferite anche ai pm di piazzale Clodio, e quindi agli ex colleghi di Palamara. Assolutamente no, era stata la risposta Di Bella. L’ultima stranezza riguarda il trojan. Ad Amara e Calafiore, per inocularlo, i finanzieri inviarono un Sms con un link di attivazione del virus. I due non lessero il messaggio e il virus non si attivò. A Palamara, con la complicità del gestore telefonico, i finanzieri bloccarono direttamente il cellulare. Perché questa disparità di trattamento? Altra domanda destinata a non avere una risposta. In estrema sintesi, dunque, a Perugia, in una indagine per corruzione, il corruttore non viene intercettato. In compenso si intercetta a tappeto il corrotto, per fatti risalenti ad almeno tre anni prima. Per un banale coincidenza, però, intercettando il corrotto, i pm di Perugia hanno ricevuto per mesi notizie su quanto accadeva al Csm. Vedasi la nomina di Marcello Viola.

Il caso al Csm. “La corruzione usata come scusa per spiare le trame di Palamara”, la difesa smonta l’inchiesta. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Ma quale corruzione: l’indagine di Perugia a carico di Luca Palamara aveva lo scopo di conoscere come avvenivano le nomine da parte del Consiglio superiore della magistratura. È quanto ha rivelato ieri l’avvocato romano Luigi Panella, difensore di Cosimo Ferri, discutendo le eccezioni preliminari davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Ferri, storico leader della corrente di destra delle toghe Magistratura indipendente e ora deputato di Italia viva, è accusato dalla Procura generale della Cassazione diretta da Giovanni Salvi di aver tenuto un comportamento “gravemente scorretto” nei confronti dei colleghi che concorrevano per il posto di procuratore di Roma e dei consiglieri di Palazzo dei Marescialli, al fine di «condizionare le funzioni attribuite dalla Costituzione all’organo di governo autonomo della magistratura». L’intervento di Panella, durato circa tre ore, ha lasciato “sgomento” l’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta, il quale ha chiesto al collegio un paio di settimane prima di per poter replicare. Il procedimento disciplinare nei confronti di Ferri si basa sulle famigerate intercettazioni effettuate tramite il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Oggetto di contestazione sono i dialoghi tra Ferri, Palamara, il deputato Luca Lotti (Pd) e cinque consiglieri del Csm la sera dell’8 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma. Panella nella sua ricostruzione ha sollevato molte perplessità sul modo in cui sono state condotte le indagini da parte del Gico della finanza. L’ex zar delle nomine era stato sottoposto a marzo del 2019 a intercettazioni dalla Procura di Perugia in quanto accusato di episodi di corruzione, l’ultimo commesso nel 2016. «Perché intercettare Palamara per fatti commessi tre anni prima?», afferma Panella, e poi «perché solo il suo telefono venne intercettato con il trojan e non quelli dei corruttori?». Circostanza curiosa, dal momento che nel reato di corruzione, reato a concorso necessario, la presenza di almeno due soggetti, il corrotto e il corruttore, rappresenta l’imprescindibile elemento costitutivo dell’ipotesi delittuosa. L’avvocato di Ferri azzarda una risposta: gli inquirenti erano interessati a conoscere i “rapporti fra Ferri e Palamara”. In quel periodo la corrente centrista di Unicost, rappresentata da Palamara, aveva stretto una alleanza con la destra giudiziaria, tradendo il rapporto con la sinistra togata. Circostanza raccontata nel libro Il Sistema. Una alleanza che aveva portato a molte nomine importanti e si preparava al voto per il procuratore di Roma. Panella ha smontato la vulgata della “casualità” degli ascolti, ricordando la presenza di verbali di pedinamenti nel fascicolo a carico di Ferri. Per mesi, quindi, i finanzieri hanno monitorato, in maniera illegittima, la vita di un parlamentare. Tutte le conversazioni fra i due sono classificate “importanti” e sono trascritte, pur sapendo gli investigatori che Ferri era un deputato. Un monitoraggio tipo “Grande fratello” che ha coinvolto anche il figlio minorenne di Ferri, oggetto di accertamenti alla super banca dati della finanza “Serpico”. Nell’indagine a carico di Palamara il nome di Ferri compare ben 374 volte. Difficile dire, dunque, che non fosse oggetto delle attenzioni degli inquirenti. Un paragrafo dell’informativa, aggiunge Panella, è dedicato proprio alle conversazioni prive di rilevanza penale di Ferri. Ma non solo. In un procedimento che Panella non si stanca di ricordare essere per corruzione, le conversazioni fra Palamara e Ferri sono utilizzate addirittura per giustificare la proroga delle intercettazioni. Dal cilindro l’avvocato tira fuori una informativa della finanza dell’11 marzo del 2019 con dei segni a margine: sono evidenziate le conversazioni dove Palamara parla della nomina del procuratore di Perugia. Una “prova” che i pm di Perugia sarebbero stati interessati a conoscere chi sarebbe diventato da lì a poco il loro prossimo capo (il procuratore Luigi De Ficchy andrà in pensione il primo giugno 2019, ndr). In questo corto circuito senza precedenti, Panella ha chiesto una perizia sull’utilizzo del trojan, essendo evidente che non ci si possa più fidare delle ricostruzioni della guardia di finanza che hanno tratto in errore addirittura le Sezioni unite della Cassazione. Per Panella, infine, la cena fra Palamara e Pignatone della sera successiva all’incontro all’hotel Champagne sarebbe stata registrata essendo risultati vani i tentativi del maresciallo Gianluca Orrea di “sprogrammare” la mattina del 9 maggio la programmazione trojan effettuata dal collega Roberto D’Acunto. Una responsabilità “storica” affidata al collegio presieduto da Filippo Donati (M5s). Panella ha chiesto il proscioglimento in base alla recente giurisprudenza europea che vieta l’utilizzo delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli penali. La Procura generale ha depositato, “per essere trasparente”, i file audio delle intercettazioni. Deposito che non era avvenuto nel procedimento disciplinare a carico di Palamara lo scorso anno. Ieri, infine, è stato il turno di Raffaele Cantone. Davanti alla prima Commissione del Csm il procuratore di Perugia ha illustrato la bontà dell’indagine svolta dal suo ufficio. Era stato proprio Cantone nei giorni scorsi a chiedere l’apertura di una pratica a tutela.

L'asse con le Procure. La notizia dell’avviso di garanzia per Palamara servì per bruciare Viola procuratore di Roma? Paolo Comi su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Il Corriere della Sera ha la notizia dell’indagine di Perugia a carico di Luca Palamara ma non la pubblica subito: aspetta che avvenga il voto al Consiglio superiore della magistratura sul nuovo procuratore di Roma. Domenica sera, durante la trasmissione Non è l’Arena su La7 condotta da Massimo Giletti, è stata ascoltata per la prima volta la conversazione intercettata con il trojan fra l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Giovanni Bianconi, noto giornalista della giudiziaria del quotidiano di via Solferino. L’episodio risale al 21 maggio del 2019. Bianconi si trovava nell’ufficio di Palamara a piazzale Clodio. Il magistrato, dopo essere stato potente consigliere del Csm, dal mese di ottobre dell’anno precedente era tornato al suo incarico di pm. Il giornalista è foriero di brutte notizie. Ha saputo che gli atti dell’indagine di Perugia a carico di Palamara sono stati inviati al Csm. «Mi dicono che dovrebbe(ro) essere arrivati a Roma», esordisce Bianconi. All’ex zar delle nomine, che ha presentato domanda per diventare procuratore aggiunto a Roma, trema la voce. L’avviso di garanzia notificato a mezzo Corriere della Sera rischia di stoppare quella che fino ad allora era stata una carriera inarrestabile. «La partita degli aggiunti è scollegata», prosegue Bianconi. «Aspettiamo e vediamo quello di che si tratta, no?», risponde Palamara. «In questo caso è solo De Ficchy (Luigi, fino al 2 giugno 2019 procuratore di Perugia, ndr)», aggiunge il giornalista, sottolineando che «tanti avevano capito se il procuratore provano a farlo prima dell’estate gli aggiunti dopo». «Voglio essere eliminato per via del merito e non per via giudiziaria», risponde più volte Palamara. Il Corriere il giorno dopo non pubblicherà la notizia. Aspetterà per farlo il 29 maggio. «Un’inchiesta per corruzione agita la corsa alla Procura di Roma. Palamara, candidato a un ruolo di aggiunto, è indagato a Perugia. Informato il Csm», scriverà il ben informato Bianconi. Il 23 maggio precedente la quinta commissione del Csm, competente per le nomine dei magistrati, aveva votato per il successore di Giuseppe Pignatone, in pensione per sopraggiunti limiti di età dall’8 maggio. La maggioranza dei voti, quattro, erano andati a Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, iscritto alla corrente di destra di Magistratura indipendente. Un voto ciascuno per Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze ed esponente di Unicost, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, anch’egli di Magistratura indipendente. Per Viola avevano votato Antonio Lepre, togato di Magistratura indipendente, Piercamillo Davigo, i laici in quota Lega e M5s, Emanuele Basile e Fulvio Gigliotti. Il togato della sinistra giudiziaria Mario Suriano aveva votato per Lo Voi e quello di Unicost Gianluigi Morlini per Creazzo. Il 29 maggio, comunque, la notizia dell’indagine di Perugia verrà riportata anche da Repubblica e Messaggero. Il quotidiano di largo Fochetti ricorderà che Viola è legato al deputato Cosimo Ferri, da magistrato leader indiscusso di Magistratura indipendente. L’arrivo di Viola a Roma segnerebbe una “discontinuità” con la gestione Pignatone, si legge nel pezzo. Una discontinuità che va evitata assolutamente. «Di Pignatone non dove rimanere neppure l’ombra: né vanni fatti prigionieri, come l’aggiunto Michele Prestipino, l’aggiunto Paolo Ielo o il sostituto Mario Palazzi», prosegue. Quello che poi è successo dopo la fuga di notizie è noto: il voto su Viola venne annullato, Prestipino, con l’appoggio di Davigo, è diventato procuratore di Roma, Ielo ha sempre le indagini più importanti, e lo stesso dicasi di Palazzi. «C’è il terribile sospetto che ci possa essere stato un uso strumentale della giurisdizione», ha dichiarato in serata Andrea Reale, componente dell’Anm, commentando le tempistiche dell’indagine a carico di Palamara (i fatti contestati, come ha raccontato l’ex presidente dell’Anm da Giletti, furono fatti emergere dalla Procura di Perugia con notevole ritardo, proprio con lo scopo di far saltare la nomina di Marcello Viola, ndr). «La sensazione, ascoltando Palamara, è che ci sia stata una guerra fra fazioni», aggiunge Reale, stigmatizzando la fuga di notizie. «Mi auguro che si faccia chiarezza al riguardo e che vengano fatti i dovuti accertamenti».

Magistratopoli, il mistero delle conversazioni sparite tra Palamara e il giornalista del Corriere della Sera. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Giugno 2020. Ci sono due conversazioni nello scorso anno che possono cambiare il corso dell’indagine di Perugia. Sono quelle fra Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm ed ex ras delle nomine al Csm, e Giovanni Bianconi, giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera. La prima è avvenuta il 7 maggio al bar Settembrini in zona piazzale Clodio, la seconda qualche giorno più tardi, il 21, nell’ufficio di Palamara in Procura a Roma. Le due conversazioni, registrate con il trojan, non sono state mai trascritte dal Gico della guardia di finanza che su delega della Procura di Perugia condusse le indagini a carico di Palamara che terremotarono il Csm. Chi ha avuto modo di sentirle è rimasto molto sorpreso visto che quanto riferito da Bianconi si è poi puntualmente avverato. Andiamo con ordine. Il 7 maggio i due fissano di incontrarsi di persona verso le 17. Dopo i saluti di rito, Bianconi avrebbe detto a Palamara che il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, all’epoca uno dei tanti candidati alla successione di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma, non sarebbe gradito. Anzi, ci sarebbero pressioni contro la sua eventuale nomina. Il 21, invece, sempre Bianconi chiede conferma a Palamara se gli atti dell’indagine di Perugia sono stati inviati al Csm e illustra al pm romano il perché sia finito nel mirino. Il motivo principale sarebbe l’alleanza che Unicost, la corrente di centro di cui Palamara era il dominus, aveva stretto con Magistratura indipendente, il gruppo di destra legato a Cosimo Ferri. Questo accordo non sarebbe gradito dalla sinistra giudiziaria di Area con cui Palamara aveva per anni fatto accordi, come poi emerso, per la spartizione degli incarichi. Oltre a quella di Viola, non sarebbe gradita anche la nomina di Palamara a procuratore aggiunto. «Voglio essere eliminato per via del merito e non per via giudiziaria», avrebbe risposto Palamara. Il pm romano ha chiesto nei giorni scorsi che le due conversazioni siano trascritte. I pm di Perugia hanno al momento opposto il diniego. In questo scenario da spy story si inserisce in maniera alquanto surreale la decisione di oggi dell’Anm sull’eventuale espulsione dall’associazione di Palamara e Paolo Criscuoli, l’ex consigliere del Csm in quota Magistratura indipendente, costretto lo scorso anno alle dimissioni per aver partecipato alla cena con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Criscuoli ha deciso di ricusare i giudici. Vari i motivi. Il primo è che l’Anm, «in regime di prorogatio da vari mesi, è incompetente ad adottare una delibera che certamente non rientra nell’ordinaria amministrazione, quale quella della definizione di un procedimento disciplinare nei confronti di un associato». Il secondo è «non aver avuto accesso agli atti dell’indagine della Procura di Perugia, già trasmessi alla Procura generale presso la Cassazione e posti a fondamento dell’azione disciplinare promossa nei miei confronti e richiamati nelle note dei probiviri, per esercitare un compiuto diritto di difesa». Quindi c’è la posizione di «ciascun componente del Cdc indicato, da organi di stampa, per quanto a mia conoscenza, in assenza di smentita, come interlocutore di Palamara in relazione ad interessamenti, indicazioni, pressioni, accordi aventi ad oggetto, in particolare, l’attività del Csm relativa alla nomina di direttivi e semidirettivi». Fra chi si dovrebbe pronunciare, ad esempio, c’è Alessandra Salvadori, chat n. 787, e Bianca Ferramosca, chat n. 714. E comunque, conclude Criscuoli, già nelle deliberazioni del 5 giugno 2019 e del 13 settembre 2019, tutti i componenti hanno «già manifestato un giudizio». Quindi «un conflitto di interessi tra la posizione già espressa e quella quale componente dell’organo». Sempre ieri, sul fuori ruolo “politico” di Raffaele Cantone, i cinque anni alla presidenza dell’Anac che gli hanno permesso di diventare procuratore di Perugia, sono interventi i togati di Mi, stigmatizzando l’importanza data dal Csm a questo incarico rispetto all’attività giurisdizionale. Il giorno prima era intervenuto sul punto anche l’ex laico del Csm Antonio Leone, ora presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.

Luca Palamara, ricorso alla Corte Europea: magistratura italiana nel mirino, obiettivo "essere reintegrato". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. L'ex capo dei magistrati Luca Palamara presenterà ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo contro la sua radiazione dalla corporazione delle toghe. Gli auguriamo buona fortuna ma la mossa è disperata. Se nell'opera teatrale di Bertold Brecht esisteva un giudice a Berlino capace di dare ragione al contadino che sfidava l'imperatore, nella pantomima della democrazia che sono ormai le istituzioni europee pare improbabile che un reietto possa avere ragione su un sistema di potere che governa un Paese. La vicenda dell'ex presidente dell'Associazione Magistrati è presto riassunta. Intercettazioni telefoniche hanno dimostrato che egli non concepiva la sua carica come una missione volta a promuovere trasparenza, meritocrazia ed equità nella casta che decide le nostre sorti. Tutt' altro: usava il proprio potere e la propria influenza per piazzare toghe in posizioni chiave nelle Procure e nei Tribunali e pilotava le nomine del Csm, l'organo di autogoverno dei giudici, in base a criteri politici, clientelari, opportunistici. Una conversazione rubata ha anche dimostrato che i vertici della magistratura ritengono che Salvini sia innocente rispetto alle accuse di sequestro di persona per aver bloccato gli sbarchi di immigrati clandestini, ma che è stato incriminato lo stesso perché ritenuto un nemico politico, quindi in sostanza perché non è di sinistra. Anche questo non aiuterà Palamara a ottenere una riabilitazione della giustizia europea.

PARABOLA GIACOBINA. Indipendentemente da ogni giudizio di merito sul comportamento del super procuratore dai pieni poteri quando era al massimo del suo folgore, la verità è che, se a Strasburgo esistesse un giudice, l'ex presidente dell'Anm andrebbe assolto. La radiazione della toga barbuta infatti è avvenuta per giudizio dei suoi pari, non solo da intendersi come colleghi di tribunale bensì, in molte circostanze, anche come compagni di merende. Si è trattato di uno di quei tipici casi nei quali i beneficiati, per non perdere i privilegi conquistati, impiccano il benefattore. Parabola da manuale del giacobinismo manettaro. I magistrati che hanno fatto fuori Palamara sono per lo più parte integrante del sistema di potere che l'espulso aveva contribuito a alimentare con un ruolo da protagonista in commedia. I casi quindi sono due: o essi, dopo aver lapidato e cacciato il loro capo, si battono il petto e si dimettono, restituendo dignità a loro stessi e credibilità alla magistratura, oppure lo riammettono, in barba a cittadini innocenti e rei e a ogni principio di giustizia, visto che è uno di loro. Una toga, una razza è infatti il detto che si potrebbe applicare a certi vertici della magistratura, che avendo scambiato il loro ruolo per un lasciapassare a fare il bello e il cattivo tempo impuniti, squalificano e danneggiano la maggioranza dei magistrati, onesta, seria e laboriosa. 

E la politica sbianca. Il Palamaragate è stato seppellito: le Procure tacciono, i giornali censurano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Silenzio, signori. L’ordine di scuderia è quello lì: silenzio assoluto, si fa finta che non sia successo niente. “Non rispondete alle provocazioni, compagni”: mi ricordo che una volta si diceva così. La scuderia di cui parliamo è quella della premiata ditta Pm&giornali. Che più che una scuderia è un robusto partito politico e qui da noi in Italia fa il bello e il cattivo tempo. Dispone di armi di offesa molto affilate e di armi di difesa efficientissime. Le armi di difesa consistono nel seppellire qualunque magagna. C’è qualcuno che dice che sia un sistema sostanzialmente molto simile alla vecchia “omertà”. Un po’ più di un mese fa l’ex Pm Luca Palamara (che per anni è stato il capo del partito dei Pm) ha pubblicato un libro nel quale ha raccontato decine di episodi dai quali si deduce che i vertici della magistratura italiana non sono liberi ma vengono scelti e costruiti sulla base di puri e semplici giochi di potere, sono scelti dalle correnti al di fuori di ogni criterio di indipendenza, e si è scoperto che questi giochi di potere producono clamorose deviazioni nella giurisdizione, condizionano indagini, sentenze, uso del carcere. Uno scandalo che non ha precedenti, direi dai tempi del delitto Matteotti. È quella l’ultima volta che il potere ha dichiarato formalmente la sua intoccabilità: “ Se il fascismo è una associazione a delinquere – disse Mussolini – io ne sono il capo”. Nei giorni scorsi questo giornale ha denunciato altri due episodi clamorosi delle vicende di magistratopoli. Uno è stato raccontato anche in Tv, e riguarda il più importante giornalista giudiziario italiano (Bianconi, del Corriere della Sera) che – senza neppure scriverlo sul giornale – avvisò riservatamente Luca Palamara che a Perugia era in corso una inchiesta giudiziaria su di lui. Palamara non ne sapeva niente. Fuga di notizie. Reato. Colpevoli presunti i Pm di Perugia dell’epoca. Indagini? A noi non risulta. Risalto sui giornali? Zero. Proprio zero virgola zero. Il secondo episodio l’abbiamo denunciato due giorni fa con un articolo di Paolo Comi. Ci era stato detto che per un errore (o forse per una maliziosa intenzionalità) il trojan di Palamara si era spento proprio la sera del suo incontro a cena con Giuseppe Pignatone, nel quale si parlò della nomina del nuovo procuratore di Roma e di altre scelte di potere. Era una cosa molto grave. Ma abbiamo scoperto una cosa più grave ancora: non è vero che si era spento. Il trojan ha funzionato. Il file con l’intercettazione esiste, però è sparito. Chi l’ha fatto sparire? Dove è finito? Perché ci hanno mentito e su ordine di chi? Queste denunce sono cadute nel nulla. Sono fatti clamorosi ma i giornali non ne hanno neanche parlato. Perché? Ordini superiori? Del partito dei Pm, evidentemente, al quale i giornali aderiscono. Le cose, nel campo dell’informazione giudiziaria, da noi funzionano più o meno come a Cuba. Forse però la censura è anche più efficiente, da quando è morto Castro. L’unico che non è scappato via di fronte alla notizie, lo dico con stupore, è stato Massimo Giletti. E le procure? Le Procure tacciono. E i politici? Si sono nascosti sotto i tavolini dei loro banchi alla Camera, credo. Non se ne trova nessuno che abbia voglia di occuparsi del Palamaragate. Scotta. Per quel che ne so l’unica parlamentare che si è esposta e ha denunciato lo scandalo del trojan sparito è una parlamentare europea che si chiama Sabrina Pignedoli. Di che partito è? Dei 5 Stelle. E qui il mio stupore ha superato lo stupore per Giletti. È proprio così, spesso in politica succede quello che mai prevederesti. Grazie, onorevole Pignedoli, ci fai sentire un po’ meno soli. Noi comunque non ci adeguiamo all’ordine del silenzio. Continueremo a bussare alla porta delle Procure e a quella dell’opinione pubblica: C’è nessuno? Chissà, prima o poi magari qualcuno ci risponderà…

Stefano Zurlo per “il Giornale” l'1 marzo 2021. Nuove contestazioni, nuove rivelazioni. Luca Palamara è sempre al centro della scena. La procura di Perugia gli ha appioppato un reato pesantissimo, la corruzione in atti giudiziari, lui va in tv, da Massimo Giletti, con alcuni audio inediti. «È la voce del trojan che intercettava l' ex numero uno dell' Associazione nazionale magitrati», sintetizza il conduttore. Altri nomi, altri episodi, altre trame in alta definizione. Come essere al cinema e invece siamo nel cuore delle istituzioni. C' è tantissimo materiale nel bagaglio del potente ex consigliere del Csm, al centro di una ragnatela di rapporti opachi, solo in parte raccontati dall' indagine di Perugia. L' ex pm di Roma ha svelato quei maneggi nel best seller di questo inizio del 2021, Il sistema, scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti. Ora Palamara va a La7 e aggiunge altre tessere al suo inquietante e inesauribile mosaico. Un carosello di riunioni, richieste, colloqui con i politici amici puntualmente registrati dal trojan inserito nel telefonino del leader di Unicost. Ecco dunque i retroscena, le pressioni, i dialoghi per la nomina del nuovo procuratore di Roma, al posto dell' uscente Giuseppe Pignatone. La notte fra l' 8 e il 9 maggio Palamara all' Hotel Champagne si è trovato con cinque colleghi del Csm, Cosimo Ferri e poi Luca Lotti per accelerare sulla pesantissima scelta. È solo l' inizio. Non è l' arena parte dal giorno dopo, il 9 maggio, e si sofferma su quel che accade nelle settimane successive. Giletti mostra frammenti degli audio: Palamara parla con il giornalista del Corriere della sera Giovanni Bianconi, con il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, con altri colleghi. «Sono arrivate quelle carte da Perugia», afferma Bianconi. «Io - replica secco Palamara - non mi faccio eliminare per via giudiziaria». E invece, il magistrato più potente d' Italia sta per essere abbattuto. E questo mentre sta portando sul trono di Pignatone Marcello Viola, magistrato toscano, procuratore generale a Firenze, che ha però il difetto di non piacere alla sinistra in toga di Area. Nello studio di Non è l'arena Palamara chiama in causa Piercamillo Davigo e altri pezzi da novanta del sistema. Davigo in un primo momento sostiene Viola, poi cambia idea e si smarca. Perché? Il 23 maggio Viola è a un passo dalla nomina: la Commissione incarichi direttivi del Csm lo propone al plenum che si riunirà di lì a poco con quattro voti su sei. Per Viola l' arrivo sulla poltrona strategica di Roma sembra cosa fatta. O quasi. Ma non è così, perché la tempestiva fuga di notizie da Perugia manda gambe all' aria tutti gli assetti: «Il tappo - come dice proprio Palamara - sta saltando». Il 29 maggio la notizia dell' inchiesta travolge lui, ma anche il candidato a un passo dalla meta. Esce di scena Palamara. Esce di scena Viola. Fra allusioni. Veleni. Confidenze. Alla procura di Roma arriva Michele Prestipino. Palamara oggi insiste perché tutti i protagonisti di quelle convulse giornate raccontino come è andata, senza invocare segreti e senza trincerarsi in un fragile silenzio. Tocca a Giletti ricordare un dettaglio sconcertante: nei giorni scorsi il Tar ha dato ragione a Viola - e a Francesco Lo Voi - che aveva fatto ricorso contro la sua esclusione. I giochi per la procura di Roma potrebbero riaprirsi. Forse. Certo, siamo dentro un labirinto e in una situazione paradossale.

Le due giustizie di Ferri e Palamara. Liana Milella su La Repubblica il 14 Febbraio 2021. Ma la giustizia è una sola, oppure è doppia? Una vale per le toghe, e un’altra vale per la politica? C’è da porsi questo interrogativo osservando cosa accade per due magistrati come Luca Palamara e Cosimo Maria Ferri. Il primo toga di Unicost. Il secondo di Magistratura indipendente. Due “boss”, se con questa parola si può sintetizzare l’essere molto potenti, non solo nel proprio gruppo, ma anche nei confronti delle altre correnti. Il primo resta con la toga addosso. Il secondo la mette in freezer, e diventa prima sottosegretario (si disse segnalato da Niccolò Ghedini), in ben tre governi, e poi passa nel Pd, e poi ancora con Renzi. Partito per il quale tuttora siede in Parlamento, e fa parte anche della commissione Giustizia della Camera. E qui si può osservare la fotografia dei differenti destini e delle due “giustizie”. Quella dei giudici. E quella della politica. Perché Palamara, sotto processo a Perugia per corruzione, viene rimosso dalla magistratura in quanto protagonista dell’incontro all’hotel Champagne di Roma per pilotare la nomina del nuovo procuratore di piazzale Clodio. Incontri in cui erano presenti anche Ferri e Luca Lotti, un renziano rimasto nel Pd. Per Palamara sono bastate nove udienze a palazzo dei Marescialli lo scorso autunno. Il 9 ottobre il verdetto era pronto. Rimosso. Via la toga dalle spalle. E Ferri invece ? Il suo processo va ancora avanti, rallentato dai dubbi sulle intercettazioni via Trojan, visto che lui è un parlamentare. Ma in Parlamento invece, e dentro Italia viva, che è successo? Semplicemente non è accaduto nulla. Ferri - che non è sotto inchiesta a Perugia, ma risponde solo per il suo comportamento da magistrato in sede disciplinare - è sempre lì dove stava prima. Quegli accordi sottobanco tra toghe e politica per il procuratore di Roma fanno scandalo al Csm e producono una radiazione, ma alla politica - evidentemente - fanno il solletico. Tant’è che Italia viva si tiene Ferri. E il Pd si tiene Lotti. Due giustizie, e non una sola giustizia. Materia per dotte analisi sulle tante riviste che si occupano di dottrina giuridica. Certo un evidente caso di doppia morale. Tant’è, prendiamone atto.

Palamara ora sfida il giudizio del "sistema". L'ultima battaglia si giocherà in Cassazione. L'ex presidente dell'Anm non vuole essere l'unico a pagare e presenta ricorso all'alta corte. La difesa: troppo rapidi i tempi del processo e giudici prevenuti. Massimo Malpica - Sabato 20/02/2021 - su Il Giornale.  Un procedimento flash, una decisione rapidissima arrivata dopo appena due ore di camera di consiglio: così l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, a ottobre scorso, è stato fatto fuori dalla magistratura. Impietoso il verdetto della sezione disciplinare del Csm: radiato, per aver tentato di condizionare il Csm di cui faceva parte attraverso «una indebita manipolazione dei meccanismi decisionali istituzionali», e «in maniera occulta», al fine di orientare a tavolino le nomine di molti importanti uffici giudiziari. Ma il grande accusatore del sistema non ci sta ad accettare di passare per capro espiatorio e unico responsabile dei mali della magistratura. Rivendica di essere stato appunto solo un ingranaggio di un sistema fondato sulle correnti e che agiva secondo logiche spartitorie, prescindendo da lui e dalle sue azioni, semplicemente adeguate a quell'andazzo. E dunque, come aveva già annunciato al momento della radiazione, sceglie di battagliare, presentando ricorso in Cassazione, tramite il suo legale Roberto Rampioni, contro la decisione di Palazzo dei Marescialli. Ieri l'avvocato ha depositato una memoria di circa novanta pagine, e con molti allegati, nella quale si argomentano almeno otto motivi di ricorso per cancellare quella decisione e restituire la toga a Palamara. Che, nel dossier, lamenta, per cominciare la scelta del Csm di assimilare il suo illecito disciplinare all'incidente stradale commesso da un tassista in servizio: un paragone che secondo Palamara e il suo avvocato è improbabile oltre che «contrario ai più elementari principi di logica giuridica». Poi, appunto, nel mirino finisce il processo a tappe forzate che ha portato alla sua radiazione. Ricordando, nella memoria, che a luglio lo stesso presidente della sezione disciplinare aveva ipotizzato un calendario di udienze sette in programma - dall'estate a dicembre. Mentre il procedimento si è svolto tra settembre e ottobre, in meno di 30 giorni. Insomma, «tempi troppo rapidi», per la sua difesa, incompatibili con un giusto processo. Come si ricorderà, a imprimere un'accelerazione al procedimento contro Palamara era stata anche l'approssimarsi della pensione di Piercamillo Davigo, componente del collegio, che ha compiuto 70 anni il 20 ottobre. E proprio su Davigo si concentra il dossier del ricorso di Palamara, ricordando di aver chiesto invano - la ricusazione dell'ex pm di Mani Pulite, che era stato citato come teste a discarico dallo stesso ex presidente Anm e che, sempre secondo la difesa di Palamara, aveva incontrato a pranzo a febbraio 2019 l'ex pm romano Stefano Fava che aveva presentato un esposto alla prima commissione del Csm contro il procuratore capo di Roma Pignatone e l'aggiunto Ielo. Quei colloqui, ribadisce ora la memoria difensiva, potrebbero aver influenzato il giudizio di Davigo su Palamara e avrebbero dovuto spingere l'ex pm ora in pensione ad astenersi. Tra gli altri punti contestati, oltre all'utilizzazione delle celebri intercettazioni dell'hotel Champagne, nonostante la presenza dei due parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, anche la mancata ammissione della stragrande parte dei testimoni chiamati dalla difesa. Nel procedimento di fronte al Csm che portò alla sua radiazione, ne furono stoppati 124 su 130: una circostanza che, secondo Palamara e il suo avvocato, costituirebbe una violazione della normativa della Corte europea dei diritti dell'uomo sul giusto processo.

(ANSA il 22 febbraio 2021) - Nuove accuse per l'ex consigliere del Csm Luca Palamara nel corso dell'udienza preliminare in corso a Perugia. La procura ha infatti modificato il capo d'imputazione contestandogli i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e corruzione in atti giudiziari. Stessi addebiti contestati all'imprenditore Fabrizio Centofanti e ad Adele Attisani. I magistrati del capoluogo umbro hanno depositato nuovi atti nell'udienza che si è svolta oggi. Tra questi una corposa informativa della guardia di finanza, verbali di diversi testimoni e riscontri acquisiti nel corso delle indagini. In particolare Palamara - al quale era stato contestato inizialmente il reato di concorso in corruzione per un atto d'ufficio - è accusato di avere acquisito informazioni riservate da pubblici ministeri di Roma e di Messina rendendole note a Centofanti. Da questi sarebbero poi passate - sempre in base alla ricostruzione accusatoria - all'avvocato Piero Amara. Palamara avrebbe quindi ricevuto da Centofanti viaggi, soggiorni e lavori eseguiti da varie ditte presso l'abitazione di Adele Attisani, amica di Palamara e considerata "istigatrice" delle presunte condotte illecite. Dopo la formulazione delle nuove contestazioni la difesa di Palamara ha chiesto i termini a difesa e l'udienza è stata rinviata al 19 marzo. La procura perugina è stata rappresentata dal capo dell'Ufficio Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano.

Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per repubblica.it il 22 febbraio 2021. Corruzione in atti giudiziari. C’è un cambio di passo, formale e d’immagine, nell’inchiesta che la procura di Perugia sta conducendo su Luca Palamara, l’ormai ex magistrato dopo l’espulsione decisa dal Csm diventato ora il grillo parlante della magistratura italiana. Palamara dovrà rispondere ora di un’accusa gravissima che nulla ha che fare con lo scambio di nomine, della quale fino a questo momento l’ex pm ha sempre parlato: secondo i pm di Perugia Palamara avrebbe messo a disposizione del lobbista Fabrizio Centofanti, tra il 2017 e il 2018, il suo ruolo di pm e membro influentissimo del Csm per raccogliere e passargli informazioni riservate, compiendo così atti contrari ai doveri di ufficio, in cambio di vantaggi personali. La contestazione è stata formalizzata oggi dal procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, nel corso del procedimento già aperto. Secondo la procura, c’è la prova che Palamara avesse raccolto e offerto a Centofanti informazioni sui procedimenti aperti dalla procura di Roma e di Messina che riguardavano i rapporti tra lui e l’avvocato Piero Amara, l’uomo che tesseva relazioni a tutti i livelli (governo, industria, Stato) della magistratura. La contestazione arriva in seguito ad alcune dichiarazioni dello stesso Amara e dell’altro avvocato, coinvolto nelle stesse indagini, Giuseppe Calafiore. Inoltre – in un’informativa di più di duecento pagine della Guardia di finanza – ci sono una serie di elementi che riscontrerebbero questi racconti, partendo per esempio dalla posizione delle auto e dei cellulari a disposizione di Centofanti.

Nuove accuse a carico di Palamara: nell’indagine spuntano i “pentiti”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 Feb 2021. La procura di Perugia cambia il capo d’imputazione in corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione in atti giudiziari nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Nell’indagine di Perugia a carico di Luca Palamara irrompono i “pentiti”. La circostanza è emersa stamattina durante l’udienza preliminare. Il gip  Piercarlo Frabotta aveva chiesto lo scorso 8 febbraio ai pm Mario Formisano e Gemma Milani, titolari del fascicolo, di precisare meglio le accuse nei confronti dell’ex presidente dell’Anm. La difesa di Palamara, rappresentata dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti aveva da tempo evidenziato  “l’indeterminatezza” dell’accusa di corruzione per il proprio assistito formulata dai pm del capoluogo umbro. Il nuovo capo d’imputazione prevede i reati di “corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio” e “corruzione in atti giudiziari”. Per favorire l’imprenditore Fabrizio Centofanti e, quindi gli avvocati Piero Amara e  Stefano Calafiore, Palamara gli avrebbe riferito acquisite da Stefano Rocco Fava, il pm di piazzale Clodio, ora giudice a Latina, che nella primavera del 2019 aveva presentato un esposto contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Palamara, in pratica, avrebbe carpito informazioni da Fava, senza che costui fosse consapevole di ciò,  per ottenere da Centofanti viaggi e soggiorni. “Sono tutt’altro che “inconsapevole”: Palamara non mi ha mai chiesto notizie sui procedimenti di Centofanti e tanto meno su quelli a suo carico”, il commento di Fava interpellato dal Dubbio al riguardo. Centofanti, si ricorderà, era stato  indagato a luglio 2016 insieme all’imprenditore Stefano Ricucci. Fava divenne assegnatario del fascicolo aperto nei confronti di Centofanti solo a dicembre di quell’anno. L’imprenditore venne poi  perquisito nell’ambito di quel fascicolo, ad aprile del 2017, per poi essere indagato a Perugia l’anno successivo insieme a Palamara.  Amara, sulle cui dichiarazioni si basano le nuove contestazioni a carico di Palamara, era stato sentito dai pm  di Perugia molte volte in questi anni, senza però rivelare quest’ultime  circostanze. “Dopo tre anni sono stati riesumati elementi di indagine già  in parte valutati inattendibili dalla stessa Procura”, ha affermato al termine dell’udienza l’avvocato Marzocchi Buratti. L’udienza di ieri è stata caratterizzata da alcuni momenti di tensione. Palamara era anche uscito dall’aula non prima però di essersi chiarito con la pm Miliani. Dopo la formulazione delle nuove contestazioni  la difesa di Palamara ha chiesto i termini a difesa e l’udienza è stata rinviata al 19 marzo. Ma la giornata di ieri è stata segnata dalla notizia della presentazione di un appello al capo dello Stato Sergio Mattarella affinché venga istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta per far luce sullo scandalo che ha travolto la magistratura dopo le rivelazioni del caso Palamara. A firmare l’appello circa settanta magistrati “indipendenti” dalle correnti. Dopo il Plenum 21 giugno 2019, all’indomani dei fatti dell’hotel Champagne, è cambiato “molto poco”, scrivono le toghe. Per un vero cambiamento ed evitare le degenerazione del correntismo, serve prevedere quanto prima  il “sorteggio dei componenti del Csm”  e la “rotazione degli incarichi”, ricordano le toghe antisistema.

L'ex Csm avrebbe passato informazioni a Centofanti. Palamara, nuova accusa di corruzione in atti giudiziari: “Riesumati dopo 3 anni fatti inattendibili”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Luca Palamara ancora nel mirino. L’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm nel corso dell’udienza preliminare in corso a Perugia si è visto piovere addosso altre accuse: la procura ha infatti modificato il campo d’imputazione contestandogli i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione in atti giudiziari. Palamara in particolare è accusato di aver acquisito informazioni riservate da pubblici ministeri di Roma e di Messina sui procedimenti a carico dell’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti in merito ai rapporti tra quest’ultimo e l’avvocato Piero Amara. In pratica, secondo i magistrati di Cantone, tra il 2017 e il 2018 Palamara grazie al suo ruolo di pm e membro del Csm avrebbe raccolto e passato informazioni riservate in cambio di vantaggi personali. Stando alla ricostruzione dei magistrati, con la procura rappresentata dal capo dell’Ufficio Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, l’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura, avrebbe ricevuto in cambio da Centofanti vacanze, viaggi e lavori eseguiti da varie ditte presso l’abitazione di Adele Attisani, anch’essa imputata, considerata dai pm “istigatrice” delle presunte condotte illecite. Palamara e i suoi legali hanno chiesto, dopo la formulazione dei nuovi capi di accusa, i termini a difesa e l’udienza è stata rinviata al 19 marzo. Secondo la difesa di Palamara, rappresentata dall’avvocato Benedetto Buratti, “dopo tre di indagini sono stati nuovamente riesumati elementi già noti e in parte già ritenuti inattendibili”. Il legale ha spiegato all’AdnKronos, lasciando il Centro Capitini dove si è svolta l’udienza preliminare, che sulla nuova contestazione da parte della procura “ci riserviamo ogni valutazione difensiva che consentirà al nostro assistito di chiarire le vicende che lo riguardano. Certo stupisce che dopo tre anni vengano valorizzati elementi investigativi proprio in questo periodo”. Durante l’udienza Palamara ha scelto di lasciare l’aula dopo aver sentito affermazioni percepite come offensive dalla ricostruzione dei fatti fatta dai magistrati di Perugia.

Privacy o c'è dell'altro? Magistratopoli, dal cellulare di Palamara spariti tutti gli SMS…Paolo Comi su Il Riformista il 30 Dicembre 2020. Dal cellulare di Luca Palamara sono spariti tutti gli sms. Negli atti depositati dalla Procura di Perugia non c’è traccia dei Short Message Service, i cosiddetti messaggini che l’ex presidente dell’Anm inviava e riceveva sul proprio cellulare. Questa circostanza è una delle tante anomalie che caratterizzano l’indagine per corruzione nei confronti dell’ex zar delle nomine al Csm. In particolare per le modalità con cui è stata condotta l’attività di intercettazione effettuata dal Gico della guardia di finanza sul cellulare di Palamara. Ieri avevamo rivelato il ritardo di circa un anno con cui la Procura di Perugia aveva inviato al Csm ed alla Procura generale della Corte di Cassazione le chat WhatsApp del magistrato romano. Dopo aver sequestrato il cellulare di Palamara il 30 maggio del 2019, i pm umbri avevano disposto l’estrapolazione di tutti i dati contenuti al suo interno. Come avevamo raccontato, le operazioni di estrazione dei dati si erano svolte il giorno successivo presso la sede romana del Gico. Venne incaricato del compito il maresciallo della finanza Antonio Miccoli in servizio presso “l’Ufficio operazioni sezione operazioni computer forensics e data analysis”. L’estrapolazione dei dati, effettuata con il software “physical analyzer”, iniziò alle 9.50 e terminò alle ore 12 successive “con successo”, come scrisse Miccoli nel verbale. Mentre le intercettazioni delle conversazione telefoniche e i colloqui registrati con il virus trojan vennero inviati al Csm il 3 giugno del 2019, per le chat WhatsApp bisognerà aspettare la fine di aprile di quest’anno, all’indomani della notifica dell’avviso di chiusura indagini a Palamara. Non c’era nulla di “penalmente rilevante”, sarebbe stata la giustificazione degli inquirenti a proposito della diversa tempistica di trasmissione degli atti. Le chat WhatsApp, però, erano state utilizzate per effettuare l’8 luglio del 2019 l’interrogatorio del funzionario di polizia Renato Panvino, il capocentro della Dia (Direzione investigativa antimafia) di Catania. Secondo la Procura di Perugia, Panvino era stato incaricato di acquistare un monile per conto di Palamara. Si legge nel verbale di interrogatorio: “L’Ufficio da atto di dare lettura di alcuni messaggi sulla chat in atti”. Gli investigatori volevano sapere da Panvino quali erano i rapporti fra l’imprenditore Fabrizio Centofanti e Palamara. Secondo l’accusa iniziale, Palamara, in cambio di viaggi, pranzi ed altre utilità fornite nel tempo da Centofanti, si sarebbe messo a disposizione di quest’ultimo quando era consigliere del Csm. A Panvino gli inquirenti domandano, ad esempio, se la cena per una amica di Palamara o comunque il festeggiamento del suo compleanno “fosse organizzato da Centofanti e le spese sostenute da lui”. Lo stesso Panvino si era rivolto a Palamara affinchè «potesse dire a Centofanti di farmi avere un trattamento di favore per un pernottamento a Villa Igea che è una struttura recettiva del gruppo Acqua Marcia (società presso la quale Centofanti prestava la propria attività di pr, ndr)». «Peraltro anche io a settembre 2017 avevo fatto in modo di far applicare a Centofanti una tariffa di favore nell’albergo a Catania», aggiunge il funzionario di polizia pressato dai pm umbri. Tornando, invece, ai messaggini, come mai non c’è traccia alcuna nel fascicolo depositato dai pm di Perugia pur essendo stata effettuata “con successo” l’estrazione dei dati del cellulare di Palamara? Quanti erano e quale era il loro contenuto? Il diretto interessato, Luca Palamara, in questo momento è l’unica persona ad essere a conoscenza dell’informazione, essendo tornato in possesso del suo cellulare. Ma contattato dal Riformista, Palamara non si è sbottonato. Dopo aver precisato di non averli cancellati, sibillino ha fatto intendere che ci sarebbero sms con alti magistrati e con importanti personalità dello Stato. L’oggetto delle conversazioni dalla lunghezza di 160 caratteri, e per le quali non c’è bisogno di connessione dati, sarebbe stato sempre lo stesso: gli incarichi dei magistrati. Perché, allora, la Procura di Perugia ed il Csm non sono interessati a conoscere chi erano questi alti magistrati e personalità dello Stato che chiedevano favori a Palamara via sms? È solo una forma di rispetto della privacy togata o c’è dell’altro?

Processo Palamara, il Gup chiede a Cantone: “Scusi, il reato dov’è?” Paolo Comi su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. È necessario “precisare” il capo d’imputazione nei confronti di Luca Palamara. L’invito, cortese e garbato, è stato rivolto ieri mattina dal giudice Piercarlo Frabotta ai pm Mario Formisano e Gemma Milani durante l’udienza preliminare del processo in corso a Perugia a carico dell’ex zar delle nomine al Csm. Un assist per la difesa di Palamara, rappresentata dall’avvocato romano Benedetto Marzocchi Buratti, che da mesi sostiene, inascoltata, “l’indeterminatezza” dell’accusa di corruzione per il proprio assistito formulata dai pm del capoluogo umbro. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, va detto, ereditata l’indagine che ha terremotato il Csm, appena insediatosi aveva cercato di correre ai ripari e di correggere il tiro rispetto a quanto indicato nella iniziale richiesta di rinvio a giudizio. Correzioni ritenute, però, non sufficienti da parte del gup Frabotta che deve decidere se mandare o meno a dibattimento Palamara. La Procura di Perugia ha ora circa due settimane di tempo, la nuova udienza è in programma il prossimo 22 febbraio, per mettere ordine nel capo d’imputazione. Tecnicamente la Procura potrà anche decidere di non fare nulla e insistere con le attuali accuse. Titolare dell’azione penale, infatti, è solo il pm. Se il gup avesse rimandato indietro il fascicolo sarebbe stato passibile di azione disciplinare: il processo non è un esame universitario in cui il professore può dire allo studente impreparato di tornare al prossimo appello dopo aver studiato. L’imputazione, comunque, potrà essere modificata dai pm anche nel corso del dibattimento. Certamente, però, un processo che già nella fase dell’udienza preliminare parte in questo modo non è un bel segnale. Anche perché la Procura di Perugia ha indagato per anni su Palamara con un impiego di risorse e mezzi no limits: dai pedinamenti notturni fin sotto casa, all’utilizzo massiccio del terribile trojan. Molte comunque le perplessità su quest’ultimo aspetto: come è stato più volte segnalato, il virus spia registrava gli incontri di Palamara con i figli ma non le sue cene con l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e alti magistrati del Tribunale di Roma. Il punto centrale, tornando all’indagine, è sempre lo stesso: all’ex capo dei magistrati viene contestato di aver condizionato, in cambio di pranzi e viaggi assortiti, le nomine apicali delle toghe anche quando era pm a Roma e non potente consigliere del Csm. Come può, non essendo nella stanza dei bottoni, aver condizionato le decisioni del Csm? Aveva dei sodali di stretta osservanza a Palazzo dei Marescialli? E in caso di risposta affermativa, chi erano? Sono stati identificati? La Procura di Perugia questo aspetto non lo ha chiarito. Ma oltre ad “aggiustare” il capo d’imputazione seguendo la “moral suasion” del gup, il vero terreno di scontro ci sarà quando, in caso di rinvio a giudizio, dovrà essere discussa la lista dei testi. Se il collegio di Perugia sceglierà la strada del “turbo processo”, vedasi sezione disciplinare Csm “prima maniera”, dove i testimoni di Palamara nel processo per i fatti dell’hotel Champagne sono stati tagliati, il problema non si pone. La condanna è certa. Ma se dovesse ammettere, come ha fatto la sezione disciplinare del Csm “seconda maniera”, autorizzando per le medesime incolpazioni i testimoni richiesti dai magistrati che parteciparono con Palamara all’incontro dell’hotel Champagne, la strada per la Procura sarà in salita. Da indiscrezioni, la difesa di Palamara punta a citare tutti gli ex componenti del Csm. La tesi difensiva è semplice: in un organo collegiale, come appunto il Csm, Palamara non ha potuto fare tutto solo. Ci saranno chiamate in correità? In caso contrario, se i consiglieri del Csm avevano sentore che Palamara per le nomine si facesse pagare le cene di pesce e i trattamenti termali a San Casciano dei Bagni, per quale motivo non lo hanno fatto arrestare, consentendogli di agire indisturbato? Sarebbe la conferma che il “Sistema” delle nomine esisteva. Al momento le uniche certezze che ha prodotto questo procedimento penale è il “ribaltone” al Csm, con le dimissioni di più della metà dei consiglieri della destra e dei palamariani a favore della sinistra giudiziaria e dei davighiani, e la stroncatura della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma a favore di Michele Prestipino. Sul punto, un mistero mai chiarito e in attesa di risposta da oltre un anno: come mai Piercamillo Davigo, dopo aver votato, cambiò idea su Viola? Cosa è successo?

Secondo il gup, «l’accusa a Palamara è poco chiara». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 febbraio 2021. Il gup Piercarlo Frabotta ha invitato i pm ad essere più precisi nel capo di imputazione relativo alla «corruzione per l’esercizio della funzione». In particolare, non sarebbe chiaro il ruolo avuto da Palamara nell’affidamento degli incarichi al Csm quando non era consigliere a Palazzo dei Marescialli ma pm della Procura di Roma. «Abbiamo sempre rispettato il lavoro della Procura ma da tempo sosteniamo l’indeterminatezza dell’accusa», ha dichiarato ieri l’avvocato Benedetto Marzocchi Buratti, difensore di Luca Palamara, al termine dell’udienza preliminare in corso a Perugia nel procedimento a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. Il gup Piercarlo Frabotta ha invitato i pm ad essere più precisi nel capo di imputazione relativo alla «corruzione per l’esercizio della funzione». In particolare, non sarebbe chiaro il ruolo avuto da Palamara nell’affidamento degli incarichi al Csm quando non era consigliere a Palazzo dei Marescialli ma pm della Procura di Roma. Secondo l’accusa, il magistrato era “a disposizione” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti. Alla prossima udienza, in calendario il 22 febbraio, dovranno essere affrontate altre questioni, come le costituzioni di parte civile e la competenza territoriale. La difesa di Palamara punta a spostare il processo a Trapani: la prima corruzione riguarda, infatti, un viaggio, pagato da Centofanti, a Favignana. Il gup Frabotta alla scorsa udienza aveva anche riunito il procedimento di Palamara con quello che vede coinvolto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. Per i magistrati umbri l’ex pg avrebbe aver rivelato a Palamara notizie coperte dal segreto. Tornando a Palamara, in questi giorni in tour per la presentazione del suo libro- intervista “Il Sistema”, domenica sera dallo studio di Non è l’Arena su La7 è tornato sulla nomina del procuratore di Roma, invitando l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, già consigliere del Csm, ad indicare il motivo per il quale inizialmente votò in Commissione incarichi direttivi Marcello Viola per poi cambiare idea votando Michele Prestipino che, all’epoca, non era stato neppure proposto. Sul fronte associativo, infine, si segnala lo scorso fine settimana la decisione, attesa da mesi, dell’Anm di acquisire le ormai “mitiche” chat di Palamara. Estrapolate dal cellulare del magistrato a maggio del 2019 dal Gico della finanza, sono state “pidieffate” in circa 60mila pagine. La lettura delle chat, per accertare eventuali violazioni deontologiche, verrà effettuata dai probiviri dell’Anm recentemente nominati. L’Anm «respinge l’immagine della magistratura restituita dal libro intervista di Palamara da molti giorni amplificata da articoli di stampa e trasmissioni televisive, ferma la necessità di procedere rapidamente e nel rispetto delle garanzie all’accertamento dei fatti», ha fatto sapere quindi sapere il Comitato direttivo centrale dell’Anm dopo aver dato il via libera all’acquisizione delle chat. La Procura generale della Cassazione era stata la prima ad avere le chat ed aveva creato una apposita task force per la loro lettura. Al momento sono una decina i procedimenti disciplinari aperti in conseguenza di frasi estrapolate dalle chat. Anche il Csm è in possesso delle chat. La lettura a piazza Indipendenza avviene di volta in volta da parte delle Commissioni competenti. Le pratiche aperte sono un centinaio e riguardano i profili di incompatibilità ambientale. Tranne la Procura generale, sia l’Anm che il Csm non hanno un criterio di valutazione predeterminato.

·        Figli di Trojan.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 29 ottobre 2021. Mercoledì i riflettori politici erano puntati sul Senato. Ma nelle stesse ore la maggioranza anti ddl Zan si manifestava anche nella più appartata giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, chiamata a decidere sul caso Ferri. Cosimo, magistrato in aspettativa, gran visir delle nomine giudiziarie, ex sottosegretario alla giustizia in quota Forza Italia, poi approdato a Italia Viva via Pd. Cosimino lo chiamava al telefono Luca Palamara nella primavera 2019, quando con il concorso esterno dell’onorevole-imputato Luca Lotti si apprestavano a portare a compimento il controllo sulle principali Procure italiane, Roma in primis. Per la sua partecipazione alla notte dei congiurati nell’hotel Champagne, Ferri è sotto procedimento disciplinare da un anno e mezzo. A differenza di Palamara (radiato) e degli altri cinque ex membri del Csm (pesantemente condannati), finora è riuscito a sfangarla. Merito di una meticolosa strategia difensiva e di qualche pasticcio del Csm nel ping pong con la Camera. Ma ora siamo al dunque: la giunta e poi l’Aula di Montecitorio devono decidere se consentire l’uso delle intercettazioni oppure no. La questione verte attorno alla casualità delle intercettazioni di un parlamentare in assenza di autorizzazione preventiva. Finora giudici perugini, Csm e Cassazione hanno ritenuto che tali fossero quelle di Ferri. Egli sostiene l’opposto e ne reclama «radicale illegittimità e patologica inutilizzabilità». Senza intercettazioni, addio processo. Mercoledì mattina Ferri si è presentato alla giunta armato di una torrenziale memoria difensiva: 90 pagine più 13 allegati. Poi ha chiesto di parlare tenendo banco per un paio d’ore. C’è chi racconta l’audizione come «uno sfogo », chi come «uno show» e non si fatica a crederlo. Ferri si è dipinto come vittima di «una evidente persecuzione » orchestrata prima dai magistrati di Perugia, che l’hanno intercettato e pedinato «abusivamente» per mesi indagando su di lui in modo surrettizio e fingendo di ascoltarlo casualmente; poi dalla stessa sezione disciplinare del Csm, che intende processarlo a prezzo di «rile rilevanti omissioni e persino affermando fatti smentiti documentalmente ». Il tutto in «macroscopica e plateale violazione della Costituzione». A supporto della tesi complottista (intercettazioni volute, altro che casuali, quindi illecite) la quantità di conversazioni di Ferri (31) captate, tra cui una persino con il presidente della Lazio, Claudio Lotito; l’identificazione di Ferri come abituale interlocutore di Palamara tre mesi prima della notte dello Champagne; la certezza di essere stato «espressamente attenzionato » dagli inquirenti anche nelle cene private, tanto che il suo nome risuona negli atti d’indagine 341 volte e il rapporto con Palamara definito sin da marzo come «connotato da opacità»; l’uso di un server privato per conservare (e manipolare, sospetta) le intercettazioni, il che «costituisce una gravissima minaccia per la democrazia». Dunque, dice Ferri ai colleghi, darmi in pasto al Csm significherebbe «incidere gravemente sulla libertà, anche personale, del parlamentare », accettando la prevalenza di giudici e Csm su chi «rappresenta il popolo». Finora tutti gli organi giurisdizionali hanno respinto queste tesi. Ma ora Ferri gioca in casa, come si è capito mercoledì. Pietro Pittalis, berlusconiano relatore della pratica, come in un’ideale staffetta ha chiosato la perorazione ferriana annunciando, in fin di seduta, di condividerla in toto. Dunque nel giro di un paio di settimane la sua proposta di non autorizzare l’uso delle intercettazioni sarà votata. E approvata, perché centrodestra più Italia Viva hanno i numeri in giunta. Anche nel voto decisivo dell’aula la posizione pare prevalente, e non solo grazie al probabile voto segreto. C’è dietro un asse ormai consolidato tra centrodestra, Renzi e Calenda sulla giustizia. Dalla prescrizione alla presunzione di innocenza, dall’immunità parlamentare alla riforma del Csm. Palpabile imbarazzo nel Pd: non insensibile alle argomentazioni del suo ex deputato, ma recalcitrante all’idea di saldatura politica col «patto di Ferri».

Pm sbugiardati, il trojan usato contro Cosimo Ferri è illegale. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Novembre 2021. “Nessuna casualità”: il Gico della guardia di finanza voleva ascoltare Cosimo Maria Ferri, deputato di Italia viva, mentre discuteva con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. La Giunta per le autorizzazioni della Camera ha accolto ieri la proposta di diniego dell’utilizzo di tutte le captazioni informatiche delle conversazioni di Ferri, richiesta dalla sezione disciplinare del Csm, in quanto «è stata acclarata la non casualità proprio sulla base degli atti di indagine trasmessi alla Giunta stessa». A dirlo è stato il relatore della pratica Paolo Pittalis (Forza Italia). Hanno votato tutti a favore, tranne i quattro grillini. «Ho cercato di non far entrare la politica in questa vicenda, ma solo l’applicazione delle regole scritte e dei principi costituzionali», ha quindi aggiunto Pittalis. Ferri, prima di entrare in Parlamento numero uno delle toghe di destra di Magistratura indipendente, è accusato di avere tenuto un comportamento “gravemente scorretto” nei confronti dei magistrati che concorrevano per il posto di procuratore di Roma e di aver voluto «condizionare le funzioni attribuite dalla Costituzione all’organo di governo autonomo della magistratura». Le accuse si fondano sulle intercettazioni effettuate mediante il virus trojan inserito nel cellulare di Palamara dal Gico su ordine della Procura di Perugia, in particolare quelle effettuate la sera dell’8 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma quando Ferri e l’ex presidente dell’Anm si incontrarono con cinque componenti del Csm e il deputato Luca Lotti (Pd). Per la disciplinare l’incontro avrebbe avuto finalità illegali, puntando a “screditare” il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo vice Paolo Ielo. La Procura di Perugia, il Csm, la Cassazione hanno sempre sottolineato la “casualità” degli ascolti. «Il mio nome compare 341 volte nelle informative del Gico», si era difeso Ferri, contestando questa ricostruzione. Ferri, poi, aveva prodotto alla Giunta delle autorizzazioni una conversazione fra Palamara ed il togato Luigi Spina della sera del 7 maggio 2019 nella quale i due avevano preso appuntamento per vedersi il giorno successivo con “Cosimo”. Non essendoci altre persone nel fascicolo del Gico con quel nome, era evidente che si trattasse di Ferri. Quella conversazione venne ascoltata dalla guardia di finanza “alle ore 18:42 dell’8 maggio”, quindi 5 ore e 25 minuti prima dell’incontro all’hotel Champagne. La conversazione era stata classificata sul brogliaccio “molto importante” dai finanzieri i quali, invece di spegnere il trojan inserito nel cellulare di Palamara quando quest’ultimo qualche ora più tardi si sarebbe incontrato con Ferri, tennero l’apparato acceso, in violazione delle guarentigie del parlamentare. Esisteva, allora, un interesse da parte della Procura di Perugia nel voler conoscere i “rapporti tra Ferri e Palamara?”. Il fascicolo nei confronti di Palamara era stato aperto per il reato di corruzione. Ma dal momento che gli inquirenti hanno riportato per 341 volte il nome di Ferri, mai indagato, c’è il forte sospetto che abbiamo voluto conoscere quali fossero gli accordi fra i due per le nomine dei magistrati. Nel fascicolo di Perugia sono presenti i verbali di pedinamenti nei confronti di Ferri ed è elencata una raccolta delle sue conversazioni prive di rilevanza penale. Le conversazioni tra Ferri e Palamara, ciliegina sulla torta, furono utilizzate per motivare la proroga delle intercettazioni. L’ultima parola spetterà adesso all’Aula della Camera che dovrà esprimersi per confermare o bocciare il no all’utilizzo delle intercettazioni. È possibile votare anche col voto segreto. «Confido che anche in Aula prevalga il giudizio tecnico giuridico formulato dalla Giunta», ha commentato Ferri. Sul fronte Csm si segnala, sempre ieri, l’ennesimo rinvio della discussione sulla nomina del nuovo procuratore di Roma. Se ne riparlerà domani. Due i nomi in pista: Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, e Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. Paolo Comi 

Così intercettarono il telefono “parlamentare” di Cosimo Ferri. «Quelle intercettazioni non sono casuali»: i dialoghi tra il deputato e Palamara ascoltati anche quando l’ex pm lo contattava su un'utenza riconducibile a Montecitorio. Simona Musco su Il Dubbio il 2 novembre 2021. La Guardia di Finanza ha intercettato le conversazioni di Luca Palamara e Cosimo Ferri mentre quest’ultimo utilizzava «un’utenza di pertinenza della Camera dei Deputati». A spiegarlo è lo stesso deputato di Italia Viva, nella memoria difensiva depositata da Ferri alla giunta per le autorizzazioni della Camera, alla quale la sezione disciplinare del Csm si è rivolta per chiedere di poter usare le conversazioni tra Ferri e Palamara captate dal trojan inoculato nel telefono dell’ex presidente dell’Anm.

Per procura e Csm l’intercettazione fu captata su casuale

La conversazione risale al 13 maggio 2019, ovvero quattro giorni dopo la cena all’Hotel Champagne, quando Palamara e altri cinque membri del Csm, assieme a Ferri al deputato Luca Lotti, hanno discusso della nomina del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Secondo la procura e Palazzo dei Marescialli, quelle conversazioni sarebbero state captate in maniera casuale, senza violare, cioè, l’articolo 68 della Costituzione, che vieta l’intercettazione di un parlamentare senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma tra i tanti elementi evidenziati da Ferri vi è anche quello dell’utenza intestata alla Camera, «circostanza che per tutto quanto rappresentato, certamente non può definirsi casuale». Ed è anche per questo motivo, tra tanti altri, che secondo Ferri «in modo inequivocabile», nel perimetro dell’attività di indagine della procura di Perugia «vi era pacificamente anche il sottoscritto parlamentare».

Palamara potrebbe chiedere la revisione della sentenza

Come già evidenziato nell’edizione di venerdì, l’idea di Cosimo Ferri è dunque che tra i bersagli della procura, oltre a Palamara, vi fosse proprio lui. Che, pur non essendo indagato, rappresentava una linea investigativa da «approfondire», proprio per i rapporti «opachi» con Palamara. Da qui l’ipotesi che di casuale, in quelle intercettazioni, non vi fosse nulla. Anche perché la sua identificazione da parte della Finanza avvenne a marzo 2019, due mesi prima della cena all’Hotel Champagne, e, sicuramente, le Fiamme gialle sapevano con chi parlasse Palamara nelle cinque telefonate preparatorie a quella cena.

La Finanza, dunque, avrebbe dovuto spegnere il trojan o, nella peggiore delle ipotesi, distruggere quelle intercettazioni, considerate dal deputato illegali. E se tali venissero riconosciute, secondo quanto affermato dalla sentenza di Cassazione che ha confermato la radiazione di Palamara dall’ordine giudiziario, lo stesso ex presidente dell’Anm potrebbe chiedere una revisione della sentenza. Insomma, il caso Ferri potrebbe determinare anche le sorti future di Palamara, che alla toga ha deciso apertamente di non rinunciare.

L’orientamento della giunta per le autorizzazioni

La giunta per le autorizzazioni, stando a quanto dichiarato dal relatore della pratica, Pietro Pittalis (Forza Italia), è propensa a negare l’utilizzo di quelle captazioni. La decisione arriverà giovedì, ma in attesa della decisione la memoria di Cosimo Ferri continua a far discutere. Secondo il Csm, il deputato avrebbe contribuito ad «influenzare, in maniera occulta, la generale attività funzionale della V Commissione», fornendo «un contributo consultivo, organizzativo e decisorio sulle future nomine di direttivi di vari uffici giudiziari». E insieme a Palamara e Luca Lotti, il primo interessato al posto di aggiunto a Roma e il secondo indagato da quella stessa procura, avrebbe precostituito e concordato, fin nei dettagli, «la strategia da seguire ai fini di pervenire dapprima alla proposta di nomina e, quindi, alla successiva nomina di uno dei concorrenti per la funzione di Procuratore della Repubblica di Roma. E ciò indipendentemente dagli eventuali meriti dei candidati e benché tale nomina fosse di immediato, diretto, interesse personale» di Palamara e Lotti.

Le contestazioni di Cosimo Ferri

Nella sua memoria difensiva, lunga circa 90 pagine, Cosimo Ferri evidenzia come il suo nome, nelle richieste di proroga delle intercettazioni, compare più volte di quello dello stesso Palamara. Ma il deputato va oltre, contestando l’utilizzo di quelle intercettazioni senza che la Camera si sia ancora pronunciata sul caso. L’ordinanza del Csm sostiene infatti che «il contenuto delle conversazioni effettuate nel corso della riunione del 9 maggio 2019 presso l’Hotel Champagne porta ad escludere la riconducibilità delle stesse ad opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari».

In tal modo, secondo Ferri, la sezione disciplinare confermerebbe «espressamente come il “contenuto” delle captazioni di cui si chiede alla Camera di autorizzare l’utilizzo sia in realtà già stato ampiamente utilizzato nei confronti del sottoscritto senza alcuna autorizzazione della Camera, prima dal procuratore generale, per le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione disciplinare e nell’atto di incolpazione; poi dalla stessa sezione disciplinare, per rigettare l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa del sottoscritto».

Trojan presente sul cellulare di Palamara

Ma non solo: l’Hotel Champagne è la dimora romana di Ferri, sicché «l’intercettazione ambientale a mezzo del trojan è stata pertanto una intercettazione ambientale diretta, perché effettuata in luogo nella disponibilità del Parlamentare e anzi nell’albergo dove normalmente dimora». E secondo la Corte costituzionale, la captazione «ove eseguita nei luoghi rientranti in quelli nella disponibilità del parlamentare, va sempre definita diretta» e pertanto va distrutta. Le stranezze, secondo Ferri, sono anche altre. Partendo dalla circostanza che il trojan fosse presente solo sul telefono di Palamara, «il presunto “corrotto”», la circostanza anomala è che nulla fosse stato inoculato nel «telefono dei presunti “corruttori” Amara, Calafiore e Longo», né vi fu uno studio di fattibilità per intercettare le conversazioni di Centofanti.

«Il trattamento particolare riservato al dottor Palamara rispetto ai presunti “corruttori” – conclude dunque la difesa di Ferri – può essere spiegabile solo con l’interesse degli inquirenti ad ascoltare le conversazioni di Palamara relative alle nomine dei magistrati. Palamara, in quel periodo, conversava infatti non già della ipotetica corruzione del 2016 (per la quale non è mai stata esercitata l’azione penale), ma delle nomine dei procuratori di Roma e della stessa Perugia».

«Con la scusa di Palamara mi intercettavano senza autorizzazione». La denuncia di Cosimo Ferri nella memoria difensiva che il parlamentare ha presentato alla giunta di Montecitorio: captato senza ok della Camera. Simona Musco su Il Dubbio il 29 ottobre 2021. Il nome di Cosimo Maria Ferri, ex componente del Csm, viene citato centinaia di volte negli atti di indagine a carico di Luca Palamara, addirittura più volte dello stesso ex presidente dell’Anm. Un’anomalia, in mezzo a tante altre, che ha portato il magistrato in aspettativa, ora deputato di Italia Viva, ad ipotizzare che in realtà la procura di Perugia fosse interessata anche a lui, nonostante il suo nome non fosse formalmente iscritto sul registro degli indagati e nonostante il divieto di intercettare i parlamentari senza l’ok della Camera d’appartenenza. È quanto emerge dall’audizione di Ferri davanti alla Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, dove mercoledì il parlamentare ha depositato una corposa memoria difensiva, per dimostrare come le intercettazioni che lo coinvolgono – prima fra tutte quella all’Hotel Champagne, che ha causato un vero e proprio terremoto nel mondo della magistratura – non possano essere utilizzate. Anzi, di più: sono illegittime.

No all’utilizzo delle intercettazioni di Cosimo Ferri

Dichiarazioni, le sue, che hanno spinto il relatore Pietro Pittalis (Forza Italia) ad anticipare la volontà di negare l’autorizzazione all’utilizzazione delle conversazioni captate con il trojan richiesta dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Sono tanti gli elementi evidenziati da Ferri nel corso della sua audizione, che ha portato i componenti della giunta a manifestare «preoccupazione». Il punto centrale è stabilire se quelle intercettazioni siano da ritenere casuali, circostanza della quale Ferri non fa mistero di dubitare. Tutto ruota intorno al momento nel quale è stato identificato dagli investigatori, perché a partire da allora «doveva cessare l’ascolto delle intercettazioni e captazioni delle sue conversazioni in ossequio all’articolo 68 della Costituzione».

Il successore di Pignatone

Un’accortezza indispensabile non solo nel suo caso specifico, ma a tutela «di un principio costituzionale di equilibrio tra i poteri legislativo e giudiziario». Ferri compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente il 9 maggio 2019 – giorno della cena all’Hotel Champagne, dove si discusse del successore di Pignatone a Roma – e tali richieste hanno inizio dal febbraio del 2019. Ed è certo, come risulta dalla dichiarazione di un maresciallo della Guardia di Finanza – Fabio Del Prete -, ascoltato come testimone nel procedimento disciplinare a carico degli ex consiglieri del Csm presenti a quella cena, che «la sua identificazione avviene almeno a partire dal 12 marzo 2019». Insomma, secondo Ferri, da allora diviene, «insieme a Palamara, l’oggetto pressoché esclusivo delle attenzioni dei pm perugini».

Per i pm strette frequentazioni tra Palamara a Ferri

Secondo i magistrati umbri, gli ascolti delle conversazioni in cui era presente Ferri sono casuali, anche perché sarebbero da ritenere occasionali i contatti tra lui e Palamara. Ma sono loro stessi, nelle richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, a definire quella tra i due «stretta frequentazione», motivo per cui sarebbe assurdo, secondo Ferri, «che il procuratore della Repubblica di Perugia sostenga la casualità della captazione del 9 maggio». Prima di quella data, infatti, ci sarebbero state tutte le condizioni per capire che Ferri avrebbe partecipato alla cena del 9 maggio, potendo dunque spegnere il trojan con facilità.

“Spiato” un parlamentare

Agli atti risultano infatti cinque intercettazioni – tre telefoniche e due mediante trojan – nelle quali veniva anticipato quell’incontro. Una precisazione importante, dal momento che nel difendersi dall’accusa di aver “spiato” consapevolmente un parlamentare, la polizia giudiziaria ha evidenziato di aver ascoltato i file audio soltanto dopo la cena. Un criterio irrazionale, secondo Ferri, perché se sdoganato «qualsiasi parlamentare potrebbe essere intercettato in violazione dell’articolo 68 della Costituzione e poi la natura indiretta o casuale dell’intercettazione, con applicazione dell’art. 4 o dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003, sarebbe stabilita sulla base del momento di ascolto dell’intercettazione».

L’incontro all’Hotel Champagne

Il 7 maggio, ad esempio, Palamara ne parlò con gli ex consiglieri del Csm Spina e Lepre, conversazioni ascoltate l’8 maggio dalla polizia giudiziaria. «Vi era quindi tutto il tempo di riprogrammare il trojan per evitare di intercettare la conversazione del parlamentare, ma ciò non è stato fatto», afferma dunque Ferri. Tant’è che vi è la «prova documentale» che per 14 minuti e 35 secondi il trojan non ha registrato le conversazioni dell’incontro all’Hotel Champagne, senza che si sappia perché. Ma non solo: tra il giorno della captazione e quello dell’ascolto di tutti i progressivi delle captazioni prima e dopo l’incontro, il pm di Perugia diede istruzioni al Gico di non effettuare registrazioni nel caso in cui ci fosse la consapevolezza della presenza di un parlamentare. Dunque, non solo quelle intercettazioni non dovevano essere effettuate, «come da nota del pm», ma, se effettuate, non potevano essere ascoltate.

Agli atti anche i pedinamenti

A dimostrazione dell’attenzione dedicatagli dagli inquirenti Ferri cita alcuni esempi. Come gli approfondimenti effettuati sui dati anagrafici del figlio per verificare i suoi spostamenti il 27 marzo 2019, quando declinò un invito di Palamara per partecipare alla festa di compleanno del figlio. Situazioni, queste, che «rappresentano, di per se stessi, il compimento di atti di indagine» nei suoi confronti.

Allo stesso modo, sarebbero atti di indagine «i pedinamenti in occasione di incontri conviviali; la fotosegnalazione del 10 aprile 2019; il riconoscimento della sua voce su altra utenza telefonica». Da qui la convinzione di essere stato «ampiamente ricompreso nel perimetro delle indagini, sebbene, una volta concluse, non siano mai emersi elementi di reità» a suo carico. E di fatto, secondo Ferri «gli inquirenti perugini erano perfettamente in grado di capire che quell’incontro avrebbe potuto rappresentare una condotta da valutare sotto il profilo disciplinare, all’interno delle comunicazioni già avviate con la Procura generale della Corte di Cassazione».

Ad avvalorare la tesi della non casualità delle captazioni successive a quella del 9 maggio, sarebbe anche la richiesta di proroga delle intercettazioni telefoniche sull’utenza di Palamara del 15 maggio 2019, «dove testualmente si dice che le modalità con le quali si è svolto un incontro tra Ferri e Palamara costituiscono una “anomalia che non assurge con evidenza ad elemento indiziario, di certo segna un percorso investigativo da approfondire”». Ma secondo il Csm, le numerose intercettazioni, i pedinamenti, le fotografie, i rapporti degli investigatori sarebbero «insufficienti» per stabilire che fosse proprio lui l’oggetto delle indagini.

Lo scandalo Magistratopoli. Caso Palamara, Cantone indaga sul server del trojan. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Stefano Pesci, attuale procuratore aggiunto a Roma, pare non avesse dichiarato al Csm, come previsto dalle circolari, di essere sposato con la collega, anch’ella procuratore aggiunto a piazzale Clodio, Nunzia D’Elia. La circostanza è emersa dalla sentenza depositata ieri dal Tar del Lazio sul ricorso presentato dal pm romano Nicola Maiorano. Il magistrato aveva fatto domanda per diventare aggiunto a Roma ma era stato escluso dal Csm che gli aveva preferito Pesci e Ilaria Calò. Pesci avrebbe dovuto segnalare di essere sposato con la collega D’Elia per eventuali “incompatibilità”. Non sembrano esserci precedenti di due aggiunti moglie e marito nel medesimo ufficio.

I consiglieri del Csm nell’esaminare la pratica sembrerebbe non si fossero accorti di nulla, pur essendoci fra loro magistrati che prestando servizio a Roma, anche per sbaglio, avrebbero potuto imbattersi nei coniugi Pesci. Per evitare di aprire un disciplinare a Pesci, sulla carta obbligatorio e come anche scritto nella sentenza del Tar, la moglie ha deciso di rinunciare al posto di procuratore aggiunto e di andare da semplice sostituto alla Procura generale della Corte d’Appello. La Procura di Roma, insomma, si conferma ancora una volta fucina di contenziosi amministrativi e di nomine illegittime. Da Perugia, invece arriva la notizia che ieri i pm hanno deciso di indagare sul server che contiene le intercettazioni effettuate con il trojan nel telefono di Luca Palamara. Cosimo Ferri e Palamara, in pratica, sarebbero parti offese nel Palamaragate: intercettati con modalità tutte da verificare. Il server pare sia rimasto acceso in maniera abusiva e alcune intercettazioni sparite nell’etere. Era stato il Riformista nelle scorse settimane a pubblicare i tabulati con le indicazioni delle programmazioni del trojan che non risultavano registrate. Il procuratore Raffaele Cantone starebbe svolgendo accertamenti per capire cosa sia successo.

Cantone "esulta", l'ex pm annuncia ricorso in Cassazione e alla Corte Europea. Caso Palamara, per il gup di Perugia intercettazioni utilizzabili: bocciata anche la perizia sul server del trojan. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Un duro colpo alla strategia difensiva di Luca Palamara. Il gup di Perugia Piercarlo Frabotta, dopo diverse ore di camera di consiglio, a deciso di respingere la richiesta di dichiarare inutilizzabili le intercettazioni nei confronti dell’ex pm di Roma, come chiesto dalla sua difesa nell’ambito dell’udienza preliminare che ha visto Palamara imputato nel capoluogo umbro per corruzione insieme a Fabrizio Centofanti e Adele Attisani. Non solo. Frabotta ha anche rigettato l’istanza per una perizia sul server "di transito" a Napoli di Rcs, società che ha fornito ai magistrati gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico dell’ex pm. Accolte su tutta la linea quindi le argomentazioni della procura di Perugia, rappresentata dal procuratore Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, con l’udienza è stata quindi rinviata all’8 luglio per l’inizio della discussione da parte della procura. Nel provvedimento il gup parla, anticipa l’Ansa, di “pieno rispetto” delle norme che regolano l’esecuzione delle intercettazioni, con Frabotta che ha sottolineato anche le “condizioni di sufficiente protezione quanto al transito sicuro del flusso dal telefono infetto al server finale di destinazione”. In mattinata era stati ascoltati in aula gli esperti della polizia postale che avevano effettuato gli accertamenti irripetibili sui 20 file riferibili a Palamara e ‘trovati’ sul server di Napoli di Rcs. Secondo l’avvocato Benedetto Buratti, difensore di Palamara, quelle intercettazioni sono “inutilizzabili”, mentre per la procura di Perugia sono da considerare “legittime perché rispecchiamo i criteri e sono state fatte in modo rituale”. Il gup ha dato dunque ragione alla tesi di Cantone, che all’AdnKronos ha ribadito che la procura è sempre stata “certa che il lavoro fosse stato fatto in modo corretto. Abbiamo individuato e portato gli aspetti critici all’esame del giudice ma siamo stati sempre confidenti e consapevoli che le intercettazioni erano state svolte in modo regolare. E oggi il giudice lo ha riconosciuto”. A Palamara invece non resta che “prendere atto della decisione del giudice”. Ma l’ex pm di Roma, in attesa degli accertamenti definitivi da parte della procura di Firenze, ha annunciato che “la battaglia per la verità anche sul trojan continua. Ricorreremo nelle sedi opportune, in Cassazione e alla Corte Europea”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giacomo Amadori per "la Verità" il 18 giugno 2021. Per il giudice dell'udienza preliminare di Perugia, Piercarlo Frabotta, le intercettazioni effettuate con il trojan sul cellulare di Luca Palamara sono utilizzabili nel processo per corruzione contro l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. È una brutta notizia per gli imputati del processo (Palamara e altri tre), ma anche per i sei convitati dell'hotel Champagne (cinque ex consiglieri del Csm e il parlamentare Cosimo Ferri) sottoposti a procedimento disciplinare proprio sulla base di quelle captazioni. Ovviamente gli avvocati ricorreranno in Cassazione e sarà la Suprema corte ad avere l'ultima parola. La settimana scorsa un altro gup, Angela Avila, aveva denunciato l'«inutilizzabilità patologica» degli stessi file in un altro procedimento, quello per rivelazione di segreto d' ufficio contro lo stesso Palamara e l'ex collega Stefano Fava. Qui infatti i reati per i quali si procede non consentono l'utilizzo di intercettazioni, sebbene i pm abbiano provato a introdurle nel procedimento. Ma la decisione di Frabotta suscita qualche perplessità. Infatti dalle indagini disposte dalle Procure di Firenze e di Napoli è emerso che le registrazioni del trojan non venivano trasmesse in prima battuta sul server collocato negli uffici della Procura di Roma come risultava dagli accordi tra gli inquirenti di Perugia e la società che ha gestito il servizio di intercettazione, la Rcs di Milano, bensì su un server situato a Napoli. Dall' analisi di quest' ultimo starebbe emergendo che, al contrario di quanto dichiarato dall'azienda lombarda, quello campano potrebbe non essere stato solo un server di passaggio, perché memorizzava i dati e, forse, li conservava. Infatti in 24 cartelle (riferite al periodo di intercettazione del maggio 2019) sono stati trovati 20 file contenenti anche la voce di Palamara che, almeno in parte, non sarebbero mai stati trasmessi agli inquirenti perugini. Una tesi sostenuta nella sua nota tecnica da Fabio Milana, consulente di Palamara e Ferri: «Lo scrivente può certamente asserire che taluni file audio non sono tra quelli ricevuti e presenti nel server Ivs collocato presso la Procura della Repubblica di Roma, unico server da cui sono stati masterizzati gli audio confluiti nel procedimento penale e nel disciplinare del Csm contro il dottor Luca Palamara». Dalla prima analisi su 4 file «chunk» (frammenti di audio) Milana ha scoperto che tre non erano stati inviati nella Capitale e che due di questi contenevano la voce di Palamara. Ma se «a distanza di circa 24 mesi dal termine delle captazioni» sono state scovate 20 tracce, secondo Milana «ve ne sarebbero potute essere in numero maggiore a ridosso dell'attività» e «non è da escludere che i supposti detti ulteriori file possano essere stati cancellati anche involontariamente da operazioni manuali o automatiche». L' analisi sul server napoletano se, da una parte, fa ipotizzare che alcune intercettazioni possano non essere arrivate a Guardia di finanza e pm, dall' altra, lascia il dubbio che non tutti i file venissero cancellati automaticamente dopo l'invio, visto che almeno un audio spedito a Roma pare essere rimasto nel database campano. Milana, alla fine, instilla un pesante sospetto: «La discrasia accertata dallo scrivente tra orario di ultima modifica e orario di registrazione [] - addirittura, in un caso, di 14 minuti - non permette di escludere la remota, ma non esclusa possibilità di ascolto prima della trasmissione al server Ivs ovvero che il trojan avesse potuto comunicare con altro apparato server prima di far giungere l'evidenza al server sottoposto ad accertamento il 10 giugno 2021». In pratica, secondo il tecnico, sarebbe stato possibile ascoltare i file prima di inviarli a Roma o addirittura ancor prima di trasmetterli a Napoli. C' è stato un filtro delle conversazioni arrivate nella Capitale? Risponde Milana: «Non posso escluderlo, visto che le informazioni che ci hanno fornito dimostrano che ci sono state programmazioni di accensione del trojan della cena di Palamara con il procuratore Giuseppe Pignatone di cui non abbiamo trovato il file». Va detto che gli accertamenti a Perugia si sono limitati, come richiesto dal gup, ai soli 20 file di cui abbiamo parlato, sebbene ieri, in aula, il commissario capo della Polizia postale, Riccardo Croce, abbia annunciato che sono tuttora in corso approfondimenti sul server campano per conto delle Procura di Napoli e Firenze. Evidentemente, però, per Frabotta, l'accertamento tecnico in contradditorio tra le parti che ha fatto eseguire, è stato esauriente e ha fugato i suoi dubbi. E così ieri ha rigettato «l'eccezione di inutilizzabilità» della copia forense del cellulare di Palamara, dei risultati delle intercettazioni e ha respinto anche la richiesta di perizia sul server. Per il gup, infatti, «gli impianti sono stati installati nelle sale server delle Procure nel pieno rispetto» delle norme che regolano queste operazioni e il flusso dal telefono di Palamara al server finale (quello di Roma) «deputato allo stabile immagazzinamento dei dati» sarebbe avvenuto «in condizioni di sufficiente protezione». L'avvocato di Palamara, Benedetto Marzocchi Buratti, annuncia però battaglia: «Rispettiamo la decisione del giudice, ma la nostra lotta per ottenere la verità sull' utilizzo del trojan andrà avanti».

Trojan, il gup dice no a Palamara. L’ex pm: «Tre file non trasmessi». Per il giudice le intercettazioni sono utilizzabili. L’ex presidente dell’Anm insiste: «Faremo ricorso alla Cedu e alla Cassazione, la battaglia per la verità continua». Simona Musco su Il Dubbio il 18 giugno 2021. Le intercettazioni effettuate con il trojan installato nel telefono dell’ex consigliere del Csm Luca Palamara sono utilizzabili nel processo che lo vede imputato a Perugia. È quanto ha stabilito ieri il gup, Piercarlo Frabotta, che ha respinto la richiesta adi perizia sui server della Rcs, società che ha gestito le intercettazioni, avanzata dai legali dell’ex magistrato. Perizia a cui si erano opposti i pm della procura di Perugia, Gemma Miliani e Mario Formisano. Per il giudice, le intercettazioni sarebbero state effettuate nel «pieno rispetto» delle norme, in particolare dell’articolo 268 del codice di procedura penale. Tutto sarebbe avvenuto in «condizioni di sufficiente protezione quanto al transito sicuro del flusso dal telefono infetto al server finale di destinazione». In sostanza, per il gup il server di Napoli, benché sconosciuto alla procura, sarebbe da considerare un server di transito, autorizzato, in ogni caso, perché all’interno di un ufficio giudiziario. Ma la difesa contesta: «Tre file tra quelli analizzati dalla Polizia Postale non sono mai arrivati a Roma». Secondo quanto certificato dagli uomini del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche, sul server Css di Napoli sono state individuate in tutto 24 cartelle, contenenti 20 file relativi al captatore informatico sullo smartphone di Palamara, ancora presenti sul server della Rcs. Proprio per questo motivo, secondo la difesa, non si potrebbe parlare di una macchina di “transito”. I file sono stati creati nell’arco di tempo che va dal 4 maggio 2019 alle ore 20.13 al 29 maggio dello stesso anno alle ore 11.15. Di questi, 19 file sono audio «intelligibili» e tutti trascritti dagli uomini della Polizia postale. «Durante l’ascolto dei file audio sono emerse delle difformità circa la durata prevista, ricavata dai metadati, e quella effettivamente disponibile all’ascolto», si legge nella relazione. I file, dunque, risultano più corti degli originali. Uno dei file, stando ai metadati, ha infatti una durata prevista di 21,34 secondi, mentre la traccia analizzata dura 15,649 secondi. Stessa storia per un secondo file, la cui durata scende da 2 minuti e 3 secondi a 15,649 secondi. E ciò in quanto i due file sarebbero parti di un audio più grande, rispettivamente composto da due e sette porzioni. Un terzo file, inoltre, risulterebbe essere il quarto frammento di un file costituito da 7 parti, motivo per cui non è stato possibile ascoltarlo. In totale, i file hanno una durata media compresa tra 0 secondi e 2 minuti e 3 secondi. Stando ai periti della difesa, però, il punto sarebbe un altro. Ovvero che «il server occulto e non autorizzato di Napoli» riceveva i dati captati dal telefono in chiaro, li registrava, li elaborava «e non li trasmetteva tutti a Roma», tanto che, due anni dopo, «ci sono frammenti di audio mai trasmessi», come emerso dalle tracce a disposizione. Da qui il dubbio che possano esistere altri dati «non trasmessi e cancellati», così come il famoso audio della cena con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, non individuato dall’ispezione. E anche la collocazione di questi server in Procura nel 2019 non sarebbe certa, secondo la difesa: «Fastweb non ha controllato direttamente gli indirizzi forniti da Rcs – affermano – e Centro Direzionale isola E/5 è un indirizzo diverso da quello in cui oggi è stato trovato il server. Del resto, l’indirizzo di via Giovanni Porzio 13, quarto piano, fornito da Rcs a Fastweb è palesemente falso, essendo uno stabile di un solo piano (consulenza topografica)». «Con il nostro tecnico abbiamo riscontrato che tre file tra quelli analizzati dalla Polizia Postale non sono arrivati a Roma – ha spiegato l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende l’ex presidente dell’Anm -. Durante l’ispezione disposta dalla Procura di Napoli e le operazioni irripetibili disposte dal gup di Perugia e dalla procura di Firenze non si è accertato nulla rispetto alla traccia lasciata dal trojan sul server Css di Napoli l’8 settembre 2019. Noi insistiamo dunque sulla inutilizzabilità delle intercettazioni e sulla richiesta di una perizia completa sul server». «Siamo sempre stati certi che il lavoro fosse stato fatto in modo corretto – ha dichiarato il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone -. Abbiamo individuato e portato gli aspetti critici all’esame del giudice ma siamo stati sempre confidenti e consapevoli che le intercettazioni erano state svolte in modo regolare. E oggi il giudice lo ha riconosciuto». Palamara, intanto, attende gli esiti degli accertamenti disposti dalla procura di Firenze, che indaga sui reati commessi ai danni dei magistrati di Perugia. «La battaglia per la verità anche sul trojan continua – ha dichiarato -. Ricorreremo nelle sedi opportune, in Cassazione e alla Corte Europea». La prossima udienza è ora prevista per l’8 luglio, giorno in cui inizierà la discussione da parte della procura.

Caso Palamara, sul server di Napoli c’erano file audio: altro che smistamento. Nessuna registrazione oltre i termini previsti dal decreto d’intercettazione. Nessuna traccia del famoso file relativo alla cena tra Luca Palamara e l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Ma una certezza: il server di Napoli conteneva file audio. E, dunque, potrebbe non essere considerato un semplice server di smistamento, così come sostenuto da Rcs davanti ai pm di Firenze. Simona Musco su Il Dubbio il 16 giugno 2021. Nessuna registrazione oltre i termini previsti dal decreto d’intercettazione. Nessuna traccia del famoso file relativo alla cena tra Luca Palamara e l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Ma una certezza: il server di Napoli conteneva file audio. E, dunque, potrebbe non essere considerato un semplice server di smistamento, così come sostenuto da Rcs davanti ai pm di Firenze. Si può riassumere così l’esito degli accertamenti irripetibili disposti dalle procure di Perugia e di Firenze, il cui esito verrà illustrato nel corso della prossima udienza del processo all’ex capo dell’Anm, fissata il 17 giugno. Quel giorno, davanti al gup Piercarlo Frabotta sfilerà infatti il personale del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche. Nella delega della Procura di Firenze al Cnaipic Palamara e il parlamentare di Italia Viva Cosimo Ferri, entrambi protagonisti della famosa sera all’Hotel Champagne dove si sarebbe decisa la nomina del procuratore di Roma, sono indicati come «parti offese». Un ribaltamento delle parti che, ora, potrebbe aprire nuovi scenari. Lo scopo dei magistrati toscani era accertare eventuali «alterazioni o modificazioni dei dati» avvenute in fase di intercettazioni, effettuate anche attraverso un server “occulto”, installato a Napoli, di cui nessuno a Perugia, la procura che stava conducendo le indagini, conosceva l’esistenza. Motivo per cui a indagare sulle macchine di Napoli è anche la procura di Firenze, competente per i reati commessi ai danni dei magistrati di Perugia. Si tratta, dunque, di una seconda fase degli accertamenti già eseguiti sul server di Napoli di Rcs, la società che ha fornito ai magistrati gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico di Palamara. I venti file trovati sul server sono stati «creati» tra il 4 e il 29 maggio del 2019, tutti provenienti dal trojan installato sul telefono cellulare di Palamara. Secondo la prima ispezione, avvenuta a metà maggio, il captatore aveva continuato a “lavorare” fino all’ 8 settembre 2019, ovvero ben tre mesi oltre la data di cessazione delle intercettazioni. Ma secondo gli accertamenti condotti dalla polizia postale quegli impulsi non sarebbero coincisi con registrazioni oltre i termini stabiliti dal gip. Gli accertamenti sono, comunque, ancora in corso. Tra i 20 file individuati, 19 risultano «intellegibili» e il contenuto è stato trascritto dagli uomini del Cnaipic. Se per il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, assieme ai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, si tratterebbe di intercettazioni «legittime perché rispecchiano i criteri e sono state fatte in modo rituale», per la difesa di Palamara si tratta di file totalmente inutilizzabili. Gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, infatti, hanno eccepito l’inutilizzabilità assoluta dell’attività di intercettazione- captazione quale «prova incostituzionale». E ciò in quanto «le modalità esecutive valutate dal giudice sono risultate modificate unilateralmente, essendo state realizzate ( in sede di esecuzione) delle operazioni» con modalità «del tutto diverse da quelle considerate dal giudice per le indagini preliminari e, cioè, l’estemporanea utilizzazione di impianti esterni, modalità totalmente sottratte al vaglio del giudice e, inoltre, per nulla esplicitate». Il server di Napoli, appunto. Ipotesi che porterebbe a ritenere il provvedimento autorizzativo del gip come «affetto da inutilizzabilità patologica, come tale insanabile e radicale». Il server autorizzato era, infatti, quello di Roma. Ma fino ad agosto 2019, quindi oltre il termine dell’attività di intercettazione, l’architettura dei server di Rcs – poi modificata – aveva un carattere centralizzato, con un unico server Css ed un unico server Hdm installati a Napoli e serventi l’intero territorio nazionale, e diversi server Ivs presso le singole procure. Successivamente, invece, si è passati a più server Css, uno per ogni procura, senza più la necessità di smistare i dati verso gli Ivs tramite il server Hdm. Nel primo caso, il server Css “istruisce” il trojan che poi “restituisce” i dati al server attraverso un canale cifrato. I dati vengono inviati in maniera frammentata, per poi essere ricomposti da Css e inviati al server Hdm attraverso un indirizzo ip privato. Una volta completato il passaggio, i dati vengono – in teoria – automaticamente cancellati. La scoperta dell’esistenza di file audio sulla macchina di Napoli, dunque, riapre la questione: quel server era autorizzato? E perché i file si trovano ancora lì? «Nessun accertamento si è concluso sul server Css. Al contrario di quanto sostenuto sono tuttora in corso, anche dai nostri consulenti, riscontri sul reale funzionamento del trojan», hanno precisato in serata i difensori dell’ex consigliere del Csm. «Accertato anche un impulso partito dal cellulare dell’ex consigliere del Csm all’inizio del settembre del 2019, quando cioè le intercettazioni erano formalmente chiuse, per il quale non sono stati comunque trovati file audio nel server di Napoli.- hanno evidenziato – Durante l’ispezione disposta dalla Procura di Napoli e le operazioni irripetibili disposte dal gup di Perugia e dalla procura di Firenze non si è accertato nulla rispetto alla traccia lasciata dal trojan sul server Css di Napoli l’8 settembre 2019».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 giugno 2021. L'inchiesta della Procura di Firenze sul caso di Luca Palamara e le sentenze del Tar sulle nomine decise dal Csm «ripulito» dalle quinte colonne dell'ex presidente dell'Anm potrebbero presto far riscrivere la storia dell'inchiesta che ha portato alla radiazione dalla magistratura dello stesso Palamara. La Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha infatti trasmesso in Toscana le dichiarazioni dell'ex stratega delle nomine su Luigi De Ficchy, ovvero sul procuratore che ha iscritto sul registro degli indagati lo stesso Palamara per corruzione e che ha ordinato l'inserimento del trojan nel suo cellulare. L'aggiunto fiorentino Luca Turco ha aperto un fascicolo (alla Verità risulta contro noti) e giovedì ha convocato Palamara. Quindi, con in mano il verbale perugino, ha chiesto lumi sui rapporti di De Ficchy con Fabrizio Centofanti (il presunto corruttore di Palamara), arrestato nel febbraio 2018. La vicenda giudiziaria dello stesso Centofanti sarebbe stata poi oggetto di alcuni incontri tra Palamara e De Ficchy nella primavera del 2018. Ricordiamo che Centofanti è stato iscritto sul registro degli indagati di Perugia solo il 27 maggio 2019, a inchiesta praticamente conclusa o quanto meno a poche ore dalla sua discovery, e non risulta dagli atti sia mai stato oggetto di richieste di intercettazione, di tabulati o di altre attività d' indagine. A Firenze Palamara ha anche ripercorso il presunto interessamento di De Ficchy per il trasferimento dell'ex aggiunto di Perugia Antonella Duchini per incompatibilità e i rapporti conflittuali tra De Ficchy e gli inquirenti di Roma e in particolare con l'ex procuratore capitolino Giuseppe Pignatone. Uno scontro in cui Palamara venne coinvolto come paciere nella saletta riservata con caminetto di un noto caffè romano. L'ex presidente del Csm ha anche ricordato la vicenda giudiziaria che coinvolse uno stretto collaboratore di De Ficchy quando era procuratore di Tivoli. Palamara ha dichiarato che l'ex procuratore tiburtino avrebbe insistito per fargli recuperare le carte di quell' inchiesta rivelata dalla Verità. Ultimo argomento del faccia a faccia la festa di laurea del figlio di De Ficchy alla Casina Valadier, locale esclusivo di Roma, location prescelta per diversi incontri conviviali di magistrati romani. Il 3 giugno la Procura di Firenze ha disposto anche un accertamento irripetibile sui server napoletani da cui sarebbero passate illecitamente (con relativo rischio di inutilizzabilità) le conversazioni captate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara. Turco ha chiesto di «acquisire copia delle tracce dell'intercettazione telematica disposta dalla procura di Perugia». Nel decreto d' ispezione per la prima volta vengono citati come parti offese lo stesso Palamara e l'ex collega Cosimo Ferri, passati da bersagli investigativi a «vittime», mentre risultano indagati due dirigenti della Rcs, la società che ha fornito ai magistrati gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni. Veniamo adesso alle decisioni del Tar. Dopo l'annullamento della nomina di Michele Prestipino a procuratore della Repubblica di Roma, confermata dal Consiglio di Stato il mese scorso, sono arrivate ieri altre due sentenze che paiono confermare la sensazione che le nomine del Csm del dopo Palamara siano più attaccabili di quelle gestite dall' ex presidente dell'Anm. A seguito del ricorso presentato dal sostituto procuratore di Roma Nicola Maiorano il Tar ha, infatti, annullato la nomina a procuratore aggiunto di Ilaria Calò votata dal Csm il 13 febbraio 2020 e ha persino condannato il parlamentino dei giudici a pagare la somma di tremila euro a Maiorano per le spese legali. A proposito dell' annullamento della nomina della Calò, i giudici amministrativi hanno rilevato come la consigliera Loredana Miccichè avesse fatto notare che il Csm e il proponente Piercamillo Davigo stavano valutando in favore della Calò titoli non ancora conseguiti alla data della pubblicazione del bando e che tale valutazione a posteriori non era stata fatta per gli altri concorrenti; ciononostante in Plenum il consigliere Giuseppe Cascini, campione del cartello delle toghe progressiste di Area, propone un «emendamento», immediatamente recepito da Davigo, con il quale è stata «sbianchettata» la parte della delibera che valutava indebitamente il titolo ottenuto fuori tempo massimo, senza tuttavia procedere a una nuova comparazione con gli altri candidati, sicché il Tar ha stabilito che con «l' espunzione del riferimento all' incarico del 24 settembre 2019, risulta inficiato il giudizio di prevalenza della dottoressa Calò». Vale la pena di rileggere il verbale del plenum con la correzione galeotta che ha portato il Tar all' annullamento della delibera. Cascini chiede «alla consigliera Miccichè se sarebbe (sic, ndr) d' accordo ad aggiungere semplicemente una parentesi» nella delibera e il suggerimento ottiene la pronta adesione di Davigo: «Faccio mia la proposta del consigliere Cascini». Le considerazioni peggiori, però, arrivano, per il Csm, dalla sentenza che rigetta il ricorso sulla nomina a procuratore aggiunto di Stefano Pesci presentato sempre da Maiorano. Il Tar fa riferimento alla omessa dichiarazione da parte di Pesci della propria «situazione familiare» essendo coniugato con Nunzia D' Elia anch' ella procuratore aggiunto a Roma dal 2016. A pagina 24 i giudici rilevano che «la mancata segnalazione (da parte di Pesci ndr), nella domanda, della possibile situazione di incompatibilità non costituiva in sé causa di esclusione automatica dalla selezione, costituendo, piuttosto, evento di rilievo disciplinare». È di questi giorni la notizia che la prima commissione del Csm ha aperto nei confronti dei coniugi Pesci-D' Elia una pratica di incompatibilità e che la D' Elia avrebbe già fatto domanda di trasferimento quando invece la nomina illegittima era, semmai, quella del marito fatta nel 2020 e non quella antecedente della consorte. Nella sentenza Pesci si rinviene un altro rimprovero al Csm del dopo Palamara.  Il parlamentino dei giudici, infatti, nel tentativo di rendere inattaccabili le nomine di Pesci e della Calò e per fare risultare entrambi «primi classificati» nelle rispettive procedure, ha concluso, quasi simultaneamente, nella prima pratica, che la Calò era la più brava e aveva più titoli di tutti, anche di Pesci, nella seconda che Pesci era il più bravo ed aveva più titoli di tutti e quindi anche della Calò. Il Tar osserva come susciti «perplessità la constatazione che due magistrati possano, nella reciproca comparazione, essere valutati in modo opposto dallo stesso organo e in vista del conferimento del medesimo incarico», tanto da far ritenere che Pesci e la Calò fossero «predestinati a coprire i due posti di procuratore aggiunto». Tuttavia, secondo il Tar, «a una simile conclusione non si può pervenire, per la gravità delle conseguenze che implicherebbe una tale affermazione, sulla base di un solo elemento indiziario, e quindi si dovrebbero trovare ulteriori riscontri, che però il Collegio non ravvisa». Evidentemente i giudici amministrativi non conoscono le famose chat di Palamara dalle quali risulta abbastanza chiaramente come quasi tutti i vincitori nella riffa delle nomine siano «predestinati».

Trojan, fuoco incrociato dalle procure: «Ora ispezionate i file del caso Palamara». L'ex consigliere del Csm e il parlamentare Cosimo Ferri «parti offese» nel procedimento aperto a Firenze. Anche il gup di Perugia chiede «accertamenti irripetibili». E i legali dell'ex zar delle nomine chiedono l'inutilizzabilità di tutte le intercettazioni. Simona Musco su Il Dubbio il 5 giugno 2021. Le intercettazioni dell’inchiesta che ha sconvolto la magistratura e portato alla radiazione dell’ex consigliere del Csm Luca Palamara verranno acquisite dagli uomini del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche, per procedere ad «accertamenti tecnici irripetibili». Accertamenti disposti, contemporaneamente, anche dal gup di Perugia, che alla prossima udienza, fissata il 17 giugno, sentirà il personale che ha proceduto all’atto integrativo di indagine. Nella delega della Procura di Firenze al Cnaipic Palamara e il parlamentare di Italia Viva Cosimo Ferri, entrambi protagonisti della famosa sera all’Hotel Champagne, dove si sarebbe decisa la nomina del procuratore di Roma, sono indicati «parti offese». E lo scopo dei magistrati toscani è, ora, accertare eventuali «alterazioni o modificazioni dei dati» avvenute in fase di intercettazioni, effettuate anche attraverso un server “occulto”, installato a Napoli, di cui nessuno a Perugia, la procura che stava conducendo le indagini, conosceva l’esistenza. Si tratta, dunque, di una seconda fase degli accertamenti già eseguiti sul server di Napoli di Rcs, la società che ha fornito ai magistrati gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico di Palamara, imputato a Perugia.

L’ispezione sui server di Napoli. Dall’ispezione effettuata lo scorso 14 maggio era emersa già una prima clamorosa novità: il trojan sul cellulare di Palamara ha continuato a “lavorare” fino all’8 settembre 2019, ovvero ben tre mesi oltre la data di cessazione delle intercettazioni, fissata con decreto dal gip al 30 maggio. Ma non solo: l’architettura del sistema è stata modificata tra agosto e settembre 2019, su decisione del management aziendale. Fino a quella data, la struttura aveva un carattere centralizzato, con un unico server Css ed un unico server Hdm installati a Napoli e serventi l’intero territorio nazionale (il famoso server “occulto”), e diversi server Ivs presso le singole procure. Successivamente, invece, si è passati a più server Css, uno per ogni procura, senza più la necessità di smistare i dati verso gli Ivs tramite il server Hdm. E in mezzo a questi cambiamenti si è registrato il trasferimento dei server centralizzati dall’Isola E/7 del Centro direzionale ai locali della procura di Napoli, il tutto tenendo all’oscuro il procuratore partenopeo Giovanni Melillo. Nel primo caso, il server Css “istruisce” il trojan che poi “restituisce” i dati al server attraverso un canale cifrato. Tale sistema, affermano gli agenti che hanno effettuato l’ispezione, «non garantisce univocamente che un determinato dato non possa esser stato modificato». I dati vengono inviati in maniera frammentata, per poi essere ricomposti da Css e inviati al server Hdm attraverso un indirizzo ip privato. Una volta completato il passaggio, i dati vengono automaticamente cancellati, procedimento che richiede 2-3 minuti. Nel secondo sistema, invece, i dati arrivano direttamente al server finale, installato negli uffici delle singole procure, inviati in maniera frammentata per poi essere ricomposti da Css e inviati al server Hdm attraverso un indirizzo ip privato. Una volta completato il passaggio, i dati vengono automaticamente cancellati, sempre con le stesse tempistiche. Sul server, però, già dal primo controllo del Cnaipic era emersa la presenza di 20 file relativi al captatore installato sul telefono di Palamara e, dunque, non cancellati così come previsto dalla procedura. Le due procure, ora, vogliono vederci chiaro. Firenze, nel caso specifico, indaga su due uomini di Rcs: l’ingegnere Duilio Bianchi e Fabio Cameirana, amministratore delegato della società. Entrambi sono indagati per errore determinato dall’altrui inganno, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e frode nelle pubbliche forniture, mentre il solo Bianchi è indagato anche per falsa testimonianza, avendo negato, nel corso del processo disciplinare a Luca Palamara davanti al Csm, l’esistenza del server intermedio a Napoli, salvo poi ammetterlo davanti ai magistrati di Firenze, competenti per le indagini sui reati commessi a danno dei colleghi di Perugia. Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Turco, ha chiesto inoltre di estrarre «copia di file di log di interesse riferibili al periodo temporale che intercorre dalla data di inoculazione del captatore informatico alla data di esecuzione degli accertamenti tecnici irripetibili».

I difensori di Palamara: «Intercettazioni inutilizzabili». I legali di Palamara – Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti – hanno intanto chiesto l’inutilizzabilità delle intercettazioni a carico di Palamara. Da un lato, la difesa eccepisce l’inutilizzabilità delle captazioni telefoniche e telematiche in quanto la stessa Guardia di Finanza aveva comunicato al gip che «oggetto di varia intercettazione risultano le conversazioni-comunicazioni di Palamara, del tutto estranee all’oggetto della ipotesi accusatoria formulata e della autorizzazione dell’attività di intercettazione». L’autorizzazione, contestano i due avvocati, «circoscrive l’utilizzazione dei risultati dell’attività di intercettazione ai soli fatti-reato riconducibili alla medesima autorizzazione, la quale deve dar conto dei soggetti da sottoporre a controllo e dei fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede». Dall’altra parte, invece, viene richiesta l’inutilizzabilità assoluta dell’attività di intercettazione-captazione quale «prova incostituzionale». E ciò in quanto «le modalità esecutive valutate dal giudice sono risultate modificate unilateralmente, essendo state realizzate (in sede di esecuzione) delle operazioni» con modalità «del tutto diverse da quelle considerate dal giudice per le indagini preliminari e, cioè, l’estemporanea utilizzazione di impianti esterni, modalità totalmente sottratte al vaglio del giudice e, inoltre, per nulla esplicitate». Ipotesi che porterebbe a ritenere il provvedimento autorizzativo del gip come «affetto da inutilizzabilità patologica, come tale insanabile e radicale». Ma non solo: tali intercettazioni, secondo i legali, andrebbero totalmente distrutte, così come specificato dalle Sezioni Unite della Cassazione. Ciò che viene contestato, in soldoni, è «la situazione di obiettiva incertezza sul luogo di effettivo svolgimento delle operazioni di registrazione, nonché sugli impianti concretamente utilizzati». «Siamo soddisfatti perché secondo noi ogni accertamento non potrà che confermare quanto già è stato accertato ossia che questa intercettazione è stata sottratta totalmente al controllo dell’autorità giudiziaria – ha evidenziato Buratti -. Noi abbiamo evidenze di file di log di un funzionamento del trojan anche dopo l’ordine di spegnimento da parte della procura di Perugia e l’ultimo comando, e quindi l’istruzione, sarebbe stato dato l’8 settembre. Evidentemente questo trojan poteva ricevere comandi di spegnimento e accensione del microfono non solo dalla procura di Perugia e quindi dalla polizia giudiziaria ma probabilmente anche da qualcun’altro visto che ha continuato a ricevere impulsi. A questo punto non possiamo escludere nulla». Per la procura di Perugia, che ha chiesto il rinvio a giudizio di Palamara per diverse ipotesi di corruzione, le intercettazioni sono da considerarsi invece legittime, perché «rispettano i criteri e sono state fatte in modo rituale». Sulle indagini disposte da Firenze e Perugia è intervenuto anche il difensore di Ferri, Luigi Antonio Paolo Panella. «Confidiamo che sia fatta chiarezza sulla vicenda – dichiara al Dubbio – e parteciperemo alle operazioni con i nostri consulenti tecnici, che già avevano scoperto l’esistenza di questi server non autorizzati a Napoli».

Le intercettazioni sono utilizzabili? Doppio "colpo" per Palamara, Perugia e Firenze dispongono nuovi accertamenti sui server Rcs per il "caso Trojan". Redazione su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Luca Palamara, ex pm di Roma ed ex numero dell’Associazione nazionale magistrati, incassa due pareri favorevoli a Perugia e Firenze per le inchieste che lo vedono coinvolto. Piercarlo Frabotta, gup di Perugia, ha infatti disposto accertamenti tecnici irripetibili sul contenuto dei 20 file presenti sul server “di transito” Rcs di Napoli e riconducibili all’ex consigliere del Csm. Controlli che saranno realizzati “al fine di decidere sulla richiesta di perizia avanzata dalla difesa di Luca Palamara”, con la decisione arrivata oggi al termine dell’udienza preliminare in corso nel capoluogo umbro. Termine ultimo per gli accertamenti è il 15 giugno, mentre l’udienza è stata rinviata al 17 dello stesso mese per poter sentire gli esperti della polizia postale incaricati di svolgerli. Come noto nelle scorse settimane la polizia postale aveva eseguito una ispezione al server di Napoli della Rcs, la società incaricata dai pm di Perugia di svolgere le intercettazioni, su disposizione delle procure di Napoli e Firenze: dai controlli era emerso un contatto dell’8 settembre 2019 dal trojan inserito nel cellulare di Palamara al server di Napoli, nonostante le attività di intercettazioni sull’ex pm di Roma si fossero concluse il 30 maggio. Per l’avvocato difensore di Palamara, Benedetto Buratti, “ogni accertamento non potrà che confermare quanto già è stato accertato, ossia che questa intercettazione è stata sottratta totalmente al controllo dell’autorità giudiziaria. Noi abbiamo evidenze di file di log e di un funzionamento del trojan anche dopo l’ordine di spegnimento da parte della procura di Perugia. Evidentemente il captatore poteva ricevere comandi di spegnimento e accensione del microfono non solo dalla procura di Perugia e quindi dalla polizia giudiziaria ma probabilmente anche da qualcun altro visto che ha continuato a ricevere impulsi. A questo punto francamente non possiamo escludere nulla. Ora la procura di Firenze e il giudice di Perugia vogliono approfondire e noi ne siamo molto contenti, anche se riteniamo che già ci siano tutti gli elementi per dichiarare tutto inutilizzabile”.

ACCERTAMENTI CHIESTI ANCHE DA FIRENZE – Ulteriori accertamenti irripetibili sul server napoletano della Rcs sono stati disposti anche dal procuratore di Firenze, Luca Turco, nell’ambito dell’indagine in corso nel capoluogo toscano. Una indagine avviata dopo gli esposti presentati da Palamara e da Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva e magistrato in aspettativa. Nel procedimento fiorentino Palamara e Ferri sono parte offesa. Come riporta l’Ansa il procuratore di Firenze “visto, in particolare, l’esito delle attività di ispezione eseguite” , “rilevato che la polizia giudiziaria delegata ha dato atto di non aver proceduto all’acquisizione delle menzionate tracce” e ritenuto dunque “che occorre procedere ad attività irripetibile diretta ad acquisire copia delle tracce dell’intercettazione telematica disposta dalla procura della Repubblica di Perugia, compreso i file di log” ha disposto che la polizia giudiziaria proceda all’acquisizione di copia delle tracce già individuate. Non solo. Su richiesta di Turco dovranno anche essere estratti “copia dei file di log di interesse, riferibili al periodo temporale che intercorre dalla data di inoculazione del captatore informatico alla data di esecuzione degli accertamenti tecnici irripetibili”. I nuovi accertamenti saranno eseguiti dagli ufficiali di polizia giudiziaria in servizio presso il Cnaipic della polizia postale.

Cimici illegali, ma per i pm è tutto ok. Lodovica Bulian il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. La difesa di Palamara: trojan attivo dopo la fine delle indagini. Il trojan inoculato nel telefono di Luca Palamara avrebbe dato segnali di una sua presunta attivazione anche tre mesi dopo la fine delle intercettazioni disposta dai magistrati il 30 maggio 2019. Sul server che riceveva le captazioni del virus c'è traccia di un contatto datato 8 settembre 2019. Un «impulso» inviato dalla microspia a uno dei server della società che l'ha fornito agli inquirenti, la Rcs. Come se fosse ancora attivo. L'ennesimo braccio di ferro sulla utilizzabilità delle registrazioni effettuate con il trojan nel cellulare dell'ex pm si è consumato ieri nell'udienza davanti al gup di Perugia. Da una parte la difesa dell'ex magistrato che ora chiede una perizia sul server che ha ricevuto i dati dal suo cellulare. Dall'altra la Procura guidata da Raffaele Cantone che rivendica la legittimità e dunque l'utilizzabilità di quelle registrazioni su cui si fonda l'accusa: «Rispecchiano i criteri e sono state fatte in modo rituale». Su diverse anomalie stanno indagando i pm di Napoli e di Firenze, dopo che uno degli ingegneri della società fornitrice del virus aveva svelato che le registrazioni non finivano direttamente al server della Procura di Roma, come era stato disposto dall'autorità giudiziaria perugina, ma prima a un server intermedio, «di smistamento», che si è poi scoperto essere installato all'interno della Procura di Napoli. All'insaputa però dello stesso procuratore capo, Giovanni Melillo, che con Firenze - competente sui magistrati di Perugia - ha delegato accertamenti alla Polizia postale. E ieri in aula il vice ispettore Francesco Sperandeo ha riferito l'esito dell'ispezione su quel server napoletano: «L'ultima connessione (del trojan, ndr) risale all'8 settembre 2019 alle ore 20:46:46», mentre «l'ultima istruzione impartita al virus risulta in data 8 settembre 2019 alle ore 20:20:41», si legge nella relazione. Un giallo che non preoccupa il procuratore di Perugia Cantone, che ha ereditato l'inchiesta su Palamara da Luigi De Ficchy: «È un dato che può aprire una lettura ambigua, a nostro modo è però irrilevante. Ovviamente non c'è nessuna prova che sia stata fatta una registrazione ma c'è questo dato, un contatto che arrivava dal cellulare, come se ci fosse stato un impulso». Secondo la difesa di Palamara potrebbe non trattarsi di un «segnale» isolato, perché la Polizia postale «non ha potuto escludere la possibilità che le attività siano continuate» fino all'8 settembre 2019. «Potrebbe esserci stata un'indicazione di registrazione, ovvero il trojan comunicava di essere ancora presente all'interno del telefono. La Polizia postale non ha però aperto i file ancora esistenti sul server», dice il legale. Server che cancella i dati dopo averli trasmessi all'impianto di destinazione, in questo caso quello di Roma. Eppure «ci sono una ventina di cartelle, di file, riferibili a Palamara», precisa ancora il suo legale. Si rischia una battaglia a colpi di ulteriori relazioni tecniche e di periti informatici. Per la Procura di Perugia invece la questione degli impianti «è stata chiarita» e all'esito dell'ispezione non ci sarebbero più dubbi sulla funzione svolta da quel server: di mero transito di dati e non di ascolto. Nessun orecchio occulto, insomma. Il che salverebbe l'utilizzabilità delle intercettazioni. Su una possibile perizia il giudice decide il 4 giugno.

Paolo Ferrari per “Libero Quotidiano” il 28 maggio 2021. «Sono allibito». È stata questa la reazione del gup del Tribunale di Perugia, Piercarlo Frabotta, dopo aver ascoltato ieri mattina in udienza la relazione dei poliziotti sul server che gestì le intercettazioni nei confronti di Luca Palamara. Il trojan inserito nel cellulare dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di spegnersi come previsto il 30 maggio del 2019, sarebbe rimasto acceso fino al successivo 8 settembre. Data tragica nella storia del Paese. La notizia ha del clamoroso. I funzionari dell'Unità investigativa dell'Anticrimine informatico della polizia, la ex "postale", erano stati incaricati di ricostruire le modalità di svolgimento delle intercettazioni effettuate dal Gico della Guardia di finanza di Roma sul cellulare dell'ex pm romano. Palamara, dopo essere stato indagato con l'accusa di aver preso soldi quando era al Consiglio superiore della magistratura per nominare alcune toghe, venne sottoposto ad intercettazione con il famigerato trojan, il virus spia che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso. Nel mirino dei poliziotti erano finiti, in particolare, gli apparati forniti dalla società milanese Rcs, leader negli ascolti, ad iniziare dal server che aveva raccolto tutti i dati. Fra le tante anomalie, come lo spegnimento "improvviso" del trojan quando Palamara andava a cena con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, era emerso che il server fosse ubicato a Napoli e non a Roma. Una questione non di poco conto. Per legge, infatti, il server deve essere dove si svolgono le intercettazioni, in questo caso nella Capitale. Il motivo è semplice: chi effettua gli ascolti deve averne sempre il controllo. Se il server è ubicato altrove potrebbe accadere che qualche soggetto esterno alle investigazioni decida di buttarci un occhio dentro e acquisire informazioni che devono invece rimanere riservate. Ad evidenziare le anomalie sul funzionamento a "singhiozzo" del trojan era stato lo stesso Palamara, depositando una segnalazione in Procura. Per chi si fosse perso qualche puntata, Palamara, dopo essere stato indagato a Perugia, ufficio giudiziario competente per i reati commessi dai magistrati romani, fu intercettato con il trojan per tutto il mese di maggio del 2019. Il 30, per la precisione, venne poi sottoposto a perquisizione con il conseguente sequestro del cellulare. I finanzieri, dopo aver fatto la copia della memoria, restituirono il cellulare a Palamara ed i pm ordinarono al Gico l'interruzione di ogni attività di ascolto. Questo sulla carta. Perché, allora, il server è rimasto acceso per altri tre mesi come ha riferito ieri l'ispettore Francesco Sperandeo davanti ad un «allibito» giudice Frabotta? E, soprattutto, il trojan ha continuato a registrare le conversazioni di Palamara? In caso positivo, chi ha adesso quegli ascolti dal momento che non sono mai stati depositati agli atti dell'indagine? La società Rcs? Il Gico della Guardia di finanza? Una circostanza gravissima e penalmente rilevante, l'ascolto abusivo, alla luce del fatto che Palamara in quei tre mesi ha continuato ad incontrare importanti personalità dello Stato. Esiste un legame con la loggia segreta Ungheria? Frabotta si è riservato di decidere cosa fare alla prossima udienza prevista per il 4 giugno. Non si esclude una super perizia sul server. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, presente ieri in udienza svoltasi in camera di consiglio, sembra fosse alquanto nervoso. Cantone, ex presidente dell'Anac, è arrivato a Perugia come procuratore quando il Palamaragate era già scoppiato da un pezzo. Quindi non può essere accusato di nulla. Certamente, però, dovrebbe essere il primo a volere comprendere come si siano effettivamente svolte queste intercettazioni che hanno terremotato la magistratura italiana e che da due anni avvelenano il clima con ricatti incrociati e dossieraggi assortiti. Un dato è certo. Di questa vicenda si discuterà ancora a lungo.

Intercettopoli, parla il penalista Ciruzzi: «Le regole non sono orpelli formalistici». La chiave di Intercettopoli sta tutta nell’articolo 268 del codice di procedura penale: come le operazioni di captazione attraverso il trojan noleggiato alla Guardia di Finanza dalla società Rcs siano state autorizzate ed eseguite. Simona Musco su Il Dubbio il 19 maggio 2021. La chiave di Intercettopoli sta tutta nell’articolo 268 del codice di procedura penale: come le operazioni di captazione attraverso il trojan noleggiato alla Guardia di Finanza dalla società Rcs siano state autorizzate ed eseguite. E, cioè, se quel server intermedio, scoperto nei locali della Procura di Napoli dopo l’ammissione dell’ingegnere Duilio Bianchi davanti ai pm di Firenze, sia o meno “coperto” da un opportuno decreto d’urgenza, che consentirebbe la modifica dell’architettura utilizzata dalla società per far arrivare i dati captati dal telefono dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara alla Guardia di Finanza di Roma, luogo autorizzato alla ricezione delle informazioni. Allo stato attuale tale decreto risulta non esserci e ciò, dunque, rende quelle captazioni potenzialmente inutilizzabili. Con il conseguente effetto a cascata su tutte le operazioni effettuate allo stesso modo, centinaia, in via ipotetica, dato che Rcs ha fornito trojan a tutte le procure d’Italia. Per avere delle risposte toccherà attendere l’esito delle ispezioni disposte dalle procure di Firenze e Napoli sui locali e sugli strumenti della società milanese, che dovrebbero arrivare il 27 maggio, quando a Perugia, sede del processo a Palamara, verranno ascoltati gli uomini del reparto contro i crimini informatici della Polizia postale impiegati nell’indagine. Ma nel frattempo, la vicenda pone una serie di questioni spinose. Non solo in termini di attualità – che fine farà il processo del secolo al sistema delle correnti in magistratura? E che fine faranno tutti gli altri? -, ma anche in termini culturali. Un aspetto fondamentale, secondo Domenico Ciruzzi, ex vicepresidente dell’Unione Camere penali, impegnato in processi di notevole clamore, come quello che vedeva imputato, tra gli altri, Enzo Tortora e il processo per la morte di Marco Vannini. «Aspettiamo gli esiti di queste indagini, che sono doverose – spiega al Dubbio -. Ma è evidente che per troppo tempo c’è stata una distrazione nei confronti delle regole previste dagli articoli 268 e 270 del codice di procedura penale, regole le cui interferenze sfuggono soprattutto al giudicante». Il primo articolo, come già detto, riguarda l’esecuzione delle operazioni. Il secondo, invece, l’utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, insomma, le intercettazioni a strascico. «Bisognerebbe potenziare la figura del giudicante, perché solo un giudicante colto può carpire tutti i mosaici di interferenza che investono il processo – sottolinea -. Sulle intercettazioni a strascico, le Sezioni Unite hanno dovuto spiegare che sono inutilizzabili ed è gravissimo che si sia dovuti arrivare a questo per capirlo, perché ciò era già stabilito dalle norme. Questa forma di prodotto lordo cui tendono i giudici nel tentativo di raggiungere il risultato con la non dispersione di prove anche illegali, questo sostanzialismo inaccettabile, ha prodotto condanne che si sono basate su divieti previsti dal codice». Insomma, c’è stata una sottovalutazione di alcune regole, spesso ritenute «orpelli formalistici». E ciò senza capire che, invece, utilizzare elementi raccolti con metodi formalmente non corretti rappresenta una «fonte di inquinamento». Se si pesca a strascico, prendendo alcune parole che possono sembrare sospette – continua Ciruzzi -, si possono creare equivoci terrificanti, oltre che violare l’articolo 15 della Costituzione». Una cultura delle regole «calpestata da migliaia di giudicanti, escluse punte di eccellenza, attraverso una visione iper sostanzialistica del processo e delle norme. Come la cambiamo la cultura del Paese se il giudice, il migliore, è il primo a ritenere un orpello l’articolo 270? Chissà quante volte questi decreti motivati non ci sono stati e quante volte, per raggiungere il risultato, si sia disattesa questa regola». Ferma restando la presunzione di innocenza anche nei confronti di Rcs e la doverosa attesa degli esiti investigativi, ciò che emerge, secondo il penalista, è la «sottovalutazione di norme che rappresentano presidi ineludibili di corretta acquisizione della prova». E se l’intercettazione non è avvenuta nei termini di regolarità voluta dal legislatore, aggiunge, «in nome di un risultato sostanzialistico, a scapito di forme che sono tutele importantissime, è certo che ci saranno profili di inutilizzabilità e, a cascata, ci potrebbero essere anche delle revisioni, paradossalmente. Per questo credo che l’indagine non vada sottovalutata così come abbiamo sottovalutato il 270 per circa un ventennio. Non si tratta di vessilli che non creano danni, si tratta di norme processuali sostanziali di salvaguardia delle tutele». Sui trojan, poi, c’è ancora da ragionare in termini di regolamentazione. «Trovo che sia un mezzo invasivo il cui utilizzo non dovrebbe essere consentito, se non in casi veramente eccezionali e straordinari – continua Ciruzzi -. Io sono contrario a queste intrusioni spesso incontrollabili. Ora c’è questa indagine, ma quante ce ne sarebbero potute essere in passato? Questo settore è stato sottovalutato. È evidente che c’è un rischio di manipolazione dei dati, per questo si è voluto che i server fossero installati nelle Procure della Repubblica. Ma credo che finora non ci sia stata una grandissima attenzione. Non perché si sia voluta favorire la manipolazione, ma in ragione di questa cultura poco attenta a snodi fondamentali del codice. È arrivato il momento di aprire un dibattito». 

Scoppia “intercettopoli”: illegali i server che conservano trojan e captazioni. Il server "occulto" di Napoli raccoglieva i dati di tutta Italia. Ora rischia di saltare anche il processo a Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 15 maggio 2021. «Le operazioni di intercettazione a mezzo trojan hanno subito alcune modifiche e non sono avvenute secondo le modalità che ha qui dichiarato l’ingegner Bianchi quando fu ascoltato nell’ambito del processo al dottor Palamara». Le parole pronunciate dal sostituto procuratore generale Simone Perelli durante l’udienza disciplinare a carico di Cosimo Ferri suonano come una vera e propria bomba. Perché per la prima volta certificano che quelle che nel corso del procedimento a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara erano state bollate come «illazioni» dal Csm tali non sono, rappresentando piuttosto un dubbio fondato che potrebbe mettere in discussione la radiazione dell’ex ras delle nomine, ma anche decine e decine di processi. Ed è per questo motivo che il pg ha chiesto un rinvio del procedimento disciplinare di Ferri, in attesa degli esiti delle ispezioni disposte dalle procure di Firenze e Napoli sugli impianti utilizzati per le prestazioni di queste intercettazioni sul server «occulto» di Napoli. La scoperta avviene grazie ai dubbi sollevati dalla difesa di Palamara, che nel corso del disciplinare davanti al Csm ha riferito della possibile presenza di server intermedi tra il telefono del pm e il server della procura di Roma autorizzato a registrare i dati e trasmetterli alla sala di ascolto della Guardia di Finanza. La sezione disciplinare convoca dunque l’ingegnere Duilio Bianchi, uno dei rappresentanti della Rcs, ovvero la società che ha fornito il trojan, che il 30 settembre nega la presenza di qualsiasi server intermedio. Palamara viene dunque radiato e i dubbi espressi dalla difesa bollati come illazioni. Ma la difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato Antonio Paolo Panella, si rivolge a due super consulenti tecnici: l’ingegnere elettronico Paolo Reale, presidente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense, e il dottor Fabio Milana, perito del Tribunale di Roma. I due scoprono che nella copia forense della Finanza non sono stati copiati i dati che identificano il server al quale il telefono di Palamara ha trasmesso i suoi segreti. Da qui la richiesta di “copiare” i dati del telefono dell’ex capo dell’Anm, dal quale però il trojan è già stato cancellato. Una sorta di vicolo cieco, fino a quando Milana non tira fuori dal cappello un altro procedimento nel quale è consulente e per il quale viene utilizzato lo stesso trojan di Rcs nello stesso periodo di tempo. Da quel telefono si riesce risalire all’ip del server, che straordinariamente non si trova a Roma, ma a Napoli, nel centro direzionale. Per scoprire se anche i dati di Palamara siano finiti a Napoli, Ferri presenta un esposto alla procura partenopea, trasmesso per competenza a Perugia e da lì a Firenze, competente per i reati a danni dei pm di Perugia. Ed è lì che Bianchi – a cui vengono contestati la falsa testimonianza davanti al Csm, la frode in pubbliche forniture e il falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia – ammette che i dati del telefono di Palamara sono finiti a due server a Napoli collocati nei locali della Procura di Repubblica, che ora ha revocato qualsiasi incarico a Rcs. Ma non solo: quei due server avrebbero ricevuto i dati delle procure di tutta Italia. La procura di Firenze e quella di Napoli, ora, hanno aperto due procedimenti penali a carico di noti e stanno svolgendo indagini collegate tramite un reparto speciale della polizia postale – il nucleo che si occupa della protezione delle infrastrutture critiche del Paese – per cercare di capire cosa è successo. «Reale sostiene che i server di Napoli, ovunque fossero localizzati, non erano server di transito. E questo spiegherebbe tutto – spiega al Dubbio Panella -, perché in quella fase ai dati non criptati che arrivavano a Napoli potevano avere accesso gli amministratori di sistema di Rcs. Ciò significa che, potenzialmente, poteva accadere di tutto e ciò è assolutamente allarmante e costituisce, a mio parere, un pericolo per la democrazia di questo Paese».

La denuncia dei consulenti. “Rcs monitorava in diretta gli ascolti di Palamara”, la denuncia dei consulenti dell’ex zar delle nomine. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Maggio 2021. Una mail “galeotta” e mai valorizzata prima di adesso apre scenari fino a oggi nemmeno lontanamente immaginabili circa il funzionamento del micidiale virus “trojan”, il software che trasforma il cellulare in una microspia. Scenari su cui sarebbe opportuno far luce senza alcun indugio. Tutto nasce da una richiesta di chiarimenti da parte di Raffaele Cantone dopo che il Riformista aveva pubblicato la notizia, lo scorso marzo, che la cena fra il procuratore Giuseppe Pignatone e Luca Palamara, la sera del 9 maggio 2019, era stata, a differenza della versione ufficiale, registrata con il captatore inoculato nell’Iphone dell’ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine. Sono le 21.39 di domenica 26 maggio 2019. Fra poco più di ventiquattrore esploderà il Palamaragate con la fuga di notizie dell’indagine della Procura di Perugia a carico dell’ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura. L’ingegnere Duilio Bianchi, responsabile divisione Ip della Rcs, la società che ha noleggiato il trojan alla guardia di finanza, accende il pc e scrive una mail al luogotenente Domenico Bilotti e al maresciallo Gianluca Burattini. Rcs è una delle società leader in Italia nel settore degli ascolti. Oggetto della mail è “l’intercettazione telematica attiva” relativa al procedimento penale a carico di Palamara. «Faccio presente – scrive Bianchi ai due sottufficiali del Gico – che è assolutamente sconsigliabile e rischioso impostare delle registrazioni più lunghe di otto ore giornaliere mediante il captatore informatico». «Tra le conseguenze principali – prosegue l’ingegnere – dovute ad impostazioni non adeguate (come ad esempio quella di 11 ore da voi impostate nella giornata odierna e quella di 14 ore complessive per domani 27-05) ci sono: il surriscaldamento della batteria; il consumo enorme di traffico dati e di spazio sul dispositivo; il blocco del terminale e conseguente interruzione di servizio del captatore informatico». Domanda: come faceva l’ingegnere Bianchi a conoscere le programmazioni trojan da parte della guardia di finanza? La mail è entrata in possesso del consulente della difesa di Palamara, l’ingegnere Paolo Reale. Il consulente fa notare che questa mail non è una risposta a precedenti mail (dovrebbe apparirebbe il classico ‘Re’ o altre sigle simili). «Se non sollecitata da una puntuale richiesta degli operanti potrebbe sembrare come una sorta di attività di controllo e verifica dello stato delle intercettazioni in corso da parte di Rcs». Boom. E farebbe crollare quanto affermato in questi mesi relativamente al fatto che il controllo delle intercettazioni era affidato esclusivamente alla polizia giudiziaria. Se la Rcs poteva vedere come veniva programmato il trojan non è escluso che potesse anche ascoltare le registrazioni. Con tutte le conseguenze del caso. Bianchi è al momento indagato dalla Procura di Firenze per frode in pubbliche forniture. Cosimo Ferri, magistrato e deputato di Italia viva, ascoltato con il trojan di Palamara all’hotel Champagne, aveva presentato un esposto segnalando varie anomalie sul server da parte di Rcs. La società, in violazione di quanto previsto dalle norme e dal contratto, pare avesse predisposto un server intermedio presso la Procura di Napoli dove venivano fatti transitare i dati. Il procuratore di Napoli Giovanni Melillo aveva però dichiarato di non esserne a conoscenza. Paolo Comi

Giuseppe China per "la Verità" l'11 maggio 2021. Ancora un colpo di scena nel caso dell' ex magistrato Luca Palamara. Il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovanni Melillo, ha sospeso le attività di Rcs spa, società che ha fatto le intercettazioni con il trojan (virus informatico) durante il celebre dopocena dell' hotel Champagne, quelle che hanno portato alla cacciata di cinque consiglieri del Csm «beccati» a discutere di nomine con due ex parlamentari del Pd, Cosimo Ferri e Luca Lotti. Nel provvedimento dello scorso 4 maggio, «tenuto conto degli elementi fattuali acquisiti nell' ambito del procedimento penale n. 10937/2021, anche a seguito di coordinamento con le attività investigative di altre autorità giudiziarie []» Melillo dispone «la sospensione, con effetto immediato, e fino a nuova disposizione, dell' affidamento alla società Rcs Spa di nuovi incarichi di fornitura di prestazioni funzionali per lo svolgimento di attività di intercettazione telematica passiva ed attiva []». Come rivelato dalla Verità lo scorso 25 aprile, il responsabile delle captazioni di Rcs, l' ingegner Duilio Bianchi, è finito sotto inchiesta a Firenze con le accuse di frode nelle pubbliche forniture, falso ideologico in atto pubblico per induzione (avrebbe tratto in errore i magistrati di Perugia, titolari del procedimento a carico di Palamara) e falsa testimonianza innanzi al Csm. L' uomo è accusato perché non aveva mai detto, prima di essere scoperto dalla difesa dell' onorevole Cosimo Ferri (a sua volta incolpato di fronte alla sezione disciplinare del Csm per i fatti dell' hotel Champagne), che per ottenere i dati provenienti dal cellulare di Palamara, la sua divisione usava all' insaputa di tutti due server collocati presso la Procura di Napoli anziché negli uffici giudiziari di Roma, come era stato dichiarato e autorizzato dagli inquirenti perugini. Circostanza rilevante che ha fatto scattare le indagini per scoprire quale server sia stato effettivamente utilizzato dalla società milanese per l' attività di captazione di Palamara. Secondo la Procura generale della Cassazione e gli inquirenti umbri, però, se il server napoletano, ancorché non dichiarato, si trovava nel perimetro del Palazzo di giustizia le intercettazioni del trojan sarebbero comunque utilizzabili. Secondo le difese sarebbero in ogni caso illegali. Prima di arrivare a qualunque decisione sarà importante stabilire se il server fosse all' interno della Procura di Napoli o in una vicina sede esterna di Rcs. Il procuratore Melillo, contatto dalla Verità, ha spiegato: «Stiamo svolgendo degli accertamenti proprio finalizzati a comprendere tutte queste cose. Il provvedimento è cautelativo e l' ho già adottato anche con altre società: ogni qual volta si determinino o criticità, o come dire, esigenze di approfondimento delle modalità con le quali vengono esercitate le prestazioni». Una delle poche certezze all' interno di questa storia è il fatto che alcuni uffici della Procura di Napoli, tra cui quello del procuratore, si trovano nel Centro direzionale di via Grimaldi, Isola E5, come risulta anche dalla carta intestata della Procura. Qui si troverebbero gli edifici A e B del palazzo di giustizia. Per la tesi difensiva quest' area sarebbe «esterna» alla Procura. Ma il vero problema riscontrato dagli inquirenti napoletani sarebbe un altro ed è stato ammesso dallo stesso Bianchi a Firenze. Il direttore di divisione ha spiegato che per far funzionare tutti i trojan gestiti dalla Rcs, «presso i locali server della Procura di Napoli» era stato «installato un server denominato Css con indirizzo Ip pubblico di Fastweb [] che serviva da transito per tutte le Procure inquirenti del territorio nazionale». Un' informazione di cui l' ufficio di Melillo sarebbe stato tenuto all' oscuro. Gli approfondimenti investigativi dovrebbero terminare «nel più breve tempo possibile». Entro la fine di maggio? «Non lo so, ma me lo auguro. Abbiamo affidato le verifiche ad una struttura di grande esperienza, il Cnaipic (Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche, della polizia postale delle comunicazioni, ndr)» ha concluso Melillo.

Caos intercettazioni, processo Palamara a rischio. Anna Maria Greco il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. I legali dell'ex presidente dell'Anm: registrazioni inutilizzabili. Prossima udienza il 17 maggio. «Intercettazioni inutilizzabili», sostengono a Perugia i legali di Luca Palamara, come già hanno fatto quelli di Cosimo Ferri. E intendono anche chiedere che siano acquisti i verbali di Piero Amara, diffusi dal «corvo» del Consiglio superiore della magistratura. «Voglio capire fino in fondo quello che è successo», dice l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, uscendo dall'udienza preliminare. Ad essere interrogato e inchiodato alle sue contraddizioni è Duilio Bianchi, responsabile tecnico della società milanese Rcs, che ha fornito ai magistrati apparati e programmi per «spiare» Palamara. Sotto inchiesta a Firenze, l'ingegnere ha dovuto ammettere, dopo averlo negato, che un server delle intercettazioni dell'inchiesta era a Napoli. Vuol dire che le conversazioni a Roma, ordinate dai pm perugini, non sono andate direttamente a loro, come impone la legge, ma sono passate per un ufficio napoletano, neppure della procura (che ora indaga sull'accaduto), prima di arrivare dove dovevano. E ciò consentirebbe manipolazioni e violazioni del segreto istruttorio. Per questo, l'avvocato Benedetto Buratti che difende l'ex pm con Roberto Rampioni e Mariano Buratti, annuncia che chiederà la dichiarazione di inutilizzabilità delle intercettazioni nel processo di Perugia. Se l'istanza venisse accolta, sarebbe a rischio anche il processo disciplinare che ha portato alla radiazione di Palamara. L'ingegnere doveva essere ascoltato la settimana scorsa al Csm, ma la sezione disciplinare ha deciso di aspettare gli accertamenti di Perugia prima di convocarlo. «Bianchi ha confermato - dice Buratti - che il server era a Napoli presso il loro ufficio e che poi sarebbe stato trasferito alla Procura di Napoli. Già questo per noi mette una pietra tombale sulle intercettazioni. Procura di Napoli che ignora del tutto questo aspetto. Questo, secondo noi, è in palese violazione della norma sulle intercettazioni mediante captatore informatico e lo sarebbe anche per quelle tradizionali». Per Bianchi, dal punto di vista tecnico, quello di Napoli era un «server di transito». Ma Buratti ribatte: «Per noi non lo è e lo spiegheranno i nostri consulenti». Quando gli chiedono perché non avesse mai fatto riferimento a un server a Napoli, Bianchi spiega che «non si occupava dei rapporti con l'autorità giudiziaria», ma il collegio difensivo di Palamara sostiene: «In realtà anche questo non ci risulta. Ritentiamo che sia matura la condizione per dichiarare inutilizzabili le intercettazioni, ma se il giudice vuole approfondire noi non siamo contrari a fare una perizia». La difesa di Palamara preannuncia inoltre che chiederà l'acquisizione di tutti i verbali di Amara, ex legale esterno dell'Eni, compresi quelli secretati resi ai pm milanesi e arrivati ai giornali e al Csm, su cui indagano le procure di Roma e Perugia. La prossima udienza nel capoluogo umbro sarà il 17 maggio e verranno ascoltati gli esperti della Polizia postale che stanno eseguendo gli accertamenti sul server a Napoli. La vicenda delle intercettazioni è pregiudiziale per tutto il resto.

Intercettopoli, ecco lo strano giro dei trojan che rischia di bruciare le inchieste. Ispezione sui server di Rcs, che ha fornito il captatore che ha intercettato Palamara e terremotato la magistratura. Indagati i vertici della società. Simona Musco su Il Dubbio il 18 maggio 2021. Accesso abusivo al sistema informatico, frode nelle pubbliche forniture, errore determinato dall’altrui inganno, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico e falsa testimonianza: sono questi i reati contestati, a vario titolo, dalle procure di Firenze e Napoli ai vertici di Rcs, la società che ha noleggiato il trojan alla guardia di finanza di Roma per le indagini a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Reati ipotizzati dopo gli esposti presentati da Palamara e dal deputato (ed ex magistrato) Cosimo Ferri, il primo già radiato dal Csm e il secondo sotto procedimento disciplinare. La procura di Perugia ha depositato ieri mattina, nel corso dell’udienza preliminare del procedimento che vede coinvolto Palamara per corruzione, il decreto di ispezione disposto dalle procure campana e toscana sugli impianti utilizzati per le prestazioni delle intercettazioni sui server «occulti» di Napoli, scoperti dopo l’ammissione dell’ingegnere Duilio Bianchi, davanti ai pm fiorentini, che i dati del telefono del pm sono finiti a due server a Napoli collocati nei locali della procura, che ora ha revocato qualsiasi incarico a Rcs. Bianchi, nel corso del procedimento disciplinare a carico di Palamara davanti al Csm, aveva invece negato l’esistenza di un server intermedio. Ma quello dell’ex dominus delle nomine non sarebbe l’unico caso: quei server avrebbero ricevuto, infatti, i dati degli uffici giudiziari di tutta Italia. L’ispezione è stata effettuata lo scorso venerdì dalla Polizia Postale e si è conclusa ieri. Attualmente sono quattro le persone indagate e nei prossimi giorni verrà depositata una relazione che certificherà come i dati delle intercettazioni sono stati trattati dalla società e a cosa servissero quei server, mentre nella prossima udienza, fissata il 27 maggio, davanti al gup Piercarlo Frabotta appariranno gli esperti che hanno eseguito gli accertamenti. Finora, dai dati acquisiti dalla procura di Firenze è emerso che la Rcs avrebbe utilizzato differenti architetture di sistema per le intercettazioni con il trojan disposte dalle diverse procure, ipotesi confermata dalle audizioni dei tecnici della società e dalle indagini svolte dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche e dai carabinieri. Nel 2019, anno in cui il trojan inoculato nel telefono di Palamara ha captato le conversazioni che hanno terremotato la magistratura italiana, la Rcs avrebbe utilizzato un sistema fondato su tre macchine, architettura in seguito modificata, con la conseguente eliminazione di uno dei server, rimasto in funzione soltanto per consentire l’attività d’indagine di un’altra procura tuttora in corso. Il 4 aprile del 2019, parte dei macchinari di tale sistema è stata trasferita dall’isola E/7 del Centro direzionale di Napoli ai locali dell’isola E/5, dove si trova la sala server della procura di Napoli. Il tutto senza che la stessa procura fosse a conoscenza di nulla e in contrasto con le rigide direttive emesse del procuratore Giovanni Melillo in un’ottica di rafforzamento della sicurezza dei sistemi informatici. La società avrebbe fornito alla procura una descrizione dell’architettura dei propri server e degli standard adottati difforme da quanto emerso, fino ad ora, dalle indagini, senza aver mai comunicato, inoltre, il trasferimento degli impianti, né il funzionamento dei sistemi, con particolare riferimento alla trasmissione e alla memorizzazione dei dati catturati dai trojan. Le indagini svolte dal Centro anticrimine informatico potranno ora fornire risposte sulle funzioni e il contenuto dei server, sui tempi di ricezione, ricomposizione e cancellazione dei dati, nonché eventuali modifiche degli stessi. Ma quali sono le conseguenze per le indagini che utilizzano i trojan di Rcs? «In materia di intercettazioni, qualsiasi violazione delle norme, sia del codice di procedura penale sia delle disposizioni regolamentari, possono portare ad una inutilizzabilità processuale delle intercettazioni – spiega al Dubbio Stefano Aterno, professore e avvocato esperto in cybercrime e cybersecurity -. Il punto, ora, è capire se Napoli trasmettesse o meno le intercettazioni al server di Roma: nel caso in cui ci fosse stato tale passaggio toccherebbe capire se ciò che è partito da Napoli sia stato trasmesso fedelmente alla Capitale, nel caso in cui, invece, i dati fossero stati trasmessi direttamente alla Guardia di Finanza allora si tratterebbe di intercettazioni pacificamente non utilizzabili, in quanto l’utilizzo di quel server non è stato autorizzato dalla procura». Al momento non è dato sapere quante indagini siano coinvolte in questa situazione. Di certo, i procuratori di tutta Italia sono in attesa di conoscere l’esito delle ispezioni. La questione, però, rispolvera una vecchia polemica sulla mancanza di un controllo pubblico sulle tecnologie fornite da privati al ministero della Giustizia, necessariamente non in grado di stare al passo con l’evoluzione tecnologica. «Dal decreto di ispezione emergono inquietanti conferme – ha dichiarato all’Adnkronos l’avvocato Benedetto Buratti che, insieme a Roberto Rampioni e Mariano Buratti, difende Palamara -. Nel decreto di ispezione si afferma chiaramente che Rcs abbia contravvenuto alle regole dettate dalla procura di Napoli, ignara del server centralizzato di proprietà privata per la gestione delle intercettazioni di tutte le procure italiane. L’architettura descritta solo di recente dalla Rcs non è mai stata comunicata a Napoli né, tantomeno, alle altre procure. Non è neppure possibile sapere se potranno essere recuperati tutti i dati, attesa l’impossibilità di spegnere gli impianti per non compromettere le attività di intercettazione tuttora in corso. Pur soddisfatti per quanto sta emergendo non possiamo che ricordare come tali accertamenti fossero stati richiesti alla sezione disciplinare del Csm che ha preferito ascoltare la sola versione della Rcs poi rivelatasi non veritiera».

Sentito a Perugia il responsabile di Rcs. Palamara passa al contrattacco sulle intercettazioni "transitate" a Napoli: “Chiederemo di dichiararle inutilizzabili”. Redazione su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Le dichiarazioni rese da Duilio Bianchi, che hanno confermato il trasferimento delle intercettazioni captate tramite trojan sul telefono di Luca Palamara “a Napoli presso il loro ufficio e che poi sarebbe trasferito alla procura partenopea”, mettono “una pietra tombale sulle intercettazioni”. A dirlo è l’avvocato Benedetto Buratti, uno dei difensori di Palamara, dopo l’udienza preliminare a Perugia in cui è stato sentito Duilio Bianchi, direttore di divisione della Rcs, la società specializzata in intercettazioni che ha fornito il trojan con cui erano state effettuate le intercettazioni nei confronti dell’ex pm di Roma.

Bianchi è stato sentito dal gip di Perugia nell’ambito dell’udienza preliminare a carico di Palamara, assistito da un legale in quanto indagato in un procedimento connesso (a Firenze per frode in forniture dopo la presentazione di un esposto da parte dell’ex consigliere del Csm e di Cosimo Ferri). Il suo legale ha spiegato al termine dell’udienza che il suo assistito “ha risposto, è andata bene e ha chiarito. Il suo è stato un ruolo puramente tecnico e tecniche sono state quindi le spiegazioni fornite”. Dichiarazioni, quelle di Bianchi, necessarie dopo che nell’udienza del 23 aprile scorso il procuratore Raffaele Cantone ha depositato un verbale reso alla Procura di Firenze da Bianchi in cui quest’ultimo ammetteva dell’esistenza di un server intermedio collocato a Napoli, per l’esattezza all’Isola 5E del centro direzionale del capoluogo campano, prima di arrivare a quello ‘ufficiale’, appoggiato per esigenze logistiche a Roma. Insomma, il trojan trasmetteva il contenuto del cellulare non direttamente alla Procura né alla Guardia di finanza, come prevede la legge, ma lì dove ci sono gli uffici della Rcs. Ma che esistesse una server a Napoli e che funzionasse perfettamente lo avevano da sempre sostenuto i difensori di Palamara e di Cosimo Ferri alle udienze davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Un passaggio negato in passato da Bianchi e dalla Rcs davanti al Csm. Tra le conversazioni intercettate che sono passate a Napoli c’è anche quella ormai celebre all’hotel Champagne con 5 (oggi ex) togati del Csm e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. Secondo quanto riferisce l’Ansa, Bianchi avrebbe spiegato il funzionamento del sistema che, in base alla sua versione, non poteva subire ‘interventi’ esterni. L’unico infatti che può accedere, sempre in base alla deposizione del direttore di divisione di Rcs, è l’amministratore di sistema e questo escluderebbe la possibilità di intervento sulle intercettazioni. Una versione che non convince Palamara e il suo legale, l’avvocato Buratti. Il passaggio delle intercettazioni nel server di Napoli per l’avvocato “è in palese violazione della norma sulle intercettazioni mediante captatore informatico e lo sarebbe anche per quanto riguarda anche quelle tradizionali”. Secondo Buratti infatti il server partenopeo di Rcs “non è "di transito"”, come lo aveva definito Bianchi, e su questo punto interverranno “i nostri consulenti”. In virtù di quanto riferito da Bianchi, l’intenzione della difesa di Palamara è di chiedere di “rendere inutilizzabili” quelle intercettazioni, ma “se il giudice vuole approfondire noi non siamo contrari a fare una perizia”, chiarisce Buratti. L’udienza preliminare è stata aggiornata al 17 maggio prossimo quando verranno sentiti gli esperti della Polizia Postale che stanno eseguendo gli accertamenti sul server a Napoli.

I file finiti in un server a Napoli. Chat di Palamara in mano a società private, la Cartabia sapeva? Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Dietro al caso Luca Palamara, nascosta tra le pieghe dei passaggi non esclusivamente tecnologici, si annida un mistero sul quale vanno accesi i riflettori. Nell’ambito dell’indagine della procura di Perugia nei confronti dell’ex magistrato e presidente Anm, (proc. 6652/18 RGNR), furono intercettati l’8 maggio 2019 anche l’onorevole Cosimo Ferri, insieme all’onorevole Luca Lotti e ad altri cinque consiglieri del Csm, mediante il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Gioverà ricordare che ai sensi dell’articolo 268 del codice di procedura penale, le operazioni di intercettazione possono essere compiute esclusivamente mediante impianti installati nella procura, autorizzati dall’autorità giudiziaria procedente. Se proviamo a dare un volto ai professionisti che installano e “guidano” i captatori, dobbiamo parlare dell’ingegner Duilio Bianchi. È lui che – operando per la società Rcs fornitrice del trojan – aveva dichiarato il 30 settembre 2020 al Csm (a proposito del procedimento 76/2019) che i dati captati passavano direttamente dal telefono di Palamara al server della procura di Roma, senza alcun server intermedio. Peccato che dalla consulenza tecnica del 22 gennaio 2021 svolta dall’ingegner Paolo Reale, depositata al Csm (proc. 93/2019), risulta che la Guardia di finanza, nell’effettuare copia forense del telefono di Palamara, non aveva copiato l’Ip identificativo del server al quale il trojan ha trasmesso i dati, rendendo così impossibile tale accertamento. In assenza della copia forense completa del telefono di Palamara, l’ingegner Reale ha analizzato la medesima versione del programma inoculata nel telefono di Palamara utilizzata in altro procedimento penale della procura di Roma, determinando che i dati captati non sono stati trasmessi direttamente al server della procura di Roma, ma a un server di Rcs a Napoli, di cui non si aveva alcuna notizia e che l’autorità giudiziaria non aveva mai autorizzato. Duilio Bianchi avrebbe dunque mentito. Sottoposto a indagini preliminari da parte della procura di Firenze per i reati di falsa testimonianza, falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia e frode in pubbliche forniture, l’ingegner Bianchi ha infine ammesso, nell’interrogatorio del 22 aprile 2021, che i dati captati dal trojan inoculato nel telefono del dottor Palamara non sono stati trasmessi direttamente al server della procura di Roma, ma a ben due server di Rcs a Napoli, di cui egli aveva finora taciuto l’esistenza e che, a suo dire, sarebbero stati installati dalla stessa Rcs presso i locali della procura di Napoli, sulla base di non meglio precisati accordi o autorizzazioni. A questo punto, Bianchi collabora. E starebbe emergendo, secondo quanto ammesso da Bianchi, che i server installati da Rcs nei locali della procura di Napoli, servivano «da transito per tutte le procure inquirenti del territorio nazionale» per le evidenze intercettate, ricevevano e immagazzinavano i dati captati e li ritrasmettevano poi alle singole procure. In tale fase, tuttavia, ai dati che non erano criptati potevano avere accesso da remoto gli amministratori di sistema di Rcs dalla sede di Milano. Al contrario di quanto autorizzato nel procedimento contro Palamara, e diversamente da quanto a conoscenza finora, sembra quindi emergere dalle ammissioni di Bianchi al pm di Firenze l’esistenza di una centrale di raccolta e di smistamento dei dati captati dai trojan per «tutte le Procure inquirenti del territorio nazionale», costituita da due server della società collocati nei locali della procura di Napoli, che ricevevano e immagazzinavano dati ai quali poteva avere accesso il personale della stessa Rcs da Milano. Le indagini difensive svolte hanno accertato che gli IP utilizzati dai server napoletani non sono intestati alla procura di Napoli, ma alla società privata Rcs che li gestisce. Un gestore privato che potenzialmente ascolta, legge, trascrive tutte le tracce audio immagazzinate. Un fatto gravissimo per il quale il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti vuole vederci chiaro. Mentre andiamo in stampa deposita una interrogazione parlamentare urgente alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Il parlamentare non usa mezzi termini: «Non appare comprensibile all’interrogante, e risulta comunque di estrema gravità, come sia stato possibile che nei locali della procura stessa sia stata svolta dalla società privata Rcs, con propri IP, un’attività di raccolta, immagazzinamento e gestione dei dati intercettati da tutte le procure italiane, senza le necessarie autorizzazioni delle autorità giudiziarie procedenti». E chiama in causa la ministra Cartabia: «Chiedo se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti esposti e se, alla luce di quanto emerso, non intenda promuovere un’ispezione urgente, anche con l’ausilio della direzione generale dei servizi informatici del Ministero».

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Il ras delle nomine rivelò: "Mi ascoltano". “La Procura sapeva del “piano Viola””, i sospetti di Palamara sul trojan: la GdF spiava le nomine? Paolo Comi su Il Riformista il 27 Aprile 2021. «Che cosa vuol dire? Allora, Palamara, ci dica cosa vuol dire, che il Gico (della guardia di finanza, ndr) ascoltava e riferiva le notizie?». La domanda, diretta e senza tanti giri di parole, è stata formulata dalla pm di Perugia Gemma Miliani lo scorso 29 luglio all’ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura. L’indagine nell’ambito della quale Palamara viene interrogato non è quella per corruzione ma per rivelazione del segreto d’ufficio a proposito di due articoli pubblicati a maggio dell’anno prima dal Fatto e dalla Verità. “Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo”, il titolo del pezzo del Fatto. “Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli”, quello della Verità. Secondo i pm di Perugia, Palamara, in concorso con il collega pm Stefano Rocco Fava, «in data antecedente e prossima al 29 maggio 2019 (giorno di uscita dei due articoli, ndr)», avrebbe rivelato ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative alle pendenze penali dell’avvocato Piero Amara, uno dei principali protagonisti del cosiddetto “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi. Amara, in particolare, già avvocato dell’Eni, era stato indagato a Roma per bancarotta e frode fiscale. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la Pa, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto per lui la custodia cautelare in carcere. Il procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto, però, apporre il visto. A questo punto, secondo l’accusa, i due magistrati avrebbero avviato una “campagna mediatica” contro Pignatone, che era da poco andato in pensione per raggiunti limiti di età, e contro Ielo. Fava, poi, aveva presentato un esposto al Csm evidenziando mancate astensioni in alcuni fascicoli da parte di Pignatone e Ielo. Questa indagine, a differenza di quella per corruzione, era stata affidata ai carabinieri. Durante l’interrogatorio emergono tutte le perplessità di Palamara. Il magistrato a maggio del 2019 sospetta di essere ascoltato. Cosa che in effetti sta avvenendo. E racconta il clima di quei giorni a piazzale Clodio. «Quando vedi ti evita qualcuno è chiaro …. no?», esordisce: «Inizi a dire: ‘Non va’. «E poi anche i discorsi che facevano», prosegue. Palamara cita, allora, il caso di un famoso giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera che aveva un’ottima entratura nella Procura di Roma, a iniziare da Pignatone. Il giornalista, parlando con Palamara, dice che Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, fra i candidati al posto di procuratore di Roma, “non è colluso”. «Il problema non è che Viola è colluso ma che l’ufficio non lo vuole, che cosa capisco?», si domanda Palamara. Che si risponde: «Che c’è qualcuno che mi sta ascoltando e che riferisce notizie sul fatto che noi stiamo andando su Viola, già dal 7 maggio e qual è la parte dell’ufficio che non lo vuole? È la parte dell’ufficio con la quale io ho parlato», puntualizza. «Inizio a capire che c’è qualcosa che non va», ripete ancora una volta. La pm Miliani, a questo punto, chiede da chi avesse le notizie e se fosse il Gico, che stava indagando su delega dei pm di Perugia, a dare notizie ai suoi colleghi romani. Palamara, non avendo prove non rischia la calunnia e nega. Ma aggiunge: «L’ufficio non vuole: gli Albamonte (Eugenio, ndr), i Palazzi (Mario, ndr), tutta la parte di Area, lo stesso Pignatone, perché? Perché volevano Lo Voi». «Io vorrei che lei cogliesse l’inferno che abbiamo vissuto», dice allora alla pm Miliani. «Perché io mi dovevo fare gli affari miei… perché a me se veniva Franco Lo Voi, tanto per essere chiari, era molto meglio, punto, fine e vivo in pace pure». «Mi assumo la responsabilità, ero vissuto in pace se avessi detto sì a Franco Lo Voi e facevo prima e invece mi sono incaponito con questa storia di Viola». Quello che è successo dopo è noto.

Palamara: «Così la magistratura ipocrita mi ha immolato». Ci risiamo. L'ex capo dell'Anm prosegue la sua «battaglia di verità». E sulla cena con Pignatone racconta: «Lo strumento del trojan usato per figure istituzionali è un punto di non ritorno. Soprattutto quando viene azionato ad intermittenza...» Il Dubbio il 7 aprile 2021. «Nessuno può fermare la verità dei fatti. Il 3 maggio del 2019 mi è stato inoculato un trojan che ha intercettato una cena presso l’hotel Champagne durante la quale si discuteva della successione di Pignatone alla Procura di Roma, cena svoltasi con le medesime modalità e con gli stessi protagonisti che avevano portato alla elezione dell’attuale vice-presidente del Csm Davide Ermini. 11 29 maggio del 2019 i due principali quotidiani nazionali pubblicavano il contenuto delle registrazioni effettuate con il trojan e da quel momento una parte della magistratura ha voluto in maniera ipocrita considerarmi il capro espiatorio da immolare sull’altare della continuità e della conservazione». A dirlo è l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara in un’intervista su Il Tempo. «Lo strumento del trojan – dice Palamara – usato per figure istituzionali è un punto di non ritorno. Soprattutto quando viene azionato ad intermittenza… Interessante sarebbe domandarsi e magari avere una risposta verosimile come mai la cena del 9 maggio il trojan rimase in silenzio quando eravamo insieme con Pignatone. Oggi faccio parte della commissione giustizia del Partito Radicale – spiega – Come venivano gestiti gli incarichi tra magistrati? È un meccanismo al quale hanno partecipato tutti gli aderenti alle correnti e sarebbe bello che a raccontare come funzionava il do ut des, non fossi solo io ma i diretti interessati a prescindere dalle chat contenute nel mio telefono». «Sono stato radiato per aver partecipato a questo incontro, senza avere la possibilità di audire i testimoni e per questo motivo ho fatto ricorso alle Sezioni Unite civili della Cassazione. Il ricorso verrà discusso il prossimo 8 giugno. Chi avrebbe voluto allontanare lo spettro della riforma della giustizia ha fatto di tutto perché fossi io a dimettermi, invece ho accettato la sfida per affermare la verità e non mi sono dimesso. Ma la falla era così grande che uno spiraglio è rimasto aperto e da lista cominciando finalmente ad uscire la verità», prosegue l’ex capo dell’Anm. Palamara affronta poi il tema delle possibili querele nei suoi confronti. «Penso che costituiranno l’occasione per chiarire davanti ai giudici e all’opinione pubblica come realmente ha funzionato il meccanismo delle correnti – sostiene – In ogni caso voglio rassicurare che il mio racconto altro non costituisce che il mio punto di vista suffragato da chat, documenti e testimoni sulle modalità del conferimento degli incarichi all’interno della magistratura. Il caso Salvini si inserisce in questo contesto. In realtà la chat divulgata – e sarebbe interessante capire l’uso pubblico che è stato fatto del mio cellulare finito in troppe redazioni di giornali – era una conversazione informale e del tutto privata tra me e un collega nella quale ammettevo candidamente che la logica di corrente e di appartenenza aveva Salvini come nemico». «Sento il peso – dice infine Palamara – di aver trasformato il tema della giustizia in un argomento di discussione di massa. La mia battaglia di verità non è fatta contro qualcuno ma ha l’obiettivo di squarciare il velo di ipocrisia che all’interno della magistratura esiste pretendendo di processare Palamara ed i suoi amici sulla base di chat private. Io voglio porre un tema di riflessione sullo sconfinamento della magistratura e sull’uso strumentale dei processi».

L'inchiesta della Procura di Perugia. Cantone si muova ad ascoltare il file segreto della cena tra Pignatone e Palamara. Redazione su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Da qualche mese abbiamo avvertito la Procura di Perugia che dalle nostre indagini risulta che la famosa cena con Pignatone, Palamara ed altri, che si tenne a Roma al ristorante mamma Angelina, fu registrata dal trojan. Abbiamo detto: cercate, perché da qualche parte la registrazione deve esserci. Siccome non abbiamo ricevuto risposte, ci siamo messi a cercare noi e abbiamo trovato il numero di un file dove, con ogni probabilità, c’è la registrazione. Abbiamo scritto quel numero in prima pagina, nel titolo, grande grande, con l’inchiostro rosso. Lo ripetiamo qui: ID 1557327812. A noi ha fatto piacere impegnarci in questo lavoro, per aiutare i magistrati. Probabilmente in quel file ci sono informazioni importantissime per le indagini. Dottor Cantone, sia gentile: apra il file e dia un occhiata. Se ci sono difficoltà, possiamo mandarle il nostro tecnico: è bravissimo.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 24 aprile 2021. È il Grande Orecchio di fiducia delle Procure di tutta Italia, le chiavi Usb con il suo logo sono il gadget più richiesto nelle squadre di polizia giudiziaria. Ma ora Rcs, società specializzata in intercettazioni, finisce sotto inchiesta per il suo ruolo nel caso Palamara. Sono stati i tecnici di Rcs a inoculare nel telefono di Luca Palamara il virus che ha rivelato trame e veleni della magistratura italiana. E ora il capo della security di Rcs, Duilio Bianchi, interrogato come indagato ammette quello che finora aveva sempre negato. Il trojan trasmetteva il contenuto del cellulare non direttamente alla Procura né alla Guardia di finanza, come prevede la legge e come si era detto finora, ma a una sede di Rcs a Napoli. Da lì i dati venivano poi trasmessi agli inquirenti. Ma nel frattempo restavano vulnerabili a qualunque manipolazione. È una ammissione cruciale, perché potrebbe fare saltare il tappo su uno dei segreti meglio custoditi dell'indagine sull'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati: ovvero la cena tra lo stesso Palamara e Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, la sera del 9 maggio 2019, che secondo la versione ufficiale non venne registrata. Ma le indagini difensive di Cosimo Ferri, parlamentare di Italia Viva e magistrato in aspettativa, davanti alla sezione disciplinare del Csm hanno dimostrato che invece il trojan era acceso. Se quella registrazione esiste la domanda inevitabile, oltre al suo contenuto, è: chi e perchè ha scelto di tenere il potente Pignatone fuori dall'inchiesta della Procura di Perugia? Duilio Bianchi viene sentito l'altroieri dal procuratore aggiunto di Firenze, Luca Turco, come indagato sulla base delle denunce di Palamara e Ferri di una sfilza di reati: falsa testimonianza, falso in pubbliche forniture, e soprattutto falso ideologico per induzione in errore. L'ipotesi è che la Procura di Perugia sia stata deliberatamente tenuta all'oscuro del reale funzionamento del trojan piazzato da Rcs. Quando Raffaele Cantone, capo della Procura umbra, garantiva che il trojan la sera della cena era muto, lo diceva in convinta buona fede, perchè era quanto gli era stato riferito. Tant' è vero che ora ai apprende che il 9 marzo, dopo che il Riformista aveva dimostrato che al trojan era stato ordinato di registrare la sera del 9, Cantone ha scritto una secca lettera alla Guardia di finanza chiedendo di giustificare tutte le anomalie individuate dall'articolo. Le «fiamme gialle» gli rispondono il 17 marzo con una relazione di quaranta pagine, talmente tecnica da risultare quasi incomprensibile. Ieri, però, a gettare un primo lampo di luce provvede il verbale di Bianchi, che la Procura di Firenze ha girato in diretta ai colleghi di Perugia e che Cantone deposita agli atti del processo a carico di Palamara. É la prima carta a crollare di un castello di bugie. A partire da quelle che lo stesso Bianchi disse al Consiglio superiore della magistratura, quando venne interrogato nel procedimento disciplinare contro Palamara e assicurò che i dati erano passati direttamente dallo smartphone agli inquirenti. Peccato che i consulenti di Ferri poco dopo abbiano individuato il vero indirizzo fisico di approdo del flusso: Isola 5E del centro Direzionale di Napoli. Non è un ufficio giudiziario, É la sede di Rcs.

Palamaragate e il file segreto. Cena tra Palamara e Pignatone, Cantone dà ragione al Riformista e apre un fascicolo: “Indaghiamo”. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Aprile 2021. L’indagine sul Palamaragate non finisce mai di stupire. Durante l’udienza preliminare in corso a Perugia relativa al procedimento per corruzione nei confronti dell’ex zar delle nomine, il procuratore Raffaele Cantone ha depositato ieri un incredibile verbale reso alla Procura di Firenze dall’ingegnere Duilio Bianchi, direttore di divisione della Rcs, la società che ha fornito il trojan con cui erano state effettuate le intercettazioni. Davanti ai pm fiorentini che gli chiedevano spiegazioni sul funzionamento del micidiale virus spia, fornito dalla società milanese al Gico della guardia di finanza al costo di circa 300 euro al giorno, ed in particolare se i dati captati finissero direttamente presso i server della Procura, come prevede il codice di procedura penale, Bianchi ha candidamente ammesso che esisteva un server intermedio collocato a Napoli, per l’esattezza all’Isola 5E del centro direzionale del capoluogo campano. Indirizzo dove non c’è nessuna sede giudiziaria né di polizia ma gli uffici della Rcs. L’azienda, leader in Italia nel settore degli ascolti, ha sempre negato di avere trattato i dati dell’indagine a carico di Palamara. Anche perché, in caso contrario, sarebbero nulli gli ascolti effettuati. Ma che esistesse una server a Napoli e che funzionasse perfettamente lo avevano da sempre sostenuto i difensori di Palamara e di Cosimo Ferri alle udienze davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Sennonché Bianchi il 30 settembre 2020 a precise domande del collegio e del procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta aveva affermato l’esatto contrario, sostenendo che le fonie transitavano direttamente dal telefonino alla Procura. Bianchi avrebbe affermato a Firenze che quando testimoniò aveva commesso un errore perché l’architettura che prevedeva il server di Napoli ha funzionato fino all’estate del 2019 e quindi si sarebbe confuso sulle date perché l’indagine su Palamara era cessata il 30 maggio 2019. Ma le sorprese non finiscono qui. Fra gli atti depositati ieri, alcuni riguardano direttamente anche il Riformista. Cantone, in un procedimento senza ipotesi di reato di recente iscrizione, ha delegato il Gico a verificare se i documenti pubblicati (dei tabulati con gli orari di funzionamento del trojan, ndr) da questo quotidiano nelle scorse settimane sulla famosa cena di Palamara con Giuseppe Pignatone al ristorante Mamma Angelina fossero genuini e i motivi della mancata registrazione. Come accaduto a Roma sull’indagine nata dalla denuncia di Ferri sulla casualità dell’intercettazione dell’hotel Champagne, anche a Perugia hanno delegato il Gico a compiere indagini su se stesso. Il Gico ha ovviamente evaso la delega, da un lato sub-appaltandola all’altra chiamata in causa, la Rcs, dall’altro non evidenziando nulla che possa far comprendere ciò che è accaduto. Alcuni elementi possono essere tuttavia evidenziati.

La prima è che la Rcs ha dovuto ammettere che «la figura rappresentata alla pagina 4 del Riformista del 9 marzo 2021 è effettivamente lo screenshot dell’applicazione IWS Viever utilizzata per la visualizzazione delle intercettazioni telematiche Rcs. Tale applicazione è stata messa più volte a disposizione degli avvocati delle difese nell’anno 2020». E quindi quanto pubblicato non è un tarocco.

La seconda è una formidabile contraddizione che pare ricordare le supercazzole di Ugo Tognazzi nel film Amici Miei. Premessa: nel documento della Rcs del 25 luglio 2019 con cui si illustra il funzionamento del trojan si legge che «una volta ricevuta una configurazione il captatore se il telefono è in standby – schermo spento – inizia a registrare creando dei frammenti di registrazione detti chunk». Nello stesso documento si legge poi che «i progressivi di tipo sync rappresentano delle indicazioni inviate periodicamente dal captatore al server con lo scopo di far sapere che è operativo e collegato ad internet». E avendo il telefono di Palamara inviato i sync la sera della cena, come avevano evidenziato, voleva allora dire che il captatore stava facendo il suo sporco lavoro, quindi che stava registrando, anche se tutti avevano sempre giurato e spergiurato il contrario.

Adesso, invece, Rcs con una nota del 16 marzo 2021, condivisa dal Gico e trasmessa a Perugia, svaluta il sync e per spiegare cosa è successo fino alle 22:53 del 9 maggio 2019, poiché il telefonino di Palamara inviava questi sync, sostiene che «la sessione 7 non rappresenta in alcun modo un tabulato di registrazione ma è solo un contenitore di evidenze intercettate all’interno del range di data inizio e fine indicate». Alzi la mano chi ha capito cosa possa significare questa frase. Noi, sinceramente, non capiamo quale sia la differenza tra “registrazione” e “intercettazione”. Attendiamo spiegazioni e ci auguriamo che almeno a Firenze le indagini sul Gico e su Rcs non vengano delegate allo stesso Gico e alla stessa Rcs. Un plauso, comunque, a Cantone che almeno sta dimostrando di voler capire come sono state condotte queste indagini. Paolo Comi

Utilizzare contro Ferri i trojan anti-Palamara? L’accusa: sì, non vorrete mica dar retta alla Cedu? La tesi nel processo disciplinare al deputato ed ex magistrato. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 7 aprile 2021. Non tutte le sentenze della Corte di Strasburgo sarebbero vincolanti per l’ordinamento italiano. E anche per quelle eventualmente vincolanti serve fare una attenta valutazione. Lo scrive la Procura generale della Cassazione in una memoria di circa novanta pagine depositata ieri al Consiglio superiore della magistratura durante l’udienza del procedimento disciplinare a carico di Cosimo Ferri. Il deputato di Italia viva, che da magistrato è stato lo storico di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, è accusato di aver tenuto un comportamento “gravemente scorretto” nei confronti dei colleghi che concorrevano per il posto di procuratore di Roma e nei confronti dei consiglieri di Palazzo dei Marescialli, finalizzato a “condizionare le funzioni attribuite dalla Costituzione all’organo di governo autonomo della magistratura”. Il difensore di Ferri, l’avvocato Luigi Panella, nelle scorse udienze, aveva sollevato il caso della inutilizzabilità, in un procedimento disciplinare, delle intercettazioni disposte in processo penale. Alla base delle contestazioni a Ferri vi sono, infatti, le intercettazioni effettuate con il trojan inoculato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara durante la cena all’hotel Champagne dell’ 8 maggio 2019. La difesa Ferri aveva citato diverse sentenze di Strasburgo, come quella 9 marzo 2021 “Eminagaoglu” riguardante la Turchia. Ma appunto, secondo la Procura generale, che nel procedimento aperto su Ferri è titolare dell’azione, tale pronuncia non è vincolante per la giurisdizione nazionale in quanto non sono provenienti “dalla Grande Camera ma dalla Seconda sezione della Corte di Strasburgo”. Non si tratterebbe dunque di “sentenze pilota: non rappresentano un diritto consolidato, trattandosi di precedenti che riguardano la Turchia che, come sappiamo, non rappresenta un modello tranquillante di democrazia e di rispetto della separazione dei poteri dello Stato”, afferma l’avvocato generale Piero Gaeta che rappresenta l’accusa. Sul punto vale la pena ricordare che fino al 2016 l’Italia era saldamente al quarto posto, dopo Ucraina, Russia e Ungheria, e prima della Turchia, fra i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa in tema di contenzioso. II “sorpasso” della Turchia ai danni dell’Italia è avvenuto dopo gli interventi normativi seguiti al fallito golpe del 15 luglio del 2016. Circostanza questa, non il “sorpasso”, ricordata dalla Procura generale. La Corte costituzionale, comunque, avrebbe messo con una sentenza del 2015 dei paletti circa gli effetti nel diritto nazionale di tali pronunce. Resterebbe, allora, valido il principio della piena utilizzabilità non in contrasto con l’articolo 8 della Cedu. La difesa di Ferri, comunque, ha prodotto anche un’altra sentenza, questa invece della Grande Camera. Il caso aveva riguardato un procedimento penale condotto in Estonia e conclusosi con una condanna a due anni per furto e utilizzo indebito di carta di credito. La Corte di Cassazione estone si era posta il problema del rispetto dell’articolo 5 della direttiva 2002/ 58 dal titolo “Riservatezza delle comunicazioni”. Anche per l’autorizzazione all’utilizzo dei dati si deve circoscrivere la procedura ad attività aventi “per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo”. In estrema sintesi, le intercettazioni telefoniche o con il trojan possano essere utilizzate soltanto per reati gravi e non per illeciti amministrativi o disciplinari, come nel caso di Ferri. Ma anche in tale ipotesi per la Procura generale gli ascolti sarebbero utilizzabili. A tal proposito è stata citata la cosiddetta “teoria dell’atto chiaro” per la quale un giudice nazionale non deve operare il rinvio qualora il contenuto della norma comunitaria che si intende applicare si ponga agli occhi dell’interprete con una tale evidenza da non lasciar spazio ad alcun ragionevole dubbio. Il collegio, presieduto dal laico pentastellato Filippo Donati si è riservato. Prossima udienza il 14 maggio.

Magistratopoli e i suoi scandali. Ferri fu intercettato illegalmente, ma per la Procura Generale è tutto ok. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Aprile 2021. È tutto in regola. Non c’è nessuna anomalia. Anzi. Con una memoria di ben ottantasei pagine, infarcita di richiami giurisprudenziali, sentenze e massime assortite, la Procura generale della Cassazione ha chiesto ieri alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di rigettare tutte le eccezioni sollevate dalla difesa dell’onorevole Cosimo Ferri. Per l’avvocato generale Pietro Gaeta e il sostituto pg Simone Perelli, quelle dell’avvocato romano Luigi Panella, difensore del parlamentare di Italia viva e storico leader delle toghe di destra di Magistratura indipendente, sono doglianze prive di fondamento. Ferri è accusato di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di alcuni colleghi e di aver cercato di condizionare l’attività del Csm in tema di incarichi dei magistrati. Alla base delle contestazioni disciplinari, le intercettazioni effettuate la sera dell’8 maggio 2019 all’hotel Champagne tramite il trojan inserito nel cellulare dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. «Perché intercettare Palamara per fatti commessi tre anni prima?», aveva affermato Panella, chiedendosi anche «perché solo il suo telefono venne intercettato con il trojan e non quelli dei corruttori?» L’avvocato di Ferri aveva azzardato una risposta: gli inquirenti erano interessati a conoscere i “rapporti fra Ferri e Palamara”. Ferri, è invece la tesi della Procura generale della Cassazione, era entrato nell’indagine di Perugia in maniera del tutto “casuale” e “fortuita”. I magistrati umbri non avevano nessun elemento che facesse pensare a un coinvolgimento di Ferri nell’indagine per corruzione a carico di Palamara, del faccendiere Fabrizio Centofanti e degli avvocati Piero Amara e Stefano Calafiore. «Ciò che si deve sottolineare con fermezza, fugando ogni sorta di ambiguità o di allusione, è che l’obiettivo delle indagini penali avviate dalla Procura della Repubblica di Perugia non fu mai, né prima né dopo, Ferri», scrivono a piazza Cavour. Non si è trattato, dunque, di “intercettazioni indirette”. La Procura generale per avvalorare questa tesi ha deciso di fare il colpo ad effetto. Se fosse vero quanto affermato da Panella, i magistrati avrebbero commesso dei reati. Loro, non i finanzieri del Gico che hanno proceduto agli ascolti. Sono i magistrati che hanno «richiesto, motivato, prorogato, delegato alla pg per l’esecuzione e poi ascoltato e valutato». Sarebbe un reato “grave”, un abuso d’ufficio del quale erano perfettamente consapevoli. Commesso, poi, con il dolo di aggirare le guarentigie che prevedono la richiesta di autorizzazione alla Camera di appartenenza. Non un «errore procedurale o una involontaria violazione di legge nella gestione di una indagine (come capita quotidianamente in decine di indagini in Italia) ma un callido disegno criminoso perseguito con lucida consapevolezza, volto a finalizzare in modo completamente diverso ed illegale un’indagine». Si tratta di affermazioni oltremodo impegnative, quelle della difesa, per «le notevoli responsabili che si assumono di fronte al collegi»”. In altre parole, se la Sezione disciplinare in caso di accoglimento delle istanze della difesa Ferri metterebbe in discussione tutto l’operato dei pm umbri. La Procura generale smonta, poi, la narrazione dell’asse fra Palamara e Ferri per le nomine. Ferri non era affatto un interlocutore abituale di Palamara, ricordano dalla Procura generale. II rapporto fra i due era occasionale e saltuario. Una occasionalità che aveva, però, portato alla nomina di David Ermini a vice presidente del Csm e stava per riuscire a nominare il procuratore di Roma.

Assente il nome di Centofanti. Come è stato installato il trojan a Palamara e perché non sono stati spiati Longo, Amara e Calafiore. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Aprile 2021. «Per le ragioni che sapete abbiamo una certa urgenza», scrive, il 7 marzo del 2019, la pm di Perugia Gemma Miliani all’allora capitano del Gico della guardia di finanza, Fabio Di Bella. «Le chiedo – aggiunge la pm che sta indagando su Luca Palamara – di raccomandare a Rcs solerte sollecitudine (scritto in grassetto, ndr) nell’effettuare la valutazione di fattibilità». L’ordine categorico si riferisce allo studio di fattibilità delle intercettazioni telematiche mediante il “trojan” che la pm vuole installare nel cellulare dell’ex zar delle nomine, in quello degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, e del magistrato Giancarlo Longo. Ad effettuare questo studio è la Rcs, società milanese leader nelle intercettazioni telefoniche che ha progettato uno dei primi software spia. I quattro sono in quel momento oggetto di intercettazioni telefoniche tradizionali. Amara, Calafiore e Longo, arrestati nel febbraio del 2018 su richiesta delle Procure di Roma e Messina per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari, erano il perno del sistema Siracusa, il sodalizio finalizzato a condizionare l’esito di procedimenti penali e amministrativi al tar ed al Consiglio di Stato. Dopo essere tornati in libertà, all’inizio del 2019 la Procura di Perugia aveva ipotizzato nei loro confronti l’accusa di aver corrotto Palamara, quando era al Csm, per ottenere nomine di magistrati compiacenti. La Rcs aveva fornito agli investigatori un pacchetto di opzioni di tutto interesse. Con il trojan, infatti, sarebbe stato possibile avere informazioni di ogni tipo: dalle “abitudini di navigazione”, alle “app installate”. Inoltre era possibile avere il “tabulato delle chiamate whatsapp” effettuate, riuscendo anche a conoscere eventuali metodi di comunicazione non noti. E poi c’era la temibile funzione “screenshot”. Il trojan, effettuando periodicamente degli screenshot era in grado di “leggere” qualsiasi tipo di chat, da Whatsapp a Telegram, rendendo così vano l’eventuale tentativo di non lasciare traccia della comunicazione “cancellando” il messaggio inviato. In caso di Android, addirittura, con il trojan era possibile programmare l’accensione della fotocamera, sia quella posteriore che quella anteriore. Per avere accesso a tutte queste prelibatezze investigative sarebbe però stato necessario infettare il cellulare, una operazione che si poteva tentare da remoto con la richiesta di aggiornare delle configurazioni di sistema o di installare una app. Inserito nel cellulare di Palamara ha fatto saltare la nomina del procuratore generale di Firenze Marcello Viola a Procuratore di Roma, ribaltando poi i rapporti di forza al Csm. Lo studio di fattibilità era stato positivo per Longo, Amara e Calafiore. I tre era risultati molto loquaci al telefono. Amara, in particolare, in 20 giorni di ascolti aveva fatto segnare 335 captazioni, di cui 169 con familiari e 22 con i suoi avvocati. Per quale motivo, dunque, il trojan venne poi installato solo nel cellulare di Palamara? Cantone pare abbia affermato davanti alla Prima Commissione del Csm che i tre che erano particolarmente attenti. Ma l’eventuale “attenzione” era facilmente aggirabile con la complicità del gestore telefonico. Nel caso di Palamara, infatti, venne effettuato il blocco del cellulare, costringendo il magistrato a una procedura di ripristino che permise così l’istallazione del trojan. In tutto ciò spicca, comunque, l’assenza di Fabrizio Centofanti, il faccendiere che secondo l’accusa dei pm di Perugia sarebbe stato fra i corruttori di Palamara e che quest’ultimo aveva presentato anche a Giuseppe Pignatone. Circostanza questa confermata dallo stesso ex procuratore di Roma. «Centofanti non era facilmente intercettabile in quanto abituato a parlare in codice, a non fare nomi e ad alzare il volume della radio se era in auto», avrebbe detto sempre Cantone. Ma di lui nello studio di fattibilità non c’è traccia. Misteri su misteri.

Cantone invoca tutele al Csm per l'inchiesta su Palamara. L'ex capo dell'Anticorruzione difende l'indagine dalle critiche e dai dubbi sulle registrazioni a intermittenza. Anna Maria Greco - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Al Consiglio superiore della magistratura Raffaele Cantone entra «da remoto». Il procuratore di Perugia, in collegamento con la Prima commissione, spiega perché è necessario aprire una pratica «a tutela» sua e dei pubblici ministeri del suo ufficio, che sarebbero sotto attacco per come stanno gestendo il caso Palamara. Sono pratiche molto controverse, spesso sollecitate da magistrati che si trovano a scontrarsi con la politica e che vogliono avere al fianco il Csm nella difesa «dell'indipendenza e del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria». Stavolta, la pratica a tutela l'invoca l'ex capo dell'Autorità nazionale anticorruzione che dirige le indagini forse più delicate della storia per il buon nome dell'intera categoria. Non gli sono piaciuti dubbi sollevati da articoli di stampa che mettono in discussione come sono state utilizzate le chat sequestrate sul cellulare di Luca Palamara, come il trojan inoculato dai finanzieri abbia funzionato a intermittenza, quasi «intimorito» da personaggi come l'allora capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone, e anche il fatto che gli atti non sarebbero stati trasmessi tutti e tempestivamente al Consiglio superiore. Cantone, di fronte alla commissione presieduta da Elisabetta Chinaglia (Magistratura democratica), chiede l'intervento di Palazzo de' Marescialli ed è improbabile che gli venga negato, anche se dopo il sì della commissione servirà quello del plenum. «E tutto non è automatico», sottolineano al Consiglio. Tutto questo avviene in una clima avvelenato tra le toghe per le rivelazioni sul sistema Palamara per le nomine, in un Csm che lavora su decine di processi disciplinari e dove oggi il presidente della Repubblica e dello stesso Consiglio, Sergio Mattarella, sarà al vertice del plenum. Al suo fianco il nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, alle prese con la sempre divisiva riforma, sulla quale il Csm deve esprimere un parere. Proprio domani riprenderà la discussione sulla bozza, che già ha suscitato divisioni nel plenum per le critiche molto dure agli interventi del testo Bonafede per rendere più trasparenti le nomine. Quella di Cantone in Prima Commissione è un'audizione a porte chiuse, alla fine della quale si sa soltanto che «il procuratore ha interloquito su tutti gli aspetti oggetto della sua segnalazione e delle domande poste dalla Commissione». Domande, pare, che non sono andate molto nel dettaglio. Le intercettazioni dell'inchiesta Palamara sono fondamentali anche per i suoi interlocutori, come il magistrato in aspettativa Cosimo Ferri, oggi deputato di Italia viva, sotto accusa sia al Csm che a Perugia. Ieri, all'udienza disciplinare la sua difesa ha chiesto «l'immediato proscioglimento da tutte le incolpazioni», perché le intercettazioni «violano principi Ue». «Questo processo non può continuare nemmeno per un altro giorno», ha detto Luigi Panella, riferendosi a due recenti pronunce, della Corte di giustizia dell'Unione europea e della Corte europea dei diritti dell'uomo, sull'illegittimità dell'uso delle intercettazioni in procedimenti, anche disciplinari, diversi da quello in cui sono state disposte. Se Ferri non sarà prosciolto, si arriverà ad un ricorso alla Corte costituzionale.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 15 aprile 2021. Un' indagine affossata senza neanche iniziarla, spedita direttamente in archivio: eppure se la Procura di Roma avesse avuto davvero voglia di capire cosa funzionò o non funzionò nell' inchiesta sul caso Palamara l' occasione era ideale. Nell' ottobre 2019 infatti Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e parlamentare di Italia Viva, depositò una denuncia per abuso d' ufficio che chiamava in causa il Gico della Guardia di finanza, il reparto speciale che gestiva il trojan installato sul telefono di Luca Palamara. Sono due marescialli del Gico ad accendere e spegnere il «captatore»: che a volte funziona quando non dovrebbe, e viceversa. Ma la denuncia di Ferri è rimasta lettera morta. Ma le stranezze del trojan continuano, ostinatamente, a venire a galla. E suscitano nuovi dubbi su quali fossero gli obiettivi reali della Procura di Perugia quando, su input dei colleghi romani, iniziò a scavare sull' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati. Stranezze che si concentrano in ore cruciali, a cavallo tra l' 8 e il 10 maggio 2019, e che l' avvocato Luigi Panella - difensore di Ferri nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura - ha squadernato una per una nel corso dell' ultima udienza davanti al Csm. La perizia informatica realizzata da Fabio Milana, consulente della difesa Ferri, racconta che non è vero che - come ha sempre sostenuto il procuratore di Perugia Raffaele Cantone - il trojan era disattivo la sera del 9 maggio, quando Palamara andò a cena con Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma. Di quelle intercettazioni nel fascicolo ufficiale non c' è traccia. Ma le analisi di Milana dicono che esistono, o almeno sono esistite. Nelle mani, se non della Procura umbra, almeno in quelle della Finanza o di Rcs, la società privata che aveva fornito il trojan. Al virus si possono dare tre comandi: add, che gli ordina di attivarsi a una data ora; remove, che cancella il primo; replace, che lo modifica. L' 8 maggio, nelle ore precedenti la riunione all' Hotel Champagne con Ferri e Luca Lotti che porterà alla incriminazione di Palamara, i comandi si susseguono a ritmo frenetico, fino a quando, alle 17, viene inserito l' ordine che tiene acceso il trojan fino alle 2 del mattino del 10 maggio. Sono 33 ore consecutive di ascolto, destinate a prosciugare la batteria del cellulare (il trojan consuma molta energia) e ad allarmare Palamara. Eppure la Finanza sceglie di rischiare. C' è qualcosa da ascoltare a tutti i costi, oltre alla riunione dello Champagne. Ma alle 11,45 del giorno successivo, l' altro maresciallo dà una sequenza di sei ordini in un secondo al trojan. Troppi e troppo rapidi per essere eseguiti. Il problema maggiore è però che uno di questi comandi modifica un ordine di cui non c' è traccia. Il comando ha un codice identificativo di dieci cifre, un ID: ma è un ID «orfano», privo di un comando originale di riferimento. E non è l' unico: almeno altri tredici comandi, secondo la perizia Milana, sono altrettanto orfani. L' ordine originale è come se non fosse mai esistito o come se fosse stato cancellato. Quali indicazioni davano, quegli ordini spariti? Di certo c' è che la sera del 9, quando Palamara cena con Pignatone, il trojan è attivo. Possibile che il microfono non abbia funzionato? No. Perché una delle poche cause possibili, la mancanza di spazio libero sullo smartphone di Palamara, è smentita dai fatti: perché il trojan funzioni servono 500 mega. Il 31 maggio, quando il telefono viene aperto, si trovano ben 15 giga ancora disponibili. E allora?

Paolo Comi per "il Riformista" il 14 aprile 2021. Id 1557327812. È molto probabilmente questo il progressivo relativo alla conversazione intercettata durante la cena del 9 maggio del 2019 al ristorante Mamma Angelina ai Parioli a cui parteciparono, con le rispettive consorti, l' ex zar delle nomine Luca Palamara e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, oltre ad altri magistrati in servizio a piazzale Clodio. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha recentemente affermato che tale incontro, in cui presumibilmente si discusse anche di chi avrebbe preso il posto di Pignatone una volta andato in pensione, non sia mai stato registrato. «Non venivano effettuati ascolti quando Palamara incontrava colleghi in presenza delle mogli», la giustificazione di Cantone. In precedenti articoli abbiamo espresso sul punto delle perplessità, in particolare sulla cronologia dell' ascolto. Palamara, infatti, parlando con una sua conoscente il pomeriggio del 9 maggio, aveva detto che quella sera sarebbe andato a cena con Pignatone. La conversazione, registrata con il trojan, venne ascoltata, secondo i tabulati agli atti della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura e della Procura generale della Cassazione e forniti dalla Rcs (la società che aveva installato il softwa re spia), solamente il successivo 13 maggio. Come facevano, allora, gli inquirenti a sapere che il magistrato, il quale ha dichiarato di non averne parlato con altre persone, sarebbe andato quella sera a cena con Pignatone e le rispettive signore? Ma tralasciando questo aspetto, la vera novità è emersa nei giorni scorsi dalla lettura attenta degli "id" dei tabulati. Con la scoperta di quello relativo, forse, alla sera del 9 maggio 2019. Per capire come si è arrivati a questa scoperta è necessario, però, una breve spiegazione sul trojan. Il costosissimo software - circa 300 euro al giorno il costo del noleggio - funziona come un normale registratore. Per programmare la sua accessione è necessario digitare "add" (aggiunta di una nuova schedulazione, ndr) e indicare prima il giorno e l' ora in cui si vuole far iniziare la registrazione e poi il giorno e l' ora in cui tale registrazione dovrà terminare. Una volta effettuata la programmazione il trojan genera un id (identificativo della schedulazione aggiunta, ndr). Per modificare la programmazione, poi, esiste la funzione "replace to". Per cancellarla completamente, quella "remove". Il consulente tecnico Fabio Milana, incaricato dal togato Cosimo Ferri, uno dei partecipanti al dopo cena all' hotel Champagne e sotto procedimento per tale fatto davanti alla Sezione disciplinare del Csm, ha accertato che "ci sono 14 id "orfani", ossia non associati al comando "add", indispensabile come detto per la loro creazione. Uno di questi 14 id è quello relativo al "replace" effettuato alle ore 11.45:13 del 9 maggio 2019 dal maresciallo del Gico della Guardia di finanza, il reparto che condusse gli ascolti, Gianluca Or rea (sigla nel tabulato "gorrea", ndr). Con il comando "replace" il maresciallo intervenne su una programmazione che era stata disposta l' 8 maggio 2019 alle ore 15:03:32, il giorno precedente la cena tra Palamara e Pignatone. La domanda spontanea è: cosa prevedeva quella programmazione e, soprattutto, che fi ne ha fatto la registrazione con l'id 1557327812? L' avvocato Luigi Panella, difensore di Ferri al Csm, ha sollevato la questione e ha prodotto la consulenza di Milana. La Procura generale della Cassazione, dopo aver chiesto un termine "congruo" per replicare alle questioni poste dalla difesa, ha depositato una memoria di quasi cento pagine ma degli id orfani, stranamente, non c' è traccia. Come se non bastasse, sempre dalla lettura dei tabulati di Rcs, emerge la conferma di quanto ripor tato nei giorni scorsi dal Riformista circa "il non spegnimento" del trojan la sera del 9 maggio. Il trojan rimase acceso fino alle 22:53:17 inviando dei segnali detti "sync" che, come dice sempre Rcs «rappresentano delle indicazioni inviate periodicamente dal captatore al server con lo scopo di far sapere che è operativo e collegato ad internet». Nelle istruzioni sul funzionamento del trojan, Rcs scrive che «una volta ricevuta una confi gurazione il captatore se il telefono è in standby - schermo spento - inizia a registrare creando dei frammenti di registrazione detti chunk». «I progressivi di tipo sync - prosegue - rappresentano delle indicazioni inviate periodicamente dal captatore al server con lo scopo di far sapere che è operativo e collegato ad internet». In altre parole, lo strumento era acceso e registrava. È forte, quindi, il sospetto che la programmazione "sparita" coprisse proprio la serata del 9 maggio 2019. Non ce ne voglia Cantone se quindi continuiamo ad avere dei dubbi sul funzionamento del trojan. Sarebbe il caso che venisse fatta chiarezza quanto prima. Se poi i tabulati forniti dalla Rcs contengono errori o sono incompleti, è un altro discorso.

CASO PALAMARA, CANTONE: “A CENA CON PIGNATONE IL SOFTWARE SPIA ERA SPENTO”. Estratto dell’articolo di Conchita Sannino e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 23 marzo 2021. (…) "L'intercettazione della cena tra Palamara e Pignatone? Non esiste. Non fu programmata perché si trattava di un incontro conviviale con le rispettive mogli. In quei contesti, Palamara non si lasciava mai andare a confidenze, quindi sarebbe stata inutile", è, in sintesi, il senso della risposta fornita ieri al Csm dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Retroscena che potrebbero incrociare anche i procedimenti disciplinari aperti a carico di alcuni magistrati citati nelle chat di Palamara, compresi i protagonisti delle riunioni all'hotel Champagne.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 24 marzo 2021. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che ha ereditato la spinosissima inchiesta sullo stratega delle nomine Luca Palamara, pezza dopo pezza, si sta affannando a tappare, senza successo, il buco lasciato dalla mancata intercettazione la sera della cena di commiato dell'ex capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone. E, come riportato ieri da Repubblica, nel corso dell'audizione al Csm per una pratica a tutela chiesta dai pm perugini, avrebbe detto: «L'intercettazione della cena tra Palamara e Pignatone? Non esiste. Non fu programmata perché si trattava di un incontro conviviale con le rispettive mogli. In quei contesti, Palamara non si lasciava mai andare a confidenze, quindi sarebbe stata inutile». In realtà le registrazioni avvenivano sempre dopo l'orario di lavoro di Palamara, quando cioè si sospettava che lo stratega delle nomine s' incontrasse con gli altri indagati, e durante l'ora di cena. Ma non è questo il punto clou dei cento minuti dell'audizione di Cantone. Resta aperta una questione: la notte tra 8 e 9 maggio 2019, durante l'incontro nell'hotel Champagne, al quale, oltre allo stratega delle nomine, partecipò anche Luca Lotti, il trojan registrò tutto. La sera seguente, invece, per l'intimissima cena da Mamma Angelina a Roma con Pignatone e altri sette commensali, il trojan rimase acceso (e non spento, come riportato da Repubblica), ma fu riprogrammato. Lo dimostra la documentazione di Rcs (società alla quale si era rivolta la Procura di Perugia) relativa alle operazioni di intercettazione. Per il 9 maggio, quindi, era prevista una programmazione di registrazione con lo stop alle ore 2 del giorno 10. La mattina del 9, però, ci fu un cambio di programma. E si è scoperto che alle 11.45 il timer del trojan era stato spostato. Con la manovra, la fine della registrazione era stata impostata per le ore 18.00. Palamara parla della cena con Pignatone con l'amica Adele Attisani alle 15.54 del 9 maggio. «Al minuto 2.40», annotarono gli investigatori, Palamara «dice che lui andrà a cena al locale da Mamma Angelina con Pignatone, Prestipino (Michele Prestipino, che subentrerà a Pignatone nel ruolo di procuratore di Roma, ndr) e un'altra persona». Una conversazione che, però, dalla documentazione depositata risulta essere stata aperta per la prima volta solo quattro giorni dopo. Come faceva, quindi, la Procura a sapere di quella cena «conviviale», come sembra sostenere ora Cantone, «con le rispettive mogli», tanto da portare alla decisione di non registrare, se la chiacchierata durante la quale Palamara ne ha parlato non risulta essere stata ascoltata lo stesso giorno? Le conversazioni del 9 maggio, poi, stando al registro delle intercettazioni trojan, sono state sentite tutte il 13. Non solo. Per la registrazione dell'hotel Champagne, l'operatore entra nel progressivo numero otto sette minuti dopo la mezzanotte, va ad ascoltare ciò che è stato captato e, dopo aver appreso che la captazione era avvenuta in modo corretto, sospende il controllo. Gli ascolti riprendono quattro giorni dopo. Come ha fatto, quindi, Cantone a sostenere che si trattava di una cena conviviale, se la conversazione è stata ascoltata il 13 maggio? L'ulteriore chiarimento che Cantone avrebbe offerto, poi, riguarda gli sms tra Palamara e Pignatone inviati con ritardo al Csm. Cantone, come riportato da Repubblica, avrebbe detto: «Chi si è occupato dell'invio credeva che nel file ci fosse tutto il traffico, invece conteneva solo le chat». Conferma così ciò che da tempo lamenta l'avvocato Benedetto Marzocchi Buratti, ovvero che quegli sms non erano depositati al momento dell'avviso di chiusura delle indagini preliminari. Sono stati inviati solo dopo la pubblicazione sulla Verità. Tra gli investigatori qualcuno pensava che non uscissero? È l'ennesimo punto oscuro dell'inchiesta che ha svelato lo scandalo del mercato delle toghe.

Il trojan di Palamara e il giallo delle date. Ecco che cosa non torna. Cantone ha spiegato al Csm perché la cena con Pignatone non fu registrata. Ma restano dubbi. Anna Maria Greco - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Ci sono delle incongruenze nelle dichiarazioni fatte lunedì da Raffaele Cantone al Csm sul caso Palamara. La più macroscopica sarebbe sul funzionamento del trojan-spia nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm, che non registrò la cena del 9 maggio 2019, per il pensionamento dell'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Il capo dei pm di Perugia, nell'audizione alla prima commissione chiesta anche a nome di Gemma Milani e Mario Formisano titolari dell'inchiesta, per ottenere una «pratica a tutela», avrebbe spiegato che si decise di non intercettare l'incontro. Era «conviviale», con le mogli, e in quelle occasioni Palamara non si lasciava andare a «confidenze», dunque era «inutile» ascoltare, scrive Repubblica. L'interruzione del trojan sarebbe stata una scelta motivata e Cantone peraltro riferisce ciò che avrebbe deciso il suo predecessore Luigi De Ficchy, visto che arrivò a Perugia a giugno scorso. «Ma come facevano in procura - si chiede il legale di Luca Palamara, Roberto Rampioni- a sapere di quella cena, se per la prima volta se ne parla in una telefonata del 9 maggio alle 15,54, tra Palamara e la sua amica Adele Attisani, che viene smarcata si dice in gergo, cioè ascoltata, dai finanzieri solo il giorno 13? Questo risulta dagli atti depositati». Le carte parlano e c'è aria di autogol, fanno notare dalla difesa dell'ex membro del Csm, radiato dalla magistratura e con un rinvio a giudizio per corruzione a Perugia. Se il procuratore avesse fatto riferimento alla «smarcatura» del 13, l'unica spiegazione sarebbe: fu tutto intercettato, ma poi si decise di cancellare o non utilizzare le conversazioni. Tesi che sembra quella della difesa di Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa oggi deputato di Iv, sotto procedimento disciplinare al Csm, ma non indagato a Perugia. Il trojan registrò l'8 maggio la cena all'hotel Champagne per concordare il successore di Pignatone a Roma, tra Palamara, Ferri, il renziano Luca Lotti e 5 consiglieri del Csm che poi si dimisero. Ma il giorno dopo tacque. «Secondo la nostra perizia- spiega l'avvocato Luigi Panella- il trojan non fu spento o meglio la mattina del 9 maggio alle 11,45, ebbe ben 6 comandi, di cui uno retroattivo, che non fermarono la registrazione fino al pomeriggio, quando si interruppero i segnali di funzionamento del microfono ma continuarono quelli di sistema. Per i nostri esperti non c'è alcuna spiegazione tecnica, visto che i 5 casi di stop del microfono, segnalati dall'azienda di intercettazioni Rcs, sono tutti da escludere». C'è poi la questione dell'intercettazione del presunto corrotto, ma non del presunto corruttore, l'imprenditore Fabrizio Centofanti. Cantone avrebbe spiegato che era difficile, perché l'interessato stava attento, parlava «in codice» e usava sotterfugi come alzare il volume della radio in auto e che anche gli altri coinvolti, Amara, Calafiore e il pm Longo, non «abboccarono» al messaggio per inoculare il trojan sul cellulare. «Gli atti - fa notare l'avvocato Ripamonti - vanno a Perugia per l'oscuro rapporto tra Palamara e Centofanti, che però non viene intercettato e viene iscritto nel registro degli indagati solo il 27 maggio». Terza questione: il mancato invio di tutte le intercettazioni al Csm. Cantone avrebbe confermato che, per un errore tecnico, furono inviate in un file solo quelle telefoniche. Mesi dopo, da fine anno, arrivarono sms e poi chat. Insomma, potrebbe esserci motivo di riascoltare al Csm Cantone su troppi «buchi neri».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 22 marzo 2021. È lecito o non è lecito mettere in discussione l' inchiesta della Procura di Perugia sul caso Palamara, sollevare interrogativi sulle chat raccolte a strascico, sui trojan accesi o spenti secondo logiche imperscrutabili, sulle correnti della magistratura finite nel mirino e quelle graziate dalle indagini? È questo, in fondo, l' interrogativo cui è chiamato a rispondere oggi il Consiglio superiore alla magistratura. Dopo pranzo verrà sentito a Palazzo dei marescialli Raffaele Cantone, il capo della procura umbra. Ha chiesto lui che il Csm intervenga per difenderlo dagli attacchi e dalle polemiche della stampa. Si chiama «pratica a tutela», è prevista dalle norme, è un gesto simbolico privo di conseguenze concrete, negli ultimi anni è stata usata solo per proteggere le toghe finite nel mirino di Matteo Salvini. Stavolta invece si tratta di sbrogliare veleni tutti interni alla categoria. Non sarà facile. Cantone ha chiesto la tutela dal Csm per sé e per i suoi sostituti, accusati da articoli di stampa di non avere trasmesso tempestivamente alcuni atti dell' indagine. A interrogarlo sarà la Prima commissione, presieduta dal giudice astigiano Elisabetta Chinaglia, esponente della corrente di sinistra, entrata nel Csm proprio in seguito alla dimissioni di un membro coinvolto nelle intercettazioni di Palamara. Sarà interessante vedere se la commissione si limiterà a prendere atto delle lamentele di Cantone, o vorrà farsi spiegare dal procuratore i tanti buchi neri dell' indagine. I buchi, come è noto, non mancano. Coinvolgono non solo la gestione dell' inchiesta avvenuta prima che Cantone venisse mandato a fare il capo a Perugia, ma anche i passaggi successivi. Il più recente e vistoso, la spiegazione fornita da Cantone allo strano black out del programma inoculato sul telefono di Palamara in coincidenza della cena dell' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati con Giuseppe Pignatone, la sera del 9 maggio 2019. Una conversazione cruciale, persa per sempre. Cantone ha liquidato la faccenda dicendo che «il trojan non ha registrato l' incontro perché non era programmato per l' orario in quella registrazione». Ma le analisi informatiche dei legali di Cosimo Ferri, deputato renziano, hanno concluso che invece il trojan era perfettamente attivo. Dove sono finite le registrazioni? Sono obiezioni che difficilmente Cantone si sentirà rivolgere. La linea del Consiglio superiore della magistratura (a parte isolate eccezioni) sul caso Palamara è ormai chiara: archiviare la pratica nel modo più indolore possibile, relegarla a un incidente di percorso dovuto a qualche mela marcia. A ribadire la linea è stato, con una intervista rilasciata al Messaggero proprio alla vigilia dell' audizione di Cantone, il vicepresidente David Ermini. Ermini è stato eletto alla carica anche con il voto di Palamara, anzi - dice Palamara - grazie a una cena con il medesimo, Luca Lotti e Cosimo Ferri, «come all' Hotel Champagne». Ma, a differenza di altri, non ha neanche pensato a dimettersi. E nell' intervista di ieri oltre a minimizzare le dimensioni del caso Palamara («Quanti magistrati avrà coinvolto? Cinquanta? Cento?») garantisce che oggi «un sistema spartitorio nel Csm non c' è più». Tutto risolto. Se questo è il quadro, improbabile che oggi Cantone senta rivolgersi domande troppo scomode. Il Csm lo tutelerà, in modo da tutelare soprattutto se stesso. (Intanto l' Associazione nazionale magistrati che ha promesso di fare pulizia al suo interno pare abbia scoperto che le chat di Palamara non si possono usare perché Palamara non fa più parte dell' Anm. E adesso?)

La cena tra Palamara e Pignatone. Cantone chiamato dal Csm, speriamo gli facciano (e risponda) alle domande giuste. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Marzo 2021. Lunedì prossimo il Consiglio superiore della magistratura sentirà il procuratore Raffaele Cantone a proposito del Palamaragate. Cantone, arrivato a Perugia lo scorso anno, ha trovato sul tavolo il fascicolo a carico dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, aperto dal suo predecessore Luigi De Ficchy alla fine del 2018. Il Riformista in questi mesi ha evidenziato, si spera senza essere stato polemico, diverse perplessità sulle modalità di conduzione dell’indagine da parte del Gico della guardia di finanza. Molti gli aspetti controversi. Ad esempio la cena del 9 maggio 2019 fra Palamara ed il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, apparentemente non registrata. Non potendo pretendere che Cantone risponda al Riformista, ci auguriamo che qualche consigliere del Csm faccia propri i nostri interrogativi. Due essenzialmente. Il maggiore Fabio Di Bella, l’investigatore che coordinò le indagini, interrogato come teste il 23 settembre 2020 nel procedimento disciplinare a carico di Palamara disse, a proposito del trojan, che i finanzieri del Gico avevano sempre utilizzato le 5-8 ore a disposizione posizionando le registrazioni in diversi momenti della giornata, soprattutto la mattina presto laddove era possibile un incontro presso la scuola della figlia, l’ora di pranzo e le ore serali. E questo in quanto «Palamara era una persona che era solita intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone». Di Bella aggiunse che la sera dell’8 maggio (quella dell’hotel Champagne, ndr), la registrazione fu programmata «dalle ore 19:00 alle ore 2:00 del 9 maggio». Lo scorso primo marzo Di Bella venne nuovamente sentito dalla sezione disciplinare del Csm e ribadì il concetto. Nella programmazione del trojan i finanzieri furono sempre in accordo con i pm di Perugia «tenendo presente quello che era lo stile di vita … avendo notato che Palamara spesso si intratteneva la sera fuori casa con diversi soggetti abbiamo più volte messo la registrazione nelle ore serali e poi tenendo conto di quelle che erano le pregresse investigazioni e quello che era l’obiettivo delle nostre indagini». In un comunicato del 10 marzo 2021 Cantone ha, invece, dichiarato che il trojan non ha registrato l’incontro della sera del 9 maggio 2019, quello appunto della cena tra Palamara, Pignatone, «perché non era, come si è più volte già spiegato in tutte le sedi, programmato in quell’orario per la registrazione». Quanto dichiarato Cantone, però, non si concilia con la testimonianza Di Bella e con le abitudini di Palamara che era solito «intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone». Non si comprende perché la sera prima il trojan sia stato programmato fino alle due di notte, registrando anche i sospiri dei partecipanti all’incontro all’hotel Champagne, e la sera immediatamente successiva abbia smesso di registrare alle ore 16.00. Ma quanto dichiarato da Cantone appare smentito da alcuni documenti della Rcs, la società che ha fornito il trojan e che il Riformista ha pubblicato nei giorni scorsi. In particolare un tabulato dal quale risulta che il trojan nella giornata del 9 maggio 2019 ha registrato 93 progressivi, il primo alle ore 00:02:38 e l’ultimo alle ore 22:53:17, e una relazione del 29 luglio 2019 secondo la quale l’8 maggio 2019 il maresciallo Roberto D’acunto aveva programmato il trojan per registrare il giorno successivo dalle 6 pomeridiane fino alle 11:59:59 pomeridiane. E poi c’è la conversazione 187 fra Palamara e il togato Luigi Spina del 7 maggio 2019 ore 23:19 classificata da Di Bella «molto importante». Nella conversazione, ascoltata e trascritta alle ore 18.42 dell’8 maggio, quindi più di cinque ore prima dell’incontro dell’hotel Champagne, Palamara e Spina si accordano per vedersi con Cosimo (Ferri) Luca (Lotti) e i togati Lepre (Antonio) Morlini (Pierluigi). Di Bella, sempre nella testimonianza del primo marzo 2021, disse che «non ci sono riferimenti specifici alla riunione, né ai partecipanti, né all’orario e né al luogo della riunione». Nella richiesta di archiviazione della denuncia di Ferri per abuso d’ufficio nei confronti dei finanzieri, la pm romana Lia Affinito, moglie del colonnello dei carabinieri Maurizio Graziano, uno dei chattatori con Palamara, scrive che «nella telefonata sebbene si faccia riferimento ad un incontro per la serata successiva non vi è alcuna indicazione di dettaglio né di orario né di luogo e persino sui partecipanti». Al contrario di quanto sostenuto da Di Bella e dalla pm, nella conversazione si fanno come visto nomi e cognomi e si dice «domani sera». Il luogo è irrilevante perché ciò che rileva è la presenza del parlamentare. E poi nessun altro Cosimo – se non Cosimo Ferri – è emerso dalle indagini e nella rubrica del telefono di Palamara. Tale conversazione è dirimente perché escluderebbe la casualità dell’ascolto delle conversazioni fra i parlamentari Ferri e Lotti con Palamara e i cinque togati del Csm la sera dell’8 maggio all’hotel Champagne, rendendo tutto inutilizzabile.

Quella cena "muta". Il giallo del trojan che spiava Palamara. Cantone: "Cimice spenta durante l'incontro con Pignatone". Ma spuntano dei tabulati. Luca Fazzo - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. Un trojan che la sera prima sta acceso fino alle ore piccole, intercettando ciò che sarebbe illecito intercettare; e che la sera dopo invece viene spento a metà pomeriggio, cosicché una conversazione cruciale per capire i misteri della Procura di Roma rimane inascoltata. E dietro l'ultimo mistero del caso Palamara aleggia un interrogativo cruciale: chi gestiva davvero il trojan inoculato sul telefono di Luca Palamara, potente ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati? La Procura di Perugia? Il Gico della Guardia di finanza? O, come pare dire una analisi tecnica, una società privata? Il telefono di Palamara è stato aperto senza rilevare dove approdasse il trojan, e ormai il dato è irrecuperabile. Ma i consulenti di Luigi Panella, il difensore del deputato renziano Cosimo Ferri, intercettato insieme a Palamara, hanno trovato lo stesso trojan in un altro telefono. L'Ip (il codice identificativo) del server corrisponde a un indirizzo: Isola 5E del centro direzionale di Napoli. Non c'è nessuna sede giudiziaria né di polizia ma gli uffici di Rcs, l'azienda privata che ha fornito il software, e che ha sempre negato di avere trattato i dati. Capire per quali mani siano passate le registrazioni compiute nelle notti bollenti del maggio 2019, quando correnti e lobby decidevano le sorti della Procura di Roma, aiuterebbe a chiarire l'ultimo giallo della vicenda. Ovvero quello che accade la sera del 9 maggio, quando Palamara va al ristorante Mamma Angelina, ai Parioli, a festeggiare il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che va in pensione. La sera prima, il trojan ha registrato parola per parola l'incontro all'Hotel Champagne tra Palamara, Ferri, Lotti e altri membri del Csm, nonostante la Finanza sapesse bene che sarebbe stato presente un parlamentare. Invece che cosa si dicano alla cena dell'indomani Palamara e Pignatone non si sa, perché ufficialmente nelle ore dell'incontro il trojan era disattivato. Possibile? No, secondo i consulenti informatici della difesa di Ferri. Perché è vero che inizialmente il trojan era programmato per spegnersi alle 2 di mattino del 9 maggio. Ma alle 17,03 il sottufficiale della Finanza Dacunto riprogramma il sistema per continuare a registrare sino alle 02.00 del 10 maggio. Un altro sottufficiale, Correa, di lì a poco modifica ulteriormente, ma con una raffica di sei comandi in un secondo che non hanno nessun effetto. Mentre Palamara chiacchiera a cena con Pignatone, secondo i tecnici, il trojan registrava tutto. Se fosse vero, e se davvero l'intercettazione fosse stata tenuta nascosta, l'intera inchiesta andrebbe riscritta. Ieri Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, emette un comunicato per accusare i consulenti di Cosimo Ferri di avere preso lucciole per lanterne in base a una «interpretazione non corretta di alcune evidenze tecniche». Per Cantone «il trojan non ha registrato l'incontro perché non era programmato per l'orario in quella registrazione». La difesa di Ferri è convinta della buona fede di Cantone e dei suoi pm: ma non demorde, convinta che la stessa Procura perugina possa essere stata vittima di manovre per deviare il corso dell'inchiesta. E recupera i tabulati della Rcs scoprendo che nella serata del 9 maggio, quando secondo Cantone il trojan non era programmato per funzionare, in realtà registra in continuazione. L'ultimo progressivo, il numero 92, è delle 22,53, quando ormai Palamara e Pignatone erano all'ammazzacaffè. (Coincidenze: alla cena da Mamma Angiolina c'è anche un altro magistrato, il giudice Paola Roja. Tre sere fa, la cassaforte di casa della Roja viene svuotata)

La cena tra Palamara e Pignatone. Trojan e Palamara, Rcs non ha mai dato conferme. Avv. Leopoldo Facciotti su Il Riformista il 16 Marzo 2021. La RCS S.p.A. mi incarica di scrivere la presente -in relazione ai seguenti due articoli apparsi sulle edizioni del quotidiano “Il Riformista, in data 9 marzo 2021 e 11 marzo 2021– per chiedere che venga pubblicata la presente richiesta di immediata smentita, relativa alla non corrispondenza al vero delle circostanze evidenziate nelle seguenti frasi. Edizione 9 marzo 2021.

1. “Clamorosa conferma dell’azienda: sì, abbiamo spiato la cena con Pignatone”.

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai confermato a Il Riformista quanto asserito e di aver mai avuto, direttamente o indirettamente, alcun contatto -in merito- con lo stesso quotidiano, con conseguente irriferibilità alla stessa oltre che della conferma anche della frase riportata tra virgolette.

2. “Arriva oggi la “conferma” da parte della RCS la Società di intercettazioni che fornì alla Procura di Perugia il trojan”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai confermato a Il Riformista quanto asserito.

3. “Nel tabulato dell’Azienda milanese che abbiamo potuto visionare e che trovate all’interno”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai fornito al quotidiano Il Riformista il presunto tabulato in questione. A tal proposito in data 10-03-2021 RCS ha inviato una relazione alla Procura della Repubblica di Perugia -su richiesta della stessa- in cui tra le altre cose, viene spiegato che la figura indicata nell’articolo non è relativa a un tabulato di ambientali intercettate e che non esistono registrazioni per la sera del 09-05-2019.

4. “L’RCS ha fornito un tabulato tarocco, che trae il lettore in inganno fornendo informazioni non veritiere”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai fornito “un tabulato tarocco”

5. “Il riscontro alle tesi dei consulenti di Ferri arriva ora direttamente dalla Società di intercettazioni RCS. Nel tabulato dell’azienda milanese che Il Riformista ha potuto visionare”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver fornito alcun riscontro -diretto o indiretto- al quotidiano Il Riformista in ordine alle tesi dei consulenti di Ferri e di non aver fornito in visione al medesimo quotidiano il tabulato in questione.

6. “La conversazione non è stata registrata e la RCS ha fornito un tabulato tarocco che trae il lettore in inganno informazioni non veritiere”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver fornito alcun tabulato tarocco che trae il lettore in inganno fornendo informazioni non veritiere.

Edizione 11 marzo 2021

1. “e che la Società produttrice del trojan, RCS, ha confermato che quel file esiste”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai confermato al quotidiano Il Riformista tale circostanza e di non aver mai avuto con lo stesso alcun contatto diretto o indiretto riguardante l’argomento.

2. “Cantone: il trojan non spiò la cena ma RCS e Finanza lo smentiscono”

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai smentito al quotidiano Il Riformista tale circostanza e di non aver mai avuto con lo stesso alcun contatto diretto o indiretto riguardante l’argomento.

3. “ma quanto dichiarato da Cantone è smentito anche dai documenti dell’RCS, la Società che ha fornito il virus spia. Dal tabulato RCS pubblicato l’altro giorno in esclusiva da Il Riformista”.

Al riguardo, la RCS SpA, dichiara di non aver mai fornito, direttamente o indirettamente, al quotidiano Il Riformista il tabulato in questione.

La RCS SpA chiede che il contenuto della presente venga pubblicato con adeguato rilievo sul quotidiano Il Riformista.

Distinti saluti

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Risponde Paolo Comi

Prendiamo atto della puntualizzazione: il titolo fa erroneamente intendere che abbiamo avuto una interlocuzione con Rcs. Fatta questa premessa, il tabulato è vero o no? E se è vero (cosa fuori discussione essendo depositato presso la Sezione disciplinare del Csm, ndr), sarebbe allora interessante sapere per quale motivo “non esistono registrazioni per la sera del 9 maggio 2019” quando dalla sua lettura risulta invece che il trojan quel giorno rimase acceso fino alle ore 22.53.

I tanti misteri dell'inchiesta. Cantone ammette di avere gli sms tra Palamara e altri magistrati, perché li ignora? Paolo Comi su il Riformista il 12 Marzo 2021. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone è tornato nuovamente sugli sms (short message service, “messaggini” da 160 caratteri, senza bisogno di traffico dati per essere trasmessi, ndr) contenuti nel telefono dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. Il Fatto Quotidiano, riassumendo ieri quanto scritto dal Riformista nei giorni scorsi, ha riportato alcune dichiarazioni di Cantone secondo cui sarebbe una «fake news smentita dall’inoppugnabile circostanza che gli sms non solo erano stati acquisiti, ma erano stati regolarmente depositati agli atti del processo in corso». Al Fatto risulterebbe, poi, che gli sms erano stati depositati anche al Csm. Sul punto urge fare chiarezza. E tornare su quanto raccontato dal Riformista nelle scorse settimane a proposito di questi sms. La Procura di Perugia, come si può leggere dagli atti, aveva depositato una “copia forense” di quanto estratto dal cellulare di Palamara, senza provvedere all’inserimento di tale materiale al Tiap (trattamento informatizzato atti processuali), l’applicativo utilizzato per la gestione informatizzata dei documenti dei fascicoli penali (dibattimento, ufficio gip, riesame, misure di prevenzione). Questo applicativo, un archivio informatizzato, consente l’inserimento e la fruizione (visione ed estrazione di copia) degli atti in formato pdf del processo penale. A seconda delle fasi processuali, colui che implementa l’applicativo è il pm, il gip-gup, il giudice del dibattimento. Nella fase delle indagini preliminari è il pm che deve inserire tutti gli atti di indagine compiuti. Con la notifica della chiusura delle indagini, il pm deve mettere a disposizione dell’indagato e dei difensori tutti – nessuno escluso – gli atti di indagine. Con la richiesta di rinvio a giudizio la possibilità e l’onere dell’inserimento degli atti passa al gup il quale, nel contempo, fruisce degli atti inseriti dal pm nella fase delle indagini. Pertanto se il pm non ha inserito alcuni atti il gup non può fruirne, e così gli indagati ed i loro difensori. Con il decreto che dispone il giudizio l’inserimento degli atti passa al giudice del dibattimento il quale, a sua volta, fruisce degli atti inseriti dal pm e dal gup. Questa premessa, già fatta in passato dal Riformista, è necessaria per l’esatta valutazione di quanto accaduto riguardo le trascrizioni degli sms. Il 20 aprile dello scorso anno, in particolare, venne notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari a Palamara. Il giorno dopo i pm di Perugia contattarono la difesa di Palamara per prendere accordi in merito alla estrazione delle copie dell’intero procedimento. I magistrati fecero presente che, oltre agli atti visibili al Tiap, vi erano una serie di hard disk ove era riversata, tra le altre, la copia delle chat e degli sms duplicati dal telefono di Palamara. I difensori dell’ex presidente dell’Anm chiesero che fosse riversato in un apposito hard disk sia il contenuto del Tiap, ovvero tutti gli atti di indagine in formato pdf, sia copia di quanto estratto (chat, sms e non solo) dal telefono sequestrato a Palamara il 30 maggio 2019. Le copie, con tali modalità, vennero, quindi, consegnate agli avvocati del magistrato. Gli sms alla conclusione delle indagini preliminari, al pari dei contenuti di molte chat, non sono, però, stati analizzati ovvero lo sono stati solo in parte in ragione degli interessi investigativi. Quando i pm di Perugia inviarono alla Procura generale e al Csm, il 22 aprile 2020, tutto il materiale, precisarono che non erano stati in grado, considerata la mole, di poter fare una cernita delle chat rilevanti a fini disciplinari rispetto a quelle non rilevanti. È giusto, senza che nessuno si senta offeso, domandarsi allora per quale motivo siano stati sviluppati “ad hoc” solo dei temi investigativi e, a tale scopo, elaborate e valorizzate solo alcune parti delle chat e mai, questo è corretto dirlo, gli sms scambiati da Palamara con alcuni importanti magistrati. La risposta potrà fornirla,  siamo certi, Cantone.

Una cosa è certa: quel file è sparito. Cena tra Palamara e Pignatone: per Cantone il trojan era spento ma viene smentito da Rcs e Finanza. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Il trojan inoculato nel cellulare dell’ex zar delle nomine Luca Palamara “non ha mai” registrato i contenuti di una cena con l’allora procuratore Roma Giuseppe Pignatone e quindi non c’è alcuna intercettazione “sparita” dall’inchiesta condotta dai magistrati di Perugia. Lo ha sottolineato ieri il procuratore della Repubblica del capoluogo umbro, Raffaele Cantone. L’ex numero uno dell’Anac, senza mai citarlo, ha quindi risposto al Riformista che nei giorni scorsi aveva chiesto di conoscere che fine avesse fatto l’intercettazione della cena al ristorante Mamma Angelina la sera del 9 maggio fra Palamara, Pignatone e alti magistrati di piazzale Clodio. Quanto affermato dal Riformista si baserebbe su una consulenza di parte (effettuata dagli avvocati di Cosimo Ferri, ndr), prosegue Cantone, «che ipotizza questa possibilità sulla scorta di una interpretazione non corretta di alcune evidenze tecniche». «Si tratta – aggiunge – di una notizia assolutamente destituita di qualunque fondamento. Il trojan inoculato nel cellulare di Palamara non ha, infatti, affatto registrato l’incontro, perché non era, come si è più volte già spiegato in tutte le sedi, programmato in quell’orario per la registrazione. Non vi è quindi alcuna intercettazione sparita e, nello spirito di massima trasparenza, la Procura è disposta a fornire a qualunque organo istituzionale ne farà richiesta le informazioni e le risposte anche tecniche per dimostrare l’assoluta regolarità del suo operato. Ad oggi, fra l’altro, la regolarità dell’attività di intercettazione effettuata è stata ampiamente attestata da una lunga e dettagliata ordinanza di un giudice e se nuove circostanze sono state accertate esse potranno essere riproposte al giudice del processo in corso, essendo quella l’unica sede deputata all’accertamento dei fatti». Questa, dunque, la nota di Cantone. E questi, invece, i fatti. Sentito come testimone il 23 settembre scorso nel procedimento disciplinare a carico di Palamara, il maggiore del Gico, il reparto che effettuò gli ascolti, Fabio Di Bella, esordì dicendo che «abbiamo cercato sempre utilizzando le 5-8 ore che avevamo a disposizione di posizionare le registrazioni del trojan in più archi di giornate soprattutto la mattina presto laddove era possibile un incontro presso la scuola della figlia, l’ora di pranzo e le ore serali (…) Palamara era una persona che era solita intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone programmando quindi la registrazione nelle ore serali anche fino a tardi». E poi: «La serata dell’8 maggio (dove Palamara discusse di nomine all’hotel Champagne con Ferri, Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm, ndr) noi mettiamo la registrazione dalle ore 19:00 alle ore 2:00 del 9 maggio (…) come ho detto prima rispecchiava quelle che erano le abitudini di Palamara di intrattenersi con svariati soggetti fino a tarda sera. Tra l’altro (…) il 7 maggio noi programmiamo l’intercettazione ambientale fino a mezzanotte. Alle 23.50 interviene una telefonata tra Palamara e Lotito (Claudio, presidente della Lazio, ndr) nella quale i due si sentono e concordano di vedersi di lì a poco. Ovviamente avendo programmato la registrazione fino a mezzanotte non prendiamo l’incontro». Quanto dichiarato da Cantone contraddice, quindi, la testimonianza di Di Bella e le abitudini di Palamara che era solito «intrattenersi fino a tardi la sera e incontrare diverse persone». Non si comprende, infatti, perché la sera prima il trojan sia stato programmato fino alle due di notte, registrando l’incontro dell’hotel Champagne, e la sera immediatamente successiva abbia smesso di registrare alle 16.00. Ma quanto dichiarato da Cantone è smentito anche dai documenti della Rcs, la società che ha fornito il virus spia. Dal tabulato Rcs pubblicato l’altro giorno in esclusiva dal Riformista, risulta che il trojan nella giornata del 9 maggio 2019 abbia registrato 93 progressivi, il primo alle ore 00:02:38 e l’ultimo alle ore 22:53:17. E dalla relazione della società del 29 luglio 2019 risulta anche che la programmazione effettuata l’8 maggio 2019 dal maresciallo Roberto D’Acunto prevedeva l’accensione del trojan dalle 18 pomeridiane fino alle successive ore 23:59:59. «La spiegazione del dottor Cantone sull’assenza di intercettazioni della cena a cui era presente il dottor Pignatone non spiega un bel nulla. Anzi il riferimento alla cosiddetta programmazione del trojan rischia di essere grottesco. Parte cospicua dello scandalo ruota attorno a una cena svoltasi all’hotel Champagne. Forse il trojan era programmato sui nomi e sui cognomi e però questo renderebbe ancora più grave il fatto». Il commento di Fabrizio Cicchitto, presidente di Riformismo e Libertà.

Caos procure, Cantone: «Mai registrati dal trojan i colloqui della cena tra Palamara e Pignatone». Francesca De Ambra mercoledì 10 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Il trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara «non ha mai» registrato i contenuti della famosa cena con l’ex-procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. E questo significa che non esistono intercettazioni sparite dall’inchiesta di Perugia. A certificarlo è Raffaele Cantone, procuratore capo nel capoluogo umbro e quindi competente ad indagare sui magistrati romani. La questione non è nuova, ma continua a trovare una forte eco sui giornali, soprattutto sul Riformista. Il motivo è semplice: di Palamara il trojan ha captato tutto, persino i sospiri, ma non il contenuto della sua cena con Pignatone. Come si spiega? Da qui il sospetto che la solita manina l’abbia fatta «sparire dagli atti». Una ricostruzione che Cantone demolisce con puntiglio. «L’informazione – spiega in una nota – si fonda su una consulenza di parte che ipotizza questa possibilità sulla scorta di una interpretazione non corretta di alcune evidenze tecniche». Non è dunque un’autorità terza ad averlo acclarato, ma un consulente della difesa ad averlo ipotizzato. La realtà è un’altra. E Cantone la mette nero su bianco: «Il trojan inoculato nel cellulare del dott. Palamara non ha registrato l’incontro, perché non era programmato in quell’orario per la registrazione». Ragion per cui, «si tratta di una notizia assolutamente destituita di qualunque fondamento». Ciò premesso, aggiunge, «la Procura è disposta a fornire a qualunque organo istituzionale ne farà richiesta le informazioni e le risposte anche tecniche per dimostrare l’assoluta regolarità del suo operato». Parole che fugano ogni dubbio sulla correttezza dei magistrati di Perugia. Ma non quelli che ancora gravano  su chi all’epoca intercettava il magistrato poi radiato dall’ordine giudiziario. E vanno chiariti spiegando chi e perché decise di lasciare inattivo il trojan durante la cena. Perché se un dato si può affermare con chiarezza, è che chi ascoltava doveva per forza sapere che Palamara e Pignatone si sarebbero incontrati a cena ad una certa ora in un determinato ristorante. Cantone ha spiegato che di quell’incontro non c’è registrazione. Ora se ne dovrebbe capire il perché. E non è poco

La cena tra Palamara e Pignatone. Trojan e audio spariti, si sveglia il Parlamento: “Ora ispettori a Perugia”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Serve una ispezione urgente agli uffici giudiziari di Perugia. Ci sono troppe cose che non tornano. A richiedere al neo Guardasigilli, la professoressa Marta Cartabia, l’invio degli ispettori di via Arenula alla Procura del capoluogo umbro diretta da Raffaele Cantone, è stato ieri Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, tramite una interrogazione parlamentare. Il ministro della Giustizia è al corrente di quanto sta accadendo alla Procura di Perugia nell’indagine per corruzione a carico di Luca Palamara? Ha informazioni, ad esempio, su che fine abbia fatto l’intercettazione della cena fra Palamara e il procuratore Giuseppe Pignatone la sera del 9 maggio del 2019? È quanto si domanda il parlamentare di Iv. La “cena dei misteri” al ristorante romano Mamma Angelina era stata raccontata nei giorni scorsi dal Riformista che aveva acquisito la relazione tecnica della difesa del togato Cosimo Ferri, sotto disciplinare a Palazzo dei Marescialli, e i tabulati della società milanese di intercettazioni Rcs, incaricata dalla Procura di Perugia di fornire il trojan che aveva infettato il cellulare di Palamara. I fatti sono noti. Nell’indagine della Procura di Perugia, Palamara, Ferri, l’onorevole Luca Lotti (Pd), e cinque consiglieri del Csm, vennero intercettati la notte dell’8 maggio del 2019 mentre erano in una saletta dell’hotel Champagne di Roma intenti a discutere di incarichi. Le conversazioni, finite poi su tutte i giornali, causarono un terremoto al Csm, facendo saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. Della cena da Mamma Angelina del giorno successivo, il 9 maggio 2019, fra Palamara, Pignatone e altri importanti magistrati romani, invece, pur essendo il trojan inserito nel cellulare dell’ex zar delle nomine regolarmente programmato per l’ascolto quella sera, non si è mai saputo nulla. Evaporata. I consulenti di Ferri hanno scoperto il tentativo spasmodico del maresciallo del Gico Gianluca Orrea di cancellare la programmazione del trojan effettuata il giorno prima dal collega Roberto D’Acunto. Dai tabulati è emerso che il 9 maggio 2019, alle 11.45.13, Orrea era riuscito a impartire ben sei comandi distinti alla programmazione del trojan in un solo secondo! Un record assoluto che non aveva, però, sortito l’effetto sperato. I consulenti tecnici hanno dimostrato che i comandi impartiti da Orrea non erano comunque idonei a interrompere la registrazione programmata fino alla mezzanotte di quel giorno da D’Acunto. Quindi il trojan funzionò regolarmente e registrò le confidenze fra Palamara e Pignatone davanti a un piatto di pesce. Dove siano finite queste confidenze resta, però, un mistero. «Il brogliaccio di pg non fornisce alcun dato ulteriore a riguardo, documentando una carenza di informazioni di progressivi in quanto dal progressivo n. 58 del 9 maggio 2019 alle ore 01:59:58 si passa direttamente al progressivo n.80 delle ore 12:12:06 del 9 maggio 2019, dimostrazione che il comando delle ore 11:45:13 impartito da Orrea non sia stato eseguito dal sistema». Più chiaro di così… Il tabulato della società Rcf, pubblicato ieri, conferma poi quanto sopra, che quindi il trojan non si spense dopo le 11:45:13 del 9 maggio 2019. «È del tutto evidente che se il file contenente la registrazione di tale intercettazione realmente non esistesse, non si comprenderebbe la ragione per cui la società fornitrice del servizio abbia prodotto un tabulato alterato», scrive allora Giachetti. «Allo stesso modo – aggiunge – qualora invece il file esistesse e per motivi ignoti non risultasse agli atti, ciò rappresenterebbe un fatto di estrema gravità che solleva molti interrogativi sull’operato della magistratura inquirente e sulla polizia giudiziaria». Ecco quindi la necessità di una ispezione al fine di verificare «eventuali deficienze e/o irregolarità da parte degli uffici giudiziari. La difesa di Ferri, va detto, non aveva rinvenuto negli atti trasmessi da Perugia al Csm i files con le registrazioni audio della conversazioni. Moltissime di queste conversazioni, poi, non sono mai state trascritte. Nel fascicolo è presente solo il “brogliaccio delle attività” redatto dal Gico. Un po’ poco per una indagine che ha cambiato il volto della magistratura italiana. In serata è arrivata su questa vicenda anche la dichiarazione di Sabrina Pignedoli, europarlamentare del M5s, fin dall’inizio particolarmente attenta a quanto emerso dal Palamaragate. «È necessario avviare una indagine, se ancora non è stata avviata, per fare piena chiarezza su quanto accaduto», ha detto Pignedoli. La parola, ora, al ministro.

Anche i tabulati rivelano l'anomalia. Trojan acceso durante la cena tra Palamara e Pignatone, la conferma dai tabulati. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Marzo 2021. La cena fra Palamara e Pignatone del 9 maggio 2019 venne registrata. Dopo la clamorosa rivelazione, riportata la scorsa settimana dal Riformista ed emersa a seguito della consulenza tecnica effettuata dalla difesa del giudice Cosimo Ferri, arriva oggi la “conferma” da parte della Rcs, la società di intercettazioni che fornì alla Procura di Perugia il trojan che infettò il cellulare dell’ex zar delle nomine. Ma andiamo con ordine. Fino al mese scorso, prima che la difesa di Ferri, leader storico della corrente di destra Magistratura indipendente, decidesse di far luce sul funzionamento del trojan, si è sempre pensato che la cena del 9 maggio del 2019 al ristorante Mamma Angelina ai Parioli fra Palamara, Pignatone e importanti magistrati romani non fosse stata registrata. Ferri è accusato dalla Procura generale della Cassazione diretta da Giovanni Salvi di aver tenuto un comportamento “gravemente scorretto” nei confronti dei colleghi che concorrevano per il posto di procuratore di Roma e nei confronti dei consiglieri di Palazzo dei Marescialli, finalizzato a “condizionare le funzioni attribuite dalla Costituzione all’organo di governo autonomo della magistratura”. Ferri aveva partecipato la sera prima, l’8 maggio del 2019, insieme all’onorevole Luca Lotti, all’incontro presso l’hotel Champagne insieme a cinque consiglieri del Csm e allo stesso Palamara. Incontro interamente registrato proprio grazie al trojan. La non registrazione della cena della sera successiva al ristorante romano sarebbe stata dovuta, invece, a un cambio di programmazione dell’accensione del trojan da parte del maresciallo del Gico della finanza (il reparto che conduceva le indagini), Gianluca Orrea. Il maresciallo, la mattina del 9 maggio, era intervenuto sul software modificando la programmazione effettuata il giorno precedente dal collega Roberto D’Acunto che prevedeva per quel giorno una accensione dalle ore 18 alle successive 23.59. Il difensore di Ferri, l’avvocato romano Luigi Panella, aveva affidato a due consulenti tecnici altamente specializzati, l’ingegnere elettronico Paolo Reale, presidente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense, e il dottor Fabio Milana, perito iscritto all’Albo del Tribunale di Roma, il compito di capire cosa fosse successo. Secondo i due consulenti tecnici, il trojan la sera del 9 maggio era rimasto acceso, essendo impossibile un cambio di programmazione con l’inserimento di un orario antecedente al momento in cui si effettuava tale operazione. Nel caso specifico Orrea alle 11.45 del 9 maggio aveva inserito un orario di accessione di circa 10 ore prima rispetto al suo intervento, le 2 del mattino per l’esattezza: in buona sostanza, l’avvio della registrazione era stato spostato a sedici ore prima dell’orario originariamente fissato a partire dalle ore 18 dal collega D’Acunto. Il riscontro alle tesi dei consulenti di Ferri arriva ora direttamente dalla società di intercettazioni Rcs. Nel tabulato dell’azienda milanese che il Riformista ha potuto visionare e che vedete qui sotto, si legge chiaramente che la sera del 9 maggio il trojan rimase acceso fino alle ore 22.53. A questo punto gli scenari sono due. Nella prima ipotesi la conversazione, dopo essere stata registrata, è stata fatta sparire, al momento non si sa da chi, visto che non risulta depositata dai pm di Perugia agli atti del procedimento. Nella seconda, invece, la conversazione non è stata registrata e la Rcs ha fornito un tabulato tarocco che trae il lettore in inganno fornendo informazioni non veritiere. Il difensore di Ferri ha già annunciato che chiederà alla prossima udienza di conoscere dove sia finita questa conversazione. Lo stesso faranno le difese del pm Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina. Anche Fava, autore dell’esposto contro Giuseppe Pignatone, è sotto processo a Perugia e davanti la disciplinare del Csm. Le tempistiche in questa vicenda sono importantissime. La sera prima delle cena da Mamma Angelina, l’8 maggio del 2019 all’hotel Champagne, Palamara aveva discusso del successore di Pignatone alla Procura di Roma. Il nome che era stato fatto era quello di Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze, un magistrato “non ricattabile”, si disse. Palamara, la sera successiva, avrà dunque informato di questa decisione Pignatone? E in caso affermativo quale fu la risposta dell’attuale numero uno del tribunale pontificio? L’ex presidente dell’Anm, interpellato su questa circostanza, non ha commentato. Ma che nel silenzio tombale di tutti i giornali su questa vicenda ci siano molte cose che non tornano, lo dimostra anche l’atteggiamento della Procura generale della Cassazione. Nella scorsa udienza al Csm, Pietro Gaeta, l’avvocato generale che rappresenta la pubblica accusa, ha chiesto che venga sentito l’ingegner Duilio Bianchi della Rcs. Una testimonianza che non era stata inizialmente prevista. La Procura generale aveva citato solo i finanzieri del Gico.

Aver chiesto a dibattimento in corso di sentire anche Bianchi lascia intendere che le deposizioni dei finanzieri sull’utilizzo del trojan non sarebbero state esaustive. L’avvocato di Ferri, per la cronaca, ha gettato nel processo disciplinare un’altra “bomba” capace di azzerare tutta l’indagine di Perugia. L’articolo 268 del codice di procedura penale prevede che, per le intercettazioni, debbano essere utilizzati “esclusivamente” impianti installati nella Procura della Repubblica dove queste si svolgono. In questo caso presso la Procura di Roma, avendo i pm di Perugia chiesto la remotizzazione delle attività per agevolare il Gico della Capitale. I consulenti di Ferri hanno scoperto che il server era a Napoli e non a Roma. Questo elemento renderebbe tutto allora nullo. Una smacco incredibile per la Procura guidata da Raffaele Cantone.

Interrogati a Perugia i finanzieri. Misteri del trojan contro Ferri e della cena tra Palamara e Pignatone: interrogati i finanzieri responsabili delle intercettazioni. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Doveva essere il giorno dei chiarimenti alla sezione disciplinare del Csm. E invece i dubbi sulle modalità di conduzione dell’indagine di Perugia nei confronti di Luca Palamara da parte del Gico della guardia di finanza sono rimasti intatti. Il maggiore Fabio Di Bella e il maresciallo Gianluca Orrea, chiamati ieri a testimoniare nel processo a carico dei cinque ex consiglieri del Csm che parteciparono con Luca Palamara al celebre dopocena all’hotel Champagne con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, hanno più volte ripetuto di non aver capito che il “Cosimo” di cui si parlava in una conversazione del 7 maggio 2019 fosse proprio lui, nonostante lo avessero molte volte intercettato, pedinato e fotografato. Questa conversazione fra Palamara e il togato del Csm Luigi Spina, che precedeva l’appuntamento serale, era stata ascoltata e trascritta alle ore 18.42 dell’8 maggio 2019, quindi oltre cinque ore prima dell’incontro dell’hotel Champagne. I finanzieri durante l’intera testimonianza non sono riusciti a chiarire tale aspetto, nonostante il colloquio fosse anche stato qualificato “molto importante”. Che la testimonianza soprattutto di Di Bella non sia stata esaltante lo dimostra la richiesta della stessa Procura generale della Cassazione di sentire anche l’ingegnere Duilio Bianchi della Rcs, lo società che fornì il trojan agli investigatori, non inserito nella lista testi delle parti, poiché a costui Di Bella ha praticamente sempre fatto riferimento come se le indagini le avesse fatte lui e non la finanza. Nessuna domanda, poi, è stata fatta al maresciallo Orrea – né dai giudici, né dalla Procura generale, né – incredibilmente – dagli avvocati degli ex togati – su quanto risulta dalla relazione della società Rcs del 29 luglio 2019. Nella nota si legge che il sottufficiale del Gico interviene, interrompendola, sulla programmazione del trojan effettuata dal collega il giorno precedente. L’8 maggio del 2019, alle ore “1:33:53 PM” il maresciallo Roberto D’Acunto aveva infatti programmato l’orario in cui il trojan si doveva accendere dalle “6:00:00 PM”, prevedendo lo spegnimento alle successive “11:59:59 PM”. L’indomani mattina, Orrea, alle ore “11:45:13 AM” modificava la programmazione, inserendo un nuovo orario, “2:00:00 AM”. Si trattava di un orario antecedente al momento in cui veniva effettuata l’operazione. Tale modifica, di circa dieci ore prima, aveva l’effetto di far “impazzire” il software, sprogrammandolo e cancellando l’inserimento fatto da D’Acunto. La conseguenza dell’operazione di Orrea sarà quella che il trojan, inizialmente programmato per coprire tutta la serata del 9 maggio, dalle ore 18 alla mezzanotte, non intercetterà cosa si diranno a cena al ristorante dei Parioli Mamma Angelina Palamara, il procuratore Giuseppe Pignatone, e altri importanti giudici della Capitale. Il trojan ripartirà, come da programmazione, solo il giorno dopo, il 10 maggio, alle 9.18 del mattino.

I misteri del Palamaragate. Sansonetti: “Alla cena tra Pignatone e Palamara il trojan era acceso, che fine hanno fatto gli audio?” Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video editoriale torna sul caso Palamara. “In Italia la libertà di stampa ha un limite: non ci si può avvicinare alle procure. Per questo ci pensiamo noi. L’altro giorno vi abbiamo raccontato della questione Bianconi che avvertì Palamara che c’era un’inchiesta su di lui“. Sansonetti sottolinea che c’è “Una fusione tra giornalismo giudiziario e partito dei Pm che rende problematico sia il funzionamento della giustizia che il non funzionamento dell’informazione“. Il direttore poi prosegue: “Abbiamo oggi un’altra notizia abbastanza clamorosa. C’è una perizia sul trojan di Palamara dalla quale risulterebbe che non è vero che il trojan non funzionò durante la famosa cena tra Pignatone, Palamara e molti alti magistrati in cui si stabiliva il successore alla procura di Roma. Voi sapete che abbiamo scritto varie volte che si spense e provato a spiegare perché si spense. Ma non è così“. Sansonetti quindi prosegue: “La perizia stabilisce che il trojan non si spense poiché era impossibile spegnerlo. Quindi quella cena fu registrata ma il file è sparito. Non si sa che fine ha fatto. Non lo sappiamo. Ragionevolmente la procura non ce l’ha poiché ne saremmo a conoscenza. E’ uno scandalo clamoroso, ma tutti la ignoreranno“.

Altre anomalie dall'inchiesta di Perugia. Palamaragate, interviene Di Matteo: “Perché non furono intercettati i corruttori?” Paolo Comi su Il Riformista il 3 Marzo 2021. L’indagine della Procura di Perugia, che ha cambiato gli assetti di potere al Consiglio superiore della magistratura e stroncato la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, continua a rivelarsi una fucina di “anomalie”. Le ultime in ordine di tempo sono state evidenziate questa settimana con la deposizione dei finanzieri del Gico di Roma, il reparto a cui i pm del capoluogo umbro avevano delegato le indagini nei confronti dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. La deposizione è avvenuta nel processo disciplinare a carico degli ex togati che avevano partecipato al dopo cena a maggio del 2019 all’hotel Champagne con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. È stato il pm antimafia Nino Di Matteo, componente della Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli, a mettere in luce alcune di queste “particolarità” investigative. Va dato atto al magistrato siciliano, spesso oggetto di critiche per alcune sue prese di posizione, di ricoprire il ruolo di giudice disciplinare con grande attenzione e professionalità. Dopo un paio d’ore che il maggiore Fabio Di Bella del Gico cercava di ricostruire stancamente la genesi dell’indagine rispondendo alle domande della Procura generale della Cassazione e dei difensori degli ex togati, Di Matteo decide di chiedere la parola al presidente del collegio e formulare un paio di domande al teste. Ma facciamo prima un passo indietro. Nell’indagine di Perugia, Palamara è accusato di essere stato corrotto dall’imprenditore laziale Fabrizio Centofanti. In cambio di viaggi, cene, e altre utilità, il magistrato sarebbe stato a disposizione dell’imprenditore per favorire nomine di procuratori amici di quest’ultimo. Centofanti, si ricorderà, aveva rapporti di frequentazione con tantissimi magistrati, ad iniziare dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. I pm di Perugia per acquisire ulteriori prove, decidono agli inizi del 2019 di intercettare Palamara. Ma non Centofanti. Al telefono di Palamara, poi, verrà inoculato anche il virus trojan. Circostanza curiosa, dal momento che il reato di corruzione, è un reato a concorso necessario, in cui la presenza di almeno due soggetti, il corrotto e il corruttore, rappresenta l’imprescindibile elemento costitutivo dell’ipotesi delittuosa. A Perugia, invece, si concentrano solo sul corrotto. Alla precisa domanda sul perché di tale scelta investigativa, Di Bella non risponde e “scarica” la responsabilità sui pm di Perugia. Sibillina, poi, un’altra domanda di Di Matteo, proprio sulla genesi dell’indagine. Nella ricostruzione di Di Bella, il Gico era stato in precedenza delegato dalla Procura di Roma a svolgere accertamenti in un fascicolo sempre a carico di Centofanti e degli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara, quest’ultimo l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. Le accuse a loro carico erano quelle di corruzione in atti giudiziari e false fatturazioni. Uno stralcio di questo fascicolo, quando emergeranno i rapporti fra Centofanti e Palalamara, sarà trasmesso a maggio del 2018 da Roma a Perugia, Procura competente per i reati dei magistrati romani. La Procura umbra, come quella di Roma, si avvarrà del Gico della Capitale per le indagini. Di Matteo, anche in questo caso a bruciapelo, chiede se le risultanze delle indagini di Perugia, trattandosi di soggetti che erano stati già indagati a Roma, venivano per caso riferite anche ai pm di piazzale Clodio, e quindi agli ex colleghi di Palamara. Assolutamente no, era stata la risposta Di Bella. L’ultima stranezza riguarda il trojan. Ad Amara e Calafiore, per inocularlo, i finanzieri inviarono un Sms con un link di attivazione del virus. I due non lessero il messaggio e il virus non si attivò. A Palamara, con la complicità del gestore telefonico, i finanzieri bloccarono direttamente il cellulare. Perché questa disparità di trattamento? Altra domanda destinata a non avere una risposta. In estrema sintesi, dunque, a Perugia, in una indagine per corruzione, il corruttore non viene intercettato. In compenso si intercetta a tappeto il corrotto, per fatti risalenti ad almeno tre anni prima. Per un banale coincidenza, però, intercettando il corrotto, i pm di Perugia hanno ricevuto per mesi notizie su quanto accadeva al Csm. Vedasi la nomina di Marcello Viola.

Dagospia il 19 febbraio 2021. Estratti da “Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura”, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara (Rizzoli). Cane non morde cane. La marcia su Roma di Pignatone.

Mi ha spiegato la regola aurea del tre, e quanto possono pesare le inchieste delle procure negli equilibri anche istituzionali del nostro Paese, quando ci sono dei giornalisti che amplificano e una parte politica che beneficia della triangolazione. Ora, immagino che decidere chi debba andare al vertice delle procure più importanti significhi avere in mano le leve che contano. Del resto, se siamo qui a parlarne, e perchè lei negli ultimi anni e stato un maestro nel gioco delle sedie.

«Si, ma non da solo. Finita la stagione del berlusconismo imperante, entriamo quindi nel 2012, arriva la quiete sul fronte politico. I governi di Mario Monti e, dopo le elezioni del 2013, di Enrico Letta si tengono ben alla larga dal voler interferire con la magistratura. E la magistratura non ha motivo di interferire con loro. Mi dedico quindi a tempo pieno all’attività in cui riesco meglio: costruire la rete della magistratura italiana. Per avere tutti gli elementi necessari, le propongo una fuga in avanti: inizio 2019, quando, sapendo di essere indagato, comincio a usare un minimo di precauzioni soprattutto nelle comunicazioni – sono un magistrato e so come funziona un’inchiesta – e non apro ne e-mail ne messaggini di cui non identifico il mittente – saprò poi che questa cosa manda fuori di testa chi invece vorrebbe il contrario, cioè entrare nel mio cellulare attraverso un mio click casuale.  La mattina del 3 maggio 2019, alle 10:20, pero, casco nella trappola. Sul mio telefonino ricevo il seguente messaggio da Vodafone, la compagnia che gestisce la mia scheda: «Gentile cliente, stiamo riscontrando problemi di linea che potrebbero impedire il corretto funzionamento del tuo dispositivo. Esegui subito l’aggiornamento su questo link, a breve ti contatterà il nostro servizio tecnico per configurare il tuo dispositivo». Mi fido, clicco sul link ed e la mia fine. Dentro quel messaggio la procura di Perugia, in accordo con la compagnia telefonica, ha incorporato il virus trojan che da quel momento, le 10:24 del 3 maggio, alle 11:10 del 31 maggio – mentre ero impegnato nelle trattative per scegliere il nuovo procuratore di Roma che dovrà sostituire l’uscente Giuseppe Pignatone – spierà la mia vita giorno e notte. Il contenuto di quelle trascrizioni, come pure le chat e i messaggi estratti dal cellulare, e ormai noto, i giornali ne hanno pubblicati centinaia.  C’è di tutto, ma non c’è tutto. Penso, e sono solo degli esempi, alla nomina del procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, fortemente sostenuto dal Pd locale, e a quella di Gianpiero Di Florio, che nel dicembre del 2014 il Csm targato Legnini nominerà procuratore di Vasto (fugando in questo modo i dubbi e le perplessità che durante la mia presidenza all’Anm erano stati sollevati in occasione dell’arresto di Del Turco, da tutti stimato per la sua attività di presidente della commissione antimafia, per il mancato rinvenimento della somma di denaro oggetto della corruzione). Ma più che altro emerge il sottobosco della lottizzazione: piccoli piaceri, tipo i biglietti per lo stadio, pressioni e liti per nomine di secondo piano, invidie e gelosie tra colleghi, e cose simili. C’è pure il magistrato che per una nomina si segnala non con il proprio nome e cognome ma in qualità di «marito di» una collega più importante e famosa. L’abbiamo nominato senza sapere nulla di lui, neppure il cognome, solo in quanto «marito di». E c’è il «pizzino» del collega del Csm Francesco Cananzi, oggi in prima fila a chiedere il rinnovamento, che mi da la sua terna di colleghi da votare alla cieca. Per inciso, Francesco Cananzi e il figlio di Raffaele Cananzi, deputato nella XIII legislatura per l’Ulivo e sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri nel secondo governo Amato. Forse anche per questo la corrente di Unicost napoletana indicherà il suo nome come componente del Csm, preferendolo a quello di altri magistrati». (…)

Non giriamo attorno alla questione. Lotti aveva un problema con un’inchiesta a Roma, lei con una a Perugia. Scegliere i nuovi vertici delle due procure qualche problema di conflitto di interessi lo crea.

«Non lo nego, ma la tesi secondo cui io solo volessi Viola a Roma per salvare Lotti e Renzi padre dal processo Consip non sta in piedi già di suo per motivi tecnici – l’inchiesta era già ben incardinata – ancora prima che politici, e a maggior ragione e improponibile visti gli sponsor di alto profilo di cui godeva Viola. Pertanto, la soluzione di questo giallo sta nella risposta a una domanda semplice: chi e perchè non voleva che Viola diventasse procuratore di Roma?»

Immagino che lei ne abbia una.

«Non lo voleva, certamente, la corrente di sinistra. Non lo volevano diversi colleghi della procura di Roma, come mi riferi il 7 maggio il giornalista Giovanni Bianconi del «Corriere della Sera» in una conversazione anch’essa registrata dal trojan, alle 16:27 per essere precisi».

Non lo voleva il procuratore uscente Pignatone? 

«Io so che a capo dell’operazione trojan su di me c’è il colonnello Gerardo Mastrodomenico, capo del Gico – il reparto specializzato della Guardia di Finanza –, uomo di fiducia di Pignatone che l’aveva portato con se a Roma da Reggio Calabria. Interrogato dal Csm, Mastrodomenico sostiene di aver semplicemente eseguito gli ordini e non sa spiegare alcuni buchi nelle registrazioni delle mie conversazioni, tra cui quelli che avrebbero potuto compromettere Pignatone. Continuerò a difendermi nel processo e ho rispetto per i pubblici ministeri di Perugia, ma sono convinto che altri hanno usato me per stoppare una nomina che altrimenti non avrebbero avuto la forza di fermare in altro modo…».

Antonino Monteleone - 24/06/2020 – per Il Giornale. Scopriremo col tempo se Luca Palamara è davvero un corrotto che ha asservito la sua funzione di membro del Csm in cambio di favori e utilità oppure se quella tra Luca Palamara e l'imprenditore Fabrizio Centofanti era un'amicizia contrassegnata dalla generosità del più danaroso tra i due. Di certo l'inchiesta della Procura di Perugia, che indagando su un presunto sistema corruttivo che nascerebbe in Sicilia (il cosiddetto «sistema Siracusa»), ha scoperchiato e messo a nudo il meccanismo di funzionamento dell'organo di autogoverno della magistratura italiana è destinato a segnare uno spartiacque anche nella delicata e spinosa materia delle intercettazioni. Sono necessarie alcune premesse veloci, ma importanti.

Uno: in tema di intercettazioni telefoniche e informatiche la riforma targata dall'ex ministro della Giustizia Andrea Orlando e quella, ancor più manettara, firmata dall'attuale inquilino di Via Arenula Alfonso Bonafede - e le sospensioni della sua entrata in vigore - hanno spinto perfino il pubblico ministero di Perugia Gemma Miliani a definire «magmatico» il quadro normativo in vigore.

Due: perché il lettore lo abbia chiaro: per alcuni reati non c'è più il limite che vede «nei luoghi di privata dimora» uno spazio interdetto all'orecchio delle Procure. E questo limite cade anche quando «NON vi è il fondato motivo di ritenere» che in quei luoghi si stia commettendo «attività criminosa».

Tre: non si mette in discussione l'utilità dello strumento in sé e quindi la necessità che - visto il dilagare della corruzione nella pubblica amministrazione - il «virus di Stato» possa infettare i dispositivi (computer, tablet, telefoni) di chi è sospettato di tradire la fedeltà all'istituzione servita.

Quattro: le riforme che avrebbero dovuto limitare fortemente la pubblicazione delle intercettazioni alle sole ritenute «rilevanti» non hanno impedito lo sputtanamento della vita privata di Palamara e non solo.

Ma fatte le debite premesse qui il tema è un altro: è interessante osservare «come» avviene l'infezione dei nostri apparati e leggendo le carte di Perugia appare un provvedimento molto particolare adottato dal pubblico ministero. Per infettare un dispositivo elettronico di ultima generazione, al netto di molte variabili tecniche che sarebbe superfluo elencare in questa sede, serve un «aiutino» da parte del proprietario. La polizia giudiziaria lancia l'esca e i nostri investigatori si arrovellano su come rendere appetitosa quest'esca che di solito è un link contenuto in un sms che riceviamo da un contatto che ci sembra familiare; l'allegato contenuto in una mail che riteniamo attendibile; ecc.; ma il pesce... deve comunque abboccare. Ecco nell'inchiesta di Perugia alcuni «pesci» si sono fatti furbi e non abboccano. Nemmeno Luca Palamara. Dunque si passa alle maniere forti. La Guardia di finanza, esperta in materia, suggerisce al Pm la strada da seguire: bloccare tutte le chiamate in uscita dal telefono di Palamara, dunque costringerlo - nel tentativo di risolvere il problema - ad abboccare a qualunque «esca». Il Pm chiede il permesso di infettare il telefono di Palamara, ma non dice niente al Gip, che autorizza a marzo del 2019, del metodo che gli ha suggerito la Guardia di finanza (lo scriverà in una nota a piè di pagina nella richiesta di proroga) e che intende adottare per costringere Palamara a cadere nella rete del trojan realizzato dalla società Rcs Spa di Milano. Così il 30 aprile il Pm Miliani firma il «Decreto di interruzione temporanea chiamate uscenti su apparato mobile» in pratica un ordine per il gestore Vodafone di rendere inutilizzabile il telefono di Palamara «al fine di simulare un disservizio» tramite il quale «procedere all'infezione». E Palamara, spiazzato da questo inconveniente e dopo avere tentato invano di risolvere il problema con l'assistenza clienti, non appena sul display del suo iPhone appare un pop-up che recita pressappoco così: «Rilevata anomalia chiamate in uscita, clicca qui per il reset della configurazione di rete» non ci pensa due volte, clicca e da quel momento lo smartphone non è più (solo) il suo. Bene qual è il problema? Apparentemente nessuno, ma forse c'è. La legge stabilisce per quali reati si può intercettare. Eppure niente dice sulle tecniche da adottare in materia di trojan. Tanto che persino il Garante per la privacy, Antonello Soro rivolge al Parlamento un appello a «circoscrivere l'ambito applicativo» di questo strumento sia per prevenire la «vulnerabilità del compendio probatorio, se allocato in server esteri» o, peggio, che «degenerino in strumenti di sorveglianza massiva». Chiedere al gestore telefonico, che prima si limitava ad un'opera «passiva», cioè mettere a disposizione il flusso telefonico e telematico del bersaglio, di compiere un'azione «attiva» che consiste nel simulare un malfunzionamento e interrompere le chiamate in uscita, può considerarsi una perdita di «neutralità» del fornitore del servizio che la legge dovrebbe disciplinare più opportunamente? Sembra uno scherzo del destino, ma l'effetto devastante del «virus di Stato» manifesta i suoi effetti proprio in un'inchiesta che vede al centro un magistrato e la sua rete fatta di colleghi in toga e mondo politico e che ha «sconcertato» il presidente della Repubblica potrebbe avere l'effetto di spingere a un'urgente riflessione sulla necessità che tecnologie dal potenziale illimitato siano sottoposte a limiti ancora più stringenti.