Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LA GIUSTIZIA

 

QUARTA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le condanne.

Cucchi e gli altri.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Massimo Bossetti è innocente?

Il DNA.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpevoli per sempre.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Morire di TSO.

Parliamo di Bibbiano.

Nelle more di un divorzio.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

L’alienazione parentale.

La Pedofilia e la Pedopornografia.

Gli Stalker.

Scomparsi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?

La Giustizia non è di questo Mondo.

Magistratura. L’anomalia italiana…

Il Diritto di Difesa vale meno…

Figli di Trojan: Le Intercettazioni.

A proposito della Prescrizione.

La giustizia lumaca e la Legge Pinto.

A Proposito di Assoluzioni.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Verità dei Ris

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Le Mie Prigioni.

I responsabili dei suicidi in carcere.

I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Gli scherzi della memoria.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La responsabilità professionale delle toghe.

Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Adolfo Meciani.

Alessandro Limaccio.

Daniela Poggiali.

Domenico Morrone.

Francesca Picilli.

Francesco Casillo.

Franco Bernardini.

Gennaro Oliviero.

Gianni Alemanno.

Giosi Ferrandino.

Giovanni Bazoli.

Giovanni Novi.

Giovanni Paolo Bernini.

Giuseppe Gulotta. 

Jonella Ligresti.

Leandra D'Angelo.

Luciano Cantone.

Marcello Dell’Utri.

Mario Marino.

Mario Tirozzi.

Massimo Luca Guarischi.

Michael Giffoni.

Nunzia De Girolamo.

Pierdomenico Garrone.

Pietro Paolo Melis.

Raffaele Chiummariello.

Raffaele Fedocci.

Rocco Femia.

Sergio De Gregorio.

Simone Uggetti.

Ugo de Flaviis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’uso politico della giustizia.

Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

I Giustizialisti.

I Garantisti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati specializzati.

Le Toghe Candidate.

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Le Intimidazioni.

Palamaragate.

Figli di Trojan.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Magistratopoli.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giornalistopoli.

Le Toghe Comuniste.

Le Toghe Criminali.

I Colletti Bianchi.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della Moby Prince.

Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.

L’affaire Modigliani.

L’omicidio di Milena Sutter.

La Vicenda di Sabrina Beccalli.

Il Mistero della morte di Christa Wanninger.

Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.

Il Mistero di Marta Russo.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Charles Sobhraj.

Il Mistero di Manson.

Il Caso Morrone.

Il Caso Pipitone.

Il Caso di Marco Valerio Corini.

Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.

Il Caso Claps.

Il Caso Mattei.

Il Mistero di Roberto Calvi.

Il Mistero di Paola Landini.

Il Mistero di Pietro Beggi.

Il Mistero della Uno Bianca.

Il Mistero di Novi Ligure.

Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.

Il mistero del delitto del Morrone.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Mistero del Mostro di Milano.

Il Mistero del Mostro di Udine.

Il Mistero del Mostro di Bolzano.

Il Mistero della morte di Luigi Tenco.

Il Giallo di Attilio Manca.

Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.

Il Mistero dell’omicidio Varani.

Il Mistero di Mario Biondo.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il Mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Cranio Randagio.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.

Il Mistero di Saman Abbas.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.

Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.

Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.

Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.

Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.

Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.

Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.

Il Mistero di Roberto Straccia.

Il Mistero di Carlotta Benusiglio.

Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.

Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.

Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.

Il Giallo di Sebastiano Bianchi.

Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.

Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il Mistero della "Signora in rosso".

Il Mistero di Polina Kochelenko.

Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.

Il Mistero di Giulia Maccaroni.

Il Mistero di Tatiana Tulissi.

Il Mistero delle sorelle Viceconte.

Il Mistero di Marco Perini.

Il Mistero di Emanuele Scieri.

Il Mistero di Massimo Manni.

Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.

Il Mistero di Bruna Bovino.

Il Mistero di Serena Fasan.

Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.

Il Mistero della morte di Vittorio Carità.

Il Mistero della morte di Massimo Melluso.

Il Mistero di Francesco Pantaleo.

Il Mistero di Laura Ziliani.

Il Mistero di Roberta Martucci.

Il Mistero di Mauro Romano.

Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo. 

Il Mistero di Wilma Montesi.

Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.

Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.

Il Mistero di Maurizio Gucci.

Il Mistero di Maria Chindamo.

Il Mistero di Dora Lagreca.

Il Mistero di Martina Rossi.

Il Mistero di Emanuela Orlandi.

Il Mistero di Gloria Rosboch.

Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".

Il Mistero del delitto di Garlasco.

Il Mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.

Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.

Il giallo di Stefano Ansaldi.

Il Giallo di Mithun.

Il Mistero di Stefano Barilli.

Il Mistero di Biagio Carabellò.

Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.

Il Caso Imane.

Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero di Serena Mollicone.

Il Mistero di Teodosio Losito.

Il Caso di Antonio Natale.

Il Mistero di Barbara Corvi.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Roberta Siragusa.

Il Caso di Niccolò Ciatti.

Il Caso del massacro del Circeo.

Il Caso Antonio De Marco.

Il Giallo Mattarelli.

Il Giallo di Bolzano.

Il Mistero di Luca Ventre.

Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.

Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.

Il Mistero di Federico Tedeschi.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero di Gianmarco Pozzi.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della strage di Bologna.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’uso politico della giustizia.

«Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». Intervista ad Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, «La politica vuole il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». Valentina Stella su Il Dubbio il  7 dicembre 2021.

Per Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, «la politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». E ancora: «Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non é bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati».

Come legge le recenti elezioni nei distretti locali dell’Anm?

Bisogna tenere presente che dai soli distretti di Roma e Palermo non si può ricavare una misurazione esatta dell’andamento dei nuovi assetti all’interno della magistratura. Certamente però esprimono forme di malessere in parte diverse, visto che nella prima ha vinto Magistratura Indipendente e nella seconda i 101. Mentre questi ultimi rappresentano un voto di protesta, il risultato romano esprime una sorta di complessiva presa d’atto della magistratura laziale sul fatto che non si può far coincidere la vicenda Palamara semplicemente con quella di due gruppi associativi che sono rimasti più direttamente impigliati nel trojan e postergando tutto il resto. Credo che i colleghi abbiano ritenuto che le responsabilità, che all’inizio sembravano troppo spinte verso alcune componenti, vadano invece meglio ripartite tra tutti i gruppi associativi.

Il cammino di Unicost è sicuramente più in salita.

È probabilmente più complesso. A parte l’Hotel Champagne, nelle chat di Palamara ci sono molti più colleghi di quel gruppo associativo coinvolti. Mentre da un lato ci sono alcuni esponenti di una corrente, MI, che hanno lavorato solo – si fa per dire – per sponsorizzare un magistrato alla Procura di Roma, dall’altro lato le chat di Palamara hanno evidenziato una rete diffusa di collegamenti e contatti tra molti appartenenti ad Unicost. In pratica nel voto sembrano aver avuto più peso le chat che l’incontro all’hotel Champagne. Lo scarto vero di tutta questa vicenda sarà la nomina del Procuratore di Roma. Questa vicenda, se passata al setaccio, rivela debolezze associative ma anche cedevolezze istituzionali. Sembra che le valutazioni dell’Hotel Champagne fossero più prossime al corretto merito di quanto lo siano state successivamente quelle del Consiglio Superiore della Magistratura e le sentenze della giustizia amministrativa vanno in quella direzione.

Non c’è il pericolo che per una parte della magistratura la dura sanzione inflitta a Palamara possa estinguere il problema?

Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non é bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati. Quindi si tratta di un problema che non attiene alla rifondazione morale, anche perché la maggior parte della magistratura è sana, ma alla necessità di fissare regole che risultino in qualche misura inderogabili quando si tratta di andare a valutare gli incarichi direttivi e a decidere la carriera dei magistrati. Non è possibile che l’autogoverno della magistratura si trasformi in una sorta di spazio vuoto in cui si creano le regole per poi violarle. Sono state regole lasche a generare un carrierismo ma soprattutto quel clientelismo che costringe i giudici a soggiacere alle disponibilità e alle concessioni dei capi- corrente. Le regole devono essere fissate per legge e non per circolare. In questo 101 ha un vantaggio perché punta il dito sulle regole.

E punta sul sorteggio.

Sono contrario al sorteggio. Non si può fare tabula rasa del Consiglio. Il presidente Mattarella nel suo discorso alla Scuola superiore della Magistratura ha detto: «L’attività del Csm, sin dal momento della sua composizione, deve mirare a valorizzare le indiscusse professionalità su cui la Magistratura può contare, senza farsi condizionare dalle appartenenze». Quindi ha fatto capire che una legge elettorale che punti al sorteggio non è compatibile con la Costituzione. Aggiungo che sarebbe una resa per la magistratura. Scegliere i migliori è incompatibile con il sorteggio. Rappresenta, quella del Quirinale, una forte indicazione sul tipo di legge elettorale che il legislatore dovrà configurare. Queste “indiscusse professionalità” sono dei colleghi che negli ultimi dieci, quindici anni sono completamente scappati dalla vita associativa, che lavorano tanto e in silenzio. Recuperare questi colleghi dagli anfratti in cui si sono rifugiati per seguire la propria idea di giustizia al riparo da influenze è una operazione complicata, per un sistema abituato ad altri metodi.

Torniamo un attimo alla questione degli incarichi semidirettivi e direttivi.

I tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di tutta una categoria di magistrati che, come loro bravissimi, erano penalizzati dall’anzianità per ricoprire determinati ruoli, sono finiti. La magistratura italiana vive in una aurea mediocritas: non ci sono quelle eccellenze, quelle punte di novità per le quali occorra ancora derogare alla regola dell’anzianità. Quest’ultima, ovviamente senza demerito, può essere tranquillamente ripristinata e aggiustata. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da un rampantismo carrieristico fortemente incentivato dall’essersi fatto beffa dell’anzianità.

Ma non le sembra che le correnti ancora non vogliano abbandonare alcune trincee, mentre Mattarella, Cartabia e Ermini costantemente ricordano che l’unica trincea è quella dell’indipendenza e autonomia?

È crollato un sistema e ciò porta ad una serie abbastanza numerosa di regolamenti di conti interni alla magistratura. Il legislatore dovrebbe avere il coraggio e la forza, che non ha, di tracciare delle linee chiare. La politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa, che non sono solo quelli dei processi ma anche quelli che si innestano su rapporti e vicinanze, che caratterizzano quel mondo opaco della contiguità tra le due realtà. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico. Manca il coraggio di dire che il mio destino di politico non può dipendere dal Procuratore della Repubblica e di invocare regole coerenti. Ci ha provato Renzi ma ora mi pare che non stia messo benissimo.

Nel dopo Palamara, la magistratura è pronta ad abbandonare il suo ruolo di moralizzatrice?

Certo. L’aspetto positivo dell’affaire Palamara è l’aver intaccato, non tanto l’idea del magistrato custode della moralità, ma il moralismo. I magistrati con una mano complottavano per le carriere e con l’altra pretendevano di giudicare l’abuso d’atti di ufficio di un sindaco o di un funzionario. La scoperta del clientelismo ha finalmente collassato il moralismo. Che poi i magistrati non debbano esercitare un controllo sulla moralità pubblica è un altro discorso ancora. Luciano Violante qualche giorno fa sul Foglio individua in una norma del codice di procedura penale, ossia l’articolo 330 ( acquisizione delle notizie di reato, ndr) la rottura della separazione tra potere giudiziario e potere amministrativo. Il pm può acquisire anche di propria iniziativa le notizie di reato, una crisi del principio di separazione dei poteri dice Violante, perché non è più la Pg a portare la notizia di reato. Ciò ha fatto sì che la magistratura si impossessasse del controllo di legalità che non le appartiene. E a questo fenomeno è molto complicato mettere un freno. D’altra parte nel Paese si sono mossi gruppi di magistrati e di Pg coesi l’uno con l’altro che hanno fatto carriera insieme e si promuovono a vicenda, ficcandoci dentro qualche giornalista, come ricorda Palamara.

Ma non ci sono anche Pg che fanno concorrenza alle Procure?

Ci hanno provato fino a qualche decennio fa. Poi tre o quattro inchieste ben assestate sul Ros dei carabinieri hanno fatto capire a tanti che era meno pericoloso sottostare alle indicazioni del Pubblico ministero.

L'opera di Verdi. Il Machbeth racconta il carrierismo delle toghe: la brama, la colpa e il potere. Eduardo Savarese su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. «Pien di misfatti è il calle della potenza. E mal per lui che il piede dubitoso vi pone e retrocede». Questo declama Lady Macbeth nel suo ardimentoso recitativo, atto primo di quel Macbeth verdiano – custode della più affilata meditazione sul potere – che apre oggi la stagione scaligera. Secondo la tragedia shakespeariana, in un remoto regno di Scozia il prode Macbeth, di ritorno da una delle tante vittorie col compagno d’armi Banquo, fa un incontro incredibile: un gruppo di streghe gli profetizza una serie di titoli (prima signore di Cawdor, poi, addirittura, re di Scozia). Da questo momento Macbeth, incitato dalla spietata consorte, tenterà di realizzare, con plurimi omicidi politici, il vaticinio delle streghe: uccide nottetempo il re Duncan mentre è ospite del loro castello, uccide Banquo, uccide la moglie e i figli di Macduff. Il sangue cerca altro sangue e il potere che pare consolidato dall’ennesimo atto di violenza riprende il giorno dopo a vacillare. Nel comporre l’opera Verdi volle snellire la fonte letteraria per concentrarsi su lui (Macbeth), lei (Lady), loro (le streghe): il potere si nutre sempre di qualche complice sodalizio, di un patto tra solitudini. Mentre Macbeth all’inizio, perseguitato dai sensi di colpa, è titubante (Lady canterà “quell’animo trema, combatte, delira”), sua moglie lo spinge senza tentennare (“il fatto è irreparabile”), fino al punto in cui le parti si invertono: Lady morirà, perseguitata in tetre notti di sonnambulismo dal sangue irredimibile degli assassinati, Macbeth affronterà con la sua “fibra inaridita” l’ultima battaglia per un potere che, infine, i nemici polverizzeranno. Ma a dettare le scelte dei due sono profezie ingannevoli, dalle quali i “coniugi” si sentono rassicurati: le streghe sembrano agevolare la scalata al potere, ma poi abbandonano beffardamente lo scalatore (magia e tecnologia giocano partite analoghe, dunque). Verdi ci ha visto giusto: nella triangolazione Macbeth-Lady-Streghe c’è l’essenziale della dinamica stritolante del potere. Certo, non ogni potere è omicida, non ogni potere è tiranno: ogni potere, però, serba dentro di sé i germi dell’eliminazione sleale dell’avversario, della spinta ad auto-conservarsi a dispetto di tutto il resto. Vi è un aspetto particolarmente inquietante nel comportamento di Macbeth e Lady: essi non soltanto mentono, osano anche spingersi col linguaggio verso il confine di una costante provocazione. Due esempi. Dopo aver ucciso il re Duncan, si fingono costernati e, nel magnifico concertato finale che chiude il primo atto, invocano l’ira divina sull’omicida: non rispettando il peso delle parole, non temono le conseguenze della falsificazione, anzi, se ne compiacciono e irridono il linguaggio del dolore espresso dalla comunità. Allo stesso modo, dopo aver dato mandato di uccidere Banquo, la sera stessa festeggiano con i loro ospiti e, mentre Lady intona un brillante brindisi (“Si colmi il calice di vino eletto”), arrivano al punto di lamentarsi dell’assenza ingiustificata del nobile amico, che intanto giace, cadavere, ai margini di un bosco. Ed è qui che l’ombra di Banquo appare a Macbeth, ed è da questo momento che Macbeth comprende che non resta che alimentare il potere iniquo con altra iniquità (“sangue a me quell’ombra chiede e l’avrà, lo giuro”). Bisogna cogliere l’occasione di rivedere questa potente creazione verdiana, profittando della diretta streaming. In specie, l’occasione è propizia in tempi di democrazie vacillanti (ovunque circondate da vaticini di nuove streghe), e lo è poi per la necessità tutta italiana di arginare poteri ingrassati, eppure insaziabili. Riascoltando il Macbeth verdiano in questi ultimi giorni, non ho potuto non riflettere sulle vicende di riassetto del tutto apparente che da circa due anni e mezzo attraversano la magistratura italiana d.P. (dopo Palamara). Si tratta di questioni largamente ignote alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica la quale registrò i fatti scandalistici dell’hotel Champagne per concludere che c’è del marcio. Ebbene, la magistratura e il parlamento si apprestano, tra pochi mesi, e sotto un nuovo settennato presidenziale, a rinnovare il Csm, organo di autogoverno che, in base alla Costituzione, deve assicurare autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario. Non sappiamo se da qui alle prossime elezioni ci saranno nuove regole elettive: quel che sappiamo, però, è che il percorso tanto di identificazione dei candidati, quanto di organizzazione del consenso resta saldamente nelle mani delle correnti in cui si articola tutt’ora la rappresentanza associativa della magistratura italiana che si dirige verso un sempre più marcato bipolarismo tra la sinistra giudiziaria (Area, MD) e l’ala dei cosiddetti moderati (Magistratura Indipendente), benché vada crescendo il peso del gruppo dei 101 col suo tentativo di scardinare consolidate logiche correntizie. La magistratura rappresentata, tra amarezza, timori e disillusione, resta in silenziosa attesa della prossima tornata elettorale mentre il Csm procede nel suo lavoro in un intrico di sentenze del Consiglio di Stato severe come ceffoni di antiche maestri su bambini ineducabili. Divorati dal carrierismo e dalla brama di consolidare assetti di potere, i meccanismi del nostro autogoverno potranno questa sera farci intonare Patria oppressa come il sublime coro verdiano del quarto atto: una magistratura oppressa da sé stessa che rischia di opprimere un intero Stato. Alla fine Lady muore di angoscia per l’insostenibilità psichica dei crimini commessi. Nel sogno rivela tutto. Alla fine Macduff uccide Macbeth e il coro esulta per la liberazione. Dovremmo forse confidare più nel primo processo che nel secondo: una grande, collettiva scena di sonnambulismo, per cominciare, cessati i terribili processi di tracotante falsificazione del linguaggio, a chiamare tutte le cose col proprio nome. Bisogna, cioè, che la magistratura rompa il silenzio assordante che si protrae da circa due anni. Eduardo Savarese

Quei magistrati "nascosti". Oltre duecento collocati nei ministeri e negli uffici legislativi. Benedetta Frucci su Il Tempo il 13 dicembre 2021. Accade che, in un Paese in cui dovrebbe vigere il principio della separazione fra i poteri, un magistrato possa tranquillamente candidarsi e poi, qualora e quando lo ritenga opportuno, tornare in magistratura. Accade poi che addirittura, egli possa, come Catello Maresca, candidato a sindaco di Napoli, mantenere il ruolo di consigliere comunale e nel contempo rientrare in magistratura.

Oppure che, come Michele Emiliano, possa governare una Regione, candidarsi alle primarie di un partito e, nel momento in cui il Csm gli vieti l’iscrizione al Pd, decidere di tirarne su uno personale.

Accade ancora che un magistrato, due volte sottosegretario d’area centrosinistra, possa, tornato in magistratura, giudicare un avversario politico: vedere alle voci Giannicola Sinisi e Augusto Minzolini.

Casi eclatanti di un sistema che solo a parole rispetta il principio della separazione fra i poteri, che dovrebbe essere la base di una qualunque democrazia.

Esiste poi una commistione sommersa, ma ancora più subdola e preoccupante. All’interno dei ministeri e delle Commissioni parlamentari, come capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi, consulenti, sono collocati oltre 200 magistrati fuori ruolo. Perché il Consiglio Superiore della magistratura li autorizza a distaccarsi, se al contempo lancia da tempo l’allarme sul fatto che la magistratura è sotto organico, da ultimo pochi giorni fa, quando ha denunciato la mancanza di 1000 magistrati che metterebbe a rischio l’attuazione del Pnrr? E perché, se ottenere il distacco presso i ministeri è così facile, nel momento in cui una commissione d’inchiesta particolare come quella sul caso David Rossi fa richiesta di due togati, a titolo gratuito e senza che essi vengano collocati fuori ruolo, il consigliere Nino di Matteo formula un parere contrario?

Nel giustificare il niet emesso nei confronti del pm Patrizia Foiera del giudice Michele Romano, il dottor Di Matteo ha spiegato che l’incarico sarebbe inopportuno perché si sovrapporrebbe agli accertamenti della magistratura che, dice Di Matteo, deve apparire indipendente e imparziale. E in effetti, Di Matteo fa bene a preoccuparsi dell’immagine della magistratura nel caso David Rossi, soprattutto se fosse confermato, come ha rivelato in audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta il colonnello dei Carabieri Aglieco, che il pm Antonino Nastasi avrebbe risposto al telefono di David Rossi poco tempo dopo la sua morte e che la scena del crimine fosse stata inquinata prima dell’arrivo della scientifica.

Ma torniamo ai magistrati che dentro i ministeri sono stati invece collocati: tecnicamente, questi signori scrivono le leggi che, si sa, sono sempre e spesso oscure a una prima lettura. Quindi, facilmente maneggiabili. Il potere giudiziario, nei fatti, esercita il potere legislativo. E non è un caso - leggasi Palamara - che quei posti nei ministeri rientrino nel gioco di spartizione delle correnti, esattamente e non diversamente dalle altre nomine. Come denunciato dal Presidente delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, questa commistione fra i poteri è un fatto unico al mondo. Una stortura che andrebbe risolta quanto prima anche solo per dare una parvenza di dignità e indipendenza alla politica, tanto sottomessa al potere giudiziario da appaltargli addirittura il compito di legiferare.

Fuori ruolo. La carica dei 200 magistrati che scrivono le leggi al posto dei politici. Marco Fattorini su L'Inkiesta.it l'8 dicembre 2021. Il Csm denuncia la mancanza di mille giudici in organico, ma ci sono molte toghe lontane dai tribunali che fanno i capi di gabinetto o guidano gli uffici legislativi dei ministeri. «Un’occupazione militare», secondo il presidente delle Camere Penali Caiazza. «Così il potere giudiziario influenza l’esecutivo e il legislativo», secondo l’ex viceministro Costa. Ce ne sono decine nei nostri ministeri. Occupano posizioni di vertice, scrivono le leggi, guidano i dipartimenti. Sono i magistrati “fuori ruolo”, quelli che non vanno in tribunale ma lavorano per altre amministrazioni dello Stato. Restandoci per molti anni. Sono circa 200, un numero significativo in un momento di sofferenza per il settore. Solo pochi giorni fa il Consiglio superiore della Magistratura ha lanciato l’allarme: «Su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio sono 9.131». Ne mancano più di mille. Ragion per cui, incalza l’organo di autogoverno, è necessario riformare il concorso aprendolo a tutti i neolaureati in giurisprudenza. Anche in vista della realizzazione degli obiettivi posti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè lo smaltimento dell’arretrato e il taglio della durata dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e del 25 per cento. Manca il personale, eppure 200 toghe sono assegnate ad altre amministrazioni. Solo al ministero della Giustizia ci sono un centinaio di magistrati con ruoli di primissimo piano. Capi di gabinetto, direttori generali, membri dell’ufficio legislativo, ispettori generali. «Un’occupazione militare e un’anomalia mondiale», la definisce il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Non è solo una questione di risorse e organici. A via Arenula i magistrati scrivono materialmente le leggi, gli emendamenti, i commi. Capo e vicecapo dell’organo legislativo sono due toghe, cui si aggiunge una decina di colleghi nello stesso ufficio. «Così il potere giudiziario si insinua nell’ambito dell’esecutivo e del legislativo», spiega a Linkiesta Enrico Costa, già viceministro della Giustizia, oggi deputato di Azione. «Il 90 per cento delle norme che passano dal ministero sono scritte dagli uffici legislativi. I membri del governo le recitano come juke box perché non conoscono la materia specifica e si fidano di quegli uffici». Dietro le scrivanie siedono giudici e pubblici ministeri. «Professionisti qualificati», chiarisce Costa. «Ma si rischiano sbilanciamenti nella valutazione delle norme e resistenze corporative». Una consuetudine, per qualcuno. Di fatto una pericolosa sovrapposizione. «Il potere giudiziario non dovrebbe mettere bocca su come si scrive una legge», riflette Gian Domenico Caiazza al telefono con Linkiesta. «Invece ogni volta in cui si forma un governo, si fa quest’operazione politica con le correnti della magistratura per distaccare giudici e pm. Un tema evidente ed enorme su cui tutti stanno zitti». Un esempio di questa prassi l’ha raccontato Luca Palamara nel suo libro “Il sistema” pubblicato un anno fa. L’aneddoto riguarda Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti. Il magistrato e consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio avvertiva l’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati: «La Severino è un grande avvocato ma non conosce gli equilibri della magistratura. Tu la devi aiutare, devi avere un feeling con lei». Palamara traduce: «Dovevo mettere i miei uomini al ministero. Così ogni corrente ha piazzato i suoi nella più classica delle lottizzazioni, persone che la Severino neppure conosceva. Del resto il potere è innanzitutto controllo». Le toghe non circolano solo a via Arenula, ma un po’ in tutti i Palazzi del potere romani. Con incarichi che in altri Paesi vengono svolti da alti funzionari di carriera. Scorrendo la lista redatta dal Csm, aggiornata al 30 aprile 2021, si legge che cinque magistrati lavorano alla Farnesina, mentre il capo dell’ufficio legislativo del ministero delle Finanze è un magistrato proveniente dalla Corte d’Appello di Roma. La numero due dello stesso organo al ministero dell’Ambiente è una giudice. Il capo di gabinetto del ministero del Lavoro è una ex pm. A dirigere l’ufficio di stretta collaborazione di Roberto Speranza c’è un’ex giudice per le indagini preliminari. Altri colleghi sono distaccati a Palazzo Chigi e al ministero dei Trasporti. Poi ci sono le autorità indipendenti: quella per la Concorrenza e il Mercato è guidata da un giudice tributario e ha come capo di gabinetto una toga proveniente dal Tribunale delle Imprese di Napoli. L’Authority per l’infanzia e l’adolescenza è nelle mani dell’ex presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste. Altri magistrati sono in enti internazionali, da Bruxelles a Strasburgo. Ma ci sono anche alcuni casi emblematici, che si ripetono da anni. «Perché ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci devono essere sempre dei pubblici ministeri?». La domanda del capo delle Camere Penali Caiazza resta senza risposta. Le toghe nei ministeri sono personalità di alto livello. Hanno curricula inattaccabili. Ma c’è anche una ragione squisitamente economica per la loro presenza così massiccia nelle stanze dei bottoni. «Il ministro – spiega Enrico Costa – ha un budget da spendere per comporre il suo gabinetto. Se prende una persona già stipendiata da un’altra amministrazione dello Stato, risparmierà quei soldi e dovrà pagare solo l’indennità aggiuntiva. Questa collocazione conviene anche ai fuori ruolo, che andando al ministero ottengono una retribuzione aumentata rispetto a quella solita. Oltre a un lavoro meno valutabile». La situazione è nota da anni. La ministra Cartabia ha fatto un primo passo, nominando come vicecapo di gabinetto un professore universitario. L’Unione delle Camere Penali sta lavorando a una legge di iniziativa popolare sul distacco dei magistrati. «Per parlare di indipendenza e autonomia tra magistratura e politica bisognerebbe partire da qui», ragiona Caiazza. In molti invocano una riforma del Csm che faccia chiarezza sui fuori ruolo. A partire da Enrico Costa, che resta prudente: «C’è la volontà politica del Parlamento, bisogna vedere fino a che punto il governo abbia intenzione di scontrarsi con i suoi collaboratori. Ho un dubbio: con quale approccio l’ufficio legislativo del ministero analizzerà i miei emendamenti sul Csm in cui dico che i ’fuori ruolo’ non devono più esserci?». Ai magistrati l’ardua sentenza. 

«Ministero colonizzato dalle toghe: così il potere giudiziario si inserisce nel potere esecutivo». L'interpellanza del deputato Costa sui magistrati fuori ruolo rimane fondamentalmente senza risposta: «Il M5S dovrebbe intestarsi questa battaglia a difesa di tutte le toghe che invece sgobbano nei tribunali». Simona Musco su Il Dubbio il 4 dicembre 2021. Ce n’è uno in Perù, esperto giuridico nell’ambito di un progetto di cooperazione internazionale. Un altro si trova in Tunisia, come “prosecutor adviser” nella missione di assistenza alle frontiere dell’Unione europea in Libia. E un altro ancora a Rabat, come magistrato di collegamento con il ministero della Giustizia in Marocco. E poi toghe dislocate a Parigi, Bruxelles, L’Aja e decine sparse per i vari ministeri, in particolare a via Arenula. Si tratta di alcuni esempi pescati dal lungo elenco dei magistrati fuori ruolo, 161, stando alle informazioni consultabili sul sito del Csm e aggiornate al 30 aprile 2021. Numeri dei quali ieri ha chiesto conto il deputato di Azione Enrico Costa, in un’interpellanza urgente indirizzata al governo e alla quale ha risposto la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che ha ricordato norme vigenti e impegni futuri, senza però entrare nel merito delle questioni evidenziate dall’ex ministro. Che ha denunciato il “pericolo” di una sovrapposizione dei poteri dello Stato, con una colonizzazione, di fatto, della politica della giustizia da parte delle toghe. «La commissione presieduta dal professor Luciani ha proceduto a formulare proposte integrative del disegno di legge pendente, miranti alla razionalizzazione delle tipologie di incarichi da svolgere fuori dal ruolo organico della magistratura, e condizionando il collocamento fuori ruolo ad un interesse dell’amministrazione di appartenenza», ha affermato Macina nel concludere il proprio intervento. Nel quale ha ricordato che il limite di tempo massimo fuori ruolo è di dieci anni complessivi e che il trattamento economico rimane identico a quello goduto da magistrato, salvo specifiche indennità. Ma il nocciolo dell’interpellanza di Costa è ben altro, dal momento che sono un centinaio i magistrati che operano all’interno del ministero della Giustizia. Il che significa, evidenzia Costa, che «noi avremo sempre dei pareri, delle soluzioni, degli emendamenti e delle valutazioni orientati in una certa direzione». Ma c’è di più: «Il potere giudiziario si inserisce nel potere esecutivo, attraverso questo nucleo e attraverso questa struttura. E io sono certo, sottosegretaria Macina – ha affermato – che quello che mi risponderà lei oggi saranno documenti e atti scritti proprio da quell’ufficio legislativo». Nel suo intervento Costa ha tirato in ballo anche l’Associazione nazionale magistrati, silente, ha evidenziato, di fronte ad un fenomeno che lascia un peso eccessivo sulle spalle dei magistrati che, invece, lavorano nei tribunali. E che sono troppo pochi, come ha evidenziato ieri, a Reggio Calabria, il vicepresidente del Csm David Ermini: «Attualmente il numero dei posti scoperti nella pianta organica dei magistrati ordinari raggiunge le 1300 unità – ha evidenziato il numero due di Palazzo dei Marescialli – e sono posti che andrebbero coperti con urgenza per far funzionare al meglio le riforme messe in campo». Certo, 161 toghe in più forse non risolverebbero il problema e comunque rimane forte l’esigenza di nuove assunzioni, per le quali sono state appostate delle risorse nella legge di Bilancio. Ma di certo sarebbe un’iniezione di forze non di poco conto, data l’urgenza di ridurre i tempi della giustizia, richiesta che l’Europa ha ribadito e che necessita di una risposta. L’occasione per cambiare le cose è, dunque, la riforma del Csm, che però procede a rilento, tanto da spaventare i partiti, che non nascondono i dubbi sulla possibilità di arrivare alla prossima elezione dell’organo di autogoverno (prevista a luglio) con una nuova legge elettorale. «Penso che ci sia veramente un’intersecazione, un incrocio, che costituzionalmente non è accettabile – ha evidenziato Costa -, soprattutto per quello che attiene al ministero della Giustizia». Alcune domande formulate dal deputato di Azione sono rimaste senza risposta, come quella relativa ai criteri di scelta. E l’ipotesi di Costa è che anche in questo caso le correnti possano avere un ruolo nella selezione delle toghe. Così l’idea potrebbe essere quella di procedere per sorteggio, «perché mi risulta che in molte circostanze ci siano state assegnazioni finalizzate a rispettare quegli equilibri correntizi, gli stessi equilibri correntizi che il Governo, con un’altra mano, ci dice di volere scongiurare attraverso un disegno di legge». C’è poi un altro aspetto: anche in questo caso sono le toghe inquirenti quelle “preferite”. Come per il Dap, a capo del quale, «anche se non c’è la legge che dice questo, abbiamo solo dei magistrati» e solo pubblici ministeri, «guai a chiamare dei giudici». E poi l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, dove a fianco di 10-12 toghe siede solo un’unità “laica”. «Mi spiace perché, quando faccio una proposta, come mi è capitato l’altro giorno, di un ordine del giorno, ovviamente arriva il parere negativo del ministero della Giustizia. Si diceva, semplicemente, che le sentenze di assoluzione devono avere sui giornali lo stesso spazio dedicato alle inchieste; e non va bene. Perché le inchieste chi le fa? Le fanno i magistrati – ha sottolineato Costa -, le fanno i procuratori della Repubblica che fanno le loro belle conferenze stampa; non vogliamo mica togliere questo palcoscenico». Negli uffici del ministero scarseggiano, invece, gli avvocati. «Chiediamoci perché», ha aggiunto Costa, che ha provato anche a rispondere: «Perché probabilmente, gli avvocati li dovrebbero pagare con quel budget ministeriale. Invece, i magistrati sono già pagati come se svolgessero funzioni giurisdizionali e, quindi, si distoglie la persona ma non si distoglie la risorsa e se ne possono prendere di più. Questa è la vera ragione, è una ragione di convenienza. Lei viene dal M5S, sottosegretaria: questa dovrebbe essere una vostra battaglia», ha concluso, a tutela di «quelli che lavorano e sgobbano nei tribunali. Quindi la invito anche ad affrontare questo tema nel tempo che ci rimane prima dell’approvazione della riforma del Csm, perché penso che tutti insieme potremmo fare un buon lavoro. Ma, per fare questo, dovremo accantonare quei pareri che vengono da quegli uffici e costruirci un’identità, costruirci un’idea, costruirci delle conoscenze, costruirci delle competenze su questo tema».

Mani pulite, ecco il trucco dei pm del pool di Milano per arrestare più indagati. Luca Fazzo l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool: un sistema che ora viene descritto con dovizia di particolari da un magistrato che nei mesi ruggenti del 1992 lavorava nell'ufficio da cui gli ordini di arresto venivano sfornati quotidianamente.

Settimo piano del Palazzo di giustizia, ufficio del giudice per le indagini preliminari, quello cui tocca firmare o negare gli arresti. Per garantire l'imparzialità dei gip, la norma prevede l'assegnazione automatica dei fascicoli in base ai turni prestabiliti. Cosa accadeva, invece, durante Mani Pulite? Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: «Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare difficoltà alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool».

Titolare del mega-fascicolo, che portava il numero 8566/92, era il giudice Italo Ghitti. Tutte, nessuna esclusa, le richieste del pool Mani Pulite arrivavano così a Ghitti, con la certezza di venire accolte nel giro di poche ore, alimentando la spirale delle confessioni a catena. «Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Una sola volta, per una sorta di svista, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini, che era il giudice competente per turno. Ma «nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti». Bisognava evitare che «qualsiasi altro gip dell'ufficio interferisse nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio». Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Mani Pulite continuò a macinare arresti. Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

"Io, travolto dal trucco del pool Mani pulite per arrestare più gente". Luca Fazzo il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex braccio destro di Mammì arrestato 30 anni fa: "Quel gip soddisfaceva i pm". «Ah, dunque è così che andò....». Sono passati quasi trent'anni dalla mattina in cui lo vennero ad arrestare su ordine del pool Mani Pulite, e a Davide Giacalone tocca oggi scoprire che dietro il suo mandato di cattura c'era una manovra di gravità sconcertante messa in atto negli uffici giudiziari milanesi, e rivelata solo ora da un testimone dell'epoca.

È sull'inchiesta che travolse Giacalone, allora giovane e brillante braccio destro del ministro repubblicano Oscar Mammì, che si consuma l'episodio raccontato nei giorni scorsi dal giudice milanese Guido Salvini con un articolo sul Dubbio: il fascicolo con le richieste di arresto che arriva sul tavolo di Salvini, ma che gli viene sottratto dal capo dell'ufficio del giudice preliminare Mario Blandini. E assegnato a Italo Ghitti, il gip che monopolizzava tutte le richieste di cattura del pool e le accoglieva tutte istantaneamente. Il trucco: un unico fascicolo con un numero unico, divenuto - scrive Salvini - «un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse». Titolare, Italo Ghitti, «che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Ghitti quando seppe che l'inchiesta contro Giacalone era finita a Salvini fece fuoco e fiamme per farsela ridare. Appena la ottenne ordinò la cattura del 34enne politico.

Che effetto le fa scoprire che per arrestarla dovettero persino portare via il fascicolo a un giudice?

«Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari, studiando anche le ore e i minuti migliori per inviare le richieste di cattura, era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall'articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

Perché era così importante che a gestire tutto fosse Ghitti? Secondo Salvini, col sistema del fascicolo unico il pool milanese poteva indagare anche su vicende lontane dalla sua competenza territoriale.

«Come nel mio caso: alla fine venne stabilito che la competenza era di Roma e non di Milano. Ma arrivarci non fu una passeggiata. A Milano dopo dieci giorni di carcere mi diedero i domiciliari, ma a quel punto intervenne la Procura di Roma che mi rispedì in prigione. In cella mi arrivavano a giorni alterni gli ordini di custodia dalle due città, sembrava una gara tra Procure a chi me ne mandava di più per rimarcare la propria competenza. Anche gli agenti di custodia erano impietositi».

Salvini dice che il collega Ghitti era «direzionato» a favore della Procura, per questo bisognava impedire che qualunque altro gip «interferisse» con le indagini su Tangentopoli.

«La storia di Mani Pulite la conosciamo tutti. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso solo ricordare che le accuse per cui il dottor Ghitti ordinò il mio arresto ritenendole gravi precise e concordanti si rivelarono talmente infondate che alla fine venni assolto in udienza preliminare senza neanche venire rinviato a giudizio».

Beh, è finita bene.

«In Italia la giustizia di merito, quella che arriva all'esito dei processi, funziona abbastanza bene, al netto degli inevitabili errori giudiziari. Il dramma è quanto accade prima, durante le indagini, quando a garantire i diritti del cittadino sotto inchiesta dovrebbe essere il giudice delle indagini preliminari, una figura da barzelletta, costretto a decidere solo sulla base delle carte che gli vengono sottoposte dai pm, e che dovrebbe prendersi la briga di dire ai pm vi siete sbagliati. Quando mai? Al massimo assistiamo a qualche teatrino, invece del carcere lo mando ai domiciliari. Poi arriva la sentenza che dice che l'imputato è innocente. Ma che te ne fai dopo dieci anni?»

Con lei quanti anni sono serviti?

«Dodici».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Buccini presenta “Il tempo delle Mani Pulite”. Il procuratore Ielo: “Indagine? Tentativo di legge uguale per tutti, non si voleva la rivoluzione”. Alberto Sofia il 18 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano. Nella cornice della Sala Valdese a Roma, Goffredo Buccini, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, ha presentato con la collega Fiorenza Sarzanini e il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, il suo ultimo libro “Il tempo delle Mani pulite”, edito da Laterza. “Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia, ma è stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione, quella secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia, l’idea che un Paese potesse cambiare attraverso un processo. Ma ciò non è vero, i cambiamenti sono più lenti e questo volume racconta questa delusione e questa illusione, quella di un’intera generazione”, ha rivendicato Buccini. Il giornalista ha precisato di “non essere un pentito”: “Non credo sia stato un golpe giudiziario, anzi abbiamo assistito a un suicidio politico. Ma questa idea ha poi permeato una certa destra italiana, nella sua contestazione aperta alla magistratura. Ma allo stesso tempo non credo nemmeno al mito dell’inchiesta mutilata, secondo cui non fu permesso ai magistrati di continuare a indagare”. Oggi, continua Buccini, “paghiamo ancora le conseguenze dopo 30 anni, con una frattura tanto grande”. “Mani Pulite‘? Non voglio parlare di inchiesta mutilata, credo sia stata espressione di una contingenza, di un periodo storico, va contestualizzata. Forse poi mancavano le condizioni. Ma quando provavamo a fare processi con le regole che esistevano e dovevano valere per tutti, indipendentemente se fossero buone o sbagliate, queste non andavano più bene e venivano cambiate”, ha invece precisato il procuratore Paolo Ielo. E ancora: “Se abbiamo mai pensato di voler cambiare il mondo? Ma no, questa idea di un gruppo di persone che dietro a un tavolo decideva di fare la rivoluzione e di mettere questo o quello non c’era“, ha affermato nel corso della presentazione a Roma del volume. Lo stesso procuratore ha infine spiegato di non ritenere che la corruzione sia rimasta identica: “Il segno tangibile era l’ammontare delle tangenti: oggi abbiamo corruzioni che avvengono per poco o nulla, 5 o 10 mila euro”, ha aggiunto Ielo.

Buccini, invece, ha poi concluso come il nostro Paese abbia “la capacità di rialzarsi nei momenti più complessi, come fu quel momento nel ’92”. Per questo, ha aggiunto, la speranza è che si possa ancora “migliorare l’Italia”, ha concluso Ielo. 

Mani pulite, una rilettura istruttiva di Goffredo Buccini. Cesare Zapperi il 21 Novembre 2021 su socialbg.it. “Il tempo delle Mani pulite” è un libro che merita di essere letto. Perché il racconto del drammatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, attraverso l’inchiesta dei magistrati milanesi, affidato alla penna di Goffredo Buccini, inviato speciale del Corriere della Sera a quel tempo cronista di punta a palazzo di giustizia (suoi molti scoop), parla di loro (i politici e le toghe) ma anche di noi (cittadini), facili a passare dal giustizialismo al garantismo come foglie che cambiano colore al mutare delle stagioni.

Buccini ripercorre quasi giorno per giorno i due anni (1992-1994) che sconvolsero il Paese raccontando fatti e retroscena, rievocando atmosfere e umori, riproponendo ad uso di chi li visse ma soprattutto di chi è nato o cresciuto dopo fatti e misfatti di quella vicenda giudiziaria. Lo fa con un esercizio di profonda autocritica non comune e tantomeno scontato (prima di lui lo ha fatto con il suo “Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite” Mattia Feltri) che lo porta ad ammettere che nello scrivere di avvisi di garanzia, arresti e interrogatori, fu spinto anche dalla passione politica che in quegli anni giovanili gli faceva credere di poter cambiare il mondo.

Chi ha vissuto quella stagione, seppur da lontano, ricorda il clima rivoluzionario, la voglia di veder cadere nella polvere tanti potenti, la sete di giustizia. Gli eccessi c’erano, anche abbastanza evidenti come annota lo stesso Buccini, ma su tutto prevalevano la sostanza (il sistema, politico ed economico, era marcio) e il desiderio di pulizia e di onestà. Il libro racconta tutto, anche il desiderio di affermarsi di un cronista di razza (che oggi ammette di essersi ritrovato a comportarsi in modo tale da non riconoscersi) autore di interviste che sono entrate nello storia patria, oltre che del giornalismo. Ci descrive la parabola di magistrati prima osannati come eroi e diventati via via sempre più ingombranti fino ad assurgere, per alcuni, al ruolo contro natura di antagonisti politici.

E poi naturalmente ci sono loro, i politici. Scorrono sotto i nostri occhi tante storie: il suicidio di Sergio Moroni e la sua profetica lettera d’addio, il bombardamento di avvisi di garanzia al bergamasco Severino Citaristi, il coinvolgimento e la battaglia senza esclusione di colpi di Bettino Craxi, l’avviso a comparire a Silvio Berlusconi (il grande colpo giornalistico di Buccini con il collega Gianluca Di Feo). Noi (i cittadini) rimaniamo sullo sfondo, come spettatori che prima fanno un tifo forsennato per i magistrati e poi, non appena dagli squali si scende ai pesci piccoli (il commercialista, l’avvocato, l’impiegato) cominciano a diventare insofferenti fino a spingersi dalla parte opposta, secondo la legge del pendolo che da sempre regola la vita pubblica italiana. Guarda caso quello che stiamo vivendo proprio di questi tempi. “Il tempo delle Mani pulite” è quindi a suo modo una piccola storia dell’Italia e degli italiani. Leggerla aiuta a conoscere e a capire. Il passato ma anche, o soprattutto, il presente. 

Trent’anni dopo Mani Pulite è tempo che la guerra finisca. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le piazze italiane erano infiammate da giovani persuasi che fosse ragionevole uccidere i propri coetanei a causa dell’avversa appartenenza politica. Erano passati tre decenni dalla fine della guerra di liberazione. Ma era come se fascismo e antifascismo (l’antifascismo militante, di matrice comunista) non avessero smesso nemmeno per un momento di combattersi. Non pochi genitori di quei ragazzi, del resto, divisi tra la paura del golpe nero e il timore dell’esproprio rosso, ne assecondavano l’aberrazione ottica e ideologica, finendo di fatto per regolare conti in sospeso per interposta persona. Si osserverà che trent’anni sono forse pochi per tramutare in storia i drammi quotidiani. Eppure, potrebbero essere sufficienti almeno a un ripensamento, a una prima analisi critica o, se non altro, a un raffreddamento degli animi. Così non fu, ci dicemmo, perché l’Italia d’allora era debole quanto a condivisione dei valori. 

Nonostante la successiva, lunga e faticosa ricerca di valori condivisi, così non pare essere neppure ora, con riguardo alla stagione più tumultuosa della nostra Repubblica, quella segnata dallo spartiacque di Mani pulite. Anche questa fase sembra sottomettersi alla ripetitività della guerra dei Trent’anni, del passato che non passa. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti per fede ma assai simili per scarsa o nulla propensione a riconoscere dignità all’avversario. 

Senza neppure il bisogno di scorrere l’emeroteca delle passate e infelici stagioni, basta uno sguardo alle cronache recenti per avere un’idea del tasso di avvelenamento del discorso pubblico: la battaglia mai sopita attorno al finanziamento della politica, ora incarnata dall’inchiesta sulla fondazione Open col suo strascico di ovvietà miste a rivelazioni più o meno riservate, o l’intemerata televisiva di un procuratore di primo piano contro talune scelte della ministra Guardasigilli sono soltanto le ultime stazioni della via crucis inflitta a giustizia e politica ove vengano incrociate in un chiacchiericcio astioso che disorienta il Paese. 

Due sono i miti fondanti, ma del tutto infondati, di questo nuovo trentennio tossico: ed entrambi hanno radici nell’inchiesta dei magistrati di Milano tra il 1992, l’anno del principio, e il 1994, quello dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi e dell’addio di Antonio Di Pietro alla toga. 

Il primo è il mito del golpe giudiziario. Nato negli ambienti politici più duramente colpiti dall’inchiesta (segnatamente i socialisti meneghini) e da essi propalato durante gli anni successivi, riconduce il lavoro del pool dei magistrati a un’unica trama, magari eterodiretta, volta a distruggere la nostra democrazia parlamentare. La realtà è ben diversa. Non a un golpe giudiziario assistemmo, quanto piuttosto al dissennato suicidio di partiti che durante gli anni Ottanta avevano scambiato consenso elettorale con debito pubblico e appalti truccati con finanziamenti illeciti: fu il loro prestigio ridotto al rango di barzellette da bar che li consegnò, indifesi, ai magistrati. 

Il secondo mito è, per converso, quello della Mani pulite mutilata, dell’inchiesta interrotta bruscamente a causa del ricompattamento del sistema, travasato nella cosiddetta Seconda Repubblica. Questo mito («non ci hanno fatto finire il lavoro!») promana direttamente dai dipietristi ed è servito a giustificare l’inopinata uscita di scena del pubblico ministero più popolare d’Italia appena prima di dover interrogare Silvio Berlusconi. Anche in questo caso, la realtà è tutt’altra. Innanzitutto, perché, come ha ricordato Paolo Ielo (allora giovane sostituto del pool milanese e oggi procuratore aggiunto a Roma) Mani pulite non finì nel 1994 ma proseguì per anni con altri protagonisti. Certo, aveva perso consenso: ma ciò dipese dalla stanchezza popolare per l’assai discutibile uso della galera e dal timore nato in molti italiani che, scendendo l’indagine di livello, quella galera toccasse a loro stessi. 

Accade però che questi falsi miti abbiano figliato, nel frattempo. In una parte della destra, generando una aprioristica avversione contro la magistratura fino ad atteggiamenti corrivi con i reati dei colletti bianchi (se la giustizia è ingiusta, del resto, vale il «tana libera tutti»). E, sul fronte opposto, in una certa sinistra a lungo persuasa di poter prevalere sugli avversari per via giudiziaria, e soprattutto nel primo grillismo, che ha immaginato di «completare l’opera» in piazza, magari con un lacerto di intercettazione usato come ghigliottina sui social. La magistratura stessa ha finito per assumere i vizi della cattiva politica anziché perseguirli: a riprova del fatto che non c’è toga abbastanza elastica da coprire lo strappo tra moralità e moralismo. 

È tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antistituzionale. La ricerca di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. È difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, un personaggio pubblico in grado di migliorare di molto il clima sarebbe ancora in campo. 

Per paradossale che appaia, si tratta proprio di Berlusconi: il quale, senza abiure né confessioni, certo, ma solo dismettendo con un gesto, una frase, un messaggio, i panni da perseguitato della giustizia nei quali si è blindato (anche) per ragioni difensive, potrebbe aprire una nuova stagione smontando i miti fasulli della precedente. Tutto contraddice quest’ipotesi fantapolitica: rancori cristallizzati, diffidenze reciproche, la divisione in due del Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Tutto, tranne il senso di una missione perfino più appassionante del miraggio del Colle: aiutare gli italiani di domani a entrare nel futuro senza inutili fardelli. 

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22/10/2021.  “Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

L'impossibile memoria condivisa su Mani Pulite. Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo. Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.

Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti. In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.

Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.

Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.

Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.

I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.

A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.

Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.

Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.

Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.

L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.

Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).

A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.

In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.

Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto

Il vuoto identitario e la ricomposizione della sinistra. Cicchitto sbaglia, Enrico Berlinguer non era un giustizialista. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nella sua riflessione (uscita sabato sul Riformista) Fabrizio Cicchitto si interroga sulle ragioni della conversione al giustizialismo da parte dei comunisti. Ne indica due. La prima conduce alle relazioni intessute da Violante con alcune grandi procure, viste come il motivo che spiegherebbe una certa benevolenza dei magistrati verso le pratiche illecite di reperimento di denaro compiute anche dai vertici di Botteghe Oscure. Più interessante, rispetto a questo tasto polemico nel quale si avverte ancora la ferita aperta per la incidenza delle manette nella uccisione del Psi, è l’altro che coglie l’impatto di alcuni mutamenti intercorsi nella cultura politica del Pci già ai tempi di Berlinguer.

Non c’è dubbio che una distanza si avverte tra il primo Berlinguer, regista di una clamorosa espansione elettorale del Pci, e il leader che nei primi anni ’80 deve gestire una ritirata strategica che non riguardava solo la sinistra italiana. Uno dei punti più elevati della cultura politica di Berlinguer si può rintracciare nell’importante comitato centrale del giugno 1974, nel corso del quale egli riservò alcune bacchettate a Terracini, Longo, Spriano (su questo snodo ha richiamato l’attenzione G. Crainz, Il paese mancato, Roma, 2003, p. 495). In discussione era la recente legge sul finanziamento pubblico dei partiti e Umberto Terracini pronunciò un intervento durissimo nel quale (era ancora fresca la strage di Brescia) chiedeva lo scioglimento per decreto del Msi, senza attendere alcuna pronuncia dei tribunali. Inoltre egli si scagliava contro i soldi statali alle organizzazioni politiche. «Non c’è giustificazione che valga a tacitare lo stupore esterrefatto popolare», disse, dinanzi a «un provvedimento in sé impopolare» come quello della destinazione dei fondi del contribuente ai movimenti politici (comprese le formazioni neofasciste).

Anche Paolo Spriano concesse qualcosa alle istanze anti-partito dell’epoca asserendo che «se è vero che il termine classe politica è un termine di confusione e di mistificazione» occorreva tuttavia delineare una partecipazione di massa che andasse ben oltre «le rappresentanze tradizionali di partiti». Di altro segno erano le parole di Napolitano che, come risposta alle degenerazioni della politica, anticipò il tema delle «modifiche istituzionali che possono essere necessarie per superare la crisi di funzionalità del regime democratico». La replica di Berlinguer stigmatizzò come «puramente demagogica» l’ostilità di Terracini al finanziamento pubblico dei partiti. Molto nitide furono le sue connessioni tra autonomia della politica dai poteri privati (anche grazie alla copertura finanziaria pubblica dei costi della politica) ed effettiva moralizzazione della vita democratica. «Al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla classe politica», Berlinguer invitava a valorizzare, anche con i riconoscimenti economici necessari, la funzione democratica e costituzionale dei partiti.

Tra queste drastiche censure alla demagogia antipolitica e le parole, quasi da precursore di Travaglio, riportate nell’intervista a Scalfari sette anni dopo c’è un abisso. Forse aveva ragione Ferrara ad avanzare qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione. Comunque non era giustizialista il senso ultimo della diversità berlingueriana. Si trattava di un retaggio terzinternazionalista, presente anche in Togliatti o in Amendola, che lo coniugava con il rigorismo etico della destra storica, e che coincideva con il mito del partito, con l’intransigenza morale della militanza rivoluzionaria (“una scelta di vita”). E, più che ai tribunali, l’ultimo Berlinguer guardava alla fabbrica. Con un solco scavato rispetto al realismo totus politicus togliattiano, scendeva sul piano del sociale ed evocava «un movimento di massa che spontaneamente esprime l’animo popolare e la coscienza di classe».

È solo con la caduta dell’identità comunista che la diversità assumerà i colori del nuovismo e del giustizialismo raccattati nel mercato delle idee come surrogati dell’ideologia archiviata. Occhetto fece la scalata alla leadership con un impianto neocomunista che alludeva «ai vari salti qualitativi e non alle semplici correzioni miglioriste». Caduto il Muro, il vuoto identitario venne riempito con una tattica movimentista che collocava la Quercia vicino alle toghe e ai gruppi referendari. Scartata la via della ricomposizione della sinistra storica italiana, il modo di sopravvivere fu trovato dal Pds (come ha testimoniato Piero Sansonetti in un libro di alcuni anni fa, La sinistra è di destra, Milano, 2013) nella sintonia totale con i grandi giornali padronali rapiti dinanzi al fascino del tintinnio delle manette.

Più che in trattamenti di favore ricevuti nelle inchieste o in un condizionamento dei risultati dell’azione penale, il giustizialismo del Pds si può misurare nel rigetto di ogni soluzione politica a Tangentopoli.

La sua ostilità ad ogni risposta di sistema alle consuetudini di illecito finanziamento dei partiti pare riconducibile alla subalternità culturale rispetto alle forme dell’antipolitica che nei primi anni ’90 risultarono egemoni nella fase fondativa della seconda Repubblica. Si tratta di una manifestazione di giustizialismo ancora più pesante di quello “darwiniano” che lamenta Cicchitto, perché esso ha una radice culturale e ha scavato un fossato mai più riempito dai post-partiti che vagano impotenti nel tempo storico del populismo. Michele Prospero

Il dibattito. Su Berlinguer avevo ragione, la teoria del socialfascismo fu riesumata e applicata contro Craxi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Fra il primo Berlinguer, quello che nel contempo teorizzò il compromesso storico e portò avanti la politica di unità nazionale (appoggio subalterno al governo Andreotti), e “l’ultimo Berlinguer” – quello dell’alternativa di Salerno, della questione morale e dell’intervista a Scalfari – c’è senza alcun dubbio una grande differenza. Mi sono limitato, testi alla mano, a rilevare che nell’ultimo Berlinguer c’è anche una riesumazione della teoria del socialfascismo applicata sul piano politico nei confronti di Craxi, che è la fondazione teorica e politica del successivo “giustizialismo” di coloro che non a caso Folena appellò, da nessuno contestato, come “i ragazzi di Berlinguer”.

Giustamente Michele Prospero parla di un retaggio terzinternazionalista, ma, a mio avviso, sbaglia a mettere nello stesso mazzo anche su quel piano Togliatti e Amendola da un lato e Berlinguer dall’altro. Come è noto fra Togliatti e Amendola esplose un duro dibattito in un famoso Comitato Centrale del Pci a proposito del XX e del XXII Congresso, tuttavia sempre il riferimento di entrambi al VII Congresso dell’Internazionale, con tutto quello che essa comportava (i fronti popolari, l’intesa prioritaria con i partiti socialisti, un certo gradualismo). Invece nella discussione su Craxi, anche nelle direzioni del Pci, a un certo punto il riferimento di Berlinguer che, come tutti i dirigenti comunisti, era molto rigoroso nell’uso di certe espressioni, il termine socialfascismo fu usato come consapevole riferimento al VI Congresso dell’Internazionale (quello appunto che segnò “la svolta” perché la situazione generale era prerivoluzionaria e che considerò i partiti socialdemocratici obiettivamente alleati del fascismo).

Fra la prima e la seconda fase ci fu anche un cambio di alleanze interne al Pci, come Michele Prospero e Piero Sansonetti sanno molto meglio di me: Berlinguer gestì la fase della politica di unità nazionale da un lato con la sua cerchia stretta (Luciano Barca, Fernando Di Giulio, Tonino Tatò, Ugo Pecchioli) e un’alleanza con la “destra comunista”, cioè con Gerardo Chiaromonte (che se non sbaglio era il suo secondo), con Giorgio Napolitano, con Paolo Bufalini e con Gianni Cervetti responsabile dell’amministrazione. Nella seconda fase le alleanza interne furono del tutto rovesciate, furono recuperati gli ingraiani, in primis Alfredo Reichlin, e oltre a Pecchioli svolse un ruolo assai importante Minucci. Ho fondato la mia lettura dell’ultimo Berlinguer sulla base di una serie di citazioni incontestabili. Francamente a proposito dell’intervista assai importante a Scalfari è molto debole il richiamo di Prospero a Giuliano Ferrara, che “avanzò qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione”: ma scherziamo?

Per chi conosce (ovviamente non io direttamente, ma c’è chi me ne ha parlato diffusamente, in primo luogo Luciano Barca del quale sono stato molto amico, come testimoniano anche le sue cronache) la pignoleria con cui Berlinguer e Tatò leggevano e rileggevano le interviste figurarsi se avrebbero concesso, fosse anche Eugenio Scalfari, una “forzatura” qualora essa non avesse espresso il pensiero reale del segretario del Pci. Siccome Michele Prospero cita Crainz, lo seguo utilizzando lo stesso storico nella rievocazione assai significativa di una discussione avvenuta a suo tempo nella direzione del Pci proprio a proposito del dibattito sull’accettazione del finanziamento pubblico, una discussione che mette in evidenza come in nessun momento su quel piano (quello del finanziamento irregolare, anzi, per usare la fraseologia adottata, del ricorso all’amministrazione straordinaria) Berlinguer avrebbe potuto parlare di un partito diverso dalle mani pulite.

“E’ uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974 quando è all’esame la legge del finanziamento pubblico dei partiti. La discussione prende avvio dalla esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo, ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico emergere di imbarazzanti compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi una duplice autonomia […], autonomia internazionale, ma anche da condizionamenti di carattere interno […]. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economica pur giusta per qualcosa di estremamente meschino (Napolitano). Nel dibattito non mancando ammissioni di rilievo molte entrate straordinarie dice il segretario regionale della Lombardia derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito (Elio Quercioli). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno; la decisione di utilizzare la legge per porre fine ad ogni degenerazione del partito. Si deve sapere, dice Cossutta, che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente.

Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma fare intendere agli altri che certe operazioni non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose più di prima. È illuminante questa sofferta discussione del 1974. Rileva rovelli e al tempo stesso processi a cui il partito non è più interamente estraneo” (Guido Crainz, Il paese reale, pag. 32-32). Anche i miei riferimenti ai “ragazzi di Berlinguer” e al ruolo fra essi svolto da Luciano Violante (di cui ho colto le successive importanti e positive riflessioni) sono basati su fonti provenienti dal Pci-Pds, come quella offerta da Giovanni Pellegrino nel suo libro (con Fasanella) dall’emblematico titolo di La guerra civile. Concludo. Fra il “socialfascista” Craxi descritto da Tatò e accusato da Berlinguer in una riunione della direzione del Pci di lavorare addirittura per realizzare “una svolta a destra” attraverso la sua presidenza del Consiglio e quello successivamente attaccato come “ladro”, insieme ai miglioristi, da Occhetto e dagli altri “ragazzi” c’è di conseguenza un nesso assai stretto, quello che nella fisica lega la causa all’effetto. Fabrizio Cicchitto

Mani Pulite fu una pagina cupa della giustizia italiana. I magistrati del pool di Mani Pulite celebrano il collega Francesco Greco, esaltando senza alcun rimpianto quella terribile stagione. Francesco Damato Il Dubbio l'11 novembre 2021. Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodatare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti. Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale. Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti. Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. «Siamo stati sconfitti», si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni. Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi richiamare per garantirsi l’assenso. Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati – senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse. Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick – come Il Dubbio ha appena riprodotto- se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati. Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani ancora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, che peraltro era grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, almeno fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra la prima e la seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni. 

Da ansa.it il 10 novembre 2021. Folla per la cerimonia di addio alla magistratura di Francesco Greco, il procuratore della Repubblica di Milano che sabato andrà in pensione. L'aula magna del palazzo di giustizia, che in genere viene usata per l'inaugurazione dell'anno giudiziario e per altre occasioni speciali, è gremita di persone, a partire dai vertici della magistratura e dell'avvocatura milanese e delle forze dell'ordine ma anche gli ex pm del pool di Mani pulite che hanno affiancato Greco durante Tangentopoli, e cioè Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo. Nell'aula è stato allestito un grande schermo su cui scorrono le foto più significative della carriera di Greco. "Le regole devono essere rispettate in primis dai magistrati", ha detto il procuratore di Milano Francesco Greco nel suo discorso commosso di saluto nell'aula magna, facendo anche riferimenti espliciti e impliciti alla bufera che si è abbattuta sulla Procura milanese e allo scontro col pm Paolo Storari, ovviamente non presente al commiato, come anche alcuni altri sostituti procuratori. "Non è la prima e non sarà l'ultima tempesta che l'Ufficio si troverà ad affrontare". "Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni - ha detto ancora Greco - lascio una procura organizzata ed efficace. Tra qualche giorno verrà presentato il bilancio sociale e i numeri lo dimostreranno". "Al di là dei dissapori, quando si saluta una persona, la si saluta perchè si è passata una vita insieme. Grazie per lo spirito di squadra che mi hai insegnato quando sono venuto qui a Milano. Vorrei tanto che ci fossimo tutti": sono le parole di Antonio Di Pietro, ex pm di Mani Pulite intervenuto a Milano alla cerimonia per il pensionamento di Francesco Greco. "Non si può dimenticare quello che abbiamo passato - ha aggiunto - Qui abbiamo fatto il nostro dovere e ne abbiamo anche pagato le conseguenze. Sono venuto qua a dirti grazie, quel grazie che non sono riuscito a dirti e ho avuto il coraggio di dirti allora", quando Di Pietro ha lasciato la magistratura. "Si può essere d'accordo o non d'accordo con le decisioni prese - ha concluso - ma quello che abbiamo fatto non era per sovvertire lo Stato ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti". Nell'aula magna, è intervenuto anche Gherardo Colombo che ha ricordato che, a partire dal 1992, "abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante. Abbiamo condiviso momenti drammatici", ha affermato ricordando i suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari. "Abbiamo cercato di fare quello che ci diceva il codice con tante difficoltà e dolori". "Sono contento di essere qui a ricordare il passato - ha concluso - ma proiettati verso il futuro perché c'è una vita fuori, si può fare molto anche fuori", ha concluso Colombo che da 14 anni ha lasciato la toga.

La cerimonia di congedo. Greco ai saluti, l’Amara uscita di scena del Procuratore di Milano: “Magistrati in primis devono rispettare le regole”. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2021. “Lascio una procura organizzata ed efficace i numeri e i risultati sono ben rappresentati al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni”, ha detto Francesco Greco, procuratore capo di Milano, alla cerimonia di addio. Greco il 13 novembre compirà 70 anni e lascerà la magistratura. “Fra qualche giorno verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano”. Greco era diventato Procuratore nel 2016, da 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Arrivava da Roma (dove ha fatto da uditore in una breve parentesi) la sua città, anche se è nato a Napoli nel 1951. Cinque lunghi e complicati anni quelli a capo della Procura ambrosiana. Restano due procuratori aggiunti e diversi pm indagati dalla Procura di Brescia per la gestione dei casi più delicati nell’ultimo periodo, come la vicenda Eni Nigeria e il caso Amara. Successore da lunedì sarà Riccardo Targetti, ora procuratore aggiunto responsabile dei reati d’impresa, anche lui alla soglia dei 70 anni (andrà in pensione ad aprile). Nessun accenno al Processo Eni, al caso della presunta Loggia Ungheria, ai 56 su 64 pm che si sono opposti al trasferimento di urgenza del collega Paolo Storari. Non era aria oggi, non era il giorno. L’attenzione mediatica degli ultimi mesi aveva fatto urlare il Procuratore all’accerchiamento. In un’intervista a Il Corriere della Sera dal sapore del congedo, a inizio settembre, aveva sottolineato con enfasi “il tentativo di decapitare la Procura di Milano”, “un simbolo che deve essere abbattuto”. La giornalista Milena Gabanelli gli chiedeva se ci fosse un disegno più ampio dietro tutto ciò: “Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale”. E quindi chiosava: “Sono certo che questa Procura non cambierà pelle … almeno me lo auguro”. Il Procuratore descriveva come “una coltellata alla schiena” il comportamento di Piercamillo Davigo nell’ambito del caso sulla Loggia Ungheria. Proprio Davigo era assente oggi alla cerimonia molto partecipata, come riporta Lapresse, con un’aula magna gremita per Greco. Assente anche Ilda Boccasssini. Presente invece Antonio Di Pietro. “Io sono venuto perché volevo ringraziare Francesco Greco e dirgli delle cose importanti che non avevo avuto modo di dirgli quando ho lasciato la magistratura”, ha detto Di Pietro mandando i suoi saluti proprio a Davigo. “Per me oggi era un momento così importante che ci sarebbero dovuti essere tutti” coloro che hanno fatto parte del pool di Mani Pulite, ha aggiunto Di Pietro, precisando però che per lui “c’erano tutti, o di persona o nel cuore”. L’introduzione nella cerimonia del pm Elio Ramondini sui “43 anni, 10 mesi, 9 giorni, 14 ore e 10 minuti, ossia tutti il tempo che hai consumato a fare il magistrato qua”, ovvero lui che “ci hai protetto all’inizio della pandemia, hai colto subito che era una cosa seria”. Presente anche Gherardo Colombo e l’ex procuratore di Torino Sergio Spadaro. “All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura – ha aggiunto ancora Di Pietro – e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Vorrei ringraziare Francesco Greco perché” all’interno del pool di Mani Pulite “mi ha insegnato a fare squadra” e “a stare bene con gli altri” e quindi “abbiamo fatto quello che abbiamo fatto perché volevamo fare bene il nostro lavoro, arrestare dei delinquenti al di là dei risvolti politici”. Colombo ha ricordato il giorno in cui con Greco appresero la notizia “del secondo suicidio in pochi giorni”, quello di Raul Gardini, dopo quello di Cagliari, e gli anni passati insieme, fatti anche “di tante sofferenze e tanti dolori. Sono contento di essere qui a ricordare il passato, ma proiettati verso il futuro perché c’è una vita fuori, si può fare molto anche fuori”. Greco, esperto di reati economico-finanziari, ha ricordato che quando ha preso le redini dell’ufficio da Edmondo Bruti Liberati, anche lui presente, “avevamo una giacenza di 130 mila processi, e noi l’abbiamo abbattuto a 80mila”. E che quindi “lascio una Procura che è in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo e che proiettano il nostro lavoro in una dimensione sempre più globale, se è vero come è vero che la corruzione non ha confini. Io vedo sempre più un lavoro proiettato nel controllo del web” e nel “contrasto a cybercrime”. Nei suoi 5 anni da procuratore ha coordinato anche le indagini ‘Mensa dei Poveri’, quella sulla Lombardia Film Commission, l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider e il caso di Dj Fabo. “Serve un profondo rispetto delle regole che devono essere rispettate in primis proprio dai magistrati – ha aggiunto ancora Greco – Non è la prima e non sarà l’ultima tempesta che questo ufficio dovrà affrontare”. Certo senza la loggia Ungheria, senza le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara che hanno portato a un polverone e a un caso ancora tutto da decifrare e all’iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Greco (per omissione d’atti d’ufficio, posizione comunque archiviata) l’addio sarebbe stato senz’altro più dolce.

Compie 70 anni e lascia la toga. Ritratto di Francesco Greco, il procuratore di Milano che va in pensione dopo 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Quarantatré anni nello stesso corridoio del quarto piano al Palazzo di giustizia di Milano, porta dopo porta, fino all’ultima in fondo, quella dell’ufficio più prestigioso, quando nel 2016 Francesco Greco è diventato procuratore capo. E oggi siamo all’epilogo, con il compimento di settant’anni fra tre giorni e la pensione. Una scadenza in genere non gradita, considerata come una mannaia sul collo da quei magistrati come Piercamillo Davigo affezionati alla professione e anche al ruolo di potere come il suo ultimo al Csm. Per Francesco Greco, che era arrivato giovane e scanzonato e rivoluzionario nel 1979 dopo l’uditorato a Roma, la sua città, potrebbe essere una liberazione. Da una storia che è stata un vero ottovolante: successi, vertigini di potere prima, angosce e pugnalate alle spalle dopo. Persino l’umiliazione di essere indagato dalla Procura di Brescia guidata da un suo ex sostituto. Che lo ha poi archiviato, un gesto amichevole e di pacificazione, pur se evidentemente dovuto. I sorrisi, le pacche sulle spalle, le ipocrisie si sprecheranno, all’aperitivo che gli è stato organizzato nel “suo” Palazzo che lo ha visto giovane incendiario e lo congeda anziano triste, forse. Sollevato per il distacco, magari. Certo, il fardello è pesante. E per fortuna che Francesco Greco non se ne va da indagato, le mani restano “pulite”. Del Csm, una volta lasciata la toga, può anche infischiarsi. Il bilancio del suo lavoro, che considera positivo senza falsa modestia, l’ha già consegnato in settembre ai lettori del Corriere nelle mani di Milena Gabanelli, un vero testamento politico. Con una pesante amputazione, però, la storia di Mani Pulite, accantonata con noncuranza e straniamento: non è la cosa più importante che ho fatto, ha stabilito. Se il dottor Greco fosse ancora quello degli anni settanta-ottanta, quello del “gruppo del mercoledi” che sognava di fare la rivoluzione anche attraverso le battaglie sul garantismo e contro la sinistra ufficiale, si potrebbe sperare in un ripensamento. È capitato ad altri suoi ex colleghi come Gherardo Colombo e in parte Tonino Di Pietro. Ma rimarrebbe comunque qualche ombra, come la ferocia con cui si è rivoltato al suo ex mentore Francesco Misiani, addirittura deferendolo al Csm. E poi la teorizzazione di un metodo, che verrà definito “ambrosiano”, quello del potersi tutto concedere. Non sono quisquilie, cavilli, formalismi. Violare costantemente la regola della competenza territoriale, nella presunzione di essere gli unici in grado di incastrare i potenti, non è solo arroganza, è violazione delle regole. Usare la custodia cautelare per strappare confessioni, soprattutto nei confronti di persone che alla vista o anche solo alla prospettiva del carcere avevano gravi crisi psicologiche, è stato violenza e sadismo. Giocare con gli indagati al gatto e il topo –come qualcuno ha fatto- e poi dire, come qualcuno ha detto, che i quarantun suicidi significavano solo che c’erano ancora uomini con il senso dell’onore. Tutto questo non si può cancellare come se la storia di questi quarant’anni fosse solo quella più recente in cui, oltre a tutto, si tende a giustificare più che rivedere, magari anche con gli occhi degli altri. Magari ricordando, quando si parla del processo Eni, che non c’è stato solo un gup che ha rinviato a giudizio, visto che poi c’è stato il dibattimento con tutti i problemi per cui i due pm d’aula sono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio. E poi, visto che Francesco Greco, come sappiamo, in quella procura era presente anche ai tempi dell’inchiesta Enimont, potrebbe fare uno sforzo di memoria per ricordare che quella tra il colosso idrocarburi e la procura di Milano è storia maledetta e anche l’ossessione di qualcuno fin da allora. Potrebbe ricordare la maxitangente e spiegarci il perché di quell’arretramento di Di Pietro davanti al portone di Botteghe Oscure e dei suicidi di Cagliari e Gardini. Potrebbe aiutarci a capire l’ossessione nei confronti della creatura di Mattei, prima di precisare che la sentenza di assoluzione è solo quella di primo grado. Non si può continuare a dire che la Procura di Milano diretta da Francesco Greco è riuscita a portare a casa molto denaro facendo pagare le tasse ad alcune multinazionali e nello stesso tempo vantarsene sul piano internazionale sollecitando l’Ocse (la lettera dei quindici di cui abbiamo parlato ieri era la conseguenza dell’intervista di Greco al Corriere) a sanzionare l’Italia perché i poteri forti avrebbero preso di mira il suo ufficio. «Questa procura –aveva detto nella famosa intervista testamento politico- ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni». Sorvoliamo sulla nemesi che colpisce anche chi fa uso di campagne mediatiche. Ma è difficile continuare a difendere un ufficio dove il capo non è riconosciuto come tale se non da quei pochi che sono stati promossi come aggiunti. Il piano triennale di riorganizzazione del procuratore Greco di due anni fa era stato bocciato, prima ancora che dal Csm, da tutti i sostituti, insofferenti, magari a torto, del giogo che il capo dell’ufficio aveva posto sul loro collo quando li aveva obbligati a consultare l’aggiunto di riferimento prima di assumere iniziative importanti. C’era stata una vera ribellione. Ma ancora niente rispetto al maremoto dei mesi scorsi, quando 59 su 64 si erano schierati, con una lettera inviata al Csm, con il pm Paolo Storari in seguito alle note vicende dei verbali passati a Davigo. Ma la cosa forse più grave, la manifestazione di una vera insofferenza nei confronti del capo era stata la presa di posizione di ventisette pm rispetto proprio all’investimento fatto da Francesco Greco sul pool per indagare sulla corruzione internazionale. Perché tutto sarebbe stato ricondotto, dicevano in sintesi i ventisette, all’ossessione dell’Eni. Con il sospetto che la creazione nel 2017 di questo dipartimento “Affari internazionali e reati economici transnazionali” affidata all’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare dell’inchiesta sulla tangente da 1,1 miliardi e finita con l’assoluzione di tutti gli imputati, fosse legata soprattutto alla speranza di vincere quel processo e incastrare Eni proprio come negli anni novanta. Quanto è costato quel processo inutile e sbagliato? Forse anche questi conti vanno messi nel bilancio dei cinque anni in cui Greco ha guidato la procura di Milano. Insieme ai risultati positivi, che sono un po’ pochini, come la richiesta di assoluzione di Marco Cappato per il suicidio assistito di DJ Fabo o l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider. Poi c’è l’inchiesta “Mensa dei poveri”, con ipotesi di corruzione politica locale, di cui sono però ancora in corso i processi. E se si considera che i dati su quelli per reati contro la pubblica amministrazione ci dicono che finisce con condanne definitive non più di un quarto, questa indagine, nel libro del bilancio tra i risultati positivi non può ancora essere inserita. Che voto dare a questi quarantatré anni, infine, procuratore Greco, nel giorno del suo saluto al Palazzo di giustizia? Per ora un “non classificato”. Perché mancano le sue risposte su quella terra di mezzo, tra quel ragazzo rivoluzionario che ci piaceva e quello di oggi che è un po’ carnefice ma anche un po’ vittima. Ma sulla terra di mezzo, quella in cui Milano fu definita Tangentopoli, città delle tangenti, e un gruppo di pm, di cui lei era il più giovane, osò definire come “pulite” le proprie mani (e sporche quelle di tutti gli altri), su quello non ha niente da dire?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2021. Quando prendono la parola Gherardo Colombo, Armando Spataro, Antonio Di Pietro ed Edmondo Bruti Liberati per salutare l'ultimo della loro generazione ad andare in pensione, la sensazione è che con il collocamento a riposo di Francesco Greco si chiuda definitivamente non una pagina, ma un intero capitolo della storia giudiziaria italiana. Lo stesso che dalla fine degli Anni 60 ad oggi ha visto la Procura di Milano baluardo dell'indipendenza della magistratura tutta con indagini-simbolo coraggiose, come quelle su Piazza Fontana, P2, Tangentopoli, scalate bancarie, Toghe sporche e, in ultimo, sui giganti del web. In molte di queste inchieste, praticamente in tutte quelle sul mondo dell'economia, Greco è stato protagonista dalla parte dell'accusa, sin da quando per la prima volta, il 29 gennaio 1979, entrò, fresco di concorso, in un Palazzo di giustizia sconvolto dall'assassinio del magistrato Emilio Alessandrini poche ore prima. Come tutti i luoghi di lavoro, anche la Procura di Milano è stata attraversata nella sua storia da tensioni più o meno forti. L'ultima in ordine di tempo quella sulla vicenda della presunta loggia segreta Ungheria, che, con le inchieste disciplinari e penali che ne sono scaturite, ha lambito anche Greco, per il quale la Procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione dall'accusa di aver ritardato l'iscrizione di personaggi ipoteticamente appartenenti alla stessa loggia. Una vicenda dolorosa che per Francesco Greco è arrivata al termine di una carriera lunga quasi 44 anni ed il cui retrogusto amaro si percepisce sullo sfondo della cerimonia di addio organizzata da alcuni suoi sostituti in un'aula magna che, affollata nonostante le limitazioni anti-Covid, deve però registrare l'assenza di altri due pensionati di spicco: Piercamillo Davigo, componente dello storico pool Mani pulite, coinvolto su fronte opposto nella vicenda Ungheria, e Ilda Boccassini. «Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni, lascio una Procura organizzata ed efficace in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo», rivendica Greco guardando al minaccioso panorama del cybercrime mentre vengono proiettate le immagini più significative della sua carriera. «Abbiamo sempre fatto il nostro dovere», aggiunge, invitando i magistrati più giovani a non chiudersi «in una torre d'avorio», ma a seguire la vita del Paese consapevoli che «le doti di un servitore dello Stato devono essere la conoscenza, il coraggio e l'umiltà». Antonio Di Pietro vorrebbe che «al di là dei dissapori» i componenti del pool tornino a rivedersi da pensionati. «Non si può dimenticare quello che abbiamo passato facendo il nostro dovere, anche pagandone le conseguenze» in «un periodo di intensità disumana», afferma l'ex simbolo di Mani pulite prima di porgere a Greco, riferendosi a quando nel '94 lasciò bruscamente la magistratura in piena inchiesta, quel «grazie che non ho avuto il coraggio di dirti allora». A ricordare anche i «momenti drammatici», come i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, è Gherardo Colombo: «Abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante» quando «cercavamo di fare ciò che ci diceva il codice con tante difficoltà e tanto dolore». Per Armando Spataro, che ha concluso la carriera guidando la Procura di Torino, l'ufficio di Milano, dove ha lavorato decenni, è «una casa e anche una famiglia». Greco «ha dato corpo alla continuità del suo spirito».

Greco dice addio ma alla sua festa Davigo non c’è. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», è il saluto di Antonio Di Pietro alla cerimonia per il congedo del procuratore di Milano. Assenti Davigo e Boccassini. Il Dubbio l'11 novembre 2021. «All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Sono venuto qui a dire grazie a Francesco perché nel frastuono di quei giorni, di quei momenti, non l’ho fatto, non ne ho avuto il coraggio. Grazie per quello spirito di squadra che è riuscito a darmi». Sono le parole di un collega di sempre, Antonio Di Pietro, ad accompagnare Francesco Greco al passo d’addio. Il procuratore di Milano andrà in pensione il 23 novembre, a 70 anni compiuti, lasciando dietro di sé le macerie di un ufficio che ora, a trent’anni da Mani pulite, rischia di finire a processo. Arrivato con una procura spezzata dalla contesa tra il predecessore, Edmondo Bruti Liberati, e il suo vice, Alfredo Robledo, Greco è il penultimo ancora in toga del pool di cui resta solo il più giovane del gruppo, Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. A investirlo il giorno della presentazione fu Francesco Saverio Borrelli, la guida dai magistrati di Tangentopoli: «Sono certo – disse – che sarà capace di pilotare la navicella puntando sulla coesione e l’armonia dell’ufficio». Di certo non avrebbe potuto immaginare che Greco avrebbe chiuso i suoi cinque anni a Milano nel mezzo di una guerra intestina. Una «tempesta» – quella seguita alla vicenda dei verbali di Amara e al caso Eni – che la procura è però in grado di superare «come tante altre», assicura Greco nell’aula gremita del tribunale dove oggi si è tenuta la cerimonia d’addio. «La mia speranza era che oggi ci fossimo tutti noi» magistrati del pool, dice Di Pietro puntando il faro su due assenze ingombranti: Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», chiosa l’ex pm. A ricordare quella «dolorosa» stagione è anche Gherardo Colombo, l’ex magistrato del pool che non manca all’appello e per l’occasione rimette piede nel Tribunale di Milano a distanza di 16 anni. Da parte sua, Greco molla il timone con la convinzione di lasciare una procura «ben organizzata ed effice». Al di là, sottolinea, «di tante chiacchiere e strumentalizzazioni». «Fra qualche giorno – spiega – verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano». Quindi il saluto commosso: «È difficile fare un bilancio di una storia durata quasi mezzo secolo e iniziata il 29 gennaio 1979 – racconta – il giorno in cui è stato ucciso Emilio Alessandrini, un magistrato che non mai conosciuto ma uno dei simbolo che mi hanno convinto a entrare in magistratura». «La storia degli uffici giudiziari di Milano – conclude Greco – ha accompagnato la storia di questo paese» dagli Anni di piombo alla connessione globale, «elencare la storia di questi anni è come un grande libro che attraversa le grandi questioni di questo Paese. Abbiamo sempre fatto il nostro dovere, si sono dette tante cose, ma da quel 29 gennaio a oggi sempre qui dentro sono stato. Non abbiamo fatto sacrifici, abbiamo compiuto il nostro dovere con responsabilità».

L'amaro brindisi del procuratore Greco. Lascia l'ultimo pm del pool di Tangentopoli. Luca Fazzo l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Il "capo" di Milano in pensione da indagato per il caso dei verbali di Amara. «Quarantatre anni, nove mesi, dieci giorni, nove ore e dieci minuti»: Elio Ramondini, che era insieme a Paolo Ielo uno dei ragazzi di bottega del pool Mani Pulite e oggi ha i capelli bianchi, calcola così il tempo trascorso da quando Francesco Greco ha indossato per la prima volta la toga di magistrato, nella grande aula del Palazzo di giustizia di Milano dove ieri si celebra l'addio di Greco, che domenica va in pensione.

Era l'ultimo ancora in pista di quella testuggine romana che era il pool, tutti diversi, ma inattaccabili sotto lo scudo compatto. Da lunedì, nel palazzaccio milanese di quella stagione gloriosa e terribile non resta neppure un protagonista. Greco se ne va dopo cinque anni alla guida della Procura: per celebrare la sua investitura, nel 2016, venne in tribunale Francesco Saverio Borrelli, che non nascose la commozione per l'approdo al posto che era stato suo, di uno dei «pulcini» del pool.

Della squadra che diede l'attacco a Tangentopoli, Greco - che veniva dall'indagine sui fondi neri Eni - era la mente economica, sponda ideale per l'irruenza di Di Pietro, le sottigliezze di Davigo, le analisi di Gherardo Colombo. Ieri ci sono sia Di Pietro che Colombo. Non c'è Davigo, e Di Pietro, nel suo intervento, non manca di notarlo: «Vorrei tanto che ci fossimo qui tutti, quelli di quei giorni. Perché abbiamo fatto un pezzo di vita insieme, e abbiamo fatto il nostro dovere con coscienza per assicurare alla giustizia dei delinquenti».

Ma Davigo non c'è, non può esserci, perché l'addio di Greco arriva nel pieno della tempesta che ha investito la Procura, e di cui Davigo - facendosi consegnare dei verbali segreti dal pm ribelle Paolo Storari - è stato uno dei motori. È finita che ora sono tutti sotto inchiesta, e a Greco toccherà andare in pensione da indagato perché il suo proscioglimento, già chiesto dalla Procura di Brescia, non è ancora arrivato. E l'ombra lunga di quella brutta storia si allunga inevitabilmente anche sulla cerimonia di ieri, si traduce negli sguardi per capire chi c'è e chi manca. C'è lo stato maggiore, ci sono (quasi tutti) i vice. Ma scarseggiano la base, i peones della Procura che nello scontro interno si sono schierati con Storari e contro il capo.

Greco, quando tocca a lui parlare, all'enorme pasticcio accenna appena: «Non è la prima né l'ultima tempesta che la Procura di Milano dovrà affrontare», dice. E non fa cenno al tema della sua successione, della gara ancora incerta che potrebbe per la prima volta portare alla guida della Procura ambrosiana un magistrato cresciuto lontano da questo palazzo, dalle sue tradizioni, dai suoi cerchi di amicizie e di ideologie. Di tutto questo Greco non parla. Ma nei giorni scorsi, chiacchierando con un vecchio amico, aveva mostrato tutte le sue preoccupazioni: «Chi oggi - aveva detto - invoca per questa Procura un papa straniero temo che in realtà abbia in mente solo la normalizzazione della Procura di Milano, ridurla a occuparsi di inchieste da cronaca locale». Perché, piaccia o non piaccia, questa è la Procura che negli ultimi trent'anni ha battuto per prima nuove strade, ha cercato orizzonti nuovi nei nuovi crimini dell'economia digitale, dello sfruttamento postindustriale, della corruzione internazionale.

Già, la corruzione internazionale: già fiore all'occhiello e ora croce della Procura milanese, con il naufragio delle inchieste contro Eni per le tangenti in Africa. Tutti assolti. «Ma al popolo nigeriano - diceva Greco l'altro giorno - in cambio di quei giacimenti enormi devo ancora capire cosa sia stato dato».

(Oltre a Davigo, ieri mancava anche Ilda Boccassini: ma dopo quello che ha scritto nel suo libro forse è stato meglio così).

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il solito vizio di Davigo: "Berlusconi? Colpevole che l'ha fatta franca". Luca Fazzo il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex pm di Milano riscrive le sentenze Sme e Mondadori: "Graziato da toghe benevole". Lui non c'era. Quando si trattò di andare all'attacco, sferrando quello che doveva essere il colpo finale a Silvio Berlusconi, Piercamillo Davigo si tirò da parte. A raccontarlo è la collega che dei processi negli anni Novanta per il «caso Ariosto» fu la protagonista indiscussa, Ilda Boccassini: che nel suo libro uscito da poco, La stanza numero 30, scrive: «Il peso delle indagini gravava su di me e Gherardo Colombo. Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe intentato causa civile per astenersi». Ora anche Davigo ha scritto un libro, L'occasione mancata. Dove di quella battaglia combattuta da altri si riappropria, rivendicandola come se l'inchiesta e il processo li avesse fatti lui. La battaglia, come è noto, finì per il pool con una sconfitta sonora, con Berlusconi assolto con formula piena sia nel processo Sme che in quello per il Lodo Mondadori, scaturiti entrambi dalle dichiarazioni di Stefania Ariosto, la «teste Omega» dei rapporti tra i legali del Cavaliere e alcuni giudici romani. Ma nel suo libro Davigo liquida quelle assoluzioni come una dimostrazione di «grande benevolenza» da parte dei giudici che in udienza preliminare, in appello e in Cassazione si occuparono delle accuse a Berlusconi e ritennero che non ci fossero le prove di un suo coinvolgimento negli episodi contestati: per i quali secondo Davigo c'erano invece «fatti inoppugnabili», «ampiamente riscontrati e integrati da prove documentali». Berlusconi per Davigo non è un innocente ma un colpevole «che l'ha fatta franca»: categoria cui, come è noto, per il «Dottor Sottile» appartengono quasi per intero gli imputati che (magari dopo anni, magari dopo essersi fatta la galera) vedono riconosciuta la propria estraneità. Le assoluzioni sono di solito degli errori giudiziari. E l'assoluzione, tutte le assoluzioni del leader di Forza Italia sono errori anche loro: il caso Sme, la Mondadori, e prima ancora quella per le tangenti alla Guardia di finanza, l'accusa che portò al famoso avviso di garanzia del novembre 1994 durante il summit di Napoli. Secondo Davigo la Cassazione per assolvere Berlusconi si sarebbe rimangiata la sua stessa «giurisprudenza consolidata» sui criteri di valutazione delle prove: quisquilie giuridiche, insomma. Peccato che l'assoluzione di Berlusconi nel 2001 sia tranchant, e parli dell'assenza di «prove dirette né orali né documentali»; e che nel 2009 la Cassazione assolse anche due collaboratori di Berlusconi, Marinella Brambilla e Nicolò Querci, e anche in quella sede la ricostruzione degli stessi fatti su cui ora si basa in buona parte il libro di Davigo venne liquidata come «una serie di congetture del tutto opinabili, rimaste prive di alcun riscontro». Tutto ciò non conta. Se l'occasione di far fuori Berlusconi per via giudiziaria fu, come dice il titolo del libro di Davigo, L'occasione mancata la colpa secondo l'ex pm milanese non fu dell'innocenza dell'imputato o della mancanza di prove: ma dei giudici che pur «alla luce delle prove raccolte» e «a fronte delle condotte volte a impedire o rallentare i processi» e «della straordinaria gravità dei fatti» dimostrarono «grande benevolenza». Comunque per Davigo non è detta l'ultima parola: «su questo si pronunceranno gli storici quando le passioni saranno spente». Nell'attesa che gli storici dicano la loro, resta una curiosità: se le cose andarono come dice la Boccassini, perché Davigo di occuparsi del processo a Berlusconi non voleva neanche sentire parlare?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Il libro "L'occasione mancata" dedicato al Cav. Le assoluzioni di Berlusconi? Per Davigo sono colpa dei giudici. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Non ha fatto neppure in tempo a fare una scappata al Palazzo di giustizia, pur abitando a due passi, per partecipare al commiato del suo “caro amico” Francesco Greco. Piercamillo Davigo era troppo impegnato con un altro “caro amico”, Silvio Berlusconi, cui ha dedicato il lancio in anteprima del suo libro, L’occasione mancata, edito dal Fatto e pubblicato sul Fatto. Quando si dice la fedeltà. Bisogna dire che l’ex “dottor Sottile”, piercavillo o pieranguillo che sia, non delude mai per originalità. La sua tesi è che Silvio Berlusconi non solo non è stato mai perseguitato dalla magistratura, ma addirittura è stato privilegiato e protetto. Da chi? Niente di meno che dai giudici. Cioè da coloro che emettono le sentenze, quelli che dividono i colpevoli dagli innocenti, insomma. Per Davigo quel che conta è il parere del pubblico ministero, l’ipotesi da cui partono le indagini. Questa è l’unica verità, mica il risultato di quel che succede nei tribunali al termine dei processi. Le sentenze, insomma. Va riconosciuto all’ex pm milanese ora pensionato, di non usare nei confronti del leader di Forza Italia la solita tiritera delle “leggi ad personam” (su cui nessuno spiega mai se fossero norme giuste o sbagliate per il “signor chiunque”, l’unico nominato dal codice penale) piuttosto che delle prescrizioni. No, lui cita, in un caso anche con dovizia di particolari, tre famose inchieste che si sono concluse con l’assoluzione di Berlusconi. Tre esempi che gli servono per concludere che «l’atteggiamento dei giudici, all’esito dei vari gradi di giudizio… non può che essere definito di grande benevolenza». Speriamo non intenda alludere a qualche forma di corruzione nei confronti dei suoi ex colleghi del settore giudicante. Sembra invece piuttosto l’eco di quei film e filmetti che suonavano più o meno così: la polizia arresta e la magistratura scarcera. Inni alla custodia cautelare. E si può supporre che in quei casi uno come Davigo starebbe dalla parte dei carcerieri. È un finto arreso, gli va dato atto di mostrarsi sempre indomito, anche quando aveva fatto una figura meschinella nel non volersi scollare dal ruolo di consigliere del Csm. Anche quando, come ieri nello scritto sull’organo di famiglia delle toghe requirenti, cita malamente l’ “habent sua sidera lites” (ogni controversia segue il suo fato), di Piero Calamandrei, come se davvero pensasse che la giustizia è una sorta di gioco da non prendere troppo sul serio. Ma Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato del 1935, mette proprio in guardia, con parole di grande incoraggiamento, i giovani legali dall’arrendersi alla sorte dell’amministrazione della giustizia: «Ma tu, o giovine avvocato, non affezionarti a questo motto di rassegnazione imbelle, snervante come un narcotico… mettiti fervidamente al lavoro colla sicurezza che chi ha fede nella giustizia riesce in ogni caso, anche a dispetto degli astrologi, a fare cambiare il corso delle stelle». La causa può perderla l’avvocato difensore, ma anche il rappresentante dell’accusa. Ed è questo che Piercamillo Davigo non accetta. Non solo perché vorrebbe sempre vincere, ma perché pare per lui inconcepibile che dei giudici abbiano osato ribellarsi all’ipotesi accusatoria. Possiamo azzardare anche che l’orgoglio ferito frigga ancor di più se gli sconfitti sono un pm elogiato per la sua competenza e insieme la procura di quelli bravi, i Migliori, quelli di Milano? Aggiungiamo maliziosamente che se quello che ha vinto i processi si chiama Silvio Berlusconi, sono chili quelli del sale sparso sulle ferite. Il processo che rode di più è quello delle tangenti alla guardia di finanza. Davigo ne descrive minuziosamente i passaggi, e più si legge più si capisce (anche per chi non è avvocato né magistrato) quanto inconsistenti fossero quelle “prove” a carico dell’allora presidente del Consiglio, come rilevato dalla Cassazione che lo assolse “per non aver commesso il fatto”. Stiamo parlando dell’inizio della persecuzione giudiziaria – parola che a Davigo non piace, ma a molti sì, si rassegni- con il famoso invito a comparire mentre Berlusconi presiedeva un incontro internazionale sulla criminalità a Napoli e lo scoop del Correre della sera che ne diede notizia. C’è poco da scherzare e da invocare il fato e le stelle, caro dottor Davigo. Non c’era alcuna prova che Berlusconi avesse commesso un reato, e quel fatto, scoop del Corriere compreso, ebbe un rilievo notevole nella caduta del primo governo guidato dal leader di Forza Italia. Conseguenza politica di indagini infondate. Si rammarica ancora l’ex pm di Mani Pulite, delle assoluzioni nei processi Mondadori e Mills. Cita minuziosamente i nomi delle persone condannate e poi butta lì il suo “Berlusconi assolto”. E poi ancora nell’inchiesta “Sme-Ariosto”, in cui, secondo l’accusa, avrebbero dovuto bastare le testimonianze della ex fidanzata di Vittorio Dotti e di un’altra persona per far condannare Berlusconi. Ma, dice con sincerità Davigo, «La cosa che più mi ha sorpreso nelle vicende riguardanti Silvio Berlusconi e i suoi coimputati è stata la continua lamentela di una persecuzione giudiziaria». Lei come si sentirebbe, cittadino Davigo, se dopo centinaia di perquisizioni e processi sopra processi avesse già portato a casa una sessantina di assoluzioni (a fronte di una discutibile sola condanna)? Penserebbe di esser un colpevole che l’ha fatta franca grazie alla benevolenza dei giudici?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La procura dei veleni. Greco lascia la toga, e Storari se la gode: è sua l’inchiesta sul reddito di cittadinanza. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Francesco Greco nel giorno in cui ha dato l’addio alla mitica procura di Milano per andare in pensione ha finito per prendere in giro tutti, e a cominciare da se stesso. «Lascio una procura organizzata e efficace» in effetti è l’ultima cosa che poteva dire. Greco non può non sapere di lasciare un ufficio allo sbando dopo che 59 sostituti lo avevano mandato letteralmente a quel paese firmando un documento che con l’occasione della solidarietà a Paolo Storari era soprattutto un esplicito disaccordo per il modo in cui negli ultimi cinque anni è stata gestita la procura. E paradossalmente come se dovesse per forza piovere sul bagnato il giorno dopo le parole del procuratore nell’aula magna del triplice resistere di Borrelli campeggia sui siti dei giornaloni l’inchiesta coordinata proprio da Storari. In sintesi una banda di italiani e di romeni con una facilità impressionante accedevano al reddito di cittadinanza, truffando una ventina di milioni di euro e con la prospettiva di arrivare irrisoriamente a sessanta se non fosse intervenuta la guardia di finanza di Cremona. Ennesima dimostrazione che la legge sul reddito di cittadinanza era stata fatta senza prevedere anticorpi e controlli. Però Storari si gode il trionfo dopo aver evitato per il rotto della cuffia, il capo dell’ufficio stava sulle balle a quasi tutti i pm, il trasferimento in altra sede per aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali dell’avvocato Piero Amara. E qui stiamo a parlare della goccia che ha fatto traboccare il vaso. Si illude non poco chi dice che il procuratore Greco non può essere giudicato solo per gli ultimi mesi del suo mandato e per il processo Eni dove l’ufficio dell’accusa aveva cercato di vincere puntando sulle dichiarazioni di Amara e Armanna cavalli più che azzoppati. I processi si possono anche perdere, è fisiologico, ma nel caso specifico c’era il veleno di aver mandato le carte a Brescia con l’obiettivo di indurre il presidente del collegio Marco Tremolada a astenersi perché Amara sosteneva che sarebbe stato “avvicinabile” da due avvocati della difesa, Nerio Diodà e l’ex ministro Paola Severino. Manovra sporca. Greco comunque continua a godere di buona stampa. Viene incensato per aver recuperato un sacco di soldi a favore dell’orario dai colossi del web, ma senza spiegare che il magistrato si era sostituito all’Agenzia delle entrate trattando al suo posto. E ottenendo il versamento di somme largamente inferiori a quelle che sarebbero arrivate alla fine di un processo. Perché il compito dei procuratori resta quello di portare le persone davanti ai giudici non quello di recuperare denari per lo Stato. Il Corriere della Sera ribadisce che la procura di Milano è stata un baluardo dell’indipendenza della magistratura, facendo riferimento soprattutto a Mani pulite. I padroni del Corriere allora sotto schiaffo del pool per altre loro attività appoggiarono l’inchiesta ottenendo in cambio di farla franca, tanto per usare un concetto caro a Davigo. Che nell’aula magna a sentire l’autoincensamento di Greco non c’era. I due se le sono date di santa ragione sui giornali e a verbale davanti ai pm di Brescia. Si sono minacciati a vicenda di querela. Greco ha detto che Davigo prendeva i verbali di Amara dalle mani di Storari perché voglioso di vendicarsi dell’ex alleato al Csm Ardita. Davigo ha ribadito le accuse a Greco di non aver proceduto con le iscrizioni tra gli indagati delle persone chiamate in causa da Amara. Probabilmente hanno ragione entrambi. Ma non sono i risvolti penali della vicenda gli aspetti più interessanti. Finisce un’epoca mentre a grandi passi si avvicina il trentesimo compleanno di Mani pulite. Nell’aula magna Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo hanno affermato che allora si limitarono a fare il loro dovere, “pagandone le conseguenze” “e quante ce ne hanno fatte”. Fu una una guerra tra le classi dirigenti del paese. La magistratura saltava al collo di una politica indebolita per riscuotere il credito acquisito ai tempi della madre di tutte le emergenze. Quando Greco giovanissimo sostituto faceva parte di una pattuglia minoritaria ma combattiva che dall’interno di Md si opponeva alle leggi e alla pratica dell’emergenza mentre il suo ufficio ignorava l’allarme dei giovani del collettivo autonomo della Barona che sostenevano di aver subito torture in questura. Poi l’emergenza diventava infinita oltre che prassi normale di governo. E Francesco Greco uomo di potere. Con un fine carriera “un po’ così” diciamo eufemisticamente. Frank Cimini

L'orologio (guasto) dei pm. Luca Fazzo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Se è una coincidenza, bisogna dire che è una coincidenza dannatamente ostinata. Se è una coincidenza, bisogna dire che è una coincidenza dannatamente ostinata. Perché quando le inchieste giudiziarie fanno irruzione negli scenari della politica svanisce per incanto la regola che da sempre regge invece le indagini sul mondo dell'economia: dove se un arresto eccellente può compromettere il valore di un titolo azionario l'arresto si esegue dopo le 17.30, quando la Borsa chiude, in modo da evitare sconquassi (e magari l'arricchimento di chi sa tutto prima). Invece le indagini sulla politica si aprono e si chiudono, esplodono e si sgonfiano a ridosso o nel pieno delle scadenze politiche, modificandone il corso naturale. Peccato - e qui sta la diabolica coincidenza - che il timing degli annunci sembri seguire un doppio binario: se il blitz colpisce una certa parte politica (e non c'è neanche bisogno di specificare quale) si può stare certi che verrà realizzato nel pieno della campagna elettorale o di un vertice internazionale. Se invece a rimetterci è l'immagine della parte opposta, o comunque di uno schieramento caro al partito dei pm, si avrà la delicatezza di eseguire il passaggio ad urne ormai chiuse o quasi chiuse, in modo da non compromettere con ingerenze indebite la serenità del voto. L'elenco degli esempi sarebbe così lungo da apparire persino noioso. Fermandosi ai tempi più recenti, basterebbe citare solo i casi di Luca Morisi, l'animatore della «Bestia» leghista, e del deputato di Fdi Carlo Fidanza: il primo sotto inchiesta da mesi e mesi, e catapultato in prima pagina nel pieno della campagna elettorale; il secondo al centro addirittura da anni di una inchiesta giornalistica, che esplode anch'essa a ridosso del voto. E vabbè che i giornalisti fanno il loro mestiere e scrivono quando e come gli pare: ma poi arriva un pm che a ballottaggi incombenti incrimina Fidanza e soci. Non sempre, come è noto, l'azione penale è stata esercitata con la medesima tempestività. Ora arrivano i casi paralleli di Domenico Arcuri, ex commissario straordinario al Covid, e della Baggina, il Pio Albergo Trivulzio al centro di una inchiesta che lo dipingeva come un mattatoio per anziani. L'inchiesta sulla Baggina aveva tirato in ballo - non giudiziariamente ma mediaticamente - i vertici della Regione, incolpati di avere inviato nel vecchio ospizio centinaia di appestati. Non era vero niente, e che l'indagine sulla Baggina fosse destinata a chiudersi con un nulla di fatto era noto da tempo nei corridoi della Procura milanese: l'annuncio ufficiale arriva però solo dopo il secondo turno delle amministrative. L'opposto accade per Arcuri, star del governo grillino: incriminato, ma solo a urne chiuse. Coincidenze, eh.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

La guerra delle "inchieste. " Giacomo Susca il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra, sussiste un'anomalia che tormenta la vita quotidiana delle istituzioni. Politica e magistratura sperimentano gradi di separazione che vanno ben oltre il principio cardine che regge i poteri di uno Stato repubblicano. Il conflitto non occupa soltanto la vetrina dei quotidiani, ma permea nel profondo i rapporti di forza impedendo un confronto sereno e proficuo tra le parti. Basta leggere le cronache di queste settimane: il «sistema» della giustizia viene additato come l'esatto contrario di imparziale, operando spesso secondo logiche partigiane e seguendo un timing che suscita perplessità, se non autentico sospetto. Dall'altro lato della barricata, i custodi della volontà popolare espressa con il voto sono accusati di volersi sottrarre a qualunque giudizio materiale e morale. Una dimostrazione «plastica» di tale dissidio avviene quando si sente invocare l'urgenza di una «commissione parlamentare d'inchiesta», ormai per le questioni più disparate. Solo nell'ultima settimana ne sono state richieste tre, da forze politiche di diversa estrazione: sulla gestione dell'emergenza pandemica durante il governo Conte II e sullo scandalo mascherine dannose; sull'amministrazione di Alitalia; sullo smaltimento dei rifiuti inquinanti in Toscana. Nella XVII legislatura, quella terminata nel 2018, i disegni di legge per richiedere la costituzione di una commissione d'inchiesta sono stati più di 130. Sui siti internet di Senato e Camera sono riportate le attività delle cinque commissioni bicamerali, più altre sei monocamerali, a oggi istituite. Al di là della legittimità delle singole iniziative, peraltro sancita dall'articolo 82 della Costituzione, colpisce come il Parlamento tenga a difendere uno spazio di conoscenza e di vigilanza «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria». Nell'Italia delle mille inchieste, delle cause in arretrato, della presunzione di colpevolezza fino a prova contraria e dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, il braccio di ferro tra politica e magistratura non accenna ad attenuarsi. La ricerca della verità, a volte persino «alternativa» a quella ufficiale, continua a viaggiare su un doppio binario. Risultato: il Parlamento si occupa di giustizia e le toghe invadono la politica. E se in una guerra la prima vittima è proprio la verità, in questa guerra tra poteri a soccombere è la fiducia dei cittadini in chi li rappresenta, nelle aule del Palazzo come dei tribunali. Anche per questo, le urne deserte sono un segnale che nessuno può permettersi di ignorare. Giacomo Susca

Formidabile la riforma Vassalli. Poi arrivò tangentopoli…Il 24 ottobre 1989 entrò in vigore il nuovo codice e accese una speranza: che il rito di stampo autoritario fosse definitivamente andato in archivio. Beniamino Migliucci (past president UCPI) su Il Dubbio l'1 novembre 2021. Nel 1989, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale ispirato a un modello tendenzialmente accusatorio, si sperava che la cultura che aveva generato e sostenuto il rito inquisitorio di stampo autoritario fosse definitivamente abbandonata. Le nuove regole processuali erano, infatti, frutto di una stagione in cui ideali liberali e democratici in materia di giustizia avevano trovato fecondo terreno nella società, nella cultura, nell’accademia e nella politica. Si riteneva superato e dannoso per l’accertamento della verità processuale un sistema che affidava al P.M. o, nella migliore delle ipotesi, al Giudice Istruttore il monopolio della prova che, poi, transitava a dibattimento sostanzialmente immodificabile, senza che la difesa potesse effettivamente incidere su di un prodotto preconfezionato. Il nuovo modello alterava tutto questo: le indagini svolte dal P.M. dovevano essere limitate nel tempo e funzionali alla mera raccolta di elementi – e non prove – per verificare la sostenibilità dell’accusa in un eventuale dibattimento, dove le parti, nel contraddittorio, avrebbero effettivamente partecipato alla formazione della prova. Il contraddittorio, dunque, veniva eletto, a ragione, come il metodo scientifico più affidabile per evitare errori e rendere giustizia. Il sistema portava ad una evidente perdita di potere complessivo della Magistratura che, tra l’altro, non apprezzava intrusioni della difesa nella formazione della prova. Sia chiaro: il codice del 1989 non corrisponde ad un modello accusatorio puro, tanto che, ad esempio, vi sono norme come l’art. 506 che, attribuendo al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori temi di prova e porre domande ai testimoni, sottrae alle parti l’esclusiva dell’iniziativa e dell’esame e del controesame, o come l’art. 507 che consente al Giudice di integrare i mezzi di prova delle parti. Nonostante il nuovo codice conservasse tracce inquisitorie era risultato, da subito, indigesto a gran parte della magistratura che aveva iniziato ad avversarlo, evidenziando rischi catastrofici, quanto inesistenti, circa la impossibilità di celebrare alcuni processi, in particolare quelli di criminalità organizzata, pericolo, poi, smentito dai fatti. La totale e continua ostilità della Magistratura, oltre che nella perdita di potere, trovava e trova fondamento anche nella circostanza che, l’adesione ad un modello processuale accusatorio, dovrebbe portare, come inevitabile conseguenza, strutturali riforme ordinamentali, coerenti al nuovo sistema. A sottolineare l’esigenza di un radicale cambiamento, erano stati anche alcuni autorevoli, quanto isolati Magistrati, come Giovanni Falcone che, in un congegno organizzato nel 1988 dalla Camera Penale Veneziana, dal Titolo “Un nuovo codice per una nuova giustizia” rilevò la necessità di confrontarsi con alcuni temi ormai ineludibili come quello della terzietà del Giudice e della obbligatorietà dell’azione penale: «Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza. Un primo passo è stato mosso con la riforma dell’ordinamento giudiziario nei punti direttamente collegati all’introduzione del nuovo codice, ma altri e più incisivi interventi, prima o poi, occorrerà effettuare e le stesse necessità della prassi le renderanno indispensabili. In primo luogo, bisognerà valutare se e in quali limiti istituti come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del P.M. all’ordine giudiziario siano compatibili con un nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a tempi di grave portata e sui cui ancora l’analisi è appena agli inizi, ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative». La minaccia di sgradite quanto ineludibili riforme ordinamentali è risultata intollerabile per una parte consistente della Magistratura che ha, in ogni modo, manifestato il proprio dissenso rispetto al nuovo codice di rito. La politica, all’epoca, pur sempre attratta dall’idea di essere succube della Magistratura, non era stata ancora toccata dal ciclone di mani pulite e sembrò opporre una certa resistenza alla opposizione della Magistratura, resistenza che venne a cessare, per l’appunto, con la crisi della prima repubblica, travolta dagli scandali e dai processi. L’inizio del periodo di mani pulite coincise anche con le sanguinose e dolorose stragi criminali mafiose del 1992 che offrirono spunto per la controriforma e per le note sentenze demolitrici della Corte Costituzionale, con la contestuale introduzione di norme che consacravano il cd. doppio binario per alcuni reati, regole che poi hanno trovato applicazione per ogni tipo di processo. La politica, solo nel 1999 e grazie soprattutto all’UCPI, modificò l’art. 111 della Costituzione, introducendo i principi del giusto processo, finalmente aderendo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che già prevedeva all’art. 6 il diritto ad un processo equo. Da allora, sul codice di rito, interventi altalenanti quanto disomogenei, frutto, non di una visione organica di una politica giudiziaria, ma di contingenze, paure e convenienze elettorali, senza che l’art. 111 della Costituzione abbia trovato piena applicazione. Anzi: negli ultimi anni si è registrato un attacco senza precedenti a principi e valori costituzionali quali presunzione di innocenza, diritto di difesa, funzione risocializzante della pena. Il periodo più buio sembra alle spalle. La scellerata, quanto scriteriata riforma Bonafede della prescrizione è stata superata, così come neutralizzate altre norme che avrebbero mortificato non solo il codice di rito, ma anche principi costituzionali. Certo quella che ha preso il nome dell’attuale Ministra della Giustizia, dovuta anche alla inderogabile necessità di presentare in Europa un pacchetto di investimenti e riforme, poteva essere migliore, ma è stata determinata dal compromesso politico tra forze ideologicamente contrapposte, il che, in materia di giustizia, difficilmente produce risultati totalmente soddisfacenti. Quello che si deve evitare è: lo svilimento del contraddittorio dibattimentale; difendere il principio di oralità che è regola del processo penale; evitare che il processo diventi una punizione per chi ritiene di affrontarlo.

Il sistema accusatorio, o quel che resta di esso, deve essere difeso, ed anzi occorre rilanciare, sostenendo con forza i principi costituzionali del giusto processo, ribadendo, come l’UCPI sta facendo, l’ineludibilità della riforma della separazione delle carriere, perché un processo penale governato dalla cultura inquisitoria, il cui scopo improprio sia quello di combattere fenomeni criminali e di creare consenso attorno all’attività di questo o quel Magistrato e di governare, in questo modo, i mutamenti sociali determina, tra l’altro, inevitabilmente, uno squilibrio tra i poteri dello Stato. 

"Non è così": Bianca Berlinguer difende il Pci. Francesca Galici il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. Vivace discussione tra Bianca Berlinguer e Maurizio Belpietro sui finanziamenti al Pci da Mosca durante gli anni Ottanta e i primi Novanta. Animi caldi a Cartabianca durante una discussione in cui la conduttrice ha analizzato le ipotesi sul tavolo per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica ma anche la posizione di Matteo Renzi, stipendiato dallo Stato in quanto senatore ma consulente in Arabia Saudita, dove si trovava anche il giorno in cui si votava la tagliola al ddl Zan. Con lei in studio a riflettere su quei temi anche Luca Telese, Carlo Calenda e Maurizio Belpietro. Il più duro sul leader di Italia viva è stato l'ex candidato sindaco di Roma, che in tanti danno vicino a Renzi, circostanza fortemente smentita dallo stesso Calenda. Ma lo scontro si è acceso tra il direttore de La verità e Bianca Berlinguer, quando Belpietro ha ricordato un'inchiesta degli anni Novanta sui finanziamenti al Partito comunista da parte della Russia. Tutto nasce dalle parole di Carlo Calenda: "Io penso che come leader politico non puoi far convivere l'attività d'affari, certamente non lo puoi fare quando questa attività è fatta con Stati stranieri. Non c'è un presidente nella storia politica mondiale che, in carica, non può prendere i soldi da uno Stato". Il leader di Azione ha precisato che una legge in tal senso non c'è perché mai nessuno ha agito in quel modo. Ma a Carlo Calenda ha voluto replicare Maurizio Belpietro: "Qualcuno si dimentica la storia di questo Paese. Abbiamo avuto un partito che ha ricevuto i finanziamenti per 40 anni da uno Stato straniero, per altro nemico perché noi appartenevamo al blocco Atlantico e c'era un Paese che stava dall'altra parte. Fra l'altro in questi giorni mi è capitato tra le mani un numero di 30 anni fa di Panorama con un editoriale di Enzo Biagi, che raccontava esattamente i finanziamenti che arrivavano da Mosca. È problema che aveva il Partito comunista". A quel punto Bianca Berlinguer ha ricordato la legge sul finanziamento ai partiti, che ha di fatto ufficialmente interrotto i flussi da Mosca. Ma Maurizio Belpietro ha fatto una precisazione: "Quando cadde il muro (di Berlino, ndr) si scoprì che, fino all'ultimo giorno, il Partito comunista aveva ricevuto i finanziamenti da Mosca". Un'affermazione che ha fatto andare su tutte le furie la conduttrice, figlia di Enrico Berlinguer, che quando cadde il muro di Berlino era già morto. "Non è così Maurizio, questo te lo devo contestare. Si scoprì che era una parte precisa del Partito comunista che faceva capo ad Armando Cossutta. Non era il Partito comunista, anche se mio padre era già morto da molti anni", ha detto Bianca Berlinguer evidentemente innervosita davanti alle parole di Belpietro, che ha ribadito il concetto espresso poco prima, nonostante la conduttrice non abbia gradito. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

L’ex Msi Patarino in un libro autobiografico invita all’autocritica: su Craxi e Mani pulite sbagliammo. Riccardo Arbusti domenica 31 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Si può ragionare di politica e suggerire idee per l’attualità anche attraverso la rilettura dell’esperienza degli scorsi decenni. È quello che fa Carmine Patarino, parlamentare di lungo corso nelle file della destra, deputato alla Camera per sei legislature dal 1991 al 2013 (con la sola parentesi da non eletto tra il 1996 e il 2001), rievocando la sua personale storia politica. Pugliese di Castellaneta, tessera della Giovane Italia a quindici anni, poi attività nel Msi, in An, nel Pdl e in Fli. 

Patarino in un libro autobiografico racconta perché ha scelto la destra

Oggi si dichiara vicino alla proposta di Giorgia Meloni e di fratelli d’Italia. In un bel libro autobiografico scritto in prima persona – Fatti veri mai successi… e realmente accaduti (StampaSud, pp. 175, euro 12,00, con tavole grafiche di Egidio Patarino) – dopo aver sottolineato i punti fermi del suo stare a destra (europeismo, politica sociale, rispetto dell’emigrazione e proposte sull’immigrazione che mai debbono scadere a xenofobia, aspirazione alla pacificazione nazionale) e ricordato i suoi maestri, da Pino Rauti, leader della sua giovinezza, a Romualdi e Almirante, sino a Pinuccio Tatarella, spiega che allora come oggi ci sono dei punti fermi per chi intraprende l’impegno politico. “Vocazione, passione, entusiasmo, questi sono gli elementi che fanno da carburante per accendere il motore e partire per l’avventura politica…”. Aggiungendo che per poi essere un buon politico occorrono, primo di tutto: dedizione costante, impegno totale e, soprattutto, rispetto per le idee degli altri.

Basta con i politici motivati solo dall’idea di fare carriera

Da un po’ di tempo a questa parte, confessa più avanti Patarino, tra quelli che decidono di “scendere in campo” solo pochi sembrano spinti dalla passione disinteressata. Buona parte, invece, sembra motivata dalla possibilità di fare carriera o trovare una sistemazione. E da questo punto di vista l’ex parlamentare invita Giorgia Meloni a stare in guardia, facendo estrema attenzione in un momento espansivo per il partito di verificare che gli ingressi e le adesioni non arrivino da “ambulanti della politica” a caccia di nuove sistemazioni: “Ci furono certuni, approdati in An – spiega – proprio quando era al suo massimo splendore che avevano progetti legittimamente ambiziosi ma una fretta assolutamente ingiustificata. E, pur essendo molto modesti di idee e di consensi, pretendevano di ottenere tutto e subito…”.

L’autocritica di Patarino: su Craxi e Mani pulite abbiamo sbagliato

A un certo punto, l’analisi di Patarino riesce a farsi autocritica. È quando, tratteggiando coloro che nella politica italiana del secondo dopoguerra hanno operato per la pacificazione nazionale – dall’accoppiata Almirante-Berlinguer, sino a Craxi, Cossiga, e all’apertura di Violante da presidente della Camera – riesce a dire: “In quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto”. L’ex parlamentare si riferisce alla vicenda di Craxi e all’inchiesta Mani Pulite. Bettino Craxi era infatti stato, come presidente del Consiglio e segretario del Psi, il primo a rompere le regole non scritte del cosiddetto “arco costituzionale”.

Fu Craxi da avviare lo “sdoganamento”

Aveva avviato la pratica del riconoscimento – quello che poi sarà chiamato “sdoganamento” – di due milioni di italiani che votavano Msi. Aveva infatti instaurato un dialogo politico e istituzionale con la destra, “seminando il panico nei palazzi del potere” targati Dc e Pci: “Cosa sarebbe accaduto dopo lo sdoganamento del Msi, una volta che fossero caduti i veti? Quali effetti avrebbe prodotto la sua immissione nell’ambito delle trattative e degli accordi, a partire da quelli per la formazione dei governi e per la scelta del capo dello Stato?”.

Per ostacolare le riforme fecero fuori il Cinghialone

Ad avviso (postumo) di Patarino il discrimine politico non sarebbe più stato tra fascismo e antifascismo, e neanche tra comunismo e anticomunismo, ma tra proposte alternative di fronte all’unità nazionale: “ma per evitare che ciò accadesse – scrive – misero in moto una potentissima macchina per far fuori il Cinghialone, non solo sul piano politico”.

Il Msi sbagliò a seguire il clima giustizialista

Vale la pena leggersi per intero l’autocritica di un ex missino capace di farla: “Devo, purtroppo, ammettere che in quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto. Forse perché travolti dal clima giustizialista che stava interessando l’intera penisola; forse perché contagiati, come la stragrande maggioranza degli italiani, dal tifo per Mani Pulite e per Di Pietro; forse perché l’anima garantista di gran parte di noi non ebbe la forza di farsi sentire…”. Fatto sta, conclude, “che commettemmo un imperdonabile errore”. Un modo come un altro che può suggerire, anche, il fatto che quella scelta giustizialista conducesse la destra a fare il gioco di forze avversarie ai suoi progetti di conciliazione nazionale.

Craxi sfidò la sinistra sul finanziamento illecito ai partiti

“Che stessimo sbagliando – ribatte Patarino – avremmo dovuto scoprirlo dopo aver ascoltato l’intervento di Craxi tenuto alla Camera il 29 aprile del 1994, un evento di portata storica”. Craxi infatti, da abile e grande combattente, rileva Patarino, ebbe il coraggio, indirizzando continuamente lo sguardo verso i banchi della sinistra con l’evidente e plateale intenzione di sfidarli, di denunciare la lunga storia del finanziamento illecito ai partiti. “Che stessimo sbagliando la scelta di campo – si legge ancora nel libro – avremmo dovuto ancor più facilmente intuire dal fatto che Craxi, più che rivolgersi alla magistratura per difendersi dalle accuse contestategli, mise in evidenza il tentativo di alcuni partiti di processarlo senza alcuna prova, senza alcuna ragione, ma solo per incastrarlo e fargli pagare il conto per tutti”.

Il Msi doveva mettere sul banco degli accusati Pci e Dc

Il Msi, è ora il suo pensiero, avrebbe dovuto partecipare al dibattito, che metteva sul banco degli accusati il Pci e la Dc, e quindi intervenire per chiedere al Parlamento di dare seguito alla denuncia di Craxi attraverso una commissione d’inchiesta parlamentare. Non si sarebbe partecipato alla fine prematura del leader socialista e del suo progetto di Grande Riforma. “Dimostrando la fondatezza delle accuse di Craxi – conclude Patarino – quell’insopportabile sistema sarebbe crollato, l’Italia avrebbe finalmente voltato pagine e al nostro partito sarebbe stato riconosciuto il merito di aver contribuito all’accertamento della verità. Purtroppo non lo facemmo. Sbagliammo”.

Un’analisi coraggiosa e libera

Un’analisi coraggiosa e libera, quella dell’ex parlamentare. Che ancora oggi spinge a un interrogativo: quanto della politica successiva al 1993 è il risultato di quell’errore storico di prospettiva? E se, invece, potesse nascere proprio da quella decisione un cammino diverso e consapevole per la risoluzione della questione nazionale e per una destra a vocazione maggioritaria?

La commemorazione di Tangentopoli non sarà un pranzo di gala. Mancano ancora 4 mesi all'ora X - i trent’anni esatti dall’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa - ma una cosa è già chiara: la commemorazione di Tangentopoli rischia di trasformarsi in una nuova guerra. Davide Varì su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Ieri sera, in un teatro romano a pochi passi dal Parlamento, è iniziata ufficialmente la lunga commemorazione pubblica di Tangentopoli. In realtà siamo leggermente in anticipo: la data ufficiale del trentennale è quella del 17 febbraio 2022, giorno in cui ricorreranno i trent’anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa, “il mariuolo”, come lo definì Bettino Craxi, divenuto icona e simbolo dell’inizio di Tangentopoli. Possiamo dire subito una cosa: non sarà una commemorazione come le altre, non sarà un pranzo di gala; sarà invece uno scontro duro, un confronto serrato tra chi pensa che Tangentopoli fu l’inizio del rinascimento italiano e chi invece è convinto che si sia trattato di un golpe messo in atto da un pezzo di magistratura col sostegno di qualche servizio straniero. Ma torniamo a quella sala del teatro Umberto di Roma. Sul palco, a parlare di quella stagione e a commentare il bellissimo libro di Giuseppe Gargani – “In nome dei pubblici ministeri” – , c’era anche Gherardo Colombo. Colombo, come tutti sanno, è stato uno degli attori principali di quella stagione, uno dei pm del pool che insieme a Di Pietro e Davigo, e sotto la guida raffinatissima di Borrelli, ha cambiato i connotati della politica italiana. Gherardo Colombo, a dire il vero, è sempre stato considerato la colomba – nomen omen – di quel gruppo di magistrati molto determinati e convinti che la loro fosse una missione che andava ben al di là della giustizia: molti di loro pensavano di dover cambiare la coscienza stessa del paese, il “precario” senso di legalità degli italiani. Per questo devono aver pensato che qualche piccola forzatura del diritto tutto sommato fosse accettabile, giustificata dall’obiettivo imponente che si erano prefissi. E così l’uso della galera preventiva, degli avvisi di garanzia branditi come condanne e dati in pasto ai giornali prima ancora che il diretto interessato ne fosse informato, erano “effetti collaterali inevitabili”. Ma Colombo, che pure è un raffinato giurista e un uomo devoto al dialogo, non ha ceduto di un millimetro, non ha mai riconosciuto neanche il minimo deragliamento da parte della magistratura italiana. Anzi, ha rivendicato con fermezza, a tratti con durezza, l’assoluta correttezza e trasparenza del lavoro svolto dal pool milanese. Eppure fu un suo collega a dire «noi non li mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano…». Insomma, il dottor Colombo ha parlato a lungo di pacificazione ma non ha mai messo in discussione l’operato della procura di Milano. La pacificazione è un’intenzione seria ma è anche un processo lungo e doloroso: ognuno deve avere la forza e il coraggio di guardare ai propri errori, ai propri eccessi, senza ipocrisie e liberandosi di qualsiasi tentazione corporativa. E quegli arroccamenti sembrano più le premesse di una nuova guerra. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno…

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. Venanzio Postiglione su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza.

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa. È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione. Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino. «Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte. Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores. Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora. Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa. Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso. Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando. Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

Il paese dei mascariati o degli impuniti? Linkiesta e il Fatto a sportellate sulla giustizia su Micromega. Micromega su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Christian Rocca e Gianni Barbacetto, invitati da Paolo Flores d’Arcais, dibattono sul cortocircuito magistratura-politica-informazione sul numero della rivista in libreria. Nel numero 5.2021 di Micromega, in edicola dal 16 settembre, i due giornalisti si confrontano su uno dei temi più importanti e ostici del dibattito pubblico italiano, l’interdipendenza tra politica, giustizia e informazione.

Christian Rocca: Qualche anno fa Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri fondarono il premio “È giornalismo”. Io penso che sia il caso di istituire anche il premio “Non è giornalismo” per descrivere quello che è successo nel mondo dell’informazione sicuramente dal 1993, ma forse anche dai tempi di Enzo Tortora, a oggi. Ai tempi di Tortora ci furono giornalisti che brindarono alla condanna nei confronti di un uomo che non era soltanto innocente, ma estraneo ai fatti. Quello che è successo in questi quarant’anni è il sostanziale asservimento delle redazioni alle procure, e per questo servirebbe un premio, che negli ultimi anni avrebbero dovuto vincere a turno – come Messi e Ronaldo si alternano a vincere il Pallone d’Oro – Marco Travaglio con il Fatto Quotidiano e Maurizio Belpietro con La Verità, anche se ovviamente gli anni cominciano a pesare e a farsi sentire per tutti. Travaglio, che è l’alfiere di questo modo di fare giornalismo, ormai si occupa di politica, preferisce fare il pr di Giuseppe Conte, e incalzano quelli che io chiamo i “manettari minori”, come Emiliano Fittipaldi e il Domani. Senza dimenticare i grandi giornali, i grandi player dell’informazione che fanno ancora dei colpi da maestro, anche se devo dire che per fortuna da quando è arrivato Maurizio Molinari a dirigere Repubblica, il quotidiano fondato da Scalfari è meno casella “inbox” di certi pm e di certe procure. Giornalismo è dare, analizzare, commentare notizie, non fare i portalettere o addirittura gli ufficiali giudiziari delle procure, anticipando all’indagato l’avviso di garanzia o chiedendogli un commento sui brogliacci o sulle intercettazioni: questo rientra forse nelle mansioni di uditore giudiziario o di secondino, certamente non in quelle previste dal contratto collettivo di lavoro giornalistico. Il giornalista non lavora nel settore della mascariamento per conto terzi, come usano dire certi mafiosi o pentiti di mafia. Ovviamente siamo tutti liberi di fare giornali che parteggiano per una parte politica o culturale o sociale. Sappiamo che ci sono giornali che fanno lobby, giornali di proprietà confindustriali, giornali vicini al sindacato o vicini, se non di proprietà, di avvocati, e quindi accetto anche che ci siano giornali vicini alle procure, sebbene le procure siano un potere dello Stato, un potere che può togliere la libertà ai cittadini o capace appunto di mascariarlo, tra l’altro senza alcuna conseguenza in caso di errore anche grossolano. Non è una cosa che accetti con grande entusiasmo, ma facciamo passare anche questa anomalia italiana di avere giornali pro manette sempre per tutti, che al posto del santo del giorno segnalano l’indagato del giorno e che sostengono che quello dell’arresto sia il momento magico della giustizia, come si legge nel famoso libro-intervista di Travaglio al magistrato Maddalena1.utto ciò a me ricorda un po’ i giornali dei Guardiani della rivoluzione khomeinista più che Montanelli e vorrei capire che cosa c’entri questo con l’informazione e il giornalismo.

Gianni Barbacetto: Io e Christian Rocca viviamo evidentemente in due mondi diversi, perché il mondo di cui lui ha appena parlato io non lo conosco, non so proprio dove stia. Il Paese in cui vivo io è un Paese con un altissimo tasso di illegalità nell’economia, nella politica, in tutti i settori della vita collettiva e in cui vedo un asservimento di gran parte della stampa ai poteri economico e politico, che silenziano le notizie sgradite. Cos’è giornalismo? Giornalismo è informare sui fatti e fare il controllo sui poteri, essenzialmente quello economico e quello politico. Insomma la solita, se volete banale, definizione di giornalismo come cane da guardia dei poteri. Naturalmente il giornalista ha un dovere di assoluta riservatezza nei confronti delle vite dei privati cittadini, ma nei confronti di coloro che vivono in pubblico la loro avventura politica, economica, di spettacolo, di sport eccetera, i giornalisti hanno invece il dovere di fare le pulci in maniera precisa, tenace, assoluta, costante e senza dimenticare il passato.

In Italia tutto questo lo fanno pochissimi giornali, tra cui il Fatto Quotidiano e MicroMega. Perché gli altri non lo fanno? Beh diciamolo: perché o sono di proprietà di qualche potere economico o hanno rapporti col potere politico, per cui il giornalismo in Italia è una sorta di sottosistema della politica e non sono rari i casi di politici che diventano giornalisti e giornalisti che diventano politici. C’è insomma una sudditanza economica, politica e culturale ai poteri, addirittura una sorta di voluttà di servilismo che pervade gran parte dei giornalisti italiani e che fa fare loro esattamente il contrario di quello che è il mestiere del giornalista: servire i poteri invece di controllarli.

In Italia ci sono stati pochissimi momenti “magici”, in cui questo gioco è saltato e i giornalisti hanno fatto quasi tutti il loro mestiere. Uno è il biennio di Mani Pulite, 1992-1993, un altro è l’estate dei furbetti del quartierino in cui i giornalisti hanno raccontato in presa diretta e in modo preciso l’inchiesta sulle scalate bancarie. Certo, il giornalismo italiano il servilismo ce l’ha nel sangue, per cui negli anni di Mani Pulite, molti giornalisti, abituati a leccare i potenti, si sono messi a leccare i magistrati, penso in particolare all’atteggiamento di alcuni giornalisti nei confronti di Di Pietro, incensato anche per i congiuntivi sbagliati. In ogni caso, non mi vengono in mente altri momenti in cui gran parte del corpo giornalistico italiano abbia fatto bene il suo mestiere. Quello che invece è costante è l’uso strumentale e politico dell’informazione, per cui ci sono giornali che difendono a spada tratta il loro padrone, direttore, editore e tutti i loro amici, scagliandosi contro l’uso delle inchieste giudiziarie; ma poi attaccano, usando anche le indagini giudiziarie, gli avversari del proprio padrone o direttore o editore. “Giustizialisti” selettivi.

Rocca: Hai ragione, viviamo in due mondi diversi…

Barbacetto: Indubbiamente. È che io leggo i giornali e i giornali mostrano che il mondo è come l’ho descritto io, non come lo racconti tu. Tu racconti un mondo di mascariati, io vedo un mondo di prescritti e di politici che la fanno franca. Mascariare significa infangare in maniera ingiustificata persone che sono pure come gigli. Io non ho mai mascariato nessuno, né lo ha fatto il mio giornale che invece ha raccontato, in maniera molto spesso solitaria, le malefatte di politici e imprenditori, che poi il giorno dopo tutto il resto della stampa italiana si affrettava a difendere. Altro che mascariare! C’è un difetto di memoria non un eccesso di mascariamento nel nostro Paese! Quanto alle manette: io non ho nessun gusto per le manette e sarei felice se non esistessero le prigioni. Però fintanto che le prigioni esistono e ci vanno i poveri cristi, pretendo che ci vadano anche i potenti. Io voglio soltanto l’uguaglianza tra i poveri cristi e i potenti. Si chiama uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Vogliamo chiudere le prigioni? Benissimo, ma chiudiamole per tutti.

Rocca: Tu dici che basta leggere i giornali per dimostrare che hai ragione tu, ma proprio se leggi i giornali dal 1992 a oggi si vede che quello che tu hai chiamato il “momento magico” non è mai finito! Sui giornali si parla solo ed esclusivamente di indagini, la politica è fatta solo sulle indagini, i governi cadono o si costruiscono solo sulla base delle inchieste giudiziarie! Si è arrivati persino al punto che un movimento nato esattamente da questa idea di “dagli al corrotto” ha preso il 30% ed è arrivato al potere. È un dato di fatto oggettivo. Così come è un fatto oggettivo che, stando ai dati forniti dall’allora guardasigilli Bonafede, dal 1992 al 2017 sono state circa 26 mila le persone risarcite dallo Stato per ingiusta detenzione. Ossia lo Stato ha riconosciuto che era assolutamente infondato mettere quelle persone in galera. Questo significa che in questo Paese mille persone all’anno, tre persone al giorno, una persona ogni 8 ore va in galera ingiustamente2. Questo stando ai risarcimenti realmente corrisposti, perché se invece prendiamo in considerazione le richieste di risarcimento secondo le cifre fornite da alcune associazioni come Antigone o Nessuno tocchi Caino, il dato sale a circa 3mila persone l’anno. Altro che Paese di impuniti, questo è un Paese dove la gente va in galera senza motivo! E tra questi ci sono anche tanti poveri cristi, non solo i politici. Siamo arrivati alla follia per cui Antonio Polito sul Corriere della Sera3 propone di togliere la prescrizione solo per i politici! Per me giornalismo non è “sgominare una giunta” come scrisse in un famoso titolo dell’Indipendente Vittorio Feltri o far arrestare un sottosegretario o dimettere un amministratore delegato. Giornalismo è dare notizie. Ora non c’è dubbio che il fatto che un pm indaghi su una persona che ha delle responsabilità pubbliche è una notizia. Tra l’altro si chiama appunto notizia di reato quando viene iscritta nel registro. Quello che io contesto è il fatto che spesso la “notizia” sui giornali arrivi persino prima che all’indagato. Prendiamo il famoso caso Watergate, che ha portato poi alle dimissioni di Nixon e che è sempre portato come esempio di grande giornalismo. Bene, in quel caso i dettagli dell’inchiesta uscirono sui giornali dopo che si erano svolte le audizioni pubbliche. Non ci furono magistrati che passarono le informazioni ai giornalisti prima, e la stessa cosa è accaduta più recentemente con il rapporto Mueller sul Russiagate. Da noi invece i magistrati passano non solo le notizie di reato, ma anche informazioni che non sono notizie di reato, penso per esempio alle intercettazioni che non hanno rilevanza per le indagini e che dovrebbero andare distrutte. Da qui il mascariamento di cui parlavo prima. Che dei pm aprano una indagine su Renzi4 è una notizia? Certo che lo è! Il problema è da un lato la fuga di notizie prima che lo stesso indagato riceva l’avviso di garanzia e dall’altro lo stillicidio di piccole notizie date quotidianamente, un aggiornamento costante su dettagli spesso irrilevanti e che però si prendono la scena del dibattito pubblico politico e culturale. È accaduto con Renzi, con Berlusconi, con D’Alema ma non accade solo con i politici, basti pensare alla vicenda Mottarone. Che sia chiaro: chi viola il segreto è il magistrato non il giornalista. Il giornalista, se la notizia è verificata, fa il suo dovere pubblicandola. Ma mi domando: che razza di giornalismo è quello che si riduce a copiare da un file passato dal titolare di un’inchiesta? Non è certo grande giornalismo investigativo. Il giornalismo investigativo è esattamente il contrario: è quello dei giornalisti che indagano per proprio conto, svelano dei fatti su cui eventualmente dopo la magistratura aprirà delle inchieste.

Ma questo in Italia non accade mai. Ricordo che nel 2006 l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato denunciò in Parlamento l’abitudine di certi procuratori di passare a dei giornalisti fidati username e password dei sistemi informativi degli uffici giudiziari, in modo da facilitare il lavoro di copia-incolla dei verbali5. Ciascuno di noi può ricordare mille episodi di giornalisti che entrano in redazione con i cd-rom dati dalle procure…

Barbacetto: Sì, come no? Ma magari!

Rocca: Ma dai, su, lo sappiamo tutti che è così, con le riunioni dei capiredattori e dei direttori dei grandi giornali che ai tempi di Mani Pulite decidevano su quale indagato puntare quel giorno e quale rinviare al giorno successivo. Questo non è giornalismo, è barbarie. È una barbarie aver trasformato l’avviso di garanzia – che è un istituto introdotto dalla riforma del Codice penale del 1988 a garanzia, appunto, della persona su cui la procura sta indagando – in un indizio, se non addirittura in una sentenza di colpevolezza. Come disse una volta padre Ennio Pintacuda, ideologo della Rete e profeta di Orlando: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Su una cosa, però, hai ragione Gianni. È verissimo che la gran parte dei giornali italiani è garantista con gli amici e giustizialista con i nemici e riconosco che invece il giornale per il quale lavori tu, il Fatto, è giustizialista sempre e con tutti. Oddio, forse un tantinello meno con i 5 Stelle, ma tutto sommato possiamo dire che è giustizialista a 360 gradi.

Barbacetto: Continuiamo a vivere non in due mondi, ma in due universi paralleli separati da galassie e distanze siderali. Per quanto riguarda il rapporto con le procure: magari uno andasse in procura e avesse il dischetto pronto! Nella stragrande maggioranza dei casi in realtà le notizie arrivano dagli avvocati. Quando ci sono molti avvocati coinvolti che hanno anche interessi confliggenti, la strada maestra del giornalista è andare dall’avvocato che si sa avere un certo interesse a diffondere alcuni materiali giudiziari: quella diventa la tua fonte. Almeno, io lavoro così. Magari avessi aiuti dai magistrati! Forse bisognerebbe cominciare a fare degli esempi concreti perché altrimenti…

Rocca: Benissimo, i primi due esempi che mi vengono in mente sono l’avviso di garanzia recapitato a Berlusconi via Corriere della sera durante il vertice Onu nel 1994…

Barbacetto: … che è una fake news.

Rocca: Su questa storia c’è la ricostruzione che ha fatto qualche anno dopo Alessandro Sallusti, allora caporedattore del Corriere, quindi tanto fake news non è6.

Barbacetto: E invece sì, perché le cose sono andate così: l’invito a comparire (perché di questo si trattava, non di un avviso di garanzia) fu regolarmente consegnato a Berlusconi a Roma il giorno prima che ne scrivesse il Corriere. Berlusconi era partito per Napoli, venne informato e chiese che il documento gli venisse letto al telefono.

L’ufficiale dei carabinieri aprì la busta e cominciò a leggere i capi d’imputazione, ma venne interrotto dopo il secondo dei tre capi. Il giorno dopo, il Corriere scrisse solo dei due capi d’imputazione letti a Berlusconi. Questo mi ha sempre fatto pensare che la fonte della notizia fosse da cercarsi negli ambienti vicini a Berlusconi, non certo nella procura. Di vere violazioni del segreto io ne ricordo in realtà solo un paio. Una fu la divulgazione al Tg di una rete Fininvest dei nomi di cinque manager dell’azienda, tra cui Marcello Dell’Utri, di cui era stato chiesto l’arresto per falso in bilancio nel marzo 1994. Dopo quella divulgazione, saltarono gli arresti. Quindi fu una rivelazione a favore dell’indagato…

Rocca: (ride).

Barbacetto: Tu ridi ma le cose stanno così. L’altro esempio che ricordo è la pubblicazione sul Giornale di Berlusconi di una intercettazione trafugata e portata a Berlusconi come “regalo di Natale”: la telefonata di Piero Fassino che chiede «Abbiamo una banca?». Non era un reato, ma fu usato in campagna elettorale da Berlusconi per vincere le elezioni. Di altri casi clamorosi di rivelazione di segreto non ne ricordo. Mentre una volta che la notizia è stata consegnata all’indagato si può e si deve raccontare. Riferire degli avvisi di garanzia non è barbarie, è informazione.

Rocca: Io non ho mai detto questo, anzi ho esplicitamente detto che ovviamente se un politico è indagato è una notizia che va riferita. Quando ho parlato di barbarie mi riferivo alla pessima pratica di raccontare di indagini in corso prima che l’indagato riceva l’avviso di garanzia, cosa che tu dici che non accade mentre è una prassi molto diffusa e il tuo giornale stesso si vanta di riferire queste cose prima degli altri.

Barbacetto: Il mio giornale si vanta di raccontare le malefatte dei politici prima degli altri, non gli avvisi di garanzia. Perché sai, a volte accade che i giornalisti raccontino delle storie che poi danno luogo a indagini.

Rocca: Beh, questo sarebbe vero giornalismo investigativo, ma in giro per la verità non ne vedo molti di esempi… Un altro caso molto recente della barbarie di cui parlavo è la notizia delle indagini su Renzi per la vicenda che coinvolge Presta data dal Domani prima che Renzi ricevesse l’avviso di garanzia. Ho citato un caso antico e uno recentissimo, ma potrei citarne decine e decine. Uno degli indagati del caso Eni, poi naturalmente assolto, mi ha riferito per esempio che era stato informato di essere indagato da un giornalista proprio del tuo giornale, che lo ha chiamato mentre si trovava negli Stati Uniti. Dai su, non possiamo negare la realtà a meno che non vogliamo vivere nel mondo di Trump dove le bugie vengono definite “verità alternative”. Chiunque apra i giornali si accorge che non si parla d’altro se non di inchieste.

Barbacetto: I giornali che leggo io sono evidentemente diversi da quelli che leggi tu. Io vedo giornali in cui la cronaca giudiziaria negli ultimi anni è diventata residuale…

Rocca: Certo, perché è diventata cronaca politica!

Barbacetto: … come quasi residuali sono i cronisti giudiziari. Ricordo che ai tempi di Mani Pulite c’erano decine e decine di giornalisti fissi al Palazzo di Giustizia di Milano. Oggi ce ne sono due o tre che girano spaesati in assenza di notizie. Un limite…

Rocca: È ovvio che non ci sono più giornalisti giudiziari di stanza fissi al Palazzo di Giustizia quando basta un WhatsApp per avere i brogliacci…

Barbacetto: … un limite che vedo nelle cronache giudiziarie è che forse spieghiamo in maniera poco chiara le questioni giudiziarie che a volte sono complicatissime e talvolta anche contraddittorie. Ma io non vedo brogliacci sui giornali… Quello che osservo negli ultimi anni è una sottovalutazione della cronaca giudiziaria. Vedo notizie su inchieste importanti date a pagina 23 del Corriere della Sera e alle quali solo il Fatto Quotidiano e talvolta, quando gli conviene, il giornale di Belpietro mettono in prima pagina. Molti parlano di “gogna mediatica”, che è un’espressione che eliminerei dal dibattito pubblico. Gogna mediatica significa mascariare per l’appunto un innocente o dare addosso a uno che non ha fatto nulla. Non mi sono mai piaciute le esibizioni delle manette o del cappio (come fece la Lega in Parlamento), né le esagerazioni di Vittorio Feltri ai tempi di Mani Pulite. Ma raccontare i fatti non è gogna mediatica, è informazione. Tu sostieni che bisogna raccontare le cose solo dopo che sono state definite nel processo perché altrimenti, se si raccontano all’inizio, c’è il rischio di mascariare le persone di cui parli. Io sostengo invece che il controllo dei poteri dev’essere fatto in diretta. Se c’è un’indagine in corso, per raccontare i fatti non posso certo aspettare la sentenza di Cassazione, che arriverà magari tra dieci anni! Perché nel frattempo quel politico che era, poniamo, consigliere comunale è diventato magari senatore o addirittura presidente della Repubblica!

Rocca: E che mi dici invece di tutti i sindaci che vengono fatti dimettere e di governi che cadono per poi scoprire che le persone coinvolte nell’indagine erano innocenti? In dubbio pro reo si diceva un tempo, ma evidentemente per te non è così.

Barbacetto: Finisco il mio ragionamento e ci torno. Io abolirei l’uso della parola “giustizialismo”, che non significa niente. Ma se proprio la vogliamo usare, mi verrebbe da dire che i veri giustizialisti in Italia sono quelli che si definiscono garantisti perché sono ossessionati dalle sentenze e dalle carte giudiziarie: bisogna aspettare le sentenze, dicono!

Rocca: (ride).

Barbacetto: Mentre io sono per un uso non giudiziario delle carte giudiziarie. Io faccio il giornalista e non il magistrato e utilizzo le carte giudiziarie come fonte di notizie. A me non importa la qualificazione di reato, a me importa raccontare i fatti.

Rocca: Ma quelli che si trovano negli atti di indagine non sono “i fatti”, questo è il punto! Sono una ricostruzione parziale dei fatti, che poi andrà confrontata in sede dibattimentale con la ricostruzione della difesa, per giungere a una ricostruzione stabilita dal giudice. E anche quella che troviamo in sentenza non è necessariamente la verità storica, ma solo quella giudiziaria.

Barbacetto: Qui siamo alla barzelletta. Cioè, secondo te i fatti sono la mediazione tra accusa e difesa. Ma i fatti sono fatti, avvengono prima!

Rocca: Mediazione? Non ho mai parlato di “mediazione”! Ho parlato della necessità di seguire il dibattimento, in cui la difesa magari porta prove contrarie che “smentiscono” i fatti per come erano stati ricostruiti dall’accusa e quindi per farsi un’idea dei fatti bisogna sentire le varie versioni. Prendiamo il caso Eni, su cui avete raccontato un sacco di balle. In quel caso il pm ha tenuto nascosta una prova che avrebbe fatto cadere l’inchiesta.

Barbacetto: Questo non è vero.

Rocca: Come non è vero? Sono stati assolti tutti gli imputati!

Barbacetto: È curioso che, dopo aver sostenuto che i fatti sono fatti soltanto quando tutti hanno detto la loro, poi invece prendi per buona la tesi di uno degli attori in campo che dice che il pm ha nascosto prove che sarebbero state in favore della difesa. Se andassi a vedere che cosa risponde il pm, capiresti che quelle che sono state raccontate come prove a discarico in realtà non lo erano. Si tratta sostanzialmente di un video in cui uno degli indagati dice che sta per andare in procura a collaborare con la giustizia. Cosa proverebbe questa cosa? È prova di un complotto? No, è solo prova di uno che dice, di fatto, «racconto tutto e gli faccio il culo a quelli lì». Poi bisognerà andare a vedere se le cose che racconta sono vere o false. Ma in sé quel video non è una prova a difesa, tant’è vero era già nelle mani delle difese di Eni che però, curiosamente, non l’avevano prodotto fino a quel momento perché evidentemente non lo ritenevano utile.

Rocca: No, perché faceva parte di un altro processo. Io non so se il pm Fabio De Pasquale ha commesso un qualche reato di occultamento o sia stato un errore, questo lo stabiliranno i magistrati che indagano…

Barbacetto: Certo, sei garantista con tutti tranne che con De Pasquale.

Rocca: Ma non ho detto che lo ha commesso! Ho detto che non lo so e che sarà la magistratura di Brescia a stabilirlo. So però che grazie anche a quella prova che non è stata presentata gli imputati sono stati assolti.

Barbacetto: Ma che cosa c’entra un video in cui un testimone dice “andrò in Procura a fargli il culo” con una tangente eventualmente pagata in Nigeria?

Rocca: C’è scritto nella sentenza.

Barbacetto: Certo, ed è una delle tante incongruenze scritte in sentenza.

Rocca: Ah, ecco, le sentenze ti piacciono solo quando sono di condanna.

Barbacetto: Ma, ripeto, quel video non era segreto, Eni ce l’aveva già…

Rocca: Era stato depositato altrove, da qui l’indagine sul pm…

Barbacetto: … dopodiché in sentenza salta fuori un giudice che evidentemente non ha studiato bene…

Rocca: Certo, mica come quelli del Fatto che hanno studiato.

Barbacetto: … se lo ha ritenuto certamente una prova a difesa. Comunque l’assoluzione è su tutt’altro e cioè sul fatto che Eni ha pagato un miliardo e duecento milioni di dollari allo Stato nigeriano e non un centesimo è andato allo Stato nigeriano perché questi soldi sono stati distribuiti a politici nigeriani e faccendieri. Cinquecento milioni in contanti sono finiti ai cambiavalute nigeriani e già questo è un indizio: perché devo portare cinquecento milioni di dollari in contanti in Nigeria? Questo è un fatto, poi i giudici hanno deciso che i manager Eni sono innocenti. Bene, vedremo l’appello, però intanto si sappia che Eni ha buttato un miliardo e duecento milioni di dollari.

Rocca: No, se vogliamo raccontare i fatti, sono state le indagini che hanno fatto bruciare un miliardo e duecento milioni di euro al contribuente italiano, perché per effetto di quelle indagini l’affare su cui si era stato fatto l’investimento è saltato.

Barbacetto: Facciamo un altro esempio e prendiamo la vicenda del sindaco Uggetti, che nel 2016 venne arrestato perché accusato di aver truccato una gara d’appalto. Allora tutti i giornali, giustamente, riportarono la notizia.

Rocca: Vedo che mi dai ragione, e cioè che tutti i giornali sono pieni di queste notizie, ti ringrazio.

Barbacetto: Dicevo, tutti i giornali giustamente raccontarono in diretta i fatti e cioè che quel sindaco aveva truccato una gara d’appalto per la gestione della piscina comunale di Lodi mettendosi d’accordo con l’azienda che doveva vincerla. Dopo di che questo fatto è stato considerato reato dal Tribunale di primo grado che ha condannato Uggetti, mentre non è stato considerato reato dalla Corte d’Appello, che lo ha assolto. Ma a me questo non interessa, io continuo a raccontare i fatti, e cioè che Uggetti ha truccato una gara d’appalto mettendosi d’accordo con l’azienda che doveva vincerla. Che questo fatto sia reato o no è affare dei giudici.

Rocca: Ma se dici “truccato” è reato!

Barbacetto: Ma io lo dico perché lo dice lui stesso, quando nell’immediatezza dell’arresto ha chiesto scusa ai cittadini, dicendo «scusate, ho fatto casino, sono pasticcione».

Rocca: Lui non dice questo, lo sai benissimo. Ha dichiarato decine di volte che la vostra ricostruzione è falsa.

Barbacetto: Noi ci siamo basati sulle sue parole e sui documenti giudiziari.

Rocca: Che leggete però parzialmente, perché se li leggeste tutti integralmente dovreste ammettere che la vostra ricostruzione è una balla. A questo serve il processo, a inserire i singoli fatti in un contesto e dare loro la giusta interpretazione. E comunque non puoi continuare a usare la parola “truccare” perché se fosse stato così la Corte d’Appello non avrebbe potuto dire che non è reato…

Barbacetto: Vedremo che cosa dirà la Cassazione…

Rocca: Ah ecco, visto che è stato assolto attendi la Cassazione!

Barbacetto: Guarda, io non voglio vedere Uggetti né qualunque altro politico in galera, non me ne importa nulla. A me importa che il politico che è stato scoperto a compiere delle azioni contro gli interessi dei cittadini e contro la legalità si faccia da parte.

Rocca: Ma in questo caso la Corte d’Appello ha stabilito che Uggetti non ha fatto niente contro gli interessi dei cittadini e la legalità, questo è il punto! Se quello che ha fatto Uggetti – che riguarda, ricordiamolo, un appalto di 5 mila euro – fosse stato contro l’interesse dei cittadini e la legalità sarebbe stato condannato.

Barbacetto: Ripeto, a me non importa l’esito giudiziario. Importa riferire i fatti ai cittadini, i quali poi saranno liberi di rivotarlo o no. Peraltro questa idea che sono i giudici a decidere chi va in galera e chi no è distorta. Sono le leggi fatte dai politici che stabiliscono i reati per cui si va in carcere. I magistrati semplicemente eseguono, come un jukebox. Per concludere su Uggetti, i fatti sono quelli: il sindaco che telefona al titolare dell’azienda che deve vincere la gara per mettersi d’accordo su come fare il bando di gara. Questo si chiama “truccare un appalto” e io racconto che quel sindaco ha fatto questa cosa.

Rocca: Una cosa che non è reato…

Barbacetto: Ma non mi importa se è reato!

Rocca: Ma come non ti importa!

Barbacetto: Io racconto ai cittadini un fatto, ossia che Uggetti ha truccato l’appalto.

Rocca: E racconti una balla! Raccontate soltanto balle! Uggetti è stato democraticamente eletto e per le balle che avete raccontato voi è stato costretto a dimettersi. Avete modificato il corso della democrazia, siete degli eversivi!

Barbacetto: Eversivo è chi infanga le istituzioni con i suoi comportamenti. Uggetti si è dimesso senza che nessuno lo costringesse.

Rocca: Attenzione, io non dico che i magistrati fossero in cattiva fede e ci fosse chissà quale “disegno”, anche se mandare in galera uno per una faccenda che in ogni caso riguardava un appalto di 5mila euro è certamente una forma di giustizialismo. In ogni caso non sto dicendo che i magistrati avessero delle intenzioni eversive. Hanno fatto un’indagine, che si è poi rivelata sbagliata, ok. Il punto è che per effetto di quella indagine, del modo in cui i giornali l’hanno raccontata e in cui molti politici poi l’hanno cavalcata, quel sindaco eletto legittimamente dai cittadini e poi risultato innocente, è stato disarcionato. Questa è eversione! Questo è utilizzare le inchieste giudiziarie per cambiare il corso del voto democratico di un Paese civile.

Barbacetto: Prendo atto che tu non pensi che i magistrati fossero parte di un complotto contro Uggetti, però ti assicuro che questa idea che i magistrati si mettono d’accordo con i giornalisti per far morire la Prima Repubblica, o per far cadere un governo, o per far cadere una giunta comunale o regionale, o per far dimettere un sindaco eccetera l’ho sentita mille volte.

Io non vedo Spectre, non vedo complotti, vedo un sacco di reati o comunque un sacco di comportamenti scorretti, la maggior parte dei quali resta impunita e invisibile perché la stampa italiana è asservita. Poi, per fortuna!, quella piccola parte che viene raccontata talvolta ha degli effetti, anche se oggi sempre meno. Una volta chi riceveva un avviso di garanzia si dimetteva, oggi è una medaglia.

Rocca: E ti sembra normale dimettersi per un avviso di garanzia?

Barbacetto: Sì, mi sembra normale. Naturalmente dipende dal reato, se si tratta di un reato d’opinione o comunque di un reato che non ha danneggiato la collettività, no.

Rocca: Quindi la Costituzione che dice che sei innocente fino a sentenza definitiva per te è un dettaglio.

Barbacetto: Non è un dettaglio, però la Costituzione dice anche che chi ricopre cariche pubbliche lo deve fare “con dignità e onore” e se tu da parlamentare o da ministro o da sindaco hai preso dei soldi, quindi hai commesso un reato di finanziamento illecito o di corruzione…

Rocca: Ma cosa c’entra! Io sto parlando dell’avviso di garanzia, che è a tua garanzia e che ancora non dice se sei corrotto o no! Certo che se è stato stabilito, in un processo, che un politico è corrotto farebbe bene a dimettersi. Io sto parlando dell’avviso di garanzia! E sinceramente non capisco come si possa non vedere che il dibattito pubblico è stato talmente attaccato da questo tumore giustizialista partito dalla commistione tra procure e giornalismo. Oggi sulle prime pagine di tutti i giornali ci sono quattro argomenti di carattere giudiziario: c’è la riforma della giustizia (con il ripristino della prescrizione cancellata dal giurista Dj Fofò7. Io sono di Alcamo e so che fino a qualche anno fa metteva musica nelle discoteche del trapanese.

Poi è diventato ministro della Giustizia e ha cancellato la prescrizione), poi c’è l’avviso di garanzia a Renzi, poi la visita di Draghi e Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere e infine la bufala di quella che il tuo giornale ha chiamato la “trattativa Stato-Bonucci” sui festeggiamenti per la vittoria degli Europei.

Barbacetto: Evidentemente Christian Rocca non ha un’idea precisa di che cosa sia la cronaca giudiziaria, che riguarda esclusivamente le inchieste di magistrati. Degli esempi che ha fatto solo uno è di cronaca giudiziaria, quello dell’avviso di garanzia a Renzi. Tutto il resto ha a che fare con la grande questione al centro del dibattito politico italiano da Mani Pulite a oggi, che è l’ossessione della politica nei confronti del controllo di legalità. È dal 1992 che la politica continua a cercare in mille modi – con leggi ad personam e pseudoriforme – di indebolire la capacità di controllo da parte del potere giudiziario. Mentre il nostro resta il Paese con quattro criminalità organizzate, una delle quali si chiama ’ndrangheta ed è la più potente del mondo. E con un altissimo livello di illegalità negli ambienti politici ed economici. Almeno ai tempi della Prima Repubblica c’era un sistema ordinato, le imprese facevano riferimento ai cassieri centrali dei partiti, c’era una qualche parvenza di ordine nell’organizzazione della corruzione. Oggi siamo al far west. Ognuno si crea un suo sistema, uno va a fare le conferenze in Medio Oriente…

Rocca: Questo cosa c’entra con la corruzione?

Barbacetto: C’entra col finanziamento illecito ai partiti. Stavo parlando di corruzione e finanziamento illecito ai partiti.

Rocca: Scusa ma un deputato che fa l’avocato ed emette una parcella è finanziamento illecito ai partiti? Un leader politico che scrive un libro e prende gli anticipi dalla casa editrice è finanziamento illecito ai partiti?

Barbacetto: Beh, se un leader politico per una prestazione che vale dieci riceve mille…

Rocca: Ma chi decide che quella prestazione vale dieci?

Barbacetto: Questo naturalmente si vedrà di volta in volta. Io sto facendo un ragionamento in astratto.

Rocca: Peccato che in astratto il ragionamento andrebbe rovesciato: cioè, in astratto non è finanziamento illecito ai partiti, poi si vede di caso in caso se e dove c’è finanziamento illecito. Attenzione: io non sono “innocentista”, sono garantista. Sono due cose diverse. Se uno è colto in flagranza di reato è ovvio che sia colpevole, non è che siccome sono garantista non riconosco che è stato commesso un reato. Ma se parliamo di reati ricostruiti attraverso indagini bisogna avere la pazienza di sentire tutte le parti, l’accusa e la difesa, per farsi un’idea precisa. Non aderire alla tesi dell’accusa e del resto chi se ne frega. Poi, tra l’altro, la nostra cultura si basa, o almeno dovrebbe, sul principio “Nessuno tocchi Caino”, nessuno tocchi il colpevole, cioè va ben oltre il nessuno tocchi Abele, l’innocente! Abbiamo delle regole che vanno rispettate anche nei confronti dei colpevoli, se vogliamo vivere in un contesto civile.

Barbacetto: Io penso che dobbiamo fare una netta distinzione fra piano giudiziario e piano politico. Sul piano giudiziario io sono ipergarantista, aspetto non tre ma anche sette gradi di giudizio (com’è successo per alcuni casi giudiziari). Dopodiché c’è il piano politico e della convivenza civile, in cui io non posso e non devo aspettare neanche il primo grado! Basta l’avviso di garanzia, basta una notizia di reato, basta un’inchiesta giornalistica. Naturalmente tutti possiamo sbagliare, ma di fronte a comportamenti lesivi del bene pubblico io giornalista, dopo averli verificati, non solo ho il diritto ma ho il dovere di raccontare i fatti. Senza tirare le conclusioni, quelle le lascio ai giudici (sul piano giudiziario) e ai cittadini (su quello politico). Questa cosa apparentemente così semplice, in Italia semplice non è perché nel nostro Paese è in corso da alcuni decenni un grande movimento di messa in salvo della politica e quindi di attacco al potere giudiziario. Siccome siamo in un Paese ad alto tasso di criminalità politica, mafiosa e imprenditoriale (ricordiamoci anche del Ponte Morandi), abbiamo proprio bisogno di indebolire la magistratura! E il giornalismo fa parte di questo gioco perché in gran parte è asservito al potere. Sotto l’etichetta del garantismo in realtà difende la politica dal controllo di legalità. Vedremo adesso con tutti i soldi che arrivano con il Pnrr quanta corruzione, quante infiltrazioni mafiose, quanti sprechi ci saranno. Il nostro sistema giudiziario è da decenni sotto attacco perché i politici, gli imprenditori, i potenti devono essere preservati dal controllo di legalità. (a cura di Cinzia Sciuto)

1 Marcello Maddalena, Meno grazia più giustizia. Conversazione con Marco Travaglio, Donzelli, 1997. A p. 27 si legge: «Quello immediatamente successivo all’arresto è un momento magico».

2 Cfr. Mattia Feltri, “Otto ore”, La Stampa, 10 dicembre 2019

3 Antonio Polito, “La giustizia (malata) da curare”, Corriere della Sera, 14 luglio 2021

4 Il dialogo è stato registrato il 15 luglio e in quei giorni sui giornali usciva la notizia di due indagini riguardanti Matteo Renzi, una per finanziamento illecito ai partiti in relazione ai 700mila euro versati dall’imprenditore Lucio Presta a Renzi per il documentario su Firenze e l’altra relativa a una sua partecipazione a un convegno ad Abu Dhabi, n.d.r.

5 Cfr. Gianluca Luzi, “Amato attacca i giornalisti: ‘Esterrefatto sulle intercettazioni’”, la Repubblica, 12 luglio 2006

6 Cfr. Francesco Costa, “Berlusconi e l’invito a comparire del 1994”, Il Post, 20 ottobre 2010

7 L’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, n.d.r.

Stefano Zurlo per "il Giornale" il 13 ottobre 2021.

Le procure sono uscite dai binari. Non tutte, per carità, ma alcuni pm si sono schierati da una parte o dall'altra. «C'è stata una forte politicizzazione delle procure», spiega Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, uno dei più noti giuristi italiani. E l'abolizione dell'autorizzazione a procedere è stata usata per sviluppare quella forma di gogna chiamata naming e shaming, insomma per svergognare big e peones del Palazzo. 

Professor Cassese, come valuta la svolta del '93?

«L'articolo 68 della Costituzione, nella sua versione originaria, prevedeva l'autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre a procedimento penale i parlamentari. Quindi, prevedeva un'autorizzazione a procedere. Fu modificato nel 1993 prevedendo l'autorizzazione solo per perquisizione, arresto e intercettazione, salvo l'esecuzione di sentenze irrevocabili di condanna, che non richiede autorizzazione.La modifica ebbe diverse motivazioni. Il fatto che in pratica il rifiuto di autorizzazione fosse diventato un evento abituale; che l'autorizzazione impedisse fin dall'origine qualsiasi indagine, facendo disperdere la memoria e i documenti, cioè le prove dell'eventuale fatto criminoso; che l'improcedibilità divenisse impunità. Poi, dopo la riforma, la situazione è ulteriormente cambiata, specialmente per l'uso che le procure hanno fatto dei procedimenti penali, che hanno dato luogo a quella che viene chiamata correntemente la gogna e più precisamente si può chiamare una procedura di naming and shaming, connessa ad una forte politicizzazione delle procure. Questo dimostra che, se il Parlamento aveva fatto un cattivo uso delle autorizzazioni a procedere, le procure hanno fatto un cattivo uso dei procedimenti penali, una volta aperta la strada dalla modifica dell'articolo 68. Tutto ciò consiglia un'attenta revisione della riforma, fatta considerando accuratamente gli esempi stranieri».

Si è perso l'equilibrio sull'articolo 68?

«Come ho cercato di spiegare nella prefazione al volume di Giuseppe Benedetto sul tema, L'eutanasia della democrazia, edito da Rubbettino, gli ordinamenti moderni di carattere democratico sono fondati sull'equilibrio e il contrasto tra i poteri. L'immunità parlamentare va valutata nel contesto dei sistemi democratico - parlamentari, nei quali vige un regime di competizione e di controllo reciproco, perché anche questa competizione fa parte della democrazia. Ma la competizione richiede che i poteri operino ad armi pari, non esondino, rispettino le regole del gioco». 

Si è indebolita e messa alla gogna la politica? La magistratura è uscita dai binari?

«Non credo che si possa dire che l'intera magistratura sia uscita dai binari. Si tratta piuttosto delle procure o, meglio, di alcune procure. Un indicatore evidente è costituito dalla presenza di ex procuratori nel mondo della politica. Questo è un indizio molto importante perché prova che non vi è piena indipendenza. Un potere definito dalla Costituzione indipendente dovrebbe essere separato dal potere esecutivo, mentre vi sono magistrati in tutte le posizioni chiave del ministero della giustizia. E dovrebbe essere separato anche dalla politica e dal potere legislativo, mentre vi sono magistrati chiaramente schierati con l'una o con l'altra parte». 

Si possono fare riforme sull'onda di emozioni e fenomeni sociali come tangentopoli? Oggi dovremmo riformare la riforma e tornare al vecchio articolo 68?

«È evidente che è sconsigliabile fare riforme sull'onda di emozioni. Anche se l'iter della riforma del 1993 fu molto tormentato e molte voci si levarono in Parlamento contro di essa, senza dubbio fu il contesto di quegli anni che portò alla riforma. Oggi sarebbe un errore sia ritornare alla formula originaria del 1948, sia non fare nulla. La premessa di qualunque passo dovrebbe consistere nella attenta valutazione della situazione di fatto, considerando come ha funzionato la norma in vigore dal 1948 fino al 1993 e quella in vigore dal 1993 fino ad oggi. Solo un attento esame sia delle procedure di autorizzazione, sia delle mancate autorizzazioni, e un'analisi precisa del contesto dei rapporti della politica con la giustizia, possono consentire una soluzione meditata e non affrettata».

Il Paese delle forche. Così Mani Pulite ha rovinato i rapporti di potere nello Stato. Giuseppe Benedetto su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Sull’onda dell’inchiesta che fece crollare la Prima Repubblica venne abolita l’autorizzazione a procedere, rendendo più esposta la classe politica italiana alle attività della magistratura. Un fenomeno analizzato da Giuseppe Benedetto nel suo ultimo libro edito da Rubbettino. L’Italia, dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, è sotto il profilo delle guarentigie parlamentari un ordinamento simile a quelli dell’Inghilterra e degli USA, in quanto vi è un’immunità sostanziale, ma è fortemente carente quella processuale. La struttura della magistratura italiana è esattamente all’opposto rispetto alla tradizione anglosassone. I suoi membri sono selezionati per concorso pubblico secondo criteri tecnico-burocratici. Non godono di alcuna legittimazione dal basso. La differenza è ancor più evidente con riferimento al Pubblico Ministero. Lì vige il principio di discrezionalità dell’azione penale, qui quello dell’obbligatorietà. Da loro gli uffici requirenti sono soggetti al potere esecutivo o nominati dal corpo elettorale, da noi sono burocrati irresponsabili e privi di qualsivoglia forma di controllo del governo. Nel mondo anglosassone il modello accusatorio ha imposto la separazione delle carriere, quale insopprimibile corollario del diritto di difesa; in Italia i capi delle procure e Gip prendono il caffè insieme (se però il secondo non concede le misure cautelari richieste, allora l’amicizia si interrompe). Nel nostro ordinamento il Pubblico Ministero non risponde della propria attività, è sottratto alla vigilanza degli altri poteri dello Stato e per tanti versi perfino a quella del suo superiore gerarchico; è in grado di influenzare la giurisdizione e titolare del potere di sottoporre liberamente a indagine ogni membro del Parlamento. Non avviene in nessun Paese democratico al mondo. Se poi passiamo ai Paesi di Civil Law, come precedentemente visto, è presente un’autorizzazione a procedere al momento della notitia criminis o a conclusione delle indagini preliminari, sospensione automatica del procedimento o su richiesta del parlamentare indagato. Poco importa, ogni Paese della tradizione romanistica presenta forme di autorizzazione a procedere. Solo da noi manca. Se questi sono i principi, non può esistere alcun equilibrio tra potere legislativo e giudiziario. Il primo è destinato a soccombere, perché privo di adeguate tutele e di poteri di vigilanza. Il punto a cui siamo giunti è il frutto di una delega in bianco a favore della magistratura. L’assunto è che in Italia sia più opportuna una democrazia giudiziaria piuttosto che parlamentare, dal momento che la classe politica si è rivelata non all’altezza dei compiti attribuiti. Invece di provocare distorsioni nel sistema costituzionale, non sarebbe più opportuno selezionare politici di maggior qualità e più alta preparazione? Per di più, siamo così sicuri che l’ordine giudiziario sia un corpo di “eletti”, come qualche magistrato sostiene? La realtà dimostra altro, perché ogni Istituzione è espressione dei cittadini e ne riflette pregi e difetti. In questo Paese si deve smettere di legiferare in modo schizofrenico, pensando che gli italiani siano farabutti e incapaci di formulare giudizi di valore. In caso contrario, si persisterà nell’effettuare riforme aberranti come quella dell’art. 68. Da un lato, il Pubblico Ministero è tout court scisso da ogni forma di raccordo con l’esecutivo (anomalo anche per l’Europa continentale) e, dall’altro lato, l’estensione delle prerogative parlamentari è quella propria della tradizione di Common Law, in cui però il legame della magistratura con gli organi politici è fortissimo. Un perfetto exemplum di cosa significhi alterare gli equilibri tra poteri dello Stato. Non vi è alcuna speranza per il futuro se non si riporterà la magistratura negli spazi che le competono, attraverso un controllo su di essa delle altre Istituzioni democratiche. Coloro che gridano alla deriva politicante appena si accenna al tema della separazione delle carriere guardino alle esperienze straniere.

da “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di mani pulite”, di Giuseppe Benedetto, Rubbettino editore, 2021, pagine 110, euro 14

"Scardinare l'immunità ha rotto l'equilibrio tra magistrati e politici". Stefano Zurlo il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo storico: "Le toghe si sono spinte troppo in là. Bisogna tornare alla formulazione originaria". La politica sul banco degli imputati. Forse è esagerato parlare di peccato originale, ma fra le cause di questa situazione c'è senz'altro l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, nel '93. Giovanni Orsina, storico, direttore della Luiss School of government, non ha dubbi: «Un potere, la magistratura, è entrato nel territorio dell'altro con la benedizione temeraria del parlamento che aveva ridotto ad un moncone l'articolo 68 della Costituzione».

Professore, non c'erano stati troppi abusi e troppi no alle richieste della magistratura?

«Non c'è dubbio, ma scardinando l'immunità, riducendola al divieto di arresto e intercettazione, si è rotto un equilibrio che era stato pensato dai nostri padri costituenti dopo la fine della Guerra».

Ma perché un parlamentare dovrebbe essere tutelato con questo scudo?

«Perché il rappresentante del popolo non è una persona qualunque».

Ma così non si creano privilegi?

«Al contrario, si tutela una persona che ha ricevuto i voti di altri cittadini. È inutile nascondersi dietro formule e concetti astratti: se si apre un'inchiesta su un parlamentare questa diventa immediatamente un fatto politico. Serve quindi un meccanismo che protegga in maniera equilibrata la politica dalla magistratura. E sottolineo tre volte in maniera equilibrata: non può certo essere uno scudo assoluto. L'articolo 68 nella sua formulazione originaria mi pare garantisse quell'equilibrio. Dal '93 invece la magistratura entra ed esce a suo piacimento dal territorio della politica».

Per fare pulizia - dicono loro - davanti a ruberie e commistioni con la criminalità organizzata.

«Ma siamo sicuri che sia sempre così?».

Lei che idea si è fatto?

«Non io. La realtà ci dice che talvolta vengono aperte inchieste che poi, a distanza di anni e anni, finiscono in nulla. Ma il deputato di turno è finito sui giornali, magari ha ricevuto un avviso di garanzia e non è più stato ricandidato. E poi ci sono le intercettazioni, naturalmente indirette, perché un parlamentare non può essere ascoltato, ma spesso leggiamo presunte frasi compromettenti pronunciate da questo o quel potente. Il fatto politico, insomma, si produce a partire da premesse giudiziarie esili se non inesistenti».

Insomma, secondo lei la magistratura si è spinta troppo in là?

«Sì, e di parecchio. Così i poteri non sono più bilanciati».

Lei cosa propone?

«Tornare alla formulazione originaria e rafforzare quello scudo oggi così sottile».

Ma l'opinione pubblica capirebbe?

«Intanto le riforme non possono essere dettate da un'ondata emotiva, come è stato per Tangentopoli. E poi io credo che, proprio perché l'opinione pubblica vigila, il parlamento non chiuderebbe subito la porta ad occhi chiusi se la magistratura dovesse bussare. Ci sarebbe semmai prudenza, non credo l'arroganza, se vogliamo chiamarla così, di un passato ormai lontano».

Professor Orsina, è un po' troppo ottimista?

«No, sono realista. La riforma del '93 ha provocato un danno, un vulnus, al Paese e alle istituzioni. Sarebbe bene tornare al '48 e a quell'equilibrio disegnato allora. Ma, naturalmente, credo che la riforma di quella riforma non si farà. Magari qualcuno griderà che così si difendono i ladri e la loro impunità. E ci si fermerà».

Invece?

«Invece questo strumento è immaginato per bilanciare la nostra democrazia. Più in generale c'è un vizio, o meglio una debolezza nel nostro sistema che temo non sarà facile sconfiggere».

Quale?

«La magistratura si è allargata perché la politica è deperita e ha lasciato tanto terreno scoperto. Il problema insomma non riguarda soltanto le regole. Basti pensare a quel che è successo con Salvini: lì il parlamento doveva votare se lasciare spazio alla magistratura oppure tenere la questione sul terreno politico e ha deciso di mandarlo a processo. La soluzione più facile, ma pure più autolesionistica per la politica nel suo complesso». Stefano Zurlo

La fine delle speranze. Dal caso Montesi a quello Morisi: dopo oltre mezzo secolo sesso e droga tornano nella polemica politica. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Ieri e l’altro ieri ho letto i giornali, sul caso Lucano e sul caso Morisi (poi, domani, li leggerò anche sul caso Fidanza) e mi sono fatto quest’idea: se chiedo a tutti i garantisti italiani di farmi un colpo di telefono, ci potremmo mettere d’accordo per organizzare una cena a casa mia. Io preparo un primo e compro la mozzarella, chiedo a Luigi Manconi di portare un secondo preso in rosticceria, a Peppino Di Lello di prendere qualche bottiglia di Donnafugata, e magari ad Alemanno se viene con un gelato. Al mio editore invece chiederò una cofana di friarielli. Ho una terrazza. Piccola piccola, ma penso che ci entriamo. Prima, forse, devo spiegare bene cosa intendo per garantista, se no finisce che arrivano un sacco di imbucati. In Italia, se levi l’onesto Travaglio, tutti dicono di essere garantisti. Poi però si scopre che non è esattamente così. Allora vi spiego: per garantista intendo quella persona che si rifiuta di linciare un indiziato, o un imputato, e magari persino un condannato, a prescindere dalle posizioni politiche. Ripeto: a prescindere dalle posizioni politiche. Per garantista intendo una persona che non esalta i magistrati che condannano i suoi nemici, o quelli che ritiene suoi nemici, e poi sputa fuoco sui magistrati che se la prendono con uno della sua parte politica. Che non si indigna per un reato il lunedì e il giovedì nega che quello sia un reato. Per capirci: per garantista intendo chi non ha messo alla gogna Morisi, chi si è pronunciato contro l’autorizzazione a procedere per Salvini (reato anti immigrati) e chi si è indignato per la condanna mostruosa inflitta a Mimmo Lucano (reato pro immigrati). Addirittura mi spingo a chiedere un qualche dissenso sulla richiesta di cattura e di estradizione da Parigi di ex esponenti della lotta armata che dovrebbero scontare varie pene per delitti commessi, forse, 30 anni fa, alcuni dei quali sono solo reati associativi. Per garantista intendo chi è stato sempre dalla parte di Falcone, e non dei nemici di Falcone, cioè di quelli che dopo la sua morte hanno tentato di processarlo per interposta persona, mettendo alla sbarra il suo braccio destro, cioè Mori. Intendo per garantista chi si è indignato perché i giudici di sorveglianza hanno messo in prigione, privandolo della semilibertà, il terrorista fascista Mario Tuti, che ha già scontato quasi mezzo secolo di carcere, e chi chiede la liberazione definitiva di Mario Moretti, capo delle Br, che è detenuto da 40 anni esatti (catturato nel 1981). Il garantista, per me, difende i diritti di Dell’Utri, condannato ingiustamente, ingiustamente messo alla gogna, e giustamente assolto a Palermo. I diritti (e l’innocenza) di Dell’Utri, e quelli dei rom, e quelli dei ragazzini che fanno il piccolo spaccio. Soprattutto, quando dico garantisti, intendo quelli che quando sentono che un giudice ha ordinato la perizia psichiatrica per Berlusconi, allo scopo di vessarlo e umiliarlo, nel corso del novantesimo processo intentato contro di lui (dei quali 89 andati buca, e uno solo, per evasione fiscale della sua azienda, concluso con una condanna, peraltro ingiusta), saltano su e dicono: giudici, ora basta. Per garantisti, infine, intendo quelli che considerano che lo strapotere della magistratura nella società italiana sia un vulnus gravissimo allo Stato di diritto, e che la magistratura vada disarmata e costretta a tornare ad operare dentro dei parametri di civiltà di democrazia e di diritto. Io penso che sia garantista chi rientra in tutti i parametri di questo breve elenco. Non solo in alcuni. Forse, dopo aver letto questa premessa all’invito a cena, avrete anche capito perché la mia idea di ospitare tutti i garantisti sul mio terrazzino, non è un’idea balzana: nel mio piccolo terrazzo, magari in piedi, c’entrano tutti. Penso che ci sarà modo anche di sederci intorno al tavolo. Naturalmente inviterò anche Berlusconi, a questa cena, anche se temo che la cosa, di per sé, possa costituire reato. Però gli raccomanderò di non portare niente. Meglio: niente né nessuno. Sono stato sempre pessimista sull’esistenza in Italia di una robusta minoranza di garantisti. ma negli ultimi giorni ho raggiunto la certezza che questa minoranza robusta non esiste. I garantisti nel nostro paese sono poche decine. Non sono una corrente di idee, sono un drappello quasi clandestino. La furia selvaggia con cui la sinistra e il gruppo reazionario dei 5 stelle si son gettati su Luca Morisi, colpevole di assolutamente niente tranne che di delitti contro la morale bigotta, e la rabbia con la quale il giorno dopo la destra (compresi i travaglini, appena un po’ più sobriamente) si è scagliata contro Mimmo Lucano, mi ha fatto perdere tutte le speranze. E soprattutto ho capito che non esiste nessuna possibilità di riformare la giustizia, in Italia. Perché? Per la semplice ragione che esiste un nucleo forte di magistrati (non la totalità ma, credo, la maggioranza) che si fa forte della fragilità e dell’ondeggiamento della politica e dell’opinione pubblica.

Il problema non è l’ideologia forcaiola – quella di Travaglio, o di Davigo o di Di Battista o di qualche altro – che ha pieno diritto ad esistere e che probabilmente, nella sua purezza, è ampiamente minoritaria. Il problema è proprio il cosiddetto garantismo a dondolo. Sentire ieri le dichiarazioni, e leggere gli articoli, dei presunti garantisti di destra, avvelenati contro Lucano e schierati a petto nudo a difendere un processo evidentemente e squisitamente politico, come non se ne vedevano da quarant’anni – dal caso Dolci, o dal caso Sifar o dal caso Braibanti: chissà se qualcuno se li ricorda – e vederli fare scudo con i loro corpi contro chi provava a criticare i magistrati della Locride, è stato uno di quei fenomeni che davvero mi ha gettato nella disperazione e fatto capire che non ho speranze. Così come oggi mi lascia basito la polemica contro Fratelli d’Italia: ladri, ladri… Possibile che intellettuali, giornalisti, politici – figli o nipoti dei grandi: di De Gasperi, e Moro, e Ingrao, e Amendola e Nenni, e Montanelli, Scalfari, Fortebraccio, Pintor – riescano a costruire una idea solo dentro la categoria del ladro sì, ladro no? neanche un centimetro più in alto riescono ad andare? Questa vi sembra politica? A me sembra un gioco di società per aspiranti guardie. Che poi, certo, se tocchi uno della loro parte politica scattano a difesa del diritto. Ma male, perché non lo conoscono, non lo capiscono, neanche riescono a vederlo.

Il caso Lucano è clamoroso perché è il processo più “puramente” politico dalla caduta del fascismo. Forse lo supererà il processo a Salvini, costruito su tesi opposte. Il caso Morisi invece assomiglia tremendamente al caso Montesi, 1953. Allora accusarono un ragazzo innocente di avere partecipato a un festino, e dissero che durante questo festino era morta una ragazza, una certa Wilma Montesi. Lo fecero per la semplice ragione che questo ragazzo era il figlio di Attilio Piccioni, cioè dell’erede di De Gasperi. La campagna contro il povero Piero Piccioni la condussero i giornali del Pci, ma il vero committente era la sinistra Dc. Che spianò Piccioni e conquistò il partito. Da allora i partiti fecero un patto: mai più sesso e droga nella polemica politica. Ha retto mezzo secolo, ora il patto è sciolto e si torna alla guerra per bande.

P.S. Naturalmente è invitata a cena anche la nostra piccola redazione. In particolare Tiziana, che potrebbe portare da Milano una pentolata di risotto giallo. Con l’ossobuco.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Non piace più il magistrato che fa politica. Gabriele Barberis il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Si possono inseguire i sogni e le suggestioni, ma non i malumori dell'opinione pubblica quando imboccano una direzione precisa. Si possono inseguire i sogni e le suggestioni, ma non i malumori dell'opinione pubblica quando imboccano una direzione precisa. Nel complesso rapporto tra politica e giustizia che avvelena il Paese dagli anni '90, è percepibile un vento di cambiamento. Uno scarto di idee, un nuovo rapporto di forze tra un immaginario partito delle procure e un analogo schieramento improntato al garantismo. I fenomeni politico-sociali possono essere anticipati dai sondaggi, ma sono sempre i passaggi formali a sancire i nuovi corsi. E alcuni risultati scaturiti al primo turno delle amministrative confermano sensazioni già colte dagli elettori. Le difficoltà incontrate dai candidati civici a tutti i livelli risultano moltiplicate quando l'aspirante politico è un magistrato o un altro soggetto proveniente dalla carriera giudiziaria. Tempi difficili anche per loro. Palamara, Maresca, de Magistris: tre nomi, tre flop. L'ex grande pentito che ha denunciato «il Sistema» è stato bocciato dagli elettori di Roma Primavalle con un 6% che l'ha tenuto lontano dalla Camera. Non è andata meglio a Catello Maresca, pm anticamorra in aspettativa, che a Napoli ha raccolto solo il 21,90% come candidato sindaco. Si tratta di un magistrato di indubbia caratura, ma la sua discesa in campo è stata fonte di discussione nel centrodestra dove significative componenti hanno contestato la scelta di arruolare un sostituto procuratore mentre si tenta di riformare la giustizia in Parlamento e con i referendum promossi da Lega e Radicali. Addirittura, il coordinatore cittadino azzurro preferì passare al fronte avversario. Anche l'ex pm d'assalto Luigi de Magistris, diventato politico dopo la lunga esperienza di sindaco a Napoli, non ha neppure raggiunto il 17% alle Regionali della Calabria. Si obietterà che Maresca partiva sfavorito mentre Palamara e de Magistris si sono presentati in liste minoritarie o civiche. Tutto vero. Come è vero che la toga è ora considerata come una parte problematica del Paese e non più la soluzione miracolosa per moralizzare la vita pubblica. Specialmente la sinistra, dai lontani tempi di Di Pietro al Mugello, ha svuotato procure e tribunali per catturare voti giustizialisti, giustificati con la perenne emergenza corruzione annidata solo tra gli avversari politici. Gli italiani, anche dopo la fallimentare inchiesta Stato-mafia, si stanno risvegliando dalla lunga notte giudiziaria fatta di manette facili e processi conclusi con assoluzioni. Per tutti diventa più facile firmare il referendum sulla giustizia con un clic digitale (oltre 500mila adesioni) che rimpiangere i tempi bui degli Ingroia.

Gabriele Barberis. Caporedattore Politica, Il Giornale

Era l’inverno del ’92, e tutto ebbe inizio con una mazzetta a un “Mariuolo”…La lunga marcia del giustizialismo ha una precisa data di battesimo: 17 febbraio 1992, giorno in cui Mario Chiesa fu pizzicato da Tonino Di Pietro. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 ottobre 2021. La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d’apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l’intero sistema. Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L’Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l’emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l’epopea del bene contro il male. La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l’intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l’Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine. I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s’identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, il 20 e il 23 luglio. Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D’Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo. Anche in questo caso due date bastano a restituire l’intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l’uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l’invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo. Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un’enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l’emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all’allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia. Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. E’ possibile che quell’apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l’avvio del tramonto. Il fallimento del M5S e la sua progressiva “normalizzazione”, gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l’avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d’anni. Non è escluso che la secca dichiarazione del vero leader dei 5S, Di Maio, sull’esito del processo che ha smantellato l’intera visione della storia italiana del Movimento, quello sulla trattativa, “Le sentenze si rispettano”, sia la campana a morto per la lunga festa del giustizialismo italiano.

Tiziana Parenti: «I miei ex colleghi di Mani pulite puntavano alla presa del potere». «Nel 1993 all’interno della magistratura, inclusa la Procura di Milano, ci si era convinti che l’ordine giudiziario dovesse assumersi una responsabilità anche politica. Poi l’avvento di Berlusconi sparigliò tutto, le toghe ripiegarono verso una sclerotizzazione burocratica. Ma nelle loro previsioni c’era ben altra prospettiva». Errico Novi su Il Dubbio il 14 settembre 2021.

«Erano convinti di doversi assumere la responsabilità del potere».

Di dover cambiare l’Italia attraverso le indagini?

«No, anche di assumersi direttamente la responsabilità del potere politico».

Tiziana Parenti, da tempo ormai avvocato del Foro di Genova e dunque lontana non solo dalla toga di pm ma anche dallo scranno parlamentare, è una figura atipica nella storia a di Mani pulite. Corpo estraneo rispetto al resto del Pool, presto convintasi a lasciare la Procura milanese e la magistratura e a schierarsi in politica con Forza Italia, ha già raccontato altre volte delle iperboli che, a suo giudizio, hanno pesato sul percorso degli ex colleghi. Stavolta lo fa a poche ore dal nuovo scontro fra Piercamillo Davigo e Francesco Greco.

Non finisce nel migliore dei modi, avvocato Parenti, l’epopea di Mani pulite e della mitica Procura di Milano anni Novanta.

Distinguiamo però le due cose. Francesco Greco non ha fatto parte del Pool all’epoca di Tangentopoli, Davigo sì. Ma è vero che le nuove tensioni mostrano quanto sia pericoloso per la magistratura eccedere nel protagonismo. Finisce male perché a un certo punto alcuni magistrati, inclusi i miei ex colleghi di Milano, hanno smesso di intendere la loro funzione in termini di esclusiva ricerca della giustizia rispetto al caso concreto.

In che senso?

Hanno ritenuto di doversi assumere una responsabilità più grande, di doversi fare carico di un progetto di cambiamento del Paese in cui appunto sarebbero stati protagonisti.

Be’, in effetti con Mani pulite sono diventati fatalmente protagonisti: hanno disarcionato la politica.

Sì ma, non saprei dire se per un inappropriato senso di responsabilità, in quella parte della magistratura, Procura di Milano inclusa, si era radicata la convinzione che alcuni esponenti del mondo togato potessero anche impegnarsi direttamente in politica, pur senza cercare collocazione in uno dei pochi partiti sopravvissuti. E certo il clima di Mani pulite, nel 93, ha esasperato questa convinzione.

Nel Pool di Milano non si escludeva un impegno politico diretto di qualche componente?

Io non partecipavo ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza, quelli sui partiti di governo. Io ero la sola a lavorare sul Pds. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi.

Non eravate mica tutti di sinistra?

Assolutamente no, ma non era una questione ideologica. Certamente le idee politiche personali di ciascuno, nella Procura di Milano, erano assai diverse. Però, in un’ottica in cui la magistratura avrebbe avuto un proprio peso politico, il Pds, la sinistra, rappresentavano certamente l’interlocutore ritenuto, dalle toghe, più adeguato al realizzarsi dell’obiettivo.

Le sue sono affermazioni impegnative.

Ma come sa non è la prima volta che ne parlo. Il progetto di una magistratura più influente sul quadro democratico generale inizia, se è per questo, una trentina d’anni prima di Mani pulite. Con la lotta al terrorismo, le leggi speciali, alcune garanzie ottenute dall’ordine giudiziario, non esclusi i 45 giorni di ferie e l’incremento della retribuzione. Mani pulite è semplicemente il momento in cui la magistratura comprende che il principale ostacolo al compiersi di quel progetto generale, vale a dire i partiti della prima Repubblica, era stato eliminato, e che dunque il campo era più libero.

Siamo partiti da quel clima, ci troviamo con uno scontro molto duro fra Greco e Davigo: come si spiega?

Non si può fare a meno di recuperare la storia. Primo, Silvio Berlusconi era un altro interlocutore che la Procura di Milano riteneva prezioso, durante la fase originaria dell’inchiesta. Con le sue tv, ricorderete i report di Andrea Pamparana, diede grande risonanza al lavoro del Pool, e al pari del Pds era considerato, seppur per motivi diversi, una controparte appunto utile.

Cosa si diceva di Berlusconi a Palazzo di giustizia?

A me parve di capire che non vi fosse alcuna intenzione di coinvolgerlo nelle indagini.

E poi che è successo?

Che Berlusconi ha sparigliato il tavolo: inventa Forza Italia, vince le elezioni e occupa il centro della scena, il vertice della politica.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

Io mi candidai con Forza Italia. Gli dissi: “Presidente, temo che una sua nomina a presidente del Consiglio possa provocare ricadute sfavorevoli sul piano giudiziario”. Mi rispose: “Ho vinto le elezioni, perché non dovrei diventare capo del governo?”. Come dargli torto. Ma la mia fu una facile previsione.

Berlusconi quindi potrebbe essere, lei dice, la variabile che ha alterato la prospettiva immaginata dalla magistratura.

Lo fu. Berlusconi è l’antitesi di un processo storico. La sintesi successiva ha visto la magistratura trasformarsi da forza di potere, con prospettive anche propriamente politiche, a potere solo burocratico, che è stato comunque forte ma ha finito per sclerotizzare la giustizia. I riti del potere giudiziario, la difesa delle prerogative, sono la prima vera causa delle lentezze.

Lei operò ha lasciato anche la politica, nel 2001: perché?

Fu insopportabile la delusione per la Bicamerale. Ci avevo lavorato. Credevo nella possibilità di poter inserire, fra le riforme condivise, anche quella della giustizia. Berlusconi, bombardato dalle indagini, decise di lasciare il tavolo. Compresi le sue motivazioni, ma per me fu un colpo troppo pesante.

Ha letto però l’intervento di Berlusconi a proposito di giustizia uscito domenica sul “Giornale”? Le è piaciuto?

Molto, parla di princìpi per i quali avrei voluto battermi, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, ai limiti nell’adozione delle misure cautelari.

Ma se il Cav le chiedesse di tornare in politica per dedicarsi di nuovo alla giustizia?

Mi farebbe piacere impegnarmi di nuovo, credo nei princìpi costituzionali, nella loro affermazione. Mi impegnerei volentieri, se si tratta di battersi per la giustizia sono sempre pronta ad accettare la chiamata.

Senta, ma in fondo può essere anche comprensibile che il caos generato da Mani pulite inducesse in alcuni magistrati la convinzione di dover assumere su di sé il peso di un potere devastato?

Può darsi che la devastazione politica prodotta da quell’inchiesta abbia in effetti suscitato in una parte della magistratura la convinzione che, spianato il deserto, occuparsi del potere diventava doveroso, necessario. Non lo so, ripeto: a certe riunioni io non partecipavo, ero esclusa. Ma l’aria che si respirava nella magistratura italiana, nel 1993, era quella. D’altronde, un conto è cercare la verità su un fatto specifico, altro è assumere iniziative che rovesciano il Paese come un calzino.

Era esagerato?

Direi di sì, e probabilmente la durezza di quell’indagine fu incoraggiata anche da potenze straniere, che non avevano più bisogno della classe dirigente grazie alla quale, per l’intero dopoguerra, l’Italia era rimasta un’avanguardia contro l’avanzare del comunismo.

Lei è stata nel Pool di Mani pulite, seppur per un tempo limitato. È una testimone diretta.

Appunto. Pochi meglio di me possono parlare di quel periodo. Di cosa circolasse nella magistratura. C’era un’idea di potere da assumere, in modo anche diretto. Poi Berlusconi si è frapposto e quell’idea è svanita. Ma a quale prezzo, almeno per Berlusconi, lo abbiamo visto.

A cosa si riferisce?

Berlusconi è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha assunto anche tratti persecutori. Ripeto: prima del 1994 non c’era un magistrato che avesse detto “Silvio Berlusconi finirà sotto indagine”. Poi Forza Italia vinse le elezioni e nulla fu più come prima.

Filippo Facci: «Dopo Mani pulite, partiti e giusto processo non si sono più ripresi». Il giornalista Facci al Dubbio: «A parte la vicenda di Di Pietro, i magistrati di Milano dimostrarono di avere un potere superiore a quello del Parlamento». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. «È cambiato tutto. Nulla è più come prima. A cominciare dal Codice Vassalli- Pisapia dell’ 89: non è mai più stato com’era prima di Mani pulite. E la politica non si è mai ripresa, da allora. Anzi non c’è. Non esiste. Ci sono i curatori fallimentari, i tecnici, figure estranee ai partiti che fanno le riforme altrimenti impossibili». Con Filippo Facci si potrebbe trascorrere un pomeriggio intero, anzi più di uno, a parlare del ’ 93, e a spiegare l’eredità mortifera lasciata da Mani pulite. E ci vorrebbero molte pagine d’intervista, perché da giovane cronista giudiziario dell’Avanti!, Facci, oggi commentatore di Libero fu tra i pochissimi giornalisti italiani a non accettare il “verbo” del Pool, e a cercare di raccontarlo diversamente. A breve pubblicherà un libro, per celebrare in anticipo i trent’anni dall’inchiesta spartiacque della democrazia italiana.

Tiziana Parenti ci ha raccontato che nel ’ 93 i pm di Milano non escludevano un impegno diretto della magistratura in politica.

Distinguiamo: Di Pietro si è impegnato eccome, lo sappiamo. Agli altri è bastato condizionare persino le scelte legislative, con una forza superiore al Parlamento, ma senza lasciare la toga. Fanno fede due casi clamorosi: la pronuncia sul decreto Conso e l’altolà televisivo al decreto Biondi.

Era il consenso popolare a incoraggiare certe forzature?

Secondo Di Pietro c’era il rischio che “l’acqua non arrivasse più al mulino”, cioè che le confessioni si interrompessero e che non si potesse andare avanti. E tutto era possibile in virtù dell’insofferenza verso le forze del pentapartito che si radica nell’opinione pubblica dopo l’ 89, si manifesta con le elezioni del ’ 92, favorisce la particolare durezza di Mani pulite con il Psi prima e con la Dc poi. Lo stesso Borrelli confessò che il Pool sceglieva determinati obiettivi secondo le possibilità del momento. Altro che obbligatorietà dell’azione penale. E poi certo, il consenso esaltante spinse anche a osare di più, agli editti televisivi, e a fare giurisprudenza.

A cosa ti riferisci?

Mani pulite ha innescato un effetto a catena capace di rovesciare il Codice Vassalli- Pisapia nel suo contrario. C’è un prima e un dopo. Al Pool di Milano, per Mario Chiesa, servirono flagranza di reato, banconote segnate, un registratore, le confessioni di Luca Magni, si provò a usare senza successo persino una telecamera. Ma fino ad allora era quasi sempre così non solo per quei pm. Pochi mesi dopo, per procedere a un arresto, divenne sufficiente che qualcuno vomitasse mezzo nome e che quel nome finisse opportunamente sui giornali. A quel punto andavi di manette, nessuno protestava e per i gip era tutto a posto.

Mani pulite è stata lo spartiacque, per gli eccessi sulla custodia cautelare?

Lo è stata rispetto a una serie di stravolgimenti ad ampio raggio del Codice dell’ 89, avvalorati in seguito da varie Corti d’appello fino alla Consulta. Se il perno del processo accusatorio consiste nel dibattimento davanti al giudice terzo che si svolge nella parità tra le parti, secondo il principio dell’oralità nella formazione della prova, con Mani pulite arriviamo al punto che i verbali estorti in galera diventano prove, e se poi in Aula il teste non conferma tutto, finisce indagato per calunnia. A trent’anni da quell’inchiesta non siamo ancora fermi a quel punto ma i segni lasciati dal 1993 si vedono ancora.

Politica e magistratura sono tuttora due incompiute per via di quel trauma?

È un discorso che richiederebbe molte ore. Possiamo partire da alcune certezze. Dopo l’ 89 tutto il mondo è cambiato, ovunque la tecnocrazia si è intrecciata al populismo, ma in nessun altro posto il cambiamento è venuto da una rivoluzione giudiziaria. Avvenne perché con la fine della guerra fredda cambiò anche la considerazione che gli Stati Uniti e in generale le forze occidentali avevano del nostro Paese. Cossiga lo previde con largo anticipo in un paio di interviste rilasciate in Inghilterra e Francia, in Italia gli diedero del matto. Ma nonostante i presupposti che ho ricordato, Mani pulite non fu conseguenza di un complotto. All’arresto di Mario Chiesa, i pm di Milano mai avrebbero immaginato cosa sarebbe avvenuto. Pensavano di chiudere tutto per direttissima. Poi Borrelli ammise che per la loro indagine la svolta venne dal risultato elettorale dell’aprile ’ 92. Cambiarono gli equilibri, la magistratura fiutò l’insofferenza e processò un intero sistema. Il gip Italo Ghitti ammise: il nostro obiettivo non era giudicare singole persone ma abbattere un sistema.

Al punto che tra i pm maturò l’idea di dover fare politica in prima persona?

Non ne ebbero bisogno, al di là di quanto avvenne in seguito con Di Pietro. Fare politica vuol dire occupare uno spazio lasciato da altri, dalla politica appunto. Assumere un potere che travalica quello del Parlamento, come avvenne con i decreti Conso e Biondi. Borrelli stesso ammise che in quei casi si verificò uno sconfinamento.

Obbligatorietà dell’azione penale: nel ’ 92 è caduto anche quel principio?

Indagarono sul Pds, certo. Dopo Tiziana Parenti, lo fece Paolo Ielo. Ma farlo nel 1993, dopo aver prima puntato Craxi e il Psi, fu una scelta dirimente, e discrezionale. Non basta, per spiegarla, la maggiore difficoltà nel ricostruire i finanziamenti illeciti del Pci. Certamente quel metodo discrezionale ha cambiato l’orientamento della magistratura requirente. L’imprinting è rimasto, l’obbligatorietà è una barzelletta.

Berlusconi ha ereditato un po’ dell’antipolitica di Mani pulite?

Anche con una certa arroganza, se vuoi, io credo di essere tra i massimi esperti della storia di quegli anni, non foss’altro per l’immenso archivio che tuttora ne conservo, e posso dire che Berlusconi è un punto chiave dell’antipolitica italiana. Aveva compreso subito quanto fosse cambiato il vento: nel ’ 92 sconsigliò a Craxi di tentare la scalata alla presidenza del Consiglio, e gli disse di puntare casomai al Colle. Poi nelle convention di Publitalia cominciò a fare discorsi diversi dal solito, a dire che se ci fossero stati al governo pochi imprenditori come lui, avrebbero cambiato il Paese.

Oggi basta un guardasigilli di grande levatura come Marta Cartabia a dire che la politica ha riguadagnato il primato della democrazia in Italia?

Vuoi riformare la giustizia? Devi sapere che con la magistratura non c’è possibilità di mediazione. Nessuno collabora alla sottrazione del potere che detiene. Perché dovrebbero farlo i magistrati? La politica, da allora, dal 1992, non solo non è mai più tornata davvero autorevole: semplicemente non c’è. Gli unici che funzionano sono appunto i tecnici, i curatori fallimentari, che per definizione non mediano: semplicemente tagliano i rami secchi. Se pensiamo di cambiare la magistratura e il suo rapporto con la politica, non c’è altra strada che a farlo sia chi con la politica non c’entra nulla.

Giustizia, Andrea Pamparana: "Il sistema è marcio", l'ombra del ricatto della magistratura alla politica. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 20 settembre 2021. «Alla fine di tutto questo non cambierà nulla». I verbali sulla loggia Ungheria, e prim'ancora i contenuti del libro "Il Sistema", in cui il direttore di Libero Alessandro Sallusti dialoga con Luca Palamara sulle degenerazioni della magistratura, stimolano una lunga chiacchierata con Andrea Pamparana. Giornalista di rango, che annovera nel curriculum la vicedirezione del Tg5, rubriche e libri in quantità. Ma, soprattutto visse e raccontò l'inchiesta di Mani Pulite.

Cosa insegna la cronaca dei verbali sulla presunta Loggia Ungheria?

«È tutto un deja-vu. Un "già visto". Quando leggo di questa cosa, o dei meccanismi ben illustrati nel libro Sallusti-Palamara, mi viene da dire: ci meravigliamo? Ci stupiamo che vengano passati dei verbali a dei giornalisti? La risposta è no. Ma sono cose che in realtà dovrebbero farci paura, il sistema è marcio».

Perché è marcio?

«Per due elementi. Il primo è quello che venne individuato da Giovanni Falcone con il termine "pentitismo". In Italia, purtroppo, non si ha il modello del "collaboratore di giustizia" all'americana, che se non racconta le cose vere non ha alcuna protezione e subisce delle conseguenze. Da noi il primo "pentito" che dice qualcosa contro l'avversario politico di turno diventa "la verità". E tutto finisce sui giornali».

Quindi il caso Amara è pentitismo?

«Nello specifico non lo so, ma vedo che l'uscita dei verbali ripercorre quel meccanismo. Quanto sento dire che un magistrato molto importante andato in pensione, che faceva parte del Csm e io personalmente ho sempre stimato, parlo di Davigo ovviamente, si meraviglia che il verbale sia uscito tramite la sua segretaria, vorrei ricordare come uscì la notizia del famoso invito a comparire a Silvio Berlusconi a Napoli, durante un vertice internazionale».

1994. Come uscì?

«Per un giro interno tra giornalisti...».

E Procura?

«Certo! Ma secondo voi davvero possiamo credere che un Procuratore è così ingenuo da consegnare lui al giornalista, magari amico, il verbale? Gli strumenti per fare arrivare i documenti a chi di dovere sono infiniti. E' il perverso gioco dell'informazione che si è "appecoronata" al potere della magistratura».

Il secondo elemento, invece?

«La mancanza di quel che l'avvocato Giuseppe Frigo, illustre, poi diventato componente della Consulta, definì "un atto di civiltà", ossia la separazione delle carriere».

In che modo questa potrebbe interrompere il coagulo mediatico-giudiziario?

«Perché avresti due comparti precisi, tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, e perfetta simmetria tra accusa e difesa, con il giudice a vigilare al di sopra delle parti. Attualmente, questo non avviene, e anche nell'eventualità in cui il pm dovesse chiedere l'assoluzione per l'imputato, quest' ultimo nel frattempo è già stato sputtanato a livello mediatico».

La separazione delle carriere è uno degli elementi dei referendum di Lega e Radicali. Questo, assieme a quanto uscito sulla Loggia Ungheria e le rivelazioni di Palamara, portano ad un'accresciuta sensibilità collettiva sul tema. Ci sarà la spinta per una complessiva riforma?

«No».

Perché?

«Quanti referendum abbiamo fatto che poi non sono stati applicati? Accadrà anche questa volta. Alla fine ci sarà qualche piccola modifica della normativa che renderà vano quel referendum».

Eppure dovrebbe essere anche interesse della politica recuperare il suo primato.

«Certo, sempre però che la politica non sia al servizio o sotto ricatto della magistratura. Ricordo che c'è più volte stata occasione per farla, la riforma. I governi Berlusconi avevano un forte mandato popolare».

Neanche allo strapotere delle correnti si metterà mano?

«Può darsi che su quel lato uno scossone ci sia, ma dipenderà dal nuovo presidente della Repubblica. Cossiga, che tutti davano per folle, mandò i carabinieri al Csm, ma sono passati più di trentacinque anni!».

Nel '92 la Procura di Milano era il santuario del moralismo. Oggi abbiamo due protagonisti di allora, Greco e Davigo, l'uno contro l'altro. Che lezione se ne trae?

«Mi ricorda certi duelli del lunedì mattina sul calcio tra due immensi avvocati, Peppino Prisco, interista, e Vittorio Chiusano, che è stato presidente della Juve. Delle boutade».

Tutta scena?

«A parte il fatto che il pool era meno unito di quanto si possa pensare, direi di sì. Per carità, è una cosa anche rilevante, ma finirà in nulla. Tanto, dopo Greco e Davigo, arriverà qualcun altro che sarà incensato dagli aedi del Fatto Quotidiano e continuerà a fare quel che molti magistrati hanno sempre fatto: politica».

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 3 ottobre 2021. I grandi giornali in questi giorni, sulla vicenda di Luca Morisi, il guru della comunicazione social della Lega, hanno raccontato tutto e il contrario di tutto. Notizie frammentarie e imprecise, spesso contraddittorie e, successivamente, contraddette. L'importante era tenere alta l'attenzione sulla notizia, reggere tutta la settimana sino alle elezioni. L'unica cosa che i quotidiani si sono ben guardati dal mostrare sono i volti dei due escort. Sono stati protetti come pentiti di mafia. In fondo loro servivano come «dichiaranti» e non andavano esibiti sui media. Magari la garanzia della riservatezza è servita a fargli rilasciare interviste «esclusive» con il ciclostile. Decine di inviati sono andati in trasferta a caccia di festini gay con droga, avendo un'unica cautela: mostrare solo uno dei tre partecipanti all'orgia, Morisi, il domatore della tanto vituperata Bestia. Gli altri due, i professionisti, no, loro dovevano essere tutelati. In questa storia, invece, i due giovanotti non sono delle vittime. Uno dei due è indagato al pari di Morisi per cessione di sostanze stupefacenti. La coppia di prostituti potrebbe persino aver messo in atto un'estorsione ai danni del consulente milanese. Di certo i due hanno chiamato i carabinieri denunciando un fantomatico «furto» e durante le trattative telefoniche e anche a casa di Morisi avrebbero fatto salire non di poco il prezzo della prestazione. Avevano capito che il cliente era benestante e che aveva qualcosa da perdere a livello di reputazione? La risposta dovranno darla la Procura di Verona e i carabinieri che indagano sul caso. Ma vediamo chi siano questi due escort professionisti. «Alexander», nome d'arte, è il più grande della coppia. È nato nel febbraio del 1996. Il vero nome è David Solomon Dimitru, è nato in Romania, ma vive a Milano. Ha due vite parallele che non si incontrano mai. In una è un innamorato papà, con tanto di foto Whatsapp con bebè (sul petto ha tatuato la frase «Family is forever»), nell'altra è uno spregiudicato gigolò. Ma approfondiamo la seconda esistenza, quella da mister Edward Hyde. Su Internet il giovanotto si vende così: «Alexander, giovane ragazzo italo-spagnolo disponibile per farti passare momenti indimenticabili. Pronto per esaudire tutti i tuoi sogni, anche quelli più piccanti... 21 anni, 20 cm, attivo. Ospito e mi sposto!» ci fa sapere sul sito di incontri Grinderboy (dove il suo annuncio risulta, però, scaduto). In un'altra inserzione spiega di essere «versatile» e di avere «un bel culo». Dichiara di essere alto 183 cm e di pesare 70 chilogrammi, si definisce «muscoloso» e «modello». Propone massaggi, striptease e molto altro. Parla italiano e spagnolo fluentemente. Per 24 ore a casa del cliente vuole 2.500 euro, per mezz' ora a casa sua, zona piazzale Cuoco, a Milano, bastano 100 euro. Il suo profilo si trova su Internet a partire dal 2016. All'epoca si descriveva più basso (1,80 kg), con «fisico normale, né atletico né grasso» (77 chili) e anche i centimetri che contano in questi annunci erano meno (18). Spiegava anche di essere «educato, amichevole, maschile e soprattutto DISCRETO», scritto così, maiuscolo. Chissà se Morisi è dello stesso parere. Ventiquattr' ore insieme con lui costavano «solo» 1.000 euro (60 minuti 50 euro), prezzo poi salito a 1.500 e infine a 2.500. Un lustro fa offriva questi extra: «Accompagnatore serale per cene ed eventi di vario genere, finto fidanzato». Tal Giuseppe è rimasto entusiasta: «Alexander un bellissimo ragazzo da togliere il fiato. Sono stato con lui a una cena a Milano. Oltre a essere bello è molto intelligente, educato, elegante, perfetto per una compagnia a 5 stelle. Ottima presenza per fare una bella figura». Altro giudizio infervorato: «Ho incontrato Alex a Roma. È veramente bello. Mi ha presentato il suo amico Nicolas. Stupendo. Abbiamo fatto una cosa a tre ed è stata una esperienza fantastica». I commenti online lasciano intendere che spesso Alexander offra le sue prestazioni insieme con Nicolas/Nicola. Su un sito si propongono in questo modo: «Due bellissimi giovani bisex maschili, top, foto 100 per cento reali, a Roma. Nicolas, 19 anni, Alexander, 21 anni. Ospitiamo a San Giovanni oppure ci spostiamo, disponibilità assoluta, divertimento garantito [] contattateci x un incontro di vero piacere, siamo seri simpatici e onesti. Si richiede max serietà e decisione, disponibili tutta la notte. Chiama ora...». I due vendono le loro grazie, sempre nella Capitale, anche in zona San Lorenzo. Dove Nicolas risulta residente, in via dei Volsci. In realtà si chiama Petre Rupa, ha 20 anni compiuti da poco ed è nato in Romania, a Calarasi. A Verona è indagato per l'articolo 73, comma quinto del testo unico sugli stupefacenti, cioè per il cosiddetto piccolo spaccio. Per lo stesso reato è sotto inchiesta anche Morisi. Infatti non è ancora chiaro chi abbia ceduto all'altro la cocaina, ma soprattutto la fiala di Ghb, la cosiddetta droga dello stupro trovata nello zaino di Petre, considerata un po' un ferro del mestiere per i prostituti. Le investigazioni in corso serviranno a stabilire se la posizione di Morisi vada o meno archiviata. Anche Nicolas, sui siti di incontri, ha il suo bell'annuncio: «Sono un bel ragazzo bisex di 19 anni con un bel giocattolo di 25 centimetri. Caliente attivo per incontri raffinati». Non avevamo dubbi. L'escort precisa anche di essere «solo per persone serie e riservate». Salvo poi chiamare i carabinieri e farsi intervistare dai giornali, come nel caso di Morisi. «Un ragazzo stupendo. Lo ho incontrato a Roma. È più bello dal vivo che in foto e ha una ottima tariffa, mi ha trattato benissimo» lo ha recensito un anonimo. Anche se su Internet i prezzi ufficiali non sono proprio economici: 150 euro per mezz' ora e 400 per due ore. In queste ore Nicolas è irraggiungibile e ai cronisti ha fatto sapere di essere stato «malissimo» dopo la notte con Morisi e di essere ripartito per la Romania per «cure mediche». Alexander è invece di nuovo in piena attività a Milano. Ieri ci siamo finti clienti e lui ha iniziato immediatamente la contrattazione. Al telefono è gentile, ma di poche parole. Parla bene l'italiano e puntualizza subito di non trovarsi a Roma, ma di poter raggiungere la capitale in tre ore. Il nodo sono le spese di viaggio. Ha premura di incassarle in tempo quasi reale. «Ti mando i miei dati su Whatsapp. Ho una Poste pay». È libero subito: «Il tempo di fare una doccia e raggiungere la stazione. Parto da Milano» dice. È disponibile anche di domenica. «Quante ore vuoi stare con me?» chiede. Per un paio d'ore sono 400 euro. Ma prima di scendere nei dettagli è necessario il pagamento dell'acconto per la trasferta: «Ti mando i dati su Whatsapp». E chiude. Poco dopo arriva il messaggio: «Io sarei pronto per partire». Scatta la trattativa per la notte. L'offerta è 700 euro. Lui risponde: «Prendo 1.000 a casa mia». Poi continua a scrivere: «Caro, se mi dai 1.000 vengo. Ti mando i dati, fai la ricarica e parto». Manda sia il numero della carta ricaricabile, sia il codice fiscale. Sembra poter soddisfare qualsiasi esigenza. Hai un amico? «Appena arrivo a Roma ti mostro qualcuno e se ti piace lo chiamo». Inutile, però, chiedergli un'anteprima: «Non posso mandare foto così. Te li faccio vedere appena sono lì. Sono bei ragazzi. Molto belli, che lo fanno solo con me ogni tanto. Ne ho un paio davvero carini, appena arrivo te li faccio vedere e tu scegli». Aumenta il costo? «Magari 200 in più, dato che ci sono io». Rispetto ai 1.200 euro (biglietti del treno esclusi) chiesti a noi con Morisi la tariffa è salita a 4.000 (di cui 2.500 pagati con bonifico prima dell'incontro). A che cosa è dovuto il sovrapprezzo? Alla droga? A un tentativo di estorsione? Di certo quest' ultima ipotesi aleggia su tutta la storia. Poi, facciamo la domanda clou sulla droga: «Per divertirci un po' devo procurarmi io qualcosa o ci pensi tu?». La risposta è secca: «Ho contatti a Roma... poi vediamo insieme». «Così viaggi tranquillo», gli scriviamo. Lui risponde con un «sì». Ma ha premura per la ricarica. E torna sul tema: «Ok, hai i dati, vai a fare ricarica, poi fammi sapere. Stasera sarebbe perfetto. Sono ancora in tempo per partire... arrivo stasera e mangiamo insieme. Poi ci divertiamo. Vai a fare la ricarica che parto, senza perdere troppo tempo». Inutile cercare di spostare la conversazione su altri temi. Torna alla ricarica. L'unica ulteriore risposta è sul Covid: «Sono vaccinato». Alla fine ci sveliamo, ma lui rifiuta l'intervista e ci blocca.

Pioggia di veleni e tranelli sui candidati moderati. Fabrizio Boschi il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. È almeno un ventennio, dalle inchieste fuffa su Berlusconi in avanti, che la sinistra, in prossimità delle elezioni, siano esse Politiche, Europee o Amministrative, cerca di tendere trappole al proprio avversario di turno con l'aiuto dei loro giudici compiacenti o dei giornalisti amici. E queste elezioni non hanno fatto eccezione. Anche stavolta, la melma riversata contro il centrodestra, Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia è stata notevole, attraverso imboscate giudiziarie e agguati mediatici. Magistrati e giornalisti negli ultimi mesi hanno frugato nella spazzatura in cerca del colpo grosso per azzoppare i partiti del centrodestra. Questa volta però il bottino è stato magro e c'è stato più fumo che arrosto. Dalla gogna per Morisi al video sul meloniano Fidanza, è il solito metodo di Pd e grillini per sgambettare gli avversari. Nel dicembre scorso la corsa a sindaco di Paolo Damilano, candidato del centrodestra a Torino, è iniziata con un trittico di atti vandalici contro le sue proprietà. Un raid nei suoi vigneti di Barolo dove gestisce la cantina di famiglia e uno nei due storici locali torinesi che ha rilevato, il pastificio Defilippis e il bar Zucca. Una scia di veleni intorno alla sua scelta di correre come sindaco. E qualche sera fa è stata vandalizzata pure la sede di «Torino Bellissima», la lista che lo sostiene, con scritte del tipo «capitalista di merda» e «no Tav, no delocalizzazioni, no green pass», con il simbolo della falce e martello. A giugno la candidatura di Enrico Michetti come sindaco del centrodestra a Roma era partita da poco meno di 12 ore e per l'avvocato erano già iniziati i problemi. Anzi per meglio dire era già partita la macchina del fango della sinistra. Puntuali come un orologio arrivarono le indiscrezioni della procura, anticipate dal sito di Repubblica, su indagini che riguardavano il candidato scelto dalla Meloni. Aleggiarono indiscrezioni di una doppia inchiesta di Anac e Corte dei Conti su un pacchetto di affidamenti ottenuto dalla Gazzetta Amministrativa srl del candidato sindaco tra il 2008 e il 2014, quando alla Regione c'era Renata Polverini. Curioso però che questo assalto giudiziario sia arrivato subito dopo l'annuncio della coalizione del centrodestra. In luglio scoppia il caso «pistola» per il candidato sindaco del centrodestra a Milano Luca Bernardo, voluto da Salvini, accusato di girare armato non solo per la città ma anche sul luogo di lavoro, l'ospedale Fatebenefratelli-Sacco, dove ricopre il ruolo di direttore del dipartimento di pediatria. «Scandalo» sollevato dal medico e consigliere regionale di +Europa Michele Usuelli. Bernardo disse di aver ottenuto anni prima un porto d'armi per difesa personale dopo aver subito minacce. Ma niente, la macchina del fango non si è riguardata nemmeno di questo. Quindici giorni fa a Napoli, Catello Maresca, candidato sindaco per il centrodestra, perde quattro liste in suo sostegno perché, a detta dell'ufficio elettorale del Comune, non sarebbero state consegnate in tempo e con la documentazione richiesta. Da lì un susseguirsi di denunce, ricorsi, sentenze che hanno portato il Consiglio di Stato ad escludere definitivamente quelle liste. Nomi di peso e un serbatoio di voti che avrebbe potuto fare la differenza. Il resto è storia di questi giorni. Prima il piatto con contorno di droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, che col passare delle ore appare sempre più come una panzana costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Infine, la polpetta avvelenata confezionata dal sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un «giornalista» con microfono nascosto si è finto sostenitore di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari, senza neppure riuscirci. Delle sue 100 ore di video rimangono solo 10 minuti, con frasi irrilevanti ed un mirabolante saluto romano. Fabrizio Boschi

Michele Serra per “la Repubblica” il 3 ottobre 2021. Il grande scalpore sollevato dall'inchiesta di Fanpage sulla destra milanese non ha ragione d'essere. È risaputo che gli italiani di estrema destra, non essendo poche migliaia, ma qualche milione (storicamente intorno al 10-15 per cento dell'elettorato) da qualche parte devono pure stare: e dove se non nel partito della Meloni, che ha ancora la fiamma di Almirante nel simbolo? La concorrenza del Salvini, più ducesco della Meloni, anche più screanzato, dunque molto attraente per i nostalgici, ha retto per qualche anno; ora i Fratelli d'Italia sembrano riprendersi ciò che loro spetta, diciamo così, per natura. A partire dalla stessa Meloni, lo stupore perbenista nel riconoscere nello stesso selfie un nostalgico di Hitler e chi si candida al governo del Paese con il centrodestra, è davvero ipocrita. Per dirla in una sola frase, per niente retorica, la destra italiana non ha mai fatto i conti con il fascismo. È una frase che vuol dire esattamente quello che dice. È un rendiconto oggettivo, non una polemica politica. È nella storia della Repubblica e in specie di quella che viene chiamata, impropriamente, Seconda Repubblica: da Berlusconi in poi, i saluti romani e i candidati neri sono parte organica del cosiddetto centrodestra. I minimi serbatoi di CasaPound e Forza Nuova non possono contenere, del vasto neofascismo italiano, che insignificanti scorie: e comunque, in molte città, anche queste scorie sono nel centrodestra. Che l'apologia del fascismo sia contro la legge, dispiace dirlo ma ormai è un formalismo inapplicabile: l'Italia pullula di memorabilia del Ventennio e di saluti romani. Più utile sarebbe che la destra italiana finalmente dicesse: è vero, abbiamo un problema. Ma preferisce fingere indignazione quando qualcuno mostra quello che tutti sanno.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. Non chiamatelo «destrologo», perché non è corretto e nemmeno serio. Chiamatelo scrittore senza troppe etichette. Ma Pietrangelo Buttafuoco, in trepida attesa per il prossimo romanzo, ("Sono cose che passano", La Nave di Teseo) è anche un osservatore intelligente di quel che accade nel mondo e in «quel» mondo che in gioventù è stato suo. Perciò merita alzare il telefono e chiedergli a brutto muso: che pensa di quel che sta accadendo a destra? Lui sospira e rilancia: «Se mi chiedete di Fanpage, nemmeno rispondo perché ne è evidente l'assoluta malafede e la strumentalità».

In che senso?

«Nel senso che se prendi una macchietta della politica, uno del circo della Zanzara, e ci costruisci attorno un film, è evidente la strumentalità. Ma di questo non parlo, perché non mi interessa.

Parliamo allora di Luca Morisi, abbattuto dai fantasmi social che lui stesso ha evocato? Non le sembra il più drammatico esempio di contrappasso?

«Più che un contrappasso per lui, direi per i suoi nemici. In fondo Morisi è stato coerente con il dettato del tempo corrente, tutto sesso, droga e rock & roll. E invece di sentirsi dire dai suoi nemici - caspita, è dei nostri! - questi hanno mugugnato peggio del peggior Braghettone. Il pavlovismo ha preso il sopravvento». 

Ma non è un problema politico, scusi, l'incapacità di fare i conti con la propria storia, nel caso di chi tresca con certi attrezzi nostalgici del passato peggiore? O con la propria cultura, quando si demonizzano comportamenti che poi sono anche suoi?

«Se è per questo, il problema è anche più grave. Io dico che ormai non abbiamo la possibilità di ridiscutere in un senso molto più ampio. È un problema che va oltre il Novecento e oltre i confini italiani. Siamo entrati in una fase in cui il rischio di inquisizione e di totalitarismo culturale è più forte perfino di quanto fosse nel Dopoguerra. Nel senso che non abbiamo più la libertà e l'agio di attraversare i mondi, di raggiungere orizzonti ulteriori. Siamo costretti in un unico linguaggio che impone il pensiero unico. E soprattutto non c'è la possibilità di confrontarsi con il passato. Ben oltre il Novecento, non c'è più la possibilità di confrontarsi persino con il passato arcaico. Quello più remoto. Questa è la vera questione». 

Par di capire che, secondo lei, siamo oltre le costrizioni del politicamente corretto.

«Certo. Quando nei musei si pongono il problema se esporre le opere d'arte del Rinascimento perché temono di offendere le sensibilità altrui, di quelli che magari nella loro storia non hanno avuto la possibilità di creare capolavori, si capisce che siamo entrati in un ambito preoccupante. C'è una idea di civiltà e di libertà dell'umanità che viene messa in discussione. Grazie a dio, però, ci salveranno i cattivi. Nel momento in cui l'Occidente rinuncerà ai suoi musei, l'Hermitage di Mosca non si farà problemi come non se ne faranno in Cina. A me sembra di essere all'avvento del cristianesimo quando furono bruciate le biblioteche con la sapienza del passato e fu uccisa Ipazia. Se non ci fossero stati i cattivi dell'epoca, ovvero i saggi arabi d'Andalusia o i maestri persiani, oggi non avremmo più Platone o Aristotele. È quello che sta accadendo oggi, quando vogliono cancellare Shakespeare, il Rinascimento, o Heidegger». 

Io chiedevo più banalmente perché la destra non riesca a fare i conti con la propria storia una volta per tutte. O meglio: se non si debba accettare che i conti vanno fatti di continuo.

«Attenzione, tra quello che mi chiede lei, e quello che dico io, c'è di mezzo un groviglio inestricabile di non detto, di autocensura, di timori, per cui non ne usciamo più. Siamo costretti tutti alla "dissimulazione gentile" per potercene venire fuori. Però voglio ricordare un aneddoto, ormai stratificato nella storia della destra: il compianto Pinuccio Tatarella, una volta che gli si presentò un tale con certa paccottiglia nostalgica, la prese e la gettò d'impulso fuori dalla finestra. Non aveva intenzione di perdere tempo». 

È comprensibile che Giorgia Meloni, di ben altra generazione, e con ben altre ambizioni, voglia gettarsi tutta la paccottiglia alle spalle. Ma perché non lo fa, allora?

«Ma davvero vogliamo parlare del Novecento? Allora io faccio solo un nome: Renzo De Felice. Dal punto di vista storico, la discussione si è chiusa con un lavoro storiografico importante. Non lo possiamo più interpellare? Leggiamo i suoi libri».

Il regime del pensiero unico. Marco Gervasoni il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo diciamo da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una parola, su questo continuo guardare indietro. Tipico di un paese anagraficamente anziano, con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle fastidiose anomalie. Che poi non è neanche storia, questo continuo cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra. Inoltre pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il fascismo, meno lo si conosce. Come non se ne può più della protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia. Abbiamo già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario Scelba e tanti altri. Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006. Ha ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti: e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna. Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare. Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini. E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi? Se c'è qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post comunisti. Per parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo». E ai politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo. Marco Gervasoni

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.

Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.

Vittorio Sgarbi, "a Giorgia Meloni lo avevo detto": complotto prima del ballottaggio? Una inquietante teoria. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "L’ho già detto a Giorgia Meloni all’indomani del primo turno: vedrai, faranno qualsiasi cosa per etichettare Enrico Michetti come neofascista. E i fatti mi hanno dato ragione. Tutto è partito da quella che io chiamo la “congiura di Fanpage”. Si è usato un infiltrato clandestino alla ricerca di un reato che non c’è. E gli effetti si sono visti. La verità è che siamo di fronte a una profonda violazione delle regole democratiche da parte dell’informazione e di certa politica. Come non pensare alla Gruber che ha definito Michetti come un neofascista davanti a Calenda che ha cercato addirittura di correggerla?”. Così Vittorio Sgarbi parla del prossimo ballottaggio di Roma e delle conseguenze politiche nate dopo il voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre. "Nello spostare il tiro sul fantasma del fascismo che non c’è, evitando di parlare delle migliaia di persone che hanno manifestato liberamente per un sacrosanto diritto di libertà. C’erano sì Fiore e Castellino, ma è anche vero che non si manganellano le persone civili, non si fa sanguinare chi ha idee diverse", spiega Sgarbi puntando il dito sull'informazione. "La gente non capirà che il pericolo fascista non esiste. Per quanto riguarda Michetti, tutti gli elettori che lo hanno votato al primo turno, devono tornare a votare, questo è il mio invito. Devono capire che la pressione mediatica che stiamo subendo sta facendo diventare santo il governo e fascista la gente che scende in piazza", chiarisce in una intervista al Giornale. Sulla manifestazione di Landini per la democrazia e per il lavoro, contro i fascismi, annunciata a Roma il 16 ottobre, raccomta che "farà un’interrogazione parlamentare perché non è accettabile che si faccia politica col sindacato nel giorno di silenzio elettorale. Landini non è un corpo apolitico, ma attraverso il sindacato fa politica e non può farla il giorno del silenzio elettorale, condizionando le urne. La facciano piuttosto il 18, il 19, non il 16. È un’azione chiaramente contro la Meloni". Infine un consiglio al candidato sindaco di Roma Enrico Michetti. "Da soli né io né lui abbiamo la possibilità di potere fare un comizio in piazza dicendo che non è vero che siamo fascisti. Ma ormai Gruber, Fanpage e Landini, i tre finti democratici, hanno imposto un taglio eversivo alla comunicazione. Spero ora che vadano a votare quelli che vengono chiamati fascisti senza esserlo e che siano più numerosi di quelli che vengono chiamati al voto contro i fascisti inesistenti. Ripeto, il rischio fascista non c’è. C’è un rischio eversivo da parte dell’informazione", conclude Sgarbi. 

Quarta Repubblica, il sospetto di Sallusti sugli scontri a Roma: "Qualcuno ha lasciato che accadesse". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. I sospetti su quanto accaduto nella giornata di sabato 9 ottobre a Roma sono tanti. In particolare ci si interroga come tutto ciò sia stato possibile. A chiederselo anche Alessandro Sallusti, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4. "La cosa è talmente strana che o il Paese è in mano ad un branco di incapaci o qualcuno dentro lo Stato ha lasciato che accadesse. È evidente che questo fa gioco alla sinistra". In piazza, con il pretesto di protestare contro il Green pass anche Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova. I due sono stati arrestati, ma com'è possibile che potessero manifestare indisturbati? Una domanda che si è posto lo stesso Matteo Salvini, da giorni con Giorgia Meloni attaccato su tutti i fronti. "Ho fatto il ministro dell'Interno e qualunque cosa accadesse era colpa mia – ha detto Salvini sui suoi canali social – Ora, mi domando: se questo estremista di destra era tranquillamente in piazza del Popolo, con il microfono in mano e davanti a migliaia di persone, chi lo ha permesso? Chi non lo ha impedito? L'attuale ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva, ha fatto tutto quello che doveva?". Il leader della Lega punta il dito contro Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno: "Non prevedere le necessarie misure di sicurezza e non prevenire gli incidenti, anche gravi, significa che è la persona sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Non solo, perché a indignare maggiormente il direttore di Libero è anche l'uscita di Beppe Provenzano. Il vicesegretario del Partito democratico ha detto che Fratelli d'Italia "è fuori dall'area democratica e repubblicana". Parole fortissime che hanno scatenato la polemica: "Quello che è più inquietante è che il vice segretario del Pd ha buttato lì che forse si dovrebbe chiudere Fratelli d'Italia". E infine: "Stasera hai dimostrato che chi di dovere doveva sapere cosa succedeva e non ha fatto nulla". 

Dentro il Matrix di Giorgia Meloni. Mauro Munafò su L'Espresso l'11 ottobre 2021. Le prese di distanza dalle manifestazioni romane, con molti distinguo, non hanno trovato alcuno spazio sui social solitamente così aggiornati della leader di Fratelli d’Italia. Per un motivo molto chiaro. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto finta di condannare le violenze fasciste della manifestazione no Green pass a Roma tirando fuori dal cilindro la frase: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre». L’ironia sulla matrice che Meloni non conosce, in effetti difficile da rilevare tra saluti romani e canti contro i sindacati “boia”, rischia di oscurare un altro interessante fenomeno. Ovvero come dentro la bolla meloniana e i suoi canali ufficiali sia stata del tutto nascosta questa storia e questa presa di distanza. Ennesima dimostrazione dell’ambiguità utilizzata da Meloni per non perdere il consenso delle frange estreme della destra nazionale. Ma andiamo nel dettaglio. Sui canali ufficiali di Giorgia Meloni, al momento in cui scriviamo e a due giorni dagli eventi di cui parliamo, non è comparso nessun messaggio o video dedicato a condannare le manifestazioni romani. Nelle ultime 48 ore i social media manager di Meloni hanno però trovato il modo di parlare di partite Iva, mazzette in Sicilia, della destra presentabile, di Brumotti e della partecipazione della leader di Fratelli d’Italia all’evento di Vox in Spagna. Non si tratta quindi di una dimenticanza ma di una scelta precisa per non scontentare i fan. E allora quella “condanna” che è servita a fare i titoli sui giornali, da dove arriva? È la risposta alle domande fatte dai giornalisti domenica mattina e di cui non c’è traccia sui canali social di Meloni, di solito sempre pronti a immortalare ogni uscita della politica. Di più, l’unico segno “ufficiale” di queste frasi arriva da una pagina interna del sito di Giorgia Meloni: con un breve comunicato che non è stato neppure messo sulla sua homepage. E che comunque, in un momento in cui la comunicazione politica passa interamente dai social, non avrebbe visto nessuno. Ripescando un vecchio adagio della professione giornalistica: se vuoi nascondere una notizia non devi censurarla ma pubblicarla in piccolo in qualche pagina secondaria. Più che di matrice quindi, qua siamo di fronte a un vero e proprio “Matrix” di Giorgia Meloni. La sua realtà parallela.

Mirella Serri per "la Stampa" l'11 ottobre 2021. L'attacco dell'altroieri da parte di sedicenti no Green Pass alla sede centrale della Cgil voleva colpire un ganglio vitale dello Stato democratico, la rappresentanza sindacale dei lavoratori. Ricorda molto le aggressioni delle squadracce fasciste contro le Camere del lavoro, le Case del popolo e le leghe durante il "biennio nero" 1921-22. Però secondo la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si tratta «sicuramente di violenza e squadrismo, ma la matrice non la conosco»: un modo furbetto per evitare di dire che siamo di fronte a un rigurgito di fascismo. Da qualche tempo questa politica dello struzzo è sempre più ricorrente fra gli esponenti della destra. La verifichiamo sia in circostanze gravissime, come l'attacco al cuore dello Stato dei giorni scorsi, che in episodi apparentemente minori ma rivelatori della presenza di un nocciolo duro di neofascismo nelle pieghe delle due principali formazioni della destra. Cosa testimonia, ad esempio, il boom di voti ricevuti nella Capitale da Rachele Mussolini junior, candidata alle comunali per il partito della Meloni? Il fatto che la giovane Mussolini, con un cognome così evocativo, abbia fatto il pieno di preferenze non si deve prendere sottogamba. Come ha scritto ieri il direttore de "la Stampa", l'onda nera che ha invaso le piazze italiane affonda le sue radici nell'"album di famiglia". E la nipote di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, agli occhi dei suoi elettori ha rappresentato proprio questo nero album. Da una parte c'è il cognome del Duce, che i più fanatici militanti di destra rivalutano per tutto il suo operato, incluse le leggi razziali. Ma dall'altra c'è anche il nome di nonna Rachele che piace ai meno estremisti fra gli estremisti perché è ricco di storia fascista. Molti italiani, non solo i romani, associano la consorte del capo del fascismo all'immagine di una casalinga fedele e icona della memoria del dittatore, a una donna lontana dall'agone politico, timida e discreta. Ma questo ritratto le corrisponde? Oppure è una mistificazione dei cultori del passato che non passa, così come, ad esempio, le recenti esternazioni su quell'Arnaldo Mussolini presentato come il fratello mite e buono del Duce. Alla domanda su cosa pensasse del fascismo, Rachele junior ha glissato: «È una storia troppo lunga». Ma di fronte anche a quello che è accaduto sabato, la storia non è troppo lunga e va al più presto riportata alla luce. Quando il leghista Claudio Durigon propose di intitolare il parco comunale di Latina ad Arnaldo Mussolini, si fece finta di dimenticare chi fosse veramente costui. Non solo un fascista tra i tanti: aveva intascato le maxi-tangenti pagate dalla Sinclair Oil per assicurarsi il monopolio delle ricerche petrolifere in tutta Italia. Giacomo Matteotti, per coincidenza, venne assassinato mentre era in procinto di denunciare la corruzione del fratello del Duce. La stessa volontaria dimenticanza del passato si ripete con la storia di nonna Rachele: anche lei, proprio come Arnaldo, fu molto attiva negli affari di famiglia e del regime di cui con passione sostenne anche tutte le violenze. Rachele senior fu anche cinica e feroce nei confronti degli antifascisti e perfino dei fascisti: prima della seduta del Gran Consiglio che destituì il Duce, gli suggerì di incarcerare tutti i gerarchi che ne facevano parte. Caldeggiò inoltre la condanna a morte di Galeazzo Ciano per il "tradimento". La vita di Rachele, incluso il periodo della Rsi, è stata parte integrante della più cruenta storia del fascismo e rientra in quell'album di famiglia che le componenti nostalgiche di Fratelli d'Italia e della Lega fingono di ignorare dando il loro voto a Rachele Mussolini junior, un nome e un cognome che sono una garanzia per i nostalgici del Ventennio.

Otto e Mezzo, "matrice cercasi": Gruber a senso unico sin dal titolo, plotone schierato contro Giorgia Meloni. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. “Matrice neofascista cercasi”, è il titolo scelto da Lilli Gruber per la puntata di Otto e Mezzo di lunedì 11 ottobre. Un chiaro riferimento alle prime dichiarazioni di Giorgia Meloni dopo la notizia delle violenze fasciste e squadriste verificatesi a Roma, tra l’assalto ai blindati della polizia e soprattutto alla sede della Cgil. La Gruber ha scelto un parterre di ospiti tutt’altro che casuale per affrontare l’argomento, a partire da Tomaso Montanari - che con la leader di Fratelli d’Italia ha delle “storie tese” passate - e da Paolo Mieli. “Non c’è neanche un dubbio sulla matrice - ha dichiarato il giornalista del Corriere della Sera - erano lì presenti i leader di Forza Nuova a guidare l’assalto. Casomai si dovrebbero distinguere le cose, non riduciamo tutta la questione dei no-green pass ai neofascisti. È accaduta una cosa deprecabile, non c’è alcun dubbio che la matrice sia quella”. Inoltre Mieli si è detto stupito dalla difficoltà che fanno Lega e Fratelli d’Italia a prendere le distanze e a condannare fermamente le violenze fasciste: “Possibile che non ce ne sia uno che dica basta, bisogna fare una guerra senza quartiere e sbatterli fuori? A me non interessa nulla, lo dico per loro: cosa devono aspettare? Un assalto ad una sede della Lega?”.

Da huffingtonpost.it l'11 ottobre 2021. Solleva un polverone la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, contro Fratelli d’Italia e la sua leader Giorgia Meloni. “Ieri Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano” ha detto l’ex ministro del Sud. “In questo modo Fdi si sta sottraendo all’unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”. Parole a cui replica Giorgia Meloni su Facebook: “Il vicesegretario del partito ’democratico’ vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte. Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia” afferma la leader di FdI. “O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte”. Diversi gli esponenti di Fratelli d’Italia che si scagliano contro Provenzano. “Il presidente del Consiglio Draghi e tutti i partiti che appoggiano il suo governo condannino immediatamente le parole di chi sembra essere più vicino alle censure imposte dalle dittature di sinistra che non alle posizioni di libertà cui si ispira Fratelli d’Italia” dichiara il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. E Giuseppe Provenzano chiarisce: “Una batteria di attacchi nei miei confronti da Fdi. Chiariamo. Nessuno si sogna di dire che Fdi è fuori dall’arco parlamentare o che vada sciolta. Ma con l’ambiguità nel condannare matrice fascista si sottrae all’unità necessaria forze dem. Sostengano di sciogliere Forza Nuova”.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

FABIO MARTINI per la Stampa il 13 ottobre 2021. Gianfranco Fini da quattro anni si è chiuso nel silenzio. Non un intervento pubblico e non un’intervista, ma il protagonista della più importante svolta nella storia della destra italiana non ha smesso di pensare politicamente, di consigliare, di parlare con gli amici di un tempo. E anche se ripete a tutti che lui si limita ad «osservare» e per questo non si esprimerà pubblicamente su Giorgia Meloni, però Fini ha confidato a più d’uno i suoi pensieri su quel che si muove in queste ore a destra: «Come la penso? La penso esattamente come la pensavo ai tempi della svolta di Fiuggi a proposito del fascismo e dell’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati». E Fini non dimentica l’asprezza degli scontri che lo divisero dagli oltranzisti e dai nostalgici, nello storico congresso di scioglimento dell’ Msi a Fiuggi nel 1995 e anche dopo: «Non a caso ero considerato in quegli ambienti il traditore per antonomasia!». In effetti la rottura della destra missina e post-missina non solo con i terroristi neri ma anche con i picchiatori e i movimenti violenti, 25-30 anni fa, è stata così radicale e memorabile da indurre Fini, nelle sue chiacchierate di questi giorni con gli amici di un tempo, a ragionare sul possibile scioglimento di Forza Nuova. Ieri scherzava sulla «fake news» che attribuiva proprio a lui la sottoscrizione di una mozione Change.org che chiede un intervento risolutivo contro l’organizzazione neo-fascista, ma l’ex leader di Alleanza nazionale confida che condividerebbe un eventuale provvedimento di questo tipo. Da ex presidente della Camera, Fini si sente di obiettare su alcuni strumenti per raggiungere l’obiettivo: «Trovo paradossale che sia il Parlamento in quanto tale ad assumere l’iniziativa con una mozione che peraltro non ho letto. In realtà il Parlamento può al massimo chiedere al governo di sciogliere quelle formazioni». Naturalmente Fini conosce la diatriba che divide giuristi e costituzionalisti sulla potestà repressiva, se la competenza spetti all’esecutivo o alla magistratura dopo apposita sentenza, ma sul punto l’ex capo di Alleanza nazionale non sembra aver dubbi: «In realtà i governo può intervenire subito, ope legis, anche senza un’iniziativa parlamentare. È già accaduto nel passato, sia pure in circostanze diverse, nei confronti di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale». Ma c’è una storia, soffocata nel ricordo, che parla più di ogni altra circa i riflessi politici prodotti dalla rottura che Fini portò a termine col mondo che si muoveva anni fa alla destra dell’Msi-An. Ne parla lui stesso in questi giorni: «Nel gennaio del 1995, al congresso di Fiuggi, io fui agevolato da Rauti e Pisanò che si portarono dietro tutti coloro che avevano avversato la nascita di An e la sua carta d’intenti». Ma nei mesi successivi si consumò qualcosa di più grande di una banale scissione. E si produsse un evento elettorale, da allora rimosso da tutti, a destra e a sinistra. Dopo la svolta “anti-fascista” di Fiuggi e la nascita di An, Pino Rauti che per decenni era stato il principale ideologo del movimentismo di estrema destra, e Giorgio Pisanò, repubblichino mai pentito, ri-rifondarono la Fiamma missina e nella primavera del 1996 proprio i “neo-fascisti” furono decisivi in 49 collegi marginali per fare perdere il centro-destra. Disse Rauti: «Se Prodi ha vinto, lo deve a noi…». E in effetti, per quanto a sinistra possa apparire non subito comprensibile, la reticenza di Giorgia Meloni a prendere le distanze dai picchiatori di Forza Nuova in quanto neo-fascisti, in qualche modo è fuori linea anche rispetto a Giorgio Almirante. Il repubblichino capo storico della destra post-fascista italiana, tra 1978 e 1979 si incontrò in modo segretissimo col segretario del Pci Enrico Berlinguer e sinché i due furono vivi non se ne seppe nulla ma - come racconta Federico Gennaccari, editore e storico della destra missina - «i due leader pur così diversi colsero il rischio di una deriva terroristica di aree giovanili da loro oramai lontane ma che in qualche modo appartenevano ai rispettivi album di famiglia. E si scambiarono informazioni e pareri sulla pericolosa deriva in corso».

Giorgia Meloni, la menzogna di Giulia Cortese: "Eccola a casa, dietro di lei la foto di Mussolini". Ma è tutto falso. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La macchina del fango per minare la tornate elettorale non si ferma qui. La giornalista Giulia Cortese ha deciso di sferrare l'ultimo attacco a Giorgia Meloni. Peccato però che si tratti una notizia falsa. La Cortese ha infatti pubblicato un frame di un video in cui alle spalle della leader di Fratelli d'Italia, collegata da casa, appare una foto di Benito Mussolini. A corredo il commento: "Dietro c'è la sua matrice preferita". Il riferimento è alle parole pronunciate dalla Meloni dopo l'assalto alla sede della Cgil da parte di alcuni estremisti. Premettendo di condannare tutti gli atti di violenza, la leader ha ammesso di non sapere di che "matrice" fossero. Da qui il livore della sinistra. Ma la Meloni non ci sta e sotto alla foto diffusa dalla giornalista ha replicato: "Reputo che questa foto falsificata, pubblicata da una giornalista iscritta all’ordine, sia di una gravità unica. Ho già dato mandato al mio avvocato per procedere legalmente contro questa ignobile mistificazione. A questo è arrivato certo giornalismo di sinistra?!". Una risposta che ha scatenato la diretta interessata, già impegnata a cancellare il post: "Ho rimosso la foto, anche se non è molto lontana dalla realtà. Comunque cara Giorgia Meloni, la gogna mediatica che hai creato sulla tua pagina Facebook contro di me ti qualifica per quello che sei: una donnetta", ha scritto la giornalista. Ma se la Meloni non ha risposto all'ultimo attacco, ecco che ci ha pensato per lei Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia: "Invece di chiedere scusa continua a insultare?".

La sinistra prova il blitz: vogliono abolire la Meloni. Laura Cesaretti il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno: è infatti il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano che, proprio mentre i Fratelli d'Italia si dibattevano faticosamente tra la condanna per le violenze di Roma e la solidarietà ai novax/nopass antigovernativi, inciampa in un clamoroso incidente politico via Twitter. Offrendo così generosamente ai meloniani l'ambito ruolo di vittime della sinistra neo-stalinista. Provenzano, che nel Pd rappresenta la sinistra dura e pura, se la prende con Meloni che da Madrid (dove è corsa ad arringare in uno spagnolo maccheronico la platea dei nostalgici franchisti di Vox) ha dichiarato di non conoscere la matrice di Forza Nuova, e accusa: «Il luogo scelto e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano». Bum: sul vice di Enrico Letta che mette FdI fuori dal consesso democratico si scatena la tempesta. E siccome nel frattempo il Pd sta raccogliendo le firme su una mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova, il gruppetto fascista che ha assaltato Cgil e ospedali spaccando bottiglie in testa agli infermieri, quelli di Fdi fanno la sintesi: Provenzano vuole sciogliere anche noi. «Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d'Italia», tuona Meloni. «O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte». Meloni si affretta ad assicurare che lei condanna «ogni violenza di gruppi fascisti». E che il suo partito «non ha rapporti con Fn», e invita il Pd a manifestazioni e azioni comuni contro ogni violenza». Le fa subito eco il capogruppo meloniano Francesco Lollobrigida: «Non è certo il vice segretario del Pd che può concedere patenti di ingresso nel perimetro repubblicano. I suoi toni somigliano più a quelli dei regimi comunisti, in cui affonda le sue radici il Pd, che non a quelli del civile e rispettoso confronto parlamentare». Seguono a ruota tutti i parlamentari di Fdi, chi chiedendo le dimissioni di Provenzano, chi ingiungendo a Letta e persino a Mario Draghi e Sergio Mattarella di pronunciarsi, chi chiamando il vicesegretario Pd «stalinista». Con Meloni si schiera Matteo Salvini: «Il vice-segretario del Pd taccia ed eviti di dire idiozie, non è certo lui che può dare patenti di democrazia a nessuno. Fascismo e comunismo per fortuna sono stati sconfitti dalla Storia, e non ritorneranno». I dem devono correre ai ripari: a Provenzano viene chiesto di mettere una pezza al pasticcio combinato, con un ulteriore tweet che però non riesce col buco. L'ex ministro del Mezzogiorno («E meno male che adesso c'è la Carfagna», lo punge Matteo Renzi) assicura: «Nessuno si sogna di dire che FdI è fuori dall'arco parlamentare (in effetti aveva detto fuori dall'arco democratico e repubblicano, ndr) o che vada sciolto, ma con l'ambiguità nel condannare la matrice fascista si sottrae all'unità necessaria delle forze democratiche». Letta ribadisce il «gravissimo errore» della Meloni nel non condannare lo «squadrismo» dei no vax e la invita a sottoscrivere la mozione contro l'organizzazione neofascista, mentre dal nazareno si accusa la leader Fdi di «falsificare la realtà rifugiandosi nel vittimismo: il Pd non ha chiesto di sciogliere il suo partito ma Fn». Laura Cesaretti 

Giorgia Meloni contro Beppe Provenzano: "Vuole sciogliere FdI per legge? Ecco che roba è la sinistra". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. L'assalto alla Cgil e le manifestazioni estremiste a Roma di sabato? Tutta colpa di Giorgia Meloni. Questo il pensiero di Beppe Provenzano. L'ex ministro del Partito democratico si scaglia contro Fratelli d'Italia in un post su Twitter intriso di livore: "Ieri Meloni aveva un'occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fdi. Ma non l'ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano". Peccato però che la Meloni abbia denunciato "la violenza e lo squadrismo" andato in scena, ricordando che "questa roba va combattuta sempre" per poi precisare di non conoscere la matrice. E in effetti non è l'unica. Alla protesta partecipavano più di diecimila persone, molte addirittura scampate ai controlli. Dura condanna anche da parte del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida: "Il governo può sciogliere le organizzazioni eversive. Draghi prenda provvedimenti". Da qui la replica della Meloni alla provocazione del dem: "Il vicesegretario del partito 'democratico' vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte". Messaggio indirizzato a Enrico Letta: "Prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia. O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte". Solo in parte Provenzano ha raddrizzato il tiro chiarendo quanto scritto: "Significa semplicemente che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui". Ma la proposta rimane ugualmente grave".

"Nemmeno il Pci si sognò di metter fuori legge il Msi". Fabrizio Boschi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'intervista al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Secondo l'ex ministro per il Sud nel governo Conte II, Giuseppe Provenzano, oggi vicesegretario del Pd, Giorgia Meloni sarebbe «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Sentiamo cosa ne pensa l'antifascista direttore del Riformista, Piero Sansonetti. 

Direttore, cosa gli è preso a Provenzano?

«Credo abbia avuto un colpo di caldo fuori stagione. Non si capisce di che parli».

Come se la spiega?

«Deve aver sentito parlare dei partiti facenti parti dell'arco costituzionale. Ma senza studiare la storia: oggi i partiti che hanno partecipato alla Costituzione non ci sono più. Perciò sono tutti fuori. Forse solo il Psi di Nencini si può definire partito costituzionale. Gli altri son nati dopo».

È preoccupante?

«Fa pensare a manovre autoritarie».

Addirittura.

«Dire che la Meloni è fuori dall'arco democratico è una manovra autoritaria che riduce la democrazia in regime. Ricordo a questo ragazzo che nella storia italiana i partiti sono stati cancellati solo da quei fascisti che lui tanto odia. Ci provò Scelba ma senza riuscirci. E ora lui cosa vorrebbe fare? Riprendere questa bella tradizione?».

Lo conosce?

«No, cosa è ministro?»

No, non più, ora è vice segretario del Pd.

«E Letta non ha detto niente? Questo sì che è preoccupante. Figuriamoci che una cosa del genere non l'hanno mai pensata nemmeno i comunisti. Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l'Msi che certamente era molto più legato al fascismo di Fdi. Persino Potere operaio, che Provenzano nemmeno saprà cos'è, era contrario. Solo Lotta continua lo gridava. Ed eravamo negli anni Settanta, quando Provenzano nemmeno era nato, in un clima ben diverso dal nostro».

Allora a cosa attribuisce le sue parole?

«Al decadimento della nostra classe politica che denota una totale assenza di preparazione che poi è la caratteristica di questo Parlamento, dal M5s in poi. Tutto è inquinato da un personale politico con capacità di ragionare ridotte e con una cultura politica assente. Si salvano solo poche decine di persone».

E di chi vuole cancellare Forza Nuova cosa ne pensa?

«Un'altra idiozia. Se ogni volta che ci sono incidenti mettiamo fuori legge coloro che partecipano alle manifestazioni allora metteremo fuori legge tutti. E i militanti di sinistra sono quelli che farebbero fuori per primi. Non ha nessun senso a meno che non si voglia creare un regime. Io sono anche contrario ai reati di apologia, figuriamoci».

Cioè?

«Sono reati di opinione e nessun pensiero per me andrebbe punito, punire i pensieri è ignobile. Penso ci sia qualcosa di fascista nel proibire i pensieri. Tutte le azioni repressive sono fasciste».

E della Meloni a Vox cosa ne pensa?

«Lei può andare dove gli pare. Il problema è che questi vogliono fare i partigiani perché non riescono a fare nient'altro e confondono la politica con la raccolta di figurine Panini».

Da repubblica.it l'11 ottobre 2021. "Vogliamo fare una cosa seria? Tutto il Parlamento si unisca per approvare un documento contro ogni genere di violenza e per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza, non è che la violenza dei centri sociali lo è meno". Replica così Matteo Salvini al segretario del Pd, Enrico Letta, dopo che i dem hanno presentato alla Camera questa mattina una mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova e di tutti gli altri movimenti dichiaratamente fascisti. Una richiesta nata dopo gli scontri di sabato scorso a Roma durante la manifestazione non autorizzata dei No Green pass a cui hanno preso parte molti esponenti di FN e durante la quale la sede nazionale della Cgil è stata devastata. Intanto, su richiesta della Procura di Roma la Polizia Postale ha notificato un provvedimento di sequestro del sito internet del movimento di estrema destra Forza Nuova. L'attività rientra nell'indagine avviata dai pm della Capitale  e relativa anche agli scontri avvenuti sabato nel centro della Capitale e che ha portato all'arresto di 12 persone. Il reato per cui si è proceduto è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici o telematici. 

Mattarella: "Molto turbati, non preoccupati"

E proprio rispetto a quanto accaduto durante la manifestazione nella Capitale, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a Berlino rispondendo a una domanda del presidente Frank-Walter Steinmeier ha sottolineato che "il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica".

Il no di Forza Italia

Ma il leader della Lega non è l'unico a non appoggiare la mozione del Pd. Oltre al no di Fratelli d'Italia, oggi arriva anche quello di Forza Italia. E fonti della Lega fanno sapere che il centrodestra "condanna le violenze senza se e senza ma ed è pronto a votare una mozione per chiedere interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra". Questo, riferiscono dal Carroccio, è quanto sarebbe emerso "da alcuni colloqui telefonici tra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni". Mentre l'azzurro Elio Vito si dichiara disponibile a firmare la mozione del Pd, il resto del partito di Silvio Berlusconi si dice contrario. "I fatti di sabato scorso, le aggressioni alle forze dell'ordine, l'assalto alla Cgil, sono stati condannati da tutte le forze politiche. Non ci possono essere ambiguità contro la violenza e contro chi usa una manifestazione di piazza per secondi fini", chiariscono in una nota i capigruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. "Ma non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi - proseguono - e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd". Per, da FI si dicono aperti ad altre soluzioni. "Proprio per superare le divisioni - dicono - proponiamo di lavorare ad una mozione unitaria contro tutti i totalitarismi, nessuno escluso".

Conte: "M5S in prima fila contro Forza Nuova"

Dai grillini arriva invece il sostegno alla proposta dei dem. "Il Movimento 5 Stelle aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova e delle altre sigle della galassia eversiva neofascista", assicura il leader Giuseppe Conte. "Saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari che muoveranno in tal senso - aggiunge - Siamo però consapevoli che non basterà questo, così come sappiamo che ignorare le proteste di piazza - quelle legittime e pacifiche - non aiuta a lavorare al bene del Paese". Per questo, Conte in un post su Facebook invita ad "ascoltare la rabbia di chi guarda al futuro con angoscia e preoccupazione".

La mozione di LeU

Come il Pd, anche Liberi e Uguali ha scelto di presentare, ma al Senato, un analoga mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova.  " Dopo gli assalti squadristi di sabato e la delirante rivendicazione di FN che promette di proseguire su quella strada non si può più essere tolleranti.  Bisogna agire, far rispettare la Costituzione e le leggi, sciogliere i gruppi fascisti", sottolinea la capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris. Che poi dice: "Anche FdI, se fosse onesta e coerente, dovrebbe votare a favore della mozione. Invece Giorgia Meloni prosegue con la tattica dell'ambiguità, senza mai nominare i fascisti perché sa che da quelle aree le arrivano voti, ma fingendo di voler invece combattere la violenza per non inimicarsi altre fasce del suo elettorato".

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 ottobre 2021. La mozione presentata in Parlamento che chiede lo scioglimento di Forza Nuova (che di conseguenza diventerebbe una organizzazione fuorilegge) può essere attivata grazie alla legge Scelba del 20 giugno 1952. Quest’ultima dava attuazione pratica alla dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista (il testo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».) La legge Scelba, in questo senso, è stata applicata poche volte in Italia; per sciogliere un movimento ritenuto epigono del fascismo è necessario un decreto del ministero dell’Interno, oppure una sentenza della magistratura. E proprio la magistratura, in serata, ha rotto gli indugi: la polizia postale, su ordine del tribunale di Roma, ha sequestrato e oscurato il sito di Forza Nuova. Il reato per cui si procede è istigazione a delinquere. Tornando alla possibilità di sciogliere Forza Nuova il primo articolo della legge stabilisce che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». I fatti accaduti sabato a Roma sembrano rientrare in pieno dentro questo perimetro. Di più: senza il bisogno di attendere gli assalti alla Cgil, a Palazzo Chigi, al Policlinico Umberto I, Forza Nuova non ha mai fatto mistero della sua inclinazione per i metodi violenti. La valutazione, comunque, e il relativo decreto di messa al bando della formazione di Roberto Fiore e Giuliano Castellino toccherà al Viminale. In Italia sono pochissimi i precedenti di applicazione della legge Scelba in relazione al tentativo di resuscitare il partito fascista; l’ostacolo giuridico è sempre quello che divide la legittima manifestazione del libero pensiero in politica dall’azione eversiva. Nel novembre del 1973 i dirigenti di Ordine Nuovo, fuoriusciti dal Msi, vengono condannati per ricostituzione del partito nazionale fascista e l’organizzazione viene sciolta per decreto. Nel giugno del 1976 stessa sorte tocca ad Avanguardia Nazionale. Non incorrerà invece nelle sanzioni della legge la formazione di Giorgio Pisanò «Fascismo e libertà», che potrà anche presentarsi alle elezioni ostentando sul simbolo un fascio littorio. La ricomparsa di una estrema destra eversiva è un problema che non riguarda solo l’Italia; in Germania nel gennaio 2020 è stato messo fuorilegge il gruppo neonazista Combat 18, di dichiarate simpatie hitleriane; Berlino ha varato una serie di leggi che inaspriscono ogni richiamo al nazismo (compreso l’uso del saluto romano in pubblico) dopo l’uccisione da parte di terroristi di estrema destra del politico della Cdu Walter Lübcke. In Grecia la formazione di estrema destra Alba Dorata è stata dichiarata fuorilegge da una sentenza della Corte d’appello di Atene che ha condannato i suoi leader a pesanti pene. Alba Dorata era arrivata a sfiorare il 10% dei consensi alle elezioni politiche. Stesso copione in Francia, dove il governo ha dichiarato illegale il gruppo di estrema destra Generation Identitaire nel marzo del 2021 per i suoi messaggi fortemente razzisti.  

Da liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2021. Sciogliere Forza Nuova? Si può, in punta di diritto. Parola di Piercamillo Davigo, che ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 ascolta imperturbabile il "curriculum" dei due leader del movimento di estrema destra, Giuliano Castellino e Roberto Fiore, coinvolti nelle violenze di piazza dei No Green pass sabato scorso a Roma concluse con l'occupazione della sede della Cgil. "Castellino, capo romano di FN, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi in primo grado per aggressione a due giornalisti - ricorda Floris -, a 4 anni in primo grado per aggressione e resistenza a poliziotti e rinviato a giudizio per truffa da un milione di euro al Sistema sanitario nazionale. Fiore invece, fondatore, è stato condannato negli anni 80 per associazione sovversiva e banda armata, latitante a Londra è tornato in Italia una volta prescritti quei reati". "Questo implica qualcosa per le sorti di queste persone", chiede Floris. "La recidiva vale solo per condanne passate in giudicato. In piazza sabato non c'è stata premeditazione ma organizzazione di reato in corso". Secondo molti commentatori Castellino, già oggetto di Daspo, poteva essere fermato: "Il Viminale però non è onnisciente, non ha la sfera di cristallo ed è anche molto difficile programmare l'ordine pubblico perché c'è il rischio di creare incidenti anche più gravi", spiega l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, difendendo Luciana Lamorgese. Sul reato di apologia di fascismo, sottolinea ancora Davigo, bisogna distinguere perché "la ricostituzione del Partito fascista (proibita dalla Costituzione, ndr) è nei fatti cosa abbastanza complicata". Diverso il discorso su Forza Nuova. "Lo scioglimento è possibile con una legge o un decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri".

Lo scioglimento dei partiti e la legge. La legge Scelba va usata solo per tentati golpe. Beniamino Caravita su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. I partiti politici, nell’ordinamento italiano, sono tutelati a livello costituzionale, genericamente attraverso l’articolo 18, che tutela la libertà di associazione, più specificamente ai sensi dell’art. 49, che riguarda la libertà dei cittadini di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Una disposizione costituzionale, collocata fra quelle finali e transitorie, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, in evidente collegamento storico, istituzionale, finalistico con la genesi della Costituzione italiana, con il valore della Resistenza, con il giudizio che – anche attraverso il referendum del 1946– il popolo italiano diede del ventennio fascista. In attuazione della disposizione costituzionale fu approvata nel 1952 una apposita legge, la cosiddetta “Legge Scelba” dal nome dell’allora ministro degli Interni, che prevede, se ricorrono determinati presupposti, lo scioglimento di un partito qualora si sia di fronte alla ricostituzione del partito fascista. Titolare del potere di scioglimento è il ministro degli Interni, sentito il Consiglio dei ministri, sulla base di una sentenza di cui non è richiesto passaggio in giudicato ovvero, nel caso ricorrano gli estremi dell’art. 77 Cost., vale a dire un caso straordinario di necessità e urgenza, il Governo, con un evidente spostamento del livello di responsabilità politica. Sotto il profilo materiale, l’art. 1 della legge Scelba prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Da un punto di vista rigorosamente giuridico, nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che si tratta di disposizioni di stretta interpretazione, incidendo su fondamentali diritti di libertà. Ne derivano tre ordini di conseguenze. In primo luogo, quale che sia il giudizio politico, la disposizione non può essere applicata per colpire movimenti di ispirazione egualmente totalitaria e autoritaria, caratterizzati dalla denigrazione delle istituzioni democratiche e da prassi violente, ma di ispirazione e matrice diverse da quella fascista. In secondo luogo, deve essere accertata in maniera rigorosa l’esistenza di quei presupposti materiali (qui soccorrono le tre decisioni giudiziarie già intervenute: il caso di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973, quello di Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976, e quello più recente del Fronte nazionale, sciolto nel 2000). Se si provvede direttamente con decreto legge, deve sussistere il caso straordinario di necessità e urgenza, accertato secondo i criteri più severi, non secondo le blande valutazioni a cui finora ci ha abituato in materia la Corte costituzionale e che hanno permesso la sostanziale emarginazione della produzione legislativa parlamentare. Occorre cioè che il governo, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione, e poi comunque il Parlamento in sede di conversione del decreto legge, si assumano la responsabilità politica e giuridica di affermare che il pericolo costituito da Forza Nuova non è, almeno hic et nunc, affrontabile con gli ordinari strumenti preventivi e repressivi che l’ordinamento mette a disposizione. Fermo rimanendo che i presupposti materiali possono esistere (e allora viene da chiedersi perché nessuno abbia agito prima in tal senso), e impregiudicata rimanendo la risposta sull’opportunità politica di una simile iniziativa governativa, la questione giuridica che va posta è: siamo veramente sull’orlo di una situazione che, per giustificare un intervento extra ordinem, dovrebbe apparire paragonabile ad una sorta di colpo di stato o di guerra civile? Beniamino Caravita

Francesco Bechis per formiche.net il 13 ottobre 2021. Non chiamatela eversione. Luca Ricolfi non ci sta: sciogliere Forza Nuova e le altre organizzazioni estremiste che fomentano il malcontento di piazza contro il green pass e i vaccini è un precedente pericoloso, dice a Formiche.net il sociologo, professore ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino.  

Ricolfi, se non è eversione cos’è?

Parlare di eversione è una forzatura. La violenza di piazza è un fenomeno endemico in Italia e non ha targa politica. Destra, sinistra, anarchici, centri sociali, Casapound. E i no-Tav in Val di Susa, dove li mettiamo?  

Sulle chat di chi ha organizzato il caos a Roma si parlava di assalto al Parlamento. Questo non è eversivo?

Prendiamo la legge. Un atto è eversivo se determina un rischio concreto per le istituzioni democratiche. Non vedo questo rischio oggi. Ma le faccio un esempio dall’estero.

Prego.

In Germania esiste un partito neonazista, l’Npd. Ha perfino ottenuto un milione di voti, ora ne ha cento, duecentomila. Il Bundestag ha chiesto di scioglierlo, la Corte Costituzionale ha risposto di no, perché non pone un pericolo per l’ordine democratico. Se poi in Italia vogliamo proibire qualsiasi manifestazione di violenza con lo scioglimento, benissimo. Purché si dica apertamente.

L’assalto al Congresso americano di gennaio non è un monito anche per l’Italia?

Certo, ma il paragone regge poco. In quel caso si sarebbe dovuto sciogliere il Partito repubblicano, perché i manifestanti, piaccia o meno, erano sostenitori di Trump. Un esito evidentemente paradossale.

Però il problema rimane. Il vicesegretario del Pd Provenzano in un tweet ha detto che Fratelli d’Italia rischia di finire fuori dall’“arco democratico e repubblicano”. È un’esagerazione?

È preoccupante, molto. Giorgia Meloni ha dato una lettura di questo tweet: vogliono sciogliere Fdi, come a suo tempo volevano sciogliere l’Msi. Io ci vedo un passaggio ancora più pericoloso. 

Sarebbe?

Qui non si propone di sciogliere un partito, ma di escluderlo dalla dialettica democratica. Un boicottaggio in piena regola da qualsiasi posizione di potere. C’è una lottizzazione del potere fra i partiti e si decide di lasciare fuori l’unica opposizione esistente. 

Si chiama conventio ad excludendum. Per vent’anni l’hanno fatto con i comunisti e nessuno si è scandalizzato…

Attenzione. I comunisti erano esclusi dal governo centrale, non dal “sottogoverno”. Per decenni hanno concordato riforme, riempito posti di potere, seggi in Rai. Insomma, hanno partecipato senza problemi al banchetto del potere economico italiano.

Va bene, ma qui stiamo aggirando un punto. La destra italiana fatica a fare i conti con il suo passato? Da Lega e Fdi ci potrebbe essere una parola in più su queste frange?

Sì, siamo tutti d’accordo. Ma farei una distinzione. Salvini non ha problemi a fare i conti con la propria storia, la Lega di Bossi era antifascista. Quando nel 1994 fu proposto l’accordo con Berlusconi, tanti tentennavano perché rifiutavano di allearsi al Sud con Alleanza nazionale. Il problema, semmai, è che alcune frange estremiste, come Casapound, vedono nella Lega uno sbocco.

Come se ne esce?

Semplice. Salvini e Meloni devono dire ad alta voce: “Noi i vostri voti non li vogliamo”. Possibilmente prima, non dopo, che queste persone mettano a ferro e fuoco Roma. Potrebbero evitarsi un’analisi del sangue da parte della sinistra, che ha una certa allergia a fare i conti con il passato. 

A che si riferisce?

Qualcuno chiede alla sinistra di fare i conti? No. E sa perché? Perché in Italia nessuno chiede ai post-comunisti di rinnegare il comunismo. I fascisti sono considerati per i loro comportamenti, i comunisti per le loro intenzioni. Ha mai sentito chiedere a Marco Rizzo di condannare i crimini dell’Urss o della Cina? 

Quella piazza a Roma gridava no-pass e anche no-vax. Sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio scrive che il governo non può usare il green-pass per sopprimere l’articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro. Lei che idea si è fatto?

Premessa: sono vaccinato, favorevole al vaccino e ritengo il green pass uno strumento utile. E sì, a questo giro sono d’accordo con Travaglio. Non si può arrivare al punto di togliere il lavoro a chi non vuole vaccinarsi. 

C’è chi risponde: quindi chi si vaccina sta dalla parte del torto?

Non è questione di torto o ragione ma di garanzie costituzionali. C’è una via d’uscita: i tamponi gratuiti. In altri Paesi lo hanno fatto.

Che ricadono sui contribuenti italiani, tutti.

Giusto così. C’è una ragione perché questo vaccino deve cadere sulle spalle dello Stato. A differenza di altri vaccini nel passato, è stato sperimentato per soli dieci mesi, sia pure su miliardi di persone. 

Quindi?

Quindi un trattamento sanitario del genere non si può imporre. Se fossimo sicuri, non dovremmo firmare un nulla osta ammettendo che non conosciamo gli effetti di lungo periodo. C’è il calcolo del rischio statistico, e da statistico sono il primo a farvi affidamento. Ma chi ha paura non può essere tagliato fuori dalla vita sociale.

"Sciogliere Fn, minaccia fascista". Ma Mattarella smentisce i dem: solo casi isolati. Fabrizio De Feo il 12/10/2021 su Il Giornale. Con il ballottaggio alle porte la temperatura dello scontro politico si mantiene alta. Il desiderio di polarizzare e riaccendere antiche contrapposizioni è palpabile. La frontiera del confronto diventa lo scioglimento di Forza Nuova e delle formazioni dell'estrema destra, con il Pd che presenta una mozione in tal senso. Emergenza democratica alle porte, insomma. Il tutto nel giorno in cui a Milano scattano le contestazioni contro la Cgil da parte dei Cobas e si scopre che decine di manifestanti fermati sabato sono riconducibili al mondo degli anarchici. Una realtà, insomma, più complessa di come è stata raccontata. E che Sergio Mattarella analizza senza incorrere in allarmismi fuori misura: «Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Ma la sinistra tira dritto e la mozione per sciogliere Forza Nuova e «tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista» arriva in Parlamento. I parlamentari di M5s, Iv e Leu sottoscrivono in blocco. E il segretario dem Enrico Letta chiama tutti i partiti all'unità e lancia un appello perché lo scioglimento di Forza Nuova «sia vissuto come un gesto unitario e non di parte. Dopo i gravi fatti di sabato tutti si riconoscano in una decisione che rende attuale e viva la Costituzione», azzarda. Sullo sfondo si muove anche l'inchiesta romana. La polizia postale sequestra e oscura il sito internet di Forza nuova. Il reato ipotizzato è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici. Si muovono anche i leader di centrodestra. «Berlusconi ha avuto un colloquio telefonico con Meloni e Salvini» fa sapere una nota. «Al centro della conversazione la condanna per le violenze perpetrate a Roma come a Milano, di ogni colore, a danno del sindacato e delle forze dell'ordine e la necessità di una posizione - unitaria - del centrodestra in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari e dei ballottaggi». E Salvini non ha problemi nel far sapere che «se ci sono movimenti che portano avanti le loro idee con la violenza, vanno chiusi a chiave. Come a Roma ne hanno arrestati di cosiddetta destra, a Milano di cosiddetta sinistra. Per me pari sono». Sulla mozione, invece, il centrodestra invita a evitare «strumentalizzazioni politiche» e fa sapere di non poterla votare. Forza Italia con Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini sottolinea che «non esistono totalitarismi buoni e cattivi, e per questo non è possibile sostenere la mozione del Pd. Ma proprio per dare un forte segnale di unità tutti i gruppi lavorino a una mozione contro tutti i totalitarismi». Giovanni Donzelli di Fdi, intervenendo a «Domani è un altro giorno», non si tira certo indietro rispetto alla matrice fascista. «Certo, chiunque attenti alla democrazia è contro di noi. Questi odiano più noi del Pd...». Donzelli poi fa notare il pericolo di far votare lo scioglimento di una forza politica. «In un sistema democratico esistono equilibri istituzionali importantissimi. Pensare di far votare il Parlamento è una deriva autoritaria gravissima. Lo scioglimento spetta normalmente alla magistratura e in casi di emergenza al governo».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021. È un mondo parcellizzato, quello dell'estremismo nero italiano. Tanti piccoli reucci e nessun vero re. Una condizione che porta turbolenza all'interno della galassia neofascista. L'obiettivo dei vari movimenti è riuscire ad acquisire la leadership. Ma questa condizione, nel frattempo, crea grande instabilità. Quindi conflitto e violenza. Ecco, allora, che serve mostrare i muscoli nelle manifestazioni per imporsi definitivamente sugli altri gruppi. E allora quale migliore vetrina se non le proteste contro il vaccino e il green pass. Ma tutto questo, però, non è sufficiente. In un mondo globalizzato non basta solo conquistare il neofascismo in Italia. Bisogna intessere alleanze con l'estremismo di destra europeo. L'internazionale nera. Ma se nel nostro Paese Forza Nuova fa vedere il volto aggressivo, al contrario, in Europa cerca partnership, appoggi e forse anche soldi, come emerge da una recente inchiesta dei carabinieri del Ros. «C'è una competizione nell'estrema destra tra Forza Nuova e Casapound per affermarsi come movimento egemone della galassia neofascista. Negli ultimi anni Cp aveva preso nettamente il sopravvento. Allora Fn, per riconquistare il terreno perso, ha iniziato a compiere una serie di atti violenti. L'assalto di ieri alla Cgil rappresenta il punto massimo di questa strategia. Un'azione su cui imprimere un inconfondibile marchio fascista per riprendere quota all'interno di quel mondo». A fotografare con lucidità l'attuale situazione è Francesco Caporale, magistrato esperto e scrupoloso, oggi in pensione, che ha ricoperto dal 2016 fino all'estate del 2021 la carica di procuratore aggiunto dell'antiterrorismo a Roma. «Questa escalation di violenza in capo ai forzanovisti - sottolinea Caporale - dura ormai da tre anni, il mio ufficio la stava monitorando». Occorre, però, capire in quale contesto si muovano gli uomini e le donne di Roberto Fiore, il segretario di Fn e Giuliano Castellino, il leader romano. «Quest' ultimo - spiega un investigatore al Messaggero - è diventato il frontman del partito perché Fiore ha troppi problemi con la giustizia, rischierebbe parecchio. Castellino, oggi, rischia meno. Non vengono contestati reati particolarmente pesanti. La cabina di regia è però sempre in mano a Fiore». Dalle carte dell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge la rete internazionale di contatti del movimento. Fiore viaggia per l'Europa, arriva fino al Medio Oriente, in Siria. A novembre del 2014 vuole organizzare una conferenza a Damasco in piena guerra civile. Un incontro con «le comunità mediorientali che sto riorganizzando come Aliance for Peace and Freedom», dice il segretario di Forza Nuova a un militante di Fn in una conversazione intercettata dai militari dell'Arma. Poi, a gennaio del 2015, Fiore vola in Grecia per far sentire la sua vicinanza al leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos, rinchiuso in carcere perché accusato di appartenere a un'organizzazione criminale. Un incontro talmente positivo che un forzanovista (intercettato dai Ros) sostiene che ora i vertici del partito di estrema destra greco «vogliono bene a Forza Nuova». Assieme a Fiore ad Atene, a trovare Michaloliakos, annotano gli investigatori, sarebbe andato anche un altro pezzo da novanta del neofascismo europeo. L'eurodeputato Udo Voigt eletto con il partito Nazionaldemocratico di Germania, nel 2012 condannato per sedizione a 10 mesi per aver lodato in un comizio le Waffen-SS. Ma non sono solo i forzanovisti a viaggiare in giro per l'Europa. Anche altri camerati vengono a Roma per suggellare alleanze. È il caso dei neofascisti polacchi arrivati nella Capitale a settembre del 2014 per far visita ai forzanovisti. L'incontro, si legge nelle carte della procura, avviene nell'allora sede romana del partito in via Amulio. Anche la questione russa e i nuovi equilibri europei suscitano l'attenzione del gruppo di estrema destra. Un militante di Fn, in una conversazione discute dei «rapporti crescenti del leader di Fn Fiore con altri politici russi». Ma «Salvini ci ha fregato i contatti con la Russia», si rammaricano gli uomini di Fiore al cellulare, »era il cavallo nostro». La necessità di intessere rapporti «di tipo economico/commerciale - sottolineano gli inquirenti - in particolare per la produzione di vino», risultava vitale per i nuovi scenari creatisi in Crimea. Il conflitto ucraino veniva inquadrato «meramente in chiave utilitaristica» con l'unico obiettivo di sfruttare la precaria situazione governativa e incunearsi nei centri di potere per ricavarne benefici economici. Sempre nel 2014 con un esponente di Fn, parlando dell'imminente viaggio in Crimea insieme a Fiore per un incontro col ministro dell'Agricoltura dice che andrà «per fare una cosa coi russi, per cercare di prendere la cittadinanza del nuovo governo della Crimea: il governatore è un amico di amici».

Tagadà, Roberto Castelli contro la sinistra: "Si indignano per Roma. Ma nemmeno una parola sul brigatista eletto". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "Insopportabile quello che sta accadendo in questi giorni perché è venuto alla luce il doppiopesismo della sinistra": l'ex senatore della Lega Nord, Roberto Castelli, ha commentato così le violenze e l'assalto alla sede nazionale della Cgil da parte dei no green pass sabato scorso. A tal proposito, ospite di Tiziana Panella a Tagadà su La7, ha ricordato un episodio ben preciso: "Voglio ricordare questo: alla Camera un po' di anni fa venne eletto con i voti della sinistra un brigatista. Ora tutti quelli che si stracciano le vesti - giustamente, perché non si devastano le sedi delle organizzazioni, siano essi partiti o altro - non mi pare che si stracciarono le vesti in quel caso, quando venne eletto un ex brigatista". Per Castelli, quindi, non bisogna fare due pesi e due misure. Quello dell'ex brigatista, inoltre, pare non sia stato nemmeno l'unico caso in cui è venuta fuori questa disparità di giudizio: "Io ricordo mille manifestazioni in cui sono stati devastati i centri urbani dalla sinistra, ricordo gli attacchi alle sedi della Lega per cui la sinistra non ha mai mosso un dito". Ecco perché poi alla fine del suo intervento, l'ex senatore leghista ha fatto un appello accorato a tutte le parti: "Per favore cerchiamo di condannare tutti i fascismi, tutti i totalitarismi e tutti gli squadrismi, non solo quelli che fanno comodo soprattutto a cinque giorni dalle elezioni". 

La galassia comunista che incita a "insorgere". Ma nessuno s'indigna. Dai Carc ai leninisti, tutti contro il green pass. Ieri incendiata l'immagine di Draghi.  Paolo Bracalini il 12/10/2021 su Il Giornale. Sul fronte dei disordini sociali e dei cortei violenti la sinistra estrema non ha nulla da invidiare a Forza Nuova e affini, anzi. Nelle manifestazioni no green pass erano infatti presenti anche i centri sociali, anche se il protagonismo del gruppetto di Fn ha dirottato l'attenzione e fatto passare l'idea che il mondo no vax e no green pass sia animato solo della destra estrema. Non è così, anzi in generale tra i movimenti che vedono nel «banchiere» Mario Draghi uno strumento delle élite finanziarie per chissà realizzare in Italia chissà quale piano occulto (il «grande reset» è l'ultima fantasticheria di questi ambienti), la sinistra radicale è presente in forze. Giusto ieri un gruppo di studenti antagonisti durante il corteo dei sindacati di base a Torino ha dato fuoco a una gigantografia del premier Draghi, mentre a Milano cori e insulti contro la Cgil e Landini «servi dei padroni». La matrice ideologica è opposta (là il neofascismo, qui il marxismo-leninismo) ma con esiti identici e spesso anche slogan identici (entrambi parlano di «lavoratori» e «popolo» oppressi dai «poteri forti»). Le organizzazioni che si richiamano esplicitamente alla lotta di classe leninista e alla resistenza contro il «governo capitalista italiano» sono svariate. Il «Partito Marxista-Leninista Italiano» con sede a Firenze, ad esempio, sostiene che «il governo del banchiere massone Draghi, al servizio del regime capitalista neofascista, deve ritirare immediatamente il decreto sul green pass perché le lavoratrici e i lavoratori che sono contrari non possono e non devono essere sospesi dal lavoro e privati del salario». Il partito, che pubblica un settimanale dal titolo Il Bolscevico (foto di Mao), a settembre ha organizzato un commemorazione per il 45 anni dalla scomparsa di Mao, per riflettere sugli insegnamenti sulla «lotta di classe per il socialismo». Nei suoi manifesti Draghi viene rappresentato come un drago con i simboli di Bce, euro e massoneria, mentre gli ebrei di Israele sono «criminali nazisti sionisti» che vanno fermati con la resistenza palestinese fino alla vittoria» (foto di un palestinese a volto coperto che lancia una pietra con una fionda). Poi ci sono il «Partito dei Carc» (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), sede a Milano, il cui obiettivo è «insorgere», che significa - spiegano - costruire un fronte per cacciare Draghi e imporre un governo che sia espressione delle masse popolari organizzate». Anche i Carc sono no-pass, la loro tesi è che i fascisti sono stati infiltrati dal governo per screditare il movimento popolare contro il green pass, «imposto da Draghi e da Confindustria». I Carc negli anni scorsi sono stati protagonisti di scontri e vicende giudiziarie, insieme al «Nuovo Partito Comunista Italiano», che invita i compagni rivoluzionari a «violare la legalità borghese», cioè a commettere reati, sull'esempio di Mimmo Lucano. Con toni un po' meno minacciosi, anche altre due organizzazioni di estrema sinistra, «Rete Comunista» e «Partito di Alternativa Comunista» a lottare contro il governo Draghi e i suoi mandanti, e contro il green pass, uno strumento creato «per tutelare gli interessi economici della borghesia». Idee e posizioni, come si vede, speculari a quelle di Forza Nuova. E spesso, come per i centri sociali e i movimenti antagonisti, altrettanto violente.

Gli apprendisti stregoni. Tutti uniti contro i fascisti, ma parliamo anche di un altro paio di cosette tra noi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. In troppi hanno attizzato il fuoco, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti. Una volta spento l’incendio, bisognerà discuterne molto seriamente. L’assalto di sabato alla sede della Cgil, invasa e devastata da fascisti e no vax provenienti dal corteo contro il green pass, e il tentativo di fare lo stesso con il Parlamento, sventato in extremis dalle forze dell’ordine, rappresentano quanto di più vicino all’attacco del 6 gennaio al Congresso americano sia capitato in Italia, almeno finora. Dietro il paradossale connubio di movimenti di estrema destra e parole d’ordine anarco-libertarie s’intravede un sommovimento profondo che non tocca soltanto il nostro Paese. Dietro i neofascisti che gridano slogan contro la dittatura (sanitaria, s’intende), dietro gli squadristi che hanno devastato la sede della Cgil – e che in piazza gridavano «Libertà! Libertà!» – non è difficile vedere lo stesso magma che in Francia alimenta le proteste di piazza in cui Emmanuel Macron viene paragonato a Hitler e le misure anti-Covid al nazismo, raccogliendo il consueto impasto di estrema destra, gilet gialli e ultrasinistra populista (Jean-Luc Mélenchon, il massimo esponente di quella che potremmo definire la linea giallorossa d’Oltralpe, si è schierato contro il green pass con parole analoghe a quelle usate qui da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari). Per non parlare degli Stati Uniti, dove la presa di Donald Trump sul Partito repubblicano è ancora fortissima, i no vax numerosissimi e aggressivi, e la situazione assai più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista. Il rischio di un cortocircuito tra crisi sanitaria e crisi sociale è alto ovunque, e l’Italia non fa eccezione, come denuncia proprio l’inatteso richiamo delle manifestazioni di sabato e la violenza che da quelle dimostrazioni si è sprigionata. Si tratta di episodi gravi, in se stessi e per quello che promettono per il futuro, in vista del 15 ottobre, data in cui entrerà in vigore l’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È dunque altamente auspicabile una presa di coscienza generale del pericolo, anzitutto da parte delle forze politiche, ma anche dei mezzi di comunicazione e di tutti coloro che hanno una qualche influenza sul dibattito pubblico. C’è bisogno della più larga unità e della massima fermezza, ed è giusto subordinare a questa priorità ogni altra esigenza. Compresa quella di chiarire un paio di cose, che prima o poi andranno chiarite comunque, ai tanti che finora hanno giocato sul filo dell’ambiguità, per non dire di peggio, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti, offrendo ai propalatori di una simile spazzatura tribune autorevoli e spazi assolutamente ingiustificati. In troppi hanno contribuito irresponsabilmente ad attizzare il fuoco, e bisognerà discuterne a fondo, perché una simile tendenza mette in luce una fragilità strutturale della democrazia italiana, o perlomeno del nostro dibattito pubblico. Adesso, però, occorre pensare a spegnere l’incendio, che fortunatamente, nonostante tutto, appare ancora relativamente circoscritto. Delle sue origini parleremo poi. Ma presto o tardi ne dovremo parlare. Eccome se ne dovremo parlare.

"Una protesta pacifica infiltrata da utili idioti. Le teste rasate usate: si scredita il dissenso". Luigi Mascheroni l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il filosofo del "pensare altrimenti": "Dire No al pass non è né di destra né di sinistra, il movimento è a-politico. Ora si limiteranno le manifestazioni". Diego Fusaro, filosofo del «pensare altrimenti», né di destra né di sinistra, lo ha scritto in modo chiaro nel suo nuovo libro, Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset (Piemme): l'emergenza è diventata un metodo di governo, che sfrutta la paura del contagio per ristrutturare società, economia e politica mentre è la sua tesi - diritti e libertà fondamentali vengono sospesi.

Diego Fusaro, cosa è successo ieri a Roma?

«È successo che sono scesi in pazza moltissimi italiani in forma pacifica e democratica: uomini, donne, famiglie, anziani e lavoratori che vogliono dire no all'infame tessera verde chiamarla green pass è già legittimarla e poi, puntualmente, è arrivato un gruppo di scalmanati con la testa rasata che ha usato una violenza oscena e inqualificabile che, a sua volta, ha giustificato una violenza di ritorno da parte del potere. E così sono stati etichettati come violenti tutti quelli che hanno manifestato, quando invece così non è».

Perché dice puntualmente?

«Perché accade sempre così: movimenti di protesta pacifici e democratici vengono infiltrati da gruppi di utili idioti che il potere usa di volta in volta per creare una tensione per citare la celebre strategia - che non ha nulla a che vedere con i pacifici manifestanti che in maniera democratica si oppongono a un provvedimento che reputano illegittimo».

Quindi ieri un movimento moderato di piazza è stato inficiato da un una minoranza di teste calde.

«Una modalità prefetta per screditare il dissenso».

È possibile che gli opposti estremismi, a destra e sinistra, si saldino nella protesta contro il green pass?

«Non ho elementi per dirlo. Ciò almeno non avviene nelle piazze Non finora. Quello che so invece è che dire No al green pass non è né di destra né di sinistra né di centro. È una protesta che non ha matrici ideologiche e davvero trasversale - tanto è vero che ci sono anche pezzi dell'estrema destra e dell'estrema sinistra invece favorevoli al green pass - che tiene dentro tutte le anime della politica, da quella socialista a quella liberale Al di là delle teste rasate che vanno in piazza e dei filosofi di sinistra che stanno nei talk show o sui social, è un movimento a-ideologico che riguarda gente comune che non accetta l'esproprio dei diritti costituzionali. Che poi qualcuno voglia capitalizzare politicamente il dissenso, questo va da sé».

Ci sono delle colpe in quello che è successo ieri? Qualcuno ha soffiato sul fuoco?

«No, non credo. Chi doveva vigilare ha fatto quello che doveva fare. La gente che era in piazza era gente tranquilla, fino a che è arrivato qualcuno che mi è sembrato organizzato - col compito di rovinare la protesta pacifica. Le colpe non sono né delle forze ordine né dei manifestanti, ma di qualcun altro».

Cosa succederà ora?

«Temo che adesso ci sarà un inasprimento nel modo di trattare chi si oppone alla famigerata infame tessera verde. Si limiteranno spazi e modi di aggregazione e raggruppamento, si generalizzerà dicendo che tutti sono facinoroso e violenti E così chi ha organizzato devastazioni e assalti di ieri avrà raggiunto lo scopo. Screditare chi va in piazza e criminalizzare la protesta in quanto tale. Io resto fermamente convinto che occorra opporsi, in maniera pacifica e democratica, alla tessera verde della discriminazione e del controllo totalitario delle esistenze».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Gli sfascisti. Francesco Maria Del Vigo l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Capiamo che la sinistra, a corto di idee, abbia la necessità elettorale di trovare un nemico a tutti i costi, se possibile il «nemico assoluto», cioè quel fascismo morto e sepolto più di settant'anni fa. Tra pochi giorni si tornerà alle urne e, crollato l'impianto accusatorio del caso Morisi e finita l'eco delle inchieste giornalistiche su Fidanza e Fdi, c'era bisogno di resuscitare il cadavere delle camicie nere per colpire anche tutta la destra, che con testoni del Duce, fez e labari non ha nulla a che spartire. L'assist lo offrono gli imbecilli squadristi che hanno assaltato le camionette della polizia, devastato la sede della Cgil e assediato il cuore della Capitale in nome di non si sa quale libertà. Probabilmente quella di essere criminali. Un attacco al cuore dello Stato e delle istituzioni che deve essere punito con il massimo rigore, non solo con i sacrosanti arresti del giorno dopo, ma possibilmente con un'opera di intelligence e prevenzione. Però sabato nelle piazze, oltre a Forza Nuova, c'erano le frange più violente degli ultras, la galassia dei vari «No» a tutto - ovviamente a partire dai vaccini e dal green pass - e c'erano anche gli anarchici. Perché i delinquenti tra loro si attraggono, sono la manovalanza della violenza a ogni costo, quelli che appena c'è un'occasione scendono in strada per spaccare tutto. A Milano, su cinquanta fermati, la metà proveniva dalla galassia dei centri sociali. Anche se è brutto dirlo e qualcuno fa finta di non saperlo. Perché la sinistra chic ama flirtare con le ali più estreme e quando la «meglio gioventù» si trastulla devastando i centri urbani, c'è sempre un clima di tolleranza, riecheggia lo stomachevole ritornello di «compagni che sbagliano». Come se la violenza rossa fosse un po' meno violenta. Ecco, la fermezza bipartisan con la quale sono stati condannati gli scontri di Roma ci piacerebbe vederla sempre, di fronte a ogni atto di violenza. Noi, da queste colonne, abbiamo sempre chiesto il massimo della severità per chi devasta le città: che sia di destra o di sinistra. E continueremo a farlo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021.  

Guido Crosetto, qual è il significato di queste piazze e di queste violenze?

«Da una parte c'è il legittimo diritto di ognuno di noi a protestare o comunque a manifestare il proprio pensiero. Questo le Costituzioni democratiche lo concedono anche a un solo cittadino su 60 milioni. Quando i cittadini che protestano sono decine di migliaia, e nel caso di non possessori di Green pass parliamo di milioni di persone, uno Stato il problema deve porselo e affrontarlo con serietà ed equilibrio».

Sta dicendo che non si deve semplificare e considerare tutti violenti?

«Per fortuna, non sono tutti violenti. I violenti sono quelli che utilizzano ogni manifestazione legittima di protesta, per auto-promuoversi, distruggendo le città e smontando con le loro violenze qualunque ragione, anche sbagliata, delle manifestazioni». 

Sta naturalmente parlando di Forza Nuova?

«Ma certo. Non è la prima volta che questi nazi-fascisti (di cui non capisco come possano essere liberi i capi, visto che hanno la proibizione di uscire di casa) approfittano per prendersi visibilità mediatica e politica. E non mi stupirei che guadagnassero pure. Mi sono sempre chiesto come facciano a sostenersi queste organizzazioni estremiste. E come mai le loro violenze molto spesso hanno come risultato solo quello di annullare il messaggio di alcune manifestazioni».

Sta dicendo che c'è qualcuno che li paga?

«Non lo so, ma non mi stupirebbe». 

Quelli che legittimamente protestano finiscono per essere strumentalizzati dai peggiori?

«Purtroppo, sì. Vengono strumentalizzati e purtroppo tacitati. Tra quei 10mila in piazza penso ci siano persone di destra, di sinistra, di centro, apartitici, apolitici, astensionisti. C'è di tutto». 

Un mondo di non rappresentati che si sente vittima dei violenti?

«E' un mondo che non trova interlocuzioni con le istituzioni. Quando una democrazia perde la capacità di discutere e di confrontarsi con un pezzo del Paese, fa un passo indietro e lascia spazio a quelli che, come Forza Nuova, vogliono minare e distruggere la democrazia». 

I 5 stelle, quando erano forti, dicevano: noi siamo l'argine alla rabbia sociale. Senza di noi sarà solo violenza. Non c'è il rischio che sia così?

«Il tema è che l'argine alla rabbia sociale deve essere lo Stato, devono essere le Istituzioni. E' lo Stato che deve avere meccanismi di dialogo, di convincimento, di approccio con chiunque, anzi quelli di cui non capisce le ragioni. Chi pensa che si possano cavalcare movimenti di protesta, solo per incalanarli in un voto a un partito e in violenza, gioca contro lo Stato e contro ognuno di noi. I partiti non devono assecondare le proteste ma devono ascoltarle e proporre soluzioni alle tematiche sollevate. E semmai aiutare lo Stato a riprendere un dialogo interrotto. Mi è sempre sembrata superficiale l'auto-descrizione di M5S come argine. Basti vedere dove è finito l'argine».

Salvini e Meloni però vengono accusati di fomentare sotto sotto queste piazze. 

«Questo è un altro modo per alimentare, per motivi politici, fratture tra partiti che diventano ferite nel corpo dello Stato. I partiti hanno il dovere di rappresentare nelle istituzioni tutte le istanze sociali, se queste hanno una legittimità, tutte. Questa consapevolezza, pare mancare. Fratelli d'Italia e Lega non sono mai stati partiti No Vax. Hanno però posto questioni, sollevato dubbi su alcune scelte politiche riguardanti la lotta alla pandemia. Ad esempio sul Green pass non hanno attaccato lo strumento, ma l'estensione di questo strumento ad alcuni ambiti, come il lavoro, che portano a conseguenze molto dure. Ricordo inoltre che le questioni sul Green pass che questi partiti pongono al governo provocano spaccature anche al loro stesso interno. Lega ed Fdi hanno loro stesse un fortissimo dibattito interno, molto duro, tra chi sostiene scelte rigoriste vicine alle posizioni del governo e chi invece cita le posizioni anti Green pass di pensatori di sinistra come Cacciari, Agamben e Barbero». 

Guai a minimizzare però gli attacchi squadristi?

«Mai. Vanno condannati con durezza. Dopo queste orrende vicende, anche chi guardava a quella piazza con rispetto, anche se non la condivideva, oggi non ne può neanche parlare. Io mi preoccupo se qualcuno, che ha sempre rispettato le idee di tutti, comincia ad avere paura di esprimere le proprie. A me ad esempio capita sui social. Per non aver assecondato una lettura sulla Meloni in tivvù, subisco attacchi come se fossi un fascista. Ed invece sono da sempre un cattolico liberal democratico, da tempo fuori dalla politica».

Lei è Giorgia. Non è fascista, la Meloni, ma nemmeno antifascista. Così le prende da tutti ed è colpa sua. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La leader di FdI, frastornata da accuse di cui si sente vittima, condanna una generica zuppa di “ismi” ma non serve: in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto. Fini lo sanò in An e ora rampolla di nuovo tra gli eredi del Msi. Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?

Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dalla tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto? Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox? Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite? Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna. È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri” siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo. Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia. Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua. 

Il cortocircuito delle idiozie. L’appropriazione culturale del neofascismo sull’umana scemenza no vax.

Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. C’è una parte della popolazione che non capisce un cazzo di niente. Neppure l’istruzione obbligatoria ha risolto questo problema, figuriamoci se lo risolve l’uso delle stigmatizzazioni sciatte (“fascisti!”) che usiamo per fare delle analisi sociologiche che rientrino in una storia su Instagram. La didascalia della foto in apertura della prima pagina di Repubblica, ieri, diceva: «Il momento in cui NoVax e neofascisti irrompono nella sede nazionale della Cgil». Di spalle, si vedono un po’ di bomber neri (il 1985 non è mai finito), pochi passamontagna, alcune teste rasate, un paio di bandiere tricolore. Nella parte bassa della foto, in primo piano, si vedono soprattutto tre cellulari. Tre persone – due uomini e una donna, perdonate la binarietà – che, mentre noi indichiamo il fascismo, pensano alla storia da postare su Instagram. Nell’ipotesi improbabile in cui una dittatura d’ottant’anni fa costituisse un pericolo imminente nelle democrazie occidentali del Ventunesimo secolo, il presente avrebbe già trovato l’antidoto: scriversi «antifa» nelle bio sui social. Non mi meraviglierei se tra quelli che hanno devastato alcune strade di Roma sabato ci fossero alcuni di coloro che sui social si definiscono «antifa»: per loro la dittatura è fargli il vaccino gratis, mica fare i teppisti (e in effetti i teppisti, in dittatura, finiscono in galera, mica nelle storie di Instagram). “Fascismo” è una parola confortevole. È comoda per mettere una distanza – loro sono fascisti, noi no – e per evitare di pensare. Per evitare di fare un’analisi del presente invece d’impigrirsi a liquidare qualunque teppista come nostalgico d’un’ideologia che neppure ha vissuto, durante la quale neppure era nato. Un’ideologia che, per inciso, l’avrebbe preso a coppini (eufemismo) se a una regola imposta dallo Stato, fosse stata una mascherina o un lasciapassare, avesse risposto con dei capricci da cinquenne. Sì, lo so che hanno assaltato la Cgil, facendo subito commentare ai social di sinistra: «E perché non Confindustria?». Forse perché sta due ore di strada più a Sud, in quell’ingorgo cinghialesco che è il traffico romano? È solo un’ipotesi, per carità. E lo so che, tra gli assalitori d’un’istituzione di sinistra, c’erano dei capetti neofascisti: ma non sarà che sono semplicemente andati ad appropriarsi d’una scemenza (malcontento, bisognerebbe dire: “scemenza” è troppo diretto) che esisteva a prescindere da loro? Quella del neofascismo nei confronti dell’umana scemenza non sarà appropriazione culturale? Dice eh, ma erano violenti, la violenza è fascista. Mah, mi sembra che gli esseri umani fossero violenti da un bel po’ prima che venisse immaginato il fascismo e abbiano continuato a esserlo quando il fascismo è finito (sì, lo so che secondo voi non è mai finito perché non siete disposti a rinunciare a una categoria così comoda per stigmatizzare chiunque non la pensi come voi: fascisti, radical chic, populisti – una volta svuotate di senso, le categorie sono comode come vecchi cashmere slabbrati). Forse “lassismo” è uno slogan più adatto. Sono quasi due anni che facciamo – parlo a nome della maggioranza – tutte le cose richieste dalla logica, dal buonsenso, dallo Stato. Ci mettiamo la mascherina, stiamo a casa, compriamo l’amuchina, ci vacciniamo, urliamo dentro le mascherine all’ufficio postale e dalla manicure perché tra distanziamento e plexiglas e mascherine è come esser diventati tutti sordomuti (che è una frase abilista, ma ora non cambiamo settore di scemenza sennò ci perdiamo). Sono quasi due anni che quotidianamente c’è qualche notizia di gente che – con continuità caratteriale, come prima parcheggiava in seconda fila «solo due minuti» – concede a sé stessa deroghe. Falsifica certificazioni verdi, si affolla ad aperitivi, tiene la mascherina abbassata perché si sente soffocare: scegliete voi la cialtronata del giorno. A quel punto la cittadinanza si divide in minoranza isterica che urla «si metta quella cazzo di mascherina» (sì, ogni tanto anch’io: bisogna pur sfogarsi); e maggioranza lassista che sospira «eh, ma la gente è stanca». Ma stanca di cosa? I manuali di autoaiuto non dicono che per acquisire una nuova abitudine ci vogliono tre settimane? Non dovrebbe ormai essere un automatismo, mettersi quella cazzo di mascherina su quel cazzo di naso? Non hai preso l’abitudine, se quest’anno e mezzo l’hai passato a rimuginare che la mascherina è una vessazione, il vaccino è un sopruso, la dittatura sanitaria no pasará. Non al fascismo, hai aderito, ma all’assai più contemporanea dittatura del vittimismo, che usa l’eccezione – sia essa costituita da un infinitesimale numero d’intersessuali o di allergici al vaccino – per spacciare per vessazione qualunque ovvietà, da «i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali» a «se c’è una malattia mortale e un vaccino che la previene, ci si vaccina»; e a quel punto, se vessazione è, la ribellione violenta è non solo consentita ma plaudita. L’altro giorno il governatore del Veneto, Zaia, ha detto che l’obbligo della certificazione verde sarà un casino perché solo in Veneto ci sono 590mila non vaccinati in età lavorativa, e non si riesce a fare a tutti loro il tampone ogni due giorni. Ricopio dall’intervista di Concetto Vecchio: «Non si tratta di contestare il Green Pass, bensì di guardare in faccia la realtà: gran parte di questi 590mila probabilmente non si vaccineranno mai». Zaia non lo dice, perché i politici non possono permettersi il lusso di dire che l’elettorato è scemo, ma la questione quella è. C’è un’ampia parte dell’umanità che non capisce un cazzo di niente, è un problema che non s’è risolto con l’istruzione obbligatoria, figuriamoci se si risolve con stigmatizzazioni sciatte quali “fascismo”. E invece siamo qui, a chiederci se Cacciari abbia preso le distanze dalla manifestazione degenerata, Giorgia Meloni dalle leggi razziali, Muhammad Ali dagli attentati alle Torri Gemelle. Siamo come quelli che stavano sulla prima pagina di Repubblica ieri: alla ricerca di analisi sociologiche che rientrino in quindici secondi di storia Instagram.

Sinistra e Cgil si mobilitano. "Ora Forza Nuova va sciolta". Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il sindacato lancia un corteo antifascista per sabato prossimo. Pd e M5s: è un partito contro la Costituzione. In piazza sabato 16 ottobre e scioglimento di Forza Nuova: sono due richieste che partono dall'assemblea generale della Cgil convocata ieri in risposta all'assalto avvenuto contro la sede di Roma del sindacato dai manifestanti del corteo no green pass. Al presidio in Corso Italia a Roma fanno tappa tutti i leader dei partiti: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta (Pd), Giuseppe Conte (M5S), Teresa Bellanova ed Ettore Rosato (Italia Viva), Francesco Lollobrigida (Fdi), i candidati sindaco di Roma Roberto Gualtieri ed Enrico Michetti, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Tra bandiere rosse e cori antifascisti, centinaia di dimostranti manifestano intonando «Bella Ciao». Il clima è quello dei grandi raduni. Ad aprire la manifestazione, l'intervento del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Ci attaccano perché siamo sulla strada giusta ma noi non ci fermeremo. Da domani all'apertura, alla ripresa del lavoro, in ogni città in ogni condominio dobbiamo riprenderci la parola senza paura. Tutte le formazioni che si rifanno al fascismo vanno sciolte, e questo è il momento di dirlo con chiarezza. Sabato 16 abbiamo deciso, insieme a Cisl e Uil, che è giunto il momento di organizzare una manifestazione nazionale antifascista e democratica: il titolo sarà Mai più fascismi». L'appuntamento è per sabato 16 ottobre: tutti in piazza alla vigilia del voto per i ballottaggi. Il leader della Cgil chiede uno scatto in più: «È molto importante che le forze politiche oggi qui ci siano, la difesa della democrazia e della Costituzione è centrale. Mi auguro che tutti siano coerenti con la loro presenza qui davanti». L'ex presidente del Consiglio Conte annuncia l'adesione del M5s alla manifestazione di sabato e chiama in ballo i partiti di destra: «Auspico che anche Salvini e Meloni partecipino». Poi si unisce alla richiesta di scioglimento per Forza Nuova: «Non possiamo accettare che nel nostro paese ci siano aggressioni di questo tipo. Quindi su Forza Nuova è una valutazione che affidiamo alla magistratura ma anche io ritengo che ci siano le condizioni per lo scioglimento. È evidente che ci sia una volontà deliberata di condurre attacchi squadristi e questo non lo possiamo accettare». Letta fa tappa nel pomeriggio al presidio e avverte: «Esiste un fermento e cova un malessere fortissimo. Credo che bisogna alzare la guardia, ed essere netti sulla questione dello scioglimento Forza Nuova. Le immagini sono chiare, non ci sono molti dubbi. Presenteremo una mozione, poi sono altri i meccanismi che portano allo scioglimento. Ma la Costituzione è chiarissima, non ci sono dubbi che Forza Nuova debba essere sciolta». La presidente del Pd Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, il paese dell'Appennino bolognese colpito dal grande eccidio nazifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lancia su Change.org una petizione per sciogliere organizzazioni e partiti neofascisti. «I fatti di Roma sono solamente l'ultima goccia. È ora i dire basta alla violenza squadrista e fascista. Un basta definitivo. È ora, come già richiesto dall'Anpi nell'appello Mai più fascismi, di sciogliere Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Fiamma Tricolore e tutti i partiti e movimenti che si rifanno alle idee e alle pratiche del fascismo» - rilancia Cuppi. Per Fratelli d'Italia arrivano Francesco Lollobrigida ed Enrico Michetti. «Sono andato a Corso Italia perchè noi condanniamo ogni forma di violenza politica, specie quando colpisce i lavoratori e le loro rappresentanze» spiega il capogruppo Fdi alla Camera dei deputati. Pasquale Napolitano

Forza Nuova? Perché con la destra non c'entra niente: anzi, ne è nemica. Andrea Morigi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sono vent' anni o giù di lì che Forza Nuova si presenta alle elezioni andando sì a pescare consensi negli ambienti di destra, ma in alternativa alla destra. Sono gli avversari e i concorrenti di Fratelli d'Italia, come lo sono stati di Alleanza Nazionale e lo furono del Msi. Non contigui e nemmeno ramificazioni dello stesso albero. Soltanto che, ai tempi di Giorgio Almirante, non accadeva mai di assistere a superamenti a destra. Al massimo vi fu la sfortunata scissione a sinistra, cioè centrista, di Democrazia Nazionale. Qui però, destra sembra ormai un termine improprio. "Le destre", come le chiamano i nostalgici della Resistenza, semplicemente non esistono. Semmai quella che si è radunata sabato in piazza del Popolo a Roma è un'organizzazione antisistema, "oltre la destra e la sinistra", che non accetta etichette sebbene affondi le sue radici politico-culturali nella cosiddetta "autonomia nera", da sempre estranea al "partito", giudicato borghese e compromissorio. Sono realtà nemiche l'una dell'altra, con obiettivi politici diversi e un atteggiamento opposto nei confronti delle istituzioni democratiche. Mancano loro infatti un terreno e un nemico comune, paragonabili a quelli che condivide la sinistra quando va in piazza il 25 aprile per festeggiare la Liberazione. A meno che s' intenda l'opposizione al gender, al ddl Zan e all'aborto come un tema unificante, ma a quel punto occorrerebbe includere nel fronte reazionario anche il Sommo Pontefice. Le frange neofasciste tuttavia si pongono fuori dalla Chiesa, in opposizione al Concilio Vaticano II. Forza Nuova, comunque, non gradisce nemmeno la definizione di "fascista" e forse non sarà soltanto per ottenere lauti risarcimenti se i loro dirigenti hanno querelato - vincendo in giudizio - gli organi d'informazione che hanno osato definirli tali. La genealogia è un'altra. È l'area che, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1969 del manualetto La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, teorizza l'unificazione fra movimenti rivoluzionari, dopo essersi alimentata dell'antiamericanismo dei reduci della Repubblica Sociale Italiana e perfino dell'opposizione alla Nato del primo Msi. Da quelle parti e a quell'epoca, i cosiddetti nazimaoisti ammirano Ernesto Che Guevara e i vietcong, perché sono nemici giurati degli Stati Uniti tanto quanto i "camerati" che hanno combattuto contro le truppe alleate durante la Seconda Guerra mondiale. Qualche riferimento nazionalbolscevico o al fascismo immenso e rosso, in fondo, conferisce anche un'atmosfera romantica all'ideale totalitario del patto Molotov-Ribbentrop. Il trasbordo ideologico si può dire pienamente compiuto nel 1979, quando vede la luce il numero zero del periodico Terza Posizione, che saluta il trionfo della rivoluzione khomeinista in Iran. "Né Usa né Urss!", slogan da Paesi non allineati, cessa così di inneggiare all'Europa Nazione e acquista da quel momento una sinistra e cupa deriva verso il fondamentalismo islamico. Forza Nuova, in realtà, subisce già dalle sue origini l'influenza di un tradizionalismo cattolico che vede nelle gesta dei combattenti maroniti un esempio di testimonianza cristiana, salvo poi trovare negli anni un punto di contatto anche con Hezbollah, il partito sciita libanese. Anche questi ultimi, del resto, salutano col braccio teso. Come i militanti che si ritrovano a Predappio alla tomba di Benito Mussolini, senza trascurarne il passato socialista.

"Quali prove vogliono ancora contro il fascismo". Meloni, gioco sporco a sinistra: fin dove si spingono, persecuzione? Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 ottobre 2021. Le avevano chiesto di dire parole chiare sul fascismo. E ieri, sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni le ha dette. «Nel dna di Fratelli d'Italia», ha spiegato, «non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro». E ancora, se non fosse stata abbastanza netta: «I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato». Insomma, piacciano o meno le sue dichiarazioni, non si può dire che Giorgia sia stata vaga o non abbia voluto affrontare la questione. Quindi? Archiviamo le polemiche di queste settimane sul pericolo fascista e torniamo ad occuparci di quello che succede nel ventunesimo secolo? Ovviamente no. Perché la sinistra non è soddisfatta. E chiede ulteriori prove...

UN CRIMINE

«Anche oggi», attacca Andrea De Maria, deputato del Partito democratico e già sindaco di Marzabotto, «Giorgia Meloni fa finta di non capire: nella sua intervista non c'è alcuna condanna del fascismo né l'intenzione di chiudere con quel mondo che ancora si ispira agli orrori del Ventennio. C'è invece la presunzione di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo. Come se non conoscesse la storia del nostro Paese e il ruolo dei comunisti italiani per la conquista della libertà e la costruzione della democrazia. Per una che vorrebbe guidare il Paese non solo è ormai tardi ma è ancora davvero troppo poco». Anche i Cinque Stelle, poi si sentono in diritto di chiedere alla Meloni ulteriori prove di democraticità. «Sul fascismo», sostiene Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, «ha detto parole definitive un uomo che lo aveva subito, Sandro Pertini. Spiegò che il fascismo non è un'opinione ma un crimine. In commissione Giustizia abbiamo avviato l'iter della proposta di legge contro l'uso di simboli e immagini che possano propagandare le idee nazifasciste: è un testo di iniziativa popolare sostenuto dal sindaco di Sant' Anna di Stazzema Maurizio Verona al quale personalmente tengo molto e che credo debba essere condiviso da ogni forza democratica». E poi: «La leader di Fdi, impegnata in questi giorni a prendere le distanze da personaggi e vicende raccontate nel video di Fanpage, è disposta, in concreto, a sostenere questa proposta?».

LA COSTITUZIONE

E non poteva mancare la solita Anpi. «La Meloni afferma che l'Anpi chiede lo scioglimento di Fratelli d'Italia», dice l'associazione dei partigiani. «È falso. L'Anpi chiede lo scioglimento di Lealtà Azione, Forza Nuova, CasaPound. Dato che lei, folgorata sulla via di Damasco, anzi di Fanpage, nega qualsiasi nostalgia del Ventennio e si erge a baluardo democratico, perché non propone lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste come previsto dalla Costituzione?». Insomma, la fondatrice di Fdi, oltre prendere le distanze dal fascismo, dovrebbe anche esaltare il ruolo storico del Partito comunista, sottoscrivere una legge contro la propaganda fascista e pure chiedere lo scioglimento dei gruppi di estrema destra. Ed è probabile che non basterebbe ancora...

Meloni: “Noi fascisti? Nel dna di Fdi c’è il rifiuto per ogni regime”. In un'intervista al Corriere della Sera, Giorgia Meloni rifiuta l'accostamento con le ideologie "fasciste, razziste e antisemite". E su Lavarini dice...Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Nel dna di Fratelli d’Italia “non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite“, c’è “il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro. E non c’è niente nella mia vita, come nella storia della destra che rappresento, di cui mi debba vergognare o per cui debba chiedere scusa. Tantomeno a chi i conti con il proprio passato, a differenza di noi, non li ha mai fatti e non ha la dignità per darmi lezioni”. Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Il “pericolo nero”, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale…» aggiunge, parlando dell’inchiesta di Fanpage, sottolineando però che la più arrabbiata per quelle immagini è lei, che ha “allontanato soggetti ambigui, chiesto ai miei dirigenti la massima severità su ogni rappresentazione folkloristica e imbecille, anche con circolari ad hoc”. Perché “i nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Immaginare «che Fratelli d’Italia possa essere influenzato o peggio manovrato da gruppi di estrema destra è ridicolo e falso”. Meloni ricorda che certi nostalgici il partito li ha sempre cacciati, “a partire da Jonghi Lavarini, ora “lo faremo ancora di più”. La colpa di Fidanza “è aver frequentato una persona come Jonghi Lavarini che con noi non ha niente a che fare per ragioni di campagna elettorale. Un errore molto grave, infatti adesso è sospeso. Poi vedremo cosa verrà fuori da un’inchiesta a tratti surreale”. Fdi è il primo partito in Italia “perché non guardiamo indietro ma avanti, ai problemi veri degli italiani, le tasse, la casa, il lavoro, la povertà”. Nella battaglia politica, la leader di Fratelli d’Italia difende anche scelte come quella della candidatura di Rachele Mussolini: “È una persona preparatissima, competente, consigliera uscente che è stata rieletta perché ha fatto bene e non la discrimino per il nome che porta”.

Guerriglia. La fatwa in Tv contro la consigliera di FdI. Per il "ducetto" Formigli, Rachele Mussolini è apologia del fascismo solo per il cognome…Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Sono rimasto di pietra, l’altra sera, quando ho sentito Corrado Formigli, su La 7, annientare Rachele Mussolini – in contumacia – e contestarle, in sostanza, il diritto di presentarsi alle elezioni con quel cognome. Ha fatto bene Guido Crosetto (che ha idee politiche, spesso, molto lontane dalle mie) a indignarsi e ad alzare la voce. Formigli ha reagito all’intervento di Crosetto togliendogli la parola con l’aria… (posso dirlo?) con l’aria del ducetto che il potere ce l’ha e non lo cede a nessuno. Io non conosco neppure alla lontana Rachele Mussolini. So che è una signora che fa politica da molti anni, che è di destra, che si presenta alle elezioni e le vince. E mi hanno abituato a pensare che chi vince le elezioni è bravo, e che se gli elettori lo votano lui è democraticamente legittimato. Non ha bisogno del timbro di Formigli e neppure del timbro del mio amico Bersani. Dove me le hanno insegnate queste cose? Nel Pci. Circa 50 anni fa me le spiegò Luigi Petroselli, che era il capo della federazione romana del partito e del quale l’altro giorno abbiamo celebrato i quarant’anni dalla morte, che avvenne a Botteghe Oscure, mentre scendeva dal palchetto dopo aver pronunciato – nella solenne seduta del Comitato centrale – un intervento critico verso il segretario. Che era Berlinguer. Rachele Mussolini è accusata di tre cose. La prima è di portare il nome che porta. La seconda è di non avere abiurato. La terza è di avere detto che lei non festeggia il 25 aprile. Accusare una persona per il nome che porta, dal mio punto di vista di vecchio antifascista, è una manifestazione di fascismo. Tra qualche riga provo a spiegare cosa intendo per antifascismo. Chiedere a una persona di abiurare, chiedere a chiunque qualunque tipo di abiura, per me è ripetizione delle idee e dei metodi della Santa Inquisizione. È una richiesta oscena, che getta discredito e vergogna su chi la avanza. Sul 25 aprile ci sono due cose da dire. La prima è che Rachele Mussolini ha dichiarato in questi giorni di avere sbagliato a postare (due anni fa) quella foto nella quale mostrava un cartello con su scritto che il 25 aprile lei festeggia solo San Marco. Ma a me questo non interessa. Per me chiunque è legittimato a festeggiare o no le feste di Stato. Legittimato e libero. Non so se la capite questa parola: li-be-ro. Io da ragazzo non festeggiavo il 4 novembre, festa della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. Non perché io fossi, o sia, anti italiano o filoaustriaco, ma perché sono – e sono libero di esserlo – antimilitarista. E vi dico le verità: se il 25 aprile fosse una festa per ricordare la fucilazione di mio nonno, il papà di mio padre (in realtà Mussolini fu fucilato il 28 aprile e poi appeso per i piedi a Milano, in piazzale Loreto, il giorno dopo, e però è il 25 aprile il giorno nel quale si celebra e si festeggia la sua morte) io in nessun caso la festeggerei, a prescindere dalle mie idee politiche. Democrazia, liberalità, modernità, onestà – butto giù a caso un po’ di parole perché non è che io abbia capito bene quali siano i nuovi valori della politica di oggi – chiedono ai nipoti di sputare sul corpo dei propri genitori o nonni prima di essere ammessi in società? Beh, ma allora perché ce l’avevate con Pol Pot? Io tutti gli anni festeggio il 25 aprile. Lo festeggio, e penso che sia una grande festa, proprio perché so che è legittimo non festeggiarlo. Se fosse una festa obbligatoria, per me, non sarebbe più il 25 aprile. Sarebbe un rito sciocco. Infine Formigli ha detto che aveva invitato Giorgia Meloni per chiederle se era pronta a ripetere la frase attribuita a Gianfranco Fini una quindicina di anni fa, e cioè “il fascismo è il male assoluto”. Io penso che non ci sia niente di male a credere che il fascismo sia il male assoluto – forse sarebbe meglio dire che l’olocausto, del quale il fascismo fu complice, è stato il male assoluto – ma a me non sembra normale che un conduttore televisivo pensi di poter convocare nello studio televisivo il capo di un partito (forse, addirittura, del primo partito) per umiliarlo e costringerlo a piegarsi ai suoi diktat. A questo punto è ridotta la politica? È l’ancella di conduttori televisivi rudi e sceriffi? Delle nuove guardie? Ommammamia. Questi atteggiamenti, e anche il fatto che non facciano indignare nessuno, a me fanno paura. Sì, mi fanno paura perché il vero rischio fascismo, per me, è esattamente questo. Tutti sanno che il pericolo non è né Borghese, né questo nuovo personaggio che mi pare si chiami Jonghi Lavarini. Non è Casapound, né Forza Nuova, né l’incombere della tradizione del vecchio regime. I rischi sono tre: antisemitismo, razzismo e autoritarismo. Quando penso a un antifascismo serio e moderno penso esattamente a questo. A un ordine di idee e di lotte contro l’antisemitismo, il razzismo e l’autoritarismo. Dove sono queste tre malattie? In vastissime zone del populismo italiano. L’antisemitismo, purtroppo, è diffuso, sotterraneo e terribile. Vive e prospera a destra e anche a sinistra. Anche il razzismo (che comunque non va confuso con la xenofobia, che è anche questa una malattia della politica moderna, ma diversa dal razzismo) è diffuso a destra e a sinistra, soprattutto a destra. L’autoritarismo, che spesso si confonde e si salda col giustizialismo, è forte in tutto lo schieramento politico, e, misurato a spanne, è più diffuso a sinistra e dilaga tra i 5 Stelle dove è quasi l’ideologia dominante. Bene, se le cose stanno così, lo dico francamente, antifascismo vuol dire opporsi al formiglismo. Che è un costume diffusissimo nel giornalismo italiano. Prepotente, maschilista, narciso e sopraffattore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Rachele Mussolini e Gualtieri, due eredi sono, ma è il comunismo furbo che tiene famiglia a Roma. Anche Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso è già inghiottito dai comunisti. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2021. Il fascismo di certo non c’è più ma il comunismo furbo del comparaggio di potere quello sì, altroché. Rachele Mussolini che prende tutti i voti a Roma – con buona pace del Corriere della Sera che se ne scandalizza – non sposta un bicchiere ma Gualtieri che arriva al Campidoglio, di una torta a doppio strato guarnita di Giubileo in arrivo e l’Expo da fare, sa che farsene, altroché. Rachele può solo essere una nipote ma un Gualtieri cresciuto alla scuola di partito del Pci è un erede, e tutta quella furbizia della doppiezza ce l’ha nel suo corredo, altroché. Il comunismo da temere non è certo quello genuino di Marco Rizzo ma quello furbo che comanda, quello dei magistrati compiacenti, sempre loro, ed è quello dei giornalisti di regime – sempre loro – nonché quello degli affaristi sempre pronti a farsi gli affari loro. Nella cupola loro, col comunismo furbo che sa sempre dove stare. Per stare al meglio a tavola. E figurarsi cosa non stanno facendo per riconquistare Roma. Tiene famiglia il comunismo furbo del comparaggio e sa dove andare a prendersi il dovuto tributo. Il vero sondaggio è la sostanza di un calcolo facile. Con tutti i dipendenti Rai che vivono a Roma, e coi loro parenti, con tutti quelli che lavorano nei ministeri, col parastato, con tutto il gregge di Santa Romana Chiesa, sempre grata al potere – e con tutti quelli che devono far carriera – altroché se non è solida la democrazia compiuta del comunismo implicito di tutto questo potere esplicito. Una massa fabbricata in anni di egemonia stagna nell’automatismo. Con l’accorta assenza del popolo – presente solo nell’astensione sempre più forte – e nel riflesso condizionato poi, dei cosiddetti veri liberali, storicamente incapaci di alloggiare fuori dall’ombra rassicurante del comunismo fatto sistema. Certo, non lo chiamano comunismo il loro comunismo, i comunisti. Dicono sia progressismo, perfino riformismo, magari liberal-socialismo e di certo è la cuccia calda della sinistra, la botola in cui – e lo sanno benissimo – prima o poi andranno a rinchiudersi tutti, ma proprio tutti, senza eccezione alcuna. Come Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso già inghiottito dai comunisti in marcia verso il municipio, a confermare – nell’illusione di averli presi, i suoi nemici – il dettato di Vladimir Il’i Ul’janov: “Ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Inghiottito, altroché. Preso al laccio.

Francesco Borgonovo per La Verità il 9 ottobre 2021. Prendiamo atto, con appena un filo di sconforto, che in Italia non si deve rendere conto dei clamorosi errori commessi all'inizio della pandemia, i quali hanno causato migliaia di morti. Non si deve rendere conto nemmeno delle discriminazioni e degli atteggiamenti autoritari assunti negli ultimi mesi ai danni di chi sta esercitando un diritto costituzionale. No: si deve rendere conto soltanto del legame (al solito pretestuoso) con il fascismo. Ora, che la macchina politico-mediatica del progressismo militante cerchi regolarmente di occultare le colpe della propria area - seppellendole sotto montagne di scemenze sulle «lobby nere» - non stupisce. Stupisce molto di più, e un po' dispiace, che la destra ci caschi ogni volta. Che accetti non solo di stare al gioco, ma che appaia spesso terrorizzata e corra a piegare il capo ai nuovi inquisitori. A questo proposito, vale la pena di soffermarsi un momento su quanto accaduto giovedì sera nello studio di Corrado Formigli. A un certo punto, Alessandro Sallusti ha posto una questione interessante: perché non si chiede mai a un Pier Luigi Bersani di dichiarare che il comunismo è stato il male assoluto? Formigli ha risposto ridacchiando, come se si trattasse di una proposta irricevibile. Poi è intervenuto Antonio Padellaro che ha dichiarato quanto segue: «Bersani viene dal Partito comunista italiano. Pretendere che definisca il comunismo - che era nella sigla del suo partito - il male assoluto mi sembra un po' troppo». Ecco, in questo scambio c'è tutta l'ipocrisia che da decenni corrode la nostra nazione. Il Partito comunista italiano ha avuto legami d'acciaio con il Partito comunista sovietico che incarcerava gli oppositori e spediva la gente nei gulag. Il Pci è stato finanziato dal mostro russo. Ma chi ha fatto parte del Pci non deve giustificarsi di nulla, anzi il solo pensiero che ciò avvenga suscita risatine. Eppure i comunisti esistono ancora, non si fanno problemi ad alzare il pugno chiuso (lo ha fatto una volta persino il sindaco di Milano, Beppe Sala). Vanno orgogliosi della loro storia perché - anche giustamente - non accettano che sia ridotta alla complicità con la macchina di morte sovietica. Quando si è trattato di approvare, in sede europea, l'equiparazione - per altro molto discutibile - tra nazifascismo e comunismo, la sinistra italiana (quella istituzionale, non i centri sociali) ha vivamente protestato. E allora perché la destra continua imperterrita a giustificarsi? «Che non si commettano viltà verso le proprie azioni», scriveva Nietzsche. «Che non le si pianti poi in asso!». Ebbene, perché insistere con l'autoflagellazione? Ci sono almeno due dati di fatto da tenere presenti. Il primo è che la sinistra non ha alcun titolo per giudicare gli avversari. Da sempre detiene il primato dell'ipocrisia, non esita a compiere le peggiori azioni e mai se ne scusa. Pretende che gli altri facciano esami del sangue e non è nemmeno stata in grado di riconoscere le colpe più recenti. Avete mai sentito qualcuno dire, ad esempio: «Sì, forse se a Bibbiano portavano via i bambini alle loro famiglie qualche motivazione ideologica c'era, e aveva a che fare con la nostra ideologia?». Certo che no. Del resto, i comunisti e i post comunisti ci hanno messo anni a riconoscere che i terroristi facevano parte del loro album di famiglia e ancora adesso lo ricordano a malincuore. Pensate realmente che possano, un giorno, mostrare un po' di rispetto per gli avversari? Se le condizioni sono queste, davvero si vuole continuare a rendere conto a giornalisti che s' ingozzavano di involtini primavera alla faccia delle responsabilità cinesi sull'esplosione della pandemia? Prima si dissocino dai ravioli, poi vedremo se ragionare con costoro. Veniamo al secondo dato di fatto. Forse è ora di comprendere che non ci sarà mai abiura sufficiente. La destra, compresa quella cosiddetta estrema, riflette criticamente sul fascismo (anzi, sui fascismi) da decenni. Nel 1961 lo scrittore francese Maurice Bardèche - che si definiva fascista - condannava implacabilmente le mostruosità naziste e pure il cesarismo mussoliniano in un libro intitolato Che cosa è il fascismo? (Settimo sigillo). Risale al 1985 il saggio in cui Alain De Benoist rispose una volta per tutte ai critici (di destra) della democrazia: «Non resta che una legittimità plausibile: la legittimità democratica, cioè la sovranità del popolo». Nel 2021, però, gli indici sono ancora puntati, le cattedre ancora abbondano di maestrini. Se poi vogliamo riferirci alla destra «istituzionale», giova ricordare ciò che avvenne a Gianfranco Fini. Pronunciò le famose parole sul male assoluto, a Fiuggi ruppe con la tradizione missina, si avvicinò ad Israele Eppure, pensate un po', continuarono a dargli del fascista, a insultarlo e ad attaccarlo per anni. Almeno fino a quando non si schierò contro Silvio Berlusconi: allora, per un po', a sinistra lo coprirono di elogi, salvo poi abbandonarlo senza pietà al suo destino. Altro esempio? Ieri, all'Aria che tira, alcuni illustri ospiti continuavano a ripetermi che la Costituzione italiana è fondata sull'antifascismo (cosa falsa), ma ovviamente si sono ben guardati dal condannare l'aggiramento della Costituzione medesima che porta il nome di green pass. Poi hanno cominciato a dire che «il 25 aprile dovrebbe essere la festa di tutti». Beh, ricordate i fischi e gli attacchi subiti da Silvio Berlusconi e Letizia Moratti quando si presentarono alle manifestazioni di piazza? Ricordate i costanti attacchi alla Brigata ebraica? Se pure Giorgia Meloni andasse in piazza il 25 aprile a sventolare la bandiera dell'Anpi, la insulterebbero senza pietà. Sapete che significa? Che non ne avranno mai abbastanza. Che i progressisti continueranno sempre e comunque a pretendere «scuse» e «prese di distanza» dalla destra, perché l'accusa di fascismo è l'unica arma che hanno in mano, sgangherati come sono. Figurarsi: accusano di nazismo gli israeliani nazionalisti, i critici dell'immigrazione di sinistra, le femministe che si oppongono all'ideologia gender Non esiste e non esisterà mai un perimento entro il quale la destra italiana verrà ufficialmente riconosciuta come «presentabile». Non accadrebbe nemmeno se la destra diventasse all'improvviso di sinistra: la riterrebbero, comunque, moralmente inferiore. Quindi, cari amici, basta con le scuse, le prese di distanza, le giustificazioni e gli arretramenti. È ora di capire che il meccanismo è truccato, è ora di togliere dal piedistallo i mangiainvoltini, i prelati della Cattedrale politicamente corretta, gli ipocriti di mestiere che hanno fatto dell'intolleranza una professione. Se qualcuno commette dei reati, è giusto che paghi in conformità alla legge. Ma, appunto, si deve rendere conto dei reati, non delle idee, almeno in democrazia. Soprattutto, si rende conto di fronte ai tribunali, non ai tribuni. Costoro pretendono che la destra si scusi di esistere. Ma ciò che vogliono davvero è che la destra smetta di esistere. Per lo meno, non aiutiamoli.

A destra ferve il dibattito per appurare quale sia la matrice di tutte le stronzate che fanno. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Rampelli si autosmentisce, La Russa denuncia una strategia della tensione e Meloni rivendica in spagnolo il suo essere italiana. Ma se in piazza i neonazi protestano contro la dittatura e invocano una nuova Norimberga, forse la causa non è così chiara nemmeno a loro. Scoccata l’ora delle decisioni irrevocabili, poco dopo pranzo, Fabio Rampelli ha annunciato ieri la scelta di votare la mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova – ma no, che avete capito? Mica quella del centrosinistra. A chi ha l’ingrato compito di raccontare o commentare la politica italiana, ormai, conviene partire dalle precisazioni. Ecco dunque la precisazione di Rampelli, vicepresidente della Camera e dirigente di primo piano di Fratelli d’Italia: «Il voto favorevole di Fratelli d’Italia cui mi riferivo in un’intervista radiofonica è sulla mozione unitaria proposta dal centrodestra che, partendo dall’assalto alla sede della Cgil, chiede la condanna di ogni forma di totalitarismo e auspica lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica. Quindi non riguarda Forza Nuova, ma tutti i soggetti che utilizzano i suoi stessi metodi». Avendo riportato, preventivamente, il testo integrale della precisazione, mi permetto di sottolineare quello che mi pare il passaggio-chiave: «Non riguarda Forza Nuova». Ricapitolando, siccome sabato scorso esponenti di Forza Nuova hanno guidato un assalto alla sede della Cgil, devastandone gli uffici, per poi tentare di attaccare anche Palazzo Chigi e il Parlamento, il centrodestra ha ritenuto giusto presentare una mozione che condanna «ogni forma di totalitarismo» e auspica «lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica». Ma perché – si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori – c’erano forse altri partiti, movimenti, associazioni culturali o circoli ricreativi, a parte Forza Nuova, a dare l’assalto alla Cgil? No, nessun altro. Fermamente intenzionato a spezzare le reni alla logica, sempre ieri, Rampelli dichiara inoltre all’Huffington post: «Per coincidenza astrale, questi fatti accadono solo sotto elezioni. Ne deduco che Forza Nuova ha un’alleanza di ferro con il Partito democratico». Coincidenza astrale o congiunzione casuale che sia, l’affermazione sembra riecheggiare la teoria di Ignazio La Russa, altro autorevolissimo esponente di Fratelli d’Italia, riportata due giorni fa dal Corriere della sera, circa la reale motivazione per cui, fino alla settimana scorsa, né l’attuale esecutivo né i precedenti si sarebbero preoccupati di sciogliere partiti e movimenti neofascisti: «Delle due l’una: non avevano le motivazioni per scioglierli o hanno preferito tenerli lì, magari come strumenti utili per la strategia della tensione?».

L’ipotesi che nessuno lo abbia fatto prima semplicemente perché fino alla settimana scorsa nessuno aveva assaltato la sede della Cgil, evidentemente, non ha sfiorato né La Russa né Rampelli nemmeno per un attimo. Eppure, considerando da dove erano partiti, l’intero dibattito potrebbe sembrare persino un passo avanti. La prima dichiarazione a caldo di Giorgia Meloni, che di Fratelli d’Italia è la leader, cominciava infatti con le parole: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco». E pensare che sarebbe bastato cercare la parola «squadrismo» su un buon dizionario. D’altronde, nel momento in cui faceva queste dichiarazioni, Meloni si trovava nel contesto non troppo adatto di una manifestazione di Vox, il partito neofranchista spagnolo, impegnata a ripetere dal palco, in perfetto castigliano, perché si sente orgogliosamente italiana. Riciclando per l’occasione la traduzione letterale del suo cavallo di battaglia: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana…». In pratica, una via di mezzo tra un comizio di Giorgio Almirante e un balletto su Tik Tok. Nonché la conferma del fatto che, se mai un giorno lontano rivivremo la tragedia di una dittatura fascista, al posto dei cinegiornali Luce ci sarà Striscia la notizia. E questa sarà la sigla. Del resto, stiamo parlando del partito che ha candidato a sindaco di Roma un signore, Enrico Michetti, che l’anno scorso, non settant’anni fa, a proposito dell’Olocausto, scriveva: «Mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Una frase talmente vergognosa che ha spinto Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, a twittare subito (pur senza alcun diretto riferimento a Michetti, beninteso): «Il ricordo della Shoah non può e non deve essere patrimonio degli ebrei ma di tutti ed ognuno. Perché la Shoah è l’emblema del male, il male ontologico, come direbbe Heidegger, l’essenza categoriale del male. Ed il male si combatte tutti uniti, senza dubbi, senza divisioni». Forse però un dubbio sarebbe stato meglio farselo venire, considerato che Martin Heidegger, oltre che un grande filosofo, era un nazista convinto. Ma queste ormai sono sottigliezze cui non fa più caso nessuno. Alla manifestazione dei no green pass, non so se l’avete notato, esponenti di un partito neofascista hanno sfilato per protestare contro la «dittatura sanitaria» e gridando «libertà! libertà!», prima di assaltare la sede della Cgil e dopo che il magistrato Angelo Giorgianni, dal palco, aveva invocato contro il governo nientemeno che un nuovo «processo di Norimberga». E quelli, con le loro belle svastiche tatuate sul braccio, ad applaudire a più non posso. Forse allora aveva ragione la mujer italiana, madre y cristiana di cui sopra: la matrice non è poi così chiara. Nemmeno agli autori. D’altra parte, parafrasando Altan, a chi di noi non capita di domandarsi, almeno ogni tanto, quale sia la matrice di tutte le stronzate che fa? 

Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

Antonio Rapisarda per “Libero Quotidiano” il 12 ottobre 2021. «È impossibile che Beppe, nato a Milena, abbia fatto un errore così enorme...».

E invece Peppe Provenzano, vice di Letta, lo ha detto eccome: vuole Giorgia Meloni fuori dall'arco repubblicano...

 «Uno come lui, formato alla scuola del Pci siciliano, un allievo di Emanuele Macaluso - il comunista che fece in Sicilia il governo col Msi - non può conoscere l'odio politico. Due sono le cose: o lo ha rovinato Roma o non è stato lui ad aver scritto tale follia. Ma il suo fake...».

Pietrangelo Buttafuoco, quando si parla dei suoi compatrioti di Sicilia, adotta la moratoria della polemica. Li affonda, quando il caso lo richiede, con l'ironia. La stessa cosa capita quando la fiction della politica lo costringe ad intervenire su un tema che reputa lunare come il procurato allarme chiamato "onda nera".

Prima l'inchiesta sulla fantomatica "lobby sovranista". Poi la tirata di giacchetta dopo l'assalto alla sede della Cgil, ad opera di facinorosi che nulla hanno a che fare con FdI. E mancano ancora cinque giorni al ballottaggio...

«Strategia della tensione, per tutta questa settimana saremo negli anni '70... Detto ciò, se al posto di Giorgia Meloni ci fosse Gianfranco Rotondi al 20%, in contrapposizione alla sinistra, Fanpage e Formigli avrebbero di certo approntato un reportage con un infiltrato mettendo insieme la lobby dei pedofili della Chiesa, le tangenti della neo-Dc, la Mafia e le organizzazioni clandestine inneggianti a Sbardella o a Salvo Lima...».

Si è capito che il "metodo Fanpage" non ti piace...

«No, anzi, mi piace. Peccato sprecarlo per così poco. Sarebbe stato utile un infiltrato sulla rotta della Via della Seta alle calcagna di Romano Prodi a Pechino: un bel Watergate. Così invece fa ridere: troppo olio per un cavolo...».

Che poi fa sorridere che con tutti questi presunti "neri" in azione sia sempre la sinistra ad occupare i ' posti di governo senza vincere un'elezione.

«Premessa. È perfettamente inutile vincere le elezioni se non sei nelle condizioni di poter comandare. Dal dopoguerra a oggi c'è un unico sistema di potere: che è quello guelfo. In assenza di ghibellini, i guelfi hanno preso tutte le parti in commedia: ereditando un sistema di potere che è figlio dei due fondamentali partiti, il Pci e la Dc, con un'unica metodologia, che è quella gesuitica. Ora non c'è dubbio che per fare carriera una signorina di buona famiglia debba avere la tessera del Pd: questa gli consente di avere carriere in tutti gli ambiti a prescindere da qualunque sia il risultato elettorale».

Diciamo poi che questa cospirazione sembra una copia venuta male de "Vogliamo i colonnelli" di Monicelli...

«Non Monicelli, Renzo Arbore piuttosto. Il Barone Nero su cui Formigli mobilita l'allarme nero altro non è che la prosecuzione di Catenacci in altro canale radio».

Catenacci?

«Era il personaggio interpretato da Giorgio Bracardi in Alto Gradimento, la trasmissione di Renzo Arbore. Il Barone Nero di oggi, invece, prende notorietà grazie ai microfoni de La Zanzara di Cruciani. Soltanto la malafede e la raffinata furbizia può costruire un capitolo del giornalismo su personaggi simili. Altrimenti l'ultimo Nobel lo avrebbero già dato a loro». 

Il punto è che il pueblo unido nelle redazioni sembra essersi messo in testa un obiettivo: spegnere la Fiamma. Fare del 20% di FdI una caricatura.

«Il metodo è sempre quello: o ridicolizzi o criminalizzi. Accadde col Psi di Bettino Craxi. E il berlusconismo naturalmente: c'erano le donne che venivano considerate alla stregua di puttane; il partito di plastica; "il banana" e "al Tappone". Sono cose che abbiamo già visto. È Karl Mark ad avere dato un indirizzo e un metodo: calunniate, calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Ma poi soprattutto è una capacità di distrazione rispetto ai fatti veri».

 Si aggrappano a un saluto romano, fatto come sfottò...

«Ti confesso che chi mi ha insegnato come si fa perfettamente è Eugenio Scalfari. Ora, con questa logica da cancel culture che succede, che lo tolgono dalla gerenza del suo giornale e invece che Fondatore di Repubblica diventa Fondatore dell'Impero? C'è anche molto provincialismo in queste cose. È un'applicazione psicotica della cancel culture».

Come si risponde a questa campagna nevrotica?

«Avendo una struttura d'industria editoriale davvero autorevole, professionale e incisiva. Quelli parlano di saluti romani? E tu parlagli invece dello scandalo delle mascherine di Arcuri - cosa loro - e dei traffici in seno alla magistratura, sempre cosa loro, delle lottizzazioni in Rai, cosissima loro...».

Dimenticavo. Non si contano le esortazioni a Giorgia Meloni da parte dei soliti noti: devi fare come Fini. Ossia, per dirla con la critica di Tarchi, rinnegare senza elaborare...

«Ha ragione Tarchi ma questa formulazione retorica - devi fare, devi fare - è l'estremo collante della malafede italiana. Finirà quando Meloni non diventerà più "pericolosa" per il sistema di potere. L'argomento disarmante è quello che ha usato lei stessa: Rachele Mussolini che prende i voti è pericolosa. Alessandra Mussolini, la sorella, che invece è a favore del ddl Zan è meravigliosa. Nel frattempo ti buttano nel '900 con l'aiuto dell'arbitro: perché sanno che quando tu subirai fallo - grazie agli utili idioti sempre presenti - l'arbitro chiuderà un occhio sì, ma per l'altro». 

Questa caccia alle streghe durerà fino alle Politiche. Cosa deve fare la destra per scansare la trappola?

«Misurarsi con la realtà. Come dice sempre Giancarlo Giorgetti "quando sei all'opposizione devi approfittarne per studiare e per farti trovare pronto". L'unica cosa da fare è quella di avere una prospettiva... uscire fuori dalla pesca delle occasioni». 

FdI al 20% non sembra frutto del caso.

«È il 20% di Giorgia Meloni, non di FdI. La vera scommessa è costruire un progetto politico, non un partito». 

La sinistra, invece, continuerà a sperare politicamente - come scrivesti più di dieci anni fa - di cavasela con un "fascista"...

«Tutti quelli che fanno professione d'antifascismo in assenza di fascismo, oggi - compresi tanti degli attuali vertici di potere - hanno l'aria e la faccia di quelli che, ieri, in presenza di fascismo, se ne sarebbero stati in orbace, fascistissimi. E già li vedi: gli scrittori sinceramente democratici reclutati nei Littoriali, gli attori dell'impegno al seguito di Vittorio Mussolini, il Corriere della Sera in camicia nera e con Otto e Mezzo - ogni sera - a segnare l'ora del destino»!

I vigilanti dell’antifascismo sono come gli stalker. E la loro vittima è Giorgia Meloni. Annalisa Terranova mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Gli animi sono sovreccitati. Un po’ troppo. La sinistra crede che la destra sia già liquidata. I talk show si stanno attrezzando per la caccia al nostalgico. Ora hanno trovato un consigliere circoscrizionale di FdI a Torino che in un messaggio privato ringrazia i “camerati” che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono cose gravi, cose che allarmano, cose che devono mobilitare le coscienze. Poi ci sono quelli della redazione di Fanpage che pensano di meritare il Pulitzer. E quelli che sui social vanno facendo loro complimenti da una settimana. Sono veri ghostbusters, acchiappafantasmi, dovrebbero fare un film su questi eroi del bene. In questo impazzimento generale, occhio, possono rimproverarti di tutto. Tipo: hai votato Rachele Mussolini. Che brutto segnale. Il Paese si preoccupa, il Paese non lo meritava. Dice: ma scusate era in lista, era candidabile, era tutto ok, non è mica un reato darle la preferenza. E no caro elettore: prima di votarla dovevi dire che eri antifascista. Che so al presidente del seggio, oppure scriverlo sulla scheda, una notarella a margine: scusate, voto Rachele Mussolini ma sono antifascista eh, tranquilli. Dice: ma prima di lei è stata votata e rivotata Alessandra Mussolini. Non fa niente. Alessandra ora è una “pentita”. C’è del fascismo strisciante, signori. Occorre denunciarlo. La Meloni non lo denuncia, vergogna.  Ma chi lo dice? Lo dice un certo Andrea Scanzi. Ma anche Enrico Letta, quello che crede di avere l’Italia in pugno ed è diventato più querulo di un cardellino. E allora bisogna fare molta attenzione, perché i vigilanti dell’antifascismo sono sempre in agguato, proprio come gli stalker che non mollano la vittima un secondo. Ogni segnale, anche il più innocente, rientra nel pacchetto “fascista perfetto”. Pure se ti vesti di nero. Il look è importante. Il nero evoca lo squadrismo, non sia mai. Tutto è ormai sotto il loro controllo. Sono pervasivi, sono maestri del lessico. Meloni dice che non c’è posto per i nazisti nel suo partito? Mica basta eh. Deve dire non c’è posto per i fa-sci-sti. Se dice che è contro ogni regime totalitario vuol dire che si rifugia in un artificio dialettico. Dice: ma nella Costituzione non c’è l’obbligo di dichiararsi antifascisti. Ma stiamo scherzando? I vigilanti antifascisti non ti consentono questa osservazione. Bisogna perpetuare gli schemi del 1945 perché altrimenti la sinistra che fine fa? A che serve? Chi se la fila più? Va bene, allora condanniamo il fascismo e finalmente storicizziamo il periodo. Non l’ha già fatto Alleanza nazionale a Fiuggi? Ma siamo matti? Non si può fare. Il fascismo è eterno. Lo dice Umberto Eco. E poi certi riti di purificazione vanno ripetuti nel tempo. Tutte le “religioni” lo impongono, e quella antifascista non fa eccezione.

Dice: ma allora siete ossessionati dal fascismo. E no, non si è mai abbastanza adoratori della religione dell’antifascismo. Mica lo si fa per fanatismo, ma per essere buoni cittadini. E chi non vuole aderire a questa religione? Lasciamo stare, per loro “a Piazzale Loreto c’è sempre posto”. Dice: ma fior di storici hanno confutato la tesi crociana del fascismo come “malattia morale” degli italiani. Storici? E chi sono? Noi si guarda ai topic trend, ai troll di Putin. E’ così che la Bestia ti azzanna…Ma non si potrebbe guardare avanti? Lasciarsi alle spalle il passato? Consegnare gli odi della guerra civile alla storia? No, mica si può. E perché? Eppure lo disse un comunista, uno che si chiamava Luciano Violante. Siamo impazziti? E Saviano poi cosa scrive sui social? E Jonghi Lavarini, lo vuoi lasciare lì a ricostituire il partito fascista senza battere ciglio? I vigilanti antifascisti non ti mollano un secondo. Ti spiano i messaggi su whatsapp, già è tanto che non pretendano di guardarti in biblioteca. Ascoltano come parli, che sport fai, cosa ordini dal menu, osservano i like che hai messo sui social, e magari te ne è scappato uno a un post della cugina di tuo cognato che dava ragione a Salvini. E magari sei passato una volta nella vita vicino a Predappio. O ti sei fatto un selfie al Foro Italico (ex Foro Mussolini). E allora non c’è scampo. Il fascismo è un’infezione che ritorna come un herpes e i guardiani lo devono segnalare al primo sintomo. Guai a distrarsi. Lo fanno per tutti noi. Per renderci più democratici, per renderci migliori. Loro sono i detentori del tampone ideologico che scova il contagio. Non c’è obiezione che tenga. Lo stalking politico ti insegue ovunque. Siamo tutti sotto sorveglianza.

Solo i regimi sciolgono i partiti. Sciogliere Forza Nuova è un’idea cretina, tentazione autoritaria e illiberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. La legge Scelba è del 1952. Prevede il reato di apologia di fascismo. Probabilmente era stata immaginata per poi permettere un secondo passo e la messa fuorilegge del Msi, partito neofascista fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Arturo Michelini. Pochi mesi dopo la legge Scelba nacque l’idea della nuova legge elettorale – che la sinistra ribattezzò “legge truffa” – la quale doveva servire a consegnare il 65 per cento dei seggi parlamentari ai partiti che – dichiarandosi alleati – avessero ottenuto più del 50 per cento dei voti alle elezioni. La Dc disponeva nel 1952 del 48 per cento dei voti e il successo della legge truffa era quasi assicurato, e avrebbe ridotto in modo evidentissimo la forza parlamentare delle opposizioni. In particolare del Psi e del Pci. Che si opposero fieramente, insieme al Msi. La legge fu approvata, dopo una feroce battaglia parlamentare, dopo l’ostruzionismo e lotte persino fisiche tra Dc e sinistre. Ma alle successive elezioni il blocco centrista prese solo il 49,9 per cento dei voti, il premio di maggioranza non scattò, De Gasperi fu travolto, la legge cancellata. E nessuno più pensò l’idea balzana di sciogliere il Msi. Poi, negli anni settanta, la questione tornò a porsi. Lotta Continua, nei cortei, gridava lo slogan “Emme esse i / fuorilegge/ a morte la Diccì / che lo protegge”. Però il Pci si oppose sempre a questa linea. Il Pci – dico – quello ancora legato stretto stretto a tutte le sue tradizioni e litanie comuniste. Però il Pci era un partito politico. Faceva politica. Era guidato da dirigenti colti, preparati, esperti. Nel Pci si capiva quali conseguenze devastanti poteva avere lo scioglimento del Msi. Specialmente per le opposizioni, che sarebbero finite tutte sotto tiro e minacciate. Ma anche – in generale – per la tenuta della democrazia. Il Pci ci teneva molto alla saldezza della democrazia, perché era l’acqua nella quale nuotava. Del resto si sapeva benissimo che la stessa legge Scelba, varata per colpire il Msi, apriva la prospettiva di iniziative legislative contro il Pci, se non anche contro il Psi. Mario Scelba, ministro dell’Interno, era l’espressione della parte più reazionaria della Democrazia cristiana. Ho scritto queste cose perché mi pare che l’idea di sciogliere Forza Nuova sia una assoluta idiozia. È chiaro che non è possibile nessun paragone tra Forza Nuova e il Msi anni 50. Forza Nuova è un gruppetto, il Msi era un partito strutturato e popolare. Ed era anche – nessuno credo che lo possa negare – un partito abbastanza nettamente fascista. Il problema sta nella natura del provvedimento, a prescindere dal bersaglio. Sciogliere un partito, un gruppo, un’organizzazione, per motivi ideologici è una stupidaggine gigantesca, che porta all’immagine della democrazia una ferita molto più grande della modestia del gesto. E che apre varchi pericolosissimi. Se oggi si scioglie Forza Nuova niente esclude che tra qualche mese o tra qualche anno qualcuno chieda lo scioglimento di organizzazioni di sinistra. Anche più forti e radicate di Forza Nuova. Riducendo sempre di più i margini del possibile dissenso politico. Oltretutto alle richieste di scioglimento di Forza Nuova – che sembrano un po’ ripetizioni quasi automatiche di slogan e atteggiamenti di 30 anni fa – si accompagna la folle idea del vicesegretario del Pd di mettere il partito di Giorgia Meloni (che forse oggi, secondo i sondaggi, è il più grande partito italiano) fuori dall’arco democratico e repubblicano. Siamo al diapason della tentazione autoritaria e illiberale. Io mi auguro che Letta intervenga in fretta. Può restare vicesegretario del Partito democratico una persona che chiede di prendere a frustate la nostra democrazia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il solito vizietto della sinistra: l'allarme fascismo scatta alla vigilia di ogni elezione. Francesco Giubilei il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. ​A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Siano elezioni politiche, regionali o amministrative, le accuse della sinistra al centrodestra di essere fascista o di strizzare l'occhio al fascismo, tornano in auge e le elezioni di questi giorni non sono da meno. Poco importa se la coalizione di centrodestra non abbia nulla a che fare e abbia preso le distanze in modo netto dall'attacco alla Cgil e da Forza Nuova, la retorica della destra fascista è dura a morire ed è funzionale agli scopi politici della sinistra. D'altro canto, come sottolinea la trasmissione Quarta Repubblica, le tempistiche degli ultimi giorni sono quantomeno sospette: a poche ore dal voto è uscita l'inchiesta di Fanpage, la settimana successiva è stata mandata in onda la seconda puntata fino ai fatti di Roma in cui c'è stata un'evidente falla nella sicurezza. Il pericolo fascista evocato da più parti torna con cadenza ciclica nonostante i leader del centrodestra si siano espressi con chiarezza contro ogni forma di estremismo e violenza. Basta scorrere le cronache degli ultimi trent'anni per rendersi conto di come lo spauracchio fascista sia utilizzato dalla sinistra con finalità politiche ed elettorali. Vale la pena rileggere la prima pagina de l'Unità del 12 settembre 2003 che titola a carattere cubitali «Berlusconi come Mussolini». Sin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è dovuto difendere dalle accuse di fascismo nonostante la sua estrazione liberale, in particolare per l'alleanza con An. Così, mentre Gustavo Zagrebelsky nel 1994 affermava «c'è il rischio di un nuovo regime», Berlusconi rispondeva «Fascismo? L'ho già condannato, i pericoli sono altri». Una condanna non sufficiente visto che nel 2009 il vicedirettore de l'Unità firmava un editoriale dal titolo emblematico: «Il fascista di Arcore». Nonostante la svolta di Fiuggi e la lezione di Pinuccio Tatarella di allargare la destra fondando Alleanza Nazionale, Giorgio Bocca, intervistato su l'Unità, bollava il nuovo partito come composto da «veri fascisti». A poco sono servite le parole di Gianfranco Fini nel 2003 sul «fascismo male assoluto» che fecero tanto discutere e, se oggi Fini è riabilitato dalla sinistra per attaccare gli attuali leader del centrodestra, al tempo le accuse ad An di essere un partito neofascista erano quotidiane. Più o meno lo stesso che accade a Fdi nonostante Giorgia Meloni, già nel 2016, alla domanda di Lucia Annunziata «lei è fascista?», avesse risposto: «Io sono di destra. Sono nata nel 1977, quindi mai stata fascista». Non è andata meglio alla Lega e, se le dichiarazioni contro Salvini si sprecano, già nel 2005, l'allora parlamentare socialista Ugo Intini, intervistato su l'Unità, affermava: «gli estremismi di Pontida sono di tutto il Polo» aggiungendo «il fascismo leghista è sottovalutato». Gli attacchi peggiori a Salvini avvengono proprio nelle settimane precedenti le elezioni come nel caso delle europee del 2019 quando Furio Colombo dichiarava: «Salvini fascista, ma nega come facevano i mafiosi», stessa accusa rivolta dal fotografo Oliviero Toscani, mentre a inizio 2019 lo storico Luciano Canfora a l'Espresso sosteneva «Matteo Salvini alimenta la mentalità fascista». Ma c'è chi, come lo scrittore Claudio Gatti, si è spinto oltre intitolando un suo libro I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. Un modus operandi utilizzato anche in occasione delle elezioni del 2018 e testimoniato da un articolo di Annalisa Camilli del 5 febbraio 2018 su Internazionale intitolato «Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo». Come se non bastassero i media nostrani, anche il New York Times, a poche settimane dalle politiche, denunciava il rischio di «antieuropeismo e ritorno al fascismo». Ripercorrendo questi episodi, viene da chiedersi se non esista un altro problema nel nostro paese: una sinistra incapace di accettare un confronto democratico con il centrodestra senza dover in ogni occasione attualizzare un clima da guerra civile polarizzando il dibattito e accusando di fascismo anche chi non ha nulla a che fare con violenti ed estremisti e, pur riconoscendosi nei valori democratici, non si definisce di sinistra.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più i 

Smascherata l'ipocrisia della sinistra: "Quando Fn li faceva vincere..." Francesco Boezi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Storace ricorda quando, con Forza Nuova sulla scheda, il centrodestra perse voti. E sulla fiamma nel simbolo rammenta la parabola di Fini. É un Francesco Storace in vena di ricordi quello che ha commentato le recenti vicende riguardanti Forza Nuova e la relativa mozione di scioglimento dell'organizzazione estremista avanzata da parte del Partito Democratico. Storace ha infatti elencato una serie di circostanze in cui, la presenza del partito di Roberto Fiore sulle schede elettorali, ha a parer suo penalizzato la destra parlamentare, contribuendo ad una dispersione di voti che è servita al centrosinistra per trionfare in determinati appuntamenti elettivi. La prima riflessione del vicedirettore de Il Tempo, però, è dedicata all'accomunare la destra in generale:"La gravità del comportamento politico della sinistra - ha fatto presente l'ex presidente della Regione Lazio - è voler assimilare chi ha fatto violenze a una comunità che le violenze le subisce. Mentre parliamo, in questi mesi si sono accumulate azioni criminali contro FdI, Lega e addirittura il sindacato Ugl, senza che nessuno abbia condannato o si sia sognato di sciogliere le organizzazioni di sinistra". Insomma, la destra che siede in Parlamento sarebbe la prima vittima delle violenze. E l'associazione con Forza Nuova sarebbe unicamente strumentale. Poi l'ex Alleanza Nazionale, che è stato sentito in merito dall'Agi, presenta un excursus sui rapporti tra la destra di governo ed i microcosmi posizionati sul lato dell'estremismo ideologico: "È evidente - ha continuato l'ex leader laziale - che c’è la strumentalità. Chi conosce la destra sa che c’è sempre stato fin dai tempi del Msi uno spartiacque tra i partiti e le formazioni extraparlamentari. Ci sono state occasioni di contatto - ha ammesso - ma mai sulla pratica della violenza, e comunque si è trattato di occasioni contingenti. Si vuol far partire una sorta di abiura per un’operazione politica di parte". Quindi Forza Nuova e Fratelli d'Italia, ad esempio, sono due universi ben distanti, pure per via del pregresso. A questo punto, arriva il passaggio sulle sconfitte subite, secondo Storace, pure per via di Forza Nuova: "Fiore e Casapound - ha ricordato alla fonte sopracitata - li ho avuti contro alle Regionali, quando correvo contro Zingaretti ma all’epoca la sinistra non insorgeva perchè toglievano i voti a me. Nel 2005 stessa storia, con la Mussolini, che fece vincere Marrazzo". Due episodi precisi in cui il centrodestra non è riuscito ad affermarsi pure a causa dei voti andati a finire tra le sacche di Forza Nuova e dintorni. Sulla mozione di scioglimento, peraltro, l'ex vertice di An segnala la mancata unità persino tra gli esponenti della sinistra, citando Stefano Fassina: "Ho letto le sue affermazioni e ha ragione: se la mozione sullo scioglimento di Forza Nuova venisse votata solo dalla sinistra, vorrebbe dire che solo quella parte è depositaria di valori come la democrazia". E ancora: "Tutto appare quindi strumentale, in campagna elettorale. Addirittura è stata indetta una manifestazione sindacale durante il silenzio elettorale. Che ci andrebbero a fare Salvini e la Meloni, a prendersi i fischi?". Dunque la manifestazione antifascista annunciata sarebbe, in buona sostanza, una trappola. C'è, infine, chi ha attaccato Giorgia Meloni per via della presenza della fiamma nel simbolo del partito che presiede. Ebbene, Storace ha ancora pescato dalla memoria, rammentando a tutti come la vicenda non sia proprio una novità, per usare un eufemismo: "Ebbene - ha detto riferendosi a Gianfranco Fini - lui è andato al governo nel 1994 come ultimo segretario del Msi, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera, e nessuno gli ha mai rinfacciato la Fiamma tricolore. Addirittura Mirko Tremaglia - ha chiosato Storace - ex-combattente della Rsi, è stato ministro. Punire violenza d’accordo, ma che c’entra con l’abiura".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali e

Quei fantasmi del Novecento. Vittorio Macioce il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana: evoca l'ostracismo contro l'avversario parlamentare. Non lo riconosce e lo indica come nemico. A tracciare la linea è Giuseppe Provenzano, ex ministro del governo Conte e soprattutto vice segretario del Partito democratico. Dice Provenzano: «L'ambiguità della Meloni la pone inevitabilmente fuori dall'arco democratico e repubblicano». È un foglio di via. Alla base di questo discorso ci sono gli squadristi di Forza Nuova, un movimento che si definisce fascista e da tempo sguazza nel caos e nella paura. Sono perfetti per il ruolo e si godono il quarto d'ora di celebrità. Non si preoccupano più di tanto di essere messi fuori legge. È quello che in fondo aspettano da tempo. È la loro reale legittimazione. È il segno che la democrazia li teme, li porta al centro del discorso, dentro la storia. Non sono mai stati così centrali. L'assalto alla sede dalla Cgil, violento e vergognoso, sembra una citazione del «biennio rosso», vecchia un secolo. È il teatro delle camicie nere. L'obiettivo è spargere pezzi di Novecento per sentirsi protagonisti. È prendere i fantasmi, le questioni irrisolte, e incarnarli nelle nostre paure, vomitando vecchie parole d'ordine e nuovi razzismi. E sono furbi, perché ottengono le contromosse sperate. Al Novecento si risponde con il Novecento e ci si impantana nel passato, riesumandolo, scommettendo sull'eterna roulette del rosso e del nero. Come disarmare Forza Nuova? La strada più diretta è punirli per quello che fanno: la violenza è un reato. Non sottovalutarli, ma neppure farli diventare i protagonisti di una campagna elettorale. Non giocare questa partita per conquistare Roma. Non sciogliere Forza Nuova solo per colpire la Meloni. Il rischio è fare danni, perché delegittimi l'opposizione e disconosci più o meno il 18 per cento degli elettori. Non è un bene per nessuno. Se la Meloni è fascista allora tutto torna in discussione. È fascista un ex ministro. È fascista un partito che sta in Parlamento e partecipa alla vita democratica. È fascista il presidente dei conservatori europei e sono fascisti i suoi alleati. È fascista chi la vota. Davvero il Pd è pronto a sottoscrivere tutto questo? Non c'è democrazia se un solo partito concede patenti di legittimità a tutti gli altri. E questo perfino Enrico Letta e Giuseppe Provenzano, forse, lo sanno. Il buon senso è quello di Mattarella: «Il turbamento è forte, la preoccupazione no. Si è trattato di fenomeni limitati». Vittorio Macioce

L'aria che tira, Guido Crosetto gela Fiano: "Per fortuna che sono un ex democristiano, altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. Ora tocca a Giorgia Meloni. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, riflette sulla "strategia" contro FdI messa in atto anche da esponenti ufficiali del Pd come Beppe Provenzano. "Un classico di ogni campagna elettorale - spiega Crosetto -. Ma è un tema che deve porsi innanzitutto la Meloni: deve togliere queste frecce dalle mani dei suoi avversari, che alla fine non la fanno parlare delle sue proposte e la costringono a difendersi". Dietro l'onda di indignazione "a comando" che si sta riversando sulla Meloni per effetto dell'inchiesta Lobby nera di Fanpage e Piazzapulita prima e delle violenze di piazza dei No Green pass di sabato scorso a Roma (e frettolosamente spedite nel "campo" della Meloni, secondo Crosetto però c'è una buona dose di strumentalizzazione politica. E a Emanuele Fiano, big democratico anche lui in collegamento con La7, forse fischieranno le orecchie. "Parlate di Fratelli d'Italia come un partito nato ieri da quello Nazista - sottolinea Crosetto in collegamento -. Il percorso di Giorgia Meloni è passato attraverso la svolta di Fiuggi, non ha mai avuto legami col fascismo. Ricordo che La Russa è stato ministro della Difesa e non ha invaso Libia ed Etiopia, che anche la Meloni è stata ministra...". Qualora non bastasse questo elenco, arriva l'ironia amara di Crosetto: quelli di Fratelli d'Italia "sono gli avversari principali di Forza Nuova o degli elementi estremistici di destra. Fossi in loro mi sentirei offeso di questa necessità di chiedere patenti di democrazia a persone che sono sempre state democratiche. Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero...". Qualcuno ride di fronte a questa battuta, ma la situazione è decisamente deprimente.

Ecco chi sono i veri violenti: estremisti rossi e anarchici. Lo dice lo studio Ue. Chiara Giannini il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. I dati del rapporto sul terrorismo: nel 2020 mai attacchi da destra. L'Italia è il Paese più colpito dagli assalti degli ultrà di sinistra. I partiti di sinistra chiedono di sciogliere Forza Nuova e tutte le realtà legate al neofascismo, ma la realtà è che la maggior parte degli attacchi terroristici non di matrice jihadista avvenuti negli ultimi anni in Europa e in Italia sono stati messi in atto da gruppi di estrema sinistra o anarco-insurrezionalisti. La conferma arriva dalla pubblicazione del report annuale Te-Sat (Terrorism situation and trend report 2021) che riporta come nel corso del 2020 gli attacchi di tipo terroristico avvenuti in Europa sono stati 422. Di questi 314 sono attribuibili a jihadisti e 48 a gruppi di estrema sinistra. In Italia lo scorso anno non si è avuto alcun episodio terroristico legato all'estrema destra, mentre 23 sono stati i casi di attacchi da parte dei gruppi anarco-insurrezionalisti o similari. Basti ricordare i cortei violenti di Torino, l'attacco ai cantieri Tav e molti altri episodi che quando si tratta di attaccare tutto ciò che è di destra magicamente scompaiono dai ricordi degli esponenti di sinistra. Nel rapporto 2021 dell'osservatorio ReAct sul radicalismo e il contrasto al terrorismo si specifica che «gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti nel 2018 in Europa - 19 eventi, di cui 13 in Italia - si situano al secondo posto dopo quelli di matrice jihadista - 24 azioni con 13 morti. Nel complesso si impone l'inconsistenza degli attacchi attribuiti a gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei 5 del 2017». Si chiarisce anche che l'Italia «nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70% di tutti gli attacchi in Europa». Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e dell'Osservatorio ReaCt, specifica: «La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti sulla società, andando ad alimentare e a fomentare forme di disagio sociale latente che sono presto esplose. Un fenomeno sommerso che si diffonde e consolida con le chat di Telegram, di Signal o con la diffusione di video e notizie false attraverso altri social. E sono proprio le notizie false, spesso associate a fittizi studi scientifici o informatori anonimi, che alimentano il fenomeno di un sempre più pericoloso e diffuso fenomeno cospirazionista». Peraltro sempre più ampio e tutt'altro che imprevedibile. «Questo - dice ancora - accomuna per le strategie operative e le metodologie comunicative sia gli ambienti di estrema destra che quelli di estrema sinistra, come dimostrano i numerosi episodi di violenza, anche in Italia, nelle manifestazioni del 9 ottobre che richiamano alla memoria gli episodi di violenza insurrezionale alimentata dall'ideologia di QAnon dello scorso 6 gennaio a Washington e alle immagini evocative che sono giunte da Capitol Hill». Bertolotti chiarisce che «l'estremismo violento di destra si sta evolvendo in un fenomeno transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l'estremismo di matrice islamista e si pone in un rapporto di competizione collaborativa, condividendone alcune ragioni di fondo (in particolare l'opposizione all'imposizione da parte dello Stato di regole e presidi sanitari, recepiti come minaccia alla libertà), con la violenza della sinistra estrema e dei movimenti anarco-insurrezionalisti. Un'evoluzione che avviene attraverso il comune terreno dell'ideologia No vax e, ora, No green pass».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dil barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Altro che galassia fascista. Le chat No Vax inneggiano alle Br. Francesca Galici il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli scontri di Roma e Milano sono stati solo "un'anteprima": i no pass alzano il tiro e minacciano azioni sempre più violente in vista del 15 ottobre. I no pass non si arrendono e dopo gli scontri di Roma lo dicono chiaro e tondo nelle ormai celebri chat su Telegram: "Sabato 9 ottobre è stata solo un'anteprima". Annunciano un crescendo di tensioni nelle città italiane per arrivare al 15 ottobre quando, dicono, "sarà guerrà". Il Viminale si sta organizzando per scongiurare altre piazze calde come quelle di Roma e di Milano dello scorso weekend, si stanno predisponendo controlli serrati e strette sulle manifestazioni ma dall'altra parte non sembrano intenzionati ad arrendersi, alzi, considerano le azioni del governo come una sfida nei loro confronti. "Che guerra sia, per come si stanno muovendo le cose", dicono spavaldi facendosi forza gli uni con gli altri. Al momento, nei gruppi Telegram e su Facebook si stanno organizzando per scendere in piazza dal 15 ottobre, giorno in cui il Green pass diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori. Vogliono manifestare a oltranza e il 19 ottobre pare sia in programma un "girotondo" a Montecitorio. Sono tanti quelli che spingono per la protesta pacifica ma quelli che, invece, vogliono arrivare allo scontro frontale non sono certo pochi. "Gli devi tirare le bombe a questi per capire come si lotta", si legge scorrendo nei loro discorsi, spesso deliranti, che inneggiano alle "bombe a mano per i poliziotti antisommossa". I due grandi cortei di sabato 9 si sono svolti a Milano e a Roma. In entrambe le città i manifestanti e le forze dell'ordine sono arrivati allo scontro ma è nella Capitale che la lotta si è fatta più dura. "La prossima volta non ci troverete a mani nude", minacciano i no pass violenti, come se a Roma non siano state lanciate bombe carta nei pressi di Montecitorio. E sono proprio i palazzi di piazza Colonna l'obiettivo di parte dei manifestanti, che nelle loro intenzioni vorrebbero occupare palazzo Chigi e il parlamento per spingere i politici al passo indietro. "Prendete i Palazzi", "Draghi, ti veniamo a prendere sotto casa", si legge ancora. Ma gli obiettivi sono molto più ampi, perché l'auspicio di qualcuno è che "brucino in piazza tutti quei criminali". Ma la strategia sembra più complessa di quello che non appare limitandosi a leggere questi discorsi, perché scorrendo nelle chat si intuisce che i fronti sui quali vogliono combattere sono molteplici e non si fanno scrupoli nel portare in piazza i più deboli da utilizzare come scudi umani davanti alle forze dell'ordine. "Ma se mettiamo anziani e bambini davanti alle manifestazioni, che faranno?", si domanda qualcuno. Il popolo dei "pronti a tutto", come si definiscono in alcuni scambi di vedute, ha principalmente tre obiettivi: la politica, la stampa e le forze dell'ordine. I giornalisti vengono definiti "servi del potere", "schiavi della dittatura" ed ecco che arrivano anche le proposte di "sfasciare" le redazioni perché "dicono una marea di cazzate", oppure di "occupare le emittenti tv". Ai manifestanti di Milano è stato chiesto di andare a Mediaset e alla Rai e i giornalisti, come si è visto sabato 9 ottobre, hanno rischiato in più di un'occasione di essere aggrediti dai manifestanti mentre documentavano gli scontri. E così, tra chi incita alla violenza al grido di "speriamo di bruciarli tutti", ci sono anche i nostalgici, non solo quelli neri, che rimpiangono gli anni di piombo: "Purtroppo non ci sono più le Br". E ci sono anche gli irriducibili dei primi Duemila: "Sono qui, no Global 100%, insieme a molti altri. Combattevo allora per diritti di altri che sono nati in altri Paesi, oggi combatto per il mio, dove i diritti sono stati corrotti e negoziati per Big pharma. Ora come oggi mi oppongo allo strapotere delle multinazionali. Di black block non voglio sentir parlare". Nelle chat le minacce non sono più troppo velate e nemmeno la consapevolezza che i gruppi siano strettamente attenzionati dalle forze dell'ordine che, nello svolgimento del loro lavoro, controllano le frange più eversive funziona come deterrente. "Guardarli in faccia e poi aspettarli sotto casa... Vedi come gli passa", è la promessa fatta ai poliziotti, ai politici e ai giornalisti.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Landini vittima di se stesso: suoi gli slogan più feroci contro il green pass. Laura Cesaretti il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato il leader Cgil ad aizzare il popolo No Vax: "Non si può pagare per lavorare". E anche il ministro Orlando l'ha bacchettato: "Ambiguo". La nemesi, a volte: «Non si può pagare per lavorare», era lo slogan più ripetuto per eccitare le caotiche piazze novax che manifestavano contro il Green Pass obbligatorio. Compresa la piazza di Roma, quella che ha prodotto l'assalto teppistico dei manifestanti, guidati da neofascisti noti alle cronache giudiziarie della Capitale, alla sede della Cgil. Peccato che l'inventore del fortunato slogan fosse proprio il padrone di casa, Maurizio Landini, che per settimane lo ha ripetuto in ogni microfono a sua disposizione, guidando una bellicosa resistenza alla decisione del governo Draghi di introdurre l'obbligo di vaccino o tampone per accedere ai luoghi di lavoro e di socialità. «Il lavoro è un diritto - era il suo ragionamento - non può esistere che si debba pagare per poter entrare in fabbrica o in ufficio». Una questione di principio, per Landini, che (siamo a metà settembre) sfidava Draghi: «Il governo non ha saputo prendere la decisione dell'obbligo vaccinale per le sue divisioni interne, abbia il coraggio di dirlo. Hanno fatto tutto senza consultarci, come sempre, e ora pretendono che a pagare siano i lavoratori». La soluzione proposta dal leader sindacale era la stessa escogitata ora da Beppe Grillo: tamponi gratis (ossia a spese dei «padroni» e dei contribuenti vaccinati) per i novax: «Il costo non può essere a carico del lavoratore: siano le aziende, con l'aiuto dello Stato, a sostenere le spese per garantire a tutti il diritto di lavorare». Rivendicazioni simili a quelle arrivate dai tumulti no-green pass, in sostanza. È una classica vicenda da apprendisti stregoni, che prima invocano e animano la sarabanda, e poi ne rimangono vittime. Prova ne sia il fatto che non sono stati solo gli squadristi di Forza Nuova a prendersela col capo della Cgil, ma anche il fronte uguale e contrario della «protesta rossa»: dai Cobas a Rifondazione comunista, passando per centri sociali e studenti di sinistra, che hanno bersagliato Landini e la Cgil, che ha contestato prima ma non impedito poi l'introduzione del pass, a suon di «venduti» e «servi dei padroni». Che la posizione iniziale di Landini sia stata ambigua lo ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Si è illuso, secondo me sbagliando, che l'obbligo vaccinale gli risparmiasse la gestione dei conflitti sui luoghi di lavoro: credo sia stata una scelta errata». E non è un caso che, dopo l'assalto novax alla Cgil, Landini abbia un po' pattinato sui fatti, negando l'evidenza: «L'attacco squadrista non c'entra nulla con il Green Pass», ha sostenuto. «È stato un assalto contro il mondo del lavoro e il sindacato». E subito ha convocato una manifestazione pro-Cgil (da tenere, certo del tutto casualmente, alla vigilia dei ballottaggi) con parole d'ordine sufficientemente vaghe da non entrare minimamente nel merito delle agitazioni degenerate in vandalismo: «Per il lavoro e la democrazia». Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma non un fiato contro i novax del no-green pass. Laura Cesaretti 

I disordini, i terribili giorni del Quirinale e le Porte dell'Inferno. Piccole Note l'11 ottobre 2021. “Né con lo Stato né con i No Vax è un lusso che nessuno può concedersi”. Così Michele Serra sulla Repubblica (vedi Dagospia) a commento delle recenti violenze di piazza. L’azione degli estremisti di destra, che è riuscita a dirottare una manifestazione contro il Green pass su lidi violenti e contro la sede della Cgil, si è così realizzata con successo, avendo conseguito il risultato di criminalizzare la resistenza a un’iniziativa politica discutibile e che si vuole indiscutibile. Ciò non perché lo scriva il povero Serra, ma perché egli dà voce alla narrativa che va consolidandosi e che porta in tale direzione. Gli estremi, al solito, fanno il gioco del potere, anzi ne sono utilizzati, una pratica che l’Italia conosce dai tempi della strategia della tensione. Ma allora occorreva cercare i manovratori dei fili – i Burattinai, come da titolo di un interessante libro di Philip Willan, cronista inglese e quindi più libero di altri – oltre i nostri confini, come ad esempio la scuola parigina di lingue Hyperion, frequentata da Mario Moretti e Corrado Simioni, alti funzionari della macchina del Terrore. Oggi le scuole dove si intrecciano tali indebiti rapporti sembrano essere più prossime, dato che quelle che un tempo erano infiltrazioni negli apparati dello Stato e nella politica hanno ormai rotto gli argini e dilagato. Peraltro, la funzionalità al potere di tali frange estreme la denota l’obiettivo delle violenze: la sede della Cgil, che nulla ha a che vedere con l’introduzione del green pass. Si restringono così i già esigui spazi di resistenza al provvedimento, diventato, agli occhi di tanti, un simbolo di un’asserita deriva autoritaria, nonostante forse tale deriva si concretizzi in altro e ben più stringente (anche se un pass per lavorare, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, così il primo articolo della Costituzione, lascia ovviamente perplessi). In realtà, reputare che il green pass sia un mezzo di controllo dei cittadini, almeno al momento e in tali forme, appare tema controverso, per il fatto che, ad esempio, tale controllo si verifica da tempo e in modo ben più capillare attraverso la rete e l’intelligenza artificiale che la scandaglia a strascico a uso e consumo del potere reale.

Certo, il pass è un simbolo, ma la guerra ai simboli rischia di diventare anch’essa simbolica, cioè distaccata dal reale e, come tale, si presta alle strumentalizzazioni del caso. Il potere, quello reale, vive di simboli, e nella dialettica simbolica si rafforza. Servirebbe un singulto di realismo, ma sembra ormai troppo tardi, dato che l’Italia è stata consegnata, e si è consegnata, a certo potere transnazionale, con la politica inerme o funzionale a esso (ma meglio gli inermi, ovviamente). Da questo punto di vista, le elezioni amministrative sembrano aver confermato tale deriva: non per nulla, all’indomani di queste, Dagospia, l’ultimo media italiano e come tale organo ufficiale del potere reale (con labili spazi alternativi), dichiarava con enfasi: “Ha vinto Draghi”. E ciò non tanto per la vittoria del cosiddetto centro-sinistra (che di sinistra non ha più nulla) nelle città più importanti, un risultato che dopo i disordini di sabato sembra doversi confermare nel secondo turno romano – dove tale vittoria era più che probabile, ma non certa -, quanto per la stretta che il potere ha operato in questa occasione, come confermato dai disordini in oggetto. Da questo punto di vista, per tornare nel campo dei simboli, come il crollo del ponte Morandi ha salutato, con saluto nefasto, l’intemerata sfida al potere reale posta, nonostante le tante ambiguità, dal cosiddetto governo giallo-verde, le fiamme che hanno divorato il ponte di ferro di Roma sembrano inaugurare una nuova stagione italica. Una stagione che vede aprirsi i terribili giorni del Quirinale, come ebbe a definirli l’ex presidente Francesco Cossiga al momento di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato. Giorni che, in maniera simbolica, si aprono con una mostra realizzata presso le Scuderie del Quirinale, dedicata all’Inferno, con i visitatori che verranno accolti al loro ingresso, come recita la guida, dall’opera di Rodin “Le porte dell’Inferno“. In realtà, si tratta di una celebrazione in onore di Dante, nella quale le artistiche evocazioni infernali vanno a concludersi col noto finale della sua Commedia divina, cioè con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Conclusione di una commedia, appunto, che, come tale, ha il lieto fine ascritto nella sua essenza. Nel caso italico, che più che commedia appare tragedia, tale conclusione resta tutta da vedere.

Alessandro Sallusti, tra le spranghe di Forza Nuova e le parole del Pd non vedo grande differenza. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 ottobre 2021. Caro Dago, il mio amico e conterraneo Francesco Merlo, che non è soltanto uno dei più valorosi giornalisti della sua generazione ma anche uno dei più colti (Il che non guasta persino nell’attività giornalistica), mi fa via mail alcune obiezioni alla mia riluttanza a usare il termine “fascismo” a proposito di quelle oscene macchiette che hanno sfondato le finestre per poi devastare gli arredi della sede nazionale della Cgil. A me che sul “Foglio” avevo scritto che Benito Mussolini e Giuseppe Bottai si stanno rivoltando nella tomba a sentire chiamare “fascisti” le suddette macchiette. Francesco replica che nel fascismo non c’erano soltanto tipi come Bottai ma anche come il famigerato Alessandro Carosi, strenuo combattente nella Prima guerra mondiale, uno che da squadrista e uomo di fiducia del capo della federazione fascista pisana si autoproclamava autore a colpi di una rivoltella Mauser di 11 omicidi e 20 ferimenti. Se è per questo era un fascista cento per cento anche Amerigo Dumini (accento sulla “u”), quello che a capo di altri quattro squadristi agguantò per una strada di Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti per poi martoriarlo e ucciderlo nella stessa auto con cui lo avevano rapito. Ebbene, nell’usare noi il termine “fascista” a cento anni dalla marcia su Roma è su personaggi alla maniera di Carosi e di Dumini che dobbiamo fare perno - e dunque stabilire eguaglianze tra ieri e oggi - o valutare il fascismo italiano (forse sarebbe più esatto dire “il mussolinismo”) nel quadro dello spaventoso collasso delle democrazie occidentali nel primo dopoguerra, e tanto più alla luce della minaccia che su quelle democrazie proveniva dal riuscitissimo colpo di mano bolscevico nella San Pietroburgo dell’ottobre 1917? A cento anni di distanza dobbiamo valutare il fascismo (e la sua riuscita e la sua durata) come un fenomeno storico-politico o come un fenomeno meramente criminale? A cento anni di distanza, ripeto. E’ assurdo dire che il fascismo storico è morto e sepolto il 25 aprile 1945, e che da quel giorno tutti coloro che levano la mano destra nel saluto fascista rientrano in una tutt’altra narrazione civile e culturale? E’ assurdo, caro Francesco, dire che a usare il termine “fascismo” oggi come un randello con cui bastonare i più volgari tra quelli che ci stanno antipatici non spieghi nulla di ciò che è proprio alle democrazie complesse dell’Europa del terzo millennio? A me sembra evidente che non è assurdo affatto, anzi è salutare a voler fronteggiare i pericoli odierni che incombono sulla nostra democrazia. Dirò di più. E’ totale la mia riluttanza a usare termini generalissimi nati nei contesti i più drammatici del Novecento. Fosse per me non userei mai e poi mai il termine “Resistenza”, e bensì il termine “guerra civile”, un termine che fino a vent’anni fa era off-limits fra le persone politicamente dabbene e che invece spiega cento volte meglio che cosa accadde lungo tutto lo stivale in quei due anni stramaledetti. Certo che nel fascismo c’era anche Carosi. Epperò nella Resistenza c’erano anche quei partigiani che al limitare di Bologna - non ricordo più se alla fine del 1945 o all’inizio del 1946 - intercettarono un diciassettenne in bicicletta e gli chiesero chi fosse. Era il figlio di Giorgio Pini, un giornalista fascista (e persona immacolata) che era in quel momento in carcere e al quale suo figlio aveva appena fatto visita. Il cadavere di quel diciassettenne non è mai più stato ritrovato. Per essere un episodio meramente criminale, fa adeguatamente il paio con l’atroce itinerario umano e politico di Carosi. Non per questo noi useremo il termine “Resistenza” a partire da questo episodio. Semplicemente, almeno per quanto mi riguarda, lo useremo il meno possibile. Tutto qui. Un abbraccio, Francesco

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro il 12 Maggio 2019 su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

Antifascisti, siete anticomunisti? Marco Gervasoni il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi "antifascisti" ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi «antifascisti» ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. Quando poi nel 2009 a Onna, sulle rovine del terremoto, il Cavaliere presidente del Consiglio vi prese parte e pronunciò anche un bel discorso, la sinistra spostò il tiro su altre questioni, e accadde quel che sappiamo. Questo per dire che, in buona parte dei casi, come questo di una «inchiesta» diffusa a due giorni dal voto, l'antifascismo è solo un pretesto, e anche molto ipocrita e peloso. Sarebbe tuttavia limitativo fare spallucce e rispondere solo in questo modo. In primo luogo perché l'argomento fa parte della lotta politica ed è utilizzato come arma, a cui bisogna rispondere. In secondo luogo, perché l'antifascismo è si qualcosa che appartiene al passato ma il passato, anche quello antico, fa sempre parte del presente - la storia è sempre storia contemporanea, noto adagio crociano. E tra fascismo e antifascismo non ha solo vinto quest'ultimo ma la ragione stava da questa parte: da quella di Roosevelt, di Churchill, di De Gaulle, di De Gasperi, di Sturzo, di Einaudi, di Matteotti e dei Fratelli Rosselli, e cosi via. A un regime che si impose con la violenza, soffocando la libertà e la democrazia, come quello fascista, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e tutti i militanti ed elettori di Fdi sono lontani anni luce; e oggi sicuramente lo combatterebbero. Dal nostro punto di vista quindi, non dovrebbe esserci problema alcuno a dichiararsi antifascisti. Purché ci si dica al tempo stesso anticomunisti. I due termini dovrebbero essere inseparabili: non si può essere antifascisti se non si è anche anticomunisti. Come scriveva François Furet, tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici: basti pensare a Stalin, a Tito, e via dicendo. Allo stesso tempo, non si può essere anticomunisti se non ci si definisce pure antifascisti: perché la lotta al comunismo va condotta avendo in mente la democrazia e la libertà, non esperimenti autoritari. Si tratta di questioni storiche passate? Forse. Sta di fatto che il fascismo è morto nel 1945 mentre il comunismo è vivo e vegeto (la Cina, a Cuba, alla Corea del Nord ecc) e alle Comunali si parano miriade di liste con falce e martello. E allora rivolgiamo noi la domanda agli antifascisti (a fascismo morto) in servizio permanente ed effettivo: siete disposti a dichiararvi anticomunisti? Marco Gervasoni 

"Inchieste sotto elezioni. Come con Berlusconi..." Serenella Bettin il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex pm: "Strane inchieste a ridosso del voto. Con il Cavaliere questo è sempre accaduto". Luca Morisi per diversi anni è stato responsabile della comunicazione della Lega e di Matteo Salvini. È lui l'artefice della bestia social di Matteo Salvini. Analizzava i tweet e i discorsi. Ora è indagato dalla procura di Verona per detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. La vicenda è emersa a cinque giorni dal voto anche se l'indagine è di oltre un mese. Un caso? Il Giornale ne ha parlato con Carlo Nordio, magistrato, ora in pensione, ex procuratore aggiunto di Venezia. Il titolare dell'inchiesta Mose. Colui che ha alle spalle le indagini di Mani Pulite, le Brigate Rosse, Tangentopoli.

Questa indagine che colpisce Luca Morisi, non è strana a pochi giorni dal voto?

«In un certo senso è strano, tuttavia poiché in Italia come da regolamento le elezioni si fanno ogni anno è possibile che si tratti anche di una coincidenza. È un fatto tuttavia che alla vigilia delle elezioni, la politica tenda a strumentalizzare ogni forma di indagine anche se infondata, nei confronti degli avversari. L'hanno sempre fatto, anche con Berlusconi. A pochi giorni dal voto usano l'indagine. Queste indagini vengono strumentalizzate a fini politici per delegittimare l'avversario».

Le accuse mosse a Morisi sono gravi?

«Giuridicamente no, anche perché la cocaina detenuta rientra nei limiti dell'uso personale e quindi non costituisce reato. Quanto alla possibilità di spaccio per ora manca la prova, sia della avvenuta cessione, sia della natura della sostanza ceduta cioè se sia stupefacente o meno».

Un leader di un partito è tenuto a sapere dei vizi del suo staff e a renderne conto?

«Un leader non è assolutamente tenuto a risponderne giuridicamente e non è neanche tenuto a esserne a conoscenza. Prudenza però vorrebbe che ci si informasse dettagliatamente anche sulla vita privata di chi ci sta vicino proprio per evitare le strumentalizzazioni di cui parlavo prima. Sotto un profilo mediatico si tratta di una vicenda che avrà conseguenze negative».

La notizia può essere di rilevanza pubblica? A noi veramente interessa?

«A noi in quanto italiani la vita privata di un individuo non può e non deve interessare. Ma quando si ha una forte esposizione mediatica si è tenuti per una propria convenienza a una condotta prudente».

Dopo gli scandali che hanno coinvolto la magistratura, potrebbe esserci un tentativo di pilotare le elezioni da parte delle procure?

«No. Probabilmente c'è stato negli anni passati, ma ora escludo che ci sia una gestione pilotata per influenzare le indagini».

Perché queste cose accadono sempre contro una certa parte politica?

«In realtà non è accaduto sempre contro una certa parte politica, basta vedere il sindaco di Riace. In questo caso è stata la condotta imprudente di Morisi che l'ha cacciato in questo guaio. Non è reato ma...»

Però assistiamo a una sinistra che assolve un ex sindaco anche se condannato e condanna una persona per la quale ancora non c'è alcuna condanna.

«Sono due situazioni assolutamente non assimilabili. Sul caso Morisi c'è semplicemente un'indagine e probabilmente nemmeno un reato, dall'altro c'è una condanna ed è anche vero che il sindaco si era vantato di aver violato la legge. Che poi la condanna sia alta, anche questo è possibile».

Salvini ne uscirà danneggiato?

«Salvini ne uscirà danneggiato dal punto di vista mediatico, ma non sarà un danno grave. Il contenuto della politica conta più di queste vicende personali. Quello che conta per lui sarà una prudenza su argomenti sensibili come il green pass senza cedere alle emotività di alcuni estremisti». 

Serenella Bettin. Sono nata nelle Marche, vivo in Veneto. Firmo sul Giornale dal 2016. Mi occupo di attualità, cronaca e immigrazione. 

Meloni, l'ira e l'orgoglio. "Linciaggio di un partito orchestrato a tavolino". Fabrizio De Feo il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi in un video: "Non ci mostrano il girato integrale, cosa devono nascondere?" La «polpetta avvelenata» a pochi giorni dal voto, il linciaggio di un intero partito, le trappole disseminate lungo un percorso politico. Giorgia Meloni in un video torna sulla vicenda Fanpage e passa con decisione al contrattacco. «Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni per oltre 22 reati come associazione a delinquere, truffa aggravata, peculato. Per la sinistra non solo è innocente, è un eroe: perché è uno di loro. Carlo Fidanza invece viene condannato a morte per 10 minuti di video senza nemmeno un'indagine. Perché è uno di noi. E con lui veniamo condannati tutti, migliaia di militanti appassionati che hanno preso un partito dal niente e contro tutto e tutti lo hanno portato a essere il primo partito». La convinzione della leader di Fdi è chiara. «Non sono una persona abituata a nascondersi, non voglio farlo neanche stavolta. Banalmente perché non c'è niente di cui mi debba vergognare. Quello che penso è che, per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo». L'attenzione si concentra sulla coincidenza temporale, sulla pubblicazione del video in prossimità del voto nelle grandi città. «Tre anni di giornalista infiltrato, 100 ore di girato, dalle quali vengono estrapolati 10 minuti di video tagliati e cuciti arbitrariamente, piazzati in prima serata a due giorni dalle elezioni e dal silenzio elettorale. Quando loro possono parlare di te e tu non puoi difenderti, quando le persone devono decidere se votarti o no il giorno successivo, perché oggi si vota». «Ho chiesto a Fanpage di avere l'intero girato per sapere esattamente come siano andate le cose e come si siano comportate le persone coinvolte. Il direttore di Fanpage ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Capiamoci, io voglio andare a fondo nella vicenda perché dalle nostre parti siamo parecchio rigidi sulle regole di comportamento dei nostri dirigenti». Ma dentro Fdi sono convinti che ci siano immagini ed registrazioni in grado di scagionare il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo. Giorgia Meloni a questo punto chiede un risarcimento mediatico. «La prossima settimana, sempre in campagna elettorale, Piazzapulita farà un'altra puntata su questo tema. Confido che Corrado Formigli, dall'alto della sua onestà intellettuale tipica dei giornalisti che non sono di parte, manderà in onda integralmente anche questo mio video». Richiesta accolta dal conduttore: «Il nostro invito a Giorgia Meloni resterà valido fino a giovedì, così avrà tutto il tempo per rispondere nel merito sui contenuti del video di Fanpage che abbiamo mandato in onda», dice all'Adnkronos. Ma alla leader di Fdi, non basta: «Sarò lieta di accettare il tuo invito quando il direttore di Fanpage mi fornirà il girato delle 100 ore. Altrimenti forniscimelo tu: immagino che prima di mandare in onda il video di 13 minuti realizzato da altri avrai controllato il materiale. O no?». Il direttore di Fanpage non ritiene che la coincidenza con il voto possa destare sospetto. E aggiunge: «Se Giorgia Meloni ritiene che l'inchiesta sia stata montata ad arte, ha tutti gli strumenti giuridici per far valere le sue ragioni». Intanto all'attacco della Meloni va il leader M5s Giuseppe Conte, che parla di «attacchi strumentali» e accusa: «Hai continuato a fare propaganda durante il silenzio elettorale attaccando Virginia Raggi per l'incendio che ha devastato il ponte di Ferro». Fabrizio De Feo

Il direttore di Fanpage insiste: "Giusta l'inchiesta prima del voto". Luca Sablone il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fratelli d'Italia chiede il video integrale, ma per il direttore Cancellato "è una forzatura". L'ira della Meloni: "Dicono che la nostra richiesta è oscena". L'inchiesta di Fanpage continua ad agitare la politica anche a urne aperte. Da una parte il centrosinistra coglie l'occasione al balzo per tentare di affossare gli avversari a ridosso delle elezioni; dall'altra Fratelli d'Italia si sente attaccato e denuncia il tempismo con cui è stato reso neto il servizio. Il reportage di Fanpage è stato pubblicato a poche ore dall'inizio del silenzio elettorale: proprio per questo motivo Giorgia Meloni è andata su tutte le furie.

La leader di FdI continua a chiedere di poter visionare le 100 ore di filmato integrale per poter prendere atto dei comportamenti dei suoi dirigenti e prendere eventualmente le dovute conseguenze. Il sospetto di Fratelli d'Italia è che possano essere stati omessi importanti aspetti che potrebbero invece ribaltare la situazione. Anche perché c'è più di qualcosa che non torna. Ma da parte del direttore di Fanpage è arrivata una chiara risposta in merito alla richiesta della Meloni.

Il "no" del direttore di Fanpage

Il centrodestra teme che le tempistiche di pubblicazione dell'inchiesta siano piuttosto sospette. Su questo però Francesco Cancellato - intervistato dal Corriere della Sera - ha sottolineato che "né il codice deontologico, né il codice civile prevedono un calendario che dica quando uscire". Anzi, il direttore della testata web ha rivendicato la scelta fatta: ritiene assolutamente doveroso che un'inchiesta, quando riguarda un candidato, "per l’interesse pubblico debba andare in onda prima delle elezioni".

Quanto alla posizione della presidente di Fratelli d'Italia, Cancellato ha fatto sapere che il girato oggetto della prima puntata "sarà acquisito dalla procura della Repubblica che ha aperto un fascicolo". Ma c'è di più: il direttore di Fanpage reputa quella della Meloni "una forzatura" e l'ha invitata a "far valere le sue ragioni" se ritiene effettivamente che si sia trattata di un'inchiesta "montata ad arte".

L'ira della Meloni

In mattinata Giorgia Meloni ha pubblicato sui propri canali social un video per fare chiarezza sulla vicenda. Nel mirino è finito il servizio di Fanpage che vorrebbe dimostrare come la "lobby nera" starebbe cercando di entrare nella campagna elettorale della destra a Milano. Un effetto lo ha già prodotto: l'europarlamentare Carlo Fidanza si è autosospeso dal partito. Ieri la leader di Fratelli d'Italia ha parlato di "polpetta avvelenata", facendo notare che il video è stato mandato in onda nell'ultimo giorno di campagna elettorale "per fare sì che stesse sulle prime pagine nel giorno di silenzio elettorale".

Oggi la Meloni è tornata all'attacco senza mezzi termini: "Per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo". E ha ribadito la richiesta di poter visionare il girato integrale: "Il direttore ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Cosa c'è che non devo vedere? La sua risposta è oscena".

Va tuttavia riportata la contro-replica del sito web: Fanpage in un articolo ha accusato la leader di FdI di aver inventato "di sana pianta una dichiarazione del direttore Francesco Cancellato", che invece "non ha mai definito oscena la richiesta di visionare l'intero girato". Dunque quella della Meloni viene giudicata "una vera e propria fake news, un'invenzione di sana pianta, una balla".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Carlo Fidanza e l'agguato a FdI, Alessandro Sallusti: "Tre anni di microfono nascosto per un ragno dal buco". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Domani si vota per rinnovare i sindaci di alcune delle più importanti città italiane e il governatore della Calabria. Magistrati e giornalisti nelle ultime settimane hanno frugato nel bidone della spazzatura in cerca del colpo grosso per screditare i partiti del Centrodestra ma questa volta, nonostante lo spiegamento di forze, il bottino è stato misero e il tanfo prevale nettamente sulla sostanza. La vicenda condita con droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, col passare delle ore appare sempre più come una bufala costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Poi c'è il pacco che il sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, ha confezionato contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un giornalista munito di microfono nascosto si è finto supporter di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari ma cavandone di fatto un ragno dal buco. Ovviamente sono rimaste impresse stupide frasi e un immancabile saluto romano, però sono certo che nessuno, neppure i giornalisti autori e complici di questo pazzesco scoop, uscirebbero formalmente lindi e immacolati da tre anni di microfoni nascosti. Salvo colpi di scena dell'ultima ora la controcampagna elettorale dei nostri eroi democratici quasi tutti amici e sostenitori di Mimmo Lucano - l'ex sindaco di Riace pro immigrati condannato ieri l'altro a tredici anni perché truffava lo Stato - si ferma qui. Non penso che queste cose sposteranno un solo voto, semmai hanno fatto contenti i non pochi nemici interni che Morisi aveva nella Lega e Fidanza in Fratelli d'Italia. La sostanza è che la campagna elettorale più surreale e pasticciata nella storia del Centrodestra si chiude con una foto dei tre leader - Meloni, Salvini e Tajani - seduti allo stesso tavolo, e questo fa ben sperare per il futuro. La stessa cosa oggi non possono farla Letta, Conte e Bersani che nelle urne sono avversari dopo settimane passate a darsele di santa ragione. Insomma, nel casino che è la politica il Centrodestra, al dunque, resta una certezza. Dall'altra parte, come al solito, è caos al motto di "nemici al primo turno, semmai amici ai ballottaggi" ma solamente per fermare le destre. Sai che grande programma politico... 

Alemanno: «L’hanno condannato per ciò che è, non per ciò che ha fatto». Il caso di Mimmo Lucano, ma anche quello di Morisi e l'inchiesta di Fanpage vista dall'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 ottobre 2021. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma e con una pesante vicenda giudiziaria ormai alle spalle dopo l’assoluzione in Cassazione, spiega che Mimmo Lucano è stato condannato «non per quello che ha fatto, ma per il ruolo che ha interpretato; per quello che è, non per quello che fa» e commenta: «Con questa vicenda la sinistra ha riscoperto il garantismo, ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta attaccando Lucano è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico».

A freddo, che idea si è fatto sulla condanna dell’ex sindaco di Riace?

Occorre fare due osservazioni: la prima è che bisogna aver fatto il sindaco nella vita per rendersi conto di quante difficoltà ci sono nel portare avanti questo mestiere. I sindaci devono prendere le decisioni più difficili dal punto di vista amministrativo e quindi sono i più esposti ad azioni penali, amministrative e della Corte dei Conti. Secondo, è riemersa la tendenza del garantismo a senso unico: quando viene colpito uno di sinistra protesta la gente di sinistra, quando viene colpito un personaggio di destra protesta la destra. In questo caso la sinistra ha riscoperto il garantismo ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico.

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Molti hanno criticato i tredici anni e due mesi di condanna, un periodo ritenuto abnorme rispetto ai reati contestati. Come la giudica?

Le sentenze siamo obbligati a rispettarle, ma possono essere criticate. Rispetto alla sentenza penso sia enorme perché tredici anni si danno per omicidio, mi sembrano davvero troppi. Ma bisogna saper leggere tra le righe per capire i meccanismi mentali che hanno animato questa sentenza. Poi leggeremo le motivazioni ma in base ai reati per i quali è stato condannato risulta fondamentale il fatto di avere un progetto politico, trasformato in associazione per delinquere, e il fatto di aver portato soldi alle cooperative per immigrati, azione trasformata in peculato.

Si spieghi meglio.

Non condivido affatto l’immigrazionismo estremo di Lucano e credo ci sia stata molta demagogia nella sua politica. Ma da qui a pensare che siano stati commessi reati significa arrivare alla criminalizzazione della politica. Io sono stato incriminato perché sollecitavo a una cooperativa un pagamento al Comune ma non si era capito che è normale che un sindaco lo faccia. Lucano voleva apparire come il campione dell’immigrazione e non lo condivido ma da qui a pensare che abbiamo commesso reati ce ne passa.

Ieri in un’intervista Lucano a chiamato in causa un magistrato e un politico di razza. Crede ci sia stato un disegno contro l’ex sindaco di Riace?

Non c’è nessun disegno contro Lucano. Anzi la tendenza del sistema è quella di favorire l’immigrazione. C’è invece una mentalità sbagliata dei giudici, anche se non so cosa li abbia spinti a condannare Lucano. Il punto è che non hanno condannato quello che ha fatto, ma il ruolo che ha interpretato. L’hanno condannato per quello che è, non per quello che fa. Un atteggiamento che si rileva ogni giorno nell’azione della magistratura. D’altronde i sindaci di tutta Italia sono continuamente colpiti da azioni penali e amministrative per atti che fanno parte della normale vita di una città.

Dunque nessun complotto di chi, magari, lo avrebbe voluto fuori dalle elezioni di domani e lunedì, nelle quali Lucano è in corsa nella lista di De Magistris?

Di fronte a un teorema si cade nella tentazione giudice di Magistratura democratica. E questo dimostra che ero stato condannato perché espressione di un modo di fare politica, non per le mie azioni.

Tornando al garantismo paragonato al caso Morisi, che differenze ci sono tra destra e sinistra nell’affrontare certe vicende?

Sicurante quando c’è di mezzo qualcuno di centrodestra l’aggressione mediatica è molto più forte e non c’è dubbio che l’attacco a Morisi è di gran lunga superiore rispetto a chi critica Lucano. Tantissime voci si sono alzate nel dire che quella contro Lucano è stata una sentenza abnorme, mentre quasi nessuno ha difeso Morisi, protagonista di una vicenda, per quanto ancora da verificare, del tutto personale.

Due giorni fa è arrivata poi l’inchiesta di Fanpage che ha provocato l’autosospensione di Fidanza da Fratelli d’Italia, «guarda caso a due giorni dal voto», ha detto Meloni. Crede anche lei sia stata fatta uscire apposta?

Certamente, e vale sia per il caso di Fidanza che per quello di Morisi. L’inchiesta di Fanpage è durata tre anni e guarda caso è stata tirata fuori a due giorni dalle elezioni, con Fratelli d’Italia che va a gonfie vele. La vicenda Morisi è ancora peggiore, perché risale ad agosto ed è venuta fuori solo ora.

Nell’inchiesta di Fanpage alcuni gesti e commenti di Fidanza sono inequivocabili.

I fatti sono che un giornalista sotto copertura ha ricavato pezzetti di video, con chissà quante ore buttate invece nel cassonetto, in cui si vedono certamente diverse cose di cattivo gusto ma sostanzialmente durante momenti di svago e “cazzeggio”. Ha fatto quindi bene Meloni a richiedere la visione dell’intero filmato.

Tornando a Lucano, in che modo si può invertire la rotta di un giustizialismo imperante sia a destra che a sinistra?

Soltanto con il dialogo. Le posizioni di Lucano non fanno che favorire l’invasione in atto nel nostro paese, che è molto pericolosa e sta creando danni sociali ed economici gravi. Le persone che arrivano sono destinate a essere sfruttate dalla malavita e quindi non condivido la santificazione di Lucano fatta in passato. Ma sono un suo avversario politico e penso che le scelte politiche non possano essere decise in un’aula di tribunale. Detto questo, quella della giustizia ad esempio è la classica riforma che andrebbe fatta insieme. Con l’obiettivo di arrivare a una maggior qualità della magistratura in senso meritocratico e dal punto di vista della responsabilità dei giudici.

Il caso del guru della comunicazione leghista. Il fango dei media su Morisi per colpire Salvini e i referendum sulla giustizia. Maurizio Turco, Irene Testa su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Il 2 febbraio, incontrando Matteo Salvini per proporgli di promuovere insieme una campagna sulla giustizia giusta, lo mettemmo in guardia ricordandogli quanto accadde a seguito del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati nel 1987. La storia si ripete. Da alcune settimane notiamo da Radio radicale come i media si stiano accanendo a sollecitare tra i dirigenti della Lega una alternativa a Matteo Salvini. Il bombardamento mediatico delle ultime settimane non va confuso con la cronaca di un dibattito interno, a quel momento inesistente. Poi è arrivata la vicenda di Luca Morisi. Sul lato personale non abbiamo nulla da dire: sono scelte personali e i protagonisti sono maggiorenni. Se ci sono risvolti penali sarà un giudice a decidere. Dal punto di vista politico è evidente la contraddizione tra la sua attività pubblica e la sua vita privata. Attività che non condividiamo nel merito e nei toni. Detto questo, sarebbe una novità se la vita privata di una persona esposta come Luca Morisi non fosse nota, se non attenzionata, da qualche istituzione. Ormai è certo che si sta usando la vicenda Morisi per colpire Matteo Salvini e la Lega nel momento in cui il loro massimo impegno è sulla campagna elettorale e sui referendum giustizia. Non ci stupisce: è la reazione del regime italiano che non tollera sbavature democratiche. Avevamo salutato la decisione di Matteo Salvini di promuovere i referendum sulla giustizia come una evoluzione, e salutiamo positivamente la sua decisione di abbracciare anziché abbandonare Luca Morisi. C’è chi vuole che Matteo Salvini sia condannato al suo passato e marginalizzato, noi lo ringraziamo per aver rimesso al centro del dibattito pubblico la questione giustizia “la più grande e grave questione sociale di questo paese” e gli chiediamo di non mollare quello che può rappresentare l’inizio di un processo riformatore. Maurizio Turco, Irene Testa

Palamara non ha dubbi: «Morisi sputtanato dal “Sistema”». L'ex capo della procura di Roma, Palamara in un'intervista spiega che l'indagine su Morisi è uscita dai soliti "burattinai". «Dietro c'è sempre il Sistema». su Il Dubbio l'1 ottobre 2021. Luca Palamara, in un’intervista a Libero, parla del caso del momento, ovvero di Luca Morisi e l’indagine per cessione di stupefacenti aperta dalla procura di Verona che ormai è diventata una questione politica, visto che l’indagato è l’ex Guru social di Matteo Salvini. «Noto la sovraesposizione mediatica in queste ore di una persona, il ragazzo rumeno, che racconta fatti risalenti a oltre due mesi fa. Chi ha fornito solo adesso questo genere di “pista”? Chi e perché acquisisce e utilizza informazioni per provare a manipolare l’agibilità democratica nel nostro Paese?» si domanda l’ex pm della procura di Roma, espulso dalla magistratura dopo lo scandalo delle nomine pilotate al Consiglio Superiore della Magistratura. Palamara, inoltre, cerca di dare una risposta su chi abbia veicolato la notizia dell’inchiesta ai giornalisti. «In questi casi si tratta dei soliti soggetti che puntano a strumentalizzare il processo penale. Da luogo in cui si accertano i fatti, il processo viene utilizzato per altri fini, servendosi in alcuni casi e a loro insaputa degli stessi magistrati. Bisogna allora scoprire chi sono i burattinai che scelgono quali informazioni dare, come darle e quando darle, avvalendosi sempre delle stesse firme giornalistiche». Si può paragonare Morisi a Palamara? Sono due vittime del “Sistema”? Ecco come la pensa l’ex segretario dell’associazione nazionale magistrati. «I casi sono profondamente diversi, ma la modalità con cui sono date le notizie è la stessa. Non entro nel merito se le notizie su Morisi siano vere o false. Però è certo che sono sistematicamente stritolati dagli ingranaggi del “Sistema” vite, carriere, affetti, immagine pubblica di persone prescindendo dall’accertamento della loro colpevolezza. Quando anche un processo dovesse accettarne l’innocenza sarà comunque rimasta la macchia. E chi risarcirà la vittima dallo sputtanamento subito? Mesi di prime pagine compensate da tre righe prima delle previsioni del tempo o dell’oroscopo?».

Luca Morisi, l'accusa di Luca Palamara: "Chi c'è dietro all'inchiesta, manipolano la nostra democrazia". Giovanni M. Jacobazzi su Libero Quotidiano l'1 ottobre 2021. «Una persona ieri al Corviale mi ha detto: "Ad ogni elezione qui passano i politici, chiacchierano, promettono e poi non ritornano. Il Serpentone è abitato da persone non da bestie". Io credo che quella persona con dignità abbia denunciato l'utilitarismo di certa politica. La gente è stanca e chiede il cambiamento». Corviale è il simbolo del degrado della sterminata periferia romana. Soprannominato Serpentone per essere lungo un chilometro, è un palazzo di edilizia popolare costruito negli anni '70, di 9 piani con 1200 appartamenti dove abitano circa 4500 persone, di cui molti anziani e disabili.

Dottor Palamara, lei è candidato con una sua lista alle suppletive per la Camera nel collegio Roma Primavalle. Dopo essere stato nelle ovattate stanze del Csm cosa prova a venire in queste zone dimenticate da tutti?

«Sto battendo il collegio in lungo e in largo. Ho incontrato tantissima gente che mi ha trasmesso rabbia e allo stesso tempo forza. Rabbia perché non è possibile assistere inermi all'ingiustizia sociale di persone abbandonate a se stesse. Forza perché se verrò eletto impiegherò tutte le mie energie per essere da pungolo all'amministrazione comunale in primis e alle istituzioni più in generale affinché si cerchi una soluzione alle problematiche di questo territorio».

Che candidatura è la sua?

«Una candidatura tematica che si rivolge a tutti. Chi è interessato al mio racconto e crede sia necessaria una discussione seria sulla giustizia, può votarmi ed io continuerò in Parlamento, ancora più libero di parlare e ancora più determinato, la mia battaglia per la verità».

Pensa di essere l'uomo del cambiamento? L'alternativa ai politicanti?

«Guardi, io penso di aver subito sulla mia pelle gli effetti del "Sistema". Parlo con la consapevolezza di chi si è passato dalla condizione di carnefice a quella di vittima. Forte della mia innocenza ho accettato la sfida mettendoci la faccia. Ora chiedo il giudizio dei cittadini sulla mia vicenda. C'è una frase del mio libro che può essere tranquillamente ribaltata: "Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all'inferno". Se gli elettori mi daranno fiducia potrò dire che "quando il Sistema decise di spedirmi all'inferno, l'elettorato decise di riportarmi in cielo".

Che pensa della vicenda di Luca Morisi?

«Innanzitutto noto la sovraesposizione mediatica in queste ore di una persona, il ragazzo rumeno, che racconta fatti risalenti a oltre due mesi fa. Chi ha fornito solo adesso questo genere di "pista"? Chi e perché acquisisce e utilizza informazioni per provare a manipolare l'agibilità democratica nel nostro Paese?» 

Chi può essere? Il procuratore della Repubblica di Verona ha smentito di aver dato la notizia ai giornali.

«In questi casi si tratta dei soliti soggetti che puntano a strumentalizzare il processo penale. Da luogo in cui si accertano i fatti, il processo viene utilizzato per altri fini, servendosi in alcuni casi e a loro insaputa degli stessi magistrati. Bisogna allora scoprire chi sono i burattinai che scelgono quali informazioni dare, come darle e quando darle, avvalendosi sempre delle stesse firme giornalistiche».

Morisi come Palamara, vittime del "Sistema"?

«I casi sono profondamente diversi, ma la modalità con cui sono date le notizie è la stessa. Non entro nel merito se le notizie su Morisi siano vere o false. Però è certo che sono sistematicamente stritolati dagli ingranaggi del "Sistema" vite, carriere, affetti, immagine pubblica di persone prescindendo dall'accertamento della loro colpevolezza. Quando anche un processo dovesse accettarne l'innocenza sarà comunque rimasta la macchia. E chi risarcirà la vittima dallo sputtanamento subito? Mesi di prime pagine compensate da tre righe prima delle previsioni del tempo o dell'oroscopo?». 

Quei veleni sulla lotta politica da “Mani pulite” alla “trattativa”. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia - intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Francesco Damato su Il Dubbio il 26 settembre 2021. Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali. Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi – spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia – intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela. A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente – ripeto fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede. Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali, un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta. A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria. È potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come – ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.

Magistratura, il vizio di fare politica delle toghe comincia con Tangentopoli: ecco la vera storia. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Il recente rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno con l'accusa di sequestro di persone in relazione alla vicenda della nave Open Arms di fatto trasforma una legittima decisione di governo in un reato penale. Vi è poco da stupirsi. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un conflitto fra la giurisdizione e la politica aperto da decenni e che rischia di lesionare in profondità le istituzioni liberaldemocratiche del nostro Paese. Per capirne di più, occorre partire dalla stagione della "grande slavina", quando a mezzo di un'incessante azione della magistratura in poco più di un anno, tra il '92 e il '94, finiscono sotto inchiesta, per violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, 385 deputati e 155 senatori dell'allora maggioranza di governo. In quei mesi, in Italia accade qualcosa di unico e che non trova riscontro in alcun Paese democratico, ovvero si realizza, in seguito alle inchieste di un gruppo di magistrati inquirenti, una radicale e violenta alterazione della rappresentanza politica con l'eliminazione dalla scena pubblica di tutti i partiti che avevano contribuito alla stesura della Costituzione e alla realizzazione del miracolo italiano in forza del quale il Paese passò in pochi decenni dalle macerie del Secondo conflitto mondiale a un ruolo di primo piano fra le maggiori potenze industriali dell'Occidente. A partire da quel biennio nulla sarà più come prima. Lo svolgimento della vita politica nella sua articolazione classica scandita da "elezioni - formazione di una maggioranza - sovranità della decisione politica" verrà condizionato pesantemente nei tempi e nei modi dagli interventi delle Procure. Eppure, vi fu chi nella tempesta di quei mesi intuì che la crisi in cui versava il Paese fosse di carattere sistemico e che, come tale, richiedesse una soluzione parlamentare in luogo di quella giudiziaria. Ciò non fu possibile, principalmente a causa dell'opposizione degli eredi del Pci. Si preferì cavalcare l'onda giustizialista, consentendo un'abnorme dilatazione delle funzioni giurisdizionali, convinti di poterne trarre benefici elettorali e non solo. Del resto, timori per finanziamenti illeciti e fenomeni corruttivi ve ne erano molti nel Partito comunista e non solo per l'ingente flusso di denaro proveniente dall'Urss. Lo storico Guido Crainz in Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, documenta che già nel marzo '74, nel corso di una direzione, il responsabile del bilancio, Guido Cappelloni, dice di essere «molto preoccupato sulla capillarità della corruzione che coinvolge anche il nostro partito». In quell'occasione così si espresse Armando Cossutta: «C'è un inquinamento nel rapporto con le amministrazioni pubbliche nel quale c'è di mezzo l'organizzazione del partito e poi ci sono dei singoli che fanno anche il loro interesse». Preoccupazioni che vengono risolte in parte con la legge di amnistia del 1989 e in parte scegliendo di agevolare lo sviluppo di ciò che Tate e Valinder chiamano «giudiziarizzazione della politica», ossia «lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso i tribunali». Questo, per sommi capi, il contesto storico-politico in cui maturarono i due grandi fenomeni che ancora oggi condizionano la vita pubblica del Paese: la «politicizzazione della magistratura» - con l'inevitabile «perdita di quell'immagine di neutralità senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia» - e la strumentalizzazione delle inchieste da parte della sinistra, al fine di eliminare quegli avversari che sul terreno politico non si è in grado di sconfiggere. È accaduto con il leader socialista Bettino Craxi e poi con Silvio Berlusconi, mentre ora si cerca di ripetere l'operazione nei confronti di Matteo Salvini. L'Italia scivola, in tal modo, verso una «democrazia giudiziaria». Uscirne sarà impresa difficile.

Storia e congiure. Così è nato l’uso politico della giustizia: da D’Artagnan e l’arresto di Fouquet ai giorni nostri. Alessandra Necci su Il Riformista il 13 Aprile 2021. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu. Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”. Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi. Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento. C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì. La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte. I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.

Draghi traballa sulla Giustizia. Come tutti i suoi predecessori. Berlusconi, Prodi, Conte...in Italia i governi cadono e le riforme falliscono sbattendo sempre sullo stesso scoglio: la Giustizia. Paolo Delgado su Il Dubbio il 6 giugno 2021. Perché è caduto il secondo governo di Giuseppe Conte? La risposta, nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe che quel governo è caduto perché Renzi ha deciso di togliere la fiducia. Non è del tutto falso ma neppure del tutto vero. Senza i voti di Iv Conte avrebbe potuto proseguire anche sino alla fine della legislatura con un governo di minoranza ed era deciso a farlo. Solo che avrebbe dovuto sacrificare il ministro 5S della Giustizia Bonafede e i 5S misero il veto: meglio le dimissioni del premier che il guardasigilli sfiduciato. Perché fallì il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, cioè la Bicamerale presieduta da D’Alema negli anni ‘ 90? «Perché Berlusconi si sfilò all’ultimo momento», recita la ricostruzione addomesticata che ha finito per sostituire quella reale. In realtà, come ha più volte raccontato l’allora relatore Cesare Salvi, quella riforma naufragò perché il partito di D’Alema non se la sentì di sfidare il potere togato e chiese che su tutta la Carta si intervenisse tranne che sulla giustizia. Pretesa ovviamente inaccettabile. Non è tutto qui. Un’inchiesta fiaccò il primo governo Berlusconi rendendo possibile la sua caduta dopo pochi mesi a palazzo Chigi nel 1994. Una raffica di inchieste misero in ginocchio il Cavaliere, ne demolirono l’immagine in Europa e lo costrinsero alle dimissioni nel 2011. Fu un’inchiesta a fornire il casus belli per la caduta del governo Prodi nel 2008. Insomma, in Italia i governi cadono e le riforme falliscono sbattendo sempre sullo stesso scoglio: la Giustizia. Non è troppo strano che sia così. Nel bene e nel male la seconda Repubblica è fondata su un’inchiesta, quella che tra il 1992 e il 1993 distrusse i partiti della precedente Repubblica, Mani Pulite. Che il rapporto tra giustizia e politica abbia finito per essere il vicolo cieco dal quale la Repubblica tenuta a battesimo da Mani Pulite non è mai riuscita a venire fuori era nell’ordine delle cose. La sola via sarebbe stata non mettere al primo posto in agenda la convenienza a breve, ragionare davvero con lungimiranza avendo il coraggio di sfidare l’impopolarità e la forza per non cedere alla tentazione di considerare interesse supremo il danneggiare l’avversario. Quel coraggio e quella forza il Pds- Ds- Pd non la ha mai avuta ed è molto difficile che la abbia anche oggi. La ministra Cartabia lo ha detto chiaramente ma non è una politica ed è proprio ai politici che quel coraggio manca. Stavolta però è possibile che si stia preparandola mano finale. La riforma della giustizia è un obbligo, non più un optional. Che la maggioranza accetti il ricatto dei duri a cinque stelle, che considerano quella bandiera non sacrificabile neppure in parte, è impossibile e comunque non sarebbe ammissibile per la ministra. Di Maio, che di tutti i 5S è l’unica testa davvero politica, ha fiutato l’aria e ha fatto la mossa più dirompente nell’intera storia del Movimento. Ma Conte, a cui sulla carta spetterebbe il compito di guidare il disastrato vascello fuori dalle secche del populismo giustizialista, ha paura di scontentare la base di quello che dovrebbe diventare il suo movimento, teme di consegnarsi nelle mani infide di Di Maio ed è sottoposto al controllo stringente del Fatto, che nel vuoto di potere che si prolunga da mesi, acquista sempre più peso sulla base pentastellata allo sbando. Il Pd, nonostante le suggestioni di Bettini, non osa rompere l’alleanza di fatto con il potere togato sulla quale ha scommesso, molte volte più per paura e convenienza che per convinzione, nell’arco di tutti gli ultimi decenni. Ma i referendum da un lato e l’obbligo della riforma dall’altro costringeranno Letta a prendere una posizione se non chiara e drastica almeno non del tutto acquattata. Andando oltre la dichiarazione con cui Letta ha chiuso ogni spiraglio di confronto: «Il referendum non è la strada che il Pd vuole prendere, il Pd vuole fare la riforma, perché ci fidiamo di Cartabia e Draghi. Noi siamo molto d’accordo sulle loro proposte. Io a Salvini preferisco Cartabia e Draghi». Sulla riforma della giustizia emergeranno tutte le lacerazioni latenti non solo nella maggioranza ma anche nella sua “ala sinistra” e persino nelle singole componenti di quell’ala, inclusi stavolta i 5S. Sulla giustizia e solo sulla giustizia rischia Draghi e la giustizia e solo la giustizia può essere l’ostacolo fatale nei rapporti tra Pd e 5S. Ma la posta in gioco è altissima, perché senza uscire dal vicolo cieco del rapporto patologico tra politica e giustizia non ci sarà uscita possibile dalla palude degli ultimi decenni.

DAGONOTA il 7 giugno 2021. Dura lex sed lex. Ai media e ai molti postillatori (compresi i suoi ex colleghi di lavoro) basta una sentenza latina per voler mettere fine alla cupa tragedia che si è consumata alla vigilia delle festa della Repubblica (solo una lugubre coincidenza?): l’uscita dal carcere con il fine pena del killer mafioso del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta a Capaci. Nonché il responsabile materiale di oltre 150 omicidi tra i quali lo scioglimento nell’acido di un bambino, Giuseppe Di Matteo, il cui padre Santino stava pentendosi in tribunale. Il profilo criminale di Giovanni Brusca, troverebbe una giusta collocazione in quell’atlante dei “mostri” classificato a suo tempo dal medico e antropologo, Cesare Lombroso. E di tragedia si tratta in cui alla fine la vittima è soltanto la Giustizia. Neppure la trilogia di Eschilo scritta nel 460 a.C, avrebbe potuto mettere in scena un’Eumenidi in cui l’Aeròpago, l’istituzione tribunale che nonostante le furia accusatrice delle Erinni, oltrepassa l’antica legge del taglione per pronunciare infine un verdetto assolutorio per Oreste-Brusca a seguito dello scambio di ragionamenti razionali (pentimento e collaborazione). “L’ingiustizia si sopporta con relativa facilità. Quel che fa male è la giustizia”, ammoniva il saggista americano Henry Louis Mencken. Una giustizia che a un quarto di secolo dall’inizio di Mani pulite, attraverso il rovesciamento degli stessi dieci comandamenti della Chiesa, ha promosso nell’immaginario collettivo (e con le accuse) il rubare (tangenti) a crimine penalmente forse più grave e rilevante dall’uccidere. Lo stesso ordine delle pene e delle indagini è stato invertito: la presunzione d’innocenza sostituita con la carcerazione-confessione. E la gogna mediatico-giudiziaria è stata innalzata dai giornali dei poteri marci per fare tabula rasa di una classe politica e dirigenziale. L’uscita dal carcere in semilibertà di Brusca non fa che allargare una ferità già apertasi sulla credibilità (perduta) nel nostro sistema giudiziario. Nel recente sondaggio Ipsos pubblicato dal “Corriere della Sera” nel giro di undici anni la fiducia nei magistrati è passata dal 66 al 39 per cento. L’ultimo “potere” (o Casta) sopravvissuta alla cosiddetta “rivoluzione italiana” annunciataci via stampa e dalle tv. Un “potere” diventato tale, e non un ordine dello Stato indipendente come dovrebbe essere per la Costituzione e non come vorrebbero farci credere. Un “potere assoluto” che con il suo organo di autocontrollo (Csm) si autopromuove e si autoassolve nel gioco delle correnti o delle logge. L’affaire Palamara-Davigo-Amara con i loro indecenti balletti in tv è soltanto l’ultimo atto delle lotte intestine tra le correnti al Consiglio superiore della magistratura. Un meccanismo-tritacarne che, vale la pena ricordarlo, nella stagione siciliana dei corvi ha stritolato pure il povero Giovanni Falcone, ch’è stato soltanto uno degli ispiratori della legge sui collaboratori di giustizia che ora manda libero il suo boia Brusca. A capo della procura di Palermo la corrente di sinistra di Magistratura democratica gli preferì Antonino Mele. Una coltellata alla schiena inferragli anche dai pm di Mani pulite. «Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale?”, ricorderà quella stagione tormentata Ilda Boccassini. E ancora: “Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Giovanni mi ha telefonato e mi ha detto: Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali”. Già, nel giorno dei rimorsi di Brusca per i media è meglio dimenticare la Palermo dei veleni, dei corvi e delle contrapposizioni. “Giusto pensare per iscritto” sosteneva Voltaire, ma il mestiere d’informare, aggiungeva il filosofo Jean Francoise Revel, “comporta obblighi precisi” anche per la stampa in un sistema democratico. Ma anche sul “caso” Brusca è tutto uno sragionare in punta di diritto e di rovescio. “C’era la legge, ha funzionato”, azzarda l’ex pm Giuseppe Ayala perdendo di vista l’orrore della tragedia percepito dalla pubblica opinione. Quasi a voler giustificare quella che, sempre per Revel attento osservatore della vita dei tribunali, è una giustizia che alla gente “appare impersonale, inumana e meccanica”. Ed è quello che pensa davvero il popolo. “Del pentimento di Brusca mi importa poco. E’ un patto con lo Stato che credo utile. Ma la più umiliante violenza per i morti di Capaci è che lui è libero e la verità prigioniera”, osserva tagliente Claudio Fava, il figlio di Pippo ucciso dalla mafia. Le reazioni indignate dei familiari delle vittime di Cosa nostra, però, sono schiacciate sul Corrierone dal fiume di piombo del video-racconto di Giovanni Brusca. Camuffato come un narcotrafficante colombiano, il killer di Falcone chiede perdono ai parenti degli uccisi. Di che si tratta? Di un mea culpa spontaneo o di una messinscena imposta dal programma di collaboratore di giustizia?

Magistratura, il vizio di fare politica delle toghe comincia con Tangentopoli: ecco la vera storia. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Il recente rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno con l'accusa di sequestro di persone in relazione alla vicenda della nave Open Arms di fatto trasforma una legittima decisione di governo in un reato penale. Vi è poco da stupirsi. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un conflitto fra la giurisdizione e la politica aperto da decenni e che rischia di lesionare in profondità le istituzioni liberaldemocratiche del nostro Paese. Per capirne di più, occorre partire dalla stagione della "grande slavina", quando a mezzo di un'incessante azione della magistratura in poco più di un anno, tra il '92 e il '94, finiscono sotto inchiesta, per violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, 385 deputati e 155 senatori dell'allora maggioranza di governo. In quei mesi, in Italia accade qualcosa di unico e che non trova riscontro in alcun Paese democratico, ovvero si realizza, in seguito alle inchieste di un gruppo di magistrati inquirenti, una radicale e violenta alterazione della rappresentanza politica con l'eliminazione dalla scena pubblica di tutti i partiti che avevano contribuito alla stesura della Costituzione e alla realizzazione del miracolo italiano in forza del quale il Paese passò in pochi decenni dalle macerie del Secondo conflitto mondiale a un ruolo di primo piano fra le maggiori potenze industriali dell'Occidente. A partire da quel biennio nulla sarà più come prima. Lo svolgimento della vita politica nella sua articolazione classica scandita da "elezioni - formazione di una maggioranza - sovranità della decisione politica" verrà condizionato pesantemente nei tempi e nei modi dagli interventi delle Procure. Eppure, vi fu chi nella tempesta di quei mesi intuì che la crisi in cui versava il Paese fosse di carattere sistemico e che, come tale, richiedesse una soluzione parlamentare in luogo di quella giudiziaria. Ciò non fu possibile, principalmente a causa dell'opposizione degli eredi del Pci. Si preferì cavalcare l'onda giustizialista, consentendo un'abnorme dilatazione delle funzioni giurisdizionali, convinti di poterne trarre benefici elettorali e non solo. Del resto, timori per finanziamenti illeciti e fenomeni corruttivi ve ne erano molti nel Partito comunista e non solo per l'ingente flusso di denaro proveniente dall'Urss. Lo storico Guido Crainz in Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, documenta che già nel marzo '74, nel corso di una direzione, il responsabile del bilancio, Guido Cappelloni, dice di essere «molto preoccupato sulla capillarità della corruzione che coinvolge anche il nostro partito». In quell'occasione così si espresse Armando Cossutta: «C'è un inquinamento nel rapporto con le amministrazioni pubbliche nel quale c'è di mezzo l'organizzazione del partito e poi ci sono dei singoli che fanno anche il loro interesse». Preoccupazioni che vengono risolte in parte con la legge di amnistia del 1989 e in parte scegliendo di agevolare lo sviluppo di ciò che Tate e Valinder chiamano «giudiziarizzazione della politica», ossia «lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso i tribunali». Questo, per sommi capi, il contesto storico-politico in cui maturarono i due grandi fenomeni che ancora oggi condizionano la vita pubblica del Paese: la «politicizzazione della magistratura» - con l'inevitabile «perdita di quell'immagine di neutralità senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia» - e la strumentalizzazione delle inchieste da parte della sinistra, al fine di eliminare quegli avversari che sul terreno politico non si è in grado di sconfiggere. È accaduto con il leader socialista Bettino Craxi e poi con Silvio Berlusconi, mentre ora si cerca di ripetere l'operazione nei confronti di Matteo Salvini. L'Italia scivola, in tal modo, verso una «democrazia giudiziaria». Uscirne sarà impresa difficile.

Storia e congiure. Così è nato l’uso politico della giustizia: da D’Artagnan e l’arresto di Fouquet ai giorni nostri. Alessandra Necci su Il Riformista il 13 Aprile 2021. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu. Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”. Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi. Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento. C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì. La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte. I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.

·        Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La norma nel codice disciplinare dei magistrati. No ai rapporti tra toghe e condannati: il divieto che rinnega la Costituzione. Massimo Donini su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. L’articolo 3, comma 1, lettera b) del codice disciplinare dei magistrati (D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) vieta al magistrato di «frequentare persona …. che a questi consta… aver subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni… ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone». L’illecito è equiparato espressamente a quello di frequentare un delinquente abituale o professionale. Ora dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello dei rapporti tra le persone o per il giudizio “storico” sui fatti. E qual è comunque il suo valore morale, se conduce a impedire quei rapporti perfino a chi pronunci “di mestiere” condanne a una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua emarginazione sociale? Il magistrato non è il rappresentante di una moralità superiore – è quasi ironico il doverlo ricordare oggi, anche se lo abbiamo sempre pensato – ma deve solo rispettare disciplinatamente e con onore i pubblici uffici (art. 54 Cost.). Ebbene, come può la sua condotta non apparire portatrice di un’ipocrisia legalistica se si deve allontanare dall’umanità delle relazioni e non è neppure ammesso a provare, se rinviato al Csm per una violazione disciplinare, che aveva il diritto fondamentale di frequentare un condannato, perché nessuna ragione antigiuridica di pubblico interesse era sottesa a quelle relazioni? Certo, esistono doveri di stato che toccano a determinate persone in ragione della peculiare funzione, per come devono “apparire” e non solo essere, e che non riguardano altri. Ma qui si tratta di presunzioni assolute di non frequentabilità e di divieti che neppure ammettono prove contrarie e che sono assistite da diritti scriminanti. Non si può sanzionare la sola apparenza antievangelica di frequentare i pubblicani. In uno “storico” incontro svoltosi qualche anno fa a Scandicci, nel 2016, per la Formazione dei magistrati, dedicato alla giustizia riparativa, alcuni organizzatori ebbero la malaugurata idea di invitare a relazionare al pubblico due ex terroristi rossi, condannati all’ergastolo e poi rimessi in libertà dopo aver scontato interamente la pena, e avere anche attivato percorsi di mediazione e condotte riparatorie a favore di vittime vicarie, sostitutive di quelle reali, ma per offese di analogo significato subìte. Il giorno precedente l’incontro si sollevò una reazione da parte di giornalisti, politici, opinion makers della giustizia, alti magistrati, contrariati per questa iniziativa che metteva “in cattedra” autori di gravi o efferati delitti, per lo più imperdonabili. La “testimonianza” degli ex terroristi saltò e le lezioni si limitarono a quelle svolte da professori e magistrati. Ora sono trascorsi alcuni anni, e la Scuola Superiore della magistratura ospita iniziative anche internazionali in tema di giustizia riparativa, anche con limitate esperienze testimoniali di autori di reato. Forse proprio da quella esperienza di esclusione ha preso avvio un percorso selezionato di ascolto. Per i normali relatori, peraltro, che svolgano anche un’ora di didattica alla Scuola, è stato introdotto l’obbligo di presentare una autocertificazione dalla quale risulti che sono incensurati o se abbiano carichi pendenti. Tutto questo non solo è umiliante, ma profondamente contrario allo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., perché fa intendere che la condanna penale o anche l’essere indagato rende “infetta” la persona, inadatta all’insegnamento a questo pubblico. E come potrà quel magistrato, cioè ogni magistrato, rispettare la lettera, e non solo lo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., se è egli stesso diseducato da queste regole o prassi ordinamentali e persino “disciplinari”? Oggi la recente legge delega n. 134/2021, la c.d. riforma Cartabia, prevede l’introduzione di una “riforma organica della giustizia riparativa”, dove in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia possibile accedere a forme di mediazione volte ad assicurare la ricostituzione del rapporto fra autore e vittima e a promuovere programmi strutturati a quell’obiettivo, «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità». (art. 1, co. 18, lett. c). Questo importante supporto statale alla mediazione penale, debitamente finanziato, rimarrà peraltro una vicenda parallela a quella processuale, dove altre numerosissime forme di “riparazione dell’offesa” già esistono, ma producono specifici e concreti benefici. Invece, l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa di tipo mediatorio potrà, eventualmente, essere valutato nel procedimento penale o nell’esecuzione (art. 1, co. 18, lett. e). Un obiettivo molto spirituale, dunque, direi evangelico e senza vera contropartita utilitaristica, domina questi istituti, che si affiancano al diritto penale più duro di contrasto alla criminalità. In questa antinomia di logiche, che andranno a coesistere nel sistema, una novità specificamente rieducativa è data dalla previsione standardizzata per i condannati a pena che si mantenga entro i quattro anni di detenzione in concreto (anche per delitti gravi in astratto), di limitare detta pena a forme extracarcerarie, se utili alla rieducazione, e in particolare alle pene sostitutive di semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria (art. 1, co. 17). Dunque, riassumendo: programmi umanistici senza utilitarismo per recuperare il rapporto tra autore e vittima, rieducazione extracarceraria per pene detentive entro i quattro anni, inclusione e non esclusione. Ma al contempo, per i gestori di questi programmi, divieto di frequentare condannati ad almeno tre anni di reclusione, rifiuto o permanente difficoltà di ascoltare a lezione di formazione testimonianze di docenti-testimoni spiccatamente “qualificati dal reato”, divieto per i relatori della loro formazione di presentarsi senza autocertificare un pedigree specchiato di mancanza di precedenti e carichi pendenti. La domanda è ovvia: quale “cultura” ci aspettiamo che abbiano questi magistrati quando devono applicare le norme rieducatrici? Da dove prenderanno i basamenti professionali della loro visione del mondo, del loro giudizio, e della discrezionalità che esso richiede? Siamo tutti abituati ad antinomie giuridiche e conflitti di coscienza anche dentro alle istituzioni. Però viene il momento in cui queste contraddizioni esplodono e devono produrre prima un malessere, poi una resistenza, e infine una decisione di libertà e di coerenza. Le più recenti riforme, per quanto interessate anche alla difesa sociale, stanno introducendo una cura per la persona umana che è ora richiesta in misura maggiore anche al magistrato: è questo il primo dovere disciplinare della sua etica del lavoro. Altrimenti la persona da non frequentare, per un gioco di specchi, potrebbe diventare proprio lui. Massimo Donini 

Art. 29. Modifiche agli articoli 18 e 19 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12

1.  Gli articoli 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto n. 12 del 1941, e successive modificazioni, sono sostituiti dai seguenti:

(Il presente articolo prima modificato dall’ art. 7, D.Lgs. 19.02.1998, n. 51, è stato, poi, così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità di sede per parentela o affinità con professionisti) - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali ordinari, non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore, né, comunque, ad uffici giudiziari avanti i quali i loro parenti od affini nei gradi indicati esercitano abitualmente la professione di avvocato o di procuratore.”.)

"Art.  18 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense).  - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, gli affini in primo grado, il coniuge o il convivente, esercitano la professione di avvocato.

La   ricorrenza   in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei seguenti criteri:

a) rilevanza della professione forense svolta dai soggetti di cui al primo comma avanti all'ufficio di appartenenza del magistrato, tenuto, altresì, conto dello svolgimento continuativo di una porzione minore della professione forense e di eventuali forme di esercizio non individuale dell'attività da parte dei medesimi soggetti;

b)  dimensione del predetto ufficio, con particolare riferimento alla organizzazione tabellare;

c)  materia trattata sia dal magistrato che dal professionista, avendo rilievo la distinzione dei settori del diritto civile, del diritto penale e del diritto del lavoro e della previdenza, ed ancora, all'interno dei predetti e specie del settore del diritto civile, dei settori di ulteriore specializzazione come risulta, per il magistrato, dalla organizzazione tabellare;

d) funzione specialistica dell'ufficio giudiziario.

Ricorre sempre una situazione di incompatibilità con riguardo ai Tribunali ordinari organizzati in un'unica sezione o alle Procure della Repubblica istituite presso Tribunali strutturati con un'unica sezione, salvo che il magistrato operi esclusivamente in sezione distaccata ed il parente o l'affine non svolga presso tale sezione alcuna attività o viceversa.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti e requirenti sono sempre in situazione di incompatibilità di sede ove un parente o affine eserciti la professione forense presso l'Ufficio dagli stessi diretto, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali ordinari organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale.

Il rapporto di parentela o affinità con un praticante avvocato ammesso all'esercizio della professione forense, e' valutato ai fini dell'articolo 2, comma 2, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, e successive modificazioni, tenuto conto dei criteri di cui al secondo comma.

Art.  19 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

(Il presente articolo è stato così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede) - I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al terzo grado non possono far parte della stessa corte o dello stesso tribunale o dello stesso ufficio giudiziario. Questa disposizione non si applica quando, a giudizio del Ministro di grazia e giustizia, per il numero dei componenti il collegio o l’ufficio giudiziario, sia da escludere qualsiasi intralcio al regolare andamento del servizio. Tuttavia non possono far parte come giudici dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali ordinari i parenti e gli affini sino al quarto grado incluso.”.)

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La   ricorrenza   in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al  terzo  grado,  di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica  sezione  e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti   della   stessa   sede   sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di  incompatibilità, da valutare sulla  base  dei  criteri di cui all'articolo   18,  secondo  comma,  in  quanto  compatibili,  se  il magistrato  dirigente  dell'ufficio  è  in  rapporto  di parentela o affinità entro  il terzo  grado, o  di coniugio o convivenza, con magistrato addetto  al  medesimo  ufficio,  tra  il  presidente  del Tribunale  del  capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il  Procuratore  generale  presso  la Corte medesima ed un magistrato addetto,  rispettivamente,  ad  un  Tribunale  o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I   magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria.  La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.".

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. Luca Rinaldi il 3 Agosto 2015 su L'inchiesta. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari. A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all’atto dell’incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell’incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l’onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l’istituzione di una apposita commissione d’inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse. Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte – spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus – per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l’anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture. Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli – dice ancora Franceschini – nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

Csm, arriva la stretta sui procuratori: regole rigide sugli incarichi e le indagini. Liana Milella su La Repubblica il 10 dicembre 2020. Oggi il Consiglio vara il decalogo di comportamento per i vertici delle procure. Ogni incarico dovrà essere documentato e soprattutto motivato. Decalogo (obbligatorio) del Csm per i procuratori della Repubblica. Sono i potenti titolari dell'azione penale a cui adesso l'organo di governo autonomo della magistratura toglie decisamente un po' di discrezionalità dettando rigide regole di comportamento su ogni aspetto dell'organizzazione dell'ufficio e la conduzione delle indagini. Ci ha lavorato tutta la settima commissione del Consiglio (Pepe, Donati, Basile, D'Amato, Suriano, Ciambellini) e tra gli estensori figurano anche Micciché e Dal Moro. Tutte le correnti insomma. E dovrebbe finire anche con un voto all'unanimità, anche se Nino Di Matteo propone delle modifiche che si riserva di illustrare e motivare durante la discussione. Ma in cosa consiste la riforma? Detto in due parole, per capirci, potremmo chiamarla il vademecum di cosa può fare, e cosa non può fare, un procuratore della Repubblica nel suo ufficio. Più brutalmente: il Csm stabilisce come deve comportarsi il capo di una procura, automaticamente delimitando i suoi compiti, e quindi anche i suoi poteri. Sicuramente aggrava la sua rendicontazione burocratica. Ma lo obbliga anche, con i suoi vice, a fare indagini e non solo a guidare i colleghi. Perché, "seppure compatibilmente con le dimensioni dell'ufficio e dei compiti di direzione e coordinamento nonché dei carichi di lavoro", anche i capi e i vice capi non potranno essere sganciati dal lavoro ordinario. Per loro ci sarà "un'obbligatoria riserva di lavoro giudiziario". Una mossa, quella del Csm, che anticipa sui tempi il Guardasigilli Alfonso Bonafede che, sullo stesso tema, ha scritto un capitolo nella sua legge sulla riforma del processo penale che marcia con tempi biblici alla Camera, i cui scopi però sono già sunteggiati, e quindi ritenuti strategici, nel piano dell'Italia per guadagnare e spendere i 196 miliardi di euro del recovery fund. Ma partiamo da un parterre di giudizi. Ecco quello di Giuseppe Marra, il consigliere "davighiano" di Autonomia e indipendenza. "È un testo molto importante perché, in estrema sintesi, detta regole più stringenti per l'attività dirigenziale dei procuratori, che non potranno più fare, senza motivazione adeguate, il bello e il cattivo tempo nei loro uffici, anche se la legge gli riconosce la titolarità dell'azione penale". Un parere che non è affatto diverso la quello di Antonio D'Amato, componente della settimana commissione, toga di Magistratura indipendente, componente della commissione, alle prese con piccoli aggiusti del testo: "Abbiamo voluto ancorare le scelte del procuratore a criteri di trasparenza e conseguente motivazione, allorquando individua i suoi collaboratori fra i sostituti per affidargli degli incarichi. In questo modo si è voluto scongiurare il rischio delle cosiddette medagliette costruite su sostituti “vicini” allo stesso procuratore per favorirli nel percorso professionale, trattandosi di medagliette utili in sede di successiva valutazione per possibili incarichi direttivi o semidirettivi". Due giudizi che confermano quanto il decalogo sarà impegnativo e destinato a cambiare la vita degli uffici. Ma leggiamo cosa c'è scritto nella relazione che accompagna il testo, definito come una "rivisitazione e parziale riformulazione" di quello del novembre 2017 che, a sua volta, integrava i precedenti del 2007 e del 2009, tutti figli della riforma dell'ordinamento giudiziario del governo Berlusconi, allora Guardasigilli il leghista Roberto Castelli, poi diventato legge con il successore, l'ex Dc Clemente Mastella. Il Csm ci rimette mano perché "sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali". Cosa cambia e cosa dovranno fare da domani i procuratori in base al vademecum che si risolve in oltre 60 pagine di nuove regole? La mossa del Csm impone ai capi degli uffici una totale e maggiore trasparenza in tutte le scelte, da quella dei procuratori aggiunti, a quella di indicare uno piuttosto che un altro pubblico ministero per seguire un'indagine, nonché anche per costituire i singoli gruppi di lavoro. Il capo dovrà ricorrere al cosiddetto "interpello", cioè sentire democraticamente tutti prima di costituire un gruppo. E qualora dovesse fare una scelta anomala, una deroga rispetto alle regole in vigore, dovrà motivarlo per iscritto e dettagliatamente al Csm. Dovrà spiegare, insomma, perché ha privilegiato un collega piuttosto che un altro. Una regola che, evidentemente, limita l'autonomia del procuratore in ogni sua mossa. Come non bastasse questo procuratore, nonché i suoi vice, dovranno anche lavorare alle indagini, cioè non basterà fare "il capo", bisognerò anche fare concretamente delle indagini. Tutto questo perché, come scrive la settima commissione, "l'organizzazione degli uffici di Procura deve essere finalizzata a garantire l'esercizio imparziale dell'azione penale, la speditezza del procedimento e del processo, l'effettività? dell'azione penale, l'esplicazione piena dei diritti di difesa dell'indagato e la pari dignità? dei magistrati che cooperano all'esercizio della giurisdizione: beni giuridici costituzionalmente rilevanti la cui effettiva tutela si realizza immancabilmente attraverso un uso imparziale e consapevole della leva organizzativa che deve essere utilizzata secondo criteri trasparenti e verificabili". Per essere espliciti, il Csm vuole vederci chiaro sul perché un procuratore si batte per un procuratore aggiunto - che comunque viene scelto dal Csm - o affida una certa indagine, perché se è vero che "la responsabilità? delle scelte organizzative compete al procuratore", è altrettanto vero che "la verifica della rispondenza delle opzioni in concreto adottate alle ragioni di quella attribuzione e? compito irrinunciabile del governo autonomo". Per tutte queste ragioni il Csm chiede ai procuratori di presentare "documenti chiari, trasparenti, articolati" rispetto alle assemblee interne e soprattutto che le assemblee stesse si svolgano veramente, visto che da alcuni verbali mandati a Roma sembra trapelare invece che prese d'atto e accettazioni sarebbero giunte solo a cose fatte. La regola aurea per scegliere i magistrati sarò l'interpello, una sorta di consultazione interna su "chi vuole fare cosa". Ugualmente il capo dell'ufficio non sarà più il sovrano unico delle assegnazioni dei singoli pm alle Direzioni antimafia, i gruppi che lavorano sulla criminalità organizzata. Anche in questo caso, scrive il Csm, il procuratore che "rinnova o non rinnova" un incarico dovrà "motivarlo espressamente" e "comunicarlo a tutti i magistrati dell'ufficio" che, se bocciati ed esclusi, potranno presentare le loro contro deduzioni. Ovviamente di tutto questo dovrà essere informato il Consiglio giudiziario, la longa manus del Csm in sede locale, che potrà esprimere il proprio parere. Infine il procuratore, nell'organizzare l'ufficio, dovrà guardare anche oltre le sue stanze, verso quelle dei tribunali dove i suoi processi poi andranno in udienza.  

Csm, la pm fa le valigie: "Non può lavorare insieme al marito, è incompatibile". Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 28 agosto 2021. Dopo un anno e mezzo, il Consiglio superiore di magistratura ribalta il suo iniziale verdetto e dichiara l'incompatibilità tra due procuratori aggiunti sposati. Nunzia D'Elia trasloca presso la Corte d'Appello. Poco più di un anno fa, per il Csm, il fatto che marito e moglie lavorassero nello stesso ufficio non rappresentava un profilo di incompatibilità. Ma quello che per l'organo di autogoverno della magistratura valeva nel 2020 oggi non vale più. Così, accade a Roma, nel più grande tribunale d'Europa, che uno dei due coniugi oggi sia costretto a fare le valigie. E in quelle valigie chiudere i successi di questi anni. Dalla sparatoria in cui rimase paralizzato Manuel Bortuzzo all'omicidio Cerciello, passando per quello di Luca Sacchi. Dalle inchieste su Ama, Flambus e sugli alberi che con il maltempo cadono nelle strade di Roma perché non viene fatta la manutenzione alla strana morte di Maddalena Urbani prima e, da ultimo, di Libero De Rienzo. Riavvolgiamo il nastro. A Roma, tra i nove procuratori aggiunti (al momento ce ne sono 8, uno è da nominare) c'è una coppia. Nunzia D'Elia e Stefano Pesci sono sposati da anni. Lo erano anche quando facevano entrambi i sostituti in quella stessa procura e quando lei, qualche anno fa, è rientrata dal Latina per fare l'aggiunto. Stando alle circolari vigenti sul regime delle incompatibilità, la nomina del marito in quello stesso ruolo poteva sollevare qualche dubbio, ma palazzo dei Marescialli ha deciso comunque di conferire al dottor Pesci lo stesso incarico semi-direttivo. Era il 13 febbraio del 2020. Al Csm erano a conoscenza della situazione che, per altro, era stata sollevata, ma hanno deciso di procedere chiarendo che un'eventuale incompatibilità andava valutata in concreto. Così, il 2 marzo, Stefano Pesci ha preso possesso. Un anno dopo, il Consiglio, una volta ricevuta dichiarazione di eventuale incompatibilità inviata dai diretti interessati (seppur già esistente e già valutata in sede di nomina), ha deciso di riprendere in mano la questione. I due magistrati sono stati sentiti personalmente. Il capo della procura Michele Prestipino, invece, non è stato convocato. "Preciso - ha scritto in una nota il numero uno dei pm romani - che il procuratore aggiunto dottoressa D'Elia coordina i gruppi "Reati causati da responsabilità professionale", "Reati in materia di infortuni-alimenti-incolumità pubblica", e "Reati in materia di ecologia e tutela dell'ambiente" dal 20/7/2016 e il procuratore aggiunto dottor Stefano Pesci coordina la struttura Sdas1 dal 6/3/2020 e il gruppo "Reati tributari" dal 26/5/2020 e durante tale periodo non si sono manifestate situazioni di possibile incompatibilità. Anche in precedenza la dottoressa D'Elia e il dottor Pesci hanno prestato servizio entrambi presso questo Ufficio, l'una quale procuratore aggiunto e l'altro quale sostituto, non facendo registrare alcuna situazione di incompatibilità potenziale né tantomeno concreta". D'accordo col procuratore anche il Consiglio Giudiziario presso la Corte d'Appello di Roma, il "Csm locale" che ha escluso ripercussioni sulla vita dell'ufficio. Ma da piazza Indipendenza non hanno sentito ragioni. Sarà per il riassetto degli equilibri tra le correnti, sarà per un certo rigorismo dopo la bufera del caso Palamara, ma dopo appena un anno dalla decisione di segno opposto, la Prima Commissione ha ribaltato il tavolo e deciso che Pesci e D'Elia siano incompatibili. E che uno dei due deve lasciare l'incarico. Per questo, dopo sei anni di inchieste importanti, Nunzia D'Eliha lasciato in questi giorni la procura di Roma per andare in procura generale presso la Corte d'Appello. Qualcuno ha detto che si tratta di una scelta d'amore. Di scelta sicuramente non si può parlare.

La circolare del Csm nasce dalle modifiche volute dall'ex ministro Roberto Castelli. Altre ai vincoli di parentela, matrimonio e affini riconosce le convivenze. Coppie di fatto "incompatibili" tra le toghe. Il divieto anche tra investigatori e pm. Entro il 31 dicembre i magistrati dovranno autodenunciarsi al Consiglio superiore. La verde Balducci: "E' un provvedimento contrario alla privacy". Claudia Fusani su La Repubblica il 25 maggio 2007. Invece di arrivare diritti, arrivano doveri. E limitazioni. Succede alle coppie di fatto, se hanno la toga, di magistrato o di avvocato, a cui il Consiglio superiore della magistratura ha fatto pervenire l'ultima novità: la convivenza fa scattare la incompatibilità. O meglio, "la stabile coabitazione determinata da rapporti sentimentali", fa s� che un magistrato e un avvocato, o due magistrati, o uno dei due se divide lo stesso tetto con ufficiali o agenti di polizia giudiziaria non possono lavorare nello stesso ufficio. Anche Palazzo dei Marescialli, quindi, deve confrontarsi con la realtà delle convivenze. Che sono talmente "riconosciute" da diventare per legge causa di incompatibilità. Mercoledì la Prima Commissione dell'organo di autogoverno della magistratura ha deliberato sul più generale capitolo delle incompatibilità. Un passaggio necessario per adeguare il regolamento alla nuova legge su illeciti disciplinari e trasferimenti voluta dall'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. La circolare contiene alcune importanti novità. La prima è che se finora, per legge, l'incompatibilità professionale scattava solo per parenti, coniugi e affini (a parte alcune circolari che prevedevano anche qualche caso di convivenza), adesso, per legge, l'impossibilità di lavorare nello stesso ufficio scatta anche per i conviventi. Si legge al punto 5 della circolare: "La convivenza è rilevante laddove si sostanzi in un rapporto di stabile coabitazione". In una prima versione era anche scritto "assimilabile a quello matrimoniale". Nelle versione definitiva è passata una definizione più soft: la coabitazione deve cioè "essere determinata da rapporti sentimentali". Critica il deputato dei verdi Paola Balducci, avvocato penalista e membro della Commissione Giustizia: "Da una parte - osserva ironica - mi compiaccio nel constatare che la convivenza è un dato di fatto cos� rilevante da provocare una incompatibilità per legge. Dall'altra - continua - lo Stato, e neppure il Csm - si deve preoccupare di definire il tipo di convivenza tra due persone. E' inopportuno e va contro i principi della privacy. Cosa succede adesso? Entro il 31 dicembre 2007 magistrati e avvocati che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposati devono specificare la tipologia della loro coabitazione?". Infine, aggiunge Balducci, "per quello che riguarda la terzietà di giudizio, a me avvocato non interessa sapere il tipo di rapporto tra i due conviventi. Basta il fatto che convivano, anche solo per dividere le spese, per farmi dubitare sulla imparzialità di giudizio". La seconda novità della circolare riguarda poliziotti e agenti di polizia giudiziaria. Al punto 42, infatti, viene introdotto un terzo tipo di incompatibilità. Non solo quando il rapporto di parentela, affinità, coniugio e convivenza è tra magistrati, o tra magistrati e avvocati, ma anche quando riguarda "magistrati addetti agli uffici di procura e ufficiali o agenti di polizia giudiziaria". In sintesi tra inquirente e investigatore. Entro il 31 dicembre di quest'anno ci deve essere l'autodenuncia, su apposito modulo informatico. Il regime delle incompatibilità per i magistrati è regolato da due articoli (18 e 19) dell'Ordinamento giudiziario che è stato modificato dall'ex Guardasigilli. Il codice di procedura penale, invece, regola i casi di astensione e ricusazione del giudice. L'incompatibilità è totale quando la sede giudiziaria è piccola. In quelle più grandi scatta ogni volta che le funzioni - giudice, pm, avvocato o investigatore - rischiano di incrociarsi.

Convocati a Roma i presidenti del tribunale e dell’Ordine degli avvocati. Famiglie in toga: Indaga Csm Stretta sulle incompatibilità. Segnalati 23 casi di parentele nello stesso distretto tra giudici, pm e legali. Tratto da “la Repubblica” 3.04.2008 di a.z.. L’INCOMPATIBILITA viene risolta a colpi di astensione. Ma quando cominciano ad essere troppi i giudici che chiedono di spogliarsi di processi in cui sono coinvolti, come altra parte, mariti, mogli o figli, allora l’impasse comincia a diventare difficile da superare. Sarà anche per questo che il Consiglio superiore della magistratura ha rimesso all’ordine del giorno l’annosa questione della “parentopoli” al Palazzo di giustizia di Palermo che, a quanto sembra, in Italia è uno di quelli che conta il più alto numero di coppie incompatibili tra giudici, magistrati e avvocati. Sono ben 23 i magistrati in servizio a Palermo sui quali la prima commissione dell’organo di autogoverno della magistratura ha deciso di svolgere accertamenti, mettendo in calendario le prime audizioni: quelle del presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Enrico Sanseverino, convocato per il 14 aprile. E del presidente del tribunale Giovanni Puglisi, peraltro toccato personalmente dalla questione visto che le sue figlie, una avvocato e una al tribunale dei minorenni, lavorano nello stesso distretto così come una nipote, anche lei giudice a Palermo. Il caso della famiglia Puglisi era già stato esaminato dal Csm e archiviato in base alle vecchie norme dell’ordinamento giudiziario ma adesso gli articoli 18 e 19 stabiliscono regole più severe sull’incompatibilità di funzioni nello stesso distretto giudiziario. Il presidente del tribunale, per la verità, ha sempre minimizzato la questione ritenendo i casi superabili ma adesso il Consiglio superiore della magistratura intende valutare se sia il caso di chiedere il cambio di mansioni per qualcuno dei magistrati coinvolti. “Situazioni critiche sotto il profilo dell’incompatibilità parentale”, le definisce il Csm. A Palermo i casi a rischio di cambio di funzioni sono quelli di tre coppie di coniugi in cui uno lavora nella magistratura inquirente, l’altro nella giudicante: è così per il pm della Dda Lia Sava, moglie del giudice Antonio Tricoli, è così per il sostituto procuratore Sergio De Montis sposato con il giudice delle indagini preliminari Rachele Monfredi, ed è così per il pm Domenico Gozzo, anche lui sposato con un gip, Antonella Consiglio. Tra i nomi finiti sotto la lente di ingrandimento del Csm anche quelli del presidente di sezione del tribunale Antonio Prestipino, sposato con il sostituto procuratore generale Rosalia Cammà, e delle sorelle Antonina e Vincenza Sabatino, la prima presidente di sezione ad Agrigento, la seconda sostituto in Procura generale. Nell’elenco all’attenzione del Csm anche i nomi di altri magistrati sposati o in grado di stretta parentela con avvocati del foro di Palermo: il pm Emanuele Ravaglioli, il presidente Salvatore Virga, i giudici Maisano, Scaduti, Soffientini, Laudani e Piraino. a.z.

L’assurdo caso caso del Gup “contestato” per “colpa” del padre avvocato che difese il Cav. Il magistrato sarà chiamato a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 maggio 2021. La Camera penale di Napoli è intervenuta sulla polemica che ha coinvolto in questi giorni la giudice Ambra Cerabona.  Il magistrato sarà chiamata a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Repubblica fa notare che la Cerabona è la «figlia di uno storico legale di Berlusconi a Napoli: Michele Cerabona, difensore dell’ex premier in tanti procedimenti e oggi membro laico al Consiglio Superiore della magistratura, nominato ovviamente in quota Forza Italia. Un profilo di inopportunità su cui, si apprende solo ieri addirittura dall’udienza, era arrivato anche un esposto negli uffici giudiziari […] Come se la giustizia italiana non incrociasse, in questa triste stagione, sufficienti profili di disagio e di auspicabile autocritica, ecco un nuovo potenziale caso di imbarazzo».  Il ragionamento sarebbe grossomodo questo: siccome il padre del giudice ha difeso Silvio Berlusconi e poiché è stato eletto al C.S.M. su proposta di Forza Italia, la figlia non sarebbe compatibile a giudicare il processo citato poiché in esso sono imputati i fratelli di un senatore di FI. La giudice avrebbe chiesto di potersi astenere ma la richiesta è stata respinta. «A noi un sospetto così articolato – scrive la giunta dei penalisti napoletani, presieduta dall’avvocato Marco Campora – appare incomprensibile stante l’assoluta lontananza ed evanescenza del collegamento, laddove mai è stato neppure ipotizzato che la Dott.ssa Cerabona abbia una sia pur minima conoscenza e/o rapporto con i fratelli Cesaro. Ed allora, i dubbi insinuanti avanzati nell’occasione sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia ed indipendenza di giudizio; di indurlo a dovere fornire la prova positiva (ed intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati.  Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Tutti i giudici sono, sino a prova contraria, autonomi ed indipendenti. Questa è la regola su cui si fonda il nostro ordinamento, eliminata la quale l’intero sistema è inesorabilmente destinato a crollare». E poi la critica all’esposto anonimo: «Sinora, le parti di quel processo – le uniche a ciò legittimate – non hanno inteso avanzare alcuna istanza di ricusazione, evidentemente ritenendo la Dott.ssa Cerabona del tutto idonea a svolgere la funzione di giudicante nel processo.   L’irruzione nelle aule di giustizia di esposti anonimi è invece operazione degradante, vile e molto pericolosa, atteso che l’esposto anonimo è per sua natura un mezzo utilizzato unicamente per depistare, sviare, colpire chi si ritiene nemico. Su questo occorre essere chiari: l’esposto anonimo non ha alcun diritto di cittadinanza in un ordinamento democratico (dunque a tutti i livelli: politico, giudiziario, poliziesco …) e va sempre trattato per quello che è: una gravissima calunnia anonima che ha sempre la finalità di colpire qualcuno, di mestare nel torbido, di avvelenare la democrazia e le istituzioni». E il finale contro il complottismo: «L’unica colpa – l’unico elemento di sospetto avanzato – della dott.ssa Cerabona è quella di essere figlia di un noto e stimatissimo avvocato. Ora, si può anche stabilire per legge che un giudice, nel luogo in cui esercita la funzione, non debba avere rapporti familiari, affettivi, sentimentali e amicali con soggetti che operano nel medesimo settore (fuor di metafora: con altri giudici, pubblici ministeri, avvocati e cronisti giudiziari). È operazione difficilmente praticabile, ed infatti così – per fortuna – non è. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra di loro, con pubblici ministeri e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pubblici ministeri o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pubblici ministeri ed avvocati. Giudici amanti di giudici, pubblici ministeri ed avvocati.  È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. Ed allora, smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese».

Alone di ingiustificato sospetto. Processo ai fratelli Cesaro, “Basta complottismo”. I penalisti si schierano con Cerabona. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Maggio 2021. «Smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese», tuona l’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli firmando un documento con cui i penalisti prendono posizione di fronte al caso sollevato dall’edizione partenopea del quotidiano Repubblica: a giudicare il processo in cui sono coinvolti, tra gli altri, i fratelli Cesaro (Luigi Cesaro è senatore di Forza Italia) sarà il giudice Ambra Cerabona (figlia dell’avvocato Michele, attuale componente del Consiglio superiore della magistratura e in passato difensore del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi). «Non si tratta di esprimere solidarietà al giudice Cerabona, che non ne ha bisogno, essendosi attenuta al completo rispetto delle norme codicististiche e avendo dimostrato anche grande saggezza e prudenza – spiega Campora facendo riferimento alla notizia che la giudice avrebbe presentato una richiesta di astensione non accolta dalla presidente del Tribunale – Il tema che riteniamo rilevante è un altro e attiene proprio all’alone di ingiustificato sospetto che si è creato nei confronti del gup Cerabona per l’unica ragione di essere figlia di Michele Cerabona che in passato ha difeso anche l’ex presidente del Consiglio e di Forza Italia Silvio Berlusconi». Un esposto anonimo avrebbe innescato il sospetto che, in quanto figlia dell’ex difensore di Berlusconi, il giudice Cerabona non sarebbe compatibile a giudicare il processo Cesaro. «A noi – aggiunge il presidente dei penalisti napoletani – un sospetto così articolato appare incomprensibile». «I dubbi insinuati – osserva Campora – sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia e indipendenza di giudizio, di indurlo a dovere fornire la prova positiva (e intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati». «Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale», aggiunge Campora. E poi c’è un’altra considerazione dei penalisti napoletani: «Appare opportuno evidenziare che i veri o presunti rapporti personali divengono, per taluni, forieri di sospetto in ambito giudiziario solo quando è coinvolto un avvocato. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra loro, con pm e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pm o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pm e avvocati. Giudici amanti di giudici, pm e avvocati. È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. E allora – conclude il leader dei penalisti partenopei – smettiamola con questo complottismo».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Massimiliano Annetta il 21 dicembre 2017 su Il Dubbio. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story. Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico. Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è. Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense. Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le sorprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo ( e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie. Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ’ 41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”. Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente. E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire. Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti. Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia. Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.

VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.

Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale. Raphael Zanotti il 18 Settembre 2010 su La Stampa, modificato il 13 Luglio 2019. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.

"ECCO QUANDO SI PUO' VIOLARE L' ALCOVA". Franco Coppola il 25 maggio 1996 su La Repubblica. Un pubblico ministero e una giudice delle indagini preliminari (o una pm e un gip) che non sono marito e moglie ma che convivono possono esercitare nello stesso tribunale? Giriamo la domanda a due magistrati, Edmondo Bruti Liberati, sostituto procuratore generale a Milano, segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, esponente storico di "Magistratura democratica", e Stefano Erbani, dell'ufficio studi dello stesso Csm. Spiega Erbani: "La legge del ' 41 sull' ordinamento giudiziario prevedeva i casi di parentela sia tra magistrati e avvocati della stessa città, sia tra magistrati dello stesso collegio giudicante. Nel primo caso, c'era il trasferimento d' ufficio del magistrato, nel secondo era il dirigente dell'ufficio ad evitare di far operare i due interessati nello stesso settore. Naturalmente, se uno lavorava al penale e l'altro al civile, il problema non esisteva. Se poi, uno dei due, ad esempio, era un giudice istruttore che si era occupato di un certo caso e l'altro faceva parte del tribunale a cui il caso veniva successivamente affidato era prevista l'astensione del secondo e, in caso di mancata astensione, la ricusazione da parte dei difensori". Insomma, più o meno quello che succede ora, dopo le due sentenze della corte costituzionale che vietano al giudice del tribunale della libertà e al gip di far poi parte di collegi giudicanti che debbano esaminare la posizione dello stesso imputato. "Esattamente". E per quanto riguarda il caso di marito e moglie? "Fino al ' 67 non esistevano donne magistrato, quindi il caso era limitato al marito magistrato e alla moglie avvocato. Anche in quel caso scattava l'incompatibilità e quindi il trasferimento del marito. Dopo è potuto accadere che ci fossero un marito e una moglie magistrati. Un caso non previsto dalla normativa, ma che per analogia porterebbe alle stesse conseguenze che ho già illustrato: trasferimento d' ufficio o astensione o ricusazione". E se il pm e la gip (o la pm e il gip) fossero non marito e moglie ma conviventi? Risponde Bruti Liberati: "Non credo sia mai accaduto: comunque, bisogna distinguere: se si tratta di una convivenza notoria, si crea un problema di opportunità e, se non è uno degli interessati a chiedere il trasferimento, provvederà il Csm. Se invece - ad esempio, in seguito all' esposto di un avvocato - fosse una cosa tutta da accertare, il Csm dovrebbe intromettersi nella vita privata di due magistrati e credo che questo non sia accettabile". Aggiunge Erbani: "Il Csm è un organo amministrativo che ha anche poteri di indagine. Certo, sarebbe una cosa molto delicata e tutta da valutare". "A Milano", conclude Bruti Liberati, "ricordo che si ricorreva ad un trucco tra gli avvocati che avevano parenti tra i giudici. Si iscrivevano al foro di Monza, ma di fatto esercitavano a Milano. Così, formalmente erano a posto".

Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato D.rio D’Isa, figlio del magistrato di cassazione C.dio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato D.rio D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione C.dio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pastette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. D.rio D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. D.rio D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!

Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso. 

Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.

LE PARENTELE PERICOLOSE

Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.

Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.

Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.

Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.

Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.

Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.

Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.

Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.

La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.

La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.

La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.

GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE

Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.

Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.

Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.

Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.

La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.

Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.

Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.

Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.

Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.

La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.

Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.

CHE COSA SIGNIFICA

Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

Padre giudice e figlia avvocato: c'è incompatibilità? Annamaria Villafrate il 25 nov 2020 su studiocataldi.it. Per il Tar Lazio, un magistrato può ricoprire il ruolo direttivo presso un Tar monosezione se la figlia avvocato rinuncia a praticare il diritto amministrativo. Il magistrato può assumere l'incarico direttivo presso il TAR mono-sezione se la figlia che esercita la professione forense si impegna ad astenersi dal compiere attività giudiziali e stragiudiziali in diritto amministrativo. L'art. 18 dell'ordinamento giudiziario dispone che l'incompatibilità deve essere valutata caso per caso e il CPGA può farlo grazie al proprio potere discrezionale. Questo in sostanza quanto emerge dalla sentenza n. 11551/2020 del Tar Lazio (sotto allegata) che si è trovato a dover decidere la seguente e ingarbugliata vicenda. Un magistrato amministrativo ricorre al Tar, impugnando alcuni atti relativi alla sua nomina, di cui chiede l'annullamento per eccesso di potere e violazione di legge. Il magistrato espone di aver presentato domanda per il conferimento di un incarico direttivo. La commissione incaricata dello scrutinio ha respinto la proposta di una relatrice "di rilevare la ricorrenza della causa di incompatibilità prevista dall'art. 18 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), applicabile ai magistrati amministrativi ai sensi dell'art. 28 della legge 27 aprile 1982, n. 186, posto che la figlia del ricorrente esercita la professione forense presso la sede marchigiana." Rigettata detta questione la Commissione propone la nomina del Magistrato al Plenum, ma la dottoressa incaricata di redigere la relazione di accompagnamento alla proposta solleva nuovamente il problema dell'incompatibilità a causa della professione svolta dalla figlia, la quale ha dichiarato di impegnarsi per il futuro a non svolgere nessun tipo di attività presso il TAR, fatta eccezione per le attuali pendenze, in numero di cinque o sei ricorsi con un mandato congiunto con altro difensore e di tre come unico avvocato". La Commissione però nomina il Magistrato, accogliendone la richiesta in merito alla presidenza della III sezione esterna del Tar Lazio.

Le censure del magistrato amministrativo. Il Magistrato però censura gli atti di nomina per le seguenti ragioni. Prima di tutto ricorda che la figlia ha dichiarato che, contrariamente a quanto rilevato in Commissione, avrebbe dismesso il mandato in relazione alle 9 cause amministrative pendenti in caso di nomina del padre. In secondo luogo denuncia "eccesso di potere: disparità di trattamento; difetto di istruttoria; motivazione carente o comunque insufficiente; manifesta ingiustizia", perché, in occasione di precedenti delibere applicative dell'art. 18 ord. Giud., il CPGA ha escluso la ricorrenza della incompatibilità, proprio in ragione dell'impegno del parente del magistrato ad astenersi da ogni attività di fronte al giudice amministrativo di primo grado." Denuncia poi il mancato espletamento da parte del Plenum di una completa istruttoria sulle circostanze rilevanti ai fini della incompatibilità e il fatto che lo stesso non è tenuto ad applicare in modo automatico le cause di incompatibilità previste dall'ordinamento giudiziario, dovendo tenere conto della specificità della magistratura amministrativa. Rileva inoltre come nel caso di specie la rinuncia a a svolgere la professione forense di fronte all'ufficio giudiziario a cui è preposto il magistrato esclude l'incompatibilità, stante l'insussistenza di un conflitto di interessi. L'Avvocatura di Stato per i convenuti evidenzia come la circolare del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) del 12 ottobre 2006 metta in evidenza come tra i fattori preponderanti per valutare l'incompatibilità del magistrato c'è quello della dimensione del Foro.

Il CPGA tenga conto della rinuncia della figlia. Dopo aver analizzato e deciso le questioni preliminari il Tar, passando al merito della questione, chiarisce che: "in sede di apprezzamento di profili di incompatibilità parentale del magistrato, il CPGA applica direttamente gli artt. 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, perché ciò è previsto dall'art. 28 della legge n. 186 del 1982" naturalmente purché compatibili con la specificità della giurisdizione amministrativa, ricordando altresì come "la incompatibilità trova la sua essenza nel pregiudizio che, in difetto di essa, potrebbe essere arrecato al requisito costituzionale dell'imparzialità della magistratura." Occorre però, come sottolineato dalla circolare del CSM n. 6750 del 19 luglio 1985, un "concreto accertamento" della incompatibilità, principio che ha segnato la strada per la formulazione dell'attuale art. 18 dell'ordinamento giudiziario da cui emerge l'opzione del legislatore per "un meccanismo di bilanciamento degli interessi confliggenti, tale da costituire il vero e proprio principio informatore della materia." Analizzando l'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, attorno al quale ruota la soluzione della vicenda, il Tar precisa che: "E' perciò l'art. 18, comma 4, ord. giud. a disciplinare il profilo di incompatibilità che rileva nella presente causa." Da questa norma si può trarre infatti il principio secondo cui salvo fattispecie eccezionali e tassativamente indicate, il rilievo di una causa di incompatibilità esige "un riscontro caso per caso delle singole situazioni implicanti la impossibilità di svolgimento di attività incompatibili in base alla legge" (Cons. Stato, sez. IV , n. 1818 del 2008). Ora, il ricorrente ritiene che la sua nomina in un Tar mono-sezionale sia ostacolata proprio dalla formulazione dell'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, poiché solo in presenza di più sezioni l'incompatibilità da rigida può diventare più flessibile. Vero però che nelle intenzioni del legislatore la pluralità delle sezioni non è dirimente, se non accompagnata da una pluralità di materie, solo a queste condizioni l'incompatibilità assoluta viene meno." Dell'art. 18 ord. giud., in altri termini, non è direttamente applicabile la porzione prescrittiva, la cui lettera si riferisce inequivocabilmente alla sola giurisdizione ordinaria, attinente alla pluralità di sezioni civili e penali." La prassi della CPGA tuttavia tende sempre e comunque a valutare caso per caso e concretamente la sussistenza dell'incompatibilità, anche se il magistrato viene assegnato a un ufficio mono-sezionale. Occorre però evidenziare che nel caso di specie, come in altri precedenti, l'impegno assunto dal professionista di astenersi da ogni attività in grado di interferire con la giurisdizione amministrativa esclude la sussistenza di una causa di incompatibilità ambientale, almeno quando l' avvocato non eserciti in uno studio associato e quando non siano percepibili circostanze eccezionali di segno contrario." Alla luce delle suddette considerazioni e di altre successive il Tar dispone quindi che il CPGA avvii un nuovo procedimento, e che nel pronunciarsi sui profili di incompatibilità ambientale segnalati si attenga al seguente principio di diritto: "l'impegno del parente del magistrato (quand'anche preposto, o da preporre, alla presidenza di un TAR mono-sezionale) ad astenersi da ogni attività anche stragiudiziale, nel campo del diritto amministrativo, in linea di massima e ove provenga da un professionista che esercita l' attività in forma individuale, rimuove lo stato di incompatibilità ambientale, salvo casi eccezionali."

·        Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

"Mani pulite" non è servita a niente, anzi dilagano ignoranza e corruzione. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2020. A 29 anni dall’inchiesta "Mani pulite" del pool di Milano “il sistema di corruzione non è stato sconfitto e i politici sono peggiori e meno preparati”. A pensarlo sono, secondo un sondaggio realizzato da IZI, il 63,3% degli intervistati. Il dato emerge dalle rilevazioni prodotte da IZI a vent’anni dalla morte di Bettino Craxi e nel giudizio degli italiani nei confronti dell’ex presidente del Consiglio e leader del Partito socialista italiano.

IL GIUDIZIO SU POLITICI E CORRUZIONE – Solo per il 2,2% degli intervistati infatti, alla luce di quanto successo nel nostro Paese dopo l’inchiesta ‘Mani pulite’ sulla corruzione nel mondo della politica e dell’imprenditoria, “il sistema corruttivo è stato sconfitto e i politi sono migliori” di quelli della prima repubblica. Per il 29,2% dopo quasi tre decenni dall’inchiesta “non è cambiato nulla”.

CRAXI E LA RIABILITAZIONE – A vent’anni dalla morte ad Hammamet di Bettino Craxi anche il giudizio degli italiani sta cambiando. Ne è prova che per il 13,4% degli intervistati l’ex leader socialista “sia stato un grande statista del nostro Paese”. Per il 33,2% il giudizio sulla caratura da statista di Craxi non cambia, ma all’ex presidente del Consiglio viene attribuita la ‘colpa’ di aver “contribuito a costruire il sistema di corruzione politico”. Un politico “capace di fare qualcosa di buono per il Paese” ma “corrotto”: è questo invece il giudizio del 22,2% degli intervistati, mentre una bocciatura tout court arriva da un restante 15,7% che giudica Craxi “un politico corrotto colpevole dell’esplosione del debito pubblico e delle successive crisi nazionali”.

La spazzacorrotti è uno schifo, una sfida a Falcone e a chi combatte la mafia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2020. La spazzacorrotti, come l’hanno chiamata con un linguaggio da trivio, è una delle leggi peggiori e più reazionarie mai approvate dal Parlamento della Repubblica. In due parole spieghiamo cos’è. Una norma che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia. Dal punto di vista di principio, questa legge ha stabilito che Roberto Formigoni – per esempio – deve essere trattato non come tutti gli altri condannati per reati vari (rapina, stupro, omicidio o cose così) ma come un mafioso: come Riina, o Provenzano, o Bagarella.

Non solo in linea di principio, ma anche in linea pratica. Formigoni non può godere dei benefici penitenziari riservati a un assassino qualunque, perché lui – anche se non ci sono le prove – ha commesso un reato molto, molto più grave di quello commesso da chi – in un momento di confusione – ha – mettiamo – massacrato la moglie o sgozzato una figliola: Formigoni si è fatto ospitare in barca da un amico col quale – forse – aveva avuto rapporti politico-professionali nel suo ruolo di amministratore. Abuso: al rogo. Perché la spazzacorrotti è una pessima legge? Per tre ragioni. La prima è abbastanza evidente. Equiparare un reato, anche piccolo, di corruzione, a un reato di mafia, è un atto evidente di insolenza e di sfida a tanta gente che ha dedicato la vita a capire e a combattere la mafia. Penso sempre a Falcone e a tanti che lavorarono con lui, e impiegarono anni, e tanta della loro credibilità, per spiegarci cosa fosse la mafia, come funzionasse, quanto e perché fosse pericolosa. Poi sono arrivati questi ragazzi a 5 Stelle e hanno deciso che mafia o traffico di influenze sono la stessa cosa. Seconda ragione. Proclamare una nuova gerarchia di reati nella quale abuso d’ufficio è molto più grave di stupro è qualcosa di orribile, di atroce, che può provocare – anzi, che provoca – una ferita difficile da rimarginare nel senso comune. Terza ragione, ma questa è più complessa e non riguarda i 5 Stelle ma chi ha governato prima di loro e ha aperto loro la strada: la giustizia, in un vero Stato di diritto, è uguale per tutti. Ci sono i reati più gravi e quelli meno gravi, ma ci dovrebbe essere un solo binario della giustizia. Il doppio binario è uno sgarro anche alla ragionevolezza. Sia il doppio binario nelle procedure e nei metodi di indagine, sia il doppio binario nelle punizioni. Riusciremo mai ad abolire questa anomalia? Intanto noi proviamo a chiederlo. E facciamo scandalo.

Spazzacorrotti, il governo dovrà risarcire per ingiusta detenzione. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 13 Febbraio 2020. Piove sul bagnato per il governo e per il ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. All’indomani della decisione della Corte costituzionale di dichiarare illegittima la legge Spazzacorrotti nella parte in cui se ne prevede l’applicazione retroattiva, si profila la possibilità per l’esecutivo di dover risarcire tutti coloro che in questi mesi sono stati incarcerati per effetto di questo provvedimento voluto dal tandem Bonafede-Travaglio. Il primo ad aver sollevato il problema è stato Pierantonio Zanettin, componente di Forza Italia della Commissione giustizia della Camera ed ex membro del Csm, con una interrogazione urgente presentata ieri a Montecitorio. «L’anno scorso tale illegittimità era stata denunciata, già in sede di approvazione della legge, nel corso del dibattito parlamentare», scrive Zanettin. «Le conseguenze della pronuncia appaiono dirompenti: molti cittadini italiani, noti e meno noti, in questi primi mesi di applicazione della legge non hanno potuto usufruire delle misure alternative alla detenzione e sono stati costretti al carcere, nonostante i fatti da loro commessi fossero antecedenti l’entrata in vigore della norma». Fra gli arrestati “illustri”, l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione. L’equiparazione dei reati contro la Pubblica amministrazione ai reati di mafia e terrorismo, aveva precluso al Celeste, pur essendo ultrasettantenne, l’accesso ai benefici penitenziari. «Il governo è sempre rimasto sordo ad ogni richiesta di modifica di quella normativa, palesemente illegittima», prosegue Zanettin, svelando un particolare che inchioderebbe l’esecutivo alle proprie responsabilità. «Nella seduta del 20 febbraio 2019, il governo espresse parere contrario alla risoluzione a prima firma dell’onorevole Enrico Costa che lo impegnava a disporre affinché la nuova formulazione dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario si applicasse solo ai fatti successivi alla sua entrata in vigore». «La maggioranza – prosegue Zanettin – nella stessa seduta di Commissione respinse detta risoluzione». «Ora i cittadini che non hanno potuto usufruire dei benefici della legge Gozzini hanno certamente diritto al risarcimento del danno per l’ingiusta detenzione subita», sottolinea il parlamentare forzista, domandando al governo «quali iniziative di propria competenza intenda assumere per ottenere dai responsabili di questo grave vulnus costituzionale il recupero del danno erariale che deriverà allo Stato per l’ingiusta detenzione dei cittadini». Nel mirino, dunque, Bonafede che aveva sempre affermato che la Spazzacorrotti avrebbe addirittura «proiettato l’Italia come Paese leader a livello internazionale nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione». Ora il Guardasigilli rischia di mettere mano al portafogli e risarcire tutti coloro che non dovevano essere arrestati. Ogni giorno di ingiusta detenzione ammonta a 250 euro.

Legge spazzacorrotti, sarebbe più corretto chiamarla spazzadiritti. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 13 Febbraio 2020. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la retroattività delle norme ostative alle misure alternative alla detenzione, introdotta dalla spazzacorrotti per i reati contro la pubblica amministrazione. La legge più scandalosamente populista e giustizialista degli ultimi decenni, la stessa che ha introdotto il principio barbaro dell’imputato a vita, taglia in poco più di un anno il traguardo che si merita. Il fiore all’occhiello dei populisti italiani, raggiunta da censure di costituzionalità provenienti da 17 giudici collegiali e monocratici di tutta Italia, è la degna fotografia di questi tempi barbari. La Corte Costituzionale si conferma l’unico argine in difesa dei diritti e del diritto, della costituzione e delle regole basilari della convivenza civile. Chi ancora pensa che con la barbarie giuridica sia possibile una mediazione, tragga da questa decisione della Corte la forza per scegliere la strada del diritto e della ragione.

La legge. Cosa è il reato di traffico di influenze illecite, uno dei danni della legge Severino. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 17 Marzo 2021. La cosa che mi rende più fiero della attività di deputato nella XVI Legislatura è il voto contrario espresso, in dissenso dal gruppo, sulla legge Severino (legge n.190/2012): un atto di sottomissione che il governo Monti volle concedere alla mistica allora (e sempre) imperante del giustizialismo. Persino l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione (una sorta di Centro Studi del Palazzaccio), trattando dei nuovi reati quali la corruzione tra privati e il traffico di influenze (le principali disposizioni-scandalo di quella legge), manifestò serie preoccupazioni sulla possibilità che quelle norme finissero per sanzionare «condotte in altri Paesi del tutto lecite». Fino ad affermare che il modo in cui era prevista la fattispecie di reato (corruzione tra privati) «appare difficilmente coincidere con gli obiettivi delle Convenzioni internazionali». Per esperienza sappiamo adesso che il “traffico di influenze” è diventato uno dei passepartout usati dalle procure per mettere sotto scacco la politica, dal momento che, da quando l’homo sapiens è uscito dalle caverne, i “politici” non lesinano favori ai loro elettori per conservarne il consenso. Peraltro, leggendo il saggio Il Sistema dove Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara, verrebbe da mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli proprio per reprimere l’abuso del nuovo reato. Ma quella legge (poi novellata dalla legge n.179/2017) ha introdotto un’altra fattispecie che si scrive in inglese: whistleblowing ovvero la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti. Ecco di seguito la norma: «Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza… ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza». Sarà che nella versione inglese quelle pratiche assumono un profilo più elegante, perché il significato vero sarebbe un altro: delazione. Per chi non lo sapesse l’Anac (in quegli anni aveva la supervisione su tutto, persino sulla retribuzione dei dirigenti del Comune di Roma) pubblica annualmente un rapporto a cura degli uffici e dei funzionari preposti alla vigilanza e alla segnalazione alle amministrazioni interessate e, se del caso, alla magistratura. Per compiere un’attività di verifica più accurata, oltre a raccogliere tutte le denunce, l’Anac ha individuato un campione di 40 soggetti pubblici (amministrazioni ed enti alle stesse equiparate), «al fine di monitorare lo stato di applicazione della disciplina del whistleblowing in Italia, di evidenziarne le criticità e di comprendere l’efficacia dell’istituto come strumento di prevenzione della corruzione. L’attività di monitoraggio consente, inoltre, di dare evidenza alle difficoltà, anche culturali, che persistono nell’utilizzo di questa misura di prevenzione e, infine, permette di far emergere i “buoni risultati” conseguenti all’applicazione del whistleblowing». Arrivata ormai al Quarto Rapporto (relativo al 2018 e a parte del 2019) l’Anac ritiene di poter essere in grado non solo di stimare in termini quantitativi l’istituto, ma anche di compiere valutazioni qualitative sulle segnalazioni pervenute. Per quanto riguarda la “qualità” delle segnalazioni, infatti, dal varo della normativa a oggi, si assiste, secondo l’Agenzia, a un innalzamento “qualitativo” delle segnalazioni inoltrate; sempre di più si tratta di questioni/condotte illecite che hanno una rilevanza medio-alta nelle attività delle amministrazioni, mentre sono in diminuzione le questioni che non rientrano nell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina e le questioni c.d. “bagatellari” che portano inevitabilmente all’archiviazione delle segnalazioni. «Deve, tuttavia, rilevarsi – l’ammissione è importante – che l’Autorità non ha ancora perduto il proprio ruolo di “sfogatoio” per molti pubblici dipendenti (i sicofanti? ndr) i quali ancora vi si rivolgono non per rappresentare violazioni/disfunzioni poste in danno dell’interesse pubblico (segnalazioni fatte nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione), ma per rappresentare situazioni personali, che esulano dall’ambito oggettivo della norma». Tra le segnalazioni, il Rapporto fa notare che almeno la metà provengono dal Sud e Isole, mentre ve ne sono parecchie provenienti dai responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza; il che va considerato certamente «come dato singolare, atteso il ruolo che gli stessi sono chiamati a svolgere nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza, quale soggetto competente a ricevere le segnalazioni dei dipendenti pubblici». In sostanza, uno scaricabarile dalla periferia al centro. Il monitoraggio riferito alle amministrazioni mostra anche il numero di segnalazioni anonime che i soggetti intervistati hanno ricevuto. In termini percentuali, ammette l’Anac, risulta cospicuo. Queste segnalazioni vengono in genere trattate, «pur nella consapevolezza che non c’è alcun whistleblower da tutelare». Dagli esiti dei questionari somministrati alle amministrazioni-campione si rileva – secondo il Rapporto – la persistenza di alcune criticità legate all’applicazione dell’istituto come, in particolare, l’utilizzo improprio del whistleblowing per segnalazioni riferite a materie non di competenza dell’ente, la scarsa qualità delle segnalazioni, la scarsa fiducia nell’istituto, la difficoltà dell’istituto ad attecchire nei contesti lavorativi, soprattutto in quelli di ridotte dimensioni. Si lamenta, poi, che molte segnalazioni denunciano presunti malfunzionamenti che non hanno nulla a che fare con la corruzione e quindi non rientrano nei casi di whistleblower. Per dare un’idea di come funzionano veramente le cose citiamo di seguito alcuni esempi dell’incidenza delle segnalazioni anonime sul totale nell’arco temporale considerato (il 2018). MEF: 2 anonime su 11 di cui 7 provenienti da soggetti esterni l’amministrazione; Agenzia delle Entrate: 30 su 35; Sardegna: 1 su 8; Basilicata: 1 su 2; Milano:16 su 20; Palermo: 12 su 28; Roma Capitale: 1 su 4; Trieste: 1 su 3. Sanità: Ausl Bologna 11 anonime su 17; ASL Roma 1: 2 su 4; ASL Bari 14 anonime. Enti: Inps 1 su 13, ma ben 6 provenienti da soggetti esterni. Società pubbliche: RAI 21 su 52; Consip: 33 su 49: Leonardo Finmeccanica 57 su 68; AMA Roma solo 3 anonime. Non risultano (sic!) segnalazioni nelle Università. Che dire in conclusione? La lotta alla corruzione è un’impresa nobile e giusta. Purché non si trasformi – impiegando uomini, donne, apparati e mezzi – in una caccia alle farfalle sotto l’Arco di Tito.

L'abbaglio. Severino e Spazzacorrotti hanno fallito, processi ai singoli non come deterrente. Alberto Cisterna su Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Un’indagine di corruzione, come altre, come tante. Un’indagine all’apparenza anche ben condotta e capace di incidere in un ganglio di malaffare di un certo livello. Sin qui nulla da dire, anzi non si può che essere soddisfatti. Poi, come un’ombra che rannuvola, le parole del pubblico ministero. Si duole la toga della circostanza che «i numerosi provvedimenti restrittivi emessi» in altri procedimenti «non abbiano esercitato alcun effetto deterrente rispetto alle analoghe condotte contestate agli odierni indagati nella presente vicenda». Parole che schiudono, con una certa schiettezza e sincerità, uno scenario non certo imprevisto o eccentrico, ma tenuto sempre in disparte e in ombra dai tempi di Tangentopoli in poi. Ossia che le manette dovessero avere anche un «effetto deterrente» per i consociati. Si badi bene non per gli stessi indagati – magari arrestati in altre indagini e incalliti recidivi – ma per tutti coloro i quali operano come loro in quel mondo, si muovono in quell’amministrazione consumando altre corruzioni e altro malaffare. E qui si impone una riflessione. Non sta scritto in nessuna norma del codice che si possa rimproverare a un indagato di non aver subìto l’effetto deterrente di altre misure emesse in altri processi. Non sta scritto perché ogni misura restrittiva costituisce o dovrebbe costituire l’esito di una rigorosa valutazione “personalizzata” dei fatti in cui a rilevare dovrebbero essere solo le condotte dell’arrestato, non la sua insensibilità al monito pubblico che deriva dall’enfatizzazione mediatica di precedenti catture. Appare chiaro, non nelle parole ora ricordate, in sé marginali, ma nell’ideologia dell’uso della custodia cautelare che esse evocano che il ricorso alle manette risente (ancora e in modo prepotente) della volontà dell’inquirente di imprimere un monito, una deterrenza nella comunità in modo da frenare ogni malintenzionato dall’idea di commettere lo stesso reato. Non è una volontà obliqua o illecita quella dell’inquirente, si badi bene, ma piuttosto appare direttamente coerente a una radicata visione della giurisdizione investigativa intesa come strumento per realizzare e affermare il controllo di legalità. Se il fine dell’attività inquirente è quello di vigilare sulla legalità/moralità (si vedano le insuperabili parole di Filippo Sgubbi in «Diritto penale totale») dei consociati e dei pubblici amministratori in particolare, allora è necessario, anzi indispensabile che ogni tintinnar di manette susciti una deterrenza ovvero la paura di subire la stessa sorte se si commetteranno gli stessi reati. E questo a prescindere da ogni “personalizzazione” e da ogni adeguamento della misura al singolo fatto in modo da affermare un’uguaglianza cieca che equipara tra loro i sudditi, senza considerarli cittadini. Alla pena esemplare si sostituisce, anticipandola, la misura esemplare quale conseguenza diretta proporzionale e proporzionata alla callidità del reo non per ciò che ha commesso, ma per il fatto che subdolamente ha anche ignorato l’ammonimento impartito agli altri e non si è preoccupato di modificare repentinamente le proprie condotte per non incorrere nello stesso rigore. Certo traspare in questa posizione un senso di impotenza e di sconsolato pessimismo sulla condizione della società, ma questo non può giustificare un fallo da frustrazione sul reprobo di turno. Se non si vince la partita non si può certo azzoppare il lesto attaccante avversario che continua a fare goal, pensando così di intimidire tutta la squadra avversaria e tutte le altre formazioni delle dispute a venire. Il processo ha delle regole, efficaci o inefficaci non tocca ai magistrati stabilirlo, che devono essere osservate sempre e comunque quanti reti segni l’avversario e quanto pesante possa sembrare la posizione di classifica. Semplicemente perché non esiste un campionato e non sono previsti bilanci consuntivi per l’inquirente, ma ogni processo è una partita singola, irripetibile e unica da giocare sempre con lealtà e senza rancori o accanimenti di sorta. Non si mandano segnali agli avversari, né li si intimidisce con messaggi trasversali, avvantaggiandosi degli immancabili coreuti del manettarismo (ulteriore degenerazione del giustizialismo). Infine, trattandosi di corruzione e di appalti, proprio le considerazioni da cui ha preso avvio questa breve riflessione inducono a un ulteriore punto di analisi circa l’efficacia che la legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno avuto sul versante della prevenzione del malaffare. Innanzitutto pare evidente il sostanziale fallimento in Italia dei sistemi di prevenzione della corruzione nel settore sia pubblico che privato. Le inchieste svelano mercimoni non occasionali o episodici, ma sistemici e profondamente radicati nel business che coinvolge la pubblica amministrazione. Se ne desume che i modelli di prevenzione sono praticamente carta straccia e che nessuno in verità riesce a vigilare efficacemente su quanto accade negli uffici di spesa del Moloch amministrativo del Paese. Secondariamente par chiaro che se l’intento del legislatore era quello di coltivare l’inasprimento delle pene per esercitare un «effetto deterrente» sui rei, la strada scelta sta consegnando risultati scarsi e di gran lunga distanti dall’obiettivo prefisso. Restano, invece, in ombra strumenti importanti come l’agente sotto copertura e il whistleblowing (ossia la segnalazione anonima delle condotte illecite) e si continua ancora a puntare tutto sulle intercettazioni con un’auspicata, ulteriore agevolazione nell’uso dei trojan informatici nella conversione in legge del decreto intercettazioni. Una strada palesemente inefficace e, ormai, di corto respiro che consente di incastrare i soliti voraci “pesci piccoli” e che non riesce a colpire i protagonisti delle reti complesse della corruzione sistemica. Gli uni e gli altri, però, sembrano così somiglianti a quell’indimenticabile scena di “Guardie e ladri” in cui un ansimante Aldo Fabrizi, in divisa da poliziotto, vuole costringere a un pari esausto e riluttante Totò de Curtis, ladro incallito, a farsi ammanettare; con il secondo che, alla minaccia del primo di sparare in aria un colpo di pistola a scopo intimidatorio, gli risponde “fai pure tanto io non mi intimido”.

·        I Giustizialisti.

Presunzione d’innocenza. L’enfasi dei circoli mediatico-giudiziari diffonde la patologia del giustizialismo, spiega Cafiero de Raho. L'Inkiesta il 13 Dicembre 2021. Entra in vigore la legge che impone regole più stringenti alla comunicazione dei magistrati sulla colpevolezza degli imputati. Il superprocuratore Antimafia e Antiterrorismo dice di essere «perfettamente d’accordo». E sulla riforma del Csm, propone la formula del sorteggio per evitare interferenze. Nel giorno in cui entra in vigore la legge che (in recepimento della direttiva europea 2016/343) impone regole più stringenti alla comunicazione dei magistrati sulla colpevolezza degli imputati, il superprocuratore Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho in un’intervista alla Stampa dice di essere «perfettamente d’accordo». Il magistrato napoletano spiega: «Bisogna escludere dalle nostre comunicazioni qualunque indicazione che possa far apparire come colpevoli i soggetti coinvolti in un’indagine. Personalmente, l’ho sempre fatto a ogni conferenza stampa che ho tenuto. Ho sempre sottolineato che le responsabilità sarebbero state accertate in modo definitivo solo con le sentenze».

Qualche giorno fa, nell’aula magna della Cassazione, ospite di un convegno organizzato dalla corrente Unicost, de Raho ha detto che «coltivare il dubbio, deve fare parte della cultura del magistrato. Mai pensare che una persona, anche se nei suoi confronti è stata emessa una ordinanza di custodia, sia un colpevole». E ha aggiunto che «il decreto legislativo ha voluto richiamare l’attenzione di tutti sulle conseguenze di un’informazione che sia particolarmente “cattiva” nei confronti di coloro i quali vengono raggiunti da misura cautelare».

De Raho racconta alla Stampa: «Abbiamo assistito addirittura a suicidi di persone indagate, che si ritenevano del tutto innocenti. D’altra parte, sapere è un diritto del cittadino. È necessario dare diffusione della notizia di ordinanze cautelari. Ed è necessario che tutto questo avvenga in modo da conseguire la finalità prima delle informazioni, cioè dare al cittadino un senso di sicurezza e di protezione, di efficienza del sistema giudiziario. Aggiungo che in terre di mafia, serve anche mandare il messaggio che delinquere non conviene». Ma «nell’ambito della comunicazione va respinta l’immagine del magistrato quale depositario della morale collettiva. Al magistrato spetta solamente di applicare la legge; è questo il suo dovere, non fare il moralista».

Secondo il procuratore, «l’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria. Probabilmente anche la stampa dovrebbe trovare un maggiore temperamento. Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti».

Sulla riforma Cartabia che pone tempi inderogabili ai gradi del processo, il magistrato dice che «se alla nuova disciplina, come è stato detto e come peraltro il Pnrr prevede, si accompagneranno risorse sufficienti, quindi più personale e una completa digitalizzazione, i tempi dei processi dovrebbero abbassarsi e dovrebbero essere rispettati anche da quei distretti che dimostrano le maggiori criticità».

E alla vigilia della riforma del Csm, De Raho afferma che dal suo punto di vista «la modalità più lineare e più obiettiva per comporre il Consiglio sarebbe quella del sorteggio, che esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque. Mi è chiaro che il quadro porta in altra direzione: si vuole modificare la situazione, ma non nella direzione del sorteggio. Continuo a pensare, però, che il sorteggio corrisponda esattamente alla capacità del magistrato medio. Non mi scandalizzerei, anzi credo che sarebbe la modalità attraverso cui escludere qualunque eccessiva interferenza o condizionamento».

Una scelta radicale. «D’alto canto le valutazioni di professionalità a cui sono sottoposti i magistrati, sono tali che di per sé evidenziano una magistratura che risponde alle esigenze di specializzazione richieste anche nell’ambito del Csm». E «se anche se non fosse il mero sorteggio, almeno un sistema misto, con votazioni che portino a un numero ampio di eletti, tra i quali poi procedere a sorteggio, ci darebbe una rosa di personalità capace comunque di limitare interferenze o condizionamenti».

Le bizzarre argomentazioni. Travaglio e Davigo sono così abituati ad accusare, che continuano a farlo anche quando devono difendersi. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 27 Novembre 2021. In un recentissimo suo editoriale, Marco Travaglio se la prende con chi esulta per la imminente richiesta di rinvio a giudizio del dott. Piercamillo Davigo da parte della Procura di Brescia. Obiezione condivisibile, se non provenisse da quel giornalista, e da quel giornale. Entrambi, infatti, da sempre non fanno altro, quando a rischiare il processo non siano Davigo o – vado a memoria – la Raggi e pochissimi altri. Basta anzi la semplice iscrizione nel registro degli indagati di chiunque non sia nelle grazie de Il Fatto Quotidiano, per far esplodere titoli, servizi ed inchieste al fulmicotone, nonché fiumi di sarcasmo e vignette contumeliose. D’altro canto, si tratta di un quotidiano che ha di recente messo a punto perfino la finora inedita categoria del politico “ex-indagato”, quale stigma di indegnità. È accaduto con le anticipazioni sulla giunta del neo sindaco Gualtieri (colpevole di non essere la Raggi). Tre assessori (o candidati ad esserlo, non ricordo), presentati, con tanto di fotina, come “ex-indagati” (nella ex indagine ex “mafia” capitale), seppure con la algida precisazione di essere stati poi “archiviati”, notizia palesemente avvertita come accessoria e marginale rispetto a quella principale (ex “indagati”). Una indecenza, nell’ancor più indecente e pavido silenzio dell’Ordine dei giornalisti (ecco perché aveva ragione Pannella, gli Ordini professionali vanno semplicemente aboliti). Peraltro, Travaglio e Davigo (o Travigo e Davaglio, è lo stesso) sono così naturalmente abituati ad accusare, che continuano a farlo anche quando devono difendersi. Basterà leggere le prime reazioni del dott. Davigo alle cattive notizie bresciane, e la successiva loro formalizzazione nell’editoriale di Travaglio, per trovarne conferma. La tesi, in sintesi, è questa: Davigo ha diffuso i verbali di sommarie informazioni testimoniali ricevuti dal pm Storari, non essendo invocabile la segretezza degli stessi in quanto membro del Csm lui e membri del Csm (addirittura il vice-Presidente Ermini) i destinatari da lui selezionati. Quale sarebbe il riscontro della liceità della condotta di Davigo? Ce lo spiega il Direttore (ripetendo quanto detto dal dott. Davigo il giorno prima): “Sta commettendo un reato? I colleghi del Csm ritengono di no sennò lo denuncerebbero per non commetterne uno a propria volta (omessa denuncia del [intende dire: da parte del, n.d.r.] pubblico ufficiale)”. Eccola lì, la chiamata in correità preventiva, nei confronti dei membri del Csm che hanno ricevuto i verbali senza fiatare. Ma mica si ferma qui, la furia iconoclasta del “muoia Sansone” eccetera. Sentite qui: “Neppure il vicepresidente Ermini, che corre ad avvertire il presidente Mattarella, senza che questi eccepisca nulla, poi distrugge i verbali avuti da Davigo (cioè la prova del possibile reato che, se fosse tale, lo renderebbe colpevole di favoreggiamento, oltreché di correità nella rivelazione di segreti al capo dello Stato)”. E poi, non pago: “Anche Salvi, pg di Cassazione e titolare dell’azione disciplinare, si guarda bene dall’avviarne una contro Davigo. Anzi, usa le sue informazioni”. E conclude, perché non residuino dubbi: “Al processo, quando Davigo chiamerà tutti a testimoniare, ci sarà da divertirsi”. A Roma si dice: “Capito come?”. Queste sono le persone di cui stiamo parlando, così sono abituati a fare e a ragionare, se osi sfiorarli. Quel fatto non è penalmente illecito perché una serie di persone che avrebbero dovuto altrimenti denunciarlo (compresi il Capo dello Stato, il vicepresidente del Csm ed il Procuratore Generale della Cassazione), non lo hanno fatto. Se non vale come argomento, vale di certo come avvertimento. Come argomento difensivo, lasciatemi coltivare qualche dubbio. È una strategia a metà strada tra “muoia Sansone” e “e allora le Foibe?”: non si va granché lontani, temo. Anche perché il Direttore ha prudentemente omesso di parlare dei verbali esibiti al mitico onorevole Morra, nella tromba delle scale. Va beh, succede di dimenticare qualche dettaglio. Come avvertimento, non so: giudicate voi. Lo spettacolo, consentitemelo, è quantomeno desolante. Mamma mia che gente si incontra di questi tempi, signora mia!

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane

Toga Pride. È il giornalismo giustizialista che fa i magistrati forcaioli, non il contrario. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 25 Novembre 2021. Grazie alla legittimazione dei media, sia televisivi che cartacei, i giudici militanti ricevono una consacrazione che, in altri tempi, non sarebbe stata pensabile. E sono spinti a sostenere cose che, se fossero al bar, si vergognerebbero di dire. Forse è tempo di rivedere almeno in parte il ragionamento di denuncia che pur giustamente si è fatto sul rapporto perverso tra magistratura militante e giornalismo ad essa associato: e di precisare che non si è trattato di connubio, ma di filiazione. L’intimidazione giudiziaria, l’abuso inquirente, lo strapotere del contro-governo delle Procure della Repubblica, erano, e rimangono, meno fenomeni originari che creature della legittimazione giornalistica. E non nel senso che non ci fossero già prima della trasformazione dei giornali e delle televisioni in una perenne ribalta Toga Pride, ma nel senso che senza quell’accreditamento mediatico sarebbero rimasti al rango di una comune malversazione. Trent’anni dopo, la requisitoria contro l’innocente qualificato «cinico mercante di morte» sarebbe stata reiterata dal palcoscenico quotidianamente offerto dal giornalismo procuratorio agli influencer della magistratura combattente, quelli che non ascolterebbe nessuno se dicessero al bar, o in famiglia, o alla scorta, che gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca o che un po’ di galera per gli innocenti è dopotutto fisiologica: ma lo dicono in televisione, o sui giornali che senza perplessità incassano e rilanciano quegli spropositi.

Si potrebbe obiettare che chi arresta è infine il magistrato, non il giornalista che gli regge il microfono e ne canta le gesta. Ma l’errore è proprio in questa obiezione: perché la vera pericolosità dell’arbitrio, della violenza del potere, dell’abuso, non sta nel fatto che siano commessi ma nella circostanza che siano legittimati. E l’illegalità giudiziaria non si legittima da sola, ma nel battesimo giornalistico. 

Il protagonismo dei magistrati è una sindrome che non si cancella. Riscattare un periodo nero come questo, dal caso Palamara ai veleni della Procura di Milano. Fabrizio Rizzi su Il Quotidiano del Sud il 25 Novembre 2021. Che Mani pulite fosse un’inchiesta nella quale confluissero umori di un paese che non aveva mai visto un’azione profonda dei Pubblici ministeri, lo si sapeva. Quello che non si sapeva è che il protagonismo dei magistrati arrivasse a punti estremi, toccando i tasti più forti della democrazia. Malgrado siano trascorsi circa 30 anni, realizzare un bilancio sembra prematuro, acerbo, al limite non attuale. Ci fu un tempo in cui lo schieramento di telecamere, o apparecchi fotografici, dentro i corridoi delle Procure, veniva bollato come l’apparizione del circo mediatico, da allora quell’espressione è diventata calzante, nessuno ne ha più contestato l’origine ed è entrata nel lessico. Ma sul protagonismo, che non ha mai cessato di esistere, il discorso sarebbe lungo e viziato da spinte politiche. Di sicuro, però, è una sindrome che non si cancella, magari è sgualcita, ma è rimasta come appiccicata, come qualcosa che non si può lavare tanto facilmente.  Il presidente della Repubblica ne ha parlato alla cerimonia per il decennale della Scuola, superiore di magistratura a Villa Castelpulci, a Scandicci. C’erano ovviamente altre personalità del mondo giudiziario, dalla Guardasigilli, Marta Cartabia al vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini. E di fronte a questi “numeri 1” della giustizia ha lanciato un monito. Primo, fra tutti, la necessità di una riforma del Csm. Secondo, ritrovare il vigore ed evitare protagonismi. Soprattutto per riscattare un periodo nero come questo, con una serie di scandali dal caso Palamara ai veleni della Procura di Milano, che non hanno recato segnali positivi. Per il Capo dello Stato, “le vicende registrate negli ultimi tempi non possono e non devono indebolire l’esercizio della funzione giustizia – essenziale per la coesione di una comunità – attività svolta quotidianamente con serietà, impegno e dedizione negli uffici giudiziari. Se così non fosse, ne risulterebbero conseguenze assai gravi per l’ordine sociale e per l’assetto democratico del Paese”. Un punto questo approfondito anche da David Ermini. “Dimostrare esercitando la giurisdizione in modo indipendente e imparziale che la magistratura non è quella degli scandali ma è quella che rende giustizia al servizio della collettività”. Il presidente Mattarella ha comunque sottolineato l’esigenza della riforma del Csm. Ed ha incalzato: “Il dibattito sul sistema elettorale dei componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della composizione elettorale sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Per cui ha aggiunto, “è indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore. Non si può accettare il rischio di dover indire le elezioni con vecchie regole”.

DAL PRESIDENTE MONITO SUI FONDI PNRR

Il Capo dello Stato ha lanciato un monito sui fondi Pnrr durante una cerimonia che si è svolta al Quirinale. Mattarella ha chiesto di “usare bene i fondi del Pnrr, ma, parlando sempre ai referendari di nuova nomina della Corte dei conti, ha chiesto anche di avere “attenzione alla corruzione”.

DEM, DEBUTTO DEI 5 STELLE ALLE AGORÀ

Chi si aspettava un flop alle agorà dei Dem, è rimasto deluso. Non c’è nessun sfaldamento. Anzi, c’è stato un debutto di alta valenza politica. Enrico Letta aveva esplicitamente legato l’ingresso nel campo largo di centrosinistra alla partecipazione alle agorà. Aveva detto che per partecipare bisognava soltanto pagare 1 euro. Ma da allora il progetto di avvicinamento ha subito degli strappi. E soprattutto ci sono state delle fermate dopo le intemerate della Leopolda. Appare ormai impossibile che Italia Viva possa rientrare nel perimetro del Campo largo. Dai 5 stelle ci si attendeva un segnale, che è arrivato con la presenza di una esponente di spicco del movimento. Un dato, sottolineano, che conferisce al M5s un’immagine di un partito in movimento. Dall’elezione del segretario Letta il Pd è impegnato in un rovesciamento del paradigma della presenza femminile in politica, iniziata con l’elezione delle due capigruppo di Camera e Senato. Già si conta il risultato: “Nel Pnrr siamo riusciti a mettere la clausola di premialità obbligatoria sul lavoro femminile, un passaggio fondamentale”. Ma, incalza, c’è ancora molto da fare.

“La Lega sta giocando sporco sui referendum sulla giustizia”. Il Dubbio il 12 novembre 2021. Riccardo Magi non è rimasto indifferente sull'atteggiamento della Lega in merito alla raccolta firme per i referendum sulla giustizia. Ecco cosa contesta. Il presidente e deputato di +Europa, Riccardo Magi, in un’intervista a “La Notizia“, palesa il suo malumore per i quesiti referendari sulla giustizia su cui la Lega starebbe facendo un gioco sporco. Magi, lo ricordiamo, è il promotore dei quesiti rilanciati in primi dai Radicali. “L’aspetto più sconcertante è che prima aveva chiesto una proroga per la consegna delle firme per il referendum, e poi ieri ha presentato un emendamento soppressivo contro quella stessa norma. È un comportamento a dir poco sorprendente e direi anche strumentale”.

Magi: “Tutto ciò è sconcertante”

La Lega infatti stava raccogliendo le firme con i Radicali, presentando due ordini del gioco, uno al Senato e uno alla Camera, avanzando la proposta che la consegna delle firme slittasse a fino ottobre. Poi, però, è intervenuto un decreto legge del Governo, che Magi commenta così: “Ed è stato un bene perché in questo modo non si è creata disparità tra le tante campagne referendarie in corso: tutte hanno avuto modo di raccogliere le firme ed eventualmente consegnarle. Anzi: anche la Lega ne ha usufruito dato che ha raccolto firme fino a ottobre, pure se poi non le ha consegnate. E poi c’è stato il tanto discusso emendamento. Che io definirei sconcertante. È stato presentato un emendamento per sopprimere quello stesso decreto voluto dal Carroccio. Ma l’aspetto più assurdo è che quest’emendamento travolge il piano del diritto e affossa la credibilità del governo dato che, voglio ricordare, la Lega fa parte di quest’esecutivo e di questa maggioranza”.

La Lega “si sta vendicando”

Secondo Magi, la Lega sta assumendo un atteggiamento vendicativo. “Noi in pochi giorni abbiamo superato la soglia delle 500mi1a firme, loro no… Ma l’aspetto più grave è che non ci si è posti il minimo problema e si è preferito giocare sporco. Cosa che sembra accadere ogni volta che c’è di mezzo il tema cannabis legale… La verità è che questo tema viene tenuto sempre fuori dalla discussione politica”. E conclude: “Se fai una legge tra le più repressive d’Europa mandando piccoli spacciatori in cella e riempiendo le carceri col rischio sovraffollamento, e in tutto questo non riesci però a risolvere il problema dato che il consumo è in crescita così come i guadagni della criminalità, significa che hai sbagliato tutto. Tutti i responsabili di queste politiche dovrebbero ritirarsi”.

Ergastolo, la Meloni fa le barricate contro la Consulta. Angela Stella su Il Riformista il 10 Novembre 2021. La narrazione apocalittica ed irrazionale sull’ergastolo ostativo si è manifestata ieri durante la conferenza stampa di Fratelli d’Italia che ha presentato due proposte di legge (una di natura costituzionale e una di rango ordinario) per dare attuazione, in senso contrario, alla sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione. Proprio la leader di Fd’I, Giorgia Meloni, si è lasciata andare a considerazioni che hanno solo il difetto di stimolare gli istinti manettari più bassi della popolazione: «Si rischia che a maggio 2022 mafiosi conclamati e assassini, invece di rimanere in galera, come vorrebbe il carcere ostativo, possano tornare in libertà a fare i loro comodi perché hanno avuto una buona condotta in carcere, che è una cosa indegna. A me, se hai avuto una buona condotta in carcere, non frega niente». E poi una lezione tragicomica sul “garangiustizialismo”: Fd’I «è da sempre un partito in prima fila nella lotta alla criminalità organizzata, siamo un partito che si definisce garantista nella fase dello svolgimento del processo e giustizialista per l’applicazione della pena, quindi i cittadini secondo noi devono avere tutte le garanzie del caso ma una volta applicate le condanne bisogna rispettarle». E poi arrivano i Cinque Stelle a rivendicare di essere stati tra i primi a presentare un pdl per ‘un nuovo ergastolo ostativo’: «Ci siamo mossi con largo anticipo perché, in assenza di un intervento legislativo da parte del Parlamento, tra sei mesi potremmo rischiare di vedere alcuni boss ancora pericolosi, in quanto non hanno reciso i legami con la criminalità organizzata, usufruire di alcuni benefici e uscire dal carcere. Noi ci auguriamo che ci sia piena collaborazione tra le forze politiche perché non c’è più tempo da perdere».

A rischio il logos della civiltà moderna. Giorgia Meloni attacca la Costituzione: la leader di FdI vuole cancellare lo Stato di diritto. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Novembre 2021. C’è un articolo della nostra Costituzione, l’articolo numero 27, che ha una particolare importanza nell’impianto generale dello stato di diritto. Perché contiene non solo una direttiva, ma un principio generale, che nasce dallo spirito della nostra civiltà cristiana e illuminista. Per usare una parola greca, molto conosciuta, questo principio è il logos della civiltà moderna. L’articolo numero 27 fu scritto parola per parola da personaggi fondamentali nella storia della repubblica. Quelli che si chiamano i padri costituenti. De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Saragat, Pajetta, Gullo, Calamandrei. Alcuni di loro avevano conosciuto la prigione durante il fascismo. Qualcuno l’aveva conosciuta anche molto bene: l’aveva potuta studiare da dentro per oltre dieci anni. Dice così, quell’articolo della Costituzione (al terzo comma): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. L’altra sera la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha annunciato un disegno di legge per la modifica di questo articolo. La ragione immediata è impedire che la Corte Costituzionale, in assenza di iniziativa del parlamento, alla scadenza del mese di maggio renda definitivo il divieto dell’ergastolo ostativo. La ragione più generale è quella di rilanciare in Italia una politica punizionista, dove il carcere assuma un ruolo centrale nei rapporti tra legge e società, e che chiuda il periodo lungo e contrastato iniziato circa 50 anni fa e sempre caratterizzato da una lotta tra liberali e reazionari sul fronte della politica carceraria. È stata una lotta piena di colpi e contraccolpi, dalle leggi liberali volute da Mario Gozzini (parlamentare di sinistra, cattolico), alle leggi di segno opposto, quelle dell’emergenza, volute dalla magistratura (spesso dalla sinistra della magistratura), dai provvedimenti per alleggerire il sovraffollamento delle carceri e per esaltare le pene alternative, ai ritorni di fiamma “sbirreschi” come quelli recenti del governo gialloverde e del ministro Bonafede, e poi ancora, negli anni novanta, alla sollevazione della magistratura contro il famoso decreto Biondi (che limitava la carcerazione preventiva) e al varo delle varie pene ostative, fino all’ergastolo, e al 41 bis. In sintesi, la questione è questa. Al momento in Italia esiste l’ergastolo ostativo, che anche molti magistrati chiamano carcere duro. E poi esiste il 41 bis che è un articolo del regolamento carcerario. Ergastolo ostativo vuol dire che devi restare in prigione sempre, senza permessi e comunque finché non muori. Non è possibile nessuna liberazione anticipata. Il 41 bis invece è applicato con intensità diverse e giunge fino a regimi medievali. Il condannato (o anche il detenuto in attesa di giudizio e sospettato di reati di tipo mafioso) è isolato, non può vedere la Tv, non può parlare con nessuno, non incontra mai gli altri prigionieri, non può cucinare, non può ricevere regali e aiuti da fuori, ha pochissime possibilità di parlare con i suoi parenti, i figli, la moglie o il marito, l’avvocato, e comunque deve farlo sempre protetto da un vetro blindato. Il contatto fisico è vietatissimo. Permesso solo ai bambini sotto i dodici anni, ma non sempre. Con le scene strazianti dei figlioletti che al compimento dell’anno dodicesimo non possono più abbracciare il proprio papà come hanno fatto fino alla settimana prima. Naturalmente ergastolo ostativo e 41 bis sono in netto contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Sia perché impongono pene contrarie al senso di umanità, sia perché in nessun modo possono tendere alla rieducazione del prigioniero. E sono anche in violazione palese della dichiarazione dei diritti dell’Uomo del 1948 e delle poco conosciute “Mandela Rules” (che qualche mese fa abbiamo pubblicato su questo giornale) approvate dall’Onu all’inizio di questo secolo (che, tra le altre cose, vietano l’isolamento del carcerato per più di 15 giorni). Nello scorso mese di maggio la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sull’ergastolo ostativo. E ha deciso, con prudenza, di dare al Parlamento un anno di tempo per abolirlo o modificarlo, dichiarando che, nelle condizioni attuali, è illegale. Arriva qui l’iniziativa di Giorgia Meloni. La quale, saggiamente, non contesta l’incostituzionalità, evidente, del carcere duro, ma contesta la Costituzione. E propone la modifica dell’articolo 27, da realizzare in tempi molto rapidi, in modo da evitare il contrasto tra Costituzione e punizione inumana, rendere non decisiva la condizione della rieducazione, e così togliere le castagne dal fuoco alla stessa Corte Costituzionale. Può avere successo l’iniziativa di Giorgia Meloni? I numeri sono ballerini. Attualmente, diciamo che sulla linea Meloni, a occhio, si trovano solo i 5 Stelle – che hanno sempre difeso l’ergastolo ostativo – e naturalmente Fratelli d’Italia. Meloniani e grillini però non dispongono di maggioranza parlamentare. Si può immaginare che a una modifica costituzionale di questo genere si oppongano Forza Italia, il Pd, Iv e gli altri piccoli gruppi liberali. Resta il punto interrogativo sulla Lega, che tra tutti i partiti italiani, in tema Giustizia, è tra i partiti più altalenanti. A volte garantista a 24 carati, a volte amante della forca e delle maniere forti (“buttate la chiave” è uno degli slogan politico-giudiziari più amati da Salvini). Se la Lega dovesse unirsi al fronte reazionario Fdl-5 Stelle la maggioranza per cambiare la Costituzione ci sarebbe, almeno sulla carta. Non sto parlando di fantapolitica. E neppure di un aspetto minore della lotta politica. Nei prossimi anni la giustizia sarà uno dei campi di battaglia della politica italiana. E si confronteranno due concezioni del mondo assai lontane tra loro e incompatibili. Quella punizionista, che pone la pena al centro della legalità. E quella garantista, che mette il diritto, il cittadino e la libertà a pilastri della civiltà. Il primo schieramento, il quale, seppure involontariamente, si ispira alla Sharia islamica, è molto vasto e fa riferimento ai vecchi principi reazionari. Il secondo schieramento è variegato, tutt’altro che unito, timido e spesso privo di sufficienti motivazioni culturali. Perciò la battaglia sarà molto dura e non è affatto detto che vincano i liberali. E se finirà per essere cancellato l’articolo 27 della Costituzione, secondo me, la Costituzione non esisterà più. Avrà perso l’anima e il volto. Sarà trasformata in un gelido regolamento politico.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il fine pena mai proposto dalla Meloni è una vendetta che rende la società più insicura. Salvatore Curreri su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Le due proposte di legge (l’una costituzionale, l’altra ordinaria) presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica che pur si candida alla guida del Paese dai principi della nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione, nonostante ci separino quasi 75 anni dalla sua approvazione e più di 250 dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Difatti, tra le tre possibili finalità della pena – intimidatoria, afflittiva ed emendativa – i costituenti (alcuni dei quali il carcere l’avevano vissuto di persona) decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui, l’art. 27.3 Cost. secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti (c.d. concezione polifunzionale), come reiteratamente si afferma nella relazione della proposta di legge costituzionale a prima firma Giorgia Meloni, perché, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018 (non a caso mai citata in tale relazione) la rieducazione del condannato è la finalità principale e ineludibile della pena e non può mai essere sacrificata «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena». Del resto, è proprio per smorzare e, in fin dei conti, contraddire la prevalente finalità rieducativa che Fratelli d’Italia propone d’aggiungere al citato art. 27.3 Cost. l’inciso per cui «la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini», perché – Meloni dixit – «a me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente se sei stato un mafioso che hai ammazzato». Una modifica che finirebbe per sfregiare il “volto costituzionale” della pena, che deve sempre essere proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa, flessibile in corso dell’esecuzione anziché immodificabile. Ciò nella convinzione, sottesa alla nostra Costituzione e sideralmente distante dalle parole della Presidente di Fratelli d’Italia, che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» che chiama in causa sia la sua responsabilità individuale «nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità», sia «la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino» (C. cost. 149/2018, 7). Sono questi i principi che hanno portato dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Viola del 13 giugno 2019 confermata dalla Grande Camera il successivo 8 ottobre) e la Corte costituzionale (sentenze nn. 253 e 263 del 2019 e 97 del 2021) a dichiarare illegittimo il divieto assoluto di accesso a benefici carcerari (permessi premio e liberazione condizionale, peraltro dopo almeno 26 anni di pena scontata) ai condannati per reati associativi di particolare allarme sociale (tra cui mafiosi e terroristi) perché non avevano collaborato con la giustizia. Difatti, come il “collaborare” non implica sempre “un vero pentimento” (come dimostrano i falsi pentiti), analogamente il “non collaborare” non significa sempre “assenza di pentimento”, specie quando ciò è dovuto ad altri fattori, come il timore di ritorsioni contro i propri familiari. Il “fine pena mai” per mafiosi e terroristi dunque contrasta radicalmente con la finalità rieducativa della pena. Ed è solo frutto di una banalizzazione a fini propagandistici affermare che ad un boss mafioso basta aver tenuto una buona condotta in carcere e partecipato ad un programma di rieducazione per essere scarcerato. Spetta, infatti, sempre al giudice di sorveglianza, infatti, valutare attentamente caso per caso la sua effettiva pericolosità sociale, anche qui senza automatismi o presunzioni assolute, sulla base dell’effettiva interruzione dei suoi rapporti con la criminalità organizzata e della sua fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Valutazione peraltro compiuta alla luce delle relazioni del carcere nonché dei pareri della Procura antimafia antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Del resto i numeri sono lì a dimostrare quanto le maglie siano rimaste strette, anche dopo le sentenze della Corte: sono stati infatti solo otto i permessi accordati agli ergastolani e nessuno di loro era sottoposto al carcere duro del 41-bis. Consapevole comunque della delicatezza della materia, la Corte costituzionale, nell’ultima sentenza, ha affidato al legislatore il compito, entro il prossimo 22 maggio, di ridefinire la materia, bilanciando i diritti dell’ergastolano con le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In questa prospettiva le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia e tutte quelle che tendono a reintrodurre il c.d. ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non collaborano con la giustizia si pongono pervicacemente contro l’articolo 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena (che non a caso, come detto, si vorrebbe modificare), di fatto ignorando (o facendo finta d’ignorare) che tale preclusione assoluta è stata già dichiarata incostituzionale dalla Corte. Molto più utili in tal senso sono, piuttosto, le proposte di legge che cercano di rispondere positivamente alle esigenze di bilanciamento sollecitate dalla Corte costituzionale. In questo senso merita particolare menzione quella avanzata dalla Fondazione Giovanni Falcone (tanto per capire chi ne interpreta correttamente il pensiero e chi no). Del resto, come opportunamente ricordato su queste colonne da Tiziana Maiolo, proprio Giovanni Falcone aveva subordinato l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento da parte del giudice di sorveglianza dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e non alla collaborazione con i pubblici ministeri, introdotta piuttosto con il successivo decreto Martelli dell’8 giugno 1992, dopo le stragi di quell’anno. La proposta della Fondazione subordina l’accesso alla libertà vigilata dei mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, non solo al loro “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”, ma anche alle loro iniziative in favore delle vittime ed alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa (tema giustamente molto caro all’attuale ministra della Giustizia). Un’ultima considerazione. Agli alfieri del populismo penale che ritengono la finalità rieducativa della pena discorso da “anime belle” che ignorano come il carcere debba essere una “discarica sociale” popolata da condannati che vi devono marcire sino all’ultimo giorno di pena, forse (ma solo forse) vale la pena ricordare che rieducare ogni condannato non è solo un obbligo morale ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento economico per assicurare la sicurezza sociale. È infatti statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non solo non tendono a fuggire ma, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa minore tasso di recidività, più sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Di contro, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. E purtroppo l’albero fa rumore quando cade, non quando cresce.

Salvatore Curreri

E Borrelli disse: «Se confessano a che serve aspettare le sentenze?» Pubblichiamo un estratto del volume “Lettera a un procuratore della Repubblica”, pubblicato dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel 1993 per Il Sole-24Ore Libri, all’interno della collana “Mondo economico”.  Il Dubbio il 9 novembre 2021. Pubblichiamo un estratto del volume “Lettera a un procuratore della Repubblica”, pubblicato dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel 1993 per Il Sole-24Ore Libri, all’interno della collana “Mondo economico”. 

Signor procuratore della Repubblica, è da tempo che pensavo di scriverLe questa lettera: da quando ho cominciato a seguire le iniziative Sue e dei Suoi colleghi di quasi tutta Italia, nelle vicende di Tangentopoli. (…)Mi decido soltanto ora a scriverLe questa lettera perché mi accorgo che, in realtà, essa è il frutto delle riflessioni che negli ultimi tempi – prima e durante il divampare dell’incendio di Mani pulite — ho raccolto su “Il Sole 24 Ore”. Credo che, in questo benedetto paese, ciascuno non sia mai del tutto soddisfatto del proprio mestiere e cerchi, da dilettante, di farne un altro: io non smentisco la regola e – occupandomi prevalentemente, come professore e come avvocato, di rapporti fra il diritto penale e l’economia – ambisco in fondo a fare il giornalista, o meglio il pubblicista di questi argomenti.Le iniziative Sue e dei Suoi colleghi, in tema di Mani pulite, hanno avuto – a tacere d’altro – grandissimi meriti: quello di tradurre in termini concreti e inderogabili quelle istanze di trasparenza, di legalità e di efficienza che noi teorici ci limitavamo a inseguire astrattamente; quello di avvertire e dimostrare che l’iceberg di Tangentopoli è proprio il frutto di un sistema in cui trasparenza, legalità ed efficienza erano del tutto assenti, nonostante le belle parole e le dichiarazioni di intenti; quello di segnalare la necessità di voltare pagina definitivamente, e subito. (…). Tutto ciò non può non meritare un plauso, ma ha un prezzo che credo sia giusto sottolineare. Ed è per questo che, nelle mie ultime riflessioni giornalistiche, ho cominciato a pormi qualche domanda (mi consenta) sulla tenuta di alcuni principi costituzionali nel metodo di Mani pulite in generale, e ciò senza voler o poter entrare in episodi specifici: dal principio di eguaglianza a quello della riserva di legge; a quello del diritto di difesa; a quello dei limiti della custodia cautelare; a quello della ripartizione di competenza fra i vari giudici e fra i vari pubblici ministeri; a quello del ruolo di entrambi nel sistema costituzionale, rispetto a certe ben note istanze di supplenza che nascono dalla latitanza di altri poteri.Non mi fraintenda. Non sto accusando Lei e i Suoi colleghi di calpestare deliberatamente i principi costituzionali (soprattutto quelli in materia di libertà personale e di diritto al silenzio, come espressione del diritto di difesa, sui quali più si discute in questi tempi). Mi chiedo soltanto se – nella comparazione necessaria fra interessi e princìpi generali, tutti egualmente importanti e significativi per la sopravvivenza del nostro sistema giuridico, e prima ancora istituzionale – si sia tenuto adeguatamente ed egualmente conto di tutti 1 princìpi, anche quando essi potevano apparire (o forse in qualche caso essere) in contrasto fra loro. Non mi risponda (La prego) che il Codice consente ciò che si sta facendo: questo Codice — soprattutto dopo i suoi aggiustamenti, nettamente in contrasto con la sua linea ispiratrice iniziale — consente di fare tutto e il contrario di tutto. Basterebbe pensare al fatto che, in pratica, i processi di Tangentopoli si esauriscono nella fase delle indagini preliminari, in termini cioè esattamente opposti a quanto il codice avrebbe voluto in teoria.Non mi risponda che i provvedimenti in tema di cattura sono stati presi non da Voi, ma dai giudici per le indagini preliminari; che quei provvedimenti sono stati confermati prima dai tribunali della libertà e poi, quasi sempre, anche dalla Cassazione. Potrei replicarLe che la cosa è spiegabile in vari modi, tutti plausibili e tutti da verificare: o perché Voi avevate effettivamente sempre ragione; o perché i giudici del riesame non erano e non sono effettivamente “terzi”, nei Vostri confronti; o, più semplicemente, perché il tempo e lo spazio per il loro riesame è molto più limitato di quanto possa sembrare in teoria; o, ancor più semplicemente, perché ricorrere a essi – in queste condizioni – rappresenta sempre un terno al lotto e rischia di appesantire (attraverso un rigetto) una posizione di custodia e di sofferenza dell’indagato, che può essere risolta più agevolmente con un “negoziato” fra il difensore e il pubblico ministero. (…). Sono convinto che Lei saprà certamente tenere conto di quei dubbi, anche se forse non potrà o non vorrà darmene atto; e – con gratitudine, con fiducia, ma anche con qualche apprensione — Le auguro buon lavoro nell’interesse di tutti. Suo, Giovanni Maria Flick Roma, 5 luglio 1993

Da "Delitto e castigo" alle intercettazioni. Rileggere Dostoevskij è un balsamo contro il giustizialismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Non tutti sanno che il grande romanzo Delitto e castigo sia ispirato fin dal titolo al saggio Dei delitti e delle pene del nostro Cesare Beccaria. Pubblicato nel 1764 è considerato uno dei capisaldi del diritto moderno che ha ispirato leggi e costituzioni di moltissimi Paesi. Fëdor Dostoevskij non lo incontra in maniera casuale. Anche in Russia il libro è molto diffuso e quelle pagine lo spingono a creare uno dei romanzi più potenti della letteratura mondiale. Beccaria così ragiona: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi». Dostoevskij lo legge, forse lo capisce bene anche per le sue vicissitudini personali, lo condivide e ci scrive un libro magistrale sul delitto, sulla colpa, sul perdono. Sul fatto che la pietas vince anche la violenza, la pietas che si esercita nei confronti di chi ha sbagliato, di chi – come in questo caso – ha ucciso. Rodion Romanovič Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e la sorella testimone del primo delitto come atto superomistico, come prova di forza del suo stare al di sopra delle regole, come un dio. La colpa sarà la sua prima condanna. Poi l’incontro con Sonja che rappresenta il perdono, la possibilità di riscatto. Sono innumerevoli le letture che si possono proporre di questo romanzo, ma una cosa è certa: quando lo scrittore russo racconta, lo fa sempre senza giudicare. E questo non giudicare, questo racconto che ci fa empatizzare è la più grande scommessa che si possa fare rispetto all’essere umano. Noi siamo Raskol’nikov. Siamo lui. Diventiamo lui. Non significa giustificare il delitto, pensare che quell’atto sia qualcosa che ci appartiene. Ma sentendo la sua colpa, il peso che porta dentro, assistendo e facendo nostro il suo travaglio compiamo un viaggio unico, fondamentale, bellissimo nella vita dell’altro. E fare un viaggio nella vita dell’altro significa aprirci al perdono, alla comprensione, all’idea che la vendetta, la violenza non possono mai essere una risposta adeguata. Ogni volta che oggi si legge Dostoevskij e si alza la testa dal libro, quello che si vede e si sente è esattamente il contrario. Si giudica, si mette alla gogna, si lincia. Ma è successo qualcosa anche di più grande, di grave, gravissimo, esattamente l’opposto della lettura di Delitto e castigo o dei Fratelli Karamazov: non ci identifichiamo più nell’altro, non siamo capaci di entrare nella sua testa, nel suo cuore, di condividerne le debolezze. Peccato, peccato davvero. La letteratura, potente macchina che ci consente di vivere le vite che non sono le nostre, è stata sostituita dal banale voyeurismo, da lettori e spettatori che guardano dal buco della serratura, senza mai entrare in scena, senza mai provare a recitare le parole più distanti dalle proprie. La letteratura è stata sostituita dalla lettura dei giornali che riportano le intercettazioni, anche quelle che non servono a niente, quelle che dovrebbero essere usate solo nelle aule del tribunale e quelle che dovrebbero invece andare al macero. Sentiamo, leggiamo e l’effetto è quello opposto all’identificazione, alla comprensione, al viaggio nell’essere umano: osserviamo dall’esterno, distanti, giudicanti, pronti a ridere delle altrui debolezze. Dimentichi che le stesse debolezze sono anche nostre, dimentichi che chi non ha peccato scagli la prima pietra. Le pietre sono quelle virtuali che vengono lanciate sui social, sono quelle che i pm hanno tirato con violenza in tutti questi anni, facendo carta straccia della presunzione di innocenza. Ora (forse) non sarà più così e anche le procure dovranno rispettare le norme minime di civiltà. Ma la nostra testa è cambiata, è cambiato anche il modo di fare cultura, di scrivere, di raccontare, sembra che anche gli scrittori o i registi abbiano perso questa intenzione, questa aspirazione. Non tutti e tutte, certo. Ma la cifra stilistica di questo decennio è ben lontano da quello che Dostoevskij ha fatto con le sue opere, farci toccare la carne viva, l’abisso e la rinascita. In Italia uno degli scrittori che ha resistito a questa tendenza è sicuramente Alessandro Piperno di cui è stato di recente pubblicato da Mondadori l’ultimo romanzo, Di chi è la colpa, che fin da titolo è come se volesse aprire un sfida culturale contro il giustizialismo che ha invaso il senso comune. Ma ancora prima con il dittico Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione – Inseparabili) con cui ha vinto il Premio Strega nel 2012 ha messo a nudo la cultura contemporanea rispondendo al circo mediatico con la tragedia dei sentimenti, con il dolore delle accuse ingiuste, delle sentenze anticipate dai media. Una boccata di aria fresca. Ricordare Dostoevskij a duecento anni dalla nascita, rileggere le sue pagine, ha soprattutto questo valore: ritrovare la possibilità di specchiarci nella letteratura, di trovare nelle parole dei grandi scrittori il balsamo contro ogni forma di moralismo. «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell’appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla». Questo è l’incipit di Delitto e Castigo, uno dei più famosi della storia della letteratura. Dal generale al particolare: e in quel particolare ci siamo anche noi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

La biografia. Chi era Fëdor Michajlovič Dostoevskij, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Redazione su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Fëdor Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore e filosofo russo. È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Secondo di otto figli, perde la madre appena sedicenne. Il 16 gennaio 1838 entra alla Scuola Superiore del genio militare di San Pietroburgo, frequentandola però controvoglia. Il 12 agosto 1843 Fëdor si diploma, ma nell’agosto 1844 dà le dimissioni, lascia il servizio militare e rinuncia alla carriera che il titolo gli offre. Lottando contro la povertà e la salute cagionevole, comincia a scrivere il suo primo libro, Povera gente, che vede la luce nel 1846. Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi: viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. Il 18 marzo 1859, congedato dall’esercito, lo scrittore ottiene il permesso di rientrare nella Russia europea stabilendosi a Tver’. Nel 1866 inizia la pubblicazione, a puntate, del romanzo Delitto e castigo. Nel 1867 sposa la sua stenografa Anna e parte con lei per un nuovo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L’idiota. Nel 1868 nasce la figlia Sonja, che vive solo tre mesi. Nel 1879 inizia sulla rivista «Russkij vestnik» la pubblicazione de I fratelli Karamazov, il suo canto del cigno. Muore improvvisamente, in seguito all’aggravarsi del suo enfisema, il 28 gennaio 1881.

I 200 anni dalla nascita. Fëdor Dostoevskij, l’eterno viaggiatore che scavò nel buio dell’anima. Eraldo Affinati su Il Riformista il 7 Novembre 2021. Celebrare i duecento anni dalla nascita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, nato a Mosca l’11 novembre 1821, significa riflettere sull’uomo contemporaneo, al tempo stesso lacerato dalla propria mancanza di certezze e ugualmente teso verso un sistema di valori in grado di dare senso alla vita. I suoi romanzi hanno contribuito a formare la coscienza occidentale e ancora oggi rappresentano il sentiero più prezioso per capire chi siamo e chi vorremmo essere, al punto tale che se un ragazzo di talento, ce ne sono tanti nelle nuove generazioni, ci chiedesse cosa leggere per diventare veramente adulto, gli dovremmo indicare la gloriosa serie dei capolavori maggiori, una sorta di scala santa verso la responsabilità: Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1871) e I fratelli Karamazov (1880), quest’ultimo pubblicato un anno prima della morte. Ma se, per assurdo, un anziano desiderasse stilare un bilancio delle operazioni svolte, ci sentiremmo di suggerirgli la medesima lista. Anche perché un conto è scoprire Raskòl’nikov a quindici anni, come abbiamo fatto in molti, seguendo con il cuore in gola la sua avventura omicida sui pianerottoli umidi e puzzolenti di Pietroburgo, oppure, nella stessa regione anagrafica, immedesimarci nei vaniloqui pazzi e febbrili del principe Myškin, nel momento in cui viaggia semiaddormentato sui treni svizzeri. Un altro conto è partecipare al delirio insano di Stavrogin o interrogarci sull’incredibile ritorno di Cristo in Terra, presente nella Leggenda del Santo Inquisitore, dalla risacca dell’età adulta. Dostoevskij, prisma cangiante, muta prospettiva secondo le stagioni della nostra esistenza. Questo scrittore sembra fatto apposta per esaltare gli spiriti inquieti e pungere quelli pacificati. Tuttavia sulla sua incontestabile centralità letteraria – insieme a Lev Tolstoj compone infatti, come sentenziò George Steiner, il dittico supremo della letteratura moderna – grava un potenziale equivoco che persino i più grandi interpreti hanno svelato senza riuscire a estirparlo dalla percezione popolare. Non basta studiare i manuali di Dmitrij Petrovič Mirskij per capirlo. A cosa vogliamo alludere? Dostoevskij è passato agli atti come l’esploratore del caos, colui che ci trascina negli inferi degli istinti più smodati. Giusto, ma non dovremmo mai dimenticare che l’individuo del sottosuolo, protagonista dell’omonimo romanzo del 1864, figlio scapestrato del giovane romantico e svagato che diciassette anni prima aveva popolato le notti bianche, rappresenta soltanto una tappa intermedia e provvisoria di una faticosa conquista di maturità incisa nella parabola dostoevskiana. È vero che quello sventurato personaggio alla perenne ricerca di se stesso conosce la parte abietta che tutti noi vorremmo evitare, frequentatore assiduo della dimensione oscura che qualche tempo dopo il dottor Freud porterà alla luce, organizzando speciali visite guidate nell’inconscio con ingegnose scalette antincendio e apposite reti protettive. Dovrebbe del resto essere indubbio che Dostoevskij non si fermò lì, nel fondale da cui pure si sentiva irresistibilmente attratto. Per tutta la vita provò a andare oltre. Il suo pensiero, in questo aveva ragione Michail Michailovič Bachtin, era sempre in movimento. Ecco perché I fratelli Karamazov chiudono il cerchio, senza peraltro saldare la frattura: in quel grande romanzo, la storia di un parricidio, le ragioni e i torti si mischiano in modo inestricabile trasformando la responsabilità giuridica di ognuno in un patetico arnese da lavoro che gli uomini utilizzano per imbavagliare i mostri presenti al loro interno, i quali, inutile illudersi, non troveranno mai requie. La verità e la colpa, per chi non si accontenti dei codici, non stanno mai da una parte sola e ogni individuo, dal santo a quello della peggior risma, lo sappia o no, reca in sé un pezzetto dell’una e dell’altra. Il vero esecutore del crimine, Smerdiakov, figlio illegittimo di Fedor, resta impunito: s’impiccherà dopo aver commesso l’assassinio, come se lo scrittore avesse scoperto in lui qualcosa di innominabile: lo scatto predatorio, il buio biologico. Avrebbe forse avuto il bastardo dei Karamazov, come viene sprezzantemente definito dalla voce del popolo, una vera alternativa? Dopo essere stato partorito da sua madre sul pavimento dei servitori, che lo hanno allevato secondo le loro scarse possibilità, cresciuto nell’ombra mortificante e nella povertà miserabile del cortile, simile a un cane, e dopo aver misurato nel tempo la propria clamorosa insufficienza rispetto ai figli legittimi del vecchio padrone, non ha fatto altro che contenere una specie di rabbia furiosa. La vera risposta al suo urlo disarticolato e autodistruttivo s’incarna in Alioscia, il più consapevole ma anche il meno avveduto, dei fratelli, non certo immune alla passione: ama Lisa e, sebbene vinca le tentazioni, comprende appieno quello che, nelle pagine iniziali dell’opera, gli sussurra Rakìtin: «Fa che un uomo s’innamori di una certa bellezza femminile, del corpo di una donna, o magari solo di una parte di esso (…) e per lei si sbarazzerà dei propri figli, venderà il padre e la madre, la Russia e la patria…». Insomma anche Alioscia nel sangue resta un Karamazov, figlio del vecchio satiro Fedor: «Sensuale da parte di padre, juròdivyj (folle in Cristo) da parte di madre». Eppure sarà lui, nell’ultima sezione del romanzo troppo spesso dimenticata o rimossa, intitolata Ragazzi, a fornirci la chiave per evadere dalla prigione dell’io ricucendo lo strappo causato dal male umano. Tempo addietro aveva conosciuto per strada un bambino, Il’juscia, al quale i compagni tiravano i sassi. Dopo averli convinti a recedere, portando dalla sua parte Kòlja, il più feroce del gruppo, quando la piccola vittima prima si ammala e poi muore, li scorta al funerale siglando con loro un patto assoluto: «E così per sempre, tutta la vita per mano! Un urrà per Karamazov!… E ancora una volta i ragazzi fecero coro al suo grido». Eraldo Affinati

Archiviati e offesi. La crociata contro la presunzione d’innocenza e l’anima nera del populismo giudiziario. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. I video montati ad arte dagli inquirenti a scopo comunicativo e i surreali titoli del Fatto sugli «ex indagati», breve antologia degli orrori che rendono necessario recepire la direttiva europea, rispettare la Costituzione e superare lo stato incivile della giustizia italiana. In Italia, da tempo, si discute accanitamente di un decreto legislativo che recepisce le disposizioni di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, principio peraltro previsto dalla nostra Costituzione. Il testo voluto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvato dal governo in agosto, impone agli inquirenti di parlare dei procedimenti in corso nelle sedi deputate e senza violare il suddetto principio, vale a dire senza presentare un semplice indagato come colpevole. In pratica, il decreto cerca di limitare la possibilità di pm e forze dell’ordine di fare quello che fino a cinque minuti fa hanno sempre fatto, ma proprio sempre-sempre-sempre, da che sono bambino. E cioè, per l’appunto, presentare il semplice indagato come colpevole. Allestire solenni conferenze stampa in cui diffondersi per ore sulla sua spietata volontà criminale e sulla bassezza delle sue motivazioni. Scandire in ogni modo davanti a microfoni e telecamere che razza di disgraziato, cinico, implacabile, rivoltante, schifoso essere sia questo Mario Rossi. Quello stesso Mario Rossi per il quale, secondo la nostra Costituzione, vige la presunzione d’innocenza. L’iniziativa, come ogni tentativo di mettere un freno agli abusi di pubblici ministeri e giornalisti da qualche decennio a questa parte, è stata prontamente etichettata come «bavaglio». Immancabile, in proposito, l’intervento del Consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha parlato – non scherzo – di «svolta illiberale» e di «bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubblica». In proposito, Maurizio Crippa sul Foglio di ieri ha ricordato l’incredibile vicenda del video che mostrava il camion di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, girare attorno alla palestra della ragazza. Video mandato in onda da tutti i tg, di cui si è scoperto che era stato montato ad arte dai carabinieri. Luigi Ferrarella, che ha ricostruito la vicenda sul Corriere della sera, ha notato tra l’altro che di recente il tribunale di Milano ha assolto alcuni giornalisti dall’accusa di aver diffamato il capo del Ris parlando di «patacca» e video «taroccato». In particolare, il gip ha osservato che la «diffusione mediatica» di quel video, «il cui scopo era dichiaratamente non probatorio» (non faceva parte degli atti) «ma comunicativo», di fatto lese «il fondamentale principio della presunzione d’innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n. 343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo». Esattamente la direttiva che il decreto vorrebbe attuare. Decreto contro il quale è scattata, puntualmente, la campagna del Fatto quotidiano.

Va detto che quella contro la presunzione di innocenza, più che una battaglia, è la ragione sociale del Fatto. Una crociata combattuta con una passione paragonabile solo a quella con cui da un po’ in qua – cioè da quando a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte – continua a sparare sfilze di titoli allarmisti sui vaccini (l’apertura di ieri, per dire, era un incredibile «63 morti e fuga dalla terza dose», a metà tra fantascienza e poliziottesco anni Settanta).

Ma tutto questo è ancora niente in confronto al modo in cui mercoledì il Fatto ha dato la notizia della nuova giunta capitolina di Roberto Gualtieri. Titolo: «Un indagato e 3 ex inquisiti: Gualtieri sceglie il passato». Nel caso vi fosse sfuggito il neologismo, ve lo ripeto: «Ex inquisiti». Occhiello: «Inchiesta a Roma per abuso d’ufficio sul nuovo city manager. Nella giunta gli archiviati del Mondo di Mezzo». Ripetiamo anche questa, tutti in coro: «Gli archiviati».

Ricapitolando, da un lato, a quanto scrive lo stesso articolo del Fatto, abbiamo un indagato, un manager proveniente dal Poligrafico dello Stato, che deve ancora essere sentito dai pm («qualora venisse accertata la buona fede dei manager del Poligrafico, la Procura potrebbe archiviare»), dall’altro «tre persone sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo, tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Avete letto bene.

Altro che presunzione, qui siamo semmai alla rimozione d’innocenza. Nemmeno il fatto che sia la stessa Procura a stabilire che non ci sono ragioni per procedere basta a risparmiare ai nuovi assessori la messa all’indice, bollati con la surreale definizione di «ex inquisiti». Il fatto di essere stati semplicemente indagati, anni prima, come macchia perpetua e incancellabile, indipendentemente dalle conclusioni degli stessi inquirenti. Dalla presunzione d’innocenza alla colpevolezza a prescindere. Semel «sfiorato», semper «sfiorato». 

Neolingua. La malizia giustizialista di chiamare «ex inquisiti» gli archiviati. Guido Stampanoni Bassi su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. Nella logica ribaltata del processo mediatico non basta la gogna nei confronti di imputati e indagati. Ora il bersaglio è diventato persino chi viene solo sfiorato dalle indagini. Sarebbe come definire «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. In un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano si valorizzano le peculiari qualità di alcuni della nuova giunta comunale di Roma scelta dal neo sindaco Roberto Gualtieri. Si inizia in prima pagina con «Giunta Gualtieri: un indagato e tre ex del caso Buzzi» e si prosegue a pagina 6, dove, al grido di «Romanzo Campidoglio» – a proposito di nomi a effetto – si parla di «prima grana giudiziaria per la squadra del neosindaco della Capitale» e si ricorda come, oltre a un indagato (vade retro Satana!), nella squadra del neosindaco vi sarebbero, udite udite, addirittura ben tre «ex inquisiti». Colpevoli anch’essi (come l’indagato, s’intende) di avere avuto «grane con la giustizia», sono stati «sfiorati dall’inchiesta sul Mondo di mezzo», sebbene – si precisa – siano poi stati «tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Colpisce il lessico (preciso e per nulla casuale).  «Grana giudiziaria»: quale? «Sfiorati dall’inchiesta»: e quindi? E poi la ciliegina sulla torta, il colpo di genio che vale da solo l’acquisto del quotidiano: «ex inquisiti» (in grande e in bella mostra). È vero che la fantasia non ha limiti, ma come può venire in mente di definire «ex inquisito» chi, dopo essere stato indagato, sia stato oggetto di un provvedimento di archiviazione? Certo, è tecnicamente definibile come un «ex inquisito», così come è tecnicamente definibile «ex imputato» chi sia stato assolto con sentenza definitiva; così come era un «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. La prospettiva da cui si guarda alla vicenda tradisce una logica ribaltata degna del celebre libro di Joseph Heller: se sei stato indagato, significa che sotto sotto non sei proprio così innocente e, a quel punto, neanche una archiviazione potrà evitarti il marchio di ex inquisito. Ancora una volta, contano solo le indagini – altrimenti che senso avrebbe riportare negli articoli di stampa il contenuto di intercettazioni telefoniche di procedimenti che, nel frattempo, hanno visto intervenire anche la Cassazione? – e le assoluzioni (ma, a questo punto, anche le archiviazioni) sono buone al massimo per i casellari.  Viene il dubbio che si sia iniziata a prendere sul serio la direttiva sulla presunzione di innocenza – di cui tanto si discute in questi giorni – nella parte in cui vieta di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la sua colpevolezza non sia stata accertata in via definitiva. Forse stiamo iniziando a prenderla finalmente sul serio, appunto. Stiamo iniziando a prendercela anche con gli archiviati. Scusate, con gli ex inquisiti.

Di Matteo e quell’idea populista e approssimativa del potere giudiziario. L'affondo di Caiazza su Di Matteo: "La magistratura non si occupa di fenomeni sociali, ma deve accertare e poi giudicare responsabilità personali". Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 3 novembre 2021. Il dott. Nino Di Matteo ha certamente una virtù: pratica ed esprime con autentica onestà intellettuale una idea della magistratura che la gran parte dei Pubblici Ministeri (e tanta parte delle toghe nostrane) condivide e coltiva, ma evita prudentemente di esplicitare con la trasparente sincerità del P. M. palermitano. Ma è quella esattamente l’idea, caro dott. Di Matteo, che ha – allo stesso tempo- consumato in questi trent’anni la credibilità della magistratura agli occhi della pubblica opinione, e gravemente alterato gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, a tutto vantaggio del potere giudiziario. L’intervista che il Fatto Quotidiano, non certo a caso, lancia in prima pagina, è ricca di spunti. Mi limito a coglierne qualcuno. Il dott. Di Matteo teme che si voglia approfittate della crisi della magistratura per “regolare i conti” ed “impedirle il controllo di legalità”. È un linguaggio allarmante, che tradisce una idea “antagonistica” confusamente populista e gravemente approssimativa del potere giudiziario. Al quale, sia detto con chiarezza, la Costituzione non affida affatto “il controllo di legalità”. La magistratura non è chiamata ad occuparsi di fenomeni sociali, ed a governarli (criminalità comune, corruzione, mafie), ma ad accertare e poi giudicare responsabilità personali, rigorosamente dopo aver ricevuto una precisa notizia di reato riferibile ad una o più persone. Il controllo di legalità è semmai affidato all’autorità amministrativa e di polizia, che investe la magistratura solo di eventuali notizie di reato emerse nel corso di quella attività di controllo. E poi, chi esattamente vorrebbe “regolare i conti… per vendicarsi ed evitare che la Magistratura sia troppo incisiva”? Personaggi pubblici che impegnano la propria credibilità in affermazioni di questa gravità hanno il dovere di uscire dalle fumisterie semantiche e dalle semplificazioni fumettistiche, assumendosi la responsabilità di definire con chiarezza i destinatari di una simile, eclatante accusa. Affermare poi che in questo nostro Paese ci sia chi progetti di «trasformare la magistratura in organo collaterale e servente rispetto al potere esecutivo» connota il ragionamento del dott. Di Matteo di un tratto di un umorismo stralunato degno di Groucho Marx. Basterebbe ricordare che appena un mese fa, per dire solo l’ultima di mille, le roboanti e scomposte critiche di due “magistrati antimafia”, basate peraltro su una eclatante falsità (“con la riforma della prescrizione saltano tutti i processi di mafia”, gli unici invece che si celebrano nei ben più brevi termini di scadenza della custodia cautelare) hanno determinato a furor di media la precipitosa (oltre che incostituzionale) riscrittura di una norma appena approvata all’unanimità dal Governo legittimo del Paese.

O altrimenti che il Ministero di Giustizia è da sempre occupato – unico caso al mondo – nei suoi gangli decisori ed amministrativi cruciali, da un centinaio di magistrati all’uopo di volta in volta distaccati. O che, più in generale, da trent’anni il Parlamento di questo Paese, da chiunque governato, salvo isolate eccezioni non approva leggi rilevanti in materia di Giustizia penale senza il placet preventivo del potere giudiziario. Suvvia, dott. Di Matteo, non scherziamo! La riforma Cartabia, poi, sarebbe la peggiore della storia repubblicana, per le più varie ragioni. Per esempio, perché affida (era ora!) al Parlamento, e non al Procuratore di Campobasso piuttosto che di Termini Imerese, la indicazione delle priorità della politica criminale (visto che i Procuratori, a differenza del Parlamento, non ne rispondono a nessuno, dott. Di Matteo, pur essendo la scelta delle priorità un atto tecnicamente “politico”, come ci insegnava Zagrebelsky, mica Previti, già nel 1992). La separazione delle carriere, poi, sarebbe un orrore perché piaceva a Licio Gelli. Tipico ma assai diffuso caso di argomentazione ossessivo-compulsiva. Come dire che se a Gelli piaceva la matriciana, chi la predilige è uno piduista. Peccato che gli ordinamenti a carriere separate connotano le più grandi democrazie contemporanee (una volta tanto che possiamo apprezzare una idea di Gelli, gli spariamo addosso. Mah!). Infine, quale che sia l’esito del processo sulla Trattativa (una gragnuola di assoluzioni), il dott. Di Matteo è orgoglioso perché grazie ad esso la pubblica opinione “finalmente sa”. Con il che, badate bene, è definitivamente conclamata l’idea della indagine giudiziaria (e del processo) come strumento di divulgazione di “verità”  presunte, beninteso): delle vite umane coinvolte, e delle loro effettive responsabilità, chissenefrega. Grazie dunque al dott. Di Matteo ed al Fatto Quotidiano per questa impietosa, chiarissima fotografia di ciò che la magistratura italiana in tanta parte è ma soprattutto dovrà necessariamente smettere di essere, se vogliamo tornare davvero a vivere in un Paese rispettoso della propria Costituzione.

Di Matteo ultimo giustizialista: "Riforma incostituzionale". Stefano Zurlo il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel bunker delle toghe è rimasto da solo a sabotare il rinnovamento: "Legge Cartabia? La peggiore in 30 anni". È l'ultima toga in trincea. E bisogna dargli atto di aver sempre agito fuori dagli schemi e dalle cordate. Basterà ricordare che è stato lui, davanti al plenum del Csm, a svelare l'andirivieni dei verbali dell'avvocato Amara schierandosi senza se e senza ma a difesa di Sebastiano Ardita, finito nel mirino di Piercamillo Davigo. Davigo è appunto fuori gioco, Francesco Greco si trova a guidare a un passo dalla pensione una procura di rito ambrosiano divisa in fazioni, Ilda Boccassini coltiva la memorialistica. Lui, Antonino Di Matteo, scrive con Saverio Lodato un libro, I nemici della giustizia, Rizzoli, nome che è tutto un programma: sembra di essere tornati a dieci-quindici anni fa, quando i magistrati parlavano ex cathedra, scomunicavano le proposte della politica, falciavano l'erba nuova del cambiamento con giudizi affilati. Il primo bersaglio è la riforma Cartabia, peraltro caldeggiata dall'Europa: «La ritengo una delle peggiori degli ultimi trent' anni - spiega al Fatto quotidiano - L'Europa chiedeva di accelerare i processi, ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio e per le violenze nella scuola Diaz di Genova del 2001, si sarebbero conclusi nel nulla». È una storia che si ripete con disarmante continuità dai tempi di Mani pulite: ogni ipotetica riforma porterebbe fatalmente - a dare retta ai giustizialisti di turno - all'azzeramento di dibattimenti importantissimi, sarebbe un assist per colletti bianchi corrotti e delinquenti di ogni risma, avrebbe un impatto drammatico se non apocalittico sul sistema. Con questa tecnica collaudata, tutti i tentativi di rinnovare la macchina si sono arenati, oggi la percezione è cambiata ma non per tutti. Dal suo bunker, Di Matteo lancia l'allarme e chiama a raccolta le truppe disperse nella nebbia che ha avvolto i giudici italiani. «Questa normativa - insiste a proposito della Cartabia - presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009». Insomma, l'ex presidente della Consulta avrebbe messo la faccia e il nome su una legge fuori dal perimetro della nostra Costituzione. E, oltre tutto, pericolosamente vicina alla norma voluta dal Cavaliere nel 2009. Insomma, l'Italia ha voltato pagina, ma le ossessioni per qualcuno restano sempre le stesse. E il cantiere legislativo finalmente aperto avrebbe solo lo scopo di punire le toghe: «Dobbiamo indignarci. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità». Certo, con l'onestà intellettuale che gli si deve riconoscere, Di Matteo punta il dito contro «il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera... il collateralismo con la politica» di tanti colleghi che hanno giocato di sponda con il Palazzo. Di Matteo è e resta un libero battitore, un uomo esemplare per coraggio e tenacia, ma la sua visione è prigioniera di quella mentalità militante: si dice contrario a 5 dei referendum, mentre il sesto è inutile, e quando si arriva alla separazione delle carriere non rinuncia a citare Licio Gelli, esattamente come facevano molti dirigenti dell'Anm nei convegni di 15 o 20 anni fa: «Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria, poi è diventato una bandiera di Forza Italia e del centrodestra. L'appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico». Avanti di corsa, verso un passato glorioso, rivendicato anche se conteneva i germi della malattia e del declino. E il verdetto sui rapporti Stato-mafia che ha smontato la sua inchiesta? «Nessuna sentenza - risponde l'inscalfibile Di Matteo - potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo». Stefano Zurlo

Vizio sinistro: criminalizzazione della Società. Antonello Piroso per la Verità il 29 ottobre 2021. Cari amici, vicini e lontani, della sinistra (chiunque voi siate: nel senso che non mi è chiaro quante e quali sinistre ci siano oggi in Italia, ma transeat), capisco vi sentiate «sinistrati», dopo l’intervenuta «tagliola» sul ddl Zan, ma vorrei provare a sottoporvi alcuni spunti di riflessione: 

1.Vi siete impossessati dello slogan «legge e ordine», tipicamente di destra. Norme, sempre più norme, che dovrebbero garantire una più efficace repressione dei comportamenti criminali o criminogeni. Per capirci, con un esempio necessariamente grossier, prendiamo l’omicidio, articolo 575 del codice penale: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito...». Lo disciplinano anche altri articoli che aumentano la pena, se sussistono la premeditazione o le cosiddette aggravanti (assassinio per motivi «futili e abietti», la compresenza di «sevizie» o «crudeltà» ecc).

2 Ad un tratto, però, si è ritenuto che tutto questo non bastasse più, e si è iniziato ad inasprire ulteriormente le sanzioni in caso di determinate vittime. Come? O con l’introduzione di articoli bis, ter e quater, o con leggi ad hoc. Muore, o è vittima di brutalità o discriminazioni, un nero, un ebreo, un sionista, un arabo, un musulmano, e, perché no, un «terrone»? Ecco la norma nuova di zecca sul delitto compiuto per motivi di odio etnico-razziali, nazionali, religiosi. 

3 Stesso format con l’omicidio stradale (da colposo in volontario, con molti dubbi su estensione e campo di applicazione), nonché con la legge sul cosiddetto femminicidio, un pigro mantra come se fosse in atto uno sterminio del genere femminile da parte di maschi desiderosi di annientarlo, e non casi - sempre troppi, terribili e dolorosi - di donne uccise da uomini che non meritano neppure di essere definiti tali.

4 Quindi ci si è preoccupati dei comportamenti esecrandi, vili e sadici verso omosessuali e lesbiche, cui poi si sono aggiunti i trans, e poi i queer, gli asessuali, con la proliferazione dell’acronimo da Lgbt a Lgbtqia+ etc, da sanzionare anch’essi con prescrizioni app o s i te. 

5 La domanda sorge spontanea: quante e quali altre tipizzazioni delle vittime di violenza e omicidio vanno previste? Quali categorie andranno vieppiù protette? Se i minori sono tutelati, come la mettiamo per esempio con gli anziani? Immaginando il geriatricidio? E perché fermarsi agli umani? Che fare con soppressione e maltrattamenti dei nostri amici animali?

6 Manette agli evasori, spazzacorrotti, codice degli appalti, codicilli, editti, pandette e grida manzoniane. Massì, facciamo vedere che abbondiamo. Un aumento dei precetti penali, però, non comporta una diminuzione dei reati. Fosse così, avrebbero ragione i sostenitori della pena di morte. Che non è mai stato un deterrente, mentre semmai lo è la sua abolizione. Potete verificare voi stessi sul sito nessunotocchicaino.it: «Un rapporto ha esaminato i tassi di omicidio in 11 Paesi che hanno abolito la pena capitale, constatando che dieci di essi hanno registrato un calo di tale reato nel decennio successivo all’abrogazione». 

7 Vogliamo stigmatizzare lo spettacolo «indecoroso e degradante», «gli applausi e quell ’orrido tifo da stadio» intervenuti alla proclamazione del risultato sul ddl Zan? Facciamolo pure, ma evitando di fare i sepolcri imbiancati: sottintendere, o sostenere, che questo dimostrerebbe la consustanziale omofobia della destra (vi do una notizia: esistono gay pure lì) significa cercare di lanciare la palla in tribuna per occultare la sconfitta politica incassata, a colpi di franchi tiratori (a sinistra). Chi a destra si è lasciato andare a sgradevolezze, lo avrebbe fatto su qualsiasi altra mozione sostenuta dalla sinistra e bocciata dopo mesi e mesi di martellante campagna propagandistica a favore. L’incivile scompostezza dei politici, nelle aule parlamentari o fuori, è trasversale, e non è una novità, fin dal 1949 per l’adesione dell’Italia alla Nato: si vide un cassetto volare da una parte all’al - tra dell’aula. Senza dimenticare le scuse tardive, vedi Luigi Di Maio, il balcone, l’esultanza, l’abolizione della povertà: «Sbagliai il gesto e le parole».

 8 Ultimo, ma non in ordine d’importanza. Il segretario del Pd Enrico Letta, nel commentare la debacle, è ricorso ai toni apocalittici: «Hanno voluto fermare il futuro». Nientemeno. C’è da chiedersi: qual è invece il futuro di lavoro, previdenza, sanità, insomma, qual è il posto riservato a sinistra per i diritti sociali? Non è una provocazione, e non intendo certo declassare quelli civili, contrapponendoli ai primi. Ma è questione urticante. Lo certifica questo testo del dicembre 2017: «La motivazione fondamentale, e ufficiale, della rottura tra il movimento di Giuliano Pisapia e il Pd è stata la mancata tempestiva calendarizzazione in Parlamento dello ius soli, un argomento importante, una battaglia di civiltà, ma, rispetto alle questioni aperte, alquanto circoscritto». Circoscritto. Continuiamo: «Anche in questo caso si conferma una singolare inversione di priorità nelle politiche della sinistra: i diritti civili ormai prevalgono su quelli sociali, che hanno sempre meno spazio nei programmi». Però. Andiamo avanti: «Questo mutamento è evidente da quando a sinistra si è affermata la linea più liberale che socialista della “terza via”: i diritti (individuali) civili sono diventati centrali nella strategia di sinistra e di fatto la loro rivendicazione è diventata un alibi, una sorta di copertura, rispetto al fatto che le problematiche sociali venissero, se non abbandonate, lasciate sulla sfondo». I diritti civili come alibi. Conclusione: «Così facendo si ponevano le premesse per una rinnovata contrapposizione con la destra conservatrice su basi diverse rispetto al passato e per l’acquisizione del consenso dei ceti medi cosiddetti “riflessivi”. Ma al tempo stesso si minava alle radici il rapporto tradizionale tra sinistra e ceti popolari».

9 Su che giornale o sito di destra è comparsa tale critica analisi? Nessuno. :Le ritrovate sul web all’indirizzo nens.it, Nuova economia nuova società, il centro studi fondato da Vincenzo Visco e da Pier Luigi Bersani. Non riesco a immaginare qualcuno più a sinistra di lui (senza offesa). ANTONELLO PIROSO 

Dialogo impossibile. La Cartabia è troppo brava, e Davigo si arrabbia…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Pare proprio il dialogo impossibile, quello tra Marta Cartabia e Piercamillo Davigo. Lei è quella che, da giudice della Corte Costituzionale, fece il “viaggio nelle carceri” auspicandone il minor possibile ricorso. Lui quello che da pubblico ministero contribuì a riempirle soprattutto di “non colpevoli” in attesa di giudizio. Dialogo impossibile, pure a distanza, pure lui ci prova e ci riprova. Non per discutere, ma per rimproverare. Chieda al Dap i numeri giusti sulla custodia in carcere, scrive sgarbatamente alla ministra, al termine del suo solito scritto sul quotidiano di famiglia. La famiglia delle toghe, ovvio. La ministra Marta Cartabia è impegnata su molti progetti, la cui realizzazione è in itinere, non ultima la riforma del Csm. Che è fondamentale anche perché coinvolge la cultura dei magistrati. I quali – come lei stessa ha ricordato di recente, e insieme a lei un po’ tutti, spesso per dovere più che per convincimento – nella maggior parte dei casi sono “laboriosi, coscienziosi e dediti al loro compito”. Manca un “amen” e le toghe sono seppellite. Perché a questo tipo di giaculatoria segue sempre un “però”. E il “però” della ministra, per come lo ha pronunciato nei giorni scorsi, intervenendo a due diversi appuntamenti, è grande e impegnativo: “Ci vogliono le necessarie riforme, ma soprattutto la rigenerazione che attinge a un sostrato culturale”. Vasto programma, vien da dire. Ma è un pilastro, se supponiamo che in Italia i Davigo siano tanti e che il problema culturale non sia solo un fatto generazionale in via di superamento con i pensionamenti. Vien da chiedersi: ma questi due illustri personaggi hanno fatto le stesse scuole, lo stesso percorso di laurea, il medesimo concorso? La stessa domanda che molti giuristi si posero agli inizi degli anni novanta, mentre, dopo la riforma del codice, iniziavano i processi penali con il sistema accusatorio. E si videro le differenze. C’erano quelli come Giovanni Falcone che, pur avendo costruito il maxiprocesso (che però era iniziato prima), era molto favorevole al nuovo rito e auspicava la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa. E poi c’erano tutti gli altri a fare resistenza. Il legislatore non fu da meno. Per questo la ministra Cartabia ha messo un punto fermo: “Il potere di punire è tanto terribile quanto necessario. Ma è un potere che ha preso dimensioni esorbitanti”. Non ha detto “arrestare” o “punire con il carcere”. E nel suo definire “esorbitante” la misura assunta dalla sanzione, è proprio di privazione della libertà, di galera che sta parlando. Poi, la sua sintesi: “troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere”. C’è troppo di tutto, dice. E lo precisa, lo ha ben definito nel suo programma di misure alternative, di messa alla prova, di svuotamento delle carceri senza che si rinunci all’applicazione della pena. Si preoccupa soprattutto di quelle porte girevoli che portano soprattutto ragazzi giovani e magari incensurati a cadere in qualche girone per periodi troppo brevi per la rieducazione ma sufficienti per la contaminazione. Per non parlare dell’eccesso di carcerazione preventiva. Il dottor Davigo pare non capire. Si mette in cattedra, forse perché la guardasigilli è una donna, forse perché ha vent’anni meno di lui. O forse perché, dai tempi in cui era considerato il più preparato del pool Mani Pulite, gli viene spontaneo considerarsi “oltre”, per non dire “sopra”. Del resto, non era lui uno dei quattro che sfidarono in tv il governo Berlusconi dopo l’emanazione del “decreto Biondi”? Vinse allora e molte altre volte. Forse per questo suo passato ai vertici del mondo, oggi il dottor Davigo si permette di dire che il rimedio contro un eccesso di proliferazione legislativa è semplice: basta farne di meno. Certo, per i reazionari ogni riforma comporta un pericolo per la propria tranquillità. O per il proprio potere? E altrettanto sbrigativo è rispetto all’eccessivo numero di processi: si è depenalizzato già tanto, di più non si può fare. E mai lo sfiora la constatazione del fatto che c’è un imbroglio che si chiama obbligatorietà dell’azione penale e che non ci sono incentivi sufficienti all’applicazione dei riti alternativi, che invece sono la stragrande maggioranza delle soluzioni nei Paesi anglosassoni. Così finisce solo per concentrarsi sul numero dei carcerati, snocciolando cifre su cifre per dimostrare che in Italia tutto sommato ci sono meno detenuti che altrove in Europa. Proprio non pare capire che la ministra Cartabia, anche nel raccontare che ha incontrato associazioni di volontariato disposte ad accogliere fino a novemila persone per dare un’alternativa alla galera, non sta dicendo che i nostri istituti di pena sono sovraffollati. Sta indicando alternative al carcere, sta dicendo che la pena non deve necessariamente consistere nelle manette. Cosa inconcepibile per le toghe come Davigo. Il problema è: quante sono?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ma quale sovraffollamento, per Davigo le prigioni sono un Club Med! Piercamillo Davigo nega che ci sia un problema carceri in Italia. "Hanno più metri quadrati che in Europa". Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Ma chi lo dice che le carceri italiane sono sovraffollate? Facendo strame di decine di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle centinaia di denunce di associazioni  e sindacati – comprese quelle della polizia penitenziaria – Piercamillo Davigo bacchetta la ministra della giustizia Cartabia colpevole di aver detto che bisogna far tornare le nostre carceri nell’alveo della legalità e dell’umanità. Ovvero, meno detenuti, meno custodia cautelare in carcere e meno leggi punitive: “Il potere di punire, tanto terribile quanto necessario, ha assunto dimensioni esorbitanti non solo in Italia: un panpenalismo fatto di abuso e invasività del diritto penale per cui creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia”, ha infatti ribadito Cartabia. Ma la parte più interessante e indicativa del Davigo-pensiero arriva quando l’ex magistrato del pool passa all’analisi dei metri quadrati a disposizione di ogni detenuto. A dir la verità, ed è questa la parte più sconcertante, sembra quasi che Dvigo non parli di persone, di cittadini detenuti, ma di capi di bestiame: “Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (consultabili da chiunque in Internet) al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati. Però lo stesso sito del Dap: ricorda che quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri quadrati per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione), mentre la media europea è di 4 metri quadrati a detenuto”. Insomma, il solito Davigo, forse, semplicemente, dovremmo smettere di rispondergli e lasciarlo a godersi la meritata pensione nel suo mondo immaginario…

Solo nuove regole placano davvero il giustizialismo (che non è morto). Sì, sembrava spirare un vento nuovo, rispetto all’uso politico delle vicende penali, da Cartabia a Di Maio. Ma una tempesta perfetta come quella scatenata sul Carroccio è sempre pronta. L’impulso giustizialista resta. E va arginato.  Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Già s’era scelto un alias terribile: la bestia. Poi non è che Luca Morisi avesse lesinato, quanto a punture di veleno iniettate via social, e non solo per interposto Salvini, sia chiaro. Il guru che ha “creato” la macchina del consenso leghista se n’era uscito persino con un’offesa via twitter a Rita Bernardini, in un orrendo link fra le battaglie della leader radicale per la cannabis terapeutica e le rughe. Insomma, un personaggio così, che ha ispirato manco fosse lo sbarco in Normandia la citofonata del Capitano al maghrebino presunto spacciatore, se finisce indagato per cessione di droga, è chiaro che provoca il riflesso pavloviano degli avversari politici (non molti) e soprattutto dei giornali, che lo hanno fatto a pezzi. E magari adesso sarà dura schierarsi con Matteo Salvini, dopo che ieri ha parlato di «schifezza mediatica». Eppure bisogna leggerla bene, la tempesta perfetta scatenata sul capo del Carroccio. Soprattutto nel combinato disposto fra l’indagine su Morisi, la scadenza elettorale e un terzo elemento: il clima diverso che in fondo da un po’ si era cominciato a respirare sulla giustizia. C’era aria di distensione, diciamo. Forse dovuta alla minore autorevolezza della magistratura, più che ferita dai casi dell’Hotel Champagne e dei verbali di Amara. Però i segnali si sono avvertiti fino ancora all’altro ieri, quando Luigi Di Maio ha dato un esempio forse ancora più brillante delle scuse all’ex sindaco di Lodi: ha detto che la sentenza d’appello sul processo “trattativa” «va rispettata», altrimenti la politica finisce per esercitare «un’ingerenza nei confronti di un altro potere». Esemplare, mirabile ma forse non ancora del tutto rassicurante, e non per demerito di Luigi Di Maio. Quell’apice della “primavera giudiziaria” offerto dal ministro degli Esteri resta comunque. Ma gli attacchi sferrati, per il caso Morisi, a Salvini e alla Lega nella settimana che precede le elezioni destinate all’esito peggiore, per il Carroccio, degli ultimi due lustri, ci spiegano una cosa: che a dispetto delle apparenze, il giustizialismo non è ancora finito. L’uso mediatico e politico delle vicende penali non è in disarmo, vive e lotta insieme ai tanti media che inevitabilmente sanno dargli alimento alla prima occasione succosa. D’altronde l’impennata non ha riguardato solo la Lega. In coincidenza con lo sprint della campagna elettorale sono arrivati anche il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi e le rivelazioni del quotidiano Domani sulla “rete di potere” di Giuseppe Conte. Non si possono cambiare né le “coincidenze” né la tendenza dell’informazione. Non può farlo, da sola, una guardasigilli attenta alle garanzie come Marta Cartabia. O una maggioranza che, con 5 anni di ritardo, permette finalmente all’Italia di recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Non basta l’intuito politico di un leader come Di Maio, che vuole tirar fuori il Movimento 5 Stelle dalla risacca del rancore giustizialista. E non ci vorrà certo poco tempo perché la nuova aria che si respira in Parlamento sulla giustizia si riverberi non solo sui giornali ma addirittura nell’opinione pubblica. Insomma, c’è poco da fare: l’epopea giustizialista non è archiviata. Forse è iniziato un percorso. Ma sarà lungo. In Svizzera è vietato alla stampa riferire delle misure cautelari adottate nei confronti degli indagati. Magari è troppo, e non è detto che sia auspicabile realizzare una riforma del genere anche in Italia. Eppure, se i processi culturali sono lenti, quelli legislativi possono esserlo assai meno. Servono insomma norme che rafforzino ancora di più la presunzione d’innocenza (nonostante ne sia tuttora perplessa l’Anm, audita ieri a Montecitorio), e ce ne vogliono ancora altre che tutelino dagli errori giudiziari, che rafforzino il diritto all’oblio, il contrasto alla pubblicazione arbitraria degli atti penali, la dissuasione dal protagonismo mediatico di cui alcuni magistrati sembrano prigionieri. Se c’è una cosa che è possibile mettere in campo subito, senza aspettare che il riflesso pavloviano contro “la bestia Morisi” si attenui, è introdurre buone leggi che rafforzino le garanzie e che soprattutto contrastino il processo mediatico. Può darsi che poi l’intendenza, cioè un’accresciuta civiltà del dibattito, seguirà.

La soluzione dell'ex guardasigilli. Per la Consulta l’ergastolo è incostituzionale, ci pensa Bonafede: “Buttiamo la chiave”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Sconfitti nell’aula, cercano di rifarsi in Parlamento. Non siamo riusciti a ingabbiare il generale Mori? Cerchiamo almeno di tenerci stretti quelli che in carcere ci sono già, mafiosi veri o mafiosi percepiti che siano. È così che torna d’attualità l’ergastolo ostativo, nell’allarme lanciato sul quotidiano di famiglia dal grillino Alfonso Bonafede, non proprio indimenticabile ex ministro di giustizia. Domani dovrebbero cominciare alla commissione giustizia della Camera le audizioni di una serie di addetti ai lavori per discutere dell’incostituzionalità della pena di morte sociale istituita nel 1992 dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino. Il Parlamento, questo Parlamento così refrattario a darsi un assetto liberale, ne dovrà discutere perché la Corte Costituzionale il 15 aprile scorso, con un pronunciamento più di ragion politica che in semplice punto di diritto, aveva rimbalzato la palla sui partiti invece di emettere una sentenza chiara a definitiva. Pur dicendo quindi che la norma che prevede l’ergastolo ostativo, cioè quel buco nero da cui possono uscire solo i “pentiti”, cioè i pluriomicidi che sciolgono i bambini nell’acido come Giovanni Brusca, è sicuramente incostituzionale, aveva poi mancato di coraggio, e assegnato alle Camere un anno di tempo per cambiare la norma. Così il Movimento cinque stelle è partito subito con una proposta di legge addirittura peggiorativa rispetto a quella esistente voluta dal decreto Scotti-Martelli nel 1992 dopo l’omicidio di Falcone e frettolosamente approvata dal Parlamento dopo l’assassinio di Borsellino. Quasi che i tempi delle riforme (controriforme) li dovesse dettare la mafia. “Dobbiamo correre”, dice Bonafede, la scadenza di maggio è vicina. Ma si riuscirà a trovare un’intesa all’interno di una maggioranza emergenziale con visioni opposte sulla giustizia al suo interno? O finirà come con la vicenda del fine vita e con la figuraccia di un Parlamento impotente a deliberare? Nel frattempo ci saranno alcuni dei 1.750 detenuti che stanno scontando la pena a regime speciale che dovranno aspettare un anno in più, per avere qualche speranza di uscire dal buco nero. Il 15 aprile la Corte Costituzionale aveva emesso un comunicato con punti molto chiari: l’ergastolo ostativo è incostituzionale in quanto in contraddizione sia con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, sia con l’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Si potrebbe aggiungere, come ha più volte detto il presidente emerito dell’Alta Corte, Valerio Onida, che lo stesso concetto di ergastolo è in contrasto con la legge delle leggi, perché esclude il concetto di “rieducazione”, la funzione principale della pena. Ma da ormai quasi trent’anni esiste nel nostro ordinamento una norma che prevede l’inversione dell’onere della prova. È il condannato a dover dimostrare di non appartenere più alla criminalità organizzata. Non però attraverso un percorso di revisione della propria storia e un distacco nei fatti da una persona che non c’è più, che è cambiata e lo potrebbe dimostrare qualora gli fosse data la possibilità di accedere ai benefici previsti dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla Legge Gozzini del 1986. L’unica prova di distacco dalla mafia, secondo la legge incostituzionale, il condannato la può dare attraverso il “pentitismo”. E gli innocenti come possono fare? E coloro che non hanno da raccontare nulla che i magistrati non conoscano già? E coloro che non vogliono per propri principi di integrità morale (o non possono, per timore di ritorsioni sulla famiglia) denunciare altri? Zitti, e condannati alla morte sociale. Se anche la scelta delle parole ha un senso, non è un caso che nell’intervista al quotidiano di famiglia Bonafede affermi che, alle proposte della Consulta, il Movimento cinque stelle “ha reagito”. Reagito. Con una propria proposta di legge «che tende a conservare l’impianto dell’ergastolo ostativo, quello voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Che in realtà erano morti, quando fu fatta la legge. Il solo Falcone si era occupato di una regola simile, ma che lasciava aperta la speranza, cosa che non è poi stata osservata nella legge 306 del 1992. Ma Bonafede non si cura dei particolari e tira dritto. Così, quando l’intervistatore, il giornalista Luca De Carolis, prova a obiettargli che per un ergastolano in pratica non è facile, magari dopo tanti anni, dimostrare di non avere più rapporti con le cosche, lui fa spallucce: «Sarà un problema del mafioso». Complimenti per la sensibilità umana, onorevole, lei sì che sa come buttare via la chiave! E quando gli si fa notare con la pdl presentata dai Cinque Stelle di fatto vuol rendere impossibile per l’ergastolano accedere ai benefici, Bonafede alza il tiro. Prima facciamo fuori quei sovversivi dei giudici e tribunali di sorveglianza territoriali, e accentriamo tutto a Roma. Poi chiediamo il parere, su ogni caso, ai pm “antimafia” e anche al procuratore nazionale, il cui giudizio, pur se non vincolante, nei fatti lo è, perché solo per motivi gravissimi può essere contraddetto. E il percorso? E il trattamento? Cavoli dei mafiosi. Ecco, cari giudici della Consulta, in che mani avete messo la vostra dichiarazione di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

De Vito: «Io, ex grillino, ho provato il carcere e dico: prima di sventolare le manette bisogna aver visto…». Marcello De Vito fu il primo degli eletti dei 5Stelle a Roma, portava le arance al sindaco Marino indagato. Poi la galera e la trasformazione: "Il carcere preventivo va frenato". Valentina Stella su Il Dubbio il 18 settembre 2021. Il 20 marzo 2019 la vita dell’avvocato Marcello De Vito, allora presidente del Consiglio Comunale di Roma in quota grillina, ora invece in quella di Forza Italia, viene sconvolta: all’alba i carabinieri del Nucleo Investigativo piombano in casa sua per arrestarlo con l’accusa di corruzione in uno dei filoni dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma calcio. Dopo 107 giorni nel carcere romano di Regina Coeli, arriveranno i domiciliari. Ad agosto dello stesso anno la Cassazione metterà in discussione l’ordinanza di arresto: contro di lui solo “congetture” ed “enunciati contraddittori”. A novembre 2019 fine delle misure cautelari con il parere positivo del pm. Adesso si è ancora nella fase di primo grado di giudizio. Ma intanto quei mesi di reclusione hanno cambiato per sempre la sua vita e anche la sua visione del carcere e della giustizia. Non a caso, ora che è in campagna elettorale, una sua tappa importante è stata una visita presso l’istituto penale per minorenni di Casal del Marmo.

Ci vuole raccontare cosa ha significato quell’esperienza di due anni fa?

È la prima volta che faccio una intervista di questo tipo, parlando in profondità della mia esperienza in carcere. Mi risulta molto difficile farlo perché significa tornare indietro con la mente a quei terribili momenti e rivivere le emozioni di quei giorni. Mi riesce complicato essere lucido, anche perché col tempo si tende a cancellare alcune parti del racconto di quei mesi, benché ci sono aspetti che rimangono indelebili.

Proviamo per quanto possibile.

Si è trattata di una esperienza devastante, perché non ero pronto mentalmente ad affrontarla. Se tu stai subendo un processo, metti in conto che ci può essere una sentenza di condanna. Ma essere svegliato improvvisamente alle 5 di mattino con i carabinieri che ti piombano in casa è terrificante. In quel frangente hai pochissimo tempo per capire cosa sta succedendo e per prepararti, anche mentalmente, a quello che sta per accadere. Si tratta di una violenza inaudita, perpetrata anche con metodi eclatanti. È stata una violenza per me che la sera prima ero a cena con degli amici e all’alba vengo prelevato con la forza da casa mia, e anche per la mia famiglia: all’epoca mia figlia aveva solo 12 anni.

Poi arriva il carcere.

Sì, devastante. Per quindici giorni non puoi parlare con nessuno. La tua famiglia fuori soffre per quanto successo e tu non puoi fare nulla. In più mi vennero bloccati i conti correnti e mia moglie e mia figlia non sapevano come fare per vivere.  Inizia la gogna mediatica che incrina la tua immagine personale e la tua reputazione politica. Sui giornali e in televisione vieni condannato. Mentre venivo arrestato erano già uscite le agenzie che pubblicavano stralci delle sit – sommarie informazioni testimoniali -: ‘De Vito disse…..De Vito fece…’. Perché sono uscite con titoli a sette coIonne che mi avevano già dipinto come colpevole? Questo corto circuito va fermato. Poi arriva la decisione della Cassazione, che annulla con rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, smontando le accuse contro di me: però di questa notizia appare solo un trafiletto sui giornali.

Torniamo ai primi momenti in carcere.

Il punto è che non tutti riescono ad innalzare l’asticella della resistenza a livelli impensabili: io ci sono riuscito in quel particolare momento della vita ma magari non ci sarei riuscito in un altro momento. E forse tante altre persone non ci riescono e crollano.

Intende che si suicidano?

Alcuni pensieri possono ammazzarti e devi essere bravo ad azzerarli, ma intendo anche che potrebbe significare dire quello che la tua parte opposta vuol sentirsi dire, pur di uscire. La Procura conduce indagini in mesi, a volte anni ed acquisisce faldoni di documenti su un procedimento oggetto di indagine (12 terabite il volume del fascicolo), tu hai poche ore di tempo per rispondere su quei fatti: le sembra possibile? Fare subito un interrogatorio equivale anche a rovinarsi perché non hai la lucidità, la freddezza ma anche la cognizione per affrontarlo. Nel mio caso ci sono voluti tre accessi agli atti fatti dal carcere solo per ricostruire la vicenda dello stadio. Rendere l’interrogatorio nelle prime 48 ore su una procedura così complessa, su date precise, riunioni, nomi, fatti ed atti sarebbe stato impossibile. Per non averlo fatto, sono rimasto in carcere. Per non parlare della motivazione addotta per rigettare poi le richieste di scarcerazione: « il detenuto non ha assunto consapevolezza del disvalore». Avrei dovuto confessare qualcosa che non ho fatto? Non averlo fatto mi è costato anche da punto di vista economico: non ho esercitato la mia funzione per otto mesi, tra carcere e domiciliari, per una mancata entrata, tra l’altro, di 52 mila euro lordi.

Avvocato De Vito, fuori dal carcere abbiamo visto che l’avevano già condannata. Invece oltre le sbarre cosa ha trovato?

In quei primi giorni si sono verificati due episodi contrastanti. Luigi di Maio che, senza passare per i probiviri, disse che dovevo essere espulso perché le mele marce dovevano stare chilometri a distanza da loro. Poi invece non andò così perché l’espulsione fu bloccata grazie anche a quanto deciso dalla Cassazione sulla mia posizione. Insieme a lui tutti mi abbandonarono: neanche un cane si tratta così. Hanno dimostrato una totale mancanza di umanità e mi avevano già condannato. Forse davo loro già fastidio e hanno approfittato della situazione per scaricarmi. Quindi fui poi io a decidere di lasciare il Movimento perché non ero più a mio agio. In carcere, invece, ho trovato innanzitutto tanta umanità. Mi hanno aiutato molto i detenuti soprattutto nei primi giorni che sono i più difficili. Non sai quello che devi fare sotto ogni punto di vista, anche come aprire il conto corrente per farti accreditare i soldi che ti serviranno per la spesa. E poi mi hanno dato i vestiti in quanto ero entrato solo con una tuta e mi hanno fornito la macchinetta del caffè. Nella mia sezione c’erano circa cinquanta detenuti, i due terzi stranieri. Con tutti si è creato un legame e con alcuni di loro mi sento ancora oggi. Con loro in carcere ho fatto tanto sport, abbiamo giocato insieme a pallone. Questo per me è stato fondamentale per scaricare le tensioni. Appena aprivano la cosiddetta ‘Aria’ io uscivo per allenarmi. Poi tornavo in cella, studiavo le carte e leggevo libri. La terminologia che viene usata in carcere è strana, alienante: perché ‘Aria’? Sembra che ti concedano il diritto di andare a respirare.

Ora però Di Maio ha chiesto scusa all’ex sindaco Pd di Lodi Uggetti. Sono cambiati i 5 Stelle?

Secondo me no, soprattutto nella base. Di Maio forse può aver iniziato un processo di abbandono del giustizialismo sfrenato ma nel 95% degli iscritti c’è una rabbia che è sfociata in maniera sbagliata sul tema delle garanzie. Anche io, con Mafia Capitale, ho commesso un errore politico quando insieme ad altri portai delle arance in conferenza stampa per chiedere le dimissioni di Ignazio Marino.

Come è cambiato il Movimento per farlo diventare diverso da quello in cui lei aveva creduto?

Ha contraddetto tutti i suoi dogmi ed è diventato un partito in mano a poche persone. Non è più un movimento post ideologico.

Le piace Giuseppe Conte?

Conte è quello che va bene con tutto.

Lei adesso è con Forza Italia. Ha deciso di far parte di questo partito per le sue posizioni garantiste?

Nel Movimento sono stato sempre visto come un pentastellato atipico e comunque moderato. Forza Italia era la mia area di riferimento prima che entrassi in politica nel 2012. All’epoca l’Europa imponeva il Governo Monti, le amministrazioni Alemanno e Polverini qui a Roma non furono le migliori e nasceva questo Movimento che voleva portare un nuovo modo di fare politica a cui decisi di aderire. Poi il movimento con il tempo si è perso e sono tornato alle origini.

L’indagine è uno strumento della magistratura per rovinare le carriere politiche?

Non posso permettermi di toccare dei pilastri, né ipotizzare sviamenti nell’esercizio di funzioni. Poi è logico che ogni funzione è svolta da donne e uomini che comunque hanno le loro idee, i loro convincimenti e le loro appartenenze. Una indagine non è una sentenza passata in giudicato quindi ben venga anche il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza che impedirà anche a tutte le autorità pubbliche di usare una inchiesta per attaccare sui giornali gli avversari politici.

Allora qual è la morale di tutta la  storia?

Bisognerebbe prestare più attenzione e cautela nell’esercizio della carcerazione preventiva. Se succede è perché chi la applica è completamente deresponsabilizzato.  Quando si tratta poi di un politico, si deve essere coscienti di interferire con l’esito democratico di una elezione. Io ero stato il cittadino più votato a Roma. Poi ho letto le parole della Ministra Cartabia per cui la pena non deve solo consistere nel carcere e che ‘bisogna aver visto’, ricordando Calamandrei. Ha ragione: mi sembra una Ministra molto illuminata per tante ragioni e che ha equilibrio. Per questo l’utilizzo delle misure alternative al carcere deve essere ampliato.

Lei adesso è impegnato con la campagna elettorale. Se si andrà al ballottaggio tra Gualtieri e Michetti, saranno decisivi gli elettori del Movimento Cinque Stelle.

Sulle politiche sociali, sull’ambiente, sulla disabilità, sulla riqualificazione urbana, sui progetti di smart city Forza Italia è stata sempre attenta e pragmatica. Sono temi assolutamente in comune con i Cinque Stelle. Per questo i delusi grillini possono apprezzare le iniziative di FI e votare per noi alle prossime amministrative.

"Procure quarto potere: i pm si sentono giudici. Si usa troppo il carcere". Anna Maria Greco il 15 Settembre 2021 su Il Giornale. Il giurista sul dibattito promosso da Berlusconi. "Travolta la presunzione d'innocenza".

Professor Sabino Cassese, nel suo intervento sul Giornale sul garantismo Silvio Berlusconi sottolinea che la presunzione d'innocenza dev'essere il cardine di un corretto sistema giudiziario. In Italia questo principio viene rispettato secondo lei?

«Il secondo comma dell'articolo 27 della Costituzione dispone che l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Paradossalmente, quindi, la presunzione di innocenza è alla base dello stesso processo e della giustizia. Solo l'ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio è stato travolto in Italia dall'affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure. Queste non si limitano all'accusa ma, sostanzialmente, giudicano. Basti pensare alle conferenze stampa in cui si vedono procuratori circondati da forze dell'ordine, che annunciano, con titoli altisonanti, le accuse. In inglese questo processo si chiama naming and shaming, cioè nominare e svergognare. Vi collaborano le procure perché non rispettano il principio fissato dalla Costituzione nell'articolo 111, per il quale la persona accusata è informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. I mezzi di formazione dell'opinione pubblica che danno risalto alle accuse divenute giudizio. I magistrati giudicanti perché, con i loro ritardi, consolidano l'accusa - giudizio (se il processo si concludesse dopo sei mesi, la situazione sarebbe diversa da quella attuale). La stessa classe politica che ha, da un lato, abbassato tutte le regole di immunità che spettavano agli amministratori pubblici, dall'altro creato complessi normativi (ad esempio, antimafia) affidandone la cura ad una magistratura divenuta il guardiano della virtù (c'è un bel libro di Pizzorno, edito da Laterza su questo tema). Il presidente del tribunale di Torino, qualche anno fa, ha fatto una stima di quante di queste accuse - giudizio sono evaporate, purtroppo dopo molti anni, dopo i regolari processi. Troppo tardi, in qualche caso».

C'è oggi, e soprattutto da Mani pulite in poi, un uso distorto della carcerazione preventiva, come sostiene uno dei quesiti del referendum di Lega e Radicali?

«Non posso dire se l'uso che viene fatto della carcerazione preventiva è corretto o distorto; si può certamente dire, invece, che se ne fa un uso eccessivo e che questo è un sintomo di un possibile uso abusivo o distorto».

Come si garantisce davvero la terzietà del giudice, per limitare al massimo gli errori giudiziari?

«Assicurando una piena indipendenza e imparzialità di quella parte del corpo dei magistrati che fa parte degli organi giudicanti. Questo vuol dire completa impermeabilità, nei due sensi, sia dall'esterno verso l'interno, sia dall'interno verso l'esterno. E questo comporta una separazione tra componenti degli organi di accusa e componenti degli organi giudicanti. In applicazione di quella norma costituzionale che dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall'ordinamento giudiziario. Quindi, rinvia alla legge il compito di stabilire la misura delle garanzie di cui i pubblici ministeri godono, mentre per gli altri magistrati, quelli giudicanti, tali garanzie sono definite direttamente dalla Costituzione. Quindi, una diversità di status definita già dalla Costituzione. A questo si aggiunge il fenomeno che ho rilevato, della costituzione delle procure come un quarto potere dello Stato, che accentua la necessità, prevista dalla Costituzione, di uno status separato dei pubblici ministeri».

Lei crede che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema attuale di arruolamento e di formazione dei giovani magistrati, che nella maggior parte dei casi vengono subito arruolati dalle correnti?

«Il reclutamento dei giovani magistrati In Italia presenta alcuni aspetti positivi. In primo luogo, è avvenuto con una certa continuità e regolarità, a differenza del reclutamento degli altri pubblici dipendenti. In secondo luogo, la diversità di trattamento economico, i privilegi di status e di indipendenza dei magistrati, la stessa severità delle prove, hanno certamente attirato alcuni dei migliori laureati in giurisprudenza verso la magistratura. Tuttavia, il sistema di reclutamento soffre di alcuni difetti. In primo luogo, si misurano le conoscenze giuridiche, non la capacità di ponderazione, la maturità, la riflessività dei candidati. In secondo luogo, c'è un alto grado di familismo: si può stimare che poco meno del 20% degli attuali magistrati sia figlio o parente di magistrati. Questo segnala un fenomeno che potrebbe chiamarsi di endogamia, che dovrebbe essere ulteriormente approfondito e valutato. Poi, c'è una scuola della magistratura che non riesce a fornire ai giovani magistrati conoscenze relative alla misurazione dei tempi delle procedure, capacità di analisi dei carichi di lavoro, abilità nell'intendere le implicazioni delle decisioni. Ne deriva, nel corpo dei magistrati, composto di ottimi giuristi ed eccellenti persone, una inconsapevolezza dell'attuale stato della giustizia in Italia. Un aspetto preoccupante dello stato della giustizia in Italia è proprio questo: come persone tanto preparate, ottimi professionisti, possano essere inconsapevoli di lavorare in una struttura che non risponde alla funzione affidatale dalla Costituzione, quella di dare giustizia. Non c'è bisogno che aggiunga quanti milioni sono le procedure giudiziarie pendenti e quanto sia rilevante la fuga dalla giustizia».

L'autogoverno della magistratura, dice Luciano Violante nell'intervista di martedì al nostro quotidiano, non è scritto in Costituzione ma le toghe se lo sono preso per determinare dal Csm e dal ministero della Giustizia la politica giudiziaria. E così?

«La Costituzione parlava di indipendenza. L'ordine giudiziario l'ha fatto diventare autogoverno. Segnalai già questo singolare abuso della parola indipendenza cinquant'anni fa a un convegno di magistrati. Aggiungo altre distorsioni tollerate: perché sono magistrati i funzionari del ministero della giustizia, se questo è parte dell'ordine esecutivo? Perché tanti magistrati fuori ruolo, con compiti diversi da quelli giudicanti? Perché magistrati i funzionari del Csm?».

Per Berlusconi un filo rosso lega i valori di garantismo, liberalismo, cristianesimo ed europeismo: il rispetto della persona. Lo vede anche lei?

«C'è certamente un legame tra quelle tre grandi tradizioni storico - culturali e il garantismo. Ma ora non scomoderei cristianesimo, liberalismo ed europeismo. Proverei a correggere quella che è diventata una delle maggiori storture del nostro Stato».

Anna Maria Greco

Bruti Liberati: «Basta con i pm che ledono il principio di innocenza». Coraggioso intervento dell'ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati contro i pm giustizialisti. «Sono quelli che ledono il principio di innocenza». Il Dubbio il 14 settembre 2021. L’ex capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, in un commento affidato al Foglio, tira le orecchie ai pm giustizialisti. Il magistrato, ora in pensione, ha guidato la procura meneghina per cinque anni, dal 2010 al 2015, sostituito poi da Francesco Greco, al centro oggi di una bufera mediatica-giudiziaria dopo l’intervista rilasciata al Corriere della Sera, nella quale ha criticato sia Piercamillo Davigo, suo collega nel periodo di “Mani Pulite”, sia Paolo Storari. «La presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo (diritto al silenzio, onere della prova); le previsioni della Direttiva su questi aspetti non richiedono disposizioni attuative poiché il nostro ordinamento è già rispettoso di tali principi e diritti. Sulla questione della presentazione in pubblico di imputati in manette o con altri mezzi di coercizione fisica, affrontata nella Direttiva Ue, basterebbe nel nostro Paese dare attuazione alle disposizioni e alle direttive già vigenti». «Rimane aperto il problema delle gabbie presenti in molte aule di udienza; le più vecchie sono vere e proprie gabbie con sbarre metalliche, le più recenti sono in vetro, soltanto meno appariscenti. In taluni casi l’utilizzo delle gabbie si rende necessario soprattutto quando vi siano più detenuti. Ma non è infrequente che gli imputati siano posti in queste gabbie, senza che vi siano stringenti esigenze di sicurezza, ma solo perché ciò consente di utilizzare un numero più ridotto di personale di polizia penitenziaria per la scorta». «In altri casi la sistemazione logistica dell’aula è tale che per gli imputati non vi è altro posto se non quello nelle gabbie. Su questo tema non occorrono norme, ma impegno per l’adeguamento logistico delle aule di udienza e delle regole per le scorte. Nonostante le norme esistenti (ribadite negli ultimi anni da precise direttive di diversi Procuratori della Repubblica come Milano e Napoli) sono ancora frequenti i casi in cui le autorità di polizia consentono la ripresa di arresti o di persone in manette, ma occorre anche ricordare che molto spesso questo tipo di riprese è attuato a dispetto delle precauzioni adottate e che comunque la responsabilità della diffusione sui media è degli operatori della comunicazione». «La presunzione di innocenza è un dato acquisito a livello europeo e nel nostro sistema processuale, ma molto delicato è il tema delle misure da adottare per assicurarne la tutela, individuando un punto di equilibrio rispetto ad altri valori come, da un lato, il dovere di comunicare e di rendere conto accountability da parte del sistema di giustizia e, dall’altro, il diritto di informazione, di cronaca e di critica La Direttiva Ue, nella premessa si limita alla sbrigativa formuletta “fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media” e all’art. 4 adotta formulazioni molto restrittive, limitando la possibilità da parte delle autorità pubbliche di “divulgare informazioni sui procedimenti penali”, ai soli casi in cui “ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico». «La questione più delicata è la disciplina del divieto di “riferimenti in pubblico alla colpevolezza”. Si direbbe una mission impossible poiché sul punto le buone intenzioni della Direttiva scontano una impostazione burocratica e unilaterale. Forse si tratta di questione che sarebbe stato più opportuno riservare agli strumenti di soft law (come Raccomandazioni e Pareri), più idonei a fornire orientamenti nell’individuazione del delicato equilibrio tra i diversi valori in gioco, piuttosto che l’hard law della Direttiva. La presunzione di innocenza, lo si è già sottolineato, trova la sua essenziale tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme problematica e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica». «Per quanto riguarda i magistrati non saranno mai abbastanza sottolineati i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. La questione di fondo rimane quella efficacemente indicata da Giovanni Melillo, un magistrato particolarmente impegnato sul tema: “Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale” Il principio di innocenza deve essere affrontato con attenzione a livello di informazione ad evitare l’ipocrisia che lo riduca a mero formalismo a fronte di “casi risolti”, ove la colpevolezza si presenti come dato storicamente acquisito, che il processo dovrà solo “attestare” e verterà essenzialmente sulla individuazione della pena da infliggere o, in taluni casi, sulla capacità di intendere e di volere». «Anche nei confronti del più feroce degli assassini, colto in flagranza o comunque apparentemente raggiunto da inoppugnabili elementi di accusa, il richiamo al principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza irrevocabile non è ipocrita formalismo, perché rimanda alle regole del “giusto processo” e alle garanzie di difesa, contribuisce a formare l’acquisizione della distinzione tra Verità storica e verità processuale». «La verità processuale, con la “v” minuscola, è quella che si costruisce attraverso la verifica della impostazione accusatoria davanti al giudice, con pronunzie che possono essere riviste nel sistema delle impugnazioni; è quella che deve ignorare prove illegittimamente acquisite; è quella che la cui “definitività” è persino revocabile, attraverso il procedimento di revisione, quando emergano nuove prove a favore del condannato. Al contrario la “definitività” non può essere scalfita ove successivamente emergano prove a carico dell’assolto, in base al principio che in tutti gli ordinamenti continua ad essere definito con la formula latina del “ne bis in idem”, il quale preclude in modo assoluto la possibilità di sottoporre nuovamente a processo per lo stesso fatto chi è stato assolto». «Anche l’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati definitivi la nostra Costituzione vuole sia attuata nel rispetto della persona e miri al reinserimento nella società. Questo profilo non è sfuggito alle Linee Guida 2018 del Consiglio Superiore della Magistratura del 2018».

Giusto fine, mezzi sbagliati. La cultura giustizialista ha trasformato l’Italia in uno Stato confessional-giudiziario. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 4 settembre 2021. Negli anni Ottanta si ritenne che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. È stato un errore. Non si offenderebbe la memoria del generale Dalla Chiesa, ieri celebrata dal presidente della Repubblica, riguardando con giudizio equanime i quarant’anni di mezzi sbagliati che lo Stato ha adoperato al giusto fine di trionfare sul crimine organizzato. Anzi, lo Stato che commemora le vittime illustri della violenza mafiosa renderebbe loro un servizio migliore se non omettesse sistematicamente di riconoscere il vizio capitale delle politiche cosiddette antimafia: che fu di aver voluto contrastare quell’offensiva con una legislazione simbolica, totemistica, e con un tentativo di rifondazione sociale per via giudiziaria. Al mafioso secondo cui “la mafia non esiste” si rispose mettendo la mafia dove non dovrebbe esistere, e cioè nella legge. Perlopiù (non sempre) in buona fede, si ritenne cioè che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. Perché divenne quella, la presunta matrice di mafia, la cosa che qualificava ed esauriva la fattispecie. “Arrestato per mafia”, “Condannato per mafia”, non furono più soltanto semplificazioni giornalistiche: diventarono realtà processuali. E si giunse a tanto, appunto, proprio per il trionfo di quella concezione fuorviante e pericolosissima dell’attività inquirente e giurisdizionale: l’idea, cioè, che essa abbia il compito di tutela sociale che ancora una volta, perlopiù in buona fede, propugna la cultura cosiddetta antimafia. Se fossimo in uno Stato di diritto quella cultura apparterrebbe a una vaga congerie di ininfluente moralismo autoritario, ma nello Stato confessional-giudiziario cui è ridotto il nostro sistema essa si è incartata nelle leggi che combattono la mafia come si combatte il malocchio, la stregoneria, insomma “il male”. Nel convincimento forsennato che contro la cultura mafiosa che nega l’esistenza della mafia debba elevarsi lo Stato che la fa esistere nel concorso esterno, nel carcere duro, nei rastrellamenti, nell’aula-bunker, nella confessione, nel pentimento, cioè a dire nella strumentazione buona a far processi senza prove e sentenze piene di mafia e vuote di reati. Riconoscere, quando si ricordano i caduti, che una società infiltrata di mafia è insana, ma non si cura con una legislazione infiltrata di antimafia, rappresenta il tributo purtroppo ancora inedito in queste ricorrenze.

«Non toccate le manette facili!». Toghe in allarme per il referendum. Caselli: «In galera andranno meno persone e i cittadini se la prenderanno col lassismo dei magistrati». Menditto: «Non potremo più arrestare i politici». Valentina Stella su Il Dubbio il 5 settembre 2021. «Pochi, maledetti e subito». Prendendo in prestito il motto dei bottegai romani del secolo scorso, l’avvocato Valerio Spigarelli, quando era presidente dell’Ucpi, criticava così l’abuso della custodia cautelare: «Lungi dall’applicare il concetto che la privazione della libertà sia un evento eccezionale – diceva Spigarelli – la giurisprudenza la utilizza per far scontare in anticipo quella che ( potrebbe) essere la sanzione finale, nel timore che l’inefficienza del sistema ne vanifichi l’applicazione». Sarà anche per questo che la maggior parte della magistratura si oppone prepotentemente al quinto quesito referendario proposto da Lega e Partito radicale: la proposta mira ad abolire la possibilità di procedere con la custodia cautelare per il rischio di “reiterazione del medesimo reato”, facendo restare in vigore la carcerazione preventiva solo per chi commette reati più gravi. La ferma contrarietà arriva dalle pagine del Fatto Quotidiano, spesso in sintonia con le posizioni della magistratura, soprattutto requirente. La voce più autorevole scelta è sicuramente quella di Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica a Torino e Palermo, che sostiene: «Se passa il referendum, ci saranno casi delicati e complessi, in cui sarebbe utile se non necessario ricorrere alla custodia cautelare, che non potrà invece scattare, in forza alla nuova normativa. L’opinione pubblica, la piazza, rifiuteranno questa situazione, si genererà sconcerto, ci saranno proteste sul funzionamento della giustizia, che sarà accusata di lassismo. Gli effetti per la magistratura, già in profondissima crisi dopo lo scandalo Palamara, saranno devastanti. Ancora una volta si darà la colpa ai giudici. Un boomerang per la giustizia». Ignorato il merito del problema sollevato dal quesito. Tra gli oppositori anche Francesco Menditto, procuratore di Tivoli che, dicendosi «frastornato» lancia l’allarme: «Non potremmo più fermare gli stalker, ma neanche i pedopornagrafi, chi truffa gli anziani, chi spaccia droga. E neppure i politici e i pubblici funzionari accusati di corruzione e di concussione». Inoltre, aggiunge Menditto, «le modifiche normative innescheranno le legittime richieste degli avvocati che obbligheranno a rivedere anche tutte le misure cautelari in atto. Saremo dunque sommersi da migliaia di richieste di revoche e io vedo il rischio di un taglio con l’accetta delle misure cautelari. Del resto, con questa misura, il legislatore ci dice, né più né meno: io prendo posizione a favore dell’indagato, rispetto alla persona offesa». Sempre dalle pagine del Fatto arriva la bocciatura da parte di una magistrato giudicante, Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano, capo della sezione Misure di prevenzione: se il quesito passasse si potrebbe disporre la custodia cautelare «qualora vi sia un pericolo di violenza alla persona messa in atto o con armi o con mezzi violenti. Quindi c’è un richiamo solo alla violenza fisica. Ma lo stalking non è basato su quest’ultima. Tanto per restare ai reati di genere, resterebbero fuori tutte le attività, forse la maggior parte, che riguardano la violenza psicologica o morale, minacce o molestie, che sono una delle caratteristiche fondanti del reato, nonché dei maltrattamenti familiari, nonché violenze sessuali commesse approfittando dell’incoscienza della persona». D’accordo con Roia la senatrice dem Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio: «Condivido pienamente l’allarme lanciato dal giudice Roia. Dall’approvazione del referendum deriverebbe una normativa insostenibile tale da minare e incrinare il sistema». A segnalare un pericolo sul reato di stalking arriva anche Telefono Rosa, che assiste donne e minori vittime di violenza. Lo fa sempre sul giornale diretto da Marco Travaglio, che porta avanti la campagna contro il quesito anche attraverso il dissenso di altre voci, appunto. Per l’avvocato Antonella Faieta, vicepresidente dell’associazione, «questo referendum va ad indebolire la posizione delle donne davanti al giudice, ed è questo che dobbiamo evitare». Tale preoccupazione è stata raccolta poi dalla ministra per il Sud Mara Carfagna, che volendo colpire la Lega di Salvini, dice al Fatto: «È contraddittorio invocare una società più sicura per le donne e poi smantellare i presidi che tutelano la loro sicurezza». Infine, indirettamente, arriva anche l’ennesimo anatema da parte dell’Anm, con la vice presidente Alessandra Maddalena che parla però dal terzo congresso di Meritocrazia Italia: «Sono contraria alla separazione delle carriere: se la paura è che i giudici possano appiattirsi sulle richieste dei pm, non è così. Ci sono tantissime assoluzioni e rigetti di richieste di custodia cautelare». In realtà, come da tempo sottolinea il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, «i dati più tenuti all’oscuro, che nessuno raccoglie, riguardano proprio le misure di richieste cautelari e la percentuale di accoglimento…».

 «Giù le mani, le manette facili sono sacre». La crociata dei pm. Dietro il no al referendum sulla custodia cautelare c’è la difesa del solo modello di giustizia che la magistratura penale sembra in grado di offrire. Così il carcere preventivo, di cui il quesito referendario vorrebbe limitare l’abuso, maschera i fallimenti del processo. Nicola Quatrano su Il Dubbio il 4 settembre 2021. Stando all’intensità del grido di dolore che negli ultimi giorni si è levato da parte di magistrati, ex magistrati, giornalisti al seguito e politici di scorta, a proposito dei rischi per la pubblica incolumità che deriverebbero dall’eventuale approvazione del quesito referendario sulla custodia cautelare, parrebbe proprio che questa sia diventata l’ultima trincea nella quale i Giapponesi del “sistema Palamara” intendano difendere fino alla morte l’iniquo e inefficiente sistema giudiziario che ci è toccato. Sia subito chiaro: non è vero che l’approvazione del quesito comporterebbe rischi per l’incolumità delle persone. Il SI non abolisce le esigenze cautelari connesse al pericolo di fuga, né quelle relative al possibile inquinamento probatorio. Consente di continuare ad arrestare terroristi e mafiosi, e tutti quelli che potrebbero commettere delitti di violenza sulle persone o con uso di armi. Restano inoltre intoccate le attuali norme sull’arresto in flagranza. Dunque non dice il vero chi paventa il rischio di un’impennata dei femminicidi o di altri crimini violenti, perché l’unica ipotesi che il SI abrogherebbe è quella che riguarda il pericolo di commettere “delitti della stessa specie di quello per cui si procede”. È qui che si sono registrati i più gravi abusi di custodia cautelare, documentati dai tanti indennizzi per ingiusta detenzione liquidati ogni anno. La relazione ministeriale dell’aprile 2020 segnala, nel solo 2019, il pagamento da parte dello Stato della somma complessiva di 43.486.630 euro, a fronte di 1.000 istanze accolte. Dunque, in soli 12 mesi, ben 1000 persone sono state ingiustamente private della libertà. E sono solo una parte, perché i criteri adottati dalle Corti sono molto restrittivi. Anche il Parlamento ha più volte avvertito l’esigenza di limitare gli abusi: è sufficiente confrontare la formulazione dell’articolo 274, come era nella prima redazione del codice, con quella attuale, per constatare la notevole quantità di inserimenti e di aggiunte che hanno tentato di dare maggiore determinatezza ed eliminare estensioni abusive. Ma non si è mai riusciti ad ottenere risultati apprezzabili. Perché? Perché una Magistratura incapace di fare processi in tempi ragionevoli (quasi 4 anni la durata media di un processo in Italia, contro quella europea di 1 anno – dati del Consiglio d’Europa), ha bisogno di offrire in pasto alla pubblica opinione un surrogato di Giustizia, che è appunto quello della custodia cautelare. Si dirà che, in questo modo, si scaricano sulla Magistratura responsabilità che non sono solo sue, ma che discendono dall’inefficienza generale del sistema. Non è così. Intanto, l’organizzazione degli Uffici e la distribuzione delle risorse è affidata per la quasi totalità ai magistrati distaccati al Ministero della Giustizia. Inoltre, la causa principale dell’ingolfamento dei Tribunali è in quella obbligatorietà dell’azione penale difesa con le unghie e con i denti dalla corporazione dei magistrati. Infine, i tempi lunghi dipendono anche dal fatto che i Tribunali sono intasati da maxi-inchieste faraoniche (per i costi), bizantine (per l’inconcludenza delle ipotesi accusatorie) e bibliche (per i tempi necessari a tradurre le inchieste in sentenze). La più nota è quell’indagine su un’ordinaria vicenda di mazzette che ha occupato per anni le prime pagine con la pomposa etichetta di “Mafia Capitale”. Sono iniziative che impegnano mezzi colossali e producono pochi altri risultati, oltre quello di dare visibilità a chi le svolge. Pensate poi alla infinita tessitura di trame come quelle disvelate dalle chat di Palamara, tutto tempo sottratto al lavoro e ai processi. La Magistratura si è dunque dimostrata incapace di assolvere alla sua funzione istituzionale: fare i processi in tempi ragionevoli, assolvere gli innocenti e punire i colpevoli con sentenze definitive. In cambio arresta molto, e la custodia cautelare serve ad occultare una incapacità punitiva che sarebbe insostenibile per l’ordine sociale. Quindi, da anni, il sistema sanzionatorio legale, la cui funzione è punitiva (ma finalizzata al recupero sociale), è stato sostituito da un sistema “sanzionatorio reale”, che dispensa le uniche “punizioni” che si riescono a comminare in tempi ragionevoli, ammantandole da presunte esigenze preventive. Sanzioni non irrogate da un Giudice, nel contraddittorio delle parti, ma decise dal Pm. E da un Gip che sempre di più si caratterizza come uno strumento del Pm. Che la custodia cautelare sia solo una forma di punizione mascherata è dimostrato anche dalla sua irragionevolezza ontologica. Se si tratta di punire, infatti, 6 mesi, 1 anno o anno e mezzo di carcere costituiscono un tempo ragionevole. Ma se occorre evitare che un soggetto commetta altri delitti, non ha senso una durata determinata così breve. Più propriamente, bisognerebbe ricorrere ad altre misure specifiche, quelle appunto “di prevenzione”, senza contare che altre – più efficaci della custodia cautelare – potrebbero essere previste, come il licenziamento del funzionario corrotto in modo seriale o l’interdizione da certe funzioni. Alle prefiche che levano (interessate) grida di dolore, va detto quindi che la soluzione non può essere quella di lasciare le cose come stanno. Votare SI a tutti i referendum sulla giustizia aiuterà a rendere equo e civile il sistema penale. Un sistema che deve far seguire la punizione alla definizione di un processo. Nel quale la carcerazione non sia come le esecuzioni extragiudiziarie, decise il giovedì mattina nella Sala ovale, all’esito di alcun’altra procedura che non sia quella di premere un gri

«Davigo unico presidente Anm a evitare il dialogo con noi penalisti». Parla il past presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Beniamino Migliucci. «Per Davigo probabilmente la macchina giudiziaria funzionerebbe meglio non con meno avvocati, ma proprio senza avvocati». Valentina Stella su Il Dubbio il 2 settembre 2021. Per l’avvocato Beniamino Migliucci, past president dell’Unione Camere Penali italiane, la soluzione per abbattere il numero esorbitante di procedimenti proposta da Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano, ossia abbattere il numero degli avvocati, «è priva di senso: per lui probabilmente la macchina giudiziaria funzionerebbe meglio non con meno avvocati, ma proprio senza avvocati. Bisognerebbe invece intervenire sul panpenalismo. Ogni mattina, i cittadini italiani non sanno se quanto posto da loro in essere sia una condotta lecita o illecita».

Avvocato Migliucci complessivamente cosa pensa dell’intervento di Davigo?

La questione del malfunzionamento della giustizia legato al numero degli avvocati è un cavallo di battaglia del dottor Davigo. L’aveva detto anche quando era presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Non ama molto gli avvocati, tanto è vero che è stato l’unico presidente Anm che ha negato l’interlocuzione con l’Unione Camere penali e con l’avvocatura in generale.

Davvero?

Sì, certo. Nei miei quattro anni al vertice dell’Ucpi, Davigo è stato per un anno, invece, al vertice dell’Anm. Non ha mai voluto interagire con noi. Questo fa capire molte cose. Per lui probabilmente la macchina giudiziaria funzionerebbe meglio non con meno avvocati, ma proprio senza avvocati. Il pezzo rileva chiaramente un pregiudizio smaccato nei nostri confronti.

Leggendolo traspare il fatto che l’ex pm del Pool ritenga gli avvocati dei cercatori di pretesti dilatori.

Emerge chiaramente questo suo pensiero, lo si capisce già dal titolo "L’orda inutile degli avvocati", anche se, come lei sa, non lo ha fatto lui ma sintetizza perfettamente il suo pensiero. Ma basta poi guardare quante righe dedica al numero degli avvocati per capire che per lui questo è il vero problema della giustizia. Più esplicita la conclusione dell’articolo, quando scrive che la giustizia possa rappresentare per noi avvocati un ammortizzatore sociale e una sorta di reddito di cittadinanza. Questo è estremamente offensivo nei confronti della nostra categoria. Per lui l’eccessivo numero di avvocati aumenta il contenzioso, ma non è affatto così. Per il settore penale quanto sostiene è semplicemente privo di senso. Per questo, avrei da suggerire un nuovo titolo all’articolo, prendendo spunto dal fatto che lui propenda per un numero chiuso alla facoltà di Giurisprudenza o in alternativa il numero chiuso delle avvocati. Il titolo potrebbe essere: “Sì al numero chiuso delle affermazioni fuori luogo”.

Perché?

I rimedi per ridurre il carico della giustizia non sono quelli individuati dal dottor Davigo. Cominci col dire che la depenalizzazione non è una illusione. Non è vero, come lui sostiene, che tutto quello che si poteva depenalizzare è stato depenalizzato. L’Italia è uno dei Paesi al mondo con il più alto numero di condotte sanzionate penalmente. Ogni mattina, i cittadini italiani non sanno se quanto posto da loro in essere sia una condotta lecita o illecita. Inoltre ci sono eccessive sanzioni che sfociano nel penale, invece in altri Stati sono di tipo amministrativo. Quindi il primo rimedio per ridurre il carico dei procedimenti è quello di ridurre il penale. E guarire dalla grave malattia di cui soffre il nostro Paese: il cosiddetto panpenalismo. Tutto diventa penale. La verità è che i partiti non hanno il coraggio di depenalizzare o di ridurre l’area del penale per ragioni di carattere elettorale.

Davigo sostiene che occorre ridurre la perseguibilità d’ufficio e soprattutto potenziare i riti alternativi e il patteggiamento.

ll potenziamento dei riti alternativi è un problema vero che l’Ucpi ha sottolineato da tempo, ma non nel modo che lui sostiene, ossia inasprendo le pene per chi sceglie il rito ordinario. Ciò rileva una concezione autoritaria e giustizialista del processo. Per Davigo chi sceglie il dibattimento dovrebbe essere punito. Ma questo invece è un diritto dell’imputato. Se i riti alternativi fino ad oggi sono falliti in parte la colpa è anche della magistratura: lei pensi che per il patteggiamento e il rito abbreviato viene previsto uno sconto di pena di un terzo. Ma spesso i magistrati non concedono le attenuanti generiche perché sostengono che uno ha già beneficiato di un terzo in meno della pena. E quindi questo di certo non incoraggia a percorrere questa strada. Da quando è nato il codice di procedura penale il patteggiamento è cambiato: prima non era parificato a una sentenza di condanna, ora lo è a tutti gli effetti. E allora può esserci poca convenienza a scegliere questa strada. Ancora: ad oggi il patteggiamento è possibile soltanto per pene fino a cinque anni, bisognerebbe invece alzare la soglia.

Ma proprio l’Ucpi tempo fa rivendicò la convergenza su temi quali la depenalizzazione e il patteggiamento proprio con l’Anm.

Quando ero presidente dell’Ucpi con l’allora presidente Anm, Eugenio Albamonte, si era d’accordo su questo, così come sul rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare. Anche adesso l’Unione ha portato queste istanze all’attenzione della ministra Cartabia. Se l’udienza preliminare ad oggi è fallita è anche perché ci sono delle sentenze che hanno limitato quello che il legislatore aveva previsto, ad esempio con l’articolo 425 comma ter che immaginava la possibilità di dichiarare il non luogo a procedere quando vi erano elementi dubbi. Ora nel 97% dei casi l’udienza preliminare porta al giudizio. Il gup è diventato un mero passacarte.

Cos’altro si sente di replicare a Davigo?

Vorrei evidenziare la contraddittorietà del dottor Davigo quando da un lato stigmatizza la durata eccessiva dei procedimenti, dall’altro critica l’improcedibilità. Cosa vorrebbe? Non basta che un processo per corruzione possa durare vent’anni? Vuole che un processo duri all’infinito? Davigo non sa che la maggior parte dei reati gravi sono già imprescrittibili?

Ma neanche una cosa giusta dice l’ex pm del Pool?

In effetti concordo col fatto che la nostra macchina giudiziaria è obsoleta ma poi arriva il dottor Gratteri che dice che tutti i processi vanno fatti in videoconferenza quando invece in moltissime Procure e in tantissimi Tribunali non funzionano nemmeno i pc.

«Troppi avvocati!». Davigo, ancora tu. Sul Fatto quotidiano l’ex pm di Mani pulite torna a spiegare le lentezze della giustizia con i numeri della classe forense. Se diminuissero i processi, dice, l’avvocatura ci rimetterebbe. Dimentica che proprio i penalisti proposero inutilmente (e per giunta insieme con l’Anm) riforme in grado di ridurre i giudizi. E allude ancora una volta a un’idea di giustizia che non tiene al centro la persona, e dunque chi è chiamato a difenderla. Errico Novi su Il Dubbio il 2 settembre 2021. Colpiscono molte cose, del nuovo intervento firmato da Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano. L’ennesimo in cui mette gli avvocati nel mirino. Altre volte li aveva additati quali responsabili di impugnazioni pretestuose, così pretestuose da rendere giusto il blocca-prescrizione di Bonafede. Già si era soffermato negli anni scorsi, Davigo, sui numeri della professione forense e sull’asserita urgenza di abbatterli. E di nuovo, con l’articolo di oggi, riconnette il numero dei difensori alla mole di cause civili e penali. Sostiene che se si riducesse il numero dei procedimenti si darebbe un bel colpo al reddito complessivo dell’avvocatura. E sembra così alludere non solo a perfidi legali che inducono i loro assistiti in controversie o impugnazioni non volute. No, l’ex leader Anm non si limita a questo: sembra sottintendere un’ancora più subdola opposizione dell’avvocatura alle riforme in grado di snellire la giustizia. Dice che tante cause producono tanto reddito per la classe forense. E sembra lasciar intendere che se non si interviene con modifiche efficaci, è perché la professione legale non vuole rimetterci. Eppure la verità è un’altra. Perché quella modernizzazione del processo è nelle proposte che l’avvocatura avanza da anni. E che casomai la politica ha spesso preferito ignorare. Si possono dire tante altre cose. Ma ce n’è una che viene prima di tutte. Ancora una volta Davigo parla di avvocati come un orpello. Non una parola sulla loro missione. Non un cenno, anche implicito, di rispetto per il loro rilievo civile, per la loro irrinunciabile funzione di garanti dei diritti. Non si pretende che l’ex pm di Mani pulite chieda di far corrispondere, al ruolo degli avvocati, un riconoscimento esplicito in Costituzione. Ma sulla loro già oggettiva natura di coprotagonisti essenziali della giurisdizione, l’ex presidente dell’Anm fa finta di nulla. Ancora una volta. Un altro paio di osservazioni. Intanto, sottovalutare il ruolo dell’avvocatura, come fa Davigo, finisce per alimentare la sfiducia nella giurisdizione, terribile deriva che il magistrato dovrebbe ben conoscere. Poi Davigo forse non si accorge che la sua visone meccanicista del processo e della difesa allude a una visone essenzialmente burocratica della giustizia. E da persona in realtà colta e acutissima, non può negare a se stesso che burocratizzare e svuotare di significato le funzioni pubbliche è la via più rapida per renderle inefficienti. Ma soprattutto, va ripetuto, il magistrato che ha da poco lasciato le funzioni e il Csm si mostra indiscutibilmente ingrato, persino quando richiama soluzioni condivisibili. Ricorda opportunamente che tra le modifiche utili a ridurre almeno nel penale il volume dei processi avrebbe priorità il patteggiamento, nel senso di renderlo più appetibile. Bene: è una delle proposte avanzate con maggiore insistenza dagli avvocati. Dal Cnf come dall’Unione Camere penali. Come fa, Davigo, a lasciar intendere che i processi debordano perché la classe forense si oppone alle riforme pur di non perdere reddito? Rafforzare i riti alternativi e in particolare il patteggiamento, per giunta, è una base di riforma che l’avvocatura ha condiviso proprio con quell’Anm di cui Davigo è stato presidente. Al tavolo aperto due anni fa dall’allora ministro Alfonso Bonafede, Foro e magistratura associata concordarono una proposta che poi il guardasigilli accolse solo in parte nel proprio ddl. Accusare gli avvocati di non voler ridurre i procedimenti per poter guadagnare di più è dunque una distorsione che contrasta con circostanze ben note all’ex pm di Mani pulite, anche se, all’epoca del tavolo Bonafede, l’Anm era presieduta da altri. Si può sorvolare sui dettagli. Ad esempio, sull’idea di Davigo secondo cui, per rendere più desiderabile «l’applicazione di pena» (il patteggiamento, appunto), andrebbe inasprita la sanzione che si rischierebbe di subire altrimenti nel processo ordinario. Va invece notato come altre ipotesi, per esempio la depenalizzazione, siano ritenute irrilevanti dall’ex togato nonostante fossero apparse assai utili ai suoi colleghi dell’Associazione magistrati, che pure, nella già citata proposta avanzata con gli avvocati, suggerirono di sfrondare il codice penale. Ma la cosa di cui davvero non è possibile tacere è di nuovo la logica in cui il magistrato si muove nel suo intervento. La logica meccanicista, quantitativa, in cui oltre al difensore scompare pure la persona. Ci sono molte controversie civili e tanti casi in cui i cittadini non intendono arrendersi all’accusa di un pm. E non si può pensare di ridurre la giurisdizione a un gigantesco congegno tritatutto capace di smaltire le cause ma anche le vite che vi sono sospese. È quanto il Cnf ha ricordato con la propria “Proposta per il Recovery”. Le parole di Davigo dimostrano che una simile visione umanistica della giustizia fa fatica a farsi strada. Eppure i processi non riguardano i numeri: riguardano gli esseri umani. Che non possono rinunciare ai loro diritti, non possono essere puniti per il solo fatto di reclamarli (come rischia di avvenire in virtù di norme ancora non chiarite nella riforma civile), né possono rassegnarsi a essere colpevoli o a una condanna spropositata se sanno che un appello li vedrebbe assolti o procurerebbe una pena più lieve. I processi sono fatti di persone. E finché sarà così, dietro la persona dovrà sempre esserci, a difenderla, un avvocato.

L'anatema del "Fatto". Travaglio contro Riformista e Radicali: sul Fatto elenco dei “pochi di buono” che hanno firmato i referendum sulla giustizia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2021. L’altroieri due imputati di Pignatone (nel processo “mafia capitale”) sono venuti al banchetto del Riformista per firmare i referendum radicali, concepiti per dare una spallata e imporre una riforma vera della Giustizia. Erano Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, cioè i due imputati più famosi di quel celebre processo. Pignatone li accusò di essere dei capimafia, e sostenne che Roma era finita in mano a Cosa Nostra. I giornali, quasi tutti, e anche le Tv, le radio, la Rai, si accodarono, senza muovere un’obiezione, senza chiedere un riscontro, un indizio, una prova. Decine di persone furono arrestate in modo spettacolare, uno di loro, proprio quel Carminati che ieri ha firmato per i referendum al nostro banchetto, fu catturato sotto lo sguardo delle telecamere. Perfetta la regia, bravi i cameramen. Che non erano, oltretutto, professionisti ma semplici carabinieri. Poi il filmato fu distribuito alla stampa, e nessuno si indignò. Fu mandato in onda ovunque, era di ottima qualità. Oggi sarebbe reato, allora non lo era. Sarebbe reato perché è intervenuta l’Europa a dire basta allo scandalo italiano della giustizia show, e il Parlamento italiano, forse a malincuore, si è adeguato e ha varato, obtorto collo, una apposita legge. L’Europa ha spiegato ai nostri legislatori che la magistratura deve preoccuparsi di cercare i reati, poi i colpevoli, poi le prove. fa così in tutto il mondo libero. Non si deve preoccupare del grandangolo, delle luci per la cinepresa, dell’assetto giusto per la conferenza stampa, del nome ad affetto per l’inchiesta. “Mafia capitale” era un nome molto azzeccato. Servì, tra l’altro, ad accreditare nel mondo l’idea che la vecchia Roma era finita in mano alle cosche mafiose. Le quali controllavano tutto. Le opere pubbliche, il commercio, il Campidoglio. Il danno economico e di prestigio per la città fu enorme. Furono felici solo i 5 stelle che utilizzarono quel processo per travolgere il Pd e conquistare il Campidoglio (e anche per Roma ci fu un ulteriore danno economico e di prestigio…). Le sentenze hanno poi stabilito che a Roma non c’era ombra di mafia. Capito? Zero mafia. E allora i mafiosi Buzzi e Carminati? Beh, non sono mafiosi, anche se hanno passato cinque anni in prigione al 41 bis con l’accusa di essere boss. Se le cose stanno così – e mi pare impossibile contestare questa ricostruzione – è logico o illogico che Buzzi e Carminati si sentano un po’ vittime di una giustizia spettacolo, che per fare notizia si è inventata l’accusa di mafia e gliel’ha tirata addosso? A me pare che sia logico. Invece il Fatto Quotidiano – che ha avuto la notizia, stavolta, non da Davigo o da qualche Pm ma direttamente dal nostro giornale, che l’ha pubblicata online ieri mattina – ha colto l’occasione per scagliarsi contro di noi e contro i radicali. Qual è la tesi? Un po’ all’ingrosso possiamo dire che la tesi è che noi e i radicali siamo un gruppetto di favoreggiatori, che ci accompagniamo sempre con le donne e gli uomini della “mala” e sarebbe bene se qualcuno ci prendesse in custodia. Cautelarmente… E per dare sostegno a questa tesi Il Fatto sciorina un elenco di poco di buono (non so quale sia il plurale di questa tripla parola…) che hanno firmato i referendum sulla giustizia. Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Sergio D’Elia, Sergio Segio, Bruno Contrada, Totò Cuffaro, Gianni Alemanno. Poi allunga l’elenco con un bel pacchetto di nomi di persone che non si sa con certezza se abbiano firmato per i referendum (alcune non possono firmare perché sono morte) ma che comunque sono amici, o lo sono stati, dei radicali e di Pannella. A partire da Toni Negri, e poi Rainaldo Graziani, Cesare Battisti, Michele Greco, Mario Mori, Ambrogio Viviani, Marcello dell’Utri, Raffaele Sollecito. Prima di tutto vediamo le singole posizioni di alcune di queste persone. Poi proviamo a spiegare cosa è il garantismo (che è, storicamente, una corrente ideale di pensiero e non la sigla di una associazione esterna).

Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Sono stati all’inizio degli anni 80, militanti e leader dei Nar (gruppo della lotta armata sul versante fascista), hanno commesso diversi delitti, sono stati condannati e hanno scontato la condanna.

Sergio D’Elia, è stato un militante di Prima Linea (lotta armata sul versante comunista), non è stato condannato per reati di sangue ma solo per reati in concorso, anche lui ha scontato la pena.

Sergio Segio. Anche lui di Prima linea, ha commesso alcuni delitti di sangue, anche lui ha scontato la pena.

Bruno Contrada. Ha scontato più di dieci anni in prigione, ha perso il lavoro, gli è stata rovinata la vita dagli anni 90 in poi. La Corte europea ha dichiarato la sua innocenza e stabilito che lo Stato italiano lo dovrà risarcire.

Totò Cuffaro, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per avere avvisato una persona (che però non è stata condannata) che un suo amico era intercettato. La notizia Cuffaro l’avrebbe avuta da un’altra persona (che però neanche lei è stata condannata). Strana storia. Non ricevi la notizia, non la dai, però ti condannano lo stesso. Cuffaro ha scontato tutta la pena e non gli è stato concesso neppure di partecipare ai funerali della mamma.

Gianni Alemanno. Accusato di essere pure lui della banda di mafia capitale, eliminato dall’arena politica, assolto.

Toni Negri. Accusato di essere un capo delle Br e il telefonista del gruppo che rapì Moro, messo in prigione, scagionato dalle accuse ma condannato perché durante l’ingiusta prigionia partecipò a una rivolta. 20 anni di esilio in Francia e poi sette anni in prigione a Rebibbia.

Rainaldo Graziani. Il Fatto lo accusa di essere il figlio di un esponente di Ordine Nuovo (Gruppo neofascista degli anni 60-70). Chissà se tra qualche anno se la prenderà anche con il pronipote.

Cesare Battisti. Coi radicali non c’entra nulla. Sta scontando l’ergastolo per una serie di delitti (io, personalmente, continuo ad avere forti dubbi sulla sua colpevolezza, della quale non sono mai state trovate le prove. C’è solo una sua confessione, 30 anni dopo, senza la quale avrebbe dovuto rinunciare a tutti i possibili benefici penitenziari).

Michele Greco. È stato un importante capo mafia che ha finito i suoi giorni all’ergastolo, e, da ergastolano, aveva chiesto la tessera dei radicali. Secondo alcune testimonianze leggeva anche il Corriere della sera, all’epoca diretto da Paolo Mieli…

Mario Mori. È un generale dei carabinieri, incensurato, famoso per aver arrestato molti mafiosi, tra i quali Riina (forse anche Greco) ma che poi commise l’errore di ficcare il naso nei rapporti tra la mafia e le imprese del Nord e finì sotto processo, assolto tre volte ma ora processato ancora nel più assurdo processo dai tempi dell’antica Roma: quello Stato-Mafia.

Ambrogio Viviani. Incensurato.

Marcello dell’Utri. Condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha scontato tutta la pena, si aspetta che la Corte Europea annulli la sentenza e imponga allo Stato il risarcimento perché, come nel caso di Contrada, all’epoca dei fatti per i quali è accusato, questo reato singolarissimo (estraneo al codice penale e sconosciuto in tutti gli altri paesi del mondo) non era stato ancora neppure concepito. Fu inventato a un certo punto per condannare senza prove delle personalità politiche che non era possibile accusare di favoreggiamento, per assenza del favoreggiamento.

Raffaele Sollecito. Giovane assolto dall’accusa di omicidio dopo cinque giudizi.

Diciamo che in questi elenchi c’è una bella confusione. Anni diversi, fatti diversi, posizioni diverse. Un bel gruppetto di queste persone è vittima evidente della mala giustizia, e a loro i giornali dovrebbero chiedere scusa, e non lo hanno mai fatto. I giornali seguono i teoremi dell’accusa, si inchinano in silenzio ai Pm, e il silenzio diventa impenetrabile se poi i teoremi dell’accusa vengono smentiti. Anzi, spesso, nei confronti dell’assolto, i giornali scrivono: “che fu coinvolto nell’inchiesta su…” Sì, sì, l’hanno assolto – fanno capire – ma se il Pm lo ha accusato evidentemente era colpevole,

Ecco i referendum si fanno per questa ragione. Per riportare un pochino di Stato di Diritto nel Dna di questo paese. Che è un Dna ormai corrotto. E ristabilire un po’ di garantismo. Mi piacerebbe provare a spiegare a Travaglio questo concetto: il garantismo è una forma di protezione degli imputati. È normale che gli imputati, o anche i condannati, siano interessati al garantismo. Raramente il garantismo serve a proteggere le suore Orsoline che vivono in clausura (per la verità non sono sicuro che le Orsoline vivano in clausura). Non so se mai a Marco entrerà questo concetto nel cervello. Ho paura che da quando, in quel lontano Natale del 1962, Babbo natale gli depositò sciaguratamente sotto l’albero un paio di manette argentate, Marco sia rimasto fulminato. Non ne è mai uscito da quel trip.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le impressionanti similitudini. Presunzione d’innocenza, il pensiero di Travaglio e Davigo e le similitudini con i giuristi fascisti. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Le regole costituzionali che governano la custodia cautelare rientrano tra quei principi fondamentali di civiltà che, tuttavia, non sono di agevole ed immediata comprensione, almeno fin quando non riguardano la nostra persona o quella di persone a noi care. Sono principi -lo andiamo ripetendo fino alla nausea- controintuitivi. Se tizio è gravemente indiziato di aver commesso – o di star progettando di commettere- un reato, perchè mai tutte queste condizioni e remore per sbatterlo in galera e buttare la chiave? Conta forse il suo diritto ad essere presunto innocente più della sicurezza di tutti noi? Non a caso questi rabbiosi interrogativi, puntualmente alimentati dai cultori del manettarismo nostrano ad ogni episodio di cronaca che minimamente lo consenta, erano gli stessi -come ora vedremo- che nei primi anni ’30 del secolo scorso si ponevano i giuristi fascisti. Il recente, brutale omicidio di una donna stalkerizzata dal suo ex ha, come usa, riacceso la immancabile polemica sul “perché non era in carcere?”; ancor più infiammata dalla difesa (pelosa, in verità, come di chi dice “questa è la legge, arrangiatevi”) di quella decisione cautelare da parte del Presidente dell’ufficio GIP di Catania. Proviamo allora a mettere le cose in fila, per la ennesima volta. Il giudizio cautelare, cioè la decisione di privare della libertà una persona che nessuno ha ancora stabilito se sia colpevole del reato del quale è sospettato, ha inesorabilmente una natura “prognostica”. Non solo il Giudice deve ipotizzare, sulla base di elementi di sospetto rafforzato, che tizio abbia commesso (o si appresti a commettere) un reato; ma egli deve anche pronosticare quali ulteriori danni (alle indagini ed alla sicurezza della collettività) potrebbe costui causare se lasciato libero mentre si indaga sulla (solo ipotizzata) sua colpevolezza. E non finisce qui: il giudice dovrà infine anche valutare -una volta ritenuta la necessità e la fondatezza di una restrizione della libertà dell’indagato- quale sia la misura giusta e sufficiente di quella restrizione, tra il carcere e un ordine di allontanamento. Si tratta dunque del giudizio sicuramente più impervio che un giudice sia chiamato ad esprimere, un triplo salto mortale carpiato nel periodo ipotetico. Se è drammatico il giudizio cautelare per il giudice, figuriamoci quanto debba esserlo per l’indagato. Il quale -sarà banale o irritante, ma è la questione delle questioni- non è un mafioso o un omicida o uno stupratore, ma in quel momento è solo sospettato di esserlo; non è (ancora) uno stalker omicida, anche se potrebbe diventarlo. Il sospettato potrebbe essere innocente, estraneo a quelle terribili accuse, ed ha il sacrosanto diritto (costituzionale) di vedersi quanto più possibile garantito dall’orrendo incubo di finire in galera prima ancora di essere giudicato. Quel diritto, cari amici lettori, non è il diritto dello stalker assassino o del capo mafia impunito, ma è innanzitutto il diritto di tutti noi, di ciascuno di noi, persona per persona. E’ una ovvietà, ma si fatica a tenerla presente fino a quando non ci sbatti il grugno. E allora, vi chiedo: è davvero tanto difficile comprendere la ragione per la quale la legge sia così rigorosa nel fissare regole e condizioni della custodia cautelare? Gli indizi di colpevolezza devono essere “gravi”, cioè non semplici sospetti; ma questo non basta. Occorre, ben giustamente, che i pericoli derivanti dallo stato di libertà del gravemente indiziato siano “concreti ed attuali”, cioè non congetturali ed astratti (del tipo: è sospettato di omicidio, ergo deve stare in carcere). E’ del tutto ovvio dunque che i rischi di errore del Giudice siano molto alti. Ma per chi vede il mondo secondo Costituzione, sono rischi innanzitutto per la libertà e la vita degli ingiustamente sospettati, come l’esperienza nostrana tristemente ci insegna; ed è ciò di cui innanzitutto la legge si preoccupa. Può poi accadere (ma è ipotesi di gran lunga più rara) che il giudice erri in senso opposto, non adeguatamente prevenendo una condotta criminale, con esiti che possono essere anche drammatici, come in questa ultima vicenda. Ed è certamente vero che retaggi culturali antichi ed intollerabili pesino a volte in modo grave sulla valutazione del reato di stalking. Si discuta di questo, si approfondiscano le ragioni di quella valutazione del giudice che, con il senno di poi, si è dimostrata tragicamente inadeguata. Ma è davvero desolante vedere rimessi in discussione, ad ogni fatto di cronaca, principi fondativi di libertà che distinguono, da sempre, le società civili da quelle totalitarie. Altrimenti, si scelga apertamente di stare dalla parte di chi ha definito la presunzione di non colpevolezza come una «generica tendenza favorevole ai delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità». E’ Marco Travaglio? No, è Alfredo Rocco, Ministro di Giustizia fascista, nella sua Relazione preliminare al Codice. O con chi ha scritto: “Se si deve presumere l’innocenza dell’imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?” E’ Piercamillo Davigo? No, è Vincenzo Manzini, forse il più illustre giurista fascista. Se trovate impressionanti le similitudini, allora è il caso che vi facciate una domanda, e vi diate finalmente una buona risposta.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Md fa a pezzi le bugie sulla riforma della giustizia. Gratteri e i pm pistoleri smentiti dall’antimafia "di sinistra": le balle dei giustizialisti sulla riforma Cartabia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Reggio Calabria contro Catanzaro. Magistratura Democratica contro Gratteri. Ma anche versus De Raho e contro tutti i procuratori pistoleros che sono la passione di Marco Travaglio e i cronisti-megafono delle procure, quelli che campano divulgando le scartoffie dei pm. È colpa di queste toghe mediatiche ed esibizioniste se la riforma Cartabia non ha mantenuto le promesse. Anzi, la responsabilità è della ministra che ha ascoltato più Gratteri che noi. Già, vien da domandare, ma “voi” dove eravate mentre il procuratore Gratteri e tanti come lui strillavano che sarebbero andati a casa i mafiosi se fosse passata la “schiforma” “salvaladri”? Cinzia Barillà, giudice di corte d’appello, e Stefano Musolino, pm della Dda reggina, sono i nuovi vertici di Md, presidente e segretario. Sono stati eletti al congresso di Firenze nello scorso mese di luglio, proprio nei giorni in cui la Camera votava, con la fiducia al governo Draghi, la riforma Cartabia. Li ha intervistati nei giorni scorsi, in un colloquio a tre, Andrea Fabozzi sul Manifesto. Sono arrabbiati e delusi, considerano le nuove norme sulla prescrizione un’occasione mancata. Avrebbe potuto segnare una svolta, dicono, «così da costringere anche la magistratura a cercare strumenti alternativi alla sanzione penale e al carcere». Sembrano voci arrivate da una sorta di oltretomba mediatica, lontani dal coro violento e sfacciato dei protagonisti in toga che, unici nell’agone politico, hanno cannoneggiato la proposta di riforma finché la loro voce, reazionaria e conservatrice, non ha trovato quello spazio nelle norme che le ha poi asfissiate. È un po’ tardi forse oggi per puntare il dito contro “il magistrato individualista”, quello “molto bravo a instillare le paure”, quello “che non fa il bene della magistratura”. E anche ricordare –lo abbiamo fatto in tanti- quel gioco mediatico messo in campo da alcuni pm, che non dicono che “se ci sono procedimenti al riparo dell’improcedibilità, sono proprio quelli per mafia la cui definizione è nella quasi totalità dei casi garantita dalle norme sulla custodia cautelare”. Noi lo sappiamo, hanno cercato di dirlo il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza e tanti avvocati. E pochi giornalisti. Ma non l’hanno detto i magistrati. Toccava a loro contraddire i Gratteri vocianti. Sarà perché sono due magistrati calabresi, e reggini in particolare, sarà perché sono di un’altra parrocchia politica, fatto sta che Cinzia Barillà e Stefano Musolino hanno dato una bella sistematina al loro collega di Catanzaro, Nicola Gratteri. E insieme a lui anche al capo dell’antimafia Federico Cafiero De Raho, tanto sta per andare in pensione. Tutti e due avevano sbeffeggiato la riforma Cartabia con una battuta alla Davigo: con queste norme diventa conveniente delinquere, avevano detto. Era una falsità, e anche una vigliaccata ipocrita. Perché loro per primi, gli eroi dell’antimafia, non possono non sapere quello che dicono oggi con semplicità i due esponenti di Md, uno dei quali, Musolino è a sua volta della Dda. In realtà lui e la collega Barillà ce l’hanno un po’ con tutti, e con qualche ragione. Sui contenuti, perché il testo della Commissione Lattanzi, cioè il punto di partenza della riforma, era decisamente meglio della normativa finale, quella intrisa di contentini più che al Movimento cinque stelle, proprio alle toghe più in vista. Ma soprattutto perché la mediazione politica che ha portato al voto di fiducia alla Camera, pareva tener conto più delle tante vociferazioni a sproposito uscite dalla bocca delle toghe che dei diktat delle segreterie di qualche partito. In realtà il partito è uno solo, e dal punto di vista della giustizia è molto petulante, più che potente. E soprattutto lo è il vero capobanda, quello che finge di dirigere un giornale invece che un movimento, e che ha martellato per settimane chiamando la riforma Cartabia, sempre “schiforma” e “salvaladri” , con un neppur troppo sottile riferimento alla proposta di modifica delle norma sulla custodia cautelare proposta nel 1994 dal ministro Alfredo Biondi del primo governo Berlusconi. Il partito è uno solo, ma è quello che aveva espresso nei precedenti due governi il ministro guardasigilli. E allora, se vogliamo proprio mettere i puntini sulle “i”, il problema è un po’ diverso da come viene posto dai vertici di Md. La giudice Cinzia Barillà per esempio lamenta il fatto che nelle audizioni volute dalla ministra si siano valorizzate maggiormente le famose “individualità molto capaci di sollecitare le paure”, piuttosto che cercare “un’interlocuzione con chi esprime un pensiero collettivo”. Lasciando perdere per un attimo le perplessità sulla storia, recente e antica, del “pensiero collettivo” del sindacato, e anche della casta, dei magistrati, e i danni non ancora rattoppati, vorremmo ricordare le origini del fuoco di fila con cui fu bersagliata la guardasigilli Cartabia non appena aveva messo il piede al ministero. Hanno sparato a vista, chiudendola in una sorta di tenaglia, non solo i pubblici ministeri alla Gratteri, ma anche per esempio una famosa icona di Magistratura democratica come l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, forte della sua reputazione di storico magistrato “antimafia”. E vogliamo ricordare delle toghe napoletane, che tra l’altro, insieme a quelle romane e a quelle reggine, risultano le meno efficienti nello smaltimento delle cause? Un bel combinato disposto tra il presidente di corte d’appello Giuseppe De Carolis e il procuratore generale Luigi Riello. Non a dire, come sarebbe stato loro dovere, che si sarebbero impegnati al massimo per applicare al meglio la riforma, magari chiedendo giustamente un po’ di personale in più, ma piuttosto a gettare l’allarme. E la grida manzoniana era che con quella riforma sarebbe finito in fumo il 50 per cento dei processi, insieme a tutti i maxi di Gratteri e di quelli come lui. Quelli mediatici e individualisti, appunto. Il dottor Stefano Musolino, che è uno di quei pm che si fanno chiamare “antimafia”, dice parole che ricordano quella parte gloriosa della vecchia sinistra di Md che era veramente garantista: «Finché regge l’idea che la risposta ai problemi del paese vada cercata sempre nell’azione penale, avremo sempre un certo numero di procuratori in vista pronti a raccontarci che senza un pm forte e una pesante sanzione penale le cose non funzionano». È anche il punto di vista, e anche la direzione imboccata dalla riforma Cartabia con i percorsi riparativi, anche se insufficiente, come viene fatto notare nell’intervista, sulle misure alternative al carcere. Ma la rivolta –un colpo di Stato, l’abbiamo chiamato noi, come se si fossero mossi i generali di Pinochet– è stata molto generalizzata, negli ambienti dei vertici “antimafia”, e del resto non si sono sentite molte altre voci dissonanti, se si eccettuano gli ex procuratori Armando Spataro e Carlo Nordio. Ma quante interviste rilasciava nel frattempo Giancarlo Caselli, che dichiarava senza timore che si trattava di un “accordo cerchiobottista” e che era “meglio la Bonafede”? Anche l’antimafia di Milano, ormai orfana di Ilda Boccassini (che quanto meno sapeva stare zitta e non concedeva interviste), non è rimasta indietro nel tiro al bersaglio. Alessandra Dolci, procuratore aggiunto a capo della Dda, definisce la riforma una sostanziale amnistia, fatta apposta per “mandare al macero migliaia di processi”. Anche gli imputati mafiosi potranno godere dell’improcedibilità, dice in un’intervista al Fatto quotidiano, e a chi, se no? Naturalmente nessuno di questi pm ricorda che il 60% delle prescrizioni matura prima dell’udienza preliminare e che ogni tanto anche qualche piccola parola di autocritica sarebbe gradita all’opinione pubblica. Ma sono state queste le parole che hanno inquinato. Mettiamole tutte insieme poi posiamole sul piatto della bilancia, quella della giustizia. Che cosa pesa dall’altra parte? Quasi il nulla. Ben venga l’intervista a Barillà e Musolino, dunque. Ma è un po’ come quando sentiamo il ritornello che la maggior parte dei magistrati è fatta di professionisti molto bravi e molto democratici e molto garantisti, eccetera. Peccato che però che quelli che strillano e sanno farsi ascoltare siano altri, proprio come Gratteri. Che sta a Catanzaro e non a Reggio Calabria. P.S. L’anonimo corsivista del Fatto Quotidiano che si appella “Lo sberleffo” lamenta che i due esponenti di Md abbiano osato parlare di Nicola Gratteri senza pronunciarne il nome. Quasi non fosse citato abbastanza sul suo quotidiano di fiducia. Il nome lo abbiamo fatto noi, contenti per il vostro cocco?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

La campagna infondata dei re delle manette. “Il referendum libera gli stalker”, la fake news di Travaglio e del Fatto terrorizzati dal boom di firme. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Agosto 2021. È falso che uno dei referendum sulla giustizia, quello che limita gli abusi sul carcere preventivo, possa favorire gli stalker. E’ totalmente falso, ma il solito Fatto quotidiano sta ripetendo la bugia da tre giorni. La verità è che il successo della raccolta di firme sta cominciando a fare venire l’orticaria nella casamatta delle manette. E naturalmente il primo a esser preso di mira è quello che cerca di mandarci il minor numero possibile di persone, in galera. Stiamo parlando degli innocenti secondo la Costituzione, cioè dei detenuti in custodia cautelare, che sono quasi la maggioranza dei detenuti italiani. Uffa, tocca di nuovo parlare di Travaglio, che barba che noia. Soprattutto perché lui non capisce niente di giustizia, come la gran parte dei cronisti giudiziari abituati a scopiazzare gli atti pessimamente scritti dai Gip che hanno copiato il Pm che ha copiato la letteratura dell’ufficiale di polizia giudiziaria. Si sveglia un mattino il re dei tagliagole e si accorge che i sei referendum chiameranno tra pochi mesi i cittadini a giudicare lo stato della giustizia, e di questi tempi si salvi chi può. Prende di mira il numero cinque e lo colora di rosa nei giorni successivi al quarantunesimo femminicidio, la morte di Vanessa, che ha suscitato qualche polemica e molta commozione. Ma usare la commozione del popolo delle donne per imbrogliare e scrivere falsità è una vigliaccata. Approfittare di qualche dubbio in buona fede della vicepresidente di Telefono Rosa, o della ministra Mara Carfagna, lo è ancora di più. Ma pare sufficiente non solo a scatenare la richiesta di tanto carcere, tante manette, tanta repressione per tutti da parte del direttore del Fatto, ma anche a tenere la “notizia” ogni giorno in prima pagina, visto che di veline di questi tempi ne girano poche, e che ormai il sottosegretario Durigon ha rassegnato (purtroppo, e sbagliando) le dimissioni. E allora, per i miei tre lettori e indirettamente per i milioni di seguaci e ammiratori di Travaglio, ecco la lezioncina. Il quesito del referendum sulla custodia cautelare ha semplicemente la finalità di evitarne l’abuso. Uno degli abusi più frequenti è quello di mandare in galera una persona SOLO perché potrebbe ripetere una tipologia di reato già commesso. Il caso tipico è quello della detenzione di sostanze psicotrope, 30 grammi di hashish, per esempio. L’obiettivo è di non usare il carcere come unica soluzione per chi è indagato per i reati meno gravi. Ma – e il “ma” è grande quanto un grattacielo – restano fermi gli altri presupposti per la custodia cautelare, quali la pena edittale, cinque anni nel massimo, e l’uso di violenza o minaccia. Ora non pretendiamo che Travaglio, e chiunque altro abbia dei dubbi (ma vogliamo tranquillizzare soprattutto il mondo delle donne e dei loro diritti) conoscano il codice penale a memoria. Ma solo ricordare che l’articolo 612 bis prevede che il reato di stalking sia punito con la pena massima di sei anni e sei mesi, e riguarda comunque condotte di cui già di per sé si prevede che siano reiterate e che si manifestino sotto forma di minaccia o di molestia. Inoltre la pena è aumentata se l’atto è commesso da una persona che abbia o abbia avuto un legame affettivo con la vittima, come, nei casi più frequenti, ex mariti o compagni. Quindi, che cosa può giustificare titoli come “Il referendum di radicali e Lega libera gli stalker”? Falsità e imbroglio. Il fatto è che il successo della raccolta di firme per i referendum sulla giustizia crea reazione scomposte, come sentiamo dalla voce di un avvocato penalista membro della commissione giustizia del partito radicale, nonché sempre in prima fila nella raccolta di firme, Simona Giannetti. “Pare che a coloro che vorrebbero manette e carcere per tutti quelli che subiscono anche solo una denuncia, dia fastidio il fatto che centinaia di migliaia di cittadini abbiano firmato ai tavoli della raccolta referendaria per una giustizia giusta, manifestando così chiaramente di essere stanchi di avere più gente in carcere sotto indagine che non condannati con una sentenza definitiva. Del resto siamo all’assurdo di un Paese in cui la cassazione consente che dover dimostrare la gravità degli indizi per una misura cautelare sia molto meno stringente di quella necessaria per motivare una sentenza. Come se in fondo la carcerazione preventiva non fosse di per sé già un’anticipazione di pena. Infine, nel nostro Paese esistono le case circondariali, costruite apposta per i presunti innocenti, e sono le più affollate, con presenze anche doppie del numero previsto. In conclusione: andate a firmare!”

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Marco Travaglio, le accuse dal New York Times: "I legami con i magistrati, megafono per le calunnie M5s". Libero Quotidiano l'01 agosto 2021. La mirabile impresa di Marco Travaglio? Farsi ridicolizzare anche dal prestigioso New York Times. La ragione, ancora le raccapriccianti parole pronunciate da Marco Manetta alla festa di Articolo 1, gli insulti a Mario Draghi, "il figlio di papà che non capisce un ca***". In un lungo articolo firmato dal corrispondente del NYT Jason Horowitz, quest'ultimo ha riassunto la vicenda della riforma Cartabia, partendo dal caso di Simone Uggetti, il sindaco Pd di Lodi massacrato dai grillini nel 2016 e che, alla fine, è stato scagionato solo pochi mesi fa perché "il fatto non sussiste". E Horowitz, dopo aver dato conto delle scuse di Luigi Di Maio, ecco che tira in ballo il capo-ultrà di Giuseppe Conte, sul quale scrive: "Non tutti sono entusiasti, però. Marco Travaglio, direttore responsabile del Fatto Quotidiano, che ha profondi legami con i magistrati e che ha agito da megafono per le calunnie dei Cinque Stelle, attacca con ira e oppone strenua resistenza contro quella che dà sempre più la sensazione di essere la fine di un’epoca nella politica italiana. Questo mese ha sbeffeggiato Mario Draghi dandogli del ragazzino viziato e ha definito la sua Ministra della Giustizia Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, come una sprovveduta che 'non sa distinguere fra un tribunale e un phon", concludono dalle colonne del NYT. Insomma, altri schiaffoni per Travaglio... 

Ma che gente è questa? L’Italia travaglina ora si sente al sicuro: due bambini entrano in carcere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Un bambino di sette mesi è entrato in prigione, in Emilia Romagna, perché sua madre deve scontare un residuo di pena di venti giorni. Avete letto bene: venti giorni. Avete idea di chi sia un bambino di 7 mesi? Voi pensate che sia ragionevole imporre una punizione fisica, corporale, così severa a un neonato, per la semplice ragione, totalmente burocratica, che sua madre per qualche ragione che non vogliamo neppure conoscere, deve scontare una pena di tre settimane? Voi riuscite a immaginare come possa una persona prendere una decisione di questo genere, o comunque non impedirla in qualche modo? Qual è la ragione di questo arresto di un bambino? A occhio una sola: dare soddisfazione a quelli che chiedono la certezza della pena. Mancano venti giorni, li sconti! Basta col buonismo. È così? Ora l’Italia a 5 Stelle, che fonda tutto sull’ideologia delle manette, della repressione, del carcere, l’Italia travaglina è più contenta. Ora si sente al sicuro? Nei giorni scorsi è stato arrestato anche un altro bambino. Più grande. Quasi un anno e mezzo. La mamma è in custodia cautelare. Cioè è formalmente innocente, sta in cella solo perché agli inquirenti è più comodo così. Ma che gente è questa?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'orrore giustizialista italiano. Bambini imprigionati, esiste un giudice? Iuri Maria Prado su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Ma che cosa pensa il magistrato del proprio provvedimento che tiene in prigione una donna e il suo bambino? Ci sono tre ipotesi, mi pare. La prima: pensa che sia giusto, e cioè che sia appropriata la legge che, suo tramite, realizza quell’abominio. Se è così, credo sia esatto tenerlo per aguzzino, perché non si vede come considerare altrimenti uno che imprigiona quell’innocente. Seconda ipotesi: pensa che sia ingiusto, e cioè che nessuna legge dovrebbe obbligarlo ad arrecare quel male. Se è così, credo sia esatto tenerlo per vigliacco, perché diversamente non si saprebbe come definire chi non si assolve da quell’obbligo rinunciando a farsi strumento di una simile crudeltà. La terza ipotesi, se possibile, è la più allarmante: e cioè che quel sequestratore di Stato ritenga in tal modo di adempiere a un’esigenza di giustizia così alta da giustificare – “purtroppo” – anche quel sacrificio. Nei primi due casi è, alternativamente, la soddisfazione di chi tortura o l’inerzia di chi la infligge perché non ne ha sufficiente ripugnanza. Nel terzo, anche più gravemente, è il finalismo di chi la giustifica per quanto gli spiaccia. Lo stesso finalismo che allarga le braccia se il detenuto si impicca: perché, per la legge che ne comanda l’arresto, la vita del condannato è meno importante della sua vita rinchiusa. Lo stesso finalismo che fa spallucce davanti all’assoluzione in trafiletto dopo l’arresto in prima pagina: perché il potere di dimostrare la colpevolezza vale più del diritto di protestare l’innocenza. È uguale: quella madre deve subire la pena perché è giusto così; e se questa giustizia implica l’ingiustizia inflitta a un bambino, ebbene bisogna farsene una ragione perché persino l’infanzia libera è sacrificabile in nome della pretesa punitiva dello Stato. Si potrebbe aggiungere che, se questa inciviltà continua, il problema non è tanto del magistrato che con il suo potere la realizza, ma nostro, che quel potere continuiamo a lasciargli. Verissimo. Diciamo però che se uno, almeno uno, adoperasse l’autonomia e l’indipendenza che gli sorregge la carriera per dimostrare di non appartenere a nessuna di quelle tre categorie, allora qualcosa comincerebbe forse a cambiare. Nel frattempo, con i bambini che continuano a essere tenuti in carcere, sarà gioco forza continuare a giudicare chi ce li manda per quel che è: un aguzzino o un vigliacco o un giustiziere. Dunque uno che non meriterebbe di essere giudice. Iuri Maria Prado

"Archiviare le querele a Sgarbi". Per Davigo è un momento no. Manila Alfano il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. Dopo l'inchiesta sui verbali di Amara nuova doccia fredda: le procure di Milano e Firenze contro le denunce dell'ex pm. Questo processo non s'ha da fare. Le Procure di Milano e Firenze hanno chiesto di archiviare le due querele per diffamazione proposte dall'ex magistrato Piercamillo Davigo nei confronti di Vittorio Sgarbi già assolto per gli stessi fatti il 3 maggio scorso dal Tribunale di Bologna. A scatenare la rabbia e l'indignazione dell'ex magistrato di Mani pulite oggi al centro di aspre polemiche era stato un articolo comparso nella rubrica «Sgarbi vs capre» (e già il titolo non prometteva nulla di buono) del 10 marzo 2017 pubblicato sul sito web Quotidiano.net dal titolo «Davigo e i detenuti dimenticati» in cui il critico d'arte attaccava i metodi giudiziari usati negli anni di Tangentopoli. Un articolo che certo non era piaciuto all'ex magistrato e che lo spinge a sporgere non una ma ben quattro querele relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo apparso anche sul Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. A maggio il primo verdetto a Bologna che si era chiuso dando ragione a Sgarbi. Per il giudice di Bologna infatti «il fatto non sussiste». In mezzo c'era ancora una volta il tema delle carcerazioni preventive, gli anni di Tangentopoli, l'ingegner Cagliari e il suicidio dopo 134 giorni passati in carcere a San Vittore, un metodo che ha creato dibattiti e fratture mai ricomposte, strascichi dopo oltre vent'anni, veleni mai riassorbiti. «Il giorno prima di scrivere l'articolo- aveva spiegato Sgarbi- avevo visto la trasmissione su Rai3 Agorà nella quale Davigo affermava: Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell'uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni. E ancora: Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent'anni che facevano così». Sono queste le parole che fanno venire voglia a Sgarbi di scrivere sull'argomento e di ribadire le sue idee. Un sistema quello usato dal pool che non è mai andato giù al professore e parlamentare, sul quale si è sempre espresso in modo fin troppo chiaro. Una critica feroce e aspra alla Sgarbi appunto, ma senza commettere reato secondo il Tribunale di Bologna che lo assolve dalla diffamazione. Ora le richieste di archiviazione di Milano e Firenze si muovono nella stessa direzione del Tribunale di Bologna. A Milano Davigo ha fatto opposizione all'archiviazione. E il Gip ha fissato una udienza il prossimo 7 ottobre: il giudice ascolterà le parti e poi deciderà il da farsi. A Firenze invece la Procura ha appena chiesto di mandare su un binario morto la denuncia del Dottor Sottile di Mani Pulite. Il giudice si pronuncerà nelle prossime settimane. Intanto Davigo è nel mirino della Procura di Brescia: è accusato di rivelazione di segreto d'ufficio in relazione ai verbali dell'avvocato Piero Amara. Amara aveva raccontato l'esistenza della fantomatica loggia Ungheria, cui apparterrebbero politici, toghe, alte personalità dello Stato. Ma per lungo tempo la Procura di Milano sarebbe rimasta in una posizione di inerzia davanti a queste clamorose rivelazioni, finché il pm Paolo Storari titolare del fascicolo consegnò le carte a Davigo. E questi ne avrebbe parlato al vicepresidente del Csm Davide Ermini e ad altri magistrati. Insomma, secondo l'accusa, Davigo avrebbe così divulgato quello che doveva rimanere riservato, mentre la sua segretaria avrebbe spedito quei verbali ad alcune redazioni di quotidiani. Manila Alfano

La fine dell'era dei giustizialisti. Marco Gervasoni il 18/7/2021 su Il Giornale. Piercamillo Davigo è il padre di un aforisma, "non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti", una massima efficace ma aberrante. Piercamillo Davigo è il padre di un aforisma, «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti», una massima efficace ma aberrante. È anche perché la troviamo tale che confidiamo nella sua innocenza, ora che ha ricevuto un avviso di garanzia per violazione di segreto di ufficio. In un Paese civile, esso non dovrebbe recare danno a chi lo riceve, perché potrebbe essere innocente (e lo resta fino al terzo grado di giudizio). Ma sappiamo che in Italia sono state distrutte carriere politiche e manageriali, partiti e spezzate vite umane solo per un avviso di garanzia. E tutto iniziò con Tangentopoli, una stagione non ancora finita: anzi, la barbarie giustizialista, a un certo punto, non più garantita dall'ex Pci, suo interprete per tanti anni, si è spostata sui 5 stelle, in una versione ancora più agghiacciante. Davigo è stato percepito come il simbolo, il trait d'union tra le due stagioni: quella del giustizialismo originario di Mani pulite e quella del giustizialismo fattosi partito, con i 5 stelle. Mentre negli anni Novanta fu secondo, a fama, solo a Di Pietro, in quella pentastellata i grillini avevano lui come punto di riferimento. L'avviso di garanzia (che resta tale, ripetiamo) suona quindi simbolicamente come una caduta degli dei del giustizialismo e come il segno di fratture interne alla magistratura italiana, conseguenti alla bomba Palamara, cioè all'eroica testimonianza dell'ormai ex pm. Dove porterà questa frattura è difficile dire. Certo va letta come il segnale che, almeno a livello europeo, il ruolo della magistratura sta mutando. O, per meglio dire, si sta rafforzando il peso della magistratura internazionale, quella delle Corti, che ormai fa giurisprudenza anche sovrapponendosi ai vari parlamenti nazionali. Mentre sembra più indebolita o, almeno, in crisi, la «vecchia» magistratura «nazionale». Prova ne è l'avviso di garanzia ricevuto nelle stesse ore dal ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti, un ex avvocato che aveva battagliato molto con i magistrati francesi. Che ora lo mettono in difficoltà in un sistema che, diversamente da quello italiano, prevede un controllo dell'esecutivo sulle toghe. Un evento mai accaduto Oltralpe e che pare più un segno di debolezza. Di certo i rapporti tra politica e magistratura nei prossimi anni saranno diversi dal passato: e la prima dovrà assolutamente ritrovare il proprio ruolo.

Manettari e manipulitisti. La sconfitta di Bonafede (e Conte) non intacca l’egemonia culturale giustizialista in Italia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 10 luglio 2021. Il disegno di legge Cartabia sulla prescrizione infrange il principio del fine processo mai, ma conserva quello del fine reato mai. E allunga il tempo nel quale un innocente può rimanere appeso a un processo oltre gli stessi termini previsti dalla legge Orlando, scempiata dal Movimento 5 stelle. Purtroppo non basta un presidente del Consiglio o un ministro illuminati per rischiarare la notte buia del diritto e dei diritti, in cui il nostro Paese da decenni si trascina. Malgrado l’esito dello scontro in Consiglio dei ministri sul ddl Cartabia segni una netta sconfitta del Movimento 5 stelle, destinata ad aggravarne le divisioni, la parziale rottamazione della riforma Bonafede è un’ottima notizia per la politica, ma non altrettanto per la giustizia italiana. Questa considerazione vale sia per la questione simbolo della prescrizione, sia (e soprattutto) più in generale, rispetto all’idea della giustizia penale e dei relativi limiti che continua a dominare la discussione parlamentare e che ha portato a stralciare alcune delle proposte della commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, ad esempio quella sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione, e a circoscrivere prudentemente le ambizioni riformatrici dell’esecutivo. Qualunque intervento, anche quello apparentemente più tecnico e neutrale, deve infatti rispettare totem e tabù, idoli e divieti sacri della religione giudiziaria di Stato, che assegna alla pretesa punitiva verso i presunti colpevoli non solo una prevalenza giuridica, ma una funzione simbolica di risarcimento e soddisfazione del popolo e riserva alla classe sacerdotale dei giudici (senza distinzione tra accusatori e giudicanti) una vera e propria funzione liturgica, non di amministrazione della giustizia, ma di intermediazione della salvezza. La proposta suggellata dall’accordo in Consiglio dei ministri sulla prescrizione infrange il principio del fine processo mai, ma conserva quello del fine reato mai, e in ogni caso, concretamente, allunga il tempo nel quale un innocente può rimanere appeso a un processo oltre gli stessi termini previsti dalla legge Orlando, che Bonafede aveva scempiato. In più nella legge Orlando il prolungamento dei termini per secondo grado e Cassazione era previsto unicamente per i condannati in primo grado, non anche per gli assolti, come imposto dalla legge Bonafede e accettato anche dal ddl Cartabia. Ovviamente, di questa mediazione al ribasso non può farsi colpa al ministro o al presidente del Consiglio, i cui limiti d’azione sono rappresentati non solo dagli interessi propagandistici dei partiti della maggioranza, ma da un mainstream politico-giudiziario che rimane, anche nella pubblicistica meno manettara, ancorato alle retoriche e alle obbedienze manipulitiste e che agisce da causa di esclusione e di giustificazione di tutto quello che in materia di giustizia possa considerarsi davvero ammissibile, cioè popolare. E qui si torna al dato generale, quello dell’idea della giustizia penale come forma sensibile del rapporto tra cittadino e Stato e tra potere e libertà, che a destra come a sinistra, per ragioni e per nemici diversi, è stata subordinata a canoni inquisitoriali. Per uscire da una giustizia e da una galera da Inquisizione bisogna uscire da un’idea inquisitoriale della giustizia, dei delitti e delle pene. Facile a dirsi, non certo a farsi, perché come si vede non basta un presidente del Consiglio o un ministro illuminati per rischiarare la notte buia del diritto e dei diritti, in cui l’Italia da decenni si trascina. Sulla giustizia, più che su qualunque altro tema, per vincere la battaglia delle leggi occorre riprendere una battaglia culturale, perché prima delle norme, vengono le idee e dalle idee cattive solo norme cattive (sul buono o cattivo, naturalmente, de gustibus). Da questo punto di vista proprio sulla giustizia si sconta l’assenza di un partito o di uno schieramento politico dai numeri abbastanza larghi e dalle idee abbastanza chiare per rappresentare un vero interlocutore, cioè un vero problema politico, per tutti. Assenza tanto più bruciante, mentre il Partito democratico accoglie entusiasticamente nelle proprie fila Leoluca Orlando, il mammasantissima del giustizialismo universale, il maestro del sospetto elevato ad anticamera della verità, presumendo, forse pure a ragione, di ottenere dall’operazione un saldo positivo di consensi. Per paradosso lo scontro oggi più propizio in tema di giustizia non passa dalle iniziative dell’esecutivo, ma da un mazzo di referendum radicali imbracciati trasformisticamente dalla Lega e da Salvini, uno dei tanti mozzaorecchie che ha riscoperto il garantismo da indagato e imputato, e che oscilla agilmente tra cappi e garanzie, tra un’idea orbaniana e una pannelliana della giustizia, tra la rivolta al controllo popolar-giudiziario della politica e la speranza di un controllo politico-popolare della giustizia. Insomma, viva Cartabia, viva Draghi, ma non è il momento del facile ottimismo. Fofò Dj ha perso, ma l’egemonia culturale giustizialista è sempre lì.

Giustizia e giustizialisti, una riforma non basta. Firmato Cicchitto. Di Fabrizio Cicchitto il 12/07/2021 su formiche.net. La riforma della Giustizia di Marta Cartabia mette un freno alla marea giustizialista iniziata con Tangentopoli. I giustizialisti, però, sono ancora lì e in forze più che mai, dopo che Conte ha vinto la sfida interna al Movimento. Draghi farebbe bene a preoccuparsi. Il corsivo di Fabrizio Cicchitto. La riforma Cartabia blocca una tendenza efferata fondata su un giustizialismo esasperato e cieco iniziata con Mani Pulite nel ’92-’94 che è proseguita dopo il ’94 contro Silvio Berlusconi e successivamente ha investito tutti, compreso personalità del Pd. In questo sistema già efferato di per sé poi il ministro Bonafede, una singolare figura di avvocato ultragiustizialista, ha innestato quella bomba atomica di cui ha parlato la senatrice Bongiorno, che sostanzialmente si risolveva nel processo a vita (e che processi, da quello contro Mannino durato 30 anni prima dell’assoluzione, a quello contro Alemanno durato 7 che però ha comportato anche la distruzione della Capitale d’Italia sotto lo slogan Mafia Capitale con vicende giuridiche che paradossalmente riproducevano ex post narrazioni romanzate, tipo Romanzo Criminale, con il nero Carminati che ha svolto la funzione di connessione fra la fantasia e una realtà del tutto forzata). Nel frattempo, però, è avvenuta un’altra cosa e cioè che la magistratura, anzi ad essere più precisi, la magistratura associata (ANM, CSM, correnti di sinistra, di centro, di destra) prima ha fatto il pieno del potere, compreso il potere politico distruggendo i partiti esistenti o sottomettendoli, e poi è implosa per le sue contraddizioni interne e anche perché non sa di casa dove sta la politica intesa nel senso alto e anche medio del termine: tutto si svolgeva nei bassifondi. Per di più a questo punto l’Europa si è accorta che l’Italia è un Paese poco raccomandabile sia per la sua giustizia civile, sia per la sua giustizia penale e anche per la perversità del suo sistema carcerario: di qui per un verso la fuga degli investimenti esteri e per un altro verso il condizionamento di 200 miliardi di euro alla normalizzazione del nostro sistema giudiziario. Ciò è capitato in altri termini un’altra volta nella storia d’Italia prima dell’unità, ma come spinta ad essa nei confronti dei Borboni. Allora, allo stato attuale la riforma Cartabia è il minimo che si può realizzare per tamponare e normalizzare una situazione che è sfuggita di mano. Per altro verso una serie di questioni, in primo luogo lo sdoppiamento delle carriere e dei Csm, non è nella riforma, ma viene affrontata fortunatamente dai 6 referendum presentati dai radicali con il sostegno della Lega. A nostro avviso, anche chi, come il sottoscritto, non condivide molte delle posizioni politiche di Salvini deve comunque firmare i referendum. Storicamente sempre i referendum sono stati un punto di incontro fra posizioni politiche molto diverse: casomai sono i laici, i socialisti, i cattolici, gente di destra e di sinistra che devono ritrovarsi nel garantismo, superare i loro ritardi e quindi firmare i referendum. Le cose però non si fermano qui. Già prima di questa vicenda nel Movimento 5 Stelle era in corso uno scontro senza esclusione di colpi che aveva per oggetto il potere, il potere dei due leader maximi, Grillo e Conte. Per un movimento fondato sul principio “uno vale uno” una autosmentita clamorosa, ma le smentite non si sono fermate qui. Un movimento che negava in via di principio la coalizione, l’alleanza, il compromesso invece ha fatto parte di tre governi di segno opposto, quello con la Lega, quello con il PD e LeU e quello, presidente il banchiere Draghi, con dentro addirittura Berlusconi e Forza Italia. Il M5S ha fatto tutto ciò sia perché una parte di esso si è reso conto che non si potevano fare follie in un paese con la pandemia e con la recessione, sia perché tutti volevano salvare il tesoro costituito di più di 300 parlamentari. Adesso però lo scontro politico e di potere riesplode sulla riforma Cartabia e qui arriva l’ora della verità indipendentemente dal compromesso realizzato nella giornata di ieri, che per un verso sembra appiccicato con lo scotch, per altro verso imposto dall’esigenza di evitare la deflagrazione che si tradurrebbe alle prossime elezioni in una sorta di strage “degli innocenti e dei non innocenti”. Al di là di tutte le invenzioni di questi anni, il Movimento Cinque Stelle comprende un nocciolo duro reazionario fondato sul Fatto di Travaglio e su alcuni magistrati, in primo luogo Davigo. In secondo luogo, sta emergendo tutta la doppiezza politica impersonata dall’avv. Conte. Prima che Renzi, facendo un servizio all’Italia, provocasse la crisi del governo Conte aveva tentato di conquistare i pieni poteri nella gestione della politica sanitaria (Arcuri), nei servizi (Vecchione), nella stessa elaborazione e gestione del Recovery Plan, per non parlare della politica estera. Conte aveva stabilito rapporti preferenziali con pezzi della vecchia ditta comunista (da Bettini a D’Alema) e a livello internazionale con una sorta di compagnia della buona morte che andava da Trump, a Putin, alla stessa Cina. Oggi per Conte da un lato Draghi è l’usurpatore (basta leggere tre quarti del Fatto dedicati ossessivamente solo a questo tema), per altro verso la linea di Draghi di stampo europeista, filo Usa versione Biden, riformista e garantista è inaccettabile per l’ex premier. Allora al di là dei termini tuttora non chiari del compromesso realizzato fra i due leader maximi prima o poi l’obiettivo di Conte è quello di far cadere il governo Draghi. Irresponsabilità allo stato puro perché oggi, per come sono combinate le cose, o l’Italia ha un governo presieduto da Draghi o va rapidamente verso il disastro. Anche dopo il semestre bianco le cose non si fermano rispetto alle società di rating e agli spread. Tutto ciò però riguarda anche le altre forze politiche. Il PD e in esso, in primo luogo, Enrico Letta si ritrova in una situazione assai imbarazzante per il credito dato al Movimento 5 stelle e in esso proprio a Conte. Sull’altro versante però anche Salvini si deve dare una regolata. Non può da un lato stare nel governo Draghi e addirittura sostenerlo di fronte agli scarti e ai progetti di assassinio politico del trio Conte-Travaglio-Casalino e dall’altro lato andarsi a collegare non con la destra del PPE (in primis Weber), ma con il peggio del sovranismo europeo, da Orban ai polacchi, che per di più non ci aiuta né nella gestione delle quote d’immigrazione, né tantomeno sulla politica economica. Infine, la riforma Cartabia sta aprendo un’altra questione dal lato magistratura. A Milano i processi saltano per prescrizione per il 4%, a Napoli per il 24%. I processi di secondo grado durano in molte sedi meno di due anni, ma in alcune quattro o addirittura cinque. C’è un problema di efficienza, di produttività, di impegno lavorativo da parte dei magistrati al di là delle differenze politiche e culturali. Alcuni magistrati reputano di poter fare tutto quello che vogliono anche per quello che riguarda la qualità e i tempi del loro lavoro, tanto non c’è nessuna valutazione professionale reale ed effettiva. Poi non c’è dubbio che comunque occorrono investimenti rilevanti in termini di occupati e in termini tecnologici, ma tutte le cose sono connesse alla luce di cifre così divaricate. In sostanza per la magistratura italiana è arrivata l’ora della verità da tutti i punti di vista. Lo straordinario successo del libro di Palamara e Sallusti Il sistema dice che è finita l’epoca nella quale c’erano migliaia di persone che gridavano: Di Pietro facci sognare. Anche perché questo sogno si è tradotto in un incubo. 

Conte boicotta già Draghi: "Sulla giustizia non arretro". Domenico Di Sanzo il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex premier domani a Palazo Chigi anticipia i paletti. "Nessuna impunità, siamo quelli della Spazzacorroti". Il nuovo corso di Giuseppe Conte parte con le minacce a Mario Draghi. Dalla giustizia al reddito di cittadinanza. Alla vigilia del faccia a faccia con il premier per cercare una mediazione sulla riforma della prescrizione, l'avvocato di Volturara Appula comincia mettendo dei punti fermi. Un po' come era accaduto poco prima della risoluzione del conflitto con Beppe Grillo. Solo che stavolta Conte non si troverà di fronte il comico in un ristorante di pesce a Marina di Bibbona, ma domani alle 11 vedrà l'ex governatore della Bce a Palazzo Chigi. Fuochi d'artificio nel video di presentazione del nuovo M5s. Nel filmato trasmesso in diretta Facebook, ma montato e registrato, Conte in maniche di camicia arringa i grillini e dedica molto tempo a rivendicare l'azione del suo ultimo governo. «Siamo quelli che hanno risposto per primi alla pandemia senza un manuale di istruzioni», dice l'ex premier accalorandosi in un misto di revanscismo e nostalgia per i bei tempi andati di Chigi. Ancora, sulla stessa falsariga: «Senza mai arrenderci abbiamo portato in Italia un grande piano di investimenti, indirizzando l'Europa intera sulla linea della solidarietà». Quindi una serie di avvertimenti a Draghi. Conte parla di «impegni che abbiamo mantenuto con le riforme realizzate, che oggi non possiamo accettare che vengano cancellate». Sulla giustizia non ci gira intorno. «Siamo quelli della legge Spazzacorrotti», dice. Lo stesso provvedimento, firmato dall'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, che l'esecutivo vuole archiviare con il maxi-emendamento della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sulla prescrizione Conte annuncia battaglia: «Siamo quelli che vogliono processi veloci, ma non accetteranno mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati». Sarà questo il piatto forte dell'incontro di domani con Draghi. Con il premier che pare intenzionato a tirare dritto, magari ponendo la fiducia sul testo, in Aula tra fine luglio e inizio agosto a Montecitorio e Palazzo Madama. Conte invece punta a cambiare il documento approvato in Consiglio dei ministri con i voti favorevoli dei quattro esponenti del M5s nell'esecutivo. L'avvocato giudica indigeribile l'improcedibilità dopo i tempi prefissati per il giudizio in secondo grado e in Cassazione. Una regola che non può valere per tutti i reati e in tutti quanti i processi, è il ragionamento. Infatti tira fuori subito l'esempio. «Non accetteremo mai che il processo penale per il crollo del ponte Morandi possa rischiare l'estinzione», minaccia. «Conte non vuole fare cadere Draghi, ma da ora in avanti non accetteremo qualunque cosa», ribadisce un parlamentare di fede contiana. L'incognita per l'ex premier sono i numeri. Difficilmente la maggioranza degli eletti approverebbe uno strappo con Draghi. Non a caso Luigi Di Maio sottolinea: «Abbiamo visioni diverse, ma confido nella mediazione». L'altra trincea è il reddito di cittadinanza. Il totem grillino che Matteo Renzi vorrebbe abbattere con un referendum. «Abbiamo realizzato il reddito di cittadinanza - rivendica il nuovo leader dei Cinque Stelle - che oggi qualcuno per interesse di bottega vorrebbe smantellare». «Rendiamolo davvero efficace e funzionante, soprattutto per la parte delle politiche attive del lavoro, questo è ciò che serve», continua. Draghi è avvisato, il governista Grillo pure. Domenico Di Sanzo

Terribile Vittorio Sgarbi contro Giuseppe Conte sulla giustizia: “Parlaci di Ciro Grillo”. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Parlaci di Ciro Grillo: è terribile Vittorio Sgarbi. Che infierisce da par suo sulla presunta pace tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo. Al tweet non fa difetto, come al solito, la chiarezza: “L’ex premier Giuseppe Conte dopo l’incontro con il comico: “Ora sulla giustizia ci faremo sentire”. Ecco, ci dica, per esempio, cosa pensa delle gravi accuse al figlio di Beppe Grillo”. Non male, a dire la verità. Perché Sgarbi anticipa il tema dello scontro prossimo venturo in casa pentastellata. Che sarà proprio sulla giustizia, il nuovo tasto dolente per la maggioranza che sostiene il governo di Mario Draghi. Perché i Cinque stelle hanno sempre più bisogno di un tema identitario da sollevare di fronte al loro elettorato. E la riforma Cartabia può fare al caso loro. Draghi lo sa e sa anche che Conte ne approfitterà per mettere in difficoltà l’esecutivo, anche se l’Elevato ha promesso al premier che non ostacolerà la riforma. Di qui la freccia acuminata di Sgarbi nei confronti di Grillo e Sgarbi. Col primo polemizza da tempo perché – sostiene Sgarbi – avrebbe manovrato politicamente per salvare il pargolo anche se nessuno potrebbe mai confermarlo. E col secondo per sfotterlo sulla sua bulimia da potere preconizzando lo scontro con il comico. Una partita da popcorn.

Gaffe del leader della Lega che chiede "pene doppie per i piromani" mentre invita a firmare i referendum sulla giustizia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 agosto 2021. È un po’ come presentarsi al festival del cibo vegano con una braciola di maiale in tasca, o indossare la sciarpa della Lazio in curva sud. Ma l’eclettico Matteo Salvini non teme questi contrasti e, come il gatto di Schroedinger, sa essere allo stesso tempo garantista e forcaiolo. È una dialettica tutta sua, riempita da esempi spassosi. L’ultimo in ordine di tempo in Calabria, provincia di Cosenza, dove il leader della Lega ha partecipato a un’iniziativa a favore dei referendum sulla giustizia. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, abolizione della legge Severino, disquisendo di quei quesiti che puntano a restituire un po’ di garanzie democratiche al nostro sistema giudiziario, Salvini a un certo punto è stato sollecitato dai giornalisti che gli hanno chiesto un parere sugli incendi che stanno divorando il sud Italia. Ottenendo un commento di disarmante sincerità: «Voglio vedere questa gente in galera, sono assassini, quindi per i promani non ci deve essere scampo e la Lega propone il raddoppio delle pene per chi distrugge». Forse il “capitano” non si è reso conto del pulpito dal quale parlava o forse è stato colto di sorpresa e a risposto d’istinto, da ruspante giustizialista della prima ora. Con lo Stato di diritto che si applica a geometria variabile: prigione per i migranti clandestini e presunzione di innocenza per gli esponenti della Lega. Insomma il solito garantismo della destra italiana.

L’altolà di Salvini: “Cari Draghi e Cartabia, le carceri non si svuotano…”. Non bastavano le difficoltà sulla riforma del processo penale. Per il leader della Lega ricorrere alle pene alternative equivale a liberare le galere «con un colpo di spugna». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 luglio 2021. «Diciamo che ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sul rafforzare la formazione professionale e il lavoro ci sta, svuotare le carceri con colpi di spugna no»: il giorno dopo le parole della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a Santa Maria Capua Vetere   – «la pena non è solo carcere» – arriva l’altolà di uno degli azionisti di maggioranza del Governo, il leader della Lega Matteo Salvini. Prevedibile reazione da chi per anni ha cercato consenso con slogan quali “buttare la chiave” e “devono marcire in carcere”. Ma qualcosa nella Lega è già cambiata se insieme al Partito Radicale sta promuovendo un quesito referendario per limitare l’abuso della custodia cautelare. Lo ricorda al Dubbio la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando: «Il Pd ha chiesto in Senato una commissione d’inchiesta sui fatti di violenza nelle carceri, perché è necessario sapere e conoscere per intervenire. In ogni caso noi ovviamente insistiamo perché venga approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario che avevamo fatto partire alla fine della scorsa legislatura e i fatti dimostrano che c’è un assolutamente urgenza da questo punto di vista. Considerato poi che alcune forze che sono in maggioranza hanno improvvisamente scoperto che bisogna avere più garanzie per la custodia cautelare, hanno improvvisamente scoperto che c’è una realtà delle carceri, passando dal “devono marcire in galera” al “ci siamo accorti che succede qualche cosa”, auspichiamo un clima migliore considerato che la riforma dell’ordinamento penitenziario era stata affossata dalla maggioranza gialloverde». È pur vero, sottolinea l’avvocato Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, il quale fece parte della Commissione Giostra, che «mancavano solo i decreti attuativi ma il Governo Gentiloni congelò tutto. Ci auguriamo ora che i lavori di riforma sull’ordinamento penitenziario vengano ripresi. Il lavoro è già fatto, è completo. Si tratta solo di rimetterci mano». Lo conferma anche un altro ex membro della Commissione Giostra, Pasquale Bronzo, Professore associato di procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: «noi avevamo prodotto non un semplice progetto di idee ma un articolato normativo, che potrebbe essere tirato fuori dal cassetto già da ora». Al momento ci sono gli emendamenti governativi per la riforma del processo penale che vanno nella direzione giusta. Lo ha ribadito anche il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a Tgcom24: la riforma Cartabia «sancisce percorsi alternativi al carcere che possono meglio calibrare il rapporto tra pena che punisce e pena che rieduca. L’impegno che abbiamo assunto con il Pnrr è quello di tagliare il 25 per cento dei tempi sul processo penale. Per questo ci serve un fluidificante per le norme di rito, ma un new deal anche per la sanzione, che deve essere resa più efficace e, convintamente, più rieducativa». Infatti se verrà approvato il pacchetto di via Arenula, la novità riguarderà sanzioni che andranno a soppiantare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, con contenuti corrispondenti a quelli delle misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove “pene sostitutive” (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. Inoltre si vorrebbe potenziare la messa alla prova: per specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, si prevede che la richiesta di messa alla prova – lavoro di pubblica utilità e partecipazione a percorsi di giustizia riparativa – dell’imputato possa essere proposta anche dal pm. «Tutte queste soluzioni, se approvate – prosegue il professor Bronzo – aiuterebbero a superare la centralità del carcere e risolverebbero anche la scandalosa situazione dei cosiddetti ‘liberi sospesi’, anche se l’impianto complessivo della Commissione Lattanzi è stato un po’ ridimensionato. Quelli che come Salvini dicono ‘non c’è certezza della pena’ si riferiscono sempre al carcere. Ma, come ha detto la Ministra, la Costituzione parla di “pene” al plurale. Trovo in tal senso rivoluzionaria la rivitalizzazione delle pene pecuniarie». Se tutto andasse in porto come previsto non sarebbe comunque sufficiente per una riforma organica del sistema penitenziario, come prospettato dalla Ministra, che prenderebbe anche in considerazione l’immane lavoro della Commissione Giostra. Di quelle 130 pagine il cuore era proprio nelle misure alternative alla detenzione, come ci ricorda il professore Bronzo: «la parte più importante della riforma Giostra che è stata amputata per equilibri politici riguarda proprio le misure alternative. In sintesi noi avevamo proposto di agire su tre direttrici: renderle più accessibili; riempirle di contenuti, di esperienze di rieducazione, per non concepirle solo come de-carcerizzazione; renderle più controllabili e dunque più affidabili quali modalità di espiazione anche per il magistrato di sorveglianza». Vedremo che strada intenderà percorrere la ministra, intanto quella per capire cosa è accaduto il 6 aprile 2020 e nei mesi successivi è già segnata: da fonti di via Arenula, si è appreso infatti che sui fatti di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà sia alla Camera che al Senato mercoledì prossimo, 21 luglio. 

"Non esistono persone innocenti". La nemesi del pm tradito dall'ansia di uscire di scena. Luca Fazzo il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Proverà sulla sua pelle le asprezze che ha sempre predicato. Il pasticcio commesso nel momento in cui si avvicinava la pensione. Sarebbe crudele, ora che la sua parte in scena è bruscamente cambiata, augurare a Piercamillo Davigo di provare sulla sua pelle le asprezze che lui medesimo ha predicato per anni: da quella più nota, per cui non esistono innocenti «ma solo colpevoli che l'hanno fatta franca» alla più recente, secondo cui «è un errore italiano dire sempre di aspettare le sentenze». E invece anche nel suo caso bisognerà aspettare la sentenza, considerarlo innocente fino alla fine, e consentirgli di difendersi utilizzando in ogni modo quel codice di procedura penale che, a suo dire, «è stato scritto per aiutare i criminali». Ma intanto è inevitabile chiedersi come diavolo abbia fatto un uomo della esperienza e della astuzia di Davigo a andarsi a infilare in un simile guaio, commettendo uno dopo l'altro degli svarioni di cui - in attesa che ne venga valutata la rilevanza penale - brilla una inverosimile dissennatezza: prima tra tutte, forse, la pensata di appartarsi in un retroscala del Csm e raccontare tutti i verbali milanesi a uno loquace e incontrollabile come Nicola Morra, presidente dell'Antimafia. Che infatti alla prima occasione lo ha scaricato senza complimenti in diretta tv. Cosa ha a che fare questo Davigo imprudente e scomposto con il gelido calcolatore che trent'anni fa, dal suo minuscolo ufficio al quarto piano del tribunale milanese, dava veste giuridica ai colpi di clava di Di Pietro contro Tangentopoli? Come si conciliano i traffici di fotocopie e soffiate su cui ora indaga la Procura di Brescia con la lucida precisione con cui Davigo ha saputo costruire il suo futuro dopo Mani Pulite, fino all'arrivo in Cassazione, poi alla presidenza dell'Associazione magistrati, e all'approdo finale al Csm? Purtroppo, l'unica spiegazione plausibile attiene a una fragilità dell'animo umano che è l'ansia di invecchiare: e che negli uomini di potere si assomma a un tarlo ancor più lacerante, che li coglie quando vedono il loro comando prossimo alla fine, e il ruolo sociale pronto ad abbandonarli. Non è un caso che il pasticcio in cui va a infilarsi incontrando Storari coincida con mesi di sofferenza per il Dottor Sottile: siamo nell'aprile dell'anno scorso, mancano sei mesi al settantesimo compleanno che coinciderà con il pensionamento da magistrato. Davigo in quei giorni ha già iniziato a darsi da fare per continuare, contro ogni regola, a fare parte del Csm. Ma è già chiaro che l'operazione è destinata a fallire. Anche perché contro Davigo si sono messi due suoi ex fedelissimi, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, magistrati che proprio lui, inventandosi una corrente dal nulla e sbancando le elezioni, ha fatto approdare al Csm. E che si preparano a voltargli le spalle, votando la sua destituzione. Il Davigo dell'aprile 2020 è un anziano che vede avvicinarsi inesorabile il momento dell'uscita dalla scena pubblica, lo spettro della panchina. Così quando il povero Storari, in piena sindrome da accerchiamento, bussa fiducioso alla sua porta, per Piercamillo è come un raggio di sole in una giornata plumbea. Se è a lui, e solo a lui, che un bravo pm si rivolge per avere giustizia, allora non tutto è finito. Allora la fase in cui è lui a imprimere la linea, è lui a simboleggiare la giustizia, è ancora tutta da vivere. Sono ancora io, il Dottor Sottile. E Davigo disse a Storari: «Dammi quelle carte».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Davigo indagato per rivelazione del segreto d’ufficio. Il Dubbio il 17 luglio 2021. Davigo nell'aprile 2020 il pm Storari consegnò verbali segreti che da dicembre 2019 a gennaio 2020 il plurindagato Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso su un'asserita associazione segreta denominata «Ungheria». L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani Pulite è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo quanto scrive” Il Corriere della Sera”, a Davigo nell’aprile 2020 il pm Storari consegnò verbali segreti che da dicembre 2019 a gennaio 2020 il plurindagato Amara, ex avvocato esterno Eni, aveva reso su un’asserita associazione segreta, denominata «Ungheria» e condizionante toghe e alti burocrati dello Stato: controverse dichiarazioni che per Storari andavano chiarite rapidamente, anziché a suo avviso relegate “in un limbo di immobilismo investigativo dai vertici della Procura”. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e dal pm Paolo Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni- Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta, composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare al togato del Csm Piercamillo Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela. Davigo, a propria volta, pare avesse informato i vertici del Csm. Ad iniziare dal Capo dello Stato. Lo scorso ottobre, andato in pensione l’ex pm di Mani pulite, la sua segretaria al Csm, Marcella Contrafatto, aveva provveduto a inoltrarli alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. I due giornali, ricevuto il materiale, avevano però deciso di non pubblicarlo e di denunciare in Procura l’accaduto. Contrafatto era quindi stata sospesa dal servizio e indagata dalla Procura di Roma. Davigo ieri ha difeso il proprio operato sul punto, sottolineando che «c’è stato un ritardo non conforme alle disposizioni normative nell’iscrizione della notizia di reato, e un ritardo conseguente nell’avvio delle indagini: non è questione di lotte interne, è questione che c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità; che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo».

Morra: “Davigo mi parlò del caso Amara”. «Sapevo anche io della questione perché informato da Piercamillo Davigo. Sono contento che Sebastiano Ardita sia uscito bene da questa vicenda». Sono le parole pronunciate qualche settimanfa fa da l presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Parole che certificano che la vicenda relativa ai famosi verbali di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata Ungheria, non è rimasta circoscritta al Csm, ma è stata portata anche all’esterno, dove forse non era legittimo che andasse. Anche perché attualmente la procura di Roma e quella di Brescia indagano per rivelazione di segreto d’ufficio, reato per il quale i pm capitolini hanno iscritto il pm milanese Paolo Storari, ovvero colui che ha consegnato quei verbali all’ex pm di Mani Pulite. Morra, nei giorni scorsi, «ha, per le vie formali, messo a conoscenza della procura di Roma i fatti relativi alla questione Amara-Davigo di cui era a diretta conoscenza». Ma dalla sua dichiarazione ciò che emerge è che fosse consapevole della presenza, in quei verbali, del nome di Ardita, erroneamente indicato come appartenente alla fantomatica loggia “Ungheria”, composta, secondo quanto dichiarato da Amara, da magistrati, membri delle forze dell’ordine, politici e avvocati e in grado di pilotare nomine e funzioni. Ma nei verbali di Amara il ruolo di Ardita sarebbe molto più sfumato: l’ex avvocato, infatti, lo colloca ad un incontro, indicandolo come pm di Catania nel 2006, periodo in cui era già al Dap. Insomma, quanto affermato circa il consigliere del Csm non sarebbe credibile. Ma c’è di più. In quei verbali, infatti, non ci sarebbe solo il nome di Ardita, ma anche di un altro consigliere di Palazzo dei Marescialli, ovvero Marco Mancinetti, all’epoca ancora in carica e dimessosi a settembre scorso a seguito dell’azione disciplinare avviata a suo carico in merito all’affaire Palamara.

La caduta del muro di Berlino. Quando lo stalinismo diventò giustizialismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Novembre 2019. La sera del 9 novembre del 1989, un giovedì, iniziarono a filtrare le prime notizie da Berlino. All’epoca ero il caporedattore dell’Unità. Venne nel mio ufficio il capo del servizio Esteri, Nuccio Ciconte, e mi disse che il nostro corrispondente dalla Germania, Paolo Soldini, aveva telefonato e aveva detto che era in corso una conferenza stampa, tenuta da un funzionario del governo, e che si annunciavano novità clamorose. Un’ora dopo si seppe che il governo della Germania comunista, seppure con alcune limitazioni, riapriva il varco tra le due Berlino, cioè tra la parte della città libera e quella controllata dal governo filosovietico. Quel varco era chiuso dal 1961, sbarrato da un muro. Fu come un segnale, quella dichiarazione del funzionario. Iniziò il finimondo. Durante la notte i giovani berlinesi abbatterono il muro a colpi di piccone. Era finito il comunismo. Così, improvvisamente e in modo pacifico. Nessuno se lo aspettava, anche se le riforme introdotte da Michail Gorbaciov, segretario del partito comunista sovietico, erano state clamorose e avevano iniziato ad aprire una prospettiva di libertà. Gorbaciov era alla testa del Pcus da poco più di tre anni e l’idea che si stava diffondendo, in Occidente, era che forse il socialismo era riformabile. E cioè che venivano smentite le teorie sulla irriformabilità affermate in modo perentorio dopo il 1968, quando i carrarmati russi avevano stroncato la primavera di Praga guidata dal comunista democratico Alexander Dubcek. Quella sera cadde il muro e nei mesi successivi si sgretolarono uno ad uno, e sempre senza violenze e scosse, tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale: Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia. L’unico paese teatro di violenze fu la Romania, dove i rivoltosi trucidarono il Presidente Nicola Ceaușescu e sua moglie. La Jugoslavia, che era fuori dall’orbita di Mosca, restò ai margini per un paio d’anni, quando iniziarono le secessioni e poi la guerra. La Russia restò formalmente comunista fino al 31 dicembre del 1991, ma ormai il destino era segnato. La teoria della irriformabilità del comunismo fu confermata: il comunismo non aveva retto alle riforme di Gorbaciov ed era crollato. In Italia le conseguenze furono molto grandi. La caduta del muro fu un’ondata potente. L’Italia era il paese che aveva ospitato per mezzo secolo il più potente partito comunista d’Occidente, quello di Togliatti e Berlinguer, ma anche quello che teneva sotto la sua egemonia la letteratura, la poesia, il cinema, il teatro, e anche gran parte della filosofia, del diritto e delle scienze. Il partito comunista non era più un partito stalinista, aveva scelto la via riformista da parecchi anni, ma manteneva la suo interno delle spinte staliniste e autoritarie molto forti. Che facevano parte della sua weltanschauung, e anche della sua etica, della sua cultura. Quella sera, mentre rifacevo la prima pagina, venne nel mio ufficio uno dei più vecchi ed autorevoli giornalisti dell’Unità e mi sconsigliò di aprire il giornale a nove colonne su Berlino. Mi suggerì prudenza, disse che era meglio aprire ancora il giornale sulla politica italiana e dare in modo sobrio la notizia tedesca. «Domani – mi disse – sentiamo il partito e valutiamo meglio». Non gli diedi retta e con l’autorizzazione del direttore, che era Massimo D’Alema, aprimmo il giornale a tutta pagina e con un titolo gridato. Però il senso comune del partito era quello: prudenza. La Russia è la Russia, il comunismo è comunismo, e quel muro magari è anche criticabile, ma comunque sta lì a garantire la saldezza del marxismo. Dal 9 novembre, giusto 72 anni e due giorni dopo la rivoluzione di Ottobre e la presa, da parte di Lenin, del Palazzo d’Inverno, il Pci restò senza comunismo. Neanche un mese dopo quell’avvenimento il suo segretario, Achille Occhetto, annunciò che il partito cambiava nome. E il vecchio stalinismo, dove finiva? I ritratti di Stalin ancora campeggiavano in qualche sezione. Per esempio nella mitica sezione Ponte Milvio di Roma, che era la sezione di Berlinguer ed era stata uno dei fortini della Resistenza romana nel ‘43 e nel ‘44. Da quel giorno Stalin cambiò faccia. Lo stalinismo si riciclò. Come? Divenne giustizialismo. Guardate che non c’è una enorme distanza tra stalinismo e giustizialismo. L’idea di fondo è quella: che gli avversari politici vadano annientati, e che questa operazione possa avvenire solo con un’ azione di forza, non con la democrazia. Lo stalinismo è sempre stato questo. Anche se ormai non si sperava più nell’armata rossa e nell’invincibile baffone, l’idea restava quella lì: la ricerca del comunismo, e del potere, attraverso un colpo di mano, o un colpo di scena, e usando forse diverse dalle proprie. Cos’era (cos’è) il giustizialismo? La scelta di affidare alla magistratura la lotta contro gli avversari. Il comunismo – dicevamo – finisce ufficialmente il 31 dicembre del 1991 con lo scioglimento del partito comunista sovietico. Tre settimane dopo, a Milano, viene arrestato un certo Mario Chiesa, funzionario di seconda fila del Psi, e scoppia il caso Tangentopoli. Solo tre settimane dopo la fine del comunismo. È da quel momento che il giustizialismo diventa una categoria fondamentale nella lotta politica. Le divisioni, i conflitti, non sono più di classe. La sinistra decide che deve autoriformarsi, ma non riesce a vedere bene qual è stato il suo limite. Il suo limite è stato in tutti questi anni quello di avere un concetto molto ristretto di libertà. Di avere sempre considerato la libertà una variabile dipendente del proprio progetto. Dopo la caduta del muro invece la sinistra decide di ridimensionare la sua idea di uguaglianza ma di accentuare, anziché frenare la sua spinta illiberale. Nasce così il partito filo giudici, e poi l’appoggio al partito dei Pm, la delega alle Procure. Nasce così il girotondismo. Nasce anche il travaglismo e nascono i 5 Stelle, che sono la fusione tra la spinta giustizialista della sinistra e il tradizionale autoritarismo della destra non liberale.

Vedete: cadono ancora, cadono su di noi le macerie del muro. Fanno ancora male.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Pestaggi in carcere: stai con gli agenti o con i delinquenti? Mario Furlan il 2 luglio 2021 su Il Giornale. Carcere di Santa Maria Capua Vetere: un’immagine del pestaggio di alcuni detenuti da parte della polizia penitenziaria. Il titolo di questo articolo è fuorviante. E’ profondamente sbagliato. L’ho letto su un social, e l’ho voluto riportare qui. Per farci riflettere, caro lettore, su come – e quanto – ragioniamo sull’onda di scariche emotive. Non con il cervello, ma con la pancia. O con altre parti del corpo, che stanno ancora più in basso. Davanti ad una domanda così – stai con gli agenti o con i delinquenti, con i servitori dello Stato che ci proteggono o con i criminali che ci ammazzano – chi potrebbe mai rispondere che sta con i secondi? E’ una falsa alternativa. Ed è anche fasulla. E manichea. Perché parte dal presupposto che sia tutto o bianco o nero. Che tutto il bene stia da una parte, e tutto il male dall’altro. Tutto. Al 100%. Il 99% non esiste. Non so a te, ma a me i video e le immagini dei brutali pestaggi, e delle vergognose umiliazioni, di cui sono stati vittima i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fanno accapponare la pelle. Perché sono un losco nemico della polizia penitenziaria, e quindi delle forze dell’ordine, e quindi dello Stato, e quindi dell’intera collettività, come la domanda iniziale potrebbe presupporre? Evidentemente no. Sono il primo amico, fan, tifoso sfegatato delle forze dell’ordine. Non smetterò mai di ringraziarle, non le ringrazierò mai abbastanza. E proprio per questo mi offende sapere che qualcuno infanga la gloriosa divisa che porta. Che lo faccia oggi nel penitenziario campano, o che l’abbia fatto 20 anni fa a Genova, nella scuola Diaz o a Bolzaneto. Chi sbaglia deve pagare. E nel caso in questione i primi a pretendere che i violenti paghino, e che paghino fino in fondo, sono proprio coloro che amano la polizia. Se un vestito cui tieni ha una macchia, farai di tutto per lavarla. E appena possibile. Se invece fingi di non averla significa che a quel vestito non ci tieni. Per questo non condivido quei leader politici che fanno intuire che compiere indagini sugli agenti violenti – alcune decine su 40mila guardie penitenziarie in Italia – significa screditare l’intera categoria. Ma quando mai? Significa, al contrario, tutelarla. Togliendo le mele marce. Il genitore che ama il figlio lo richiama quando sbaglia. Il leader che ama i propri collaboratori li corregge quando compiono un errore. E lo stesso deve fare lo Stato quando chi lo rappresenta non si dimostra all’altezza. Perché è un gesto d’amore.

Terrore e rivoluzione. Chi era Robespierre, il tribuno che da carnefice diventò vittima. Alessandra Necci su Il Riformista il 23 Giugno 2021. «Ha annientato tutti, quest’uomo di così modesta apparenza… che per tanto tempo si era tenuto nascosto dietro le figure gigantesche dei suoi predecessori… Da quando Mirabeau, Marat, Danton, Desmoulins, Vergniaud, Condorcet sono spariti, da quando sono spariti cioè il tribuno, il ribelle, il duce, l’oratore e il pensatore della giovane Repubblica, egli concentra tutto nella sua persona, è il pontifex maximus, il dittatore, il trionfatore». Queste parole, scritte da Stefan Zweig nella biografia su Joseph Fouché, si riferiscono a Maximilien de Robespierre. Freddo, livoroso, amante del potere, indifferente ai sentimenti, ossessionato dal proprio mito e dalla propria missione, l’Incorruttibile ha stretto il paese nel Terrore, elevando la Virtù a sistema politico. Sulle prime ha favorito la “scristianizzazione” della Francia, poi si è inventato una religione di Stato, “il culto dell’Essere Supremo”, insieme alla Dea Ragione. Affiancato da Louis-Antoine Saint-Just (“l’arcangelo della morte”) e Georges Couthon, l’antico giacobino che si sente la personificazione della Repubblica e della Libertà ha mandato alla ghigliottina – “il rasoio nazionale” – i suoi nemici, bollati come nemici della Nazione. Grazie al Comitato di Salute Pubblica del 6 aprile 1793, all’espulsione dei Girondini dalla Convenzione, alla “legge dei sospetti” ha riunito nelle sue mani le redini del potere. Sono considerati “indiziati”, e dunque passabili di arresto, praticamente tutti. Famosa è la formula per identificare i possibili sospetti: «Coloro che non hanno fatto nulla contro la libertà e non hanno neppure fatto nulla per essa». Categoria fluida, incerta, proteiforme, rete a strascico nella quale può rimanere impigliato chiunque. Per “sputare la testa nel cesto”, come si usa dire con aulico linguaggio, basta una delazione, una lettera anonima, una parola di troppo, un’invidia, un posto da liberare, un conto in sospeso…Non è Robespierre uno degli iniziatori della Rivoluzione, ma è riuscito a cavalcarla, contribuendo a eliminare degli uomini della prima fase. Agli esordi, del resto, era impossibile comprendere dove avrebbe portato quella trasformazione, quello smottamento del sistema a cui avevano contribuito gli ideali illuministi, i philosophes, l’opinione pubblica, i giornali, la Rivoluzione americana, la crisi economica, i club (i partiti politici del tempo, fra cui Girondini, Giacobini, Foglianti, Cordiglieri), lo screditamento della monarchia e dell’Ancien Régime. Dopo secoli di immobilismo, il tempo ha ripreso a scorrere a velocità vertiginosa. Nel maggio 1789 c’è stata l’apertura degli Stati generali; il 20 giugno la riunione della Pallacorda; il 14 luglio la presa della Bastiglia. Luigi XVI, pieno di buone intenzioni ma privo di tempra, non è in grado di «domare il mostro che ha imprudentemente liberato dalle catene». Il 4 agosto l’Assemblea ha approvato l’abolizione dei privilegi, il 26 ha redatto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (donne e schiavi non sono contemplati). La situazione ha preso quindi a degenerare, gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité a mescolarsi con derive feroci. Lungi dal rientrare negli argini, il fiume è destinato a esondare con maggior violenza. Fra tumulti sobillati, sans-culottes urlanti, pescivendole con i coltellacci, teste sulle picche, i sovrani sono stati obbligati a tornare a Parigi. Nel giugno 1791 è fallita la fuga di Varennes; poi la famiglia reale è stata rinchiusa nel Tempio. Il 16 gennaio 1793, la Convenzione – assai più radicale dell’Assemblea – ha deciso la condanna del re. Per costringere il Parlamento, l’Incorruttibile non ha lesinato: «La monarchia è un crimine di lesa maestà… Chiedo che la Convenzione dichiari Luigi colpevole di tradimento verso la Nazione francese, di crimini contro l’umanità». A dargli man forte ci si è messo Jean-Paul Marat, il sedicente ami du peuple, che ha imposto il voto palese e per appello nominale. La Convenzione ha quindi inviato i suoi “proconsoli” a stroncare le tentazioni realiste e “i nemici della rivoluzione”. Mentre vengono adottate misure eccezionali e la Francia è in guerra con quasi tutta Europa, mentre massacri e esecuzioni sono all’ordine del giorno, si consuma lo scontro interno. Usi e costumi riflettono il clima. A Parigi si è scatenata una voluttà, un gusto del sangue: le signore inalberano pettinature à la victime e nastri rossi al collo, i bambini giocano con macchine per decapitare, in giro si intonano inni a “Madame la Guillotine”. Robespierre e i suoi premono per la revolution intégrale – la dittatura – lanciandosi alla gola dei loro avversari, siano essi moderati o “arrabbiati”. Il regolamento di conti è allo zenith; i notabili si affrontano simili alle belve nell’arena e, come si dice, “la Rivoluzione divora i suoi figli”. Honoré de Mirabeau è morto, Georges Danton finisce sulla ghigliottina per volere dell’Incorruttibile – «Mostrerai la mia testa al popolo, non capita spesso di vederne del genere», ingiunge al carnefice – Nicolas Condorcet si suicida come molti altri, Marat è stato ucciso da Charlotte Corday, Sono scomparsi Camille Desmoulins (e anche la moglie, l’innocente Lucille, di cui Robespierre era testimone di nozze) Jacques-René Hèbert, Fabre d’Eglantine e altri. Fra i condannati c’è Philippe Ėgalité, il duca d’Orléans che aveva votato la morte del cugino Luigi XVI. Sembrerebbe che il vincitore sia l’Incorruttibile, “consacrato re dalla morte di Danton” e di cui Mirabeau aveva detto: «Quest’uomo andrà lontano, perché crede in tutto ciò che dice». Invece Robespierre – che pure troverà diversi sostenitori fra gli storici, i letterati e i politici dell’avvenire – ha i giorni contati. Ha governato con il Terrore, verrà eliminato a causa di esso. Nessuno si sente più sicuro, con lui al vertice. E così Paul Barras, Joseph Fouché, Joseph Sieyés, Jean-Lambert Tallien e altri ordiscono la congiura che porterà a Termidoro. Il discorso vago ma pieno di paurose allusioni, che Robespierre tiene alla Convenzione il 26 luglio 1794, è la goccia che fa traboccare il vaso. Il giorno successivo la sua orazione è interrotta, lui non riesce a parlare, qualcuno grida: «È il sangue di Danton che ti soffoca!». Nel pomeriggio tutto è finito, il “pontefice massimo” viene arrestato insieme ai suoi. «La Repubblica è perduta… i briganti trionfano», commenta allora. Il giorno dopo, orrendamente sfigurato, viene condotto alla ghigliottina. E quello stesso popolo che tanto lo aveva acclamato, grida di gioia nel vedere la sua testa caduta. Fra “Osanna” e “Crucifige”, la distanza è minore di quello che si pensi. Ed è sempre pericoloso brandire l’arma della virtù, unita allo strumento politico della giustizia da usare contro i nemici di ieri e domani per conquistare il potere, inteso come dominio assoluto. Allora come oggi, il risultato è un “cannibalismo” in cui le diverse fazioni si dilaniano nel disprezzo di ogni regola liberale. Alessandra Necci

Felice Manti per "il Giornale" il 24 giugno 2021. A volte ritornano, a volte non se ne vogliono proprio andare. Prendete Antonio Di Pietro. Aveva chiuso con la politica, dopo che Report - documentando esattamente quello che per anni aveva scritto Il Giornale - ha smascherato le sue bugie sui finanziamenti pubblici alla sua Italia dei Valori. Il grillismo avanzava, il suo guru Gianroberto Casaleggio pensava in grande e si era innamorato di Beppe Grillo. Tonino fiutò l'aria e si mise da parte, anche per evitare guai peggiori. Adesso che i Cinque stelle sono esplosi, Casaleggio non c' è più e a sinistra c' è una prateria l'ex pm di Mani pulite vuole tornare in scena, raccattando qua e là un po' di polvere dei Cinque stelle, dall' ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, finita nel tritacarne per un alloggio di servizio che non voleva mollare, alla testimone di giustizia Piera Aiello fino all' ex Adusbef Elio Lannutti, a processo per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica per aver sparato su Twitter la balla antisemita inventata dalla polizia zarista sui Protocolli di Sion. Un bel parterre, non c' è che dire, quello che il primo luglio prossimo annuncerà il ritorno del partito delle manette, stavolta ai polsi o quasi. Chissà se in prima fila ci sarà l'ormai ex componente del Csm ed ormai ex magistrato Piercamillo Davigo, suo compagno di procura durante Tangentopoli, un altro che rischia guai seri con la giustizia per la leggerezza di aver fatto circolare un dossier riservato che gli aveva passato informalmente il suo figlioccio magistrato a Milano Paolo Storari. Ieri per Davigo è stata una brutta giornata. L' uomo che per anni ha spacciato per infallibile la macchina giudiziaria si era rivolto al Tar come un italiano medio qualsiasi pur di non rinunciare al suo scranno al Csm. Ma ha dovuto ingoiare l'amaro calice della cacciata definitiva da Palazzo de' Marescialli, che proprio ieri ha preso atto della decisione del Tribunale civile di Roma di respingere il suo ricorso. Dopo il suo collocamento in pensione, lo scorso ottobre, ha perso la carica di consigliere togato ma non il vizio di sparare a zero sulla politica: «Io non credo che i referendum sulla giustizia passeranno - ha detto al massmediologo Klaus Davi durante un'intervista nello show Klauscondicio su Youtube - Quello sulla custodia cautelare sembra uno scherzo. La riforma della Giustizia voluta dal Guardasigilli Marta Cartabia? Mi interessa poco perché non solo non cambierà granché ma in alcuni casi aggraverà i problemi». Insomma, Salvini e la Cartabia non capiscono nulla, è la sentenza dell'ex Mani Pulite, che sulla politica rincara la dose: «La stragrande maggioranza degli elettori italiani non ha la minima idea di chi sono le persone per cui votano». Che poi, a pensarci bene, è esattamente quello in cui spera anche Di Pietro. 

Piercamillo Davigo e la tesi sui referendum leghisti: ecco tutta l'incoerenza dei giustizialisti. Roberto Cota su Libero quotidiano il 25 giugno 2021. Il dottor Davigo nei giorni scorsi si è lanciato in un duro attacco ai referendum in tema giustizia promossi da Lega e Radicali. In particolare, rispetto a quello che si propone di limitare la custodia cautelare. Secondo l'ex magistrato l'approvazione del quesito avrebbe l'effetto di impedirne l'applicazione di fronte a ladri di appartamento e scippatori. Dunque, bolla Salvini di incoerenza. Premesso che i referendum, politicamente, sono l'ultima ratio, l'ultimo strumento rispetto all'inerzia del sistema che non riesce a risolvere i problemi, il problema dell'abuso della custodia cautelare esiste ed è gigantesco. Il dottor Davigo prima di cercare scoop ad effetto e di indignarsi rispetto ai quesiti referendari, dovrebbe scandagliare il perché si sia arrivati al punto di utilizzare la clava del referendum. Oltretutto, va detto che i referendum non sono appoggiati soltanto da Salvini (che certamente è alla costante ricerca della ribalta mediatica), ma da una silente maggioranza che si muove sotto traccia. La verità è che da anni vi è una distorsione nell'uso della custodia cautelare. Su questo fronte il primo a dover fare una riflessione è proprio il dottor Davigo. Anche nel merito, la sua critica dovrebbe essere forse più obiettiva in quanto la possibilità di applicare la custodia cautelare verrebbe mantenuta di fronte alla possibile reiterazione di «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza o diretti contro l'ordine costituzionale o di criminalità organizzata» definizione in grado di ricomprendere tutti quei fatti che destano allarme sociale, anche con riferimento agli esempi fatti da Davigo. Dunque il modo per bloccare i soggetti pericolosi vi sarebbe, eccome. Nella sua ultima presa di posizione affidata al Fatto Quotidiano l'ex magistrato sostiene anche un'altra tesi: chi è stato condannato in primo grado non è più innocente. Ma allora perché la coerenza invocata non porta a considerare innocente almeno chi è stato assolto in un pubblico processo? Già, perché oggi i pm possono infliggere anche a chi è stato assolto anni di "eterno processo" essendo prevista la possibilità di appellare le sentenze di assoluzione. La verità è che negli anni il diritto ha seguito percorsi un po' tortuosi. Si è passati dalla presunzione di innocenza, alla presunzione (quasi assoluta) di colpevolezza.

Quell’appello struggente di Davigo al Salvini manettaro d’un tempo…L'ex magistrato del pool non si capacita delle decisioni del leader leghista di appoggiare i referendum radicali. Soprattutto quello sulla carcerazione preventiva. Davide Varì su Il Dubbio il 24 giugno 2021. L’appello ha un tono drammatico, a tratti struggente. Il mittente è Piercamillo Davigo, l’ex magistrato più potente d’Italia caduto in disgrazia dopo il penoso caso Amara: quella strana fuga di notizie che ha terremotato la già instabile magistratura italiana. Ma questa è un’altra storia. Il destinatario, invece, è Matteo Salvini, l’ex Capitano che voleva buttare le chiavi delle patrie galere e che ora si ritrova al fianco dei radicali nella promozione dei referendum più garantisti della storia della Repubblica. E così, Davigo, dalle pagine del Fatto Quotidiano di Travaglio chiede al leader leghista di rinsavire… «Ma come – gli dice – non ti rendi conto che il referendum sulla carcerazione preventiva metterà a piede libero migliaia di immigrati irregolari?». Il che, peraltro, la dice lunga sui motivi per cui le nostre carceri sono così sovraffolate: sono piene di poveri disgraziati colpevoli di fuggire da fame, guerra e povertà. Ma questo Davigo preferisce non dirlo. Fatto sta che l’ex magistrato del pool milanese non si rassegna e rivolge il suo appello al Salvini di un tempo, quello che fermava le navi cariche di migranti per giorni e giorni impedendo lo sbarco a bambini, donne e uomini fiaccati da giorni di navigazione su barconi clandestini pronti a colare a picco al minimo sbotto di mare; al Salvini del “marciscano in galera”, sentenziato dalla “bestia” social in occasione di ogni fattaccio di cronaca.  Ma Matteo, ingrato, ormai è sulla nave radicale e non sente le suppliche del povero Davigo il quale appare come una sirena afona che prova a ricordare al vecchio amico di bisbocce i bei tempi andati, quando un paio di giorno di galera preventiva non si negavano a nessuno, neanche a un “presunto innocente”.

Davigo e Di Pietro. Si ricompone il duo di Tangentopoli. Felice Manti il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. A volte ritornano, a volte non se ne vogliono proprio andare. A volte ritornano, a volte non se ne vogliono proprio andare. Prendete Antonio Di Pietro. Aveva chiuso con la politica, dopo che Report - documentando esattamente quello che per anni aveva scritto Il Giornale - ha smascherato le sue bugie sui finanziamenti pubblici alla sua Italia dei Valori. Il grillismo avanzava, il suo guru Gianroberto Casaleggio pensava in grande e si era innamorato di Beppe Grillo. Tonino fiutò l'aria e si mise da parte, anche per evitare guai peggiori. Adesso che i Cinque stelle sono esplosi, Casaleggio non c'è più e a sinistra c'è una prateria l'ex pm di Mani pulite vuole tornare in scena, raccattando qua e là un po' di polvere dei Cinque stelle, dall'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, finita nel tritacarne per un alloggio di servizio che non voleva mollare, alla testimone di giustizia Piera Aiello fino all'ex Adusbef Elio Lannutti, a processo per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica per aver sparato su Twitter la balla antisemita inventata dalla polizia zarista sui Protocolli di Sion. Un bel parterre, non c'è che dire, quello che il primo luglio prossimo annuncerà il ritorno del partito delle manette, stavolta ai polsi o quasi. Chissà se in prima fila ci sarà l'ormai ex componente del Csm ed ormai ex magistrato Piercamillo Davigo, suo compagno di procura durante Tangentopoli, un altro che rischia guai seri con la giustizia per la leggerezza di aver fatto circolare un dossier riservato che gli aveva passato informalmente il suo figlioccio magistrato a Milano Paolo Storari. Ieri per Davigo è stata una brutta giornata. L'uomo che per anni ha spacciato per infallibile la macchina giudiziaria si era rivolto al Tar come un italiano medio qualsiasi pur di non rinunciare al suo scranno al Csm. Ma ha dovuto ingoiare l'amaro calice della cacciata definitiva da Palazzo de' Marescialli, che proprio ieri ha preso atto della decisione del Tribunale civile di Roma di respingere il suo ricorso. Dopo il suo collocamento in pensione, lo scorso ottobre, ha perso la carica di consigliere togato ma non il vizio di sparare a zero sulla politica: «Io non credo che i referendum sulla giustizia passeranno - ha detto al massmediologo Klaus Davi durante un'intervista nello show Klauscondicio su Youtube - Quello sulla custodia cautelare sembra uno scherzo. La riforma della Giustizia voluta dal Guardasigilli Marta Cartabia? Mi interessa poco perché non solo non cambierà granché ma in alcuni casi aggraverà i problemi». Insomma, Salvini e la Cartabia non capiscono nulla, è la sentenza dell'ex Mani Pulite, che sulla politica rincara la dose: «La stragrande maggioranza degli elettori italiani non ha la minima idea di chi sono le persone per cui votano». Che poi, a pensarci bene, è esattamente quello in cui spera anche Di Pietro...

Estratto dell’articolo di Augusto Minzolini per “il Giornale” il 17 giugno 2021. (…) P.s. Appunto, rispetto. A Marco Travaglio, che millanta una discendenza diretta da Montanelli e sprizza veleno da tutti i pori perché da mesi fa a botte con la notizia che Giuseppe Conte non è più a Palazzo Chigi, si attaglia un giudizio che il grande Indro dedicò ad un giornalista ben più degno di lui: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante». Ad una tale patacca del giornalismo nostrano (non ricordo scoop del personaggio a parte le «carte» di qualche Pm amico), che si diletta a leggere il casellario giudiziario tranne il lungo capitolo dedicato a lui alla voce «diffamazione», non dedicherò più una parola.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 giugno 2021. Si è accorto che i tempi della giustizia non sono sincronizzati su quelli della vita. Aspettare sì, sacrificare l'esistenza anche no. E allora Nichi Vendola rompe il silenzio e comunica la decisione di rientrare dall'esilio. «A differenza degli anni passati - scrive su Facebook l'ex governatore della Puglia - non rinuncerò a parlare delle cose che mi stanno più a cuore». La stagione del silenzio è finita, anche perché Vendola, attendendo il verdetto definitivo, rischierebbe di condannarsi da solo a un tacere senza prescrizione. Qualcosa del genere era successo a Giulio Andreotti, imputato modello, ma sulla graticola della giustizia per un periodo lunghissimo, così da finire fuori gioco. Vendola ha atteso otto anni, un'eternità, ma alla fine la sentenza di primo grado è una condanna a tre anni e mezzo per concussione aggravata.

La posizione del Pd. Letta boccia la riforma della giustizia: “Non si deve fare”. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Una vera riforma della giustizia non s’ha da fare! Questo il vero senso delle parole, che Letta sta spendendo, giorno dopo giorno, sul tema della giustizia. Dispiace rilevare che anche Mattarella ha pronunciato, probabilmente al diverso fine di tutelare le istituzioni, parole che, di fatto, possono avere lo stesso effetto. Ma procediamo con ordine. Lo scadimento raggiunto dal precedente CSM nella amministrazione dell’Ordine Giudiziario è stato ben rappresentato dalla lettera pubblica, con cui Andrea Mirenda, presidente di sezione del tribunale di Verona, annunciava nel luglio 2017 di andare a fare il magistrato di sorveglianza come «gesto controcorrente, di composta protesta verso un sistema giudiziario improntato ormai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti…». Successivamente, il trojan, che ha disvelato i rapporti di Palamara, ha portato alla luce una realtà ancora più ampia e degradata di quella denunciata da Mirenda. Ha fatto seguito la pubblicazione del libro intervista Sallusti-Palamara, che ha dato conto dell’esistenza di un sistema, capace di influenzare non solo l’attribuzione degli incarichi nell’ambito dell’ordine giudiziario, ma anche l’esito dei procedimenti. Il sistema avrebbe anche determinato l’elezione dell’attuale vicepresidente del CSM. Sono divenute di pubblico dominio le registrazioni di alcune dichiarazioni di Amedeo Franco, giudice relatore nel processo in Cassazione che ha confermato la condanna di Berlusconi, secondo cui il collegio giudicante non sarebbe stato sereno. Un componente togato del CSM è andato in pensione per limiti di età, ma solo dopo aver condotto una battaglia strenua per restare ciononostante al suo posto. È divenuto noto il contenuto di alcuni verbali relativi agli interrogatori resi dall’avv. Amara innanzi alla Procura della Repubblica di Milano, secondo i quali sarebbe esistita una cd. Loggia Ungheria, che, tra l’altro, avrebbe condizionato l’assegnazione di incarichi direttivi ai magistrati. Tali verbali sarebbero stati informalmente consegnati da un magistrato inquirente ad un componente del CSM ed il relativo contenuto sarebbe stato, sempre informalmente, condiviso da quest’ultimo con il Presidente della Commissione antimafia. La ragione di questo passaggio di mano dei verbali sarebbe stata la preoccupazione dovuta al fatto che, nonostante la gravità delle rivelazioni, non fossero state subito disposte dal capo dell’ufficio le conseguenti indagini. Milena Gabanelli nella sua rubrica “Data room” ha offerto alcuni dati precisi, e sconvolgenti, su come funziona la giustizia domestica nell’ambito del CSM. Alla crisi di carattere istituzionale, di cui sono espressivi i fatti appena menzionati, si è aggiunto, con drammatica evidenza, l’aggravarsi della crisi del servizio giustizia, che non è più in grado, troppo spesso, di dare una risposta adeguata, nei tempi e nei contenuti, alle esigenze della collettività. Tanto da essere diventato uno dei fattori decisivi della crisi strutturale in cui versa l’economia italiana. A fronte di tutto questo, il Capo dello Stato ha affermato, in occasione del ventinovesimo anniversario della strage di Capaci, che «sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all’interno della Magistratura, minano il prestigio e l’autorevolezza dell’Ordine Giudiziario». In altri termini, “non litigate”. Forse un po’ poco, troppo poco, rispetto al quadro appena descritto. La drammatica crisi in cui la giustizia è sprofondata è il frutto avvelenato del rifiuto di dare corso a qualsiasi tentativo di riforma. La Magistratura associata, con il sostegno di alcune forze politiche, si è opposta pervicacemente a qualsiasi tentativo di incidere sull’attuale assetto, in nome della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza. Ma, nel momento in cui emerge che il risultato è la creazione di un “sistema”, quale quello descritto da Palamara e confermato dalle intercettazioni che lo riguardano, il rifiuto di ogni possibile riforma si è palesato essere stato nient’altro che la difesa di un assetto di potere, per giunta del tutto illegittimo. Oggi, il Governo in carica si sta muovendo in una duplice direzione: da un lato cercando di intervenire sui meccanismi della giustizia civile e su quelli della giustizia penale e, dall’altro, cercando di intervenire sull’ordinamento giudiziario (composizione del CSM, rapporti tra funzione requirente e funzione giudicante, attività politica dei magistrati, etc.). Su quest’ultimo tema si concentra, in modo pressoché esclusivo, anche l’iniziativa referendaria portata avanti dal Partito Radicale e dalla Lega. Letta non ha avuto esitazioni nel posizionare il Partito Democratico su di un atteggiamento nettamente conservatore. Sul tema della riforma della giustizia penale ha tenuto a precisare di essere contro l’impunitismo. Neologismo creato per l’occasione, ma di significato assai miserevole se, come sembra, esprime l’ossessione di ogni giustizialista che qualcuno possa farla franca. Tutto il contrario di quello che il pensiero liberale ha sempre ritenuto: il problema centrale del diritto penale è quello di garantire lo statuto dell’imputato, anche se colpevole, essendo chiamato a misurarsi con un potere, quale quello dello Stato, che se non regolato è illimitato e potenzialmente prevaricatore. Ma è soprattutto sul secondo aspetto che si misura la posizione di Letta. Ha, difatti, dichiarato che il suo programma su questi temi è quello della Ministra Cartabia e che l’iniziativa referendaria è solo un modo, evidentemente a suo avviso esecrabile, “per fare lotta politica”. Sennonché la proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario, che la Ministra ha illustrato ai capi gruppo dei partiti di maggioranza della Commissione Giustizia alla Camera non tocca, ma anzi rafforza, il potere delle correnti, non blocca le porte girevoli tra magistratura e politica, non introduce alcun profilo di responsabilità per i magistrati, non affronta realmente il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, non assegna alcun ruolo alla società civile nella valutazione dei magistrati. Si potrebbe obiettare che si tratta, alla fin fine, di problemi che riguardano per lo più le questioni interne all’Ordine Giudiziario. Ma non è così: qualsiasi riforma della giustizia civile e della giustizia penale passa attraverso l’interpretazione, che poi è chiamata a darne la magistratura. Ed una magistratura totalmente autoreferenziale, come quella attuale, è capace di vanificare ogni riforma. Un esempio? Più volte il legislatore, negli ultimi trenta anni, ha cercato di intervenire per limitare l’uso della carcerazione preventiva. Ma senza successo: la magistratura ha interpretato le nuove norme in continuità con le proprie prassi precedenti. E l’eccesso di custodia cautelare non è mutato. Astolfo Di Amato 

«Csm, ricorso respinto!»: il tribunale civile di Roma dice no a Piercamillo Davigo. Il giudice: per stare nel Csm come togato bisogna appartenere all'ordine giudiziario, sarebbe illogico il contrario. Simona Musco su Il Dubbio il 12 giugno 2021. «Per il componente togato (del Csm, ndr) l’appartenenza all’ordine giudiziario costituisce un presupposto intrinseco e indefettibile della costituzione e del funzionamento dell’organismo consiliare, che ne caratterizza la funzione di garanzia. Perciò quel presupposto non solo deve sussistere al momento in cui l’organo si forma, ma deve permanere anche per tutta la durata della carica del consigliere togato». Con queste parole la seconda sezione civile del Tribunale di Roma ha respinto il ricorso dell’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo che, dopo essersi rivolto al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento della delibera con la quale il Csm ha dichiarato la sua decadenza da consigliere, a seguito del suo pensionamento per raggiunti limiti di età, aveva tentato la strada del giudice ordinario. La sentenza firmata dal giudice Francesco Oddi è chiara: nessuna delle motivazioni addotte da Davigo, che aveva tentato anche di sollevare la questione di legittimità costituzionale degli articoli 30,32, 37 e 39 della legge 195/ 1958 (“Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura”), è meritevole di accoglimento. Secondo il giudice, l’articolo 104, sesto comma, della Costituzione non stabilisce, come sostenuto da Davigo, che la durata di quattro anni prevista dalla Costituzione riguardi la carica del singolo componente del Csm, bensì la stessa delimitazione temporale si riferisce alla durata in carica del Consiglio nel suo complesso. «L’opposta lettura – afferma il giudice – non è compatibile con altre norme della Costituzione riguardanti organi collegiali e, per altro verso, condurrebbe a conseguenze tanto errate quanto paradossali». La Costituzione, infatti, fissa espressamente la durata della carica quando la stessa riguarda il singolo componente dell’organo, come nel caso dei giudici della Corte costituzionale, che rimangono in carica nove anni dal giorno del giuramento. Ma soprattutto, se così non fosse, sarebbero illegittime le disposizioni della legge 195/ 1958, laddove prevedono cause di decadenza e di incompatibilità sopravvenuta. «È intrinseco nel sistema elettivo – continua la sentenza che il verificarsi di eventi che privano l’eletto dei requisiti tecnici e morali necessari per rivestire l’incarico ne determinano la cessazione prima della sua naturale scadenza». Inoltre, in caso di subentro, il nuovo consigliere dovrebbe rimanere in carica, secondo questa ratio, oltre la fine della consiliatura, «il che è un’inammissibile aberrazione interpretativa», ammonisce il giudice. Ma non solo: «Nel disegno costituzionale – continua la sentenza – i componenti togati sono magistrati ordinari “appartenenti alle varie categorie”», mentre la legge del 1958 riconosce il diritto di elettorato passivo al magistrato «che eserciti funzioni giudiziarie». Risulta implicito, dunque, «che si tratti di soggetto appartenente all’ordine giudiziario, cioè magistrato in servizio attivo». Se dei requisiti sono richiesti affinché si possa essere eleggibili, «logica vuole che tali caratteristiche debbano sussistere per tutto il tempo in cui l’eletto ricopre la carica». E non basta, poi, il possesso della cultura della giurisdizione, che di certo non viene meno con la pensione: occorre anche un nesso tra servizio attivo e funzioni consiliari, afferma il giudice, «che possa fungere da stimolo per il consigliere elettivo nell’esercizio della sua attività consiliare in considerazione del fatto che al termine del mandato tornerà a svolgere proprio quelle funzioni giudiziarie alle quali il suo lavoro al Consiglio è stato rivolto». Senza contare che, una volta cessata l’appartenenza all’ordine giudiziario, gli equilibri tra togati e laici voluti dai costituenti verrebbero alterati, equilibri voluti proprio per «garantire il rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura». Una delle assurde conseguenze sarebbe, infatti, la possibilità, per il magistrato in pensione, di avviare la carriera forense o quella accademica, rimanendo così nella categoria dei togati pur appartenendo ai laici, «alterando il rapporto fra le due categorie voluto dalla Costituzione». Da qui la conclusione secca: «L’appartenenza all’ordine giudiziario è la regola inespressa, destinata a recedere solo a fronte di una previsione contraria esplicita». Ora l’ex consigliere del Csm potrebbe presentare ricorso in appello. Ma le speranze di tornare a Palazzo dei Marescialli sono ridotte all’osso.

Doccia fredda per l’ex pm di Mani Pulite. Il pensionato Davigo e la poltrona al Csm, mazzata dal Tribunale: ricorso respinto. Angela Stella su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Con una ordinanza del 10 giugno 2021 la seconda sezione civile del Tribunale di Roma – dottor Francesco Oddi – ha respinto il ricorso dell’ex consigliere del CSM Piercamillo Davigo il quale chiedeva, in via principale, che venisse accertato il suo diritto alla conservazione della carica di consigliere elettivo con conseguente condanna dell’organo di governo autonomo della magistratura alla sua immediata reintegrazione nell’incarico, con ogni altra conseguenza di legge, e, in subordine, che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale degli articoli 30, 32,37, 39 della legge numero 195/1958 per contrasto con l’articolo 104 della Costituzione. Questa ordinanza di rigetto è molto importante perché rappresenta la prima decisione di merito sulla battaglia giudiziaria intrapresa dal dottor Davigo, il quale si è sempre detto convinto di non dover abbandonare la poltrona a Palazzo dei Marescialli, anche se in pensione. Nella premessa della sua decisione, il Tribunale civile di Roma ripercorre tutte le tappe di questa intricata vicenda e ricorda che il dottor Davigo veniva «eletto nel 2018 componente togato del CSM, dopodiché, in data 19/10/2020, dopo che il Plenum del Consiglio aveva disposto il suo collocamento a riposo per sopraggiunti limiti di età, era stata approvata la proposta della Commissione “verifica titoli” di cessazione anticipata del suo mandato consiliare. Il 21/10/2020 il medesimo plenum aveva deliberato il collocamento fuori del ruolo organico della magistratura del dottor Carmelo Celentano, facendolo subentrare nella carica di componente togato. Il dott. Davigo aveva pertanto impugnato la delibera di cessazione del mandato consiliare […] dinanzi il TAR del Lazio , che si era dichiarato carente di giurisdizione, ravvisando nella fattispecie una controversia inerente il diritto soggettivo perfetto a mantenere la carica elettiva. La decisione del TAR era sta confermata dal Consiglio di Stato». Ebbene, dopo la decisione dei giudici amministrativi, Piercamillo Davigo aveva deciso di riassumere il giudizio dinanzi al Tribunale Civile di Roma chiamando in causa, oltre al CSM, anche il Ministero della Giustizia e il dottor Carmelo Celentano. E qui interviene la prima sonora “bocciatura” da parte del giudice civile, il quale ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero della Giustizia in quanto i provvedimenti censurati dall’ex magistrato sono stati adottati solo dal CSM, sicché il Ministero di Via Arenula, essendo del tutto estraneo alla controversia, non avrebbe dovuto nemmeno essere citato in giudizio. Tanto premesso, il Tribunale di Roma, nel rigettare il ricorso, smonta una ad una tutte le argomentazioni addotte da Piercamillo Davigo a sostegno della sua domanda. Innanzitutto il giudice civile sostiene che «l’articolo 104 della Costituzione, sesto comma, nello stabilire che “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni”, non si riferisce alla durata del mandato del singolo componente elettivo, ma alla durata in carica del Consiglio nel suo complesso. L’opposta lettura della norma formulata dal ricorrente, per un verso, non è compatibile con altre norme della Costituzione riguardanti organi collegiali e, per altro verso, condurrebbe a conseguenze tanto errate quanto paradossali». Sempre secondo il Tribunale, inoltre, anche le norme della legge n. 195/1958, invocate da Davigo a sostegno della sua tesi, inducono a ritenere che la durata quadriennale della carica riguarda l’organo nel suo complesso e non il singolo consigliere elettivo. Ciò si evince dall’art. 30, primo comma (“Il Consigliere superiore scade al termine del quadriennio”) e secondo comma (“tuttavia finché non è insediato il nuovo Consiglio continua a funzionare quello precedente”). Peraltro secondo il giudice civile anche i successivi articoli 32, 37 e 39 della Legge n. 195/1958, citati da Davigo, non dimostrerebbero affatto quanto sostenuto dall’ex P.M. di Mani Pulite, ossia che la durata quadriennale della carica si riferisce al singolo consigliere. Infine il Tribunale di Roma ha stabilito, contrariamente a quanto sostenuto dall’ex P.M. di Mani Pulite, che la cessazione della carica di consigliere non debba essere prevista da una norma di rango costituzionale, visto che sul punto «non è prevista alcuna riserva di legge costituzionale». Come se non bastasse, il Giudice Oddi, ha ritenuto «manifestatamente infondata» anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente. Ora Piercamillo Davigo ha tempo trenta giorni per impugnare questa ordinanza davanti alla Corte di Appello di Roma. In mancanza di impugnazione, il provvedimento diverrà definitivo. Angela Stella

"PETER ERI UN GARANTISTA, SEI DIVENTATO UN TORQUEMADA!" Da la7.it il 7 giugno 2021. Luca Telese a Peter Gomez: "Guadagni più di un parlamentare...". La risposta del Direttore de ilfattoquotidiano.it: "Guadagno 160mila euro l'anno, molto meno dei miei colleghi direttori".

Da ilfattoquotidiano.it il 7 giugno 2021. Dibattito concitato a “Non è l’arena” (La7) avente per protagonista l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il quale, messo in difficoltà dal direttore de ilfattoquotidiano.it, Peter Gomez, a proposito della sua condanna in via definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione nel processo per il crac delle fondazioni Maugeri e San Raffaele, protesta col conduttore Massimo Giletti perché l’argomento non era stato concordato. Formigoni lamenta "un uso politico della magistratura" nella sua vicenda giudiziaria, ma Gomez osserva: “Io ho seguito il processo e ho letto le sentenze. Non sarò esperto come Formigoni, ma questa cosa non l’ho trovata”. Il direttore de Il Fatto online viene bruscamente interrotto da Formigoni quando menziona la parola "tangenti". “No, non mi è stata trovata nessuna tangente, Gomez – insorge l’ex senatore – Non mi è stata trovata neanche una lira. Quindi, dove sono queste tangenti?“. Gomez replica: “Le sono state trovate delle utilità, dai viaggi per centinaia di migliaia di euro allo sconto grossissimo pari a un milione e mezzo sull’acquisto di una casa, quantificati dall’accusa e dai giudici della Corte di Cassazione circa 6 milioni di euro. Ma la cosa che mi ha più colpito personalmente è questa – spiega – nella sentenza è scritto che ci sono l’ospedale San Raffaele di Milano e l’Istituto Maugeri di Pavia, a cui la Regione Lombardia dà oltre 200 milioni di euro per una serie di attività. Ma 70 milioni di questa somma tornano indietro, tramite fatture false e altri sistemi, a un gruppo di persone amiche di Formigoni. Questo è oggettivo e nessuno può negarlo, perché quei soldi sono scomparsi: erano 70 milioni di tasse dei lombardi. E questa, secondo me, è una cosa molto grave“. Formigoni protesta vivacemente contro Giletti: “Innanzitutto mi rivolgo a le, perché non era questo l’argomento della trasmissione questa sera. Io non intendo parlare del mio processo, perché sono in una condizione di detenuto domiciliare e rispetto questa condizione. E chiedo che anche gli altri in studio rispettino questa condizione. Quindi, la prego, si passi ad altro argomento. Mi era stato detto che si sarebbe parlato di un’altra vicenda, cioè quella dei vitalizi”. Giletti ribatte che Formigoni otterrà il vitalizio, nonostante una sentenza di condanna per corruzione, ma l’ex senatore ribadisce: “Gomez è entrato nell’argomento, quindi se non lo fa più, andiamo d’accordo“.

Casellati: «Mettiamo fine alla barbarie giustizialista». «Il tema della giustizia non può essere ridotto a una guerra tra opposte "tifoserie"», sottolinea la presidente del Senato, e sulle riforme «esorta le forze politiche al «senso di responsabilità». Il Dubbio il 7 giugno 2021.

«Mi auguro che si apra una fase sulle riforme che metta fine alla barbarie». È l’auspicio espresso dalla Presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, che in un’intervista a La Stampa, esorta le forze politiche al «senso di responsabilità».

«L’Italia oggi più che mai ha bisogno di riforme che possano ammodernare il Sistema Paese, renderlo competitivo e in grado di affrontare le sfide di una società e di un’economia globale sempre più evoluta. Nella pubblica amministrazione come nella giustizia, nel fisco come negli appalti pubblici le parole d’ordine dovono essere: semplificare e sburocratizzare. Non raggiungere questo obiettivo significherebbe perdere il treno del recovery e buttare alle ortiche tutti i soldi dell’Unione Europea», sottolinea Casellati.

Sul tema della giustizia, «mi è piaciuto molto il coraggio del ministro degli Esteri Di Maio che ha definitivamente spostato l’unica linea possibile secondo la nostra Costituzione, che è quella del garantismo», afferma la Presidente del Senato. «Da troppo tempo nel nostro Paese si assiste ad un vero e proprio cortocircuito mediatico-giudiziario. I processi prima che nei tribunali vengono celebrati sulle pagine dei giornali, in televisione, nelle piazze e ultimamente anche a colpi di post sui social. Il tema della giustizia non può essere ridotto a una guerra tra opposte “tifoserie”. Mi auguro che una volta per tutte possa aprirsi una fase di riforme che metta fine a questa barbarie».

«I giornalisti devono rendersi conto che la gogna mediatica ha da sempre prodotto odio e violenza. È successo anche a me con le minacce di morte dopo l’articolo di un importante quotidiano che rispetto per la sua storia, ma che in questo caso non ha letto bene norme e dati sui voli di Stato – spiega – Semplicemente perché io non ho violato nessuna legge. Quanto alle valutazioni di opportunità, non sono io a decidere della mia sicurezza personale e sanitaria, tant’è che, fino a quando mi è stato consentito prima del Covid, da marzo 2018 a maggio 2020, ho viaggiato, anche per le missioni istituzionali all’estero, in treno o in voli di linea. Tutto qua, con due precisazioni. È falso che abbia effettuato 124 voli di Stato in meno di un anno. E sono false le notizie sui costi, peraltro equivalenti a quelli per l’acquisto dei biglietti di treno ed aereo per me e per la mia scorta. È tutto documentato».

«Le vicende che da tempo interessano il Csm e più in generale la magistratura mi lasciano sgomenta», evidenzia Casellati. «La mia esperienza al Csm è stata positiva, perché l’ho vissuta con una forte volontà di innovazione e di riforma. Tant’è che proprio al Csm, nel luglio 2016, in una seduta plenaria, ho proposto il sorteggio dei magistrati da candidare al Csm. Questa, a mio parere, è l’unica riforma compatibile con la Costituzione che può arginare la deriva correntizia».

Il dibattito dopo l’ennesimo detenuto morto suicida. Giachetti al “neo-garantista” Di Maio: “Hai visto che succede a Poggioreale?” Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 2 Giugno 2021. «La professione di garantismo fatta da Luigi Di Maio è significativa, ma impone che partiti giustizialisti come il Movimento Cinque Stelle affrontino problemi finora nascosti sotto il tappeto, a cominciare dalle drammatiche condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti a Poggioreale e nelle altre carceri italiane»: la pensa così Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e membro del Partito radicale transnazionale. Da sempre in prima linea per i diritti dei reclusi, Giachetti accetta di svolgere con il Riformista una riflessione a pochi giorni dal suicidio di un giovane ospite di Poggioreale. La vicenda ha suscitato l’indignazione di molti, inclusa quella della leader radicale Rita Bernardini che ha colto l’occasione per denunciare nuovamente lo stato di illegalità in cui versano le prigioni italiane e la sostanziale indifferenza che certa politica riserva a un tema spinoso come quello dell’esecuzione penale. «Il fatto che un giovane si tolga la vita all’interno di una struttura che dovrebbe essere garantita dallo Stato deve far riflettere tutti, a cominciare da chi detiene il potere decisionale – sostiene Giachetti – Mi riferisco non solo alla ministra Marta Cartabia e ai vertici del Dap e del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, ma anche a tutti i partiti giustizialisti che devono finalmente comprendere che il carcere è l’extrema ratio e non l’unica risposta dello Stato alla criminalità». Tra questi figura il M5S al quale il ministro (napoletano) degli Esteri, Luigi Di Maio, sta tentando di imprimere una svolta in senso garantista e meno giustizialista. Significative, in questa prospettiva, sono le scuse a mezzo stampa che il titolare della Farnesina ha rivolto a Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi assolto dopo anni nel mirino dei pm e dei grillini. «Le parole di Di Maio hanno valore perché segnano una netta inversione di tendenza rispetto alla politica alla quale il M5S ci ha abituato – continua Giachetti – ma devono essere seguite da un’analisi e da un impegno concreti su temi cruciali come il processo penale e le condizioni dei detenuti». Il deputato di Italia Viva può permettersi di lanciare un simile monito. È proprio lui, infatti, ad aver proposto una modifica della durata della liberazione anticipata, cioè di quello “sconto” di pena previsto per i detenuti che dimostrino di partecipare all’opera di rieducazione e mantengano un comportamento irreprensibile all’interno dei penitenziari. A fronte dell’emergenza Covid, Giachetti aveva proposto di portare quella riduzione da 45 a 75 giorni ogni sei mesi di pena scontata; successivamente, il deputato ha suggerito un aumento da 45 a 60 giorni ogni semestre in via strutturale e definitiva. Quest’ultima proposta è contenuta in un emendamento al disegno di legge di riforma della giustizia penale e attende di essere discussa. Se approvata, la norma alleggerirebbe la pressione sulle carceri, soprattutto su strutture sovraffollate come quella di Poggioreale dove oggi si registrano più di 2.100 detenuti a fronte di una capienza di circa 1.400 unità: «Sarebbe una svolta importante – conclude Giachetti – a patto, però, che cambi la cultura giustizialista che in Italia domina da 30 anni e impone di sbattere qualsiasi criminale in cella e di buttare la chiave».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Vacilla lo Stato di diritto. Il garantismo non vale solo per chi è assolto. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Luigi Di Maio, chiedendo scusa all’ex sindaco Uggetti con una lettera pubblicata su Il Foglio, ha riscosso un larghissimo consenso. Tutti i commentatori, o almeno la più gran parte, ne hanno tratto il convincimento di un cambio di rotta così radicale, da parte del leader grillino, da segnare addirittura il tramonto di un’epoca ed il passaggio ad una fase nuova della politica italiana. Anche su questo giornale, Alberto Cisterna ha scritto che «l’analisi del ministro Di Maio segna uno scarto decisivo e irreversibile in un fronte politico che, troppo in fretta, era stato descritto come irrimediabilmente giustizialista». È giustificato tanto entusiasmo? Le perplessità sono molte, troppe. Già l’analisi del testo della lettera suscita molti dubbi sulla sua reale portata. Vi sono, in particolare, due passaggi che vanno sottolineati. Con riferimento alla vicenda dell’ex sindaco Uggetti, afferma Di Maio che «l’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli». È l’esito del processo, dunque, e cioè «l’assoluzione di questi giorni» che, siccome favorevole all’imputato, proietta una valutazione negativa su quanto avvenuto. Troppo facile! Non è questo il garantismo. Come ha scritto Sansonetti, con riguardo alla vicenda della funivia del Mottarone, il garantismo consiste in «quel sistema di civiltà e di rispetto della giustizia che scatta in modo più massiccio se il reato è più grave. Tanto più è grave il reato tanto più la giustizia pretende garanzie per l’imputato». Non è, dunque, l’esito del processo il criterio per giudicare l’ordalia che si è scatenata durante le indagini. L’ordalia è inammissibile in sé e non ha niente a che vedere con la civiltà del diritto. Il secondo passaggio, che va sottolineato, è quello in cui si afferma che «la cosiddetta questione morale non debba essere sacrificata sull’altare di un cieco garantismo». Cosa significa? Che il garantismo è legittimo se l’imputato è innocente, mentre se è colpevole deve prevalere la persecuzione moralistica? L’affermazione è tanto sconclusionata da rendere evidente il tentativo di conciliare l’inconciliabile e, soprattutto, di non mettere minimamente in discussione il diritto ad invocare la gogna pubblica, quando vi sia il sostegno di pretese ragioni morali. E questa sarebbe la “svolta garantista” dei 5Stelle? Meglio, dunque, non crogiolarsi nell’illusione che, dopo la lettera di Di Maio, si siano sciolte, anche solo in parte, le difficoltà per una accettabile riforma della giustizia. Anzi, quello che sta accadendo in questi giorni indica che il percorso è tutto in salita. Già con riguardo alla assoluzione di Uggetti, non vi è stato nessuno che abbia levato con forza la voce per chiedere di verificare se vi sia stata superficialità nelle indagini, pregiudizio nelle valutazioni. Nessuno che si sia vergognato della vigliaccheria di non avergli dato solidarietà di fronte alla debolezza delle accuse. Inutile, come ha scritto Gian Domenico Caiazza, rifugiarsi oggi nella retorica consolatoria e mistificante della «giustizia che alla fine trionfa. Una retorica inutile e beffarda». Emblematico dello stato in cui la giustizia si trova in Italia è anche quanto sta avvenendo con riguardo alla vicenda del Mottarone, cui si è già fatto cenno. Si è scatenata immediatamente una volontà di linciaggio, che ha visto i media, anche quelli che si propongono come moderati, guidare un’opinione pubblica, alla quale si evita accuratamente di ricordare che la civiltà di un paese, anche di fronte a fatti gravissimi, si misura sulla capacità di mantenere fermo il principio che ogni vicenda deve trovare soluzione attraverso una applicazione razionale del diritto e che morale e diritto si collocano su piani diversi. A questa ondata di indignazione popolare ha fatto seguito la richiesta della Pm di carcerazione preventiva. Ebbene, la Gip ha rilevato che nelle carte dell’indagine mancava quello che tutti davano per scontato e, cioè, addirittura la esistenza di gravi indizi di colpevolezza per due dei tre imputati! Così confermando, per l’ennesima volta, che tra scandalismo moralista e razionale applicazione del diritto vi è un abisso. In proposito, è utile anche ricordare che nessuna richiesta di carcerazione preventiva ha fatto seguito alla tragedia del ponte Morandi, eppure nessuno dubita della estrema serietà della relativa indagine e del giudizio che seguirà. Queste considerazioni consentono anche di cogliere meglio il significato e la portata dei referendum sulla giustizia, che Partito Radicale e Lega stanno per promuovere. Sbaglierebbe chi ritenesse che la posta più importante in gioco sia il ridimensionamento, approfittando della attuale perdita di credibilità, dei magistrati e, in particolare, delle procure. Certamente l’ordine giudiziario si batte ormai da tempo, in modo compatto, per ostacolare qualsiasi riforma che limiti lo smisurato potere che oggi ha lo scassato sistema giustizia. In questo, dunque, sta svolgendo il ruolo di una forza conservatrice. La posta in gioco più importante è, tuttavia, costituita dal tentativo, attraverso il referendum, di ripristinare nella collettività il senso delle istituzioni e del diritto, la consapevolezza della complessità delle vicende umane e la totale inadeguatezza della rabbia e del rancore a governare una società. Specie una società sempre più articolata, che deve affrontare le sfide della modernità. Spetta ai partiti ed agli altri gruppi intermedi intercettare e razionalizzare le istanze di trasformazione e di tutela che vengono dalla collettività. Strumentalizzarle per convogliarle in un disperato desiderio di spietata vendetta collettiva, come purtroppo è spesso accaduto in questi ultimi trenta anni, ha portato il paese sull’orlo del collasso. Ecco, allora, che l’iniziativa referendaria presenta il pregio di offrire l’occasione per aprire nel paese una stagione di dibattito sulla giustizia, e quindi sul diritto. Il rischio, ovviamente, è che chi ha sinora lucrato su di una giustizia, usata come arma contro l’avversario, ostacoli il dibattito e cerchi di occultare la vicenda referendaria. Non sarebbe la prima volta. Ma significherebbe sottovalutare il rischio che un ulteriore degrado della attuale situazione può rappresentare per la tenuta delle istituzioni democratiche. Non è la rabbia popolare il migliore fondamento di una democrazia. Astolfo Di Amato

Trattativa, il Pg di Palermo bacchetta tutti i giudici che l’hanno smontata. Nella memoria, depositata alla Corte d’appello dove è in corso il processo trattativa, si criticano le sentenze di assoluzione di Calogero Mannino. Quasi a voler dire, parafrasando Orwell, che ci sono sentenze più uguali delle altre. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 giugno 2021. «Travisamento dei fatti», «mancata assunzione di prova decisiva», «grave illazione fondata sul nulla», «mera illazione», «evidente abbaglio», sono una delle tante considerazioni che il procuratore Generale di Palermo riserva alle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado che hanno assolto, con tanto di pronuncia definitiva della Cassazione, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Parliamo della memoria depositata alla Corte d’appello di Palermo dove è in corso il secondo grado del processo trattativa Stato-mafia. Più specificatamente la procura generale è entrata nel merito della decostruzione della tesi trattativa e della gestione del procedimento del famoso dossier mafia-appalti, di cui uno dei pubblici ministeri titolari era proprio l’attuale procuratore generale di Palermo, che rappresenta oggi l’accusa nel processo trattativa.

Sono tre le giudici che – avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni. In particolare, sono tre le giudici che – a detta del Pg – avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni: la gup Marina Petruzzella, il collegio presieduto da Adriana Piras e la compianta Gip di Caltanissetta Gilda Loforti. Quest’ultima merita un ricordo. Era nata a Cefalù il 31 agosto del 1959 ed è scomparsa a soli 49 anni, per una grave malattia che l’aveva colpita nel 2000 e che pareva avere superato con grande energia, sino a un ultimo devastante episodio che il primo aprile del 2008 l’ha portato via. Nella sua breve ma intensa carriera, è stata prima giudice al Tribunale di Nicosia e, poi, al Tribunale e alla Corte di Appello di Caltanissetta. Oggi c’è un’aula del tribunale nisseno a lei dedicata.

Gilda Loforti aveva smentito la teoria della doppia informativa per mafia-appalti. Nella memoria della Procura generale viene citata anche la Loforti, poiché la giudice di primo grado Petruzzella ha reso noto la sua ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000. In particolare il riferimento è al capitolo relativo alla teoria della doppia informativa, ovvero l’accusa da parte dei titolari del procedimento mafia-appalti di allora (e rievocata nuovamente dall’accusa del processo Mannino) che consisteva nel dire che i Ros avrebbero depositato un dossier depurato appositamente dei nomi dei politici importanti.

La compianta Loforti, invece, attraverso un’analisi capillare dei fatti (con tanto di indagini svolte) aveva smentito tale teoria. La giudice Petruzzella l’ha fatto presente nelle motivazioni, respingendo le accuse del pm che, a detta della procura generale di Palermo – così come scrive nella memoria appena depositata – avrebbe fatto «ineccepibili e gravissime considerazioni».

Per il Pg l’accusa è ineccepibile, per la giudice Petruzzella evidentemente no. Motivazioni che saranno confermate e ampliate dal collegio guidato dalla giudice Piras. Ma anche in quel caso, come si evince dalla memoria depositata dal Pg, evidentemente non ci hanno capito nulla.

La memoria del Pg è tutta concentrata sulla trattativa. Ma la memoria è tutta concentrata sulla trattativa. Una giudice e un intero collegio, secondo il Pg, non avrebbero assunto prove, a detta loro, decisive. Così come, sempre secondo la procura generale, ci sarebbe stata in più punti una «manifesta illogicità della motivazione assolutoria del Mannino». Tra gli altri rilievi compare anche «l’omessa e contraddittoria motivazione in merito alle dichiarazioni rese da Ferraro Liliana». In sostanza, la Corte d’Appello presieduta dalla Piras avrebbe dunque sbagliato concentrandosi sulle dichiarazioni dibattimentali della Ferraro del 28 settembre 2010, nel procedimento instaurato nei confronti dei carabinieri Mori e Obinu, imputati (e assolti definitivamente) della cosiddetta mancata cattura di Provenzano.

Secondo il Pg la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro. Come mai questa obiezione? Secondo la memoria del Pg, concentrandosi solo su questo, la Corte presieduta dalla Piras «ha omesso di valutare significative divergenze, palesi omissioni ed evidenti contraddizioni in precedenti e successive audizioni della stessa nella fase delle indagini». Ed ecco che, secondo la procura generale di Palermo, la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro. Sì, proprio colei che lavorò al fianco di Giovanni Falcone fino alla fine dei suoi giorni. Dedicò vent’anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia. Fu lei che contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per far rinchiudere le Brigate rosse, così come dopo, assieme all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, fu sempre lei a far riaprire le carceri speciali per rinchiudere i mafiosi dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Il ricorso rigettato dalla Cassazione. Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata. Parliamo della stessa Ferraro che nella sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato-mafia viene fortemente bacchettata, sottolineando che ha avuto “eclatanti dimenticanze”. In questo caso nessuno ha avuto nulla da dire. Ma se delle giudici serie, come quelle del processo Mannino, che non si lasciano fuorviare dalle suggestioni e pressioni massmediatiche, decidono di restituire la giusta dignità a una donna che ha svolto con amore il proprio dovere – per questo rispettata da Falcone e Borsellino – , allora no, non va bene: arriva un pezzo, in realtà molto piccolo ma più rumoroso, della magistratura che si sente superiore ai giudici stessi e addirittura, come in questo caso, alla Cassazione che ha rigettato il loro ricorso.

Lo Stato di diritto e il giudice terzo. Una superiorità manifestata tramite una memoria che, di fatto, colpisce il lavoro del giudice che deve essere terzo e che si pone in una posizione di assoluta indifferenza e di effettiva equidistanza dalle parti contendenti. Questo recita la Costituzione e questo è il pilastro dello Stato di diritto. D’altronde, la memoria dei Pg, ironia della sorte, arriva proprio nel momento in cui è sotto tiro un’altra Gip. Parliamo di Donatella Banci Buonamici, “rea” di aver scarcerato sabato i tre fermati per l’incidente della funivia del Mottarone, mettendo ai domiciliari Gabriel Tadini. L’Associazione nazionale dei magistrati, invece di difendere lei, ha attaccato le Camere penali.

Secondo la memoria depositata la sentenza di primo grado sulla trattativa è l’unica via maestra. Ma ritorniamo alla memoria depositata dalla procura generale. Oramai siamo nella fase in cui si prende come unica via maestra la sentenza di primo grado sulla trattativa: tutte le altre sentenze, anche definitive, valgono come la carta straccia. Sbagliano i tre gradi giudizio sul processo a Mannino che smentiscono la trattativa, sbagliano le sentenze del Borsellino Quater che escludono categoricamente la presunta trattativa collegata con l’accelerazione della strage di Via D’Amelio, sbagliano le due decisioni del processo Capaci Uno e Capaci bis che individuano il movente mafia- appalti come causa della strage, escludendo teorie fantasiose come quelle del “doppio cantiere” nella fase di esecuzione della strage dove perse la vita Giovanni Falcone. Sembrerebbe proprio che gli unici a non sbagliare siano quelli che – inquirenti e giudicanti – da Palermo sostengono la tesi della trattativa.

Parafrasando Orwell “ci sono sentenze più uguali di altre”. Siamo arrivati quindi ad Orwell. In particolare parliamo del suo famoso libro “La fattoria degli animali”. Un romanzo, tra l’altro, che aveva il compito di smascherare talune ipocrisie. Sì, perché, così ha affermato Orwell, «se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire». Ebbene, il libro parla di un regime che diventa ben presto dittatoriale. Al motto «tutti gli animali sono uguali» viene aggiunto «Ma alcuni sono più uguali degli altri».

L'ex Ministro: "Sono attonito, assolto in tutti i gradi". Mannino assolto in Cassazione nel processo Stato-mafia, il delirio dei pm di Palermo: “Decisione illogica”. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Non si arrendono i magistrati di Palermo. Dopo aver tenuto per circa 25 anni in ostaggio l’ex ministro Calogero Mannino, assolto lo scorso dicembre dalla Corte di Cassazione nel processo, in abbreviato, sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, la procura generale del capoluogo siciliano ha depositato una memoria in cui parla di “manifesta illogicità della motivazione assolutoria” dell’ex ministro Calogero Mannino “con riferimento ai fatti in precedenza accertati nel procedimento a carico dello stesso per concorso esterno in associazione mafiosa, indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”, come si legge nella memoria in possesso dell’Adnkronos. Lo scorso 11 dicembre 2020 i giudici della sesta sezione penale hanno infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro il proscioglimento di Mannino, emesso il 22 luglio 2019 dalla Corte di Appello di Palermo. La memoria è stata depositata oggi, lunedì 31 maggio, dai sostituti procuratori Giuseppe Fici e Sergio Barbiera nel corso del processo stralcio in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo. Imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato sono gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex capo del Ros Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e il pentito Giovanni Brusca. Un testo di 78 pagine e 21 capitoli che, secondo i pm, “non mette in discussione il giudicato assolutorio” ma c’è “necessità di parlarne” per rimarcare alcuni fatti. I sostituti procuratori generali parlano di “motivazione illogica con travisamento del fatto, con riferimento alla verosimile consapevolezza e alla verosimile approvazione da parte del dottor Paolo Borsellino dell’iniziativa dei carabinieri Mori e De Donno di agganciare Vito Ciancimino”. Secondo Fici nella sentenza d’appello di assoluzione dell’ex ministro Mannino “si registra una omessa e contraddittoria motivazione con travisamento dei fatti, con riferimento alla vicenda relativa alle cosiddette indagini su mafia e appalti“. Per la Procura generale “le motivazioni del giudice di primo grado del processo Mannino sono approssimative e confuse anche nella ricostruzione del percorso argomentativo dell’accusa, mentre quelle dell’appello sembrano più che altro incentrate a enfatizzare ogni possibile criticità, a volte con evidente travisamento dei fatti, piuttosto che valutare la coerenza del ragionamento dell’organo requirente”. La reazione di Mannino non si lascia attendere: “Sono attonito di fronte al fatto che la Procura Generale di Palermo non tenga in alcuna considerazione la decisione della Cassazione e la richiesta di inammissibilità dei motivi proposti dalla Procura Generale della Cassazione” ha dichiarato interpellato dall’Adnkronos. “Sul mio abbreviato si è formato un giudicato definitivo validato da un Gup in primo grado, da una Corte D’Appello in secondo grado e dalla Cassazione in terzo grado”.

Strage della funivia, l’Anm attacca i penalisti. Ma la gip è d’accordo con loro. L'Anm accusa la Camera penale di voler fare pressioni sulla procura. Ma le loro osservazioni sull'illegittimità del fermo sono identiche a quelle della gip, che ha scarcerato gli indagati. Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Non si può giustificare un fermo con il clamore mediatico. E non si può ipotizzare il pericolo di fuga solo sulla base della gravità del reato contestato, per quanto odioso e per quanto tragiche siano state le sue conseguenze. Si racchiude tutta qui, in soldoni, la decisione del gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, che ha definito «irrilevanti» le ragioni alla base della richiesta di convalidare il fermo per le tre persone indagate per la strage della funivia di Stresa-Mottarone. Si tratta, come noto, di Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, per il quale il gip ha disposto i domiciliari, Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone, per i quali invece il gip ha disposto la scarcerazione. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni.

La degenerazione mediatica. La vicenda è subito diventata un caso mediatico: «Gli inquirenti – denunciava domenica l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali -, in sole 48 ore, hanno affermato pubblicamente di aver individuato e fermato i primi (ma non gli unici) responsabili della tragedia. Non solo: diffondono le loro dichiarazioni che portano a proclami di responsabilità in quanto “la cabina era a rischio. E lo sapevano”». Ma non solo: nelle motivazioni del fermo disposto dalla procura veniva tirato in ballo, come motivazione, «l’eccezionale clamore a livello anche internazionale», giustificando, di fatto, la privazione della libertà di tre persone con la risonanza della stessa indagine sui media. Una tesi totalmente bocciata dalla gip e, prima, dai penalisti del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta, che attraverso il presidente Alberto De Sanctis avevano analizzato l’uso dello strumento del fermo. «Lo abbiamo fatto prescindendo completamente dai fatti – spiega De Sanctis al Dubbio -. Ci era sembrato singolare, in una vicenda come questa, pensare di applicare un istituto che consente di portare un uomo in carcere soltanto per il pericolo di fuga, dal momento che non c’erano prove a riguardo. Si tratta di un’ipotesi di reato molto grave, ma colposa, che riguarda persone che hanno risorse economiche, famiglie e lavoro qui: è difficile che siano pronti a fuggire a poche ore dalle indagini». La seconda riflessione riguarda, invece, la gogna: «C’è stata una ricostruzione accusatoria fatta in pochi giorni e comunicata con plurime conferenze stampa, nelle quali si spiegava la ricostruzione delle ipotesi di reato con la logica del profitto – aggiunge -. La vicenda merita forse un maggiore approfondimento prima di dare in pasto ai giornalisti ricostruzioni già cristallizzate. Ci teniamo molto ad affermare un principio che è nella direttiva dell’Ue sul principio di non colpevolezza, inteso non solo in senso endoprocessuale, ma anche per quanto riguarda la comunicazione giornalistica. Le informazioni, in una fase così delicata, vanno centellinate».

L’ira dell’Anm. Ma l’esternazione di De Sanctis non è andata bene alla giunta dell’Anm del Piemonte, che si è schierata in difesa della procuratrice Bossi poche ore dopo la decisione del gip, che pure dava ragione ai penalisti. «Piena solidarietà ai colleghi della procura di Verbania che, con costante impegno ed indiscutibile spirito di servizio, si dedicano da giorni ad un’indagine complessa quanto dolorosa», si legge nella nota, con la quale l’Anm «stigmatizza come inopportune e fuorvianti le pesanti critiche portate ad un’indagine in corso», tali da insinuare «inaccettabilmente il sospetto che siano state adottate scelte processuali al limite della legalità o addirittura per compiacere il sentire popolare». Affermazioni che, secondo i magistrati, rappresenterebbero un «inaccettabile strumento di pressione e condizionamento dell’attività giudiziaria, vieppiù in quanto provenienti da organo in nessun modo chiamato istituzionalmente ad esprimere giudizi sulle modalità di indagine ed anzi sistematicamente impegnato nella delegittimazione dei pubblici ministeri, che si vorrebbero sottrarre alle garanzie della giurisdizione». Accuse respinte al mittente dai penalisti, che hanno definito «fuori luogo» la polemica, in quanto «non c’è stato nessun attacco ai magistrati». «È singolare che l’Anm, associazione rappresentativa dei pubblici ministeri ma anche – è bene ricordarlo – dei giudici, esprima indignazione per una nostra legittima riflessione giuridica, per nulla “inopportuna e fuorviante”, sull’uso dell’istituto del fermo di indiziato di delitto, stando attenti a non entrare nel merito delle responsabilità, tutte da accertare nel processo – afferma De Sanctis -. È doppiamente singolare perché il giudice, che l’Anm dovrebbe rappresentare, scrive nel suo provvedimento che “il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge”. Non lo scrive la Camera penale, lo scrive un magistrato. La gogna mediatica è stata riservata ad altri e su questo invitiamo tutti ad una pacata riflessione».

La reazione della procuratrice. La procuratrice Bossi, commentando la decisione del gip, ha invece evidenziato due cose: da un lato che la decisione proverebbe l’indipendenza del giudicante dall’inquirente e, dunque, la superfluità della separazione delle carriere. Ma ciò non senza tradire la propria delusione, affermando che «prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola». Una dimostrazione, secondo l’Ucpi, che l’indipendenza professata poco prima si tramuta in «un atto di inimicizia»: «La regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dottoressa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri». Un ulteriore spot, secondo i penalisti, per la «ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante».

«Quelle carriere inseparabili persino nella pausa caffè…» «Niente caffè insieme...»: con la sua reazione la procuratrice della tragedia del Mottarone dimostra «le sovrapposizioni tra pm e Gip», commenta Romanelli dell'Ucpi. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Nello scontro in atto negli uffici giudiziari di Verbania tra la procuratrice Olimpia Bossi e la gip Donatella Buonamici, la quale ha sostenuto che il fermo dei 3 indagati «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato», capita di leggere dichiarazioni sorprendenti proprio del pm che abbiamo imparato a conoscere, a seguito della strage della funivia Stresa Mottarone, in virtù della sua sovraesposizione mediatica: «Prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola», ha detto la Bossi in una dichiarazione a La Stampa. «Se ci fosse effettivamente tra giudice e pm un rapporto di totale indipendenza», commenta con il Dubbio l’avvocato Rinaldo Romanelli, responsabile dell’osservatorio Ordinamento giudiziario dell’Unione Camere penali, «e se il pm si aspettasse dal giudice solo l’esercizio della sua funzione di limite al potere del pm e di garanzia che le norme siano applicate correttamente, non dovrebbe provare alcun tipo di dispiacere quando una richiesta non è accolta. Il dispiacere lo provi se ti aspetti di poter condividere una funzione con qualcuno». La reazione è stata forse istintiva? «È la reazione di chi è abituato, quando prende il caffè alla macchinetta, a parlare anche dei procedimenti che segue, a condividerli col giudice e aspettarsi che quel giudice la pensi come lei. La dottoressa Bossi è talmente convinta di quello che dice che lo ha fatto in buona fede, sennò se lo sarebbe tenuto per sé. Evidentemente non si rende conto fino in fondo di quello che ha detto: sarebbe come dire che io mi offendo se un giudice non accoglie una mia istanza difensiva e quindi poi non ci prendo più il caffè. Ammesso che ci prenda un caffè, io mi offendo soltanto se un giudice non legge le carte e vedo che c’è un provvedimento scritto palesemente male». In un’altra dichiarazione, al giornalista che le ha fatto notare come le divergenze tra Procura e Tribunale siano marcate, la procuratrice Bossi ha risposto: «Sono la giusta risposta a chi sostiene che ci siano collusioni tra i vari rami della magistratura e invoca la separazione delle carriere: ciascuno fa con coscienza il proprio mestiere e lavora con indipendenza». Ma secondo Romanelli «innanzitutto un episodio non fa statistica: la nostra esperienza in generale è di segno opposto, soprattutto nel momento delle indagini c’è una particolare vicinanza tra pm e gip. Poi quando si celebra il processo e ci si allontana dall’immediatezza degli eventi, questo avviene meno. Tanto è vero che ci sono circa 1.000 indennizzi per ingiusta detenzione l’anno, visto che le misure cautelari molto spesso si emettono con troppo facilità, anche a carico di indagati che poi magari vengono assolti». L’Ucpi si batte da sempre per avere più trasparenza nell’amministrazione della giustizia, a partire proprio dai dati concernenti il numero di misure cautelari richieste dal pm e concesse dal gip: «Sarebbe assolutamente importante conoscere questi numeri: al momento sappiamo solo che il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo, il che induce a pensare a un abuso della misura cautelare in carcere». La vicenda ci offre lo spunto per tornare a parlare di separazione delle carriere, tema non all’ordine del giorno nelle riforme della giustizia: eppure mai come adesso la modifica sembra “reclamata” dagli eventi: «È una riforma che i magistrati non vogliono e la politica si adegua, come ha sempre fatto. I magistrati devono difendere la corporazione e il potere vero che è in capo alle Procure. L’unico argine, previsto dalla Costituzione e dal codice di procedura penale, a questo strapotere è», ricorda Romanelli, «il controllo del giudice. Il quale, proprio per questo, dovrebbe essere non solo imparziale ma terzo, appartenente a un altro organismo rispetto a quello del pm». Ma la categoria dei giudici non dovrebbe ostacolare questa riforma, in fondo è solo il pm ad avere bisogno della conferma del proprio impianto accusatorio da parte della magistratura giudicante. «Non dimentichiamo però che i pm, pur essendo solo circa un quinto dei magistrati, hanno un peso preminente nelle varie correnti che compongono l’Anm: basti pensare che negli ultimi vent’anni tutti i presidenti dell’associazione, tranne l’ultimo, sono stati appunto pm. Come è noto, sono le correnti dell’Anm ad avere il controllo del Csm e di conseguenza il controllo sulle valutazioni professionali dei magistrati, e quindi anche sulle carriere dei giudici. In un contesto del genere, anche i giudici che pensano che le carriere debbano essere separate, si guardano bene dal dirlo pubblicamente».

La “vendetta” della pm: quel caffé negato alla Gip. Il Procuratore Capo di Verbania dice che per un po' smetterà di prendere il caffé con la giudice che non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia. Ecco, non poteva esserci uno spot più efficace a sostegno della ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere. Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 31 maggio 2021. Il Procuratore Capo di Verbania, dottoressa Bossi, non si è sottratta ad un commento sul provvedimento con cui la Gip dottoressa Banci Buonamici non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia “per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza”. Pur ribadendo i propri convincimenti, la pm a denti stretti ha perfino valorizzato il fatto come sintomatico della piena indipendenza del giudice, e dunque della superfluità della separazione delle carriere. Ma subito dopo non ha nascosto la propria forte “delusione”, confessando che per un po’ non intende più accompagnarsi con la Collega Gip alla macchinetta del caffè, come fino a ieri l’altro era solita fare. Non lasciatevi sfuggire l’importanza di questo moto spontaneo ed incontrollabile di risentimento della pm La manifestazione di indipendenza del Gip, tanto magnificata un attimo prima contro la necessità della separazione delle carriere, viene disvelata per ciò che davvero significa agli occhi di quel magistrato: un atto di inimicizia, talmente forte da rendere inevitabile, almeno “per un po’”, la consuetudine amicale. Nulla di più lontano, dunque, da quanto dovremmo aspettarci da una condivisa pratica della indipendenza del giudice. Un giudice che, soprattutto in una vicenda di forte esposizione mediatica, contraddice clamorosamente il punto di vista accusatorio, si iscrive tra i “nemici” della Procura (e dunque, si lascia intendere, della Giustizia tout court). In altri termini, la regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dott.ssa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri”. Dobbiamo essere grati alla dott.ssa Bossi per la sua sincerità. Non poteva esserci, esattamente al contrario di quanto essa afferma, uno spot più efficace a sostegno della ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Appartenere allo stesso ordine, provenire dallo stesso concorso, essere partecipi della stessa associazione, frequentare gli stessi corsi di formazione, avere lo stesso organo di autogoverno, e anche per tali ragioni prendere tutti i giorni il caffè insieme, crea inesorabilmente, e ben giustamente aggiungo, un sentimento profondo di comunanza, di fervida e fattiva solidarietà, di reciproco sostegno e protezione. Atti di autentica indipendenza di pensiero e di giudizio, esternati senza alcun riguardo alla loro ricaduta mediatica ed anche di carriera professionale del Collega, sono innanzitutto  -ben oltre Verbania, nella quotidianità della nostra esperienza giudiziaria- assolutamente eccezionali e fuori da ogni regolarità statistica; ma soprattutto, assumono -in forza di tale eccezionalità- una portata avvertita come talmente devastante da legittimare addirittura reazioni di risentimento e di inimicizia. Nell’eterno dibattito sulla separazione delle carriere, i nostri avversari hanno sempre tacciato di qualunquismo il nostro stigmatizzare giudici e pubblici ministeri sempre insieme al bar del Tribunale. Questa voce dal sen (s)fuggita al Procuratore della Repubblica di Verbania rende giustizia a quella pur evidente allegoria. Anche noi prendiamo il caffè (più raramente) o frequentiamo privatamente (molto più raramente), PP.MM. o Giudici; ma lo facciamo, possiamo reciprocamente farlo, con un sentimento certo, sereno ed immodificabile di chi fa mestieri irriducibilmente diversi, quando non contrapposti. Vorremmo che così prima o poi accadesse anche tra giudici e pm, una volta che finalmente possano appartenere ad ordini diversi e separati. Avremmo, statene certi, molti caffè in meno alla macchinetta, ma tanti processi giusti in più.

Ivan Fossati e Lodovico Poletto per "la Stampa" l'8 giugno 2021. Coprono con i teloni anti-pioggia quel che resta della cabina numero 3 precipitata sul Mottarone, i pompieri e gli uomini della Protezione civile. Un filo di ruggine, oppure un pezzo che si stacca, potrebbero essere l'ennesimo colpo a questa inchiesta che doveva dire - rapidamente - per quale ragione, e per colpa di chi, 14 persone erano morte nella prima domenica in cui sulle sponde del lago Maggiore si respirava aria di ritorno alla normalità. Già, un altro colpo e sarebbe tutto più complicato ancora, come se quel che è accaduto fin qui non bastasse. Tre arresti. Le scarcerazioni. Polemiche sull' operato della Procura, le parole forti adoperate del Gip nell' ordinanza che ha rimesso in libertà due dei tre arrestati. I commenti successivi. Troppo. Poi, però, mentre ieri si cercavo gli elicotteri, si pianificava l'intervento sulle pendici della montagna, ecco andare in scena l'ennesimo colpo di teatro. Esce dall' inchiesta il giudice che aveva cassato la chiamata in correità di due dei tre uomini, sostenuta dalla procura. Accade nel penultimo giorno utile per chiedere al Tribunale del Riesame di Torino di prendere in carico il ricorso contro le due scarcerazioni. Succede mentre è aperto il dibattito sull' incidente probatorio: se concederlo o meno - come chiesto dall' avvocato dell'unico indagato ancora ai domiciliari - dipende dal Gip. Ecco, mentre va in scena tutto questo il presidente del Tribunale di Verbania - Luigi Montefusco - firma un atto che mette da parte Donatella Banci Bonamici. E assegna il caso al «Gip titolare» Elena Ceriotti. Tutto legittimo, anzi di più. Ma è una fiammata che scatena gli esperti dietrologi. Ma poi Montefusco mette tutti a tacere, con le motivazioni del provvedimento. Eccole: «Avendo la dottoressa Donatella Banci Buonamici, presidente di sezione coordinatrice dell'area penale, esercitato la funzione di Gip supplente per la convalida del fermo di 3 indagati (Gigi Nerini, Gabriele Tadini ed Enrico Perocchio) il procedimento relativo alla predetta richiesta è stato dalla cancelleria assegnato al medesimo giudice. Ritenuto che tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti, disposti nelle tabelle di organizzazione dell'Ufficio Gip/Gup..» il fascicolo va ad un altro magistrato. Cioè Elena Ceriotti che - dicono - avrebbe dovuto occuparsene fin dall' inizio, ma proprio nei primissimi giorni di questa complicata inchiesta era impegnata in altre attività. Il linguaggio di Montefusco è giuridico, è vero. La sostanza però è chiara: esistono regole, e vanno rispettate anche quando c' è di mezzo una tragedia come quella del Mottarone. Misteri? Nessuno. Ma le voci girano in fretta da queste parti e anche quello che verrà poi definita una «semplice attività di organizzazione del lavoro», diventa un caso alla luce di quella richiesta di incidente probatorio presentata dall' avvocato di Gabriele Tadini. Per quale ragione quell' atto è così importante è facile da capire. Le prove acquisite nel corso delle operazioni sono valide soltanto per le persone attualmente indagate. Se - un giorno - ce ne saranno altri, non potranno essere adoperate. A meno di indagare subito chiunque abbia avuto in un modo oppure nell' altro a che fare con quella funivia. Ed è per questa ragione di prudenza che il capo della Procura, Olimpia Bossi, è contraria. Si pregiudicherebbe: «in modo irreversibile lo svolgimento delle attività di indagine» hanno scritto Bossi e la pm Carrera nelle deduzioni inviate all' ufficio dei Gip. Se poi, proprio non si può farne a meno, si chiede almeno di rimandare l'atto «di un paio di mesi, onde consentire che vengano espletate da parte di questo ufficio le attività di indagine». E mentre tutto questo va in scena gli avvocati dei tre indagati commentano - poco - quel che è accaduto. Da Milano il legale del patron della funivia, Pantano parla di «stranezza» riferendosi alla sostituzione del giudice per le indagini preliminari. Il suo collega Marcello Perillo che assiste il caposervizio reo confesso dice: «Non mi era mai successa una cosa del genere, in ogni caso attendo con serenità il riscontro del nuovo giudice alla mia richiesta». Oggi si capirà come va finire.

La decisione a sorpresa del presidente del Tribunale. Strage del Mottarone, tolto il fascicolo al gip garantista Banci Buonamici: la Procura chiede di annullare le scarcerazioni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Il giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici, il magistrato che il 29 maggio scorso aveva rigettato la richiesta di convalida del fermo della procura, scarcerando il titolare delle Ferrovie del Mottarone Luigi Nerini e il direttore d’esercizio, Enrico Perocchio (ai domiciliari era rimasto invece Gabriele Tadini, caposervizio della funivia), non sarà più la titolare del fascicolo di inchiesta sulla strage della funivia Stresa-Mottarone. Il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, ha infatti riassegnato il fascicolo alla gip titolare Elena Ceriotti, togliendolo alla supplente Banci Buonamici. La Ceriotti era assente ‘epoca dei fatti era assente, ma è rientrata nel suo ruolo il 31 maggio. Secondo il tribunale, l’assegnazione a Buonamici era “giustificata per la convalida del fermo”, ma “non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione”. Al suo posto, quindi, si sarebbe dovuto scegliere uno fra gli altri giudici, quattro per l’esattezza, più titolati di lei. Una sostituzione che arriva dopo le incredibili polemiche nate proprio per la scarcerazione disposta dal gip dei tre indagati rigettando la richiesta di convalida del fermo della procura. Una decisione che aveva provocato la reazione ‘piccata’ della procuratrice di Verbania Olimpia Bossi, con la gip costretta a difendersi e a spiegare davanti ai giornalisti che “non c’erano le esigenze cautelari e gravi indizi di colpevolezza per tenere in carcere gli indagati” e che per questo “dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l’Italia è un paese democratico”. Polemiche asprissime e una contrapposizione tra gip e procura che aveva spinto alla solita gogna mediatica ma anche a minacce nei confronti del gip, “colpevole” di aver liberato dei “criminali”. Lo stesso presidente del tribunale di Verbania Montefusco era intervenuto pubblicamente a suo favore. La scelta di togliere il fascicolo al gip ha provocato l’immediata reazione degli avvocati della difesa. “Non si è mai visto un provvedimento del genere. È la prima volta che non per un valido impedimento ma per un problema tabellare sia sostituito un giudice di un procedimento in corso”, ha commentato l’avvocato Marcello Perillo, difensore di Gabriele Tadini, il capo servizio della Funivia del Mottarone e l’unico dei tre fermati ad essere agli arresti domiciliari. Le ripercussioni della scelta del presidente del tribunale di Verbania Montefusco sono praticamente immediate: la Procura di Verbania al più tardi entro domani mattina depositerà il ricorso al Tribunale del Riesame contro l’annullamento dell’ordinanza di rigetto del fermo del gestore della funivia del Mottarone Luigi Nerini e del direttore d’esercizio dell’impianto Enrico Perocchio, entro la scadenza dei termini. Cambia quindi anche la gestione dell’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Tadini e Nerini per stabilire la causa dell’incidente. A giudicare non sarà più Donatella Banci Buonamici ma il gip titolare Elena Ceriotti: contro la richiesta  si è già espressa proprio la procura guidata da Olimpia Bossi, perché se eseguito subito “pregiudicherebbe in modo irreversibile lo svolgimento delle attività di indagine“. Dalla Procura specificano che “dal momento del tragico incidente sono trascorsi solo 11 giorni” e definiscono la richiesta “intempestiva e prematura”. Chiedono quindi l’inammissibilità della richiesta e il rigetto perché “infondata”. Fra le problematiche rilevate rispetto l’incidente probatorio, lo spostamento della cabina che è una “operazione di notevole complessità, tenuto conto del luogo in cui la cabina si trova e della sua mole”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Funivia, sostituita la gip che ha difeso lo Stato di diritto. Il legale: «Provvedimento anomalo». Il giudice Donatella Banci Buonamici che aveva scarcerato due dei tre indagati per la strage del Mottarone esce di scena. Al suo posto il gip «titolare per tabella» Elena Ceriotti. E ora il pm chiede l'annullamento dell'ordinanza. Simona Musco su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Non si occuperà più della tragedia della funivia del Mottarone la gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che nei giorni scorsi ha scarcerato due dei tre indagati, mandando ai domiciliari il terzo. Una decisione presa dal presidente del tribunale Luigi Montefusco proprio nel giorno in cui la giudice avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio relativa alle modalità attraverso cui procedere alle verifiche e alle perizie tecniche sul relitto della cabina e sul cavo spezzato, depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta contro la quale la Procura si è opposta, con l’intenzione di disporre un «accertamento tecnico non ripetibile». La palla, ora, passa al giudice Elena Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. La scelta di Montefusco, secondo le difese, rappresenta una novità assoluta. A far discutere è soprattutto la tempistica: nonostante la gip Ceriotti sia tornata in ballo il 31 maggio, la richiesta di incidente probatorio, presentata tre giorni dopo, è comunque arrivata sulla scrivania di Banci Buonamici, così come la replica della procura. E il cambio di giudice è arrivato proprio nel giorno in cui la giudice si sarebbe dovuta pronunciare. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva però Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». Sarebbe stata lei, dunque, secondo questa consuetudine, il giudice naturale del caso. Ma per il presidente del Tribunale, «tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/gup». Stando al provvedimento, infatti, «in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». E sarebbe impossibile, secondo Montefusco, applicare «la disposizione di cosiddetta prorogatio della competenza del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi, essendo questa dettata, ovviamente, per disciplinare la distribuzione degli affari ed evitare incompatibilità tra i gip titolari del ruolo, e non quando il singolo atto venga adottato da un gip supplente, che non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantegli, fatti salvi giustificati motivi». Rientrata Ceriotti, dunque, il fascicolo può tornare a lei. Il provvedimento arriva dopo le polemiche sulla decisione di Banci Buonamici di non convalidare il fermo della procura, che aveva motivato il pericolo di fuga con la «risonanza mediatica» dell’inchiesta. Così la richiesta avanzata dalla procuratrice Olimpia Bossi di tenere tutti in carcere è stata cassata malamente dalla gip: nessun elemento concreto, infatti, sarebbe stato portato a sostegno del pericolo di fuga, «presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato», mentre non è stato ritenuto valido, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda («è di palese evidenza la totale irrilevanza», al punto da definirlo «suggestivo»). La decisione non era piaciuta alla procuratrice Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si era lasciata andare ad un attimo di amarezza: «Prendevamo insieme il caffè – ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola». E da qui la replica della giudice all’assalto dei giornalisti: «È il sistema, dovreste ringraziare di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia. L’Italia è un Paese democratico». La decisione, ora, rischia di avvelenare ancora di più il clima attorno all’inchiesta. Che ieri ha registrato, da parte della procura, anche la richiesta di «annullamento dell’ordinanza di rigetto» nei confronti del gestore della funivia del Mottarone Luigi Nerini e del direttore d’esercizio dell’impianto Enrico Perocchio, scarcerati da Banci Buonamici il 30 maggio. E le difese hanno subito espresso sconcerto per la decisione di Montefusco. «È un provvedimento anomalo. Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro nonostante tutti riconoscano abbia operato bene», ha commentato Pasquale Pantano, legale di Nerini. Stessa reazione da parte di Perillo, che al Dubbio spiega: «Non è mai successo nulla del genere. I cambi di giudice dipendono, in genere, da motivi di salute o eventuali trasferimenti. Sono molto stranito da questa cosa, ma aspetto con serenità il provvedimento del nuovo giudice». Per Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, «mai viene riassegnato ad altro gip un fascicolo in fase di indagini, salvo in casi di impossibilità a svolgere le funzioni (per esempio: maternità o trasferimento ad altro ufficio). È doppiamente singolare che accada in un piccolo Tribunale in cui il vero problema dovrebbe essere quello di evitare l’incompatibilità tra gip e gup. Non “bruci” due gip perché avresti problemi a trovarne il terzo per celebrare l’udienza preliminare. È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa. Spero che qualcuno all’interno della magistratura e dell’Anm se ne accorga così da tutelare l’indipendenza e la terzietà del giudice».

Strage della funivia, il Consiglio giudiziario: sbagliato sottrarre il fascicolo alla gip. Contestato tutto l'iter di gestione del fascicolo: Banci Buonamici non avrebbe potuto autoassegnarsi il caso. La replica: «Accuse infamanti». Simona Musco su Il Dubbio il 29 giugno 2021. La scelta di togliere il fascicolo della strage della funivia del Mottarone alla gip Donatella Banci Buonamici non è stata corretta. Così come non sarebbe stata corretta l’autoassegnazione del fascicolo da parte della stessa giudice, nonostante tale procedimento fosse una prassi consolidata del Tribunale di Verbania. È questo quello che è emerso dalla riunione del Consiglio giudiziario di Torino, che in due diverse sedute ha affrontato la sostituzione della giudice che ha disposto la scarcerazione degli indagati, suscitando un mare di polemiche. Secondo quanto stabilito a seguito dell’audizione delle persone coinvolte, il Consiglio giudiziario ha inoltrato un parere al Csm, concludendo, di fatto, che tutta la gestione del fascicolo sia stata sopra le righe. Secondo quanto emerso, infatti, il presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco non avrebbe dovuto sottrarre il fascicolo a Banci Buonamici per passarlo alla giudice Elena Ceriotti. Ma anche l’autoassegnazione da parte del giudice Donatella Banci Buonamici del procedimento di convalida del fermo dei tre indagati per la morte delle 14 persone precipitate il 23 maggio scorso sulla funivia del Mottarone non sarebbe stata regolare. La scorsa settimana il Consiglio aveva ascoltato sia la giudice sia il presidente Montefusco. Secondo il consiglio giudiziario, nel riassegnare il fascicolo ad altro gip, Montefusco non avrebbe dovuto rivolgersi alla gip già in precedenza esonerata, ma alla collega in forza al tribunale al momento della convalida del fermo. «La cosa chiara è che il fascicolo non mi poteva essere tolto – ha commentato Banci Buonamici all’AdnKronos -. Che mi si dica che non potevo fare il gip è un’accusa falsa, infamante, lesiva della mia dignità. Certamente deve essere stato male sintetizzato il parere del Consiglio laddove si scrive che “non avrei potuto esercitare le funzioni di gip”», ha aggiunto, sottolineando che «la nostra è una sezione unica, promiscua, dove tutti fanno gip e dibattimento. Ma non solo, io il gip lo sto facendo dal 1 gennaio e l’ho fatto per 13 anni. Ho lavorato in una distrettuale a Milano dove sono stata sotto scorta perché ho fatto terrorismo, mafia, ‘ndrangheta». «Quel fascicolo – ha evidenziato – è arrivato alle 6 di sera, ho autorizzato l’apertura della cancelleria perché era chiusa, non c’era nessuno. Mi sono consultata con il presidente che non c’era, avevo i termini che scadevano sabato alle 18 e d’accordo con il presidente, come ho fatto in altri centinaia di casi, ed è documentato, mi sono, nelle mie facoltà presidenziali, assegnata il procedimento e ho provveduto nei termini su una convalida con due, tre persone che erano da 96 ore in stato di custodia cautelare. Questi sono i fatti – ha concluso -, rispetto il parere ma attendo fiduciosa la valutazione finale degli organi competenti in merito al mio operato del quale peraltro non viene messo in discussione il merito». La decisione di sostituire Banci Buonamici venne presa dal presidente del tribunale Luigi Montefusco proprio nel giorno in cui la giudice avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio relativa alle modalità attraverso cui procedere alle verifiche e alle perizie tecniche sul relitto della cabina e sul cavo spezzato, depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta contro la quale la Procura si è opposta, con l’intenzione di disporre un «accertamento tecnico non ripetibile», ma poi accolta dalla giudice Ceriotti. Sarebbe stata lei, secondo Montefusco, la giudice «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva infatti Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». Sarebbe stata lei, dunque, secondo questa consuetudine, il giudice naturale del caso, così come avallato dallo stesso Montefusco, che sottoscrisse l’autoassegnazione. Ma il 7 giugno lo stesso ha evidenziato, con il provvedimento di sostituzione, che «tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/gup». Stando al provvedimento, infatti, «in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». E sarebbe stato impossibile, secondo Montefusco, applicare «la disposizione di cosiddetta prorogatio della competenza del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi, essendo questa dettata, ovviamente, per disciplinare la distribuzione degli affari ed evitare incompatibilità tra i gip titolari del ruolo, e non quando il singolo atto venga adottato da un gip supplente, che non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantegli, fatti salvi giustificati motivi». Rientrata Ceriotti, dunque, il fascicolo doveva tornare a lei. Al centro della polemica anche l’orario di assegnazione del fascicolo: lo stesso sarebbe stato preso in carico da Banci Buonamici alle ore 17.55 del 27 maggio, ora in cui Palomba, secondo quanto testimoniato da Montefusco, aveva già terminato l’udienza in cui era impegnata. Sul caso è aperto un fascicolo al Csm, mentre si attende l’arrivo degli ispettori inviati dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il caso è solo all’inizio.

Il caso Verbania. Strage della funivia del Mottarone, la rimozione della Gip “decisione non corretta”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Luglio 2021. La decisione del presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco di sostituire il giudice Donatella Banci Buonamici con il giudice Elena Ceriotti, nell’inchiesta sull’incidente del Mottarone, non è stata corretta. Ma allo stesso tempo non è stata corretta neanche l’auto-assegnazione iniziale del fascicolo, in quanto Banci Buonamici non poteva esercitare funzioni da gip. Questo il primo verdetto dell’affaire Verbania: si tratta della decisione emersa dal Consiglio giudiziario presso il Distretto di Corte di Appello di Torino, che invierà ora il suo parere al Csm, dove dovrebbe essere già stata aperta una pratica sulla questione, per valutare se e quali provvedimenti disciplinari prendere, come richiesto dai consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo e dal gruppo dei togati di Magistratura indipendente. L’organismo territoriale di autogoverno dei magistrati piemontesi, a cui hanno diritto di tribuna anche tre avvocati, si è riunito sulla vicenda per la seconda volta, dopo che una settimana fa erano stati ascoltati i protagonisti di questa vicenda, il presidente Montefusco e il gip Banci Buonamici. Secondo quanto emerso, entrambi non avrebbero dunque rispettato le regole di attribuzione dei fascicoli. Né Banci Buonamici, che si era auto-assegnata il fascicolo, né Montefusco, che ha sostituito il gip dopo che quest’ultima aveva disposto la scarcerazione dei tre indagati. A quel punto il fascicolo era stato riassegnato al gip Elena Ceriotti. Altro errore, secondo il Consiglio giudiziario, perché sarebbe dovuto essere assegnato ad Annalisa Palomba, che sin dall’inizio avrebbe dovuto occuparsi del fascicolo sul crollo della cabina della funivia per cui il 23 maggio sono morte quattordici persone. Durante il Consiglio giudiziario ha parlato anche il procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo; ha chiarito, leggendo una comunicazione che ha trasmesso al CSM, che nella mail da lui inviata al presidente del Tribunale di Verbania tre giorni prima che il fascicolo venisse sottratto alla giudice non ha solo chiesto informazioni sull’esistenza e la portata di presunte minacce al gip di Verbania, ma ha anche espresso sconcerto per quanto appreso relativamente allo scontro tra Procura e la gip e ha condiviso l’auspicio che il contrasto potesse rientrare nell’alveo della fisiologia dei rapporti tra gip e pm. «Il fascicolo non mi poteva essere tolto, credo che questo sia pacifico», ha affermato all’Ansa Banci Buonamici, che ha rotto così il silenzio delle ultime settimane per rilasciare quella che ha definito una «dichiarazione in autotutela». Ha poi aggiunto: «È falso e infamante che mi si dica che non potevo fare il gip. Io potevo e dovevo farlo», ha detto, spiegando che quella di Verbania «è una sezione promiscua, non c’è distinzione tra gip e dibattimento, tant’é che al sabato facciamo turno unico». Il magistrato ha poi spiegato la dinamica dei fatti: «Avevo tre persone in custodia cautelare da quasi 48 ore, il fascicolo è arrivato alle 6 di sera, ho deciso di assegnare a me il fascicolo per fare un adempimento assolutamente urgente, il tempo a disposizione era pochissimo» aggiungendo che, quasi a difendere la sua professionalità, «a Milano ho fatto il gip 13 anni, occupandomi di tutto. Ero assolutamente molto qualificata per fare quel fermo. Tutto il resto, su cui ho deposto la scorsa settimana, si vedrà; quello che mi preme è affermare che io potevo e dovevo fare il gip: ero l’unica in ufficio». Ha concluso dicendosi «fiduciosa» che il Csm le renderà giustizia.

Angela Stella

«Ho giudicato 70 fascicoli: eppure mi è stato tolto solo quello della funivia…» ESCLUSIVO, LA GIP GARANTISTA DI VERBANIA PARLA AL “DUBBIO”. Simona Musco su Il Dubbio l'1 luglio 2021. «Da quattro mesi l’ufficio gip/ gup è in sofferenza. Non c’è niente di anomalo nel fatto che io mi sia autoassegnata quel fascicolo, prassi sempre condivisa e mai contestata. In questi mesi sono stati almeno 70 i fascicoli dei quali mi sono occupata con questa modalità, ma l’unico per il quale sono stata contestata è quello della tragedia della funivia». A dirlo, al Dubbio, è Donatella Banci Buonamici, la giudice che il 30 maggio scorso ha deciso di scarcerare due degli indagati per la tragedia e di mandare il terzo ai domiciliari, contestando fortemente le indagini condotte dalla procura di Verbania. Una scelta che fece gridare allo scandalo e alla quale, una settimana dopo, seguì la sostituzione della giudice da parte del presidente del Tribunale Luigi Montefusco, proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. «Mi sono assegnata 70 fascicoli Perché ne contestano solo uno?» «Da quattro mesi l’ufficio gip/ gup è in sofferenza. Non c’è niente di anomalo nel fatto che io mi sia autoassegnata quel fascicolo, prassi sempre condivisa e mai contestata. In questi mesi sono stati almeno 70 i fascicoli dei quali mi sono occupata con questa modalità, ma l’unico per il quale sono stata contestata è quello della tragedia della funivia». A dirlo, al Dubbio, è Donatella Banci Buonamici, la giudice che il 30 maggio scorso ha deciso di scarcerare due degli indagati per la tragedia e di mandare il terzo ai domiciliari. Una scelta che fece gridare allo scandalo e alla quale, una settimana dopo, seguì la sostituzione della giudice da parte del presidente del Tribunale Luigi Montefusco, proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio, depositata il 3 giugno, da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari.

LA SOSTITUZIONE DELLA GIP

Il fascicolo, dunque, è passato alla giudice Elena Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva infatti Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». La scelta, all’epoca, era stata condivisa proprio con Montefusco. Ma la sostituzione ha fatto piombare pesanti sospetti sul tribunale di Verbania, anche a seguito delle indiscrezioni giornalistiche secondo le quali a spingere il presidente a sostituire la gip sarebbe stata una mail del procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, circostanza smentita categoricamente dallo stesso pg. La vicenda, nei giorni scorsi, è finita davanti al Consiglio giudiziario di Torino, che ha trasmesso parere negativo su quella sostituzione. Ma quanto trapelato dalle stanze chiuse dell’assise ha lasciato più di un dubbio. Se, infatti, in un primo momento, Saluzzo aveva sottolineato con forza di essersi interessato esclusivamente alle minacce ricevute da Banci Buonamici, in qualità di titolare delle iniziative in materia di sicurezza personale dei magistrati, nel corso della seduta ha affermato che nella mail inviata a Montefusco avrebbe anche espresso sconcerto per il contrasto tra pm e gip, auspicando un ritorno nell’alveo della fisiologia dei rapporti tra pm e giudice.

UFFICIO IN SOFFERENZA

Il clima a Verbania è teso, dicono gli addetti ai lavori. Ma per chi, come Banci Buonamici, è costretta a fare i conti con i numeri, la tensione è l’ultimo dei problemi. «Se mi trovo con le spalle al muro lo sfondo e trovo un passaggio», dice ironicamente, apparendo completamente distante dalla descrizione di donna «glaciale» attribuitale dalla stampa. In tribunale, spiega la giudice, «la situazione era critica, in quanto con l’esonero della collega ci trovavamo con una scopertura del 50% dei gip. Era evidente che ne dovevamo recuperare un altro. È vero che io ho individuato il secondo gip nella dottoressa Palomba – spiega -, alla quale vanno i miei ringraziamenti, come alle altre colleghe della sezione. Ma lei non è mai stata esonerata un solo giorno dal ruolo dibattimentale ed è evidente che, soprattutto le urgenze gip, devono essere conciliate con la gestione di un pesante ruolo dibattimentale». Negli ultimi quattro mesi, dunque, Banci Buonamici e Beatrice Alesci, altra giudice della sezione, hanno seguito quanti più fascicoli possibile per affiancare Palomba, «che stava lavorando per due persone». Quello della tragedia del Mottarone è arrivato sulla sua scrivania alle 18, ovvero quando Palomba, al termine delle udienze, aveva già lasciato il Tribunale. «Il lunedì successivo sarebbe stata in ferie – spiega Banci Buonamici – e come da prassi, approvata nelle riunioni di sezione e conosciuta dal presidente del Tribunale, quando la collega va in ferie il lunedì i turni del sabato e della domenica vengono assegnati ad altri. Anche in ragione di quello ho dovuto fare i conti con le persone a disposizione: Antonietta Sacco è un mot, e come tale non può svolgere il ruolo di gip, Alesci aveva udienza il giorno successivo, Rosa Maria Fornelli è il gup. Mi sono consultata in diretta con il presidente del Tribunale e ho deciso di assegnare a me il fascicolo». Anche perché Palomba ha un ruolo dibattimentale pesantissimo, fatto di circa 400 sentenze l’anno. «Dal primo di gennaio abbiamo dovuto far fronte a questa situazione, di cui mi sono assunta la responsabilità, assegnandomi la maggior parte del carico di lavoro per sgravare i colleghi, cosa che ho detto al Consiglio giudiziario. È stata la regola per quattro mesi. Avrebbero dovuto protestare il giorno stesso in cui mi sono assegnata quel fascicolo, invece andava bene a tutti – prosegue -. Ci siamo sempre reciprocamente aiutati, ma prima di ora nessuno ha avuto nulla da contestare. C’è un ruolo arretrato dal 2017, ho lavorato per quattro mesi 10 ore al giorno. E nemmeno la procura, a cui le tabelle sono note, ha mai avuto nulla da ridire». Ma non solo: dal provvedimento di non convalida alla contestazione sul suo operato sono passati sette giorni senza che nessuno, tra procura della Repubblica, procura generale, Tribunale e avvocati, protestasse. Chi ha sollevato, dunque, il problema? Quanto riferito da Banci Buonamici in Consiglio giudiziario è secretato e la stessa non vuole scendere nei dettagli. Ma nella mail del pg Saluzzo, letta dal pg in Consiglio giudiziario su richiesta di Banci Buonamici, «vengono espresse critiche sul mio operato», sottolinea. Saluzzo, nel corso di diverse uscite pubbliche, ha più volte evidenziato di non aver alcun potere di intervento sul presidente del Tribunale né alcun interesse a farlo. Ma ciò che sarebbe stato contestato alla gip è l’atteggiamento «duro», tenuto nel corso dell’udienza di convalida nei confronti del pm, comprese le critiche mosse all’impostazione delle indagini. «Nella mail erano contenute segnalazioni di comportamenti asseritamente scorretti che io avrei tenuto in udienza di convalida – sottolinea la giudice -. Comportamenti che io nego categoricamente. La discussione sarà stata anche accesa, ma sono dinamiche processuali davvero molto frequenti. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con la dottoressa Olimpia Bossi (procuratrice di Verbania, ndr), per quattro anni abbiamo collaborato in tranquillità, non avevo alcun pregiudizio. Certamente ero molto critica nei confronti delle indagini, ma l’ho scritto nel mio provvedimento. Se questo non va bene ci sono gli strumenti processuali appositi per contestarlo, ma mi sembra che contro la non convalida non sia stato fatto alcun ricorso in Cassazione. Io 96 ore in carcere non le auguro a nessuno. Prima di fermare una persona ho imparato che ci si deve pensare bene».

IL CONSIGLIO GIUDIZIARIO

A far discutere è anche la scelta di Saluzzo di intervenire e votare nel corso della riunione del Consiglio giudiziario di Torino. E ciò in quanto parte in causa, date le polemiche sul contenuto della sua mail. Secondo l’articolo 15 del regolamento del Consiglio giudiziario di Torino, infatti, «i componenti che dichiarano di astenersi dalla trattazione di un argomento per ragioni di incompatibilità od opportunità non partecipano alla discussione ed alla votazione e devono allontanarsi dalla sala di riunione». Il Consiglio ha espresso parere negativo sulla sostituzione della giudice, ma nel corso della riunione lo stesso pg ha chiesto una rettifica al parere, ottenendo all’unanimità un’integrazione: la legittimità, in capo al presidente del Tribunale, di sostituire la giudice. E se errore c’è stato, secondo Saluzzo, lo stesso starebbe nella scelta della sostituta: la titolare naturale del fascicolo sarebbe stata, infatti, Palomba e non Ceriotti. Ora la palla passa al Csm, mentre a Verbania si attendono ancora i commissari inviati dalla ministra Marta Cartabia. Intanto il presidente della Camera penale, Gabriele Pipicelli, chiede a Saluzzo di rendere pubblica la mail: «Se la missiva è semplicemente quella di cui parla il pg, la metta a disposizione di tutti i giornalisti e chiudiamo la faccenda. Vogliamo solo fare chiarezza».

Funivia del Mottarone, silurata Donatella Banci Buonamici la Gip che aveva scarcerato. Angela Stella su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Non sarà il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato i tre indagati per la tragedia della funivia del Mottarone, a dover decidere sull’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari, ma il giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo”. Lo ha deciso ieri il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. La gip Banci Buonamici, nella sua funzione di “supplente”, ha deciso giustamente sui fermi dei tre indagati per omicidio colposo plurimo – sono 14 le vittime di domenica 23 maggio -, ma non può decidere sull’incidente probatorio «rilevato – si legge nella nota del presidente del tribunale di Verbania – che il 31 maggio 2021 è cessato l’esonero dalle funzioni di gip di Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo». Dunque sulla richiesta di incidente probatorio sulla fune e sul sistema frenante della cabina presentata il 3 giugno scorso dall’avvocato Marcello Perillo, difensore di Tadini, si dovrà esprimere il gip Ceriotti. Proprio Perillo ci dice: «Prendo atto di questa decisione ma registro che non si è mai visto un provvedimento del genere. È la prima volta che non per un valido impedimento ma per un problema tabellare sia sostituito un giudice di un procedimento in corso». Lo stesso pensiero ci viene confermato dall’avvocato Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale: «È singolare il provvedimento del Presidente del Tribunale. Mai viene riassegnato ad altro Gip un fascicolo in fase di indagini, salvo in casi di impossibilità a svolgere le funzioni (per esempio: maternità o trasferimento ad altro ufficio). È doppiamente singolare che accada in un piccolo Tribunale in cui il vero problema dovrebbe essere quello di evitare l’incompatibilità tra gip e gup. Non “bruci” due gip perché avresti problemi a trovarne il terzo per celebrare l’udienza preliminare. È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa». E conclude: «Queste inspiegabili decisioni rischiano di minare la credibilità della magistratura così come percepita dai cittadini. Proprio non ne avevamo bisogno in questo momento storico. Spero che qualcuno all’interno della magistratura e dell’Anm se ne accorga così da tutelare l’indipendenza e la terzietà del Giudice». Si tratta di «provvedimento anomalo» anche per l’avvocato Pasquale Pantano, legale di Luigi Nerini, il titolare della Ferrovia del Mottarone, che aggiunge: «Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro nonostante tutti riconoscano abbia operato bene». Qualche dubbio sorge se pensiamo a quanto accaduto nei giorni precedenti: a seguito delle scarcerazioni decise dal gip Banci Buonamici, secondo la quale il fermo era «stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge» e per questo non poteva essere convalidato, la Procuratrice Olimpia Bossi si era lasciata andare a dichiarazioni sorprendenti come «Prendevamo insieme il caffè (riferita alla gip, ndr), per un po’ lo berrò da sola». Se la pm si era sentita quasi offesa dal tradimento della collega, quest’ultima invece con determinazione aveva replicato ai cronisti: «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente. È il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici. Perché non siete felici? L’Italia è un Paese democratico». Per il Tribunale di Verbania invece tutto regolare, nessuno scandalo. Sotto la lente del presidente del tribunale è finita proprio la decisione della Banci Buonamici di autoassegnarsi il fascicolo sull’incidente della funivia del Mottarone che doveva essere assegnato al giudice Annalisa Palomba «impegnata in udienza dibattimentale», come emerge in un documento a firma Banci Buonamici. Se l’udienza di convalida non è in discussione, il presidente del tribunale ha ricordato che il gip supplente «non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantigli». Rientrato il giudice titolare ora è tutto nelle mani di Elena Ceriotti, e sarà lei a decidere sull’incidente probatorio e su eventuali altre questioni. Il provvedimento di esonero, su richiesta del presidente del tribunale di Verbania, viene trasmesso alle parti interessate e «per le valutazioni di competenza al consiglio giudiziario presso la corte d’appello di Torino», oltre che al presidente della corte d’appello e al procuratore generale sempre di Torino. Intanto la Procura della Repubblica di Verbania ha chiesto al Tribunale del Riesame di annullare il provvedimento con cui il gip Donatella Banci Buonamici lo scorso 29 maggio aveva rigettato la richiesta di misura cautelare per Luigi Nerini, il titolare della Ferrovia del Mottarone, e per Enrico Perocchio, l’ingegnere direttore di esercizio. Angela Stella

Funivia Stresa Mottarone, vincono forca e piazza. Quel terribile sospetto sulla cacciata della gip: il solito vizio italiano? Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. “Chi vince, la legge o la piazza? A quanto pare, neanche la strage del Mottarone avrà un destino giudiziario lineare”. Lo scrive Il Giornale in relazione agli ultimi sviluppi che hanno destato grande clamore: la gip Donatella Banci Buonamici, che con un provvedimento garantista aveva giustamente scarcerato i tre indagati per mancanza di esigenze cautelari, è stata privata del fascicolo, che è stato assegnato a una collega, Elena Ceriotti, che la stessa Buonamici aveva sospeso per i gravi ritardi nello smaltimento dei carichi di lavoro. E guarda caso come le carte sono passate di mano la Procura è tornata all’assalto, richiedendo immediatamente l’annullamento dell’ordinanza di rigetto nei confronti di Nerini e Perocchio. Il loro, insieme a quello di Tadini, era un arresto eseguito fuori dai casi previsti dalla legge e quindi non poteva essere convalidato: lo aveva scritto la gip il 30 maggio. Poi però la Buonamici è stata “silurata” dal presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. Una decisione inappuntabile dal punto di vista formale, dato che la Buonamici, che è presidente di sezione e coordinatrice dell’area penale, si era occupata del fermo dei tre indagati in quanto esercitava la funzione di ‘supplente’: non vale la norma secondo cui la competenza resta del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi. “Cosa devono pensare i tre indagati riguardo alle garanzie di un’indagine nella quale viene sostituito all’improvviso l'arbitro? Cosa ne è della terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero, che con l’esclusione della Buonamici incassa un clamoroso punto a favore, tanto da chiedere l’annullamento della sua ordinanza?”, sono gli interrogativi posti da Il Giornale. Secondo cui questa “guerra tra toghe” che si sta consumando a Verbania “mette in gioco la civiltà giuridica del paese”. 

Gip rimossa, scoppia la protesta dei penalisti: “Fatto senza precedenti”. Angela Stella su Il Riformista il 9 Giugno 2021. «Riparta da Verbania la battaglia politica per l’approvazione della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, firmata da 75mila cittadini e pendente in Parlamento». Questo il senso della delibera della giunta dell’Unione delle Camere Penali approvata ieri a seguito della revoca del fascicolo al giudice Banci Buonamici, che aveva scarcerato (due a piede libero, uno ai domiciliari) i tre indagati per la tragedia della funivia del Mottarone. Ora è tutto in mano al giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo”, come deciso dal presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. La vicenda ha messo in agitazione i penalisti a livello locale e nazionale che, fatta chiarezza sull’accaduto, hanno deciso di mobilitarsi in massa. La Camera Penale di Verbania ha proclamato infatti per il 22 giugno lo stato di agitazione e un giorno di astensione dall’attività di udienza e giudiziaria. «Il solo sospetto che la riassegnazione del fascicolo possa essere conseguenza di insistenze provenienti da una parte del procedimento costituisce un inaccettabile vulnus alla serenità della giurisdizione, di cui deve essere espressione l’assoluta indipendenza del giudice», scrive il presidente della Camera Penale, Gabriele Pipicelli, che chiede un «immediato approfondimento di Csm e Ministero della Giustizia». E aggiunge importanti dettagli riguardo la riassegnazione: «ad oggi non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati». Inoltre, «al momento della “sospensione” dalle funzioni di Gip della dottoressa Ceriotti» per smaltire dell’arretrato «era stato condiviso con la Camera penale di Verbania il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati alla Ceriotti li portasse a conclusione». E allora perché togliere quello sulla tragedia del Mottarone alla Banci Buonamici? Per ora quest’ultima non parla, aggiunge solo che «parlerò nelle sedi istituzionali». Ad aderire all’astensione dei penalisti di Verbania saranno tutte le Camere penali del Piemonte che in una nota fanno notare «che mai si è visto il Presidente di un Tribunale riassegnare il procedimento al GIP che avrebbe dovuto averlo in carico secondo un’originaria tabella disattesa per un legittimo impedimento dello stesso giudice; e che, come sempre accade, il GIP dell’udienza di convalida del fermo o dell’arresto continua ad esercitare le stesse funzioni fino alla conclusione delle indagini preliminari». La giudice Donatella Banci Buonamici si era autoassegnata l’udienza di convalida dei fermi nell’inchiesta sulla sciagura del Mottarone ma dopo aver «sentito il Presidente del Tribunale», come leggiamo nel provvedimento che abbiamo avuto modo di visionare. Dato tutto questo quadro, a sostenere l’iniziativa degli avvocati piemontesi c’è l’Ucpi che ha diramato un durissimo comunicato: «Il Re, dunque, è nudo, e se in questo Paese fosse ancora necessario avere conferma della improcrastinabile necessità di operare, da subito, per una riforma costituzionale che separi le carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, la clamorosa vicenda di Verbania ha assolto definitivamente questo compito». Mentre infatti, prosegue la giunta presieduta dall’avvocato Gian Domenico Caiazza, «risulta da nessuno smentita la notizia, ripetutamente diffusa dai media pubblici e privati, di un diretto intervento del Procuratore Generale di Torino sul Presidente del Tribunale di Verbania per la rimozione da quella inchiesta di un Giudice coraggiosamente indipendente dall’Ufficio di Procura come la dott.ssa Banci Buonamici, siamo assolutamente persuasi che, in ogni caso, quella notizia sia purtroppo straordinariamente verosimile». In conclusione «un Paese nel quale può accadere ciò che accade a Verbania, e cioè che un Giudice che adotta decisioni sgradite all’Accusa venga bruscamente eliminato dallo scenario processuale, è un Paese che calpesta la Costituzione, con una protervia ed un sentimento di impunità che lascia sbalorditi. Invitiamo il Governo, la Ministra Cartabia e tutti i Parlamentari che abbiano a cuore i valori costituzionali del giusto processo, ad acquisire definitiva consapevolezza di questa allarmante emergenza, e dunque a rilanciare il percorso della proposta di legge di iniziativa popolare dell’UCPI, firmata da 75mila cittadini e attualmente ferma avanti la Commissione Affari Costituzionali della Camera. Quella è la strada maestra, senza -occorre dirlo con molta chiarezza- illusorie scorciatoie referendarie». Sul fronte politico, quello che in primis dovrebbe smuovere le acque per discutere in Parlamento della proposta di legge dell’Ucpi, tutto tace. Fa eccezione il deputato e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin che ha presentato «un’interrogazione al ministro della Giustizia per chiedere di disporre un’ispezione ministeriale finalizzata a verificare la legittimità del provvedimento con il quale il Presidente del Tribunale di Verbania ha disposto questo inconsueto avvicendamento dei Gip». Sarcastico invece il commento dell’onorevole di Azione Enrico Costa: «Alla Gip di Verbania che ha osato rigettare le richieste del PM è stato tolto il fascicolo d’inchiesta. Bisogna rispettare il “ruolo”, è la spiegazione offerta. Il “ruolo” del Gip è infatti – statisticamente- quello di mero esecutore delle richieste dei PM». Angela Stella

Dopo la sostituzione del Gip del caso Mottarone. Funivia del Mottarone, i penalisti napoletani in campo: “Non trionfi il giustizialismo”. Francesca Sabella su Il Riformista il 10 Giugno 2021. «La Camera Penale di Napoli, nell’accogliere con convinzione l’invito rivolto dall’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) esprime incondizionato sostegno ai penalisti di Verbania e del Piemonte Occidentale che hanno proclamato l’astensione dalle udienze a seguito dell’inopinata decisione del presidente del Tribunale di Verbania di revocare l’assegnazione del fascicolo relativo alla tragedia della funivia Mottarone alla dottoressa Banci Buonamici». I penalisti napoletani si schierano dopo gli ultimi sviluppi della tragica vicenda della funivia piemontese: al gip che aveva chiesto la scarcerazione per due dei tre indagati è stato tolto il fascicolo, poi affidato a un altro che ha subito chiesto l’annullamento di quel provvedimento. Il giudice ha solo applicato la legge, ma evidentemente, in Italia, ciò non è abbastanza e la rabbia dell’opinione pubblica giustizialista conta più della Costituzione. «La vicenda di Verbania costituisce l’ennesima riprova della necessità di procedere alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante – si legge nella nota ufficiale della Camera Penale di Napoli – È infatti evidente che la magistratura giudicante debole, impaurita e talvolta poco consapevole del fondamentale ruolo a essa demandato non è in grado di sottrarsi alle enormi pressioni provenienti dalle Procure (e dai mondi che le ruotano attorno, in primis l’informazione) e stia progressivamente smarrendo quei caratteri di terzietà e imparzialità che costituiscono l’essenza (e ancor prima la legittimazione) del giudicare». E questo rappresenta un pericolo gravissimo a Verbania come a Napoli: in gioco c’è la tenuta democratica del Paese.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

L'inchiesta su Mottarone. Funivia caduta, Di Matteo e Ardita pressano il Csm sulla gip rimossa: “Subito un’inchiesta”. Angela Stella su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Arriva al Consiglio Superiore della Magistratura il caso della sostituzione in corso d’opera del giudice Donatella Banci Buonamici che si stava occupando dell’inchiesta sul Mottarone. I consiglieri togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo hanno chiesto infatti al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica: «Apprendiamo dalla stampa che nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Verbania e nel cui ambito sono stati resi provvedimenti sulla libertà personale, il giudice costituito nella funzione di GIP sarebbe stato sostituito in corso di procedimento con provvedimento del presidente del Tribunale. Chiediamo che della questione venga investita con immediatezza la commissione competente e subito dopo l’assemblea plenaria affinchè si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». Occorre agire subito per evitare che, tra sei mesi ad esempio, il Csm decida di intraprendere eventuali azioni disciplinari quando l’inchiesta è andata ormai avanti con un giudice che in teoria non se ne sarebbe dovuto occupare per una decisione errata del Presidente del Tribunale. Dunque, due pubblici ministeri stanno ricordando che nella cultura della giurisdizione liberale di un Paese democratico ciò che è intoccabile è il giudizio del giudice e un pm non può divenire l’elemento dominante dell’attività investigativa. Per questo la necessità di fare chiarezza, soprattutto in questo momento di grave crisi di credibilità della magistratura, sul provvedimento del Presidente del Tribunale di Verbania. Anche alla luce di quanto denunciato dai penalisti per i quali «al momento della “sospensione” dalle funzioni di Gip della dottoressa Ceriotti» per smaltire dell’arretrato «era stato condiviso con la Camera penale di Verbania il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati alla Ceriotti li portasse a conclusione». Così la preoccupazione sollevata dall’avvocatura, in particolare dall’Unione delle Camere Penali, che pure aveva richiesto un intervento del Csm e del Ministero della Giustizia tramite il presidente dei penalisti di Verbania Gabriele Pipicelli, sembra essere condivisa anche da parte della magistratura che intende fare luce su una vicenda apparentemente regolare dal punto di vista procedurale ma alquanto singolare, considerato che, come denunciato dalle Camere penali, una tale gestione di un fascicolo non avrebbe precedenti. Anche i togati di Magistratura indipendente – Loredana Micciché, Paola Maria Braggion, Antonio d’Amato e Maria Tiziana Balduini – si sono associati alle richieste di Ardita e Di Matteo chiedendo «che la commissione competente venga investita con urgenza della questione relativa alla correttezza della decisione adottata dal presidente del tribunale di Verbania incidente sui fondamentali principi di precostituzione del giudice». Strage del Mottarone, tolto il fascicolo al gip garantista Banci Buonamici: la Procura chiede di annullare le scarcerazioni

Intanto arriva la secca smentita del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, alle ipotesi secondo cui avrebbe esercitato pressioni o interferenze per ottenere dal presidente del tribunale di Verbania la sostituzione del Gip assegnatario del fascicolo sul disastro della funivia del Mottarone: «Non ho alcun titolo per intervenire sugli uffici giudicanti, non ho la competenza e la attribuzione ordinamentale (che spetta al presidente della Corte d’Appello) e mantengo un ‘sacro’ rispetto nei confronti della magistratura giudicante e dei suoi appartenenti», pertanto «trovo gravemente offensivo (per non dire oltraggioso) ipotizzare che io o il procuratore della Repubblica (un magistrato tra i più corretti che io abbia conosciuto) abbiamo posto in essere ‘manovre’ occulte (poiché altro non potrebbero essere) per ottenere un risultato illecito. E per cosa? Perché un giudice ha seguito una ricostruzione ed una valutazione diversa rispetto a quella del pubblico ministero? Come se non accadesse ogni giorno nella normale dialettica delle parti nel processo. Sono previsti rimedi processuali appositi e ad essi già fatto ricorso il procuratore della Repubblica di Verbania». Ha proseguito sottolineando che «gli autori di queste affermazioni, false e ridicole, se ne assumeranno la responsabilità», aggiungendo, poi, altri due elementi. Il primo: «la decisione del presidente del Tribunale (che ho letto quando mi è stata recapitata perché il mio ufficio è in indirizzo) riguarda dinamiche interne a quell’ufficio giudicante e la sua aderenza alla organizzazione tabellare (cioè, predeterminata e rigida per dare attuazione ai principi costituzionali del "giudice naturale" e "precostituito") sarà valutata dal Consiglio giudiziario e dal Consiglio superiore della Magistratura». La seconda: di aver indirizzato una nota scritta al presidente del Tribunale «per avere informazioni in ordine all’esistenza, alla portata e allo ‘spessore’ delle asserite minacce o intimidazioni che sarebbero state rivolte alla dottoressa Banci Bonamici». «Essendo l’unico ed esclusivo titolare – conclude Saluzzo – delle iniziative in materia di sicurezza personale dei magistrati e delle sedi giudiziarie ho chiesto al presidente del Tribunale di Verbania di relazionare sul punto, al fine di mettermi in condizioni di fare, eventualmente, le mie richieste e le mie proposte al competente organismo della prefettura». Angela Stella

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 10 giugno 2021. Si riunirà oggi il Comitato di presidenza del Csm e con ogni probabilità affiderà alla settima commissione l'esame sul caso Verbania. Ossia la decisione del presidente del Tribunale di assegnare a un altro gip, rispetto a quello che non aveva convalidato i fermi, la competenza sulla tragedia del Mottarone. La commissione aprirà una pratica e dovrà pronunciarsi su quello che in gergo si chiama provvedimento tabellare ossia il cambiamento del giudice competente. La decisione del presidente del Tribunale potrebbe anche essere annullata. L'ultima parola spetterà comunque al plenum. A sollevare la questione sono stati i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, ai quali si sono poi uniti tutti i togati del gruppo di Magistratura indipendente. I magistrati, dopo le polemiche sulla scelta del presidente del Tribunale, hanno chiesto con urgenza l'apertura di una pratica per verificare la correttezza della decisione di sostituire in corsa il giudice che si stava occupando dell'inchiesta. E così Palazzo dei Marescialli gioca d'anticipo e in senso opposto rispetto al presidente del Tribunale Luigi Montefusco, che aveva messo sotto accusa il presidente del gip, mandando al consiglio giudiziario l'ordinanza che le toglieva il caso. Investire «con immediatezza la commissione competente e subito - si legge - dopo l'assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». Alla richiesta, formulata al comitato di presidenza del Csm da Ardita e Di Matteo, si sono associati i consiglieri Loredana Micciché, Paola Maria Braggion, Antonio d'Amato e Maria Tiziana Balduini. Il caso è scoppiato lunedì scorso, quando Luigi Montefusco, presidente del Tribunale di Verbania, ha riassegnato il fascicolo sull'incidente della funivia, nel quale hanno perso la vita 14 persone, al gip Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo, rientrata in servizio il 31 maggio dopo la cessazione dell'esonero dalle funzioni. Il procedimento era intanto stato assunto dal presidente dell'ufficio gip, Donatella Banci Buonamici, come supplente per la convalida del fermo, che aveva disposto la scarcerazione di Luigi Nerini, ed Enrico Perocchio, disponendo i domiciliari per Gabriele Tadini. L'ordinanza, della quale ora si occuperà il Csm, ha suscitato molte polemiche e il sospetto negli avvocati che sia stata indotta dalle pressioni del procuratore Olimpia Bossi, che intanto ha impugnato davanti al Riesame la mancata convalida del fermo. Montefusco ha trasmesso la sua ordinanza con i rilievi a Banci Buonamici anche Presidente della Corte d'Appello, al Procuratore Generale e al Consiglio giudiziario di Torino, che formula i pareri sull'attività delle toghe, alla Procura e all'Ordine degli avvocati di Verbania. «Il giudice assegnatario del procedimento - si legge - si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via gradata tra gli altri giudici dell'ufficio, escludendo il presidente Donatella Banci Buonamici». E ancora: «Tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei magistrati dell'ufficio gip-gup». Così se Montefusco aveva investito il consiglio giudiziario per «le valutazioni di competenza» nei confronti del capo dei gip, con l'ipotesi di trasmettere la questione al Csm, il Consiglio adesso potrebbe mettere sotto accusa proprio il presidente del Tribunale e annullare il provvedimento. Gli avvocati, intanto, stanno valutando se chiedere lo spostamento dell'inchiesta in un'altra sede per «legittima suspicione». Mentre la Camera penale di Verbania ha proclamato una giornata di astensione dalle udienze (il 22 giugno) alla quale si sono associati anche gli avvocati di Torino, Alessandria, Novara e Vercelli.

Tragedia del Mottarone, alla gip “titolare” torna solo il fascicolo funivia. Dopo la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, rimpiazzata in corsa dal presidente del Tribunale di Verbania, i penalisti decidono di agire proclamando una giornata di astensione. Simona Musco su Il Dubbio il 9 giugno 2021. Il clima a Verbania è incandescente. E dopo la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, rimpiazzata in corsa dal presidente del Tribunale Luigi Montefusco con la collega Elena Ceriotti nel caso della strage della funivia di Stresa-Mottarone, ora i penalisti decidono di agire, indicendo una giornata di astensione, prevista per il 22 giugno. Il dubbio, infatti, è che la gestione della vicenda rischi di minare la «serenità della giurisdizione», a causa di tutta una serie di elementi ancora poco chiari. Anche a causa del «presunto interessamento da parte della procura generale di Torino per verificare l’assegnazione del fascicolo», affermano i penalisti. La vicenda, dunque, da fatto giudiziario è diventato un vero e proprio caso. Condito dal circo mediatico che ha caratterizzato l’indagine sin dall’inizio e dalla querelle tra procura e gip in sede di udienza di convalida del fermo, quando la giudice ha cassato il provvedimento della procuratrice Olimpia Bossi bollando come «totalmente irrilevante» la ragione posta alla base del fermo: il «clamore internazionale» della vicenda. «Non ho niente da dire – ha commentato laconicamente Banci Buonamici -. Parlerò nelle sedi istituzionali». Montefusco, lunedì, ha inviato tutto il provvedimento, compreso il precedente decreto di esonero di Ceriotti, al Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Torino e alla procura generale. Il presidente ha sottratto il fascicolo alla giudice proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta alla quale si era opposta la procuratrice Bossi ma che, secondo indiscrezioni, la stessa gip aveva accolto, salvo vedersi rifiutare l’accettazione del provvedimento dalla cancelleria. Per Montefusco a dover gestire il fascicolo sarebbe Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Dopo quella data, la stessa era rimasta però fuori gioco, avendo chiesto un congedo ordinario conclusosi solo il 7 giugno, ovvero il giorno in cui Montefusco le ha attribuito il fascicolo. La richiesta di incidente probatorio, dunque, era finita in mano a Banci Buonamici, così come la replica della procura. L’errore, secondo il presidente del Tribunale, starebbe a monte: «In base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». L’erede naturale sarebbe stata, dunque, Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». Ed in casi del genere, scriveva Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente», così come stabilito assieme allo stesso Montefusco. «Il primo di febbraio – ha spiegato la giudice ad Azzurra Tv – ho esonerato la dottoressa Ceriotti e ho disposto che tutti i procedimenti venissero assegnati alla dottoressa Palomba, indicando me come sostituta in caso di suo impedimento. Quando è arrivato il fascicolo per la convalida, la dottoressa era impegnata nelle funzioni del Tribunale e l’ho sostituita. Un provvedimento avallato dal presidente del tribunale, controfirmato, già fatto per centinaia di processi». Una scelta, dunque, che sembra «contraddire le stesse determinazioni prese dalla presidente di sezione in uno con il presidente del Tribunale al momento dell’assegnazione del fascicolo e non contribuisce, per toni e contenuto, a definire con adeguata trasparenza la vicenda», secondo i penalisti di Verbania, guidati da Gabriele Pipicelli. Ma non solo: al momento della sospensione dalle funzioni di gip di Ceriotti, «era stato condiviso con la Camera penale il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati» alla stessa «li portasse a conclusione». Tant’è che in nessun altro caso è stato preso un provvedimento simile a quello destinato a Banci Buonamici: «Ad oggi – affermano i penalisti – non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati e nel provvedimento del presidente del Tribunale non vi è menzione alcuna in merito». Un unicum, dunque, che secondo gli avvocati merita un approfondimento anche da parte del Csm e del ministero della Giustizia, per scacciare qualsiasi dubbio su possibili «insistenze provenienti da una parte del procedimento», situazione che rischierebbe di portare ad un’incompatibilità ambientale. Alla giornata di astensione organizzata dai penalisti di Verbania hanno aderito anche i colleghi di Novara, Piemonte occidentale e Valle d’Aosta, Vercelli e Alessandria, evidenziando rischi «di tenuta del sistema processuale» e lamentando «seri problemi di indipendenza, imparzialità e terzietà del giudice nei confronti della procura della Repubblica, requisiti imprescindibili che devono essere garantiti dal sistema processuale nella loro effettività e persino nella loro formalità, così come viene percepita all’esterno, e non affidati all’attitudine personale del singolo magistrato». Sulla vicenda ha chiesto chiarezza anche il deputato e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin, che ha annunciato un’interrogazione alla ministra «per chiedere di disporre un’ispezione ministeriale finalizzata a verificare la legittimità del provvedimento». Ma c’è di più: subito dopo aver deciso di rimettere in libertà due dei tre indagati e di mandare il terzo ai domiciliari, Banci Buonamici è stata vittima di minacce e insulti online, attacchi ora oggetto di attenzione da parte della Procura generale della Corte d’Appello di Torino. L’iniziativa sarebbe finalizzata a valutare l’opportunità di stabilire misure di vigilanza a tutela della giudice. Minacce alle quali era stato lo stesso Montefusco a replicare, in difesa della collega. «Piena e convinta solidarietà per l’esemplare e doveroso impegno profuso in un atto d’ufficio al solo scopo di accertare la verità», aveva dichiarato, condannando la «gogna mediatica» subita dal gip.

S. Dim. per “La Verità” l'11 giugno 2021. Ha assunto ormai i contorni della polemica (politica) giudiziaria il provvedimento di sostituzione del giudice delle indagini preliminari che dovrà occuparsi della strage del Mottarone. Nei giorni scorsi, al posto del gip Donatella Banci Buonamici, è arrivata infatti, su disposizione del presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, la collega Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo, rientrata in servizio il 31 maggio scorso - quindi otto giorni dopo il crollo della funivia, costato la vita a 14 persone - cessato l'esonero dalle funzioni. Un cambio in corsa irrituale, secondo diversi osservatori, dietro cui potrebbero celarsi guerre di potere sotterranee nel mondo della magistratura. Ieri, il comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura (composto dal vicepresidente David Ermini e dai vertici della Cassazione) ha deciso di aprire una pratica di «indagine» sul cambio accogliendo così le richieste dei consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, cui si è nel frattempo aggregato l'intero gruppo di Magistratura indipendente. Si tratta di un atto ispettivo che dovrà valutare la correttezza della decisione del presidente del Tribunale di Verbania anche e soprattutto alla luce delle indiscrezioni di stampa (respinte dai diretti interessati) riguardo a possibili pressioni esercitate dalla Procura per agevolare l'avvicendamento del gip Banci Buonamici, protagonista della clamorosa scarcerazione di due dei tre indagati (Luigi Nerini ed Enrico Perocchio) e l'applicazione degli arresti domiciliari, cui tuttora si trova, del terzo soggetto sott'inchiesta, Gabriele Tadini. Una sostituzione, insomma, da qualcuno interpretata come una sorta di «punizione» per le posizioni garantiste del primo giudice che avrebbero fatto crollare l'impostazione accusatoria dell'ufficio inquirente, particolarmente esposto dal punto di vista mediatico - in queste settimane - per la soluzione del caso. E non è forse un caso che il mondo giornalistico sia il campo di battaglia sui cui si sta combattendo il conflitto attorno ai due gip. La stessa richiesta di intervento, firmata da Ardita e Di Matteo, faceva esplicito riferimento alle notizie apprese dai quotidiani. Un classico cortocircuito tra informazione e giustizia. «Apprendiamo dalla stampa che nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Verbania e nel cui ambito sono stati resi provvedimenti sulla libertà personale, il giudice costituito nella funzione di gip sarebbe stato sostituito in corso di procedimento con provvedimento del presidente del Tribunale», avevano scritto i togati. «Chiediamo che della questione venga investita con immediatezza la commissione competente e subito dopo l'assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». E la commissione competente (la settima), come detto, se ne occuperà nei prossimi giorni. Per il 14 giugno, invece, la Procura di Verbania ha convocato le difese degli indagati e le parti lese (i familiari delle vittime e la zia del piccolo Eitan, il bambino di cinque anni tornato proprio ieri a casa) per il conferimento dell'incarico al perito - con contestuale nomina dei consulenti tecnici di parte - che dovrà effettuare «accertamenti tecnici irripetibili» su alcuni cellulari e sui pc sequestrati. In particolare, dovranno essere esaminati hard disk, chiavette usb, schede sd, disk drive e un registratore portatile Sony.

Funivia Stresa Mottarone, la gip cacciata? Interviene il Csm: cosa c'è dietro davvero alla guerra in magistratura. In che mani siamo...Alfredo Mantovano su Libero Quotidiano il 12 giugno 2021. Davanti a una tragedia che ha stroncato 14 vite è il caso di impegnare tempo e fatica in una questione in apparenza soltanto tecnica, quella dell'individuazione del Gip chiamato a seguire le indagini? È giusto che anche il Csm se ne interessi, come accade in queste ore? È che in un ordinamento che voglia definirsi civile le regole non sono un optional: se si va oltre la superficie, ciò che sembra formalismo è invece sostanza. In sintesi. Quando all'ufficio Gip del Tribunale di Verbania arriva il fascicolo per la strage del Mottarone, col fermo dei primi tre indagati, il magistrato che ne avrebbe la titolarità, la d.ssa Ceriotti, è stata già da febbraio, e fino al 31 maggio, esonerata dalle assegnazioni per via di un consistente arretrato da smaltire. Il giudice che dovrebbe sostituirla è impegnata in dibattimento, e per questo la presidente della sezione Gip d.ssa Banci Buonamici se lo autoassegna, con un decreto a propria firma, "sentito il presidente del Tribunale". Nel merito, come è noto, decide di non convalidare due fermi su tre, e pone ai domiciliari il terzo indagato, con seguito di polemiche e con annuncio di ricorso al riesame da parte della Procura. Il 3 giugno alcune difese depositano la richiesta di incidente probatorio: dovrebbe provvedere la stessa Gip che ha deciso sui fermi, e invece il 7 giugno il presidente del Tribunale riassegna il fascicolo alla d.ssa Ceriotti, motivando che il 31 maggio è terminato il periodo del suo esonero. Questo pasticcio verbano fa sorgere domande, che richiedono risposte celeri: al Gip esonerato per quattro mesi dalle nuove assegnazioni sono stati restituiti tutti i fascicoli che avrebbe dovuto ricevere nel quadrimestre? Dal decreto del 7 giugno parrebbe di no, perché ha riavuto in carico solo la vicenda della funivia: se così fosse, però, cadrebbe il passaggio saliente della motivazione (peraltro è prassi di tutti i Tribunali d'Italia che chi convalida i fermi o gli arresti poi resti titolare del procedimento). Quanto ha inciso l'intensa interlocuzione mediatica della Procuratrice della Repubblica? Quanto ha pesato l'imminenza della decisione sull'incidente probatorio, su cui la stessa Procura si è affrettata ad annunciare la propria contrarietà? Quanto ha influito lo sconcerto di (presunti) colpevoli scarcerati a poche ore dall'arresto? È solo una faccenda di forme e di cavilli? Proprio no! La Costituzione, all'art. 25, vieta di essere distolti dal "giudice naturale precostituito per legge": all'individuazione del "giudice naturale" provvedono le c.d. tabelle, cioè atti dei capi degli uffici giudiziari, resi pubblici a tutti, a cominciare dagli ordini degli avvocati, che stabiliscono con largo anticipo i criteri di assegnazione dei fascicoli. Lo scopo è che il giudice non venga scelto in relazione al singolo affare da trattare, ma che vi sia una preordinazione oggettiva. È una esigenza oggi ancora più fondata di quando furono approvati la Costituzione e il codice di procedura penale: la storia giudiziaria degli ultimi decenni ha conosciuto casi delicatissimi di individuazioni controverse di chi è stato chiamato a giudicare, sui quali la Cedu è più volte e anche di recente - intervenuta. Nel momento in cui, grazie a una parte della magistratura e all'assenza di riforme significative su di essa, non è infrequente che un imputato si chieda a quale corrente appartenga chi dovrà vagliare le accuse mosse nei suoi confronti, non è formalismo avere certezza su criteri predeterminati di assegnazione dei processi. Senza dire che la trattazione di un procedimento da parte di un giudice che per tabella non avrebbe dovuto seguirlo potrebbe provocare la nullità di tutti gli atti da lui compiuti. Quel che 14 vittime e i loro familiari attendono, insieme con una comunità nazionale fortemente colpita, è che i magistrati titolati del procedimento ricostruiscano il fatto e accertino le responsabilità. L'ultima cosa di cui hanno bisogno è che si giunga a un certo punto, e poi il processo retroceda al punto di partenza. La giustizia non è il gioco dell'oca.

Il caso Verbania. Strage del Mottarone, cosi il Pg di Torino ha intimidito il presidente del tribunale per far rimuovere la gip garantista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Le inchieste giudiziarie, di norma, hanno tre protagonisti: l’accusa, la difesa e il Gip (che è il giudice delle indagini preliminari). Il Gip dovrebbe essere imparziale, terzo, e cioè dovrebbe evitare che una delle due parti in conflitto soverchi l’altra aggirando le norme e le leggi. Domanda: che succede se il capo degli accusatori impone al capo dei giudici di sostituire un Gip perché sta sì rispettando la legge ma senza accogliere i desideri dell’accusa? Succede che la giustizia scompare. Diventa inquisizione. È vero che nella realtà della giustizia vissuta, quasi sempre il Gip esegue gli ordini del Pm. Che è un suo collega e spesso un suo amico. Raramente è davvero terzo. Ed è per questo che si chiede la separazione delle carriere: per dividerli. Però una cosa è l’usanza, degenerata, una cosa diversa è la spavalderia di una pressione esercitata in modo diretto e prepotente proprio contro uno dei pochi Gip che si è mostrato seriamente terzo. A Verbania, nonostante le smentite del procuratore generale di Torino, è successo esattamente questo. Una Gip era entrata in contrasto con il Pm, il Pm ha protestato, il Procuratore generale (cioè il capo dei Pm di tutto il Piemonte) si è scagliato contro la Gip sgradita e ha quantomeno “suggerito” al presidente del Tribunale di sostituirla, Il presidente del Tribunale ha eseguito e la Gip, troppo rispettosa delle leggi, è stata rimossa. La vicenda la conoscete tutti, è quella dell’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa, crollata nella valle con 15 persone a bordo, delle quali 14 sono morte. Cioè tutte tranne un bambinetto. È partita l’inchiesta, sotto una incredibile pressione popolare e di mass media: “prendete i responsabili, incarcerateli, puniteli in modo esemplare”, è stato il grido unanime. Tre persone sono state arrestate ma la Gip ha osservato che non c’erano i requisiti minimi che consentono l’arresto. Per almeno due di loro. Uno l’ha mandato libero, l’altro ai domiciliari. A questo punto si è scatenato l’inferno ed è intervenuto il Procuratore generale. Il quale nei giorni scorsi ha negato di avere chiesto la rimozione della Gip e ha sostenuto di essersi solo preoccupato della incolumità della giudice. Però il 22 giugno si è riunito il Consiglio Giudiziario del Piemonte (che è l’organo regionale di autogoverno dei magistrati, una specie di Csm territoriale), ha interrogato la Gip rimossa, Donatella Banci Buonamici, e ha esaminato le carte a disposizione. È saltata fuori la mail inviata dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, al presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, ed è una mail che inguaia il Pg. Risulta che quello che lui ha dichiarato quando si è diffusa la voce di un suo intervento non era la verità. Nella mail ci sono accuse pesanti verso la dottoressa Banci Buonamici, e la mail risulta palesemente come un pressante consiglio di sostituirla. Cosa che poi è avvenuta. Il presidente del Tribunale di Verbania, Montefusco, in realtà in un primo tempo aveva lodato il comportamento rigorosissimo della Gip. Poi aveva cambiato atteggiamento. Aveva chiamato la Gip per chiederle di trovare un modo per non concedere l’incidente probatorio chiesto dalla difesa, e poi in varie occasioni aveva fatto notare alla Gip che la sua carriera sarebbe stata danneggiata se si fosse messa di traverso. Questo cambio di atteggiamento è dipeso dall’intervento del Pg di Torino? Noi sappiamo con certezza che la Gip ha invece accolto la richiesta di incidente probatorio -respingendo le pressioni – ma questa richiesta è stata rifiutata dal cancelliere con una motivazione sorprendente: “Lei, dottoressa, è stata rimossa”. La Gip non era stata avvertita del provvedimento, gliel’ha detto il cancelliere. Ora tutto il materiale è stato trasferito al Csm, che dovrà esaminarlo e stabilire come procedere. Sicuramente a Verbania è stato leso l’equilibrio tra procura e tribunale, che è un cardine della Costituzione e dello stato di diritto. Il Csm potrà chiudere un occhio, come fa spesso, e dire che in fondo in quella richiesta non c’era violenza, e gettare ancora polvere e polvere e polvere e macerie sotto il tappeto? Difficile, stavolta. Il dottor Saluzzo, cioè il Pg di Torino, è un personaggio piuttosto noto. Spesso apprezzato. Ma anche molto criticato. Difese in modo impegnatissimo, ad esempio, la decisione della procura di Torino di arrestare Nicoletta Dosio, una donna di 73 anni condannata a un anno di prigione senza condizionale per avere partecipato a una manifestazione non violenta contro la Tav della val di Susa. Nicoletta passò mesi e mesi in carcere. E aveva creato polemiche anche con una presa di posizione di segno opposto, quando difese i migranti durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, lanciando il grido verso le istituzioni insensibili al fattore umano: “pietà l’è morta”. Difficile dire se Saluzzo è una toga di sinistra o di destra. Diciamo che è una toga convinta che la toga sia al di sopra di tutto, che un Pg possa permettersi di spedire una mail per intimidire un presidente del Tribunale, che la giustizia sia un affare dei Pm duri e puri e che bisogna tenere alla larga i garantisti, cioè quelli che mettono le regole e la legge al di sopra della necessità di fare prevalere l’accusa sulla difesa e il bene sul male. Non è in minoranza, Saluzzo, tra i suoi colleghi. Che in gran numero si oppongono al referendum sulla separazione delle carriere e sulla creazione di due distinti Csm. Si capisce.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il clamoroso caso Verbania. La giudice è brava e applica la legge con rigore? Niente paura, basta sostituirla. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Provate a raccontare questa storia a un cittadino americano, o canadese, o svizzero, o giapponese. Ditegli che in Italia è successo questo: un procuratore entra in contrasto con un giudice che respinge alcune sue richieste e accoglie invece alcune richieste della difesa. Il Presidente del tribunale interviene e rimuove il giudice, sebbene risulti del tutto evidente che il giudice ha assunto fin qui decisioni ineccepibili dal punto di vista del Codice di procedura e della Costituzione, e che le richieste del Procuratore erano non accoglibili. Probabilmente il cittadino americano o canadese, o giapponese scoppierà a ridere. Non vi crederà. Forse vi conviene raccontare questa storia a un cittadino della Corea del Nord, o dell’Iran. Avete più speranze che vi dica: succedono anche da noi cose di questo genere. La vicenda della Giudice di Verbania, rimossa con una scusa burocratica, è agghiacciante. È il superamento di ogni “sfacciataggine” del ”Sistema”. Che non ha il pudore almeno di nascondere la sua arroganza. La mostra contento, ti ride in faccia. Ogni volta che denuncio la degenerazione della magistratura, e la sua prepotenza, e il disprezzo per lo Stato di diritto, mi sento dire (e solo dalle persone più ragionevoli): “Tu sbagli, fai di ogni erba un fascio. Il corpo grosso della magistratura è sano”. Già. Può darsi. Ma il corpo grosso della magistratura è imbrigliato in un sistema che non gli permette di esprimersi e di servire onestamente e con rigore la legge e il diritto. A me pare del tutto evidente che la dottoressa Banci Buonamici sia una ottima magistrata, che conosce le leggi, le sa applicare con saggezza e rigore, sa svolgere anche il suo ruolo che prevede la necessità di riequilibrio nel caso che il rappresentante dell’accusa sia troppo aggressivo. Ma la dottoressa Banci Buonamici è stata messa alla porta proprio per questa ragione: perché è una magistratura seria e onesta. Ci rendiamo conto? La maggior parte della magistratura è seria e onesta, io ci credo, ma voi vi dovete convincere che esiste una robusta e potentissima minoranza della magistratura che coltiva solo il proprio potere, se ne infischia della giustizia e delle sue regole, si fa beffe della ricerca della verità, ed è in grado di tenere sotto scacco la magistratura onesta. O si risolve questo problema, con un vero e proprio atto rivoluzionario che privi dell’immenso potere di cui gode la parte oscura della magistratura, oppure il Italia lo Stato di diritto assomiglierà sempre di più a quello venezuelano o a quello della Corea del Nord. Chi lo deve compiere questo atto rivoluzionario? C’è un solo soggetto autorizzato a farlo: il Parlamento. La politica. Vi ricordate ancora di quando la politica viveva di dignità e pensiero propri? Ieri la Procura generale della Cassazione ha chiesto al Csm di confermare la condanna di Luca Palamara. Cioè la sua cacciata dalla magistratura. Perché? Perché – dice l’accusa – ha tramato, ha condizionato o si è fatto condizionare dai politici, ha provato a ostacolare le carriere dei colleghi. Oddio: ma alla Procura generale della Cassazione l’hanno letto il libro di Palamara? Si son resi conto di quale palude fangosa sia il terreno nel quale le correnti della magistratura si davano e si danno battaglia e poi negoziano le carriere, i posti di potere, i rapporti di forza, e probabilmente anche le inchieste da fare o da insabbiare e le sentenze di condanna o di assoluzione? E si sono accorti che al processo del Csm contro Palamara non hanno potuto partecipare decine e decine di testimoni, per la semplice ragione che se quelle testimonianze fossero state ammesse poi sarebbe stato necessario cacciare dalla magistratura, eventualmente qualche centinaio di magistrati, in prevalenza Pm, che poi sono esattamente quelli che oggi rappresentano l’impalcatura del potere giudiziario? Nonostante il silenzio impressionante dei giornali (anche loro ispirati probabilmente dalle abitudini della Nord Corea più che del Venezuela, dove almeno una parvenza di stampa libera ancora esiste), una parte importante dell’opinione pubblica è stata informata di quel che sta succedendo, e di come ha funzionato negli ultimi decenni la magistratura. La fiducia popolare nelle Procure, che era altissima, ora è rasoterra. Chiunque può capire che dei provvedimenti vanno presi. Probabilmente il più urgente è la separazione netta tra Ordine dei Pm e Ordine dei giudici, cioè di un provvedimento che impedisca l’irruzione dei Pm nelle competenze della magistratura giudicante, come sembra essere successo a Verbania. E non solo a Verbania. Di solito questa irruzione avviene semplicemente attraverso la sottomissione del Gip, che copia e poi incolla i documenti firmati da Pm, senza osare obiezioni. Se la sottomissione non c’è scatta il metodo Verbania. Possibile che il Parlamento, e anche il Presidente della Repubblica, non si accorgano di questa situazione? E il governo? E la ministra? Oppure – come è probabile – se ne accorgono perfettamente ma non hanno la forza, o il coraggio, per intervenire.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ecco perché il caso della funivia ha molto a che vedere con la difesa dell’appello penale. La “verità” rimane categoria divina, esclusa dalla fallibilità dell’essere umano. Il Dubbio l'8 giugno 2021. Cosa c’entra la difesa dell’appello con l’ennesimo caso che mette in luce l’anomalia dell’ordinamento giudiziario italiano (magistrati dell’accusa e del giudizio che partecipano carriere, sindacato, organo di promozione e disciplinari)? All’apparenza non c’entra nulla, a meno che non si voglia andare al fondo e comprendere. Chi non ne ha voglia si fermi qui. Come tutti intuiscono, i criteri in base ai quali un fascicolo è assegnato a un giudice (nota per gli stolti: giudice non pubblico ministero, che è cosa diversa) sono oggettivi e predeterminati. Se ciascuno potesse scegliere in base al proprio gradimento la donna o l’uomo che deciderà della sua libertà personale sarebbe alterata l’aspirazione di imparzialità che l’ordinamento giuridico deve assicurare. È il principio del giudice naturale precostituito per legge, previsto dalla Costituzione e attuato secondo criteri predefiniti in ogni ufficio giudiziario: le così dette tabelle o criteri tabellari. Quali che siano in ciascun ufficio, questi criteri consentono di distribuire gli affari senza tener conto dell’importanza del caso, della sua mediaticità, della rilevanza pubblica degli imputati ecc. Potremmo dire, semplificando, che è l’applicazione del principio “uno vale uno”, sebbene esistano metodi di compensazione “ponderale”, utilizzati in Cassazione ad esempio, con lo scopo di “pesare” il livello di difficoltà di ciascun affare (ciascuno comprende ad esempio che un processo come quello della funivia del Mottarone “vale”, per impegno, almeno dieci processi per colpa medica). Chiarito quindi che su basi oggettive e predeterminate un fascicolo arriva sulla scrivania di un giudice, e che quel giudice non può essere sostituito se non per evenienze eccezionali (maternità, trasferimento ecc.), cerchiamo di spiegare qual è il nesso con il giudizio di appello. Ci vuol poco a comprendere come l’esito di un processo oltre che dal diritto, dalla bravura o meno di chi accusa e di chi difende, dipenda dalla persona del giudice che decide. È l’adagio che molti conoscono: “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce il giudice”. La regola nella pratica quotidiana orienta le strategie. Ad esempio: ci sono GIP con i quali si può chiedere il giudizio abbreviato, altri con i quali la scelta è “preclusa”. In somma: al di là delle “carte”, l’esito di un processo dipende dagli esseri umani che se ne occupano e dall’essere umano che lo decide. Per questa ragione, nei millenni, i sistemi processuali si sono evoluti per progressione di questioni risolte e questioni da risolvere nel merito (appello) e in diritto (cassazione). I Romani diffidavano finanche del “giudicato” (res iudicata pro veritate habetur) e infatti i sistemi giudiziari prevedono l’istituto della revisione nella consapevolezza che neppure il giudicato è certo (si pro veritate habetur non est veritas). Il broccardo consente di far luce su un altro fraintendimento: il processo non serve ad accertare la “verità”, ma a stabilire quale tra le due tesi a confronto (accusa e difesa) sia più credibile, salva la successiva verifica nel merito (appello) e in diritto (cassazione). La “verità” rimane categoria divina, esclusa dalla fallibilità dell’essere umano. Se così è, si comprendono allora molte cose. In primo luogo, si comprende come sia anomalo affidare la scelta della tesi più attendibile a un essere umano la cui carriera dipende dal medesimo ordine al quale appartiene l’essere umano che accusa. Si comprende poi come sia sommamente ingiusto precludere, limitare, ostacolare la verifica del primo accertamento e impedire l’accesso a una seconda verifica di merito da affidare a tre giudici anziché a uno, come si vorrebbe fare. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la stupidaggine propinata circa la durata del processo. Ha a che vedere con l’essenza del diritto penale: chi è accusato dallo Stato è un presunto innocente e compete a chi lo accusa dimostrare il contrario. Competenza che richiede regole di imparzialità effettiva ma anche apparente (justice must not only be done; it must also be seen to be done), controlli a verifica della fallibilità umana; struggimenti dell’animo e notti insonni. Nulla che sia paragonabile allo spettacolo indecoroso al quale siamo quotidianamente costretti ad assistere con i processi di piazza in tv e sui giornali, con le lotte di potere per il carrierismo, con le beghe segrete per “fottere” questo o quell’imputato. Questo, al fondo, è il patto sociale. Chiamatelo garantismo, se volete. Ma risparmiateci la grancassa della speculazione politica e delle finte riforme, utili solo a sottrarre aria ai cittadini processati da altri cittadini. Il bene che è in gioco, la libertà, appartiene anche alle vittime del reato. Appartiene a tutti noi. Marco Siragusa. Direttivo Camera penale di Trapani.

Quei “no” dei giudici ai pm: storia (breve) di chi ha deciso di dire stop al copia e incolla. I casi di appiattimento sulle tesi dei pm superano in maniera esponenziale quelli in cui i giudici decidono di valutare autonomamente gli indizi a carico degli indagati. Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Trovare un precedente è difficile. Di giudici che abbiano detto no ai magistrati che richiedevano misure cautelari, negli anni, se ne sono visti pochi o, comunque, in numero decisamente inferiore a quelli che, invece, spesso si sono limitati a fare copia e incolla delle richieste loro sottoposte, lasciando il compito di valutare le esigenze cautelari ad altri. E forse è proprio per questo che la decisione della giudice Donatella Banci Buonamici appare tanto clamorosa, nonostante si fondi su una scrupolosa analisi degli elementi allo stato raccolti dalla pubblica accusa. Una decisione che, ovviamente, non certifica l’innocenza di nessuno, ma ribadisce un principio: il carcere è e deve essere l’extrema ratio. Nell’ordinanza del gip di Verbania si parte da un presupposto: «Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge». E ciò in quanto «difettava il pericolo di fuga», che oltre che essere concreto deve essere anche attuale. Ma sul punto, nonostante la richiesta di far rimanere in carcere i tre indagati, «sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». Per la procura tutto si racchiude «nell’eccezionale clamore», nonché nella «elevatissima sanzione detentiva» che conseguirebbe all’eventuale accertamento delle responsabilità. Ma per il giudice il tutto appare «suggestivo» e «assolutamente non conferente», al punto da definire «di palese evidenza la totale irrilevanza» di tale condizione. Anzi: la confessione del principale indagato, Gabriele Tadini, e la disponibilità immediata degli altri due, Enrico Perocchio e Luigi Nerini, a riferire su quanto di loro conoscenza dimostrano, semmai, il contrario: quel pericolo di fuga non c’è e non è mai esistito. Tutto ciò che c’è a carico di questi ultimi, secondo il gip, è niente più che «suggestive supposizioni». E al momento della richiesta, «il già scarno quadro indiziario è stato ancor più indebolito», anche perché nessun vantaggio – men che meno economico – sarebbe venuto ai due dalla complicità nel lasciare i ceppi inseriti nel sistema frenante. A voler cercare qualche precedente, bisogna tornare a luglio del 2019, quando il gip di Agrigento Antonella Vella ha respinto la richiesta di convalida dell’arresto e la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora a carico di Carola Rackete, capitano della Sea Watch, rimasta quattro giorni ai domiciliari dopo l’attracco rocambolesco al porto di Lampedusa per far scendere a terra i migranti portati in salvo nel Mediterraneo. Secondo il giudice, Rackete non aveva commesso alcun reato, rispettando invece l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro». Fortemente critica era anche stata la posizione del gip di Locri, Domenico Di Croce, che aveva respinto la richiesta di arresto nei confronti dell’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di associazione a delinquere, truffa, concussione e altro. Lucano finì ai domiciliari, poi revocati, ma dopo la scrematura del gip era rimasta ben poca cosa delle accuse contestate dalla procura. Nessun fondamento, affermava il gip in circa 130 pagine, alla base delle accuse di associazione a delinquere finalizzata, a vario titolo, alla truffa, alla concussione e alla malversazione, accuse che per gli uffici giudiziari guidati da Luigi D’Alessio, invece, sono rimaste in piedi. E laddove il reato c’era stato, secondo il giudice, era accaduto per fini umanitari. «Il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti», scriveva il giudice. A Torino, dopo la manifestazione di protesta per le restrizioni anti-Covid, il gip ha deciso di non convalidare i fermi respingendo l’accusa, nei confronti di 24 persone, di devastazione e saccheggio, ritenendo che il reato da configurare fosse quello di furto aggravato. Per il giudice, infatti, i furti non sarebbero stati collegati agli scontri di piazza, contestando anche la tempistica del fermo: quattro mesi dopo i fatti. Diversi i casi di indagini per stupro per i quali i presunti colpevoli, dapprima fermati, sono stati rimessi in libertà per mancanza di indizi, anche in virtù della scivolosità del reato, che spesso viene contestato sulla base della testimonianza della sola vittima. Ma trovare esempi è cosa assai difficile. Mentre appare più semplice trovare prove delle ordinanze “copia-incolla”, autorizzate, almeno in parte, anche dalla Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, è da annullare il provvedimento nel caso in cui la motivazione sia assente oppure non contenga una valutazione autonoma delle richieste. Rimane, dunque, la necessità dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, che può essere accettata anche se avviene con il sistema del “copia e incolla”, laddove accoglie le richieste del pm solo per alcune imputazioni oppure solo per alcuni indagati. E ciò perché «il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure, costituiscono di per sé indice di una valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne». Cosa che non è avvenuta, dunque, nel caso delle 10 persone accusate di avere realizzato falsi documenti per favorire migranti clandestini a Catania. «L’esame comparato della richiesta di misura del pm e dell’ordinanza» ha «consentito di apprezzare come il primo giudice, in punto di valutazione della gravità indiziaria, si sia limitato ad operare un “copia e incolla”» della richiesta della Procura, aderendo in maniera «acritica e apodittica» alla sua tesi. Per questo motivo il Tribunale del riesame di Catania aveva annullato l’ordinanza del gip. Così come era accaduto nell’operazione “San Bartolomeo”: il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza emessa dal Gip del tribunale di Roma per “vizio di forma”, avendo «copiato» le motivazioni del sostituto procuratore invece di esprimere una propria valutazione. Un vizio che, stando alle statistiche, appartiene a tanti.

Il processo Rinascita Scott. Violenta aggressione di Gratteri alla giudice Macrì: “Sta zitta, ora parlo io”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Lei stia zitta, adesso finisco di parlare io. Violenta aggressione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nei confronti della presidente del tribunale Tiziana Macrì ieri mattina nell’aula-bunker di Lamezia Terme dove è iniziato il processo “Rinascita Scott”. Il magistrato che ama chiamarsi “il Falcone di Calabria” è furibondo perché la giudice, da tutti descritta come severa e integerrima, ma anche molto autonoma, non è scattata sull’attenti alla sua richiesta di astenersi dal presiedere il tribunale di questo processo fin dal 9 novembre. Secondo il dottor Gratteri la presidente Macrì non avrebbe neppure dovuto attendere la decisione al riguardo della corte d’appello. Avrebbe dovuto dire “signorsì” a Sua Maestà, come purtroppo e troppo spesso fanno altri suoi colleghi, tanto che si leggono provvedimenti di giudici che sono la fotocopia della richiesta della procura. In ogni caso la presidente del tribunale ieri mattina ha dichiarato la propria astensione, dopo che la corte d’appello di Catanzaro aveva accolto (con entusiasmo, viste le argomentazioni identiche a quelle della Dda) la proposta di ricusazione. Ma sono passati due mesi e nel frattempo il procuratore fremeva, scalpitava, aveva fretta, e ha portato in aula tutto il suo nervosismo, senza alcun timore di apparire scorretto, tanto è abituato agli inchini di (quasi) tutti. Ma ieri ha veramente tracimato, non solo perché ha quasi portato alle lacrime una giudice con reputazione da dura, ma anche per qualche insinuazione che dovrebbe essere portata al vaglio del Csm. In sintesi, nel rimproverare la presidente Macrì di avergli fatto perdere del tempo non assecondandolo e non obbedendo alla sua (discutibilissima) richiesta di ricusazione, ha alluso al favore che “oggettivamente” questo ritardo avrebbe fatto alla ‘ndrangheta. Pare infatti – così avrebbe detto un pentito -, che ci sia stato un vertice, in questo periodo, in cui i capibastone avrebbero dato indicazione agli imputati di scegliere il rito ordinario (91 hanno già scelto l’abbreviato, quello che si svolge solo davanti al gup) per arrivare alla prescrizione dei reati. La giudice Macrì, per aver deciso di attenersi come sempre alle regole, avrebbe “oggettivamente” favorito la ‘ndrangheta? Un’accusa gravissima, di cui il procuratore Gratteri dovrebbe rendere conto all’organo di autogoverno dei magistrati, al Csm. Certo è che questa presidente non deve proprio essergli simpatica, probabilmente perché è molto autonoma. Anche rigorosa e riservata. Tanto che ieri ha vietato le riprese televisive del processo, fatto su cui hanno protestato i sindacati dei giornalisti. Questione spinosa, quando la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e la pubblicità del processo può cozzare con la necessità di evitare che le aule di tribunale diventino baracconi delle vanità ed esibizione degli imputati come trofei, come animali da circo. Del resto il circo è già in piedi: 325 imputati, 600 avvocati, 224 parti offese (secondo la dda, perché in realtà si è costituita parte civile solo una trentina di loro) in una struttura di 3.300 metri quadri, lunga 103 metri. Tutta questa scenografia per un processo che tra l’altro non si celebra neppure in corte d’assise, visto che i tredici imputati di omicidio saranno giudicati a parte e altrove il prossimo 30 gennaio. Nulla a che vedere la giornata di ieri, dunque, con quella del 1986 in cui cominciò davanti a una giuria popolare il processo agli uomini di Cosa Nostra a Palermo. Deve essere anche per questo che il procuratore Gratteri, che anche ieri non si è sottratto, nonostante la sua proverbiale riluttanza, alle telecamere, sia pure all’esterno dell’aula, ha ribadito che ormai la mafia non spara più, ormai agisce più dentro le istituzioni che in montagna tra i pastori. Sarà anche vero, ma se si costruisce un’inchiesta che ha come collante solo la contestazione del reato di associazione mafiosa, bisogna anche essere in grado di dimostrare che il personaggio istituzionale che si vuole portare a processo sia soggettivamente consapevole, nella sua attività, di aver avuto a che fare con uomini d’onore. Fino a oggi al procuratore Gratteri e alla Dda in Calabria è andata malissimo. Tra derubricazioni, scarcerazioni e assoluzioni, ben poco è rimasto nel loro carniere, a parte la presenza nel processo di qualche avvocato come Francesco Stilo, che ieri i medici hanno consigliato di lasciare l’aula e andare a casa, viste le sue precarie condizioni di salute, che dieci mesi di carcere non hanno certo migliorato. Ma c’è un’altra questione procedurale che attende il procuratore Gratteri. Ci sono quattro imputati, di quelli della famosa “zona grigia” senza la quale tutto il teorema rischia di saltare, che si sono sottratti al processone e hanno chiesto il rito immediato. Cioè quello che consente, saltando la fase dell’udienza preliminare, di esser processati subito. “Immediato” vuol dire questo. E vuol significare anche la volontà di esser processati a parte, di non finire nel calderone di un maxiprocesso eterno nei tempi e ambiguo nella massa dei protagonisti. Al procuratore questa scelta non è piaciuta per niente. L’avvocato Giancarlo Pittelli, l’imprenditore Mario Lo Riggio, l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo e l’avvocato Giulio Calabretta dovrebbero andare a giudizio in modi e tempi separati, anzi è già tardi, visto che la loro richiesta risale a qualche mese fa. La procura invece vuole la riunificazione con il maxi, e le ragioni sono chiarissime: può mai la zona grigia discostarsi da quella nera senza far crollare il teorema? Ma come la mettiamo con la necessità dell’immediatezza, che in un processo a parte e con solo quattro imputati sarebbe molto più veloce? Nell’udienza del 9 novembre scorso lo stesso tribunale presieduto dalla dottoressa Macrì ha deliberato per la fusione tra i due tronconi. La difesa con gli avvocati Stajano e Contestabile ha fatto ricorso su cui deciderà la corte di cassazione il prossimo 22 febbraio. Ma ci sarà anche un’altra decisione della suprema corte, perché i legali hanno impugnato anche la decisione della corte d’appello di Catanzaro sulla ricusazione del presidente Macrì. Insieme a lei ieri si sono astenute anche le due giudici laterali Brigida Cavasina e Gilda Romano, che avevano emesso qualche provvedimento nei confronti di indagati in qualcuno dei mille tentacoli del “Rinascita Scott”. Si attende ora la formazione del nuovo collegio per la prossima udienza del 19 gennaio. Poteva infine mancare, nel grande circo mediatico del processo la presenza, unica nel panorama politico, dell’onorevole Nicola Morra? Il presidente della Commissione bicamerale antimafia, dimentico del suo ruolo e senza pudore si è presentato con deferenza davanti al procuratore, poi ha dichiarato che con questo processo “si farà la Storia”. Con la S maiuscola. Ha già emesso la sentenza. A proposito della divisione dei poteri.

Il maxiprocesso. Processo Rinascita Scott, altri due giudici ricusati: manca un tribunale per Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Marzo 2021. Pare impossibile trovare un tribunale indipendente che possa giudicare il maxiprocesso di Nicola Gratteri. Prima era stata la stessa Dda a porre la questione dell’incompatibilità nei confronti della prima presidente designata Tiziana Macrì. E la ricusazione era stata fatta propria dalla corte d’appello di Catanzaro. Ora sono gli avvocati, un bel gruppetto di dieci, a ricusare altri due giudici del collegio per una questione sostanziale. Il giudizio della sentenza “Nemea” è un’anticipazione di convincimento su “Rinascita Scott”. L’avvocato Francesco Stilo, ancora ai domiciliari nonostante le gravi condizioni di salute, ha preso la parola personalmente, anche per lamentare le difficoltà a sottoporsi a visite specialistiche. Ma soprattutto per indignarsi per esser sempre sospettato di essere un “messaggero” di informazioni tra mafiosi. E di vederlo scritto da magistrati che dovrebbero non avere pre-giudizi. L’attuale presidente Brigida Cavasino e una delle giudici laterali Gilda Danila Romano, avevano emesso, insieme a Tiziana Macrì, la sentenza del processo “Nemea”, che era stato una sorta di antipasto del maxiprocesso in corso nella aula bunker di Lamezia. E che era stato uno dei più colossali flop dell’ipotesi dell’accusa, con 8 assoluzioni su 15 imputati e le condanne dei restanti dimezzate rispetto alle richieste della Dda. Le motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi, sono molto esplicite nello sconfessare alcune deposizioni dei pentiti: chi è stato assolto (e scarcerato) non aveva proprio commesso i reati di cui era stato accusato. Cioè non c’entrava niente. Tutta questa vicenda, che pare intricata ma in realtà ha profili di politica giudiziaria molto netti, ha molto a che vedere con il sogno del procuratore Gratteri di diventare il Falcone di Calabria. E anche di purificare la sua regione (per poi ricostruirla “come un Lego”) tramite un grande processo, derivato da due blitz del 2019 e 2020, “Rinascita Scott” e “Imponimento”. I primi arresti avevano poi subìto scremature da parte di diversi organi giudicanti, inoltre gli imputati avevano scelto diverse opzioni processuali, anche se poi è capitato per esempio all’avvocato Giancarlo Pittelli, che aveva deciso per il processo immediato, di ritrovarsi “ritardato” e gettato nel pentolone del rito ordinario, iniziato nello scorso gennaio. Il processo “Nemea” era una costola di “Rinascita Scott”, le motivazioni della sentenza lo dicono esplicitamente, anche per la concomitanza di alcuni imputati nei due processi. Tiziana Macrì era la presidente del tribunale, Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano le due giudici laterali. Il problema si era posto fin dalle prime battute del maxiprocesso. Qualche giornale calabrese ne aveva parlato, prendendo di mira in particolare la presidente Macrì, una giudice molto stimata e poco condizionabile. Il tribunale si era comunque insediato. Ma era successo qualcosa di strano. All’improvviso, durante le vacanze di natale, la Dda aveva ricusato la presidente (e solo lei), ma non per il processo “Nemea”, ma per una questione formale su cui differenti sezioni della corte di cassazione avevano dato pareri discordanti. E cioè per aver firmato, nel suo precedente ruolo di gip di Catanzaro, la proroga di un’intercettazione. La corte d’appello aveva confermato: fuori Macrì, ma dentro le altre due giudici. È stata la lettura delle motivazioni con cui le tre giudici avevano emesso la sentenza “Nemea” a far scatenare gli avvocati, che leggevano in quelle pagine non solo i nomi dei propri assistiti, ma anche la definizione di “unico disegno criminoso” nei fatti ricostruiti nei due processi. Un unicum, insomma. E pre-giudizi che impediscono alla prova di formarsi in aula, come vuole il codice di procedura. 

Lo scontro tra toghe rosa. Patricia Tagliaferri il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Quando si dice un'indagine mediatica. E non solo per la rilevanza di una tragedia costata la vita a 14 persone, ma soprattutto per la sovraesposizione di chi indaga e di chi è chiamato a valutare il lavoro dell'accusa. Quando si dice un'indagine mediatica. E non solo per la rilevanza di una tragedia costata la vita a 14 persone, ma soprattutto per la sovraesposizione di chi indaga e di chi è chiamato a valutare il lavoro dell'accusa. Due donne, in questo caso. Da una parte il procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che la stessa notte dell'interrogatorio del caposervizio Gabriele Tadini aveva spiegato ai giornalisti davanti alle tv che non era stata una fatalità a far cadere la funivia ma una «omissione consapevole». Dall'altra il gip Donatella Banci Buonamici che ha sconfessato il lavoro dei pm. Nella sua ordinanza ha scritto che i fermi erano stati eseguiti «al di fuori dei casi previsti dalla legge». Ma non basta che siano le carte a parlare. Sente che quel provvedimento, per molti inaspettato, va difeso pubblicamente. Lo fa con i cronisti che la intercettano fuori dal palazzo di giustizia di Verbania: «Dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia, invece sembra che non siate felici. Dovete essere felici, l'Italia è un Paese democratico». Non esisteva il pericolo di fuga per il titolare della funivia Luigi Nerini e per il direttore Enrico Perocchio, né sussistevano gravi indizi. Lo ha scritto nell'ordinanza che li ha scarcerati, ritenendo che sui due indagati ci fossero solo suggestioni, e adesso rivendica di non aver ritenuto riscontrata la chiamata in correità, «che in fase cautelare deve essere dettagliata e questa non lo era ed era smentita da altri risultati». Un duro scontro, insomma, per la piccola procura di Verbania. «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio credo altrettanto onestamente», dice il gip. Ma è probabile che non sia finita qui e che la procuratrice decida di impugnare l'ordinanza del gip davanti al Tribunale del riesame per dimostrare che invece gli arresti erano necessari per evitare inquinamenti probatori o che gli indagati si accordassero sulle versioni da rendere.

"Ecco perché non ho tenuto gli indagati in carcere". Ignazio Riccio l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Parla il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha liberato due delle tre persone sotto inchiesta per la strage della funivia del Mottarone. “Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio credo altrettanto onestamente. É il sistema, dovreste ringraziare che funziona così, bisogna essere felici di vivere in uno Stato dove si fa giustizia e invece sembra che non lo siate. L'Italia è un Paese democratico”. A parlare è il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato due dei tre indagati per la strage della funivia del Mottarone. “Io ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga – continua – non esisteva. Non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno, ma perché abbia ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata: questa non lo era ed era smentita da altre risultanze”. In particolare il giudice non ha ritenuto sufficienti le accuse del capo servizio dell'impianto Gabriele Tadini (attualmente ai domiciliari) contro il gestore Luigi Nerini e il direttore di esercizio Enrico Perocchio, entrambi scarcerati sabato notte. Olimpia Bossi, procuratore capo di Verbania, intanto, ha ripreso il lavoro sulle carte dell'inchiesta. L'esito dell'udienza di convalida, con la decisione del gip Buonamici che di fatto ha ribaltato l'impostazione della sua inchiesta concedendo la libertà a due degli indagati e disponendo i domiciliari per il terzo, non è passato senza lasciare segni. Ma la procuratrice già nella notte di sabato aveva ribadito con forza il suo convincimento, e anche ieri sera in una intervista televisiva ha detto che nel provvedimento del giudice “è mancata una visione di insieme nell'esaminare la concatenazione logica degli elementi che abbiamo raccolto. Se analizzati singolarmente perdono forza”. Quali sono le contestazioni che il gip ha mosso alla Procura? Sono, in realtà, su più piani, di sostanza e di forma. Già in premessa, il giudice osserva che “il fermo è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato. Difettava infatti il pericolo di fuga, presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato”. É palese - secondo il giudice - la "totale irrilevanza" del riferimento fatto dai Pm di Verbania al "clamore mediatico nazionale e internazionale" dell'incidente della funivia del Mottarone per sostenere il "pericolo di fuga" dei tre fermati. Non si può - conclude il gip - far ricadere su un indagato il "clamore mediatico". Oggi, come riporta il quotidiano la Repubblica, in procura è la giornata del vertice tra il consulente Giorgio Chiandussi, professore del Politecnico di Torino, nominato per accertare le cause dell'incidente della funivia e investigatori e inquirenti, coordinati dalla procuratrice Olimpia Bossi. Un incontro che servirà per iniziare a mettere nero su bianco gli elementi tecnici su cui verterà il quesito della consulenza nella forma dell'accertamento irripetibile. Gli accertamenti in vista, ha spiegato Bossi, sono “finalizzati a capire perché la fune si è rotta e si è sfilata e se il sistema frenante aveva dei difetti”. Tema d'indagine è pure sapere se è accaduto e quando, come indicato da Tadini, il blocco della cabina dovuto alla "pressione dei freni" che scendeva "a zero". Dopo questi controlli, potrebbero arrivare nuovi avvisi di garanzia.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo Fiorentina.

Da corriere.it l'1 giugno 2021. «Dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l’Italia è un paese democratico». Così il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato sabato i tre fermati per l’incidente della funivia del Mottarone, mettendo ai domiciliari Tadini, ha risposto ai cronisti fuori dal Tribunale. Il giudice entrando in Tribunale a Verbania questa mattina ha risposto ad alcune domande dei cronisti. «L’ho scritta la mia posizione», ha detto facendo riferimento all’ordinanza con cui ha rimesso in libertà due dei tre indagati e un terzo ai domiciliari. «Ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga, non esisteva - ha spiegato il gip - per le motivazioni che ho scritto, non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi, non perché non abbia creduto a uno (ossia a Tadini, ndr), perché ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata, questa non lo era ed era smentita da altre risultanze». Il giudice Donatella Banci Buonamici ha aggiunto: «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente, è il sistema».

Funivia Stresa Mottarone, la gip Buonamici sulle scarcerazioni: "Dovreste essere contenti di vivere in uno stato democratico". Libero Quotidiano l'01 giugno 2021. A Verbania, monta lo scontro in procura. Il caso è ovviamente quello della strage sulla funivia Stresa Mottarone. A parlare, ora, è la gip Donatella Buonamici, che torna sulla scelta di concedere i domiciliari a uno degli indagati e di lasciare a piede libero gli altri due. Una scelta con cui di fatto ha cancellato quanto fatto dalla pm, Olimpia Bossi, che solo tre giorni dopo i fatti aveva disposto il fermo dei tre soggetti. "Dovreste essere contenti di vivere in uno stato democratico. Secondo me non c'erano le esigenze cautelari e gravi indizi di colpevolezza per tenere in carcere gli indagati", ha picchiato duro la Buonamici rispondendo alle domande dei cronisti sull'ordinanza con cui ha smontato l'impostazione della Bossi. E ancora: "Io ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga, non esisteva - ha aggiunto -. Non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno" ma "perché ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata: questa non lo era ed era smentita da altre risultanze". E ancora, la Buonamici ha rimarcato: "Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente, è il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l'Italia è un paese democratico". Nel frattempo oggi, martedì 1 giugno, in procura è la giornata del vertice tra il consulente Giorgio Chiandussi, professore del Politecnico di Torino, nominato per accertare le cause dell'incidente della funivia del Mottarone, che ha causato 14 morti, e investigatori e inquirenti, coordinati proprio dalla pm Bossi. L'incontro servirà a iniziare a mettere nero su bianco gli elementi tecnici su cui verterà il quesito della consulenza nella forma di accertamento irreperibile.

Ebbene sì, noi garantisti dobbiamo reclutare magistrati come la gip di Verbania.  È vero, in un Paese normale una giudice non accompagnerebbe mai una propria ordinanza di scarcerazione con lezioni sullo Stato di diritto. Eppure, se vogliamo scalfire il muro granitico che blinda la mente dei forcaioli, dobbiamo servirci di quei pochi magistrati disposti a proclamare, come noi, la solennità delle garanzie. Errico Novi su Il Dubbio il 2 giugno 2021. Sì, lo so.  Non è da Paese normale che una giudice commenti una propria ordinanza, che spieghi perché non ha convalidato dei fermi. Non è da Paese normale che un magistrato accompagni i propri atti con una didascalia veicolata a mezzo stampa. Ma è un Paese normale, l’Italia, in materia di giustizia? Non direi. Da anni sono convinto che il muro manettaro-populista sia fra le fortezze più inespugnabili che la storia italiana ricordi dal principio dell’era moderna. E che perciò le generose e commoventi battaglie del cosiddetto fronte garantista siano tanto giuste e necessarie quanto difficili. Proprio per la difficoltà di scalfire quel muro, mi sono convinto della necessità di un compromesso. E cioè che si debbano reclutare nella battaglia quei pochi magistrati pronti a parlare di Stato di diritto, di civiltà delle garanzie e di democrazia basata sui princìpi della giustizia liberale. Come ha fatto la gip di Verbania dottoressa Donatella Banci Buonamici. I magistrati sono insospettabili, agli occhi dell’opinione pubblica “rigorista”, perciò vanno “usati”. Sì, il caso cosiddetto Palamara ha fatto scendere su di loro un velo di diffidenza. Ma in fondo gran parte dei manettari vede ancora, nella toga del giudice, una garanzia di inesorabile efficacia punitiva. E se un giudice parla di giuste scarcerazioni per i presunti responsabili di un disastro come quello del Mottarone, c’è qualche speranza che nella mente di una parte degli italiani giustizialisti si insinui una provvidenziale, seppur infinitesimale, ombra di dubbio.

Ma alla Gip di Verbania dico: un giudice parla solo con le sentenze. Le parole della Gip che ha deciso la scarcerazione dei tre indagati per la strage della funivia sono sacrosante ma rischiano di alimentare il circo mediatico-giudiziario. Perché in democrazia la forma è sostanza, non orpello. E la forma prevede che un giudice parli con le sentenze, non con interviste. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 2 giugno 2021. Le parole con cui la gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, “giustifica” la sua decisione di non confermare le misure cautelari per gli indagati del disastro della funivia sono una lezione di civiltà giuridica. Perché in democrazia, in uno Stato di diritto, la gente non finisce in cella semplicemente perché un pubblico ministero lo ritiene opportuno. Esistono delle garanzie ed esistono dei giudici a tutelarle. Eppure, persino le parole della dottoressa Buonamici presentano, in potenza, il seme di una possibile degenerazione giudiziaria. Riconoscendo tutte le “attenuanti” del caso alla gip – inseguita per strada dai giornalisti – non si può ignorare che, rispondendo alla curiosità dell’informazione, la giudice diventa parte di quello stesso cortocircuito di cui spesso sono protagonisti i suoi colleghi pubblici ministeri. Da sempre, dalle colonne di questo giornale, ci battiamo contro la spettacolarizzazione della giustizia, contro le conferenze stampa delle Procure che vorrebbero esaurire la complessità di un processo alle fase delle indagini preliminari, contro i giudizi formulati sui giornali e in tv invece che in un’aula di Tribunale. Per questo la pur condivisibile presa di posizione di Buonamici stona proprio con quelle garanzie democratiche che la gip intende esaltare. Perché in democrazia la forma è sostanza, non orpello. E la forma prevede che un giudice parli con le sentenze, non con interviste. Applicare la legge e motivare le proprie decisioni è tutto ciò che un giudice dovrebbe fare per tentare di recuperare quel rapporto di fiducia ormai sfilacciato tra i cittadini e le toghe. Altimenti la diga, già fragile per le continue bordate di alcuni pm, finirebbe per crollare definitivamente. Non è un caso che secondo i dati Eurispes e secondo un recente sondaggio Ipsos meno di un cittadino su due dichiara di fidarsi della magistratura. Un dato drammatico se solo paragonato a undici anni fa, quando le toghe godevano ancora di un’altissima popolarità tra gli italiani: il 70 per cento. Ora quel legame sembra essersi dissolto e non solo per colpa del caso Palamara o dei verbali di Amara diffusi nei sottoscala. Il cittadino non crede più al magistrato super partes, all’eroe civile alla ricerca della verità giudiziaria, ma vede l’uomo dietro la toga, con i suoi interessi, le sue ambizioni, le sue rivincite da prendere. Quando il processo diventa mediatico, alla lunga, ci perdono tutti, anche quelli che pensavano di recitare la parte dei “buoni”. Per questo, anche Donatella Banci Buonamici farebbe bene a evitare proclami pubblici. Ne va della tranquillità degli indagati, della serenità parenti delle vittime e della credibilità della magistratura tuta.

«È lo Stato di diritto, bellezza»: la lezione del gip di Verbania. Strage della funivia, la giudice che ha scarcerato i tre indagati smonta le polemiche: «Dovreste essere tutti felici di vivere in un Stato democratico». Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente. È il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici. Perché non siete felici? L’Italia è un Paese democratico». Poche parole, rubate dai cronisti assiepati davanti al Tribunale di Verbania. Ma quanto basta al giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici per liquidare una polemica alimentata dai media che, che da giorni, non aspettano altro che l’ennesimo battibecco sulla giustizia, mettendo in secondo piano tutto: la tragedia, le vittime, le regole del diritto, gli equilibri del giusto processo. Così, nel teatrino che è diventata l’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa-Mottarone, tocca alla giudice rimettere in ordine le cose. Ricordando che esiste lo Stato di diritto e che per tutti, giustizialisti compresi, è una garanzia che dovrebbe far dormire sonni tranquilli. La decisione del giudice di rimettere in libertà due degli indagati e mandare a domiciliari il terzo ha, infatti, generato l’ennesimo vespaio di polemiche. Perché in tanti, ignari delle regole che stanno alla base del sistema accusatorio, hanno tratto un’unica conclusione: il giudice ha già assolto tutti, mandando in fumo un’inchiesta che, invece, aveva già trovato i colpevoli in pochi giorni, tradendo i familiari delle vittime che, intanto, aspettano giustizia. Insomma, una sentenza già scritta stracciata in faccia all’opinione pubblica, per la quale quegli indagati non meritano – ovviamente – alcuna difesa. La gip, però, ha chiarito, probabilmente suo malgrado, i fatti: «Io ho osservato – ha detto – che non esisteva il pericolo di fuga, e non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno (Tadini, ndr), ma ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità. La chiamata in correità – ha aggiunto – deve essere dettaglia e questa non lo era ed anzi era smentita da altre risultanze». Insomma: di elementi concreti, tra quelli – necessariamente parziali – portati dalla procura, non ce n’erano. Non abbastanza, di certo, per tenere tre persone in carcere ipotizzando un pericolo di fuga motivato con il clamore mediatico della vicenda. Così, sabato sera, ha preso la propria decisione applicando semplicemente la legge, mandando ai domiciliari Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, e lasciando a piede libero Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni. La decisione non è piaciuta alla procuratrice Olimpia Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si è lasciata andare ad un attimo di amarezza: «Prendevamo insieme il caffè – ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola». Insomma, la non conformità dell’azione del giudice a quella del magistrato è stata interpretata come «un atto di inimicizia», come ha osservato l’Unione delle Camere penali. Ma la procuratrice ha anche fatto una distinzione tra diverse categorie di diritti: «Quelli dei vivi» contro «quelli dei morti», come se appartenessero a due mondi diversi, quasi in conflitto. Delle due donne protagoniste di questa vicenda giudiziaria la stampa fornisce due ritratti opposti: amorevole ed empatica la procuratrice, «gelida» la giudice, diceva ieri La Stampa. E non è difficile immaginare che leggendo tali descrizioni non si finisca per simpatizzare per l’una anziché per l’altra, come se, appunto, la giustizia fosse questione di tifo. Ma così non è, ricorda Banci Buonamici. La giustizia è fatta di diritti, di garanzie che valgono per tutti, buoni e cattivi, belli e brutti. E il suo provvedimento – che non tradisce alcuna convinzione personale sulla responsabilità degli indagati – ne è la dimostrazione più lampante. La giudice, infatti, non ha fatto altro che constatare la fragilità degli elementi a supporto della richiesta di convalida del fermo, sottolineando che lo stesso è stato eseguito «al di fuori dei casi previsti dalla legge». Illegittimo, dunque, e non avallabile in uno Stato di diritto. Perché illegittimo? Nessun elemento concreto è stato portato a sostegno del pericolo di fuga, «presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato». E la richiesta non indica «alcun (scritto tutto maiuscolo nell’ordinanza del giudice, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». Non vale, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda («è di palese evidenza la totale irrilevanza», al punto da definirlo «suggestivo»), né la minaccia di una pesantissima sanzione detentiva («le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte unicamente dalla gravità del titolo di reato»). Si tratta, cioè, solo di supposizioni, di ipotesi non riscontrate. Tant’è che il giudice evidenzia dati ovvi, in assenza di altri elementi: i tre vivono, lavorano e hanno famiglia in Italia, uno dei tre ha confessato, gli altri due si sono messi subito a disposizione degli inquirenti. Da cosa si poteva evincere il pericolo di fuga? Così come la chiamata in correità di Tadini nei confronti di Nerini e Perocchio non risulta riscontrata: gli operai sentiti a sit hanno anzi tutti confermato la responsabilità di Tadini, tranne uno, colui che avrebbe dovuto togliere i ceppi al sistema frenante e che, dunque, «ben sapeva del rischio di essere lui stesso incriminato per avere concorso a causare con la propria condotta, che avrebbe benissimo potuto rifiutare, la morte dei 14 turisti». Insomma: non era totalmente credibile. Così come non lo sarebbe l’indagato principale, che ha mentito laddove ha negato di avere il potere di fermare l’impianto, possibilità, invece, prevista dalla legge. «Certamente – ha evidenziato il gip – tale normativa non poteva essere da lui ignorata trattandosi di perito tecnico con mansioni di responsabilità, operante da 36 anni nel settore dei trasporti su fune».

La carneficina giudiziaria. Sistema magistratura prosegue il killeraggio: è la volta di Nichi Vendola, folle sentenza su Ilva. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Giugno 2021. La magistratura italiana, in questo momento, è sicuramente la più sputtanata di tutto l’Occidente, e forse di tutto il mondo. Scusate l’uso di una parola un po’ greve, non ne trovo altre. La sua credibilità sta a zero. È emerso in tutta evidenza che da molti anni non è governata dalle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione ma da un “Sistema” fatto di logge segrete grandi e piccole, di camarille, di correnti, di “Supermagistrati” al di sopra della logica e delle leggi. Questo sistema decide le gerarchie, governa le inchieste, pilota le sentenze. Ed ha annientato lo stato di diritto. restiamo a guardare, indignati e rassegnati? Oggi possiamo scrivere cinque parole che sono altre cinque frecce al cuore della Giustizia: Del Turco, Vendola, Uggetti, Mannino, Stresa. Del Turco. La Cassazione ha condannato in via definitiva il suo accusatore, l’imprenditore Angelini, perché si è accertato che Angelini gonfiava i conti delle sue cliniche per spillare soldi alla regione. Del Turco se ne accorse e lo bloccò. La reazione di Angelini fu feroce: riuscì a spingere la magistratura ad arrestare l’amministratore onesto e a rovinare la vita a Del Turco. In Calabria, qualche anno prima, un altro amministratore fu fermato perché ostacolava i briganti della sanità. Si chiamava Francesco Fortugno, lo uccisero. A del Turco, in fondo, è andata bene. Vendola. È stato condannato a tre anni e mezzo di prigione. Perché i magistrati e la giuria popolare non hanno condiviso le sue scelte politiche su lavoro e ambiente quando governava la regione, scelto per due volte consecutive dai cittadini. Non è stato condannato solo lui, sono stati condannati scienziati, amministratori e tecnici, e poi sono stati condannati quasi all’ergastolo i fratelli Riva. L’Ilva però non è stata chiusa. Dunque i magistrati, a rigor di logica, dovrebbero ora essere a loro volta imputati e condannati per disastro ambientale. La condanna di Vendola ha una sola spiegazione: la necessità dei magistrati di farsi belli coi forcaioli e col movimento populista che – nonostante Draghi – in gran parte governa il paese (nel senso del governo reale). Tenete conto del fatto che tre anni e mezzo di prigione per concussione, in virtù delle leggi fasciste approvate nel 2019 da Lega e 5 Stelle, significano esattamente tre anni e mezzo, senza sconti e senza benefici carcerari. Uggetti. È il sindaco di Lodi. È stato assolto da tutto dopo la gogna mediatica, dopo la prigione, dopo la rovina della sua carriera politica, dopo essere stato linciato da 5 Stelle e Lega. Non solo è innocente, assolto da tutto, ma si è accertato che aveva operato per difendere il bene pubblico dall’interesse di privati. Da tre giorni è sottoposto alle ingiurie e ai falsi del Fatto Quotidiano, che gli dedica intere prime pagine per sostenere una falsità assoluta: che ha confessato di essere colpevole. Non è vero. Ma pare che Goebbels dicesse che una bugia ripetuta dieci volte diventa verità. Il Fatto ripete, ripete, ripete. Una mascalzonata senza pari, che è la prova provata di come talvolta il partito dei Pm si vendichi degli smacchi utilizzando la stampa che ha alle proprie dipendenze. Mannino. Stiamo parlando di Calogero Mannino, un dirigente democristiano che ha dato molto al nostro paese dagli anni Sessanta ai Novanta. Faceva parte della sinistra di Donat Cattin e di Bodrato. Poi fu messo nel mirino dai Pm che lo trascinarono in galera, e poi nel fango e lo tennero lì per 25 anni accusandolo di essere mafioso. Assolto da tutto, con una sentenza definitiva della Cassazione che faceva a pezzetti la professionalità dei Pm. I quali ieri sono tornati alla carica accusando la Cassazione di illogicità e Mannino di essere colpevole. Violando così etica, leggi, buonsenso, onore. Stresa. Conoscete la vicenda. Un Pm che chiede la condanna a pene severissime senza aver svolto neanche il 2 per cento dell’indagine. Non sa perché è caduta la funivia ma invita al linciaggio di tre colpevoli che il Gip, se Dio vuole, applicando la legge, scarcera per mancanza di indizi. Cosa facciamo di fronte a questo disastro giuridico che riguarda politici, lavoratori, imprenditori, scienziati, amministratori, gente comune e che vi abbiamo illustrato riferendoci solo ai casi esplosi ieri? Ieri: in una sola giornata. Provate a moltiplicare per 365, e ad aggiungere i casi di malagiustizia contro disgraziati sconosciuti che non arriveranno mai all’onore delle cronache. Non è sufficiente tutto questo, e non è sufficiente il racconto di Palamara, e poi quello ancor più sconvolgente di Amara, per convincere il Parlamento e il presidente della Repubblica a intervenire? Hanno paura dei satrapi? Possibile che non sentano la responsabilità di difendere la democrazia, la libertà, il diritto, dall’assalto di un pezzo della magistratura che disonora l’Italia e la stessa magistratura? Stanno assumendosi una responsabilità gravissima di fronte alla storia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La guerra continua ma l’esito è segnato. Dal cappio in Parlamento alla svolta garantista di Di Maio: storia di 28 anni di giustizialismo. Alberto Cisterna su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Era il 16 marzo 1993. Il giorno dopo Mino Fuccillo commentava l’accaduto su Repubblica con un articolo dal titolo memorabile “Sotto il segno della forca”. Raccontava dell’esibizione, in aula, a Montecitorio, di un nodo scorsoio che minaccioso un deputato brandiva contro i propri avversari. Argomenta Filippo Facci nel suo libro più recente, che l’ultimo giorno della Prima Repubblica coinciderebbe con il 30 aprile di quell’anno, segnato dal lancio delle monetine contro Bettino Craxi all’hotel Raphael. Può darsi. Però è anche vero che in quel 16 marzo 1993 si materializzava e si rendeva trucemente visibile un sentimento di rancore che ha poi contaminato in profondità la società italiana. Ha preso corpo una rabbia inesorabile che ha voluto assegnare alla giustizia il compito di consumare una spietata vendetta collettiva. Come e perché questo sia avvenuto è difficile dirlo. Certo se partiti, sindacati, gruppi organizzati non intercettano più la speranza di cambiamento di una società, la scorciatoia è dietro l’angolo; il sentimento di giustizia trasmuta in cieco rancore e le manette diventano la via più semplice per appagare ogni sete di rinnovamento e di equità. Una valvola di sfogo inevitabile e, alla fine, incontrollabile che ha invocato il processo esemplare, la rapidità, il tratto inesorabile, l’umiliazione del reprobo come riscatto per la moltitudine dei deboli. Forse, forse quel 16 marzo 1993 il giustizialismo, nella sua declinazione più dura e intransigente, si è disvelato e ha preteso una duratura legittimazione innanzi al fallimento della politica e della rappresentanza; ha coagulato un consenso profondo, radicato, trasversale che ha finito per spaccare gruppi sociali, élite culturali, aggregati finanziari di opposte sponde. Una lunga stagione di sofferenze, di polemiche laceranti, di disperati colpi di mano, di errori clamorosi, di vittime innocenti, di tentativi falliti di riforma. Sino al crollo recente del “PalAmaraGate”, posto che le due vicende sembrano molto più connesse tra loro di quanto brandelli di notizie consentano oggi di stabilire. Un piano inclinato e sdrucciolevole in cui i primi a pagare un prezzo sembrano essere proprio gli epigoni di quel giustizialismo sorto dalle ceneri del 1993; coloro i quali si sono mossi per decenni, sempre più affannati, alla ricerca di simboli da idolatrare e che oggi sono sempre più frustrati dalle sgrammaticature istituzionali e comportamentali dei propri pupilli con il loro fardello di inevitabili fragilità umane e professionali. Nel 1993 Luigi Di Maio aveva sei anni. Sino a poche settimane or sono nessuno poteva immaginare che sarebbe toccato a lui, 28 anni dopo, tracciare il solco perché possa essere dichiarata la fine di quella stagione. E per giunta non si poteva supporre che lo avrebbe fatto all’apice della sua folgorante carriera politica, nella carica prestigiosa di ministro degli Esteri. La lettera inviata al “Foglio” si iscrive, probabilmente, come un punto di svolta assai rilevante nel lungo travaglio che ha attraversato la questione giustizia nel nostro Paese. È giusto dirlo dopo tanti luoghi comuni ed esagerate ironie, è un testo fine, cesellato con cura, di grande efficacia. Ha un respiro e una densità che prescinde del tutto dall’infausta sorte toccata all’ex sindaco Uggetti – assolto dopo la forca mediatica del 2016 – e le scuse offerte all’avversario di un tempo si presentano piuttosto come l’occasione, il pretesto per la presa di posizione politicamente più rilevante. Il riferimento nella lettera alla vicenda dell’ex ministro Guidi, costretto parimenti alle dimissioni per un’indagine finita nel nulla, o il richiamo al processo alla sindaca Raggi ripetutamente assolta evocano lo scenario di una più lunga e complessiva riflessione sul rapporto tra indagini giudiziarie e campagne mediatiche. Da questa prospettiva l’analisi del ministro Di Maio segna uno scarto decisivo e irreversibile in un fronte politico che, troppo in fretta, era stato descritto come irrimediabilmente giustizialista. Due i passaggi che meritano un supplemento di considerazione. Innanzitutto la dimensione umana, in qualche misura interiore, che sembra ispirare l’iniziativa senza precedenti di Luigi Di Maio: «con gli occhi di oggi ho guardato con molta attenzione ai fatti di cinque anni fa. L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli». “Gli occhi di oggi” non sono altro che gli occhi di una visione laica, democratica, mite del processo penale e della presunzione di innocenza che quel processo, con i suoi risvolti negativi, dovrebbe contrastare ogni giorno e in ogni momento dentro e fuori le aule di giustizia. “Gli occhi di oggi” sono gli occhi di chi agisce con lo sguardo rivolto al futuro e ragiona sulla possibilità che il presunto innocente possa davvero essere un definitivo innocente. È solo abbandonando lo sguardo obliquo e parziale dell’inquisitore e proiettandosi verso la fine, del tutto incerta, del processo che si può assumere una postura di compostezza e mitezza che per troppi anni è andata smarrita. Il secondo punto è la svolta politica che si segna in questa stagione di riforme sui temi della giustizia che sembrava andare incontro a incertezze nell’opera riformatrice della sua collega di governo Cartabia: «con grande franchezza vorrei aprire una riflessione che credo sia opportuno che anche la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima … sono fortemente convinto che chi si candida a rappresentare le istituzioni abbia il dovere di mostrarsi sempre trasparente nei confronti dei cittadini, e che la cosiddetta questione morale non possa essere sacrificata sull’altare di un “cieco” garantismo». La cecità e lo sguardo, un ossimoro di grande efficacia che tiene insieme le fila sottili e fragili di ogni ragionamento in tema di giustizia. Occorre avere il coraggio di guardare a ogni manetta che scatta, a ogni informazione di garanzia, a ogni intercettazione con lo sguardo sereno, mite appunto, di chi comprende che le cose potrebbero stare in altro modo; di chi ha fiducia nell’autorità giudiziaria ma che sa bene che, se ci sono tre o quattro gradi di giudizio, è proprio perché il sistema può sbagliare; di chi comprende che inneggiare alla forca mediatica non rende un buon servigio ai protagonisti del processo e alle toghe chiamate anzi a un supplemento di prudenza e di moderazione nel mix inedito ed esplosivo che si è creato tra comunicazione di massa e indagini. Perché, sia chiaro, il ministro Di Maio il punto cruciale della questione lo ha perfettamente chiaro quando scrive «non è mia intenzione entrare in un dibattito sulla magistratura, visto che non attiene alle prerogative del sottoscritto in questo momento». Comprende bene che il problema si annida tutto nel nuovo assetto da conferire, prima ancora che al processo, alla stessa magistratura italiana. Un piccolo passo qualcuno dirà. Troppo poco o troppi tardi faranno eco altri. Ma la cittadella giustizialista ha, per la prima volta in modo così aperto e solenne, visto scricchiolare e creparsi le proprie mura. Certo ci vorrà tempo come in tutte le guerre decisive. Dopo Stalingrado era chiara la sconfitta dell’Asse, ma sono occorsi più di due anni per giungere alla vittoria. Una nuova stagione sembra possibile. Chapeau comunque la si pensi. Alberto Cisterna

Ex Ilva, Fitto: «Garantismo sempre e verso tutti». Il commento dell'eurodeputato dopo la condanna di Nichi Vendola La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Giugno 2021. Bruxelles - «Garantismo sempre e verso tutti, senza distinzione alcuna, quale principio di civiltà irrinunciabile. Vale anche nel caso molto delicato e complesso, per molteplici e ben note ragioni, della sentenza di primo grado nel procedimento Ambiente svenduto. Una sequela di condanne durissime che colpiscono i vertici di un’azienda tra le più rilevanti del Paese». Così in un post su Facebook l’on. Raffaele Fitto. «Vicenda ancor più grave, quando il giudizio condanna, come nel caso di Nichi Vendola, un vertice istituzionale che ha rappresentato i cittadini di una regione, nessuno escluso, che ne restano moralmente segnati - prosegue Fitto - . Auguro a Vendola di poter dimostrare, nei successivi gradi di giudizio, la sua totale estraneità a quanto gli viene contestato. Non solo per la sua personale onorabilità ma soprattutto per quella dell’istituzione che ha rappresentato». Fitto poi aggiunge che «da parte mia, nessun attacco, nessun insulto, nessuna esultanza: sentimenti che, invece, ho spesso ritrovato sul volto e nelle parole dei miei avversari in analoghe circostanze. Abbiamo vissuto tempi nei quali persino "l'auspicio" per così dire, di un avviso di garanzia o la "profezia" di un tintinnar di manette serviva a innescare la barbarie del linciaggio mediatico, della calunnia e dell’utilizzo politico delle vicende giudiziarie». L'eurodeputato li definisce «tempi torbidi e oscuri dei quali ho fatto anche io aspra e dolorosa esperienza per lunghi anni e che non auguro a nessuno, compreso Vendola che, di quei tempi, fu protagonista». Secondo Fitto «la giustizia, ovviamente, resta tale quando condanna e quando assolve. La fiducia in essa non è un rituale a secondo degli interessi e della posizione personale ma un dovere istituzionale. Mi auguro, infine, - conclude - che questa circostanza non venga sprecata sull'onda dell’emotività che induce, in taluni casi, a dissolvere anni di mal riposto "giustizialismo" in un impulso di rabbia, ma sia invece un’utile occasione per riflettere sui propri comportamenti del passato e soprattutto per evitare che si ripetano nel futuro». 

Il kompagno che scopre la giustizia indigesta. Domenico Ferrara il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Con la condanna a tre anni e mezzo per concussione aggravata sul caso Ilva, va in scena un cortocircuito rosso che pone Vendola in una situazione kafkiana. "Non sono mai stato a libro paga dei Riva". Lo diceva nel 2013 e lo ripete anche oggi, giorno della sua condanna a tre anni e mezzo per concussione aggravata. Nichi Vendola è rabbioso. E rilascia una dichiarazione di fuoco che mette in dubbio l'operato della magistratura: "Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata". L'ira è comprensibile: lui, paladino di una sinistra che ha sempre messo al primo posto la difesa dei lavoratori e dell'ambiente, che si ritrova dallo stesso lato della barricata in cui stanno i "padroni" da combattere. Non solo. Il vero contrappasso per l'ex leader di Sel è ritrovarsi accusato di averli financo aiutati. Quando nel 2015 venne rinviato a giudizio Vendola non aveva ancora maturato la rabbia nei confronti della magistratura. "Vado a processo con la coscienza pulita. Un rinvio a giudizio non è una condanna, è soltanto la porta di ingresso nel processo. Ovviamente, mi brucia molto la ferita che subisco: rappresento la politica che non è stata a libro paga dei Riva. E molti non possono dire la stessa cosa". C'era ancora un barlume di speranza nei confronti del sistema giudiziario. E c'era ancora la forza di passar sopra alle accuse politiche dei forcaioli, una su tutte quella del giustizialista Grillo che già due anni prima, in un comizio pubblico nel 2013 a Potenza, lo aveva definito "servo di Riva". Adesso, la fiducia ha lasciato il posto alla furia. Alla ribellione. Va in scena un cortocircuito rosso che pone Vendola in una situazione kafkiana. Anche perché nel 2012 era lo stesso presidente Vendola che esortava la classe dirigente a "evitare l'irruzione a gamba tesa nel recinto in cui la magistratura esercita le proprie funzioni''. Ne è passata di acqua nei ponti da quel lontano 31 agosto 2006 giorno in cui l'allora presidente della Regione Puglia avviava il suo "rapporto" con l'Ilva da lui considerata sempre un ''oscuro oggetto del desiderio'', perché da un lato "sentivo il fascino della grande fabbrica", dall'altro ''percepivo l'asprezza delle condizioni di lavoro di quella immensa scatola di fuoco e di acciaio". In una missiva indirizzata al patron Emilio Riva, Nichi poi scriveva: "Caro ingegnere, la sua azienda è dinanzi a un bivio: o sceglie la strada del più acuto dei conflitti di classe o si lancia a cuore aperto in una nuova stagione. La nuova stagione è quella in cui la fabbrica può crescere e diventare, ancor più di oggi, un protagonista mondiale dell'industria siderurgica: ma a condizione che l'organizzazione interna del lavoro sia capace di sconfiggere la finta fatalità di una morte che varca quei cancelli con troppa facilità. Possiamo dimostrare che la vita, la salute, la dignità non sono incompatibili con la parola Ilva? Io penso di sì. E spero che lei voglia condividere con me questa speranza''. Oggi però l'unica cosa che Vendola condivide con i Riva è una condanna penale. Il tempo e la giustizia si incaricheranno di stabilire eventuali altre verità che al momento, al contrario di quello che sostiene Vendola, non ci sono.

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...

La svolta del pm. Non solo Di Maio: anche Woodcock fa dietrofront e si scaglia contro pentiti e ergastolo ostativo. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2021. E proprio nel giorno del pentimento di Di Maio arriva un secondo e clamoroso pentimento. Quello di uno dei più celebri Pm d’Italia, Henry John Woodcock. Il quale già in passato aveva dato segnali intermittenti di garantismo. E ieri ha scritto un lunghissimo e liberalissimo articolo sul Corriere del Mezzogiorno nel quale critica in modo sferzante due capisaldi del giustizialismo: l’ergastolo ostativo e l’uso leggero e spregiudicato dei pentiti. Già il titolo dell’articolo illumina la svolta nel pensiero di Woodcock: “I pentiti e tutti i danni dell’ergastolo ostativo”. Nell’articolo Il magistrato spiega che esiste una differenza robusta tra ravvedimento e delazione. E poi spiega quanto, a volte, il pentimento sia pericoloso, o fuorviante o inattendibile o tutte e tre le cose insieme. Scrive testualmente: «In tale ottica sarebbe altrettanto impellente una riforma seria che argini in qualche modo la tendenza delle Procure Distrettuali Antimafia ad imbarcare decine e decine di collaboratori di giustizia che, almeno in alcuni casi, si prendono gioco della stessa Autorità Giudiziaria, e non solo – purtroppo – del Pubblico Ministero, ma anche del Giudice. Con ciò non voglio affatto negare il fondamentale e decisivo apporto fornito da molti collaboratori “seri” nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Dico solo che, in sintonia con quella che era la originaria prospettiva dei “padri” della legge sui pentiti, occorre maggiore vigilanza da parte del Pm, occorre evitare che – tra pentito e Pubblico Ministero – si crei una sorta di “sindrome di Stoccolma” rovesciata, e che di veri Giudici non ce ne sia soltanto uno, e per giunta a Berlino, ma se ne riempiano i Tribunali della penisola». Beh, se lo dice lui…

Ilario Lombardo per "la Stampa" il 31 maggio 2021. Secondo Giuseppe Conte il dibattito scatenato dal mea culpa di Luigi Di Maio sta scivolando verso un grosso fraintendimento. Perché un conto è prendere le distanze dalla gogna mediatica verso indagati, imputati, condannati, un altro pensare che il M5S possa abbandonare principi e battaglie sulla giustizia che lo caratterizzano da sempre. Il clamore suscitato dalle parole di Di Maio dopo l'assoluzione dell' ex sindaco di Lodi Simone Uggetti e il gelo di una fetta di parlamentari e attivisti storici hanno convinto Conte, sebbene ancora senza le vesti ufficiali del capo politico, a uscire con un lungo post per chiarire meglio lo spirito che guida il «nuovo Movimento». «Garantiremo il massimo del rispetto alla dignità di ogni persona - dice - tenendo sempre fermo il massimo rigore nel pretendere rispetto delle istituzioni e dei più alti principi dell' etica pubblica e della trasparenza». La sintesi politica la offre con parole ancora più nette chi ha parlato con lui nelle ultime ore: «Basta giustizialismo mediatico, certo, ma questo non significa che il M5S cederà sulla prescrizione». Il che vuole dire che i margini per un compromesso sono stretti, anche alla luce delle due proposte sulla prescrizione avanzate dalla commissione per la riforma del processo penale che la ministra Marta Cartabia ha affidato all' ex presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi. Non vanno nella direzione giusta, secondo i 5 Stelle, insoddisfatti anche sulla parte dell'inappellabilità da parte del pm e su quella dell'azione penale affidata al Parlamento. Così si complica la strada per il governo di Mario Draghi, alle prese con la tagliola fissata dall' Europa per accelerare gli elefantiaci tempi della giustizia italiana. Senza riforma, i rubinetti del Recovery fund si chiuderebbero. Da quanto ricostruito con le fonti più autorevoli sul tema, Conte e il M5S sono disposti a spingersi fino a un certo punto di mediazione. L'avvocato ne ha parlato con la delegazione dei parlamentari prima del confronto con Cartabia. Le soluzioni possono essere diverse. Una potrebbe essere il "lodo Conte bis", che fu usato per scongiurare la crisi con Matteo Renzi, prima della pandemia, e che prevede la sospensione della prescrizione dopo il primo grado solo in caso di assoluzione. Conte non intende rinnegare una sua idea ma allo stesso tempo ha offerto altre ipotesi. Una si ispira al modello tedesco che prevede formule risarcitorie. Per accelerare i tempi della giustizia bisogna intervenire prima con «meccanismi interni», usando corsie preferenziali, e tutti gli investimenti massicci in personale e modernizzazione tecnologica che sono stati già avviati. Poi, sostiene Conte, in caso di oggettiva compromissione dei tempi, si può offrire una riduzione della pena come avviene in Germania. L'obiettivo, confida l'ex premier, deve rimanere sempre quello di non arrivare alla prescrizione. E nel post lo mette giù così: «Assicureremo il massimo impegno per realizzare le riforme già avviate» per un «sistema giustizia» più celere, più efficiente, ma anche più equo. «Ci faremo scrupolo di applicare tutti i principi costituzionali a partire dalla presunzione di innocenza e dal principio della durata ragionevole dei processi. Ma sia chiaro: la via maestra è realizzare un sistema che offra risposte chiare e certe alla domanda di giustizia, non scorciatoie nel segno della "denegata giustizia"» Tutto lascia pensare che, al momento, un punto di caduta concreto tra i partiti sia impossibile. La giustizia è il tema che più divide le forze politiche della maggioranza. Ha fatto innalzare bandiere e scavare trincee. E rimane l' ultimo avamposto dei 5 Stelle, indeboliti su più fronti, da quasi tre anni di governo, da tanti ripensamenti, e dalla defenestrazione operata da Draghi degli uomini di vertice scelti da Conte o da Di Maio. Se crollasse anche il bastione della giustizia, è la convinzione di tutti i grillini, sarebbe la fine. Per questo, scrive l' ex premier, il processo di maturazione che è in corso nel Movimento non deve trarre in inganno: «Riconoscere come errori alcuni toni e i metodi usati nel passato, come ha fatto Di Maio, vuol dire dare un segnale di questa maturazione». Ma «rimarrà deluso chi pensa che il nuovo Movimento possa venire meno a queste convinzioni o pensa di strumentalizzare questo percorso». Conte sente di aver lavorato molto nei due anni e mezzo di governo per placare i bollori del giustizialismo più estremo e scenografico dei 5 Stelle. E chiede che da ora in poi ogni battaglia poggi sulle basi di una «cultura giuridica solida e matura», che non può prescindere dai «principi di legalità e dal valore dell' etica pubblica». Anche in questo vuole chiarire. E lo fa con un esempio: considera «non tollerabile» quando detto dal sottosegretario leghista al Tesoro Claudio Durigon (che in un audio dice di essere tranquillo riguardo a un' indagine perché il generale della Guardia di Finanza che indaga sulla Lega è stato scelto dal partito, ndr). Ne chiede le dimissioni, non perché ci sia un reato, ma perché anche se fosse semplice millanteria denoterebbe «un' idea marcia delle istituzioni». È una questione di opportunità. Appunto: «Di etica pubblica».

IL CASO UGGETTI, I POLITICI MANETTARI E LA SCENEGGIATA DELLE SCUSE TARDIVE. La mossa di Di Maio che chiede perdono all'uomo che lui e i suoi hanno linciato è puramente tattica, un gesto con cui rimediare alle molte ferite che ancora accompagnano il rapporto fra M5s e Pd. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 29 maggio 2021. L’ex sindaco di Lodi Uggetti è stato totalmente scagionato, assolto per non aver commesso il fatto benché sia stato sbattuto in galera e messo alla gogna dai giornali manettari capeggiati ovviamente dal Fatto che lui chiama il Misfatto.

E adesso ci troviamo di fronte ad un nuovo fenomeno che ancora non conoscevamo ma cui forse dovremmo abituarci: le pubbliche scuse politiche a mezzo stampa. Di chi? Del ministro degli Esteri Luigi Di Maio il quale bontà sua e con nobile evoluzione, auspica che finisca l’epoca del giustizialismo forcaiolo e persino che ci si possa affacciare fuori della caverna sulla soglia della civiltà. Si tratta come ognuno può vedere di una volgarissima truffa di cui io stesso ieri mi sono premurato di avvertire lo stesso bravo sindaco Uggetti, che è un uomo turbato, stupito, tradito dal suo partito che è il partito democratico, un uomo che si sente in attesa, in stand by, perché gode la libertà di poter scegliere, così ha detto, dopo essere stato trattato come una pezza da piedi non soltanto dalla maledizione cosmica delle 5 Stelle sull’Italia, ma anche dall’astuzia miope e opportunista del suo stesso partito. Infatti, è ovvio ed evidente che la mossa di Di Maio che chiede perdono all’uomo che lui e i suoi hanno linciato sia puramente tattica, sotto la forma di un gesto paraculo con cui rimediare alle molte ferite che ancora accompagnano il rapporto fra grillini e piddini. La controprova, semmai ce ne fosse bisogno, di tale ipocrisia sta nel fatto che nello stesso momento si può dire in cui Uggetti veniva riconosciuto innocente, libero, restituito all’onore e alla dignità, un altro sindaco si trovava in condizioni identiche, senza ricevere neanche un like via whatsapp: il sindaco Vignali di Parma, di Forza Italia, il quale fu accusato con un’azione giudiziaria psicologicamente e umanamente violentissima che dette luogo a una catastrofe del centrodestra in cui si inserì la vittoria dei 5 Stelle con Pizzarotti. Il quale, essendo a sua volta un uomo per bene indipendente, ben presto mandò a quel paese i 5 Stelle con Beppe Grillo, ottenendo in cambio aperture di procedimenti giudiziari. Da queste vicende è evidente la sciagura che il manettarismo penta stellato e della loro compagnia abbia ha scatenato sull’Italia. Ed è anche giusto ricordare, come ha detto lo stesso sindaco di Lodi con cui ho parlato ieri durante una diretta televisiva, che anche Matteo Salvini quando venne a Lodi mentre lui era ingiustamente sotto accusa e imbavagliato senza potersi difendere, lo derise alzando le due braccia con i polsi incrociati a far intendere le manette, questo simbolo infame di cui si decorano i populisti di ogni razza e che da sole bastano a identificare i nemici della Repubblica e della Costituzione, camuffati da difensori della giustizia dell’onestà con un abuso edilizio sulla credulità popolare. Bisogna per questo ricordare che la maggior parte dei loro esponenti insediati nei municipi sono incorsi immediatamente nelle stesse disavventure di tutti gli altri, probabilmente essendo anche innocenti, ma senza poter dimostrare la loro arianità del bene. Se a questo aggiungiamo che contemporaneamente si è aperto un caso Palamara due, con la scoperta cioè di una ulteriore intercettazione attraverso il Trojan prolungata per tre mesi ulteriori dopo la chiusura delle indagini della Procura e la restituzione del cellulare, ecco che abbiamo un quadro ancora più completo della disfatta della giustizia italiana su cui troneggia per il momento la straordinaria lettera che la Corte di Strasburgo ha inviato al capo del governo italiano Mario Draghi e non al Consiglio superiore della magistratura in cui la Corte europea chiede perentoriamente al governo di dire se per caso il cittadino Berlusconi Silvio è stato davvero processato in maniera equa, secondo leggi già esistenti al momento della pretesa violazione come la legge Severino, e come funzionava questa cosa del giudice Esposito che non fu sottoposto a procedimento disciplinare affinché, come spiegò Palamara, non si depotenziasse la velenosità della condanna all’ex presidente del consiglio di Forza Italia. La questione giustizia scoppietta di bubboni che vengono a maturazione, avendo noi come unica consolazione il fatto che l’Europa ci ha ordinato manu militari e contando sull’appoggio totale Di Mario Draghi che ormai è il leader dell’Europa e incidentalmente presidente del consiglio italiano, affinché il sistema giudiziario italiano sia buttato nel la discarica e sostituito da uno nuovo più simile a quello delle tradizioni europee che non ha una jihad italica. Si può contare sul fatto che la riforma del genere la raggiunga qualche buon risultato, perché se così non fosse l’Europa non ci darebbe i miliardi del Recovery ed ecco il motivo per cui finalmente il Parlamento si muove visto che al governo c’è un uomo certamente voluto dall’Europa, appoggiato dall’Europa, ieri anche vezzeggiato da Angela Merkel che in una conferenza internazionale non faceva che parlare “del suo Mario” e di quanto è bravo Mario e come lei abbia fiducia in lui. Citiamo questo curioso episodio soltanto per consolidare la nostra opinione che la giustizia italiana viene riformata in Europa; e ricordo anche che a stretto giro di dichiarazioni il nostro Presidente del Consiglio ha risposto alla Cancelliera tedesca che lui, Draghi, quanto a femminismo non lo batte nessuno perché ha appena nominato una donna a capo dei servizi segreti e che questo ancora non si era mai visto nell’Europa continentale.

Dopo il caso Uggetti. Svolta dei 5Stelle, Di Maio chiede scusa: basta gogna e manette! Angela Azzaro su Il Riformista il 29 Maggio 2021. «Chiedo scusa al dottor Uggetti, mai più gogna». Le parole di Luigi Di Maio arrivano a sorpresa in una lettera pubblicata dal quotidiano Il Foglio per suggellare la fine di una stagione politica fatta di insulti, manette e fango. «L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco – scrive nel suo “mea culpa” il ministro degli Esteri – ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono grottesche e disdicevoli». Parole dure, rivolte a se stesso e ai suoi compagni di manette quando insieme manifestavano contro l’allora sindaco di Lodi trattato come un mostro per un appalto di 5000 euro e poi assolto dalla corte d’Appello di Milano perché il fatto non sussiste. Di Maio va oltre e mette in discussione non un fatto singolo, ma l’intero sistema: «Il punto qui è un altro e ben più ampio, ovvero l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale». E cita il caso di Tempa Rossa che portò alle dimissioni di Federica Guidi poi risultata innocente o il caso Eni, altrettanto clamoroso. La lista – ricordano diverse reazioni alla lettera di “pentimento” – sarebbe lunga, troppo lunga e rischia comprendere anche il futuro. Sincere o strategiche e un po’ furbe, le scuse del ministro degli Esteri restano importanti e ora – chiedono Italia viva e Forza Italia – si deve passare dalle parole ai fatti. E i fatti sono dire sì nel governo e nel Parlamento alla riforma Cartabia a partire dalla prescrizione stravolta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Passare dalle parole ai fatti dovrebbe voler dire anche arrivare alla approvazione della responsabilità civile dei magistrati e all’abolizione del carcere preventivo. Sicuramente la lettera di Luigi Di Maio è un via libera alle riforme di Cartabia. La lezione che qualche giorno fa la ministra ha impartito ai Cinque stelle, in occasione del confronto sul documento proposto dalla commissione Lattanzi, deve aver convinto l’ex capo politico dei grillini a fare un passo in avanti, chiedendo scusa all’uomo che aveva linciato. L’intento è chiaro: levare ogni impedimento per una piena adesione alla maggioranza di governo. E per fare questo Di Maio, seguito subito dopo da Giuseppe Conte che ha condiviso le scuse («Riconoscere gli errori è una virtù»), non ha avuto timore di chiudere la porta in faccia a quello che era il dna del movimento: il giustizialismo. Ora esistono ufficialmente due realtà nate da quello che furono i Cinque stelle. Una che abbandona la gogna; l’altra capeggiata da Marco Travaglio e dal Fatto quotidiano che resta testardamente a capo del partito delle manette. La reazione più stizzita è stata quella di Alessandro Di Battista. «Le parole di Di Maio? Chiedete a Luigi dei suoi pensieri», ha detto prendendo le distanze dalle affermazioni dell’ex amico e ribadendo la sua idea di presunzione di colpevolezza: «Alessandro Profumo, numero due di Leonardo è innocente perché non ha subito una condanna definitiva quindi i suoi diritti costituzionali sono garantiti. È giusto o sbagliato che in questo momento continui a essere il numero uno di una delle più importanti aziende partecipate italiane? Secondo me è sbagliato…». Come lui la pensa il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, uno che alla sua collocazione giustizialista non ci rinuncia per nessuno motivo. Le partite che si giocano sono due. Quella sulla riforma della giustizia, che a questo punto molto probabilmente potrà procedere a passo spedito chiudendo due anni da incubo. E quella più politica che ricolloca il movimento Cinque stelle su due fronti opposti: da una parte l’area Di Battista-Travaglio che resta ancorata all’anima populista, dall’altra quella capeggiata da Di Maio-Conte (anche se non in totale sintonia) che si sovrappone all’area moderata del Partito democratico. La lettera di Luigi Di Maio leva dall’imbarazzo il Pd. Ma l’alleanza non è più con i Cinque stelle ma con qualcosa di nuovo e inedito nato dalle sue costole che potrebbe arrivare a mettere da parte anche alcune ossessioni ben radicate in tutta la politica italiana, come il tema dei vitalizi. Il ministro degli Esteri è arrivato infatti a scrivere: «Per me esiste il diritto della politica di muovere le sue legittime critiche e richieste, ma allo stesso tempo esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente». Un finale (“… e anche successivamente”) che fa pensare al venire meno delle barricate anche sul tema delle pensioni ai parlamentari che hanno subito condanne. Del resto anche in Senato il voto delle mozioni sui vitalizi è stato solo il tentativo, non andato in porto, di giocare una carta giustizialista che appare sempre più sbiadita. La vittoria di una battaglia sicuramente decisiva non deve però far credere di aver vinto la guerra. Il giustizialismo è entrato nelle pieghe di questo Paese, ne ha distorto il senso comune, ha eretto gogne mediatiche difficilmente smontabili con una sola lettera. Ma la tappa è importante soprattutto se la riforma della giustizia diventerà non più una chimera ma una realtà. Forse i tempi più bui sono davvero finiti. Anche se a tenere alta la bandiera delle manette non restano in pochi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Di Maio garantista? Falsa conversione. Nicola Porro il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. La situazione è ridicola, ma non seria. Il leader del partito che ha raccolto un terzo dei seggi in Parlamento, Luigi Di Maio, urlando contro la Casta e agitando le manette, ha fatto, come sapete, marcia indietro. La situazione è ridicola, ma non seria. Il leader del partito che ha raccolto un terzo dei seggi in Parlamento, Luigi Di Maio, urlando contro la Casta e agitando le manette, ha fatto, come sapete, marcia indietro. Scusandosi con un ex sindaco, quello di Lodi, ben cucinato sulla graticola del giustizialismo grillino (e leghista), e poi assolto. La situazione non è ridicola per le dichiarazioni di Di Maio, ma per il fatto che gli si creda. Oggi come ieri i commentatori parlano di conversione del leader a Cinque Stelle, si compiacciono della sua statura istituzionale. Sono tutte balle. Semplicemente a Di Maio il giustizialismo come posa assoluta non conviene più. Per meglio accomodarsi sui velluti del Palazzo il partito di Di Maio è disponibile a tutto: governa con colui che credevano l'orco delle privatizzazioni e dell'euro, cioè Mario Draghi, e financo con Forza Italia. Oggi se qualcuno avesse non dico memoria lunga, ma gusto per la cronaca, si renderebbe conto che Di Maio e il suo partito (dodici suoi colleghi, compreso l'ex premier Conte) soltanto pochi giorni fa hanno fatto il diavolo a quattro, ben poco garantista, contro l'attuale sottosegretario all'Economia, Claudio Durigon, chiedendone di fatto le dimissioni su un pettegolezzo. Contro i leghisti una spruzzata di manette è utile. Di Maio è diventato improvvisamente garantista. È peggio chi ci crede, rispetto a chi ci prova. Di Maio e il suo movimento sono come una ricerca su Google: basta fare una domanda e il motore di ricerca risponde ciò che si vuole. Vincono per la prima volta un grande comune, agitando lo spettro del termovalorizzatore, e finiscono per difendere il piano di alta velocità e accorciamento delle verifiche ambientali del Recovery. Conquistano le città (vero sindaco Raggi?) contro i grandi eventi: e oggi si porterebbero a casa anche la fiera internazionale del tulipano. Il partito più sessista e misogino dell'arco parlamentare (vedere video del loro elevato Grillo) vota con il Pd la seguente favolosa semplificazione: le aziende che beccano appalti pubblici devono dimostrare di avere almeno tot donne assunte. Dopo il certificato antimafia, dopo il Durc, arriva il certificato di genere. E le chiamano semplificazioni. Basta una letterina di Di Maio per credere ad una sua conversione garantista e immediatamente pensare che abbia contagiato i suoi simili. Soltanto un cretino non cambia mai idea. Ma soltanto un cretino può credere a Di Maio garantista, dopo che una settimana prima aveva gettato benzina sul fuoco del caso Durigon. Andate sul sito del Giornale.it e digitate: grillini e Durigon. E poi guardate la data: altro che garantisti.

Alessandro Di Matteo per La Stampa il 30 maggio 2021. Dal M5S non se ne è andata per sua scelta, è stata espulsa lo scorso febbraio per non aver votato la fiducia al governo Draghi. Ma, certo, l' ex ministra Barbara Lezzi ormai fatica a riconoscere il movimento nel quale ha militato per tanti anni. Le scuse di Luigi Di Maio all' ex sindaco Pd di Lodi non le capisce, anzi non le condivide proprio: «È un messaggio intempestivo, si rischia di dare il segnale di un abbassamento della guardia. Se lui è pentito, io non lo sono».

Quindi lei non chiede scusa a Uggetti, messo alla gogna per accuse dalle quali poi è stato assolto?

«No. Io non ho da chiedere scusa. In realtà i fatti ci raccontano che ci fu pure una confessione da parte sua: dichiarò di non essere stato proprio lineare in quella operazione. Ma, al di là di questo, rivendico quel coraggio del M5S di allora di accendere il faro sull' opportunità politica: qui non si tratta di giustizia, è un dato conclamato che nel nostro Paese ci sono amministratori, parlamentari, che negli anni sono stati oggetto di indagini e spesso di condanne. Nel caso di Uggetti leggeremo, c' è stata prima una condanna, poi un'assoluzione. Buon per lui per carità, ma leggeremo la sentenza».

Insomma, Di Maio sbaglia...

«Quel tipo di messaggio può essere confuso con un abbassamento della guardia. Lo trovo... intempestivo, diciamo così. In questo momento siamo in procinto di spendere molti miliardi in pochissimo tempo e certi segnali sono sbagliati. Peraltro, anche il compromesso sugli appalti non mi soddisfa, anche se devo leggere il testo definitivo. E anche sulla riforma della giustizia: c' è questa intenzione di andare a toccare la prescrizione, la legge anti-corruzione, di assoggettare la magistratura alla politica...».

Pensa che il M5S stia accettando troppi compromessi pur di stare al governo?

«Mi auguro di no, per il Paese. Ma quello che chiederei a Di Maio - se me lo trovassi di fronte - è: quindi durante il governo Conte I abbiamo sbagliato a chiedere la rimozione di Siri e Rixi? (rispettivamente sottosegretario e viceministro della Lega che lasciarono a causa delle indagini su di loro, ndr). Io ritengo ancora di no. Lui si è pentito? Io no. Peraltro, non gli chiedemmo di andarsene dal Parlamento: abbiamo chiesto che lasciassero il posto al governo perché forse avevano commesso un illecito. Lo stesso vale per Lodi, c'era una probabilità che fosse stato commesso un illecito. È questa la valutazione che si deve fare».

Beh, un conto è valutare l'opportunità politica di mantenere un certo incarico pubblico di fronte a determinate accuse, altra cosa è emettere una sentenza di condanna via social network, non pensa?

«Ma se io chiedo le dimissioni di qualcuno non significa che lo sto già condannando. Solo che per ottenere le dimissioni spesso bisogna chiedere con forza. Spesso il fatto di ritrovarsi di fronte a un muro di gomma fa alzare i toni. Io dico: non dobbiamo condannare nessuno, ma la valutazione politica in questi casi è sacrosanta, si deve fare».

Invece Di Maio ora definisce un «imbarbarimento del dibattito» le campagne contro gli indagati, e ricorda che anche Virginia Raggi ha fatto le spese di questa pratica. È una mutazione genetica del Movimento?

«Non si possono paragonare le questioni, Virginia Raggi è stata vittima di attacchi violenti per le sue scelte politiche - giuste! - non per le vicende giudiziarie. Sicuramente quello di Di Maio è un cambio deciso, significativo. Noi ci siamo caratterizzati per il rigore in questi anni. Rispetto il loro cambio di veduta, ma non lo condivido. I nostri eroi sono Falcone e Borsellino: se sfiliamo il 23 maggio e il 19 luglio (le date in cui vennero assassinati, ndr) dobbiamo fare nostro il loro insegnamento e non renderlo vano. Non devo giudicare io se queste parole di Di Maio sono un'evoluzione o no. Lo giudicheranno gli elettori».

Non è l'arena, Alessandro Sallusti e "l'anomalia Ciro Grillo": "Se al suo posto ci fosse stato il figlio di Berlusconi o della Meloni..." Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Sul caso di Ciro Grillo "c'è un'anomalia grande come una casa". Alessandro Sallusti, in collegamento con Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 punta il dito sulle implicazioni politiche dell'inchiesta per stupro che vede accusati il figlio di Beppe Grillo e tre suoi amici a Tempio Pausania, in Sardegna. "Il dottore Palamara mi ha raccontato che quando ci sono di mezzo dei politici, le inchieste possono essere accelerate, ritardate, imboscate, depistate in base alla convenienza che il sistema ha rispetto a quel politico. In questa vicenda c'è di mezzo il capo del partito che all'epoca dei fatti era l'azionista di maggioranza di governo e che esprimeva il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede". "Non credo sia stata una coincidenza - suggerisce il direttore di Libero - che finché il M5s era l'azionista di maggioranza e Bonafede ministro questa inchiesta sia rimasta nel cassetto della Procura sostanzialmente insabbiata. I verbali che oggi leggiamo sui giornali non sono di oggi, ma di anni fa. Io stesso - aggiunge Sallusti - ho mandato per due volte un mio bravissimo cronista, Luca Fazzo (del Giornale, ndr) alla Procura di Tempio Pausania e per due volte è tornato con le pive nel sacco dicendo da lì non esce nulla. Figuratevi se al posto del figlio di Beppe Grillo con Bonafede ministro ci fosse stato il figlio di Silvio Berlusconi o il figlio di Giorgia Meloni: dopo 2 minuti quei verbali sarebbero stati su tutti i giornali. Il sistema non è solo quello della giustizia, ma anche del giornalismo". Di fronte alle rimostranze di Luca Telese, Sallusti risponde con un esempio noto a tutti: "I verbali del caso Ruby uscivano in tempo reale. Finito l'interrogatorio un''ora dopo erano su tutti i giornali. I verbali del caso Grillo sono usciti dolo quando il Movimento 5 Stelle non era più azionista di maggioranza del governo". 

Marco Travaglio, fucilata a Luigi Di Maio: "Forma acuta di sindrome di Stoccolma", non digerisce l'assoluzione dell'ex sindaco Uggetti. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Marco Travaglio è avvelenato più che mai per le scuse di Luigi Di Maio a Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi che è stato assolto in Appello per la presunta turbativa d’asta su un bando per la gestione delle piscine comunali. “Qualche specialista - ha esordito il direttore del Fatto Quotidiano - prima o poi indagherà sulla sindrome di Stoccolma che ha colpito i 5 Stelle alla caduta di Conte. La forma più acuta si riscontra in Di Maio, che s’è scusato sul Foglio per aver avuto ragione sull’ex sindaco di Lodi”.  E qui Travaglio stravolta la verità processuale, descrivendo Uggetti nel seguente modo: “Arrestato nel 2016 per aver truccato una gara d’appalto, minacciato l’ufficiale della Finanza che indagava, cancellato email dal suo pc e infine confessato al gup la turbativa d’asta. Uggetti non si dimise perché glielo chiedevano le opposizioni (M5s e Lega), ma perché nessuno può fare il sindaco dal carcere: infatti a norma di legge fu sospeso dal prefetto e poi condannato il primo grado”. Ora l’ex sindaco di Lodi è stato assolto in appello e la cosa proprio non va giù al direttore manettaro del Fatto Quotidiano.  La replica di Uggetti non si è fatta attendere: “Non ho mai confessato ma sfido Travaglio a trovare negli atti processuali (che metto a disposizione) una sola riga che attesti la mia confessione”. Nel frattempo oltre alle scuse di Di Maio, sono arrivate anche quelle di Matteo Salvini, che ha rilanciato invitando l’ex sindaco di Lodi a firmare per il referendum di Lega e Radicali sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla limitazione della custodia cautelare. 

Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano - estratto il 30 maggio 2021. Qualche specialista prima o poi indagherà sulla sindrome di Stoccolma che ha colpito i 5Stelle alla caduta di Conte. La forma più acuta si riscontra in Di Maio, che s' è scusato sul Foglio per aver avuto ragione sull' ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, arrestato nel 2016 per aver truccato una gara d' appalto, minacciato l'ufficiale della Finanza che indagava, cancellato email dal suo pc e infine confessato al gup la turbativa d' asta ("a fin di bene"). Uggetti non si dimise perché glielo chiedevano le opposizioni (M5S e Lega), ma perché nessuno può fare il sindaco dal carcere: infatti, a norma di legge, fu sospeso dal prefetto e poi condannato in primo grado. Ora è stato assolto in appello: la giustizia così ridotta che assolve pure chi confessa. In pratica, il sant' uomo si credeva colpevole e poi, con sua grande sorpresa, ha scoperto di essere innocente. A sua insaputa. Resta da capire di cosa dovesse scusarsi Di Maio e che sia saltato in mente a Conte di lodare il suo autodafé. La Appendino si può capire: ha subìto due condanne in primo grado senz' aver fatto niente. Ma se non si possono più chiedere le dimissioni neppure di un sindaco in galera, che si fa: si riunisce la giunta nell' ora d' aria? Già che c'era, Di Maio ha pure fatto mea culpa per la campagna contro la ministra Guidi, beccata a veicolare un emendamento pro petrolieri su richiesta dell'ex fidanzato lobbista. Ma la Guidi, neppure indagata, lasciò il Mise non perché glielo chiese Di Maio, ma il premier Renzi. Che ora la dipinge come una vittima dei 5Stelle dopo averla cacciata lui. Il 31 marzo 2016 fece sapere alla stampa che la riteneva "indifendibile", era "furioso" ("È gravissimo che Federica non ci avesse detto chi fosse e che cosa facesse il fidanzato") e le aveva chiesto di dimettersi. Cosa di cui si vantò al Tg2: "Il ministro Guidi ha fatto un errore. Non c' è niente di illecito ma ha fatto un errore e ne va preso atto. In Italia adesso chi sbaglia va a casa". E nella sua newsletter: "Quando l'emendamento è stato formalmente presentato, il ministro l'ha comunicato in anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business. Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità". Che avrebbe dovuto fare un movimento legalitario di opposizione: difendere una ministra cacciata dal premier? Se qualcuno, in altre occasioni, ha esagerato con toni fuori luogo e parole fuori posto, ledendo la dignità personale di indagati o arrestati, si scusi pure. Purché non dimentichi i fatti: l'unica bussola che deve orientare un politico sulla questione morale (da non confondere con quella penale). …

Intervista all’ex sindaco di Lodi massacrato per 5 anni e poi assolto. Uggetti: “Le menzogne contro di me di Travaglio e Barbacetto”. Giulio Cavalli su Il Riformista il 29 Maggio 2021. “Di Maio chiede scusa ma l’ex sindaco assolto ha confessato”. Titola così oggi Il Fatto Quotidiano con un pezzo a piena pagina sull’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. Che Uggetti avesse confessato l’aveva scritto già il direttore del Fatto Marco Travaglio addirittura in prima pagina solo che in quell’occasione. Uggetti non poté rispondere poiché si trovava in carcere. Oggi da uomo libero e assolto con formula piena gli abbiamo chiesto cosa ne pensi.

Uggetti, Il Fatto Quotidiano (e molti commentatori in scia) scrive ancora oggi che la sua assoluzione è incomprensibile poiché avrebbe confessato. Che ne dice?

Non solo non ho mai confessato ma sfido Barbacetto e il suo direttore Travaglio a trovare negli atti processuali (che gli metto volentieri a disposizione) una sola riga che attesti una mia confessione.

Però Barbacetto insiste sulle sue pressioni nei confronti di una funzionaria comunale che ha addirittura registrato la conversazione.

Fui registrato a mia insaputa dalla funzionaria comunale e quella registrazione fu sventolata come prova regina per giustificare la mia carcerazione. A Travaglio e Barbacetto forse manca un pezzo della storia: durante il processo ho chiesto per ben due volte che quella conversazione fosse ascoltata in aula e per ben due volte l’accusa si oppose. La terza volta fu il giudice a disporre l’ascolto. Finita l’udienza ricordiamo tutti il volto incredulo del giudice. Se vogliono, spedirò a Travaglio e Barbacetto anche quell’audio.

Nella pagina del quotidiano oggi in edicola si ripete anche che lei sarebbe stato arrestato perché avrebbe avuto intenzione di distruggere le prove. Neanche questo è vero?

È documentale la testimonianza del responsabile e informatico del comune che consegno alla finanza un hard disk completamente integro.

Ma quindi quell’articolo è pieno di falsità?

Sono tantissime. Un esempio: nel pezzo si dice che le piscine scoperte della città fossero un affare, abbiamo la testimonianza del revisore dei conti e la perizia di una primaria società internazionale che dimostrano esattamente il contrario. Gli metto a disposizione anche questo.

Ma non c’è un problema giornalistico, oltre che politico, nell’uso strumentale della gogna come ha detto ieri Di Maio?

Assolutamente si. Soprattutto quando non si cerca la verità ma solo la conferma alle proprie tesi. Io della verità non ho paura e sono pronto ancora adesso a rispondere su ogni punto di quel processo.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Gaia Tortora massacra i 5s: «Hanno messo alla gogna e hanno infangato tante persone innocenti». Adriana De Conto sabato 29 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Tutto lascia pensare a una mossa politica”. Gaia Tortora sulla svolta garantista di Luigi Di Maio pone quesiti molto interessanti in un colloquio con l’Adnkronos. Non c’è solo Uggetti. Le scuse del ministro degli Esteri grillino per la gogna a suo tempo riservata all’ex sindaco di Lodi dovrà essere la prima di una serie di scuse, per essere credibile, commenta la giornalista.  “Non è mai tardi per chiedere scusa. Quindi ben venga se finisce così un periodo che il M5s ha alimentato in modo vergognoso non solo su Uggetti. Ma essere garantisti non è un cappotto che metti e togli a seconda della moda. Se Di Maio vuole indossarlo ben venga, ma attenzione: non è a la carte”.  E’ il giudizio con cui Gaia Tortora ha commentato la lettera di Luigi Di Maio, pubblicata da “Il Foglio”, nella quale il titolare della Farnesina ha chiesto scusa per i violenti attacchi rivolti dai 5 Stelle nel 2016 all’ex sindaco di Lodi. La giornalista, che come tutti sanno è figlia di Enzo Tortora, sa bene cosa significhi essere vittima perseguitata dalla giustizia. dunque non ha dubbi nel suo affondo affilato: “Forse Di Maio avrebbe dovuto aggiungere altri casi nella lettera a Il Foglio”. Già, tantissimi i casi per i quali il giustizialismo dei grillini si è abbattuto come una clava sul dibattito pubblico e contro le persone. Ma non è solo il M5S nel mirino di Gaia Tortora. Affilato il suo ragionamento sul ruolo del Pd, che ha brillato per il suo silenzio.  “Ed il Pd, che il ministro degli Esteri ha tolto d’impaccio sul tema giustizia sempre scomodo e toccato con le pinze dai dem, se c’è dovrebbe battere un colpo. Tanto più che Uggetti si sarebbe aspettato qualcosa anche dal suo partito, mentre non c’è stata una sola parola in questi giorni”. Secondo Gaia Tortora, le scuse all’ex sindaco di Lodi, arrestato nel 2016 con l’accusa di turbativa d’asta e poi assolto, in appello, con formula piena, fanno riflettere: “Tutto lascia pensare ad una mossa politica”; e al definirsi di “un’area che fa capo a Conte e Di Maio. E’ molto strano che adesso il ministro degli Esteri si ricordi di chiedere scusa; come che subito dopo Conte definisca virtuoso il suo gesto”, spiega. Insomma, un uno due piuttosto singolare. Dunque Gaia Tortora parte da questa considerazione per sollevare una lunga serie di interrogativi: “Perché proprio adesso individuare il danno enorme che ha fatto il Movimento? Quanti casi ci sono stati di persone innocenti messe alla gogna, infangate dai 5s in modo vergognoso ed a cui nessuno ha chiesto scusa? E a Di Maio dico e domando: il garantismo è qualcosa che si ha dentro. Ben venga tutto. Ma Uggetti è stato colpito nell’animo. Distrutto. Che ne pensano gli altri 5 Stelle? La Taverna? La pensano come Lei?”. 

Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera il 29 maggio 2021. Non c' è solo Simone Uggetti, il sindaco di Lodi assolto a 5 anni dal suo arresto perché «il fatto non sussiste», tra i destinatari delle scuse di Luigi Di Maio. Sono diversi i politici e non che negli anni d' oro dell'ascesa grillina sono finiti nel mirino dei 5 stelle perché coinvolti in qualche indagine da cui poi sono usciti puliti. Anzi, per essere più esatti, anche chi non è mai stato indagato ha subito l'offensiva del Movimento al grido di «onestà, onestà». È il caso, per esempio, dell'ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi. Erano i tempi del governo Renzi quando partì l'inchiesta su Tempa rossa, un grande centro di estrazione petrolifera della Basilicata. Un' inchiesta che fece tremare l'esecutivo e scatenare i grillini. Guidi non era nemmeno indagata. Non lo è stata neanche dopo. Lo era il suo allora compagno. Ma a marzo del 2016 la ministra si dimise ugualmente. Con gli amici, ogni tanto, ricorda ancora quando Renzi, che era all' estero, la chiamò: «Fede, se te la senti io ti sostengo». La risposta di lei fu definitiva: «Non ci pensare, sono io che non voglio, mi dimetto». Ora che gli anni sono passati ma l'amarezza è rimasta, ora che quell' indagine che sembrava esplosiva e che i grillini definivano «una nuova Tangentopoli», anzi anche peggio, è stata archiviata, Guidi preferisce non indulgere nei ricordi di quel periodo. Quando l'hanno avvertita della lettera di Luigi Di Maio al Foglio, o meglio, di «quel signore» come lo chiama lei, non ha provato nessuna soddisfazione: «Non riesco più nemmeno a leggere certe cose, non so perché quel signore abbia fatto questa operazione, ma temo che lo spirito dei tempi sia ancora quello giustizialista. Comunque il mio giudizio è meglio che me lo tenga per me, io sono lontana anni luce da quei signori, anni luce...», spiega agli amici. Del resto quella vicenda - sono parole sue - «mi ha devastato la vita, ha rischiato di distruggermi personalmente». Per questa ragione non vuole più ricordarla e non ha «gioito» nemmeno quando più tardi è stata riabilitata: «Preferisco che non si parli più di me». Naturale per una persona che ha visto sui giornali gli stralci delle sue telefonate private e non era neanche indagata. Un pizzico di ironia Guidi lo riserva solo alla battuta (contenuta in quegli stralci) in cui si paragonava a «una sguattera del Guatemala». Anche su quella la crocifissero a un'indagine in cui in realtà non era coinvolta se non come «persona offesa». «Ecco di quella frase che adesso ripetono tutti dovrei chiedere il copyright», ha scherzato. Per le sue dimissioni, rassegnate immediatamente, non ha proprio nessun rimpianto: «Meno male che le ho date, sennò avrebbero continuato a darmi addosso e io avevo tutto da perdere. Un figlio, una professione. Non ero una politica, ero una tecnica e infatti in quel periodo al ministero abbiamo chiuso tante vertenze, ma non ero preparata a quella devastazione. Ripeto non ero una politica ma un'imprenditrice». Professione alla quale è tornata e ora dalla politica preferisce «stare alla larga». Non è un mondo che fa per lei. Ancora adesso le capita di chiedersi il perché di quella vicenda: «Credo - confida spesso - che dallo sbloccacantieri in poi il governo Renzi abbia creato qualche problema... Era una stagione particolare e abbiamo pagato un po' tutti il fatto di stare in quell' esecutivo...». Quello che si preannunciava, del resto, avrebbe dovuto capirlo quando iniziò a circolare la notizia che nell' elenco dei ministri stilato da Matteo Renzi figurava il suo nome. Allora uscì la notizia che in Romania e Croazia erano sorti degli stabilimenti dell'azienda di famiglia, la Ducati Energia, a scapito di licenziamenti in Italia. «Una cosa del tutto falsa» che all' epoca la colpì non poco. Anche i sindacati confermarono che era una notizia destituita di ogni fondamento, ma tant' è, se ne continuò a parlare benché non fosse vero nulla, d' altra parte si sa che la calunnia a volte può diventare un uragano. E devastare una vita.

Luigi Di Maio pentito? Dalla Guidi a Lupi, ecco tutti gli impiccati dal grillino che ora rinnega se stesso. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. D'accordo che questo è un Paese cattolico, e che bastano tre Ave Maria per considerarsi ravveduti: ma non è che, allora, puoi dare l'assoluzione a Erode se d'un tratto si mette a gridare «save the children»; ergo, rispettando le proporzioni, non è che puoi darla al capo grillino Luigi Di Maio se d'un tratto manda una letterina al Foglio (ieri) e dice «Mai più gogna, chiedo scusa», questo a margine dell'assoluzione di Simone Uggetti, l'ex sindaco di Lodi. Allo stesso modo, non è che noi ora possiamo elencare tutte le volte che i grillini hanno preteso la gogna d'istinto (non per opinione: per riflesso) quando poi i fatti giudiziari li hanno clamorosamente smentiti, posto che la gogna andrebbe rifiutata in qualsiasi caso. Cioè: ieri è arrivato bello bello Luigi Di Maio che a margine della sua frenetica attività alla Farnesina (è praticamente disoccupato) ha letto l'impressionante sfogo dell'assolto Simone Uggetti - una vita politica e personale distrutta per niente - e si è ricordato di quando i grilli scesero in piazza a chiederne le dimissioni, non da soli, e quanto lui, Di Maio, contribuì «a esacerbare il clima»; quindi ha rammentato i sit-in, la «campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza», gli «attacchi che proseguirono per settimane e si allargarono al governo centrale», insomma il modus comportamentale classico del cane pavloviano-grillino quando si accende la lampadina delle manette. Insomma, altro che ave marie e letterina al Foglio: non è definibile la sua faccia che, a questo punto della nostra e sua storia, se ne esca soave con un «vorrei aprire una riflessione che credo sia opportuno che anche la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima» (vabbeh, farà dei disegni) inteso come dibattito su «l'utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale». Ma certo. Non possiamo negare il dibattuto, chessò, a una iena che voglia discutere di denti, unghie e cadaveri, non potremmo negarlo a Marco Travaglio che domattina se ne uscisse con una critica sull'uso distorto delle manette negli ultimi quarant' anni, e magari su una riabilitazione di Craxi, Berlusconi e Luciano Moggi. Ma a Travaglio non accadrà. Avrà pure un decoro. E invece Di Maio no, tocca apprendere da lui che ci sono «assoluzioni di cui non c'è traccia quasi da nessuna parte» e che «esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente»: possibilmente in questa vita, visto che l'abolizione grillina della prescrizione allunga i tempi sino all'aldilà. Di Maio «pensa ancora al caso Tempa Rossa che coinvolse Federica Guidi», ci pensa e basta, noi invece ricordiamo che nel marzo 2016 il caso occupò per giorni le prime pagine dei giornali e portò alle dimissioni dell'ex ministra dello Sviluppo economico: poi, nel gennaio successivo, fu chiesta l'archiviazione, ma quanti lo sanno? Il Corriere riportò la notizia a pagina 11, Il Fatto Quotidiano a pagina 9, i 5Stelle (anche qui: non da soli) avevano chiesto le dimissioni per lei e anche per la collega alle Riforme, Maria Elena Boschi, citata in una intercettazione agli atti della procura di Potenza in cui il ministro Guidi parlava col fidanzato. Di Maio, pure, «pensa al caso Eni» (tutti i 15 imputati, comprese Eni e Shell, assolti «perché il fatto non sussiste» e quindi dovrebbe pensare anche a quando Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia chiesero le dimissioni dell'amministratore Claudio De Scalzi e il commissariamento dell'azienda, anche perché, disse Di Battista, «noi avevamo studiato le carte e denunciato tutto in Parlamento»: e la notizia era questa, che avevano studiato.

IL CASO ROLEX - Poi i pensieri di Di Maio sul Foglio però finiscono, i giga di memoria sono pochi. Ci sarebbe Maurizio Lupi, che non fu neppure indagato ma il cui figlio accettò un Rolex da un imprenditore come regalo di laurea: dimissioni da ministro, attacchi orrendi dei grillini a lui e alla famiglia, i deputati pentastellati ad agitare orologi in Parlamento, tafferugli ed espulsioni, poi archiviazioni per tutti, ma non per il Ministro delle Infrastrutture che appunto non era stato neanche indagato. Dicevamo della Boschi e inevitabilmente di suo padre Pierluigi, vicepresidente di Banca Etruria e accusato di bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice. Il blog delle stelle, nell'agosto 2018, aggiunse carichi spaventosi in una pubblica lettera: «Sapevi che tuo padre incontrava Flavio Carboni (già condannato per il crac del banco Ambrosiano, quello per il quale venne ammazzato Calvi) a poche centinaia di metri dal tuo ufficio da ministro per chiedergli aiuto per Banca Etruria, lo stesso aiuto che tu chiedevi a destra e a manca utilizzando il tuo ruolo da ministro?». Archiviata la prima accusa e, nell'agosto del 2020, anche la seconda: ai tempi, Di Maio non «pensava». Forse erano i tempi di generici striscioni in aula tipo «Fuori i mafiosi dal Parlamento». Non si può neanche dire che a essere corresponsabili siano le eventuali e scomposte reazioni degli indagati, non almeno nel caso di Antonio Bassolino, uno che è stato assolto 19 volte in 27 anni (senza mai ricorrere alla prescrizione) e l'ultima volta lo è stato nel novembre scorso. I grillini però l'hanno sempre trattato come se fosse radioatttivo. Quando fu indagato per più eclatante dei processi che ha subito, quello come commissario per i rifiuti in Campania, i grillini neppure esistevano: ma a invocare le dimissioni provvide il facente funzioni Antonio Di Pietro, con la sua Italia dei Valori. Però, nel 2015, quando mancava meno di un anno alle comunali di Napoli e Bassolino stava meditando se ripresentarsi, ecco Luigi Di Maio, quello che pensa: «Se gli elettori preferiscono politici come Bassolino, che ne paghino le conseguenze». Il risultato è che, a forza di sostenere i magistrati, se ne ritrovarono uno come sindaco.

GUARDIAMO AL FUTURO - Ma scurdammoce 'o passato, direbbe Luigi Di Maio. Giusto. Guardiamo al futuro. Anzi, al presente. In gennaio hanno indagato per associazione a delinquere aggravata (faccende mafiose) anche Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc che si è subito dimesso. E non sappiamo come finirà. Lui ha detto di ritenersi «totalmente estraneo» ai fatti e il Procuratore Nicola Gratteri ha precisato che è indagato per via dei suoi «contatti». I giornali hanno pubblicato molte intercettazioni in cui Cesa non c'è mai, però si parla di lui e delle sue buone relazioni. Che ne «pensa» Di Maio? Pensa quello che ha detto, forse: «Mai il Movimento potrà aprire un dialogo con soggetti indagati per mafia o reati gravi». Niente dialogo: non gli parlano neanche. Dobbiamo aspettare un'assoluzione in Cassazione, che, come detto, con l'abolizione della prescrizione potrebbe giungere in un'altra vita. Per ora siamo vivi e no, noi nun scurdia mo 'o passato. Non dimentichiamo niente.

Dalla lotta al Cav alle espulsioni degli indagati le battaglie forcaiole dei grillini giustizialisti. Domenico Di Sanzo il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. L'anima manettara si è ammorbidita solo dopo i guai della sindaca Raggi. Le scuse di Luigi Di Maio all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti segnano una svolta nella storia del M5s. Questo perché le manette sono da sempre la ragione sociale dei Cinque Stelle. Anzi, potremmo dire che i grillini sono giustizialisti da prima che nascessero. Basta leggere le cronache del 10 giugno 2009, quattro mesi prima della fondazione del Movimento. Beppe Grillo quel giorno mette in piedi uno show manettaro durante un'audizione in Commissione Affari Costituzionali al Senato. Nei resoconti giornalistici dell'epoca il futuro leader stellato viene definito ancora «comico e blogger». Eppure le idee sono chiarissime. I toni da Torquemada. L'occasione è la presentazione di un ddl di iniziativa popolare sulla legge elettorale e sul «Parlamento pulito». Beppe dice basta ai condannati in Parlamento, ma parla di «scandalo» anche riferendosi agli indagati che siedono nelle aule parlamentari. Il tutto condito da frasi di questo tipo: «Sei persone hanno scelto chi mandare in Parlamento: amici, avvocati e, scusate, anche qualche zoccola». La cornice di quell'esordio è l'antiberlusconismo più feroce. «Al Tappone» e «psiconano» sono solo due degli appellativi usati negli anni da Grillo contro Silvio Berlusconi. «Dovrebbe stare in carcere», dice il comico nel 2013 dopo la condanna del leader di Forza Italia. Parole che oggi risuonano ancora più sinistre, dopo i recentissimi chiarimenti chiesti dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo proprio sulle motivazioni e il contesto politico di quella sentenza. D'altronde nel M5s bastava un semplice avviso di garanzia per essere espulsi e costretti a dimettersi dalle cariche pubbliche. Almeno fino al 2 gennaio 2017, giorno in cui Grillo presenta il nuovo «Codice Etico» per gli eletti grillini. Cade l'automatismo per cui ogni inquisito veniva cacciato dal M5s. Primi scricchiolii nel mostro manettaro. La norma è chiamata «Salva-Raggi», perché la sindaca di Roma in quel periodo stava per essere mandata a processo per l'inchiesta sulle nomine in Campidoglio. Sorte diversa per il sindaco di Parma Federico Pizzarotti. Che nel 2016 viene sbattuto fuori senza troppi complimenti per un avviso di garanzia. Nonostante il «Salva-Raggi», si torna alla ghigliottina per Marcello De Vito, presidente grillino dell'Assemblea capitolina arrestato a marzo di due anni fa per presunte tangenti per il nuovo Stadio della Roma. Luigi Di Maio, allora capo politico, è inflessibile. De Vito è espulso per direttissima. Restando a Roma, come dimenticare la scena del 2014 in cui si vede l'allora consigliera comunale Virginia Raggi che mostra delle arance - frutto che tradizionalmente si porta ai detenuti - durante una conferenza stampa per sbeffeggiare il sindaco Ignazio Marino, coinvolto nel «caso-scontrini». Accusato di peculato, Marino viene assolto in Cassazione nel 2019. Più recenti le battaglie dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Dalla «Spazzacorrotti» allo stop alla prescrizione dopo la condanna in primo grado. Ma le dimostrazioni del giustizialismo più violento sono sempre negli attacchi personali contro gli avversari. Come Maria Elena Boschi, linciata dai grillini per un avviso di garanzia ricevuto dal padre a gennaio 2016. Linciaggio a cui è sottoposto anche Matteo Renzi per il coinvolgimento del padre nell'inchiesta Consip. E poi la lista degli «impresentabili» diffusa da Di Maio prima delle politiche del 2018. Per finire nell'elenco bastava essere indagati. Senza scuse.

La fronda nel M5S dopo il caso Uggetti. Di Maio si pente per il caso Uggetti, Morra lo attacca e si paragona al sindaco arrestato: “Anche io sono stato indagato…” Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Maggio 2021. La lettera di Luigi Di Maio in cui l’ex leader politico del Movimento 5 Stelle e ministro degli Esteri si ‘rimangia’ il suo passato di forcaiolo spacca il mondo pentastellato. Nella missiva a Il Foglio ‘Giggino’ interviene dopo il caso di Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi assolto nei giorni scorsi dopo cinque anni di calvario giudiziario con una sentenza della Corte d’Appello per non aver commesso il fatto. Una liberazione per Uggetti, travolto dall’onta mediatica e dalla gogna targata Movimento 5 Stelle e Lega. I primi in particolare lo attaccarono senza pietà, non aspettando altro per dare addosso al Partito Democratico allora guidato da Matteo Renzi. Lo stesso Di Maio andò di persona a Lodi e su un palco allestito per l’occasione chiese le dimissioni di Uggetti. “Se non si dimette lui, le dimissioni gliele devono chiedere Renzi e Guerini, ma non ho sentito Renzi farlo ancora. Chiedo al Pd di liberare i cittadini lodigiani tenuti in ostaggio”, diceva all’epoca il ministro, che oggi si rimangia (quasi) tutto al Foglio. “Con gli occhi di oggi ho guardato con molta attenzione ai fatti di cinque anni fa. L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli”. Di Maio si scusa quindi con Uggetti, “da persona e da essere umano, prima ancora che da uomo delle istituzioni”, specificando come non ci siano contenziosi pendenti in corso, “penso soltanto che glielo dovevo”. Parole di discontinuità che non trovano d’accordo due ‘duri e puri’ del Movimento, talmente ‘barricaderi’ da essere espulso dal gruppo parlamentare il primo, e da andarsene da solo il secondo. Parliamo di Nicola Morra e Alessandro Di Battista, presidente della Commissione Antimafia il primo e leader dell’ala più oltranzista dei grillini (e degli ex 5S). Morra dagli studi di Omnibus su La7 resta convinto del suo "manettarismo". “La penso diversamente” da Luigi, ha spiegato Morra. Per il presidente della Commissione antimafia “evidentemente Di Maio ha fatto diversi errori, tra cui anche questo. La campagna di una forza politica non deve essere solo demolitoria ma anche costruttiva… Il Movimento doveva avanzare proposte finalizzate a moralizzare il quadro pubblico. Per quanto riguarda la selezione delle candidature si poteva far meglio”, ha aggiunto. Lo stesso Morra azzarda quindi un paragone a dir poco ardito col sindaco Uggetti, che ha scontato 10 giorni in carcere e quasi un mese di domiciliari, con una carriera politica distrutta. Per Morra la sua vicenda personale coincide con quella dell’ex primo cittadino di Lodi: “Quattro anni fa sono stato iscritto nel registro degli indagati per aver prodotto un’interrogazione parlamentare – spiega il presidente della Commissione antimafia – Ho comunicato tutto attraverso la trasparenza dei social, ho fatto sapere quanto mi stava capitando. Però da quell’atto, dal mio punto di vista assolutamente inaccettabile, perché contra legem, è nata una vicenda che ha procurato danno al sottoscritto… Ho semplicemente accettato la situazione”. Le parole di Morra sono ovviamente ‘bocciate’ dal vicepresidente dei senatori del Pd e capogruppo dem in commissione Antimafia, Franco Mirabelli. “Voler paragonare la sua vicenda, di cui in pochi si sono accorti, a quella dell’ex sindaco di Lodi che è stato costretto al carcere e si è visto privato dell’onorabilità politica mi sembra davvero un tentativo maldestro di fare confusione e di voler sminuire il senso e il valore della lettera che questa mattina Luigi Di Maio ha mandato al Foglio. Penso che anche questa volta il senatore Morra avrebbe fatto meglio a tacere”, lo ha attaccato Mirabelli. Stessa linea per Di Battista, uscito dal Movimento proprio per la svolta ‘governista’ pro-Draghi dei pentastellati ma da tempo in sofferenza con la gestione Di Maio. Ospite su Nove de La Confessione di Peter Gomez prova a fare un paragone: “Giorni fa non è stato arrestato anche il sindaco di Foggia in quota Lega? E che alcuni esponenti dei Cinque Stelle lo hanno attaccato? Allora non dovevano attaccare il sindaco della Lega arrestato perché ovviamente è innocente fino a sentenza passata in giudicato?”. Per quanto riguarda il sindaco di Lodi io sono contento per lui che sia stato assolto, questo a dimostrazione del fatto che evidentemente i tre gradi di giudizio funzionano”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

«Quando si tratta di violenza sulle donne rifiuto il garantismo». Nunzia De Girolamo, ex politica e oggi nota conduttrice televisiva, da "convinta garantista" rinuncia alla presunzione d'innocenza e reclama "sentenze dure ed esemplari" quando di mezzo c'è un'accusa per violenza sessuale. Il Dubbio il 27 maggio 2021. «Io sono una convinta garantista, è risaputo. Ma quando si tratta di violenza su donne e bambini il garantismo non va bene più, occorrono sentenze dure ed esemplari». A dirlo in un’intervista al Corriere della Sera è Nunzia De Girolamo, ex deputata e già ministro delle Politiche agricole nel governo Letta, oggi volto noto della Tv. Nella sua nuova veste di conduttrice e opinionista su La7, De Girolamo ha seguito alcuni dei casi di violenza sessuale noti alle cronache degli ultimi mesi, tra i quali la vicenda di Grillo Jr e Alberto Genovesi, entrambi accusati di stupro e spiattellati sulle pagine di tutti i giornali. Di quei casi, che De Girolamo definisce “agghiaccianti”, la conduttrice si è fatta un’opinione ben precisa. Un’opinione espressa più volte pubblicamente per ribadire che «il fenomeno è troppo diffuso e troppo sottovalutato. Le donne troppo spesso da vittime vengono trasformate in imputate: perché indossavano la minigonna, perché hanno bevuto alcolici, perché camminavano da sole di notte… Ma che significa? Ma scherziamo?». In particolare, spiega l’ex politica, «da quando collaboro con Non è l’Arena mi sono trovata alle prese con vicende drammatiche. Ho capito che per molte vittime denunciare è difficile: devono affrontare mille pregiudizi, l’imbarazzo di raccontare l’accaduto, lo stress del processo. Soltanto la certezza che i responsabili vengano condannati in maniera esemplare può aiutarle». A proposito degli strumenti di contrasto alla violenza di genere, De Girolamo considera il cosiddetto Codice Rosso «un passo importante». Ma, sottolinea, «c’è ancora molto da fare». Un fenomeno talmente odioso, prosegue la conduttrice, va combattuto con altri strumenti. Ma quali? «Se io ho cattive intenzioni – spiega – se sto pensando di abusare di una donna, devo sapere che sarò punito in maniera inflessibile. Che sarò privato della libertà, prima per evitare che lo faccia di nuovo, poi per meditare sulla mia condotta criminale».

Cara De Girolamo, non esiste un garantismo a corrente alternata. Livia Rossi, Tesoriere della Camera Penale di Roma, replica alle affermazioni dell'ex parlamentare forzista Nunzia De Girolamo che nei casi di violenza sessuale, dice, "smette di essere garantista" e chiede "pene esemplari". Il Dubbio il 27 maggio 2021. Sono rimasta colpita, ma non sorpresa, da un’intervista in cui Nunzia De Girolamo afferma che nonostante si ritenga una “convinta garantista” quando si tratta di violenza su donne e bambini “il garantismo non va bene più, occorrono sentenze dure ed esemplari perché il rischio è che altrimenti le donne vittime di violenze non denuncino”.  Non sono sorpresa perché si tratta di espressione tipica delle emozioni di piazza dinanzi ad una determinata tipologia di accadimenti. Sono tuttavia colpita perché, in questo caso, l’esternazione proviene da persona che, oltre ad essere una ex parlamentare, si è spesso occupata dei temi della giustizia definendosi, appunto, “garantista”. Credo che sia necessario innanzitutto intendersi sull’effettivo significato delle parole.  “Garantismo” è un concetto che, nell’immaginario collettivo, viene spesso confuso con “buonismo” o comunque con un qualcosa che sottrarrebbe il colpevole dall’accertamento “senza tentennamenti” delle sue responsabilità e dalla “certezza della pena”. Nulla di più sbagliato. Si tratta infatti di un principio dello stato di diritto che si concretizza nell’esistenza di un insieme di garanzie costituzionali finalizzate a tutelare le fondamentali libertà dei cittadini nei confronti del potere giudiziario. È espressione di democrazia, propria di uno Stato autorevole che amministra giustizia secondo le regole di un giusto processo ed arriva all’irrogazione di una sanzione adeguata al disvalore del comportamento accertato.  Si tratta quindi dell’unico modello di giustizia penale previsto dalla nostra Costituzione, che non accoglie un’idea di processo intesa come strumento di contrasto a fenomeni sociali. Il processo è e deve essere tecnico, finalizzato ad accertare le responsabilità di un fatto – reato. La componente emotiva/etica deve rimanere fuori dalle aule di giustizia. Il processo “etico”, celebrato “senza tentennamenti”, che soddisfi le aspettative dell’opinione pubblica prima ancora di quelle della vittima, che si concluda con una condanna “esemplare”, espressione di vendetta più che di giustizia, è infatti tipico dei regimi totalitari.  “Puniscine uno per educarne cento” lo diceva nel 1949, non a caso, un dittatore del rango di Mao -Tse Tung. E ad analoga politica punitiva si sono ispirate le azioni criminali delle Brigate Rosse negli anni ’70. Il garantismo non può quindi essere inteso a corrente alternata, semplicemente in base all’odiosità della soggettiva percezione del reato, perché così facendo si traduce inevitabilmente nel suo opposto principio, quello del giustizialismo, legato ad un’idea in cui, in sostanza, il fine giustifica i mezzi. La particolare gravità del reato, considerate le ripercussioni negative – spesso anche a livello mediatico – che la vicenda processuale già di per sé provoca all’imputato, dovrebbe, al contrario, indurre al rispetto ancor più rigoroso del principio di non colpevolezza previsto (per tutti i reati) dall’art. 27 della Costituzione. Tornando alle parole dell’ex parlamentare De Girolamo, nel caso di reati di violenza sulle donne il garantismo dovrebbe fare un passo indietro “perché altrimenti le vittime non denunciano e soltanto la certezza che i responsabili vengano condannati in maniera esemplare può aiutarle”. Ovvero la negazione del giusto processo e del principio di non colpevolezza, oltre che una visione parziale e miope del problema. Così ragionando, infatti, si profila un diverso insidiosissimo rischio, quello della possibile strumentalizzazione del processo penale. Un giudizio celebrato “con la certezza che i responsabili vengano condannati” , senza l’osservanza delle garanzie previste dalla legge e senza l’attenzione che la ricostruzione di tale tipologia di fatti richiede, darebbe il via libera al ricorso all’iniziativa penale in una pluralità di casi potenzialmente finalizzati ad obiettivi diversi da quelli che il processo deve perseguire (si pensi  solo alle possibili strumentalizzazioni nell’ambito della conflittualità di talune separazioni giudiziali). Il problema è culturale, su questo concordo con Nunzia De Girolamo, ma lo si deve affrontare puntando sulla prevenzione. La storia, anche recente, insegna infatti che l’inasprimento delle pene – anch’esso invocato dall’ex parlamentare – non ha alcun potere deterrente.

La racconto per farci quattro risate. La strana telefonata del giornalista finto garantista: “Ho trovato il suo numero nelle chat di Palamara…” Valerio Spigarelli su Il Riformista il 16 Maggio 2021. Questa è bella e la racconto per farci quattro risate. Difendo una persona per bene, un magistrato, sbattuto sulla prima pagina di un giornale “garantista” che si chiede come sia possibile che un magistrato denunciato da una collega possa rimanere al suo posto, cioè a dirigere un tribunale che dovrà celebrare uno dei mille “processi del secolo” che la stampa italiana onora ogni giorno. Il succo è: ti hanno denunciato, come minimo te ne devi andare. Il cronista-garantista mi chiama dopo la pubblicazione dell’articolo per verificare la notizia. Cioè fa dopo, quello che avrebbe dovuto fare prima secondo le regole del suo mestiere; cosa di cui mi lamento dicendogli che a seguirle ci avrebbe guadagnato, visto che avrebbe appreso che la denuncia contro il mio cliente sta per essere archiviata poiché è totalmente infondata, e dunque il suo articolo, oltre che deontologicamente più corretto, sarebbe stato anche aggiornato considerato che la pseudo notizia di reato è di oltre un anno fa. Peraltro, mi lamento, invocare “ragioni di opportunità” in ordine alla permanenza del mio assisto in quella sede giudiziaria per il solo fatto di aver ricevuto una denuncia mi pare un po’ in contrasto con la linea “garantista” del suo giornale; anzi, lo stuzzico, mi sembra più in linea con il modo di fare di quelle testate che omaggiano la cultura del sospetto sparsa a piene mani da quelli che dicono gli innocenti sono solo colpevoli che la fanno franca. Insomma alla fine gli mando una smentita che in verità pubblica sia pure annegandola sotto un titolo fuorviante di cui poi dirò. Ma questi sono particolari. La cosa simpatica, per modo di dire, è che il cronista-garantista, all’inizio della conversazione mi dice, meno simpaticamente, che mi chiama dopo aver avuto dal mio cliente il mio nominativo ma che il numero del mio cellulare se lo è trovato da solo «sulla chat di Palamara». Così, testuale. Quando me lo dice, – chissà perché visto che i miei numeri si trovano sull’albo degli avvocati e sul web – scoppio a ridere. Gli dico, senza spocchia giuro, che tutto sommato non sono proprio sconosciuto come avvocato, sono anche uno che scribacchia su qualche giornale, poi qualche processetto l’ho fatto (sì lo ammetto, gigioneggio un po’ con la frase che pronunciano in genere avvocati famosi sul serio quando vogliono fare i modesti a parole ma in realtà vanno in cerca di complimenti…) e ho avuto anche l’onore di presiedere una associazione di penalisti, garantisti veri e sul serio. Insomma, gli dico che se scriveva il mio nome sul web per avere notizie su di me, così come ormai fanno anche i più umili ed ignoranti dei clienti quando devono scegliere un avvocato, si sarebbe risparmiato la fatica di sguerciarsi sulle chat del povero Luca, che ormai per qualcuno sono diventate le pagine gialle della sentina giudiziaria. Finita la conversazione ci rifletto un po’ e sono contrastato da pensieri antagonisti. Il primo è frutto della debolezza dell’animo umano, perché più meno è questo: «Cavolo, sto nelle chat di Palamara, e allora, visto che non sono un magistrato, debbo per forza appartenere all’altra categoria dei suoi frequentatori, quelli potenti e famosi: attori, calciatori, politici e compagnia cantando». Pensiero di un secondo, purtroppo, perché in realtà non sono e non sono mai stato potente né famoso nel mondo che conta, sono solo stato per alcuni anni il presidente dell’associazione di cui sopra, che in qualche modo è la dirimpettaia dell’Anm, motivo per il quale con Palamara ci scambiammo il numero di cellulare. Ma, ahimè e per lo scuorno del giornalista garantista, mi sa che di chiacchierate via chat non ce ne è neppure una se non forse qualche invito a convegni. Quindi il primo pensiero tramonta subito, scalzato dalla dura realtà secondo la quale non posso aspirare ad aver congiurato con il mostro in ordine a carriere favori e altri benefit in qualità di personaggio in vista. Neppure i biglietti per vedere la Roma che, confesso, se avessi saputo con quale facilità se li procurava magari un pensierino ce lo avrei fatto. Il secondo pensiero è invece più serio. «Ma in che mondo viviamo se uno, prima di chiamarti, verifica, come ai tempi del Minculpop, se per caso c’è qualche immondizia da ravanare sul tuo conto. E poi lascia cadere soavemente «il suo numero l’ho trovato sulla chat di…». Sì, che schifo di mondo è questa Italia, dove ormai anche i ragazzini delle medie si registrano le telefonate e le conversazioni per ricattarsi l’un l’altro. Che postaccio sta diventando questo paese dove negli studi degli avvocati, all’ingresso, campeggia, assieme alle regole anticovid, l’avvertenza per i clienti di lasciare il telefonino in segretaria visto che è più facile intercettare un cittadino italiano che non fargli pagare le tasse. Che mondo è quello in cui i giornalisti consultano le chat di una persona mettendo all’indice tutti quelli che vi compaiono, soprattutto se sono magistrati, scambiando questo inguardabile modo di fare con la sacrosanta richiesta di risanamento della vita interna della magistratura. Siamo tutti immersi nella cultura del sospetto, anche molti di quelli che si proclamano seguaci delle idee liberali in tema di giustizia; pure quelli che fanno le bucce alla magistratura e la morale ai pm, salvo poi comportarsi da sbirri di quart’ordine con gli avversari del momento. Questa dilagante voglia di delazione, di controllo occhiuto, tocca molti ambienti e prescinde dal grado di cultura: è un abito mentale nazionale. Inutile ricordare ai molti epigoni di questo modo di essere che la storia dell’umanità, oltre che la cronaca di questi ultimi tempi, dimostra che questa sub cultura di solito travolge e porta sulla ghigliottina, quella vera o quella mediatica 2.0 dei tempi odierni, poiché in un mondo di epuratori alla fine spunta sempre il puro che ti epura. Insomma, per farla breve, dopo essermi preso in giro da solo sul fatto di non poter neppure sfruttare le chat di Palamara per far finta di essere uno che conta, ho finito la serata un po’ depresso pensando a che mondaccio cane lascerò in eredità ai miei figli. La mattina dopo mi sono svegliato, ho comprato il quotidiano garantista per vedere se avevano dato atto della mia nota e ho letto il titolo in prima pagina “Molestie, il giudice nei guai era nelle chat di Palamara”. Inutile dire che poi, nel testo dell’articolo, non era riportato niente di compromettente al proposito di quelle chat, solo un invito ad una cena, per giunta cortesemente rifiutato. Solo uno schizzo di fango gratuito da parte di chi d’abitudine allude nei titoli gridati a cose che poi non risultano neppure nel testo su cui campeggiano. M’è venuta voglia di mandare un’altra precisazione chiedendo di specificare che nelle chat di Palamara «c’è anche il suo avvocato», ma ho soprasseduto: i cultori del sospetto non sono spiritosi, meglio chiedere una rettifica riservandosi una querela per il cliente. Valerio Spigarelli

Piercamillo Davigo, Augusto Minzolini: "L'ultimo segno, crolla il mondo giustizialista di M5s e Pd". Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Il mondo giustizialista asse portante del Conte due sta crollando. Da quando è scoppiato il caso dei verbali secretati di Piero Amara che ha coinvolto anche il duro e puro Piercamillo Davigo, "i pilastri e i mattoni del sistema di potere giallorosso stanno venendo giù". Scrive Augusto Minzolini nel suo editoriale su Il Giornale, che sono esplose tutte le "contraddizioni di un mondo che è sopravvissuto a se stesso". Dopo il caso Davigo, infatti si è "rimessa in discussione la nomina di Prestipino a capo della Procura di Roma". Un'altra legnata a Conte, M5s e Pd è arrivata dal ministro Marta Cartabia le cui proposte sulla giustizia "rivoltano come un calzino il credo giustizialista grillino, tanto che da qualche giorno il Robespierre de' noantri Travaglik parla da solo e dà le testate al muro". E poi è stato silurato l'amico dell'ex premier, Gennaro Vecchione, ai Servizi. E ancora Mimmo Parisi, “il profeta grillino del reddito di cittadinanza, sta per essere cacciato dall'Anpal; per non parlare delle vicissitudini di Massimo D'Alema, prima alle prese con il caso dei 'respiratori cinesi farlocchi»” per le terapie intensive, raccomandati come presidente della Silk Road Cities Alliance, e ora con un contenzioso legale con la fondazione dei socialisti europei che vuole indietro 500mila euro presi dall'ex segretario dei Ds come stipendio quando era presidente dell'associazione". Infine ci sono le grane legali con Casaleggio che impediscono a Conte di diventare il leader dei 5stelle. In questo scenario nel Pd, continua Minzolini, "aumentano i dubbi sull'opportunità di puntare tutto sull'alleanza con un movimento in disfacimento secondo la linea di Enrico Letta, dubbi che fanno riaffiorare la voglia di una legge elettorale proporzionale". "È tutto un mondo che sta venendo giù", osserva Carlo Calenda. "Il fatto strano è che Letta, almeno la prima volta che l'ho incontrato, era consapevole di questa profonda crisi dell'alleanza giallorossa. Poi ha cambiato idea strada facendo. Non so neppure se abbia il coraggio di tornare al proporzionale: lui su quei temi ragiona in astratto, da politologo, e così facendo condurrà il Pd al disastro e aprirà la strada al trionfo delle destre". 

Augusto Minzolini per “il Giornale” il 14 maggio 2021. I primi segnali, incontrovertibili, sono stati avvertiti dieci giorni fa quando il mondo giustizialista, asse portante dell' ultima stagione politica, è andato in mille pezzi sulla scia dei verbali dell' avvocato Amara e sull' onda del caso Davigo, che hanno diviso gli eredi delle toghe rosse dall' ortodossia khomeinista dell'«ex» del pool di Milano. Ora, come in un domino, i pilastri e i mattoni del sistema di potere giallorosso stanno venendo giù. Un crollo impressionante, come quando demolisci di botto con il «plastico» uno di quei palazzoni industriali dell' età di Stalin che non hanno nulla più a che vedere con la realtà e sono un pugno nell' occhio per l' ambiente. E fra i tanti che stanno facendo brillare le mine, con metodo, c' è pure Mario Draghi. C' è lui, ma non è il solo: troppo esteso è il terremoto. La realtà è che sono esplose le incongruenze e le contraddizioni di un mondo che è sopravvissuto a se stesso. La cronaca è impressionante: dopo il caso Davigo è stata rimessa in discussione la nomina di Prestipino a capo della Procura di Roma («tutto il casino Palamara è nato da lì», riconosce Enrico Costa, esperto del settore nei Palazzi della politica); le proposte del ministro Cartabia sulla giustizia rivoltano come un calzino il credo giustizialista grillino, tanto che da qualche giorno il Robespierre de' noantri Travaglik parla da solo e dà le testate al muro; il Dragone ha silurato da un momento all' altro il capo del Dis, Vecchione, la mano lunga di Conte nell' intelligence, tanto che quest' ultimo ha perso la consueta calma («questo è un atto di sfiducia nei miei confronti»); e ancora, Mimmo Parisi, il profeta grillino del reddito di cittadinanza, sta per essere cacciato dall' Anpal; per non parlare delle vicissitudini di Massimo D' Alema, prima alle prese con il caso dei «respiratori cinesi farlocchi» per le terapie intensive, raccomandati come presidente della Silk Road Cities Alliance, e ora con un contenzioso legale con la fondazione dei socialisti europei che vuole indietro 500mila euro presi dall' ex segretario dei Ds come stipendio quando era presidente dell' associazione; eppoi c' è l' impasse di Conte, bloccato dalle beghe legali con Casaleggio che gli impediscono di diventare leader dei 5stelle; e, intanto, nel Pd aumentano i dubbi sull' opportunità di puntare tutto sull' alleanza con un movimento in disfacimento secondo la linea di Enrico Letta, dubbi che fanno riaffiorare la voglia di una legge elettorale proporzionale. «È tutto un mondo che sta venendo giù - ammette Carlo Calenda -, il fatto strano è che Letta, almeno la prima volta che l' ho incontrato, era consapevole di questa profonda crisi dell' alleanza giallorossa. Poi ha cambiato idea strada facendo. Non so neppure se abbia il coraggio di tornare al proporzionale: lui su quei temi ragiona in astratto, da politologo, e così facendo condurrà il Pd al disastro e aprirà la strada al trionfo delle destre». Appunto, come scritto, la caduta degli Dei. Il dato più singolare è che in tutto questo terremoto, la vicenda che ha fatto arrabbiare di più i grillini è stata la rimozione di Vecchione dal vertice dei servizi segreti. In realtà, se si tiene conto dello stretto rapporto tra lo stato maggiore grillino e la Link University, un ateneo legato a doppio filo al mondo dell' intelligence, la cosa non dovrebbe meravigliare: la bussola che ha sempre guidato il grillismo di governo, infatti, è stata quella del Potere; finito il Potere è venuto a mancare il collante. «Gli sta crollando tutto addosso - ha confidato ai suoi Matteo Renzi che, provocando la crisi del governo Conte, ha innescato il detonatore -: ho sempre detto che in sei mesi il sistema di Potere di Conte e gli equilibri che lo tenevano su, sarebbero caduti. Come al solito ho esagerato: sono bastati tre mesi». «Sta finendo un'epoca», ammette il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè. «Non avendo altro cemento che il Potere - osserva tranchant il leghista Stefano Candiani - quel mondo ormai è moribondo». Già, moribondo. Le due anime dell'alleanza giallorossa soffrono una crisi strutturale. Lo scontro tra ex toghe rosse e i seguaci del rito davighiano è il riverbero di questa crisi sull' altro Potere. Le proposte del ministro Cartabia sono uno schiaffo ai 5stelle, anche se appartengono alla civiltà giuridica: l' impossibilità dell' appello per l' accusa dopo una sentenza di assoluzione in primo grado, è da sempre una norma della giustizia Usa; l' indirizzo sui reati da perseguire che la Guardasigilli affiderebbe al Parlamento, in Francia è una prerogativa addirittura del governo; per non parlare della prescrizione, visto che garanzie sulla durata dei processi le pretende l' Europa. Solo uno che preferisce la sharia come Travaglik può gridare allo scandalo. Ebbene, sono proposte che la Cartabia può teorizzare solo perché l' anima grillina è in dissoluzione: se il leader dei cugini spagnoli di Podemos, Pablo Iglesias, si è ritirato dalla politica per una sconfitta elettorale, Beppe Grillo è azzoppato da uno scandalo di famiglia. Conte, invece, è sempre più in bilico come leader del Movimento. Non è detto che lo diventerà mai. Tanto che Gianfranco Rotondi, che per un anno intero ha accarezzato l' ipotesi di un partito dell' ex premier, immagina per lui un altro destino. «I 5stelle - è la sua profezia - si stanno disgregando. Alla fine Conte si candiderà con Forza Italia. È più come noi, che come loro. È un democristiano. Eppoi ha instaurato un rapporto con il Cav migliore del mio. Del resto che altra strada avrebbe? Andare con Letta? Ma quello è rimasto all' Ulivo, all' Unione, ad Andreatta, a Prodi. Roba del secolo scorso». Eh sì, perché se i 5stelle sono una meteora, il problema, dopo il crollo, è del Pd che deve reinventarsi una politica. Lì dentro, infatti, hanno capito che l' attuale schema fa acqua da tutte le parti. Anche Andrea Orlando, fan del patto con i 5 stelle, è tornato a parlare di proporzionale, di un sistema che sancisca le alleanze dopo il voto. Tre quarti del partito sono convinti che un' alleanza stretta con i grillini sarebbe un azzardo: vent' anni fa l' Unione saltò per Fausto Bertinotti, che pure conosceva il lessico politico, figurarsi una coalizione con Di Maio e compagni, sarebbe una sorta di suicidio assistito. Senza contare che quella della sinistra è una crisi di politica, di cultura, di sistema. Qualcosa di più profondo. Il primo a saperlo è Draghi, che nella sua maggioranza extra-large preferisce non infierire sulla debolezza di quel pezzo di alleanza, a costo di entrare in collisione con l' altra. «Non ho capito - confida il leghista Stefano Candiani - se Draghi è un lupo camuffato da agnello, o no. So solo che se Salvini propone riapriamo martedì, lui risponde mercoledì. Se Matteo dice al mattino, lui la sera. Eppure noi siamo i più affidabili della sua maggioranza, nel concreto anche i più vicini a lui sul piano dei contenuti. Ma lui salvaguarda gli altri, magari perché non vuole che facciano pazzie visto gli sta crollando il mondo addosso. Solo che noi non possiamo essere maltrattati in classe perché siamo i figli del maestro. Per cui la crisi noi sicuramente non l' apriremo mai, ma se poi Draghi vuole andare davvero al Colle, chi lo vota, visto che i voti li ha il centrodestra?!».

I referendum radicali. Svolte garantiste di Di Maio e Bettini, ma M5S e Pd avranno il coraggio di seguirli? Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Goffredo Bettini è stato molto chiaro. Ha detto che firmerà i referendum radicali sulla giustizia, ha detto che questi referendum sono l’occasione per riformare la politica, ha detto che bisogna smetterla di combattere i propri avversari usando i tribunali, ha detto – quasi esplicitamente… – che il Pd deve diventare un partito garantista. Ha scritto tutte queste cose, di suo pugno, in un articolo che è stato pubblicato ieri sul Foglio. Assumendo una posizione molto molto lontana da quella del segretario del Pd Enrico Letta che per due volte di seguito, nei giorni scorsi, si è collocato a metà strada tra i giustizialisti e quelli che ha battezzato, piuttosto sprezzantemente, gli “impunitisti”. Letta mette sullo stesso piano i Davigo e i Travaglio con i “maniaci” dello Stato di diritto. Bettini, sembrerebbe, non accetta questa equidistanza e, con coraggio, si schiera coi radicali e con i garantisti. Non riesco ad essere sicuro che si tratti davvero, finalmente, dell’apertura di una grande battaglia. Ideale e politica, come sono le vere battaglie. Che possa mettere in gioco il futuro e il destino della sinistra e del Pd. E avviare la transizione verso il socialismo libertario. Non ne sono sicuro perché troppe controsvolte, in questi anni, mi hanno reso pessimista. Però non me la sento di considerare l’uscita di Goffredo Bettini come una boutade, un mezzo passo di danza. Lo conosco da tanto tempo, Bettini, da quando eravamo ragazzi e facevamo politica all’Università. So che ha notevoli doti politiche, che ha capacità di pensiero e un eccesso di spregiudicatezza. So che è stato il figlioccio di due giganti del Pci come furono Pietro Ingrao e Gerardo Chiaromonte. Lontani tra loro: leninista ma laico e liberal il primo, migliorista e garantista vero il secondo. So anche che negli ultimi anni, dopo l’abbandono di Veltroni e D’Alema, e dopo la meteora Renzi, è lui che ha preso in mano, seppure da dietro le quinte, le redini del partito. Voglio fare una scommessa: mi fido. Così come – seppure con molti maggiori dubbi – mi fido della svolta liberale e antigrillina del giovane Luigi Di Maio. Che ha avuto fegato e ha parlato contro la gogna giudiziaria. È chiaro che qualcosa si muove. Probabilmente la crisi e il disvelamento del marcio nella magistratura ha mosso alla riflessione diversi settori politici. So bene che l’operazione politica garantista è un’impresa difficilissima, perché va a sbattere contro il muro di piombo costruito dal partito delle Procure. Che ha a sua disposizione gran parte del sistema informativo, e lo manipola con grande agilità e molto facilmente. Però una cosa mi sembra chiara. Che oggi in Italia una forza garantista non esiste. È garantista Berlusconi, certamente, ma non il suo partito. Sono garantisti i radicali, è garantista la diaspora socialista, ci sono alcuni garantisti isolati nel Pd, naturalmente in Forza Italia e in Fratelli d’Italia. Ma una forza in grado di condannare gli assalti alla politica e all’impresa e contemporaneamente gli assalti ai diritti dei migranti, dei disperati, dei rom, non esiste. Una svolta garantista del Pd avrebbe un effetto ciclone sulla politica italiana. Lo stesso valore sconvolgente che nel 1989 ebbe la svolta di Occhetto che spinse il Pci fuori dal comunismo. Quella volta Occhetto ebbe il sistema dell’informazione a favore. Bettini, se andrà avanti, se lo troverà contro. Ha il coraggio di andare avanti lo stesso? Dai, Goffredo, può essere il passaggio più pericoloso e esaltante della tua vita politica.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Se Gandhi incontra Alberto da Giussano. La riforma della giustizia di Salvini? Chiesta dai giustizialisti leghisti non convince. Roberto Rampi su Il Riformista il 3 Giugno 2021. Nella mia convinta e attiva partecipazione al Partito Radicale Transnazionale Trasparito e a quella che un tempo si chiamava “Galassia Radicale” in tutte le sue forme e, a maggior ragione, dopo l’onore di essere stato chiamato a partecipare al Consiglio Generale del Partito, ho sempre messo in conto e praticato, facendone un elemento caratteristico della mia storia personale e politica anche precedentemente e indipendentemente a quella radicale, il dialogo, il confronto e l’incontro con tutti. E sono assolutamente convinto sostenitore e difensore di quella pratica radicale profondamente e intimamente liberale e democratica che ritiene che si possa fare un pezzo di strada insieme con chiunque quando il cammino si incrocia e l’obbiettivo e la meta sono comuni e che non esistono in politica nemici, nemmeno avversari e men che men diavoli con cui non si può spartire nulla, ma invece vivano idee diverse con cui confrontarsi e rafforzarsi. Ero ragazzo quando difendevo la scelta, contestata da molti, di Marco Pannella di percorrere un importante tratto di strada insieme con l’allora innominabile Silvio Berlusconi, oppure quando decise l’operazione del gruppo tecnico al Parlamento Europeo pur di garantire spazi di partecipazione e di discussione persino con Le Pen padre. Tuttavia non mi convince la possibilità di raggiungere un obiettivo fondamentale come quello della Riforma della Giustizia insieme alla Lega e, in particolare, alla Lega di Matteo Salvini. In un rapporto esclusivo, non occasionale e dichiaratamente strategico per la “costruzione di una nuova classe dirigente”. Non è la Lega che mi preoccupa e tanto meno i singoli esponenti con cui capita quotidianamente di condividere pezzi di strada. Ad esempio, nelle battaglie per i diritti umani in Cina e Tibet (ma non in Russia, sic.). Non mi stupirebbe un cammino comune strategico, ad esempio su aspetti che riguardano le politiche economiche, la fiscalità, la piccola media impresa, l’approccio allo Stato. Ma su giustizia e carceri occorre ricordare che la Lega nasce e fiorisce nei consensi proprio sull’onda emotiva e anti politica degli anni ’90, detiene tutt’ora il non invidiabile primato di aver portato il cappio nelle aule parlamentari, ha coltivato il giustizialismo, la detenzione definitiva, il braccio violento della legge come caratteristica fondante e non occasionale della sua identità. La Lega di Salvini, poi, rinasce accentuando queste sue caratteristiche per l’oggi e per il domani e inquadrandole in un progetto sovranazionale di Nuova Destra Europea che incrocia i campioni delle nuove democrature ungheresi e polacche. Quella Polonia che fa della frattura dell’equilibrio tra i poteri dello stato e dell’attacco frontale ai giudici e alla loro indipendenza il fronte più avanzato di un modello che risuona nelle motivazioni di Salvini anche nel momento del lancio quella campagna referendaria. Non si tratta, purtroppo, di ricostruire un equilibrio spezzato, di dare valore all’intuizione costituzionale di una giustizia ripartiva, lontana da ogni forma di vendetta. Come possono coesistere la concezione giudiziaria di chi è per sbattere in carcere e gettare via le chiavi, di chi giustifica i pestaggi in carcere, di chi si scandalizza ogni volta che viene applicato un istituto di garanzia, di pena alternativa, di clemenza, di chi considera abominio la parola amnistia, di chi mimava il gesto delle manette nei giorni successivi l’arresto di Simone Uggetti, con il modello e le battaglie che solo in casa Radicale si sono potute praticare in tutti questi anni. Non mi scandalizzo. Non mi preoccupo, ma ne occupo. Credo che le finalità siano profondamente diverse. Sono pronto a ricredermi. Non siamo una caserma e non lo siamo mai stati, le idee possono convivere, nel confronto e nel dibattito, anche quando si raggiunge il massimo della distanza, avendo ben chiari invece i tanti momenti di massima vicinanza. Sarò felice se Gandhi riuscirà a far riporre lo spadone ad Alberto da Giussano, ma penso che su questo cammino i sentieri siano profondamente diversi e nemmeno si trovino nello stesso bosco, ma su pianeti caratterizzati da differenti ecosistemi. Roberto Rampi

Riforme soft e niente referendum. Letta si allinea a Travaglio sulla giustizia: sembra uno scherzo, ma è proprio così. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Avete presente quelli che vi dicono: “no, no, io non sono razzista, tant’è vero che ho un amico africano, però…”? Beh, dopo il “però” non avete più bisogno di spiegazioni: capite benissimo che quello è un razzista fatto e finito. Enrico Letta ieri, per la prima volta – credo – ha parlato di giustizia, e ha fatto esattamente come quell’amico dell’africano. Ha detto “Io sono contro il giustizialismo, però… anche contro l’impunitismo”. C’è bisogno d’altro? Sì, ha anche spezzato una lancia contro i referendum sulla giustizia promossi dai radicali e approvati dalla Lega, sostenendo che promuovere i referendum è come gettare la palla in calcio d’angolo. Dice che si perde tempo e invece le riforme sono urgenti. Ok, facciamo le riforme. Quali? Letta ha detto che gli scandali che stanno travolgendo la magistratura “fanno rabbrividire” e quindi una riforma è fondamentale, e “le attuali forme di autogoverno della magistratura non funzionano”. Ok di nuovo: quindi – uno pensa – sta per proporre un sistema di governo e di controllo della magistratura che chiuda il capitolo del potere autoreferenziale e incontrollato e in mano alle correnti. Macché. Letta propone nuove forme di autogoverno della magistratura. Che tipo di nuove forme? Quelle che garantiscono – dice Letta – un autogoverno più equilibrato. Sembra uno scherzo, ma è proprio così. Si chiama riforma gattopardo, o riforma zero. E poi – dopo queste osservazioni e dopo gli strali contro l’iniziativa referendaria – arriva quella osservazione contro l’impunitismo che fa venire la pelle d’oca. Sembra Bonafede. Vogliamo riassumere tutto questo ragionamento del segretario del Pd? Diciamo così: la magistratura fa schifo ma è meglio lasciare le cose come stanno. L’unica correzione ragionevole è una piccola modifica del metodo di elezioni del Csm. Pari pari la tesi di Marco Travaglio, cioè dell’ultimo leader rimasto nel firmamento dei 5 Stelle dopo la caduta di Di Maio, di Grillo, di Di Battista, di Davigo, di Ardita, di Gratteri, di Rousseau, e ora persino del povero Conte, esautorato da Casaleggio e da un avvocato-pastore, e finito quasi nel dimenticatoio. E forse è proprio questa la ragione vera delle dichiarazioni di Letta, che schiera il Pd su posizioni organicamente e orgogliosamente giustizialiste: l’obbligo di salvare il rapporto coi 5 Stelle. La nomina di Letta a furor di partito al posto di Zingaretti aveva fatto sperare a molti, sul fronte liberal, la fine della subalternità del Pd ai grillini. Il cambio tra Zingaretti e Letta doveva significare questo: basta con lo slogan suicida “Conte o morte”. Probabilmente la speranza di una svolta fu una pia illusione. Letta è ben determinato a non mollare di un centimetro sull’idea dell’asse di ferro coi resti dei 5 Stelle. E per allearsi coi 5 Stelle, ovviamente, bisogna rinunciare a qualunque idea liberale, vista come l’acqua santa dal diavolo grillista, in particolare sulla giustizia. La prima battaglia da fare diventa l’opposizione ai referendum. E quindi la scelta di lasciare com’è la carcerazione preventiva, di non toccare la carriera dei magistrati, il rapporto inquinato con la politica, di rinunciare alla separazione delle carriere, alla responsabilità civile e tutto il resto. E, sostanzialmente, anche di non toccare il Csm e il correntismo. Questo è lo stato dell’arte. Difficile da smuovere, se non inizia una vera e propria rivolta nel partito democratico. Possibile che un partito delle dimensioni e delle tradizioni del partito democratico si lasci trascinare, senza reagire, alla coda dei qualunquisti e delle posizioni più reazionarie?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Felice Manti per "il Giornale" l'11 maggio 2021. A volte ritornano. L' ultima sera in cui Michele Santoro aveva varcato gli studi Mediaset c' era ancora la lira. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, l' ex conduttore di Samarcanda e Moby Dick è sembrato perfettamente a suo agio. Il suo libro sul pentito di mafia Maurizio Avola ha spaccato l' antimafia rossa, i giornali si sono messi a cercarlo, ha dispensato interviste e commenti taglienti sulla giustizia. Santoro è così, prendere o lasciare. Ricorda quando a 18 anni la sua casa era stata perquisita per alcune soffiate su Piazza Fontana «Avevo 18 anni, vidi la polizia alle 5 del mattino, con i mitra. Mio padre ferroviere, mentre rovesciavano i cassetti di mia madre con dentro le mutande, mi guardava, come a dire cosa hai fatto, poi ha capito». Si parla di mafia e di giustizia. La tesi che dietro le stragi di Capaci e Via D' Amelio non ci fossero i servizi segreti, sostenuta da Avola con colpevole (e sospetto) ritardo, non trova aderenze con carte e atti dei tribolati processi sulle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tanto che ancora l' altro giorno a Tommaso Labate del Corriere della Sera Santoro si era arreso all' evidenza: «La mano sul fuoco non la metto per nessuno». Quale migliore scenario, quello di un giustizialismo alle corde con i suoi esponenti finiti nella polvere, per sparigliare le carte? «Cosa nostra è sparita nel nulla? Noi non sappiamo cos' è diventata, parliamo di quello che era trent' anni fa». Poi difende Avola: «Ha ucciso 80 persone ma non è un mostro - e Porro lo contesta subito - Il bene e il male non sono così separati, sono bivi nei quali ci troviamo». Sulle stragi di Capaci e Via d' Amelio assolve il Cavaliere: «La mafia non ha preso ordini da Berlusconi. La sua statura come politico è fuori discussione, come i suoi giganteschi conflitti d' interessi». Poi si rimangia l' idea che i servizi non c' entrassero nulla. «Non ci sono le prove». Dopo aver ipotizzato un possibile format Rai-Mediaset come quello con Maurizio Costanzo negli anni '90 su Libero Grassi - suo pallino anche nel libro - scorrono le immagini del linciaggio mediatico contro Falcone. «Pensavo che si fosse fatto strumentalizzare con il Palazzo e da Andreotti, ormai non più organico a Cosa nostra. Ho sbagliato», è la sua scusa. Al direttore del Giornale Sallusti che lo rimprovera di aver già dato credito a pentiti come Massimo Ciancimino Santoro risponde che senza i pentiti non sapremmo niente. «Sì, ma di quelli affidabili, ribatte Sallusti». «Ma io non posso verificare, tocca alla magistratura farlo», sibila. «Non ha certo bisogno di dimostrare quanto è autorevole nell' antimafia - dice al Giornale il massmediologo Klaus Davi - Anche se la sua provocazione su Avola può essere discutibile lui l' ha usata per riproporsi nel sistema mediatico e ha vinto anche questa volta. Che la sua tesi sia vera o meno è totalmente ininfluente. Con tutto il suo peso ha saputo imporre il suo racconto a un mondo, quello degli antimafiosi, che era diventato asfittico e autoreferenziale, sterile». E quando Porro lo accusa di aver dato spazio ai grillini, come «quelli che applaudivano i nemici di Falcone» lui si inalbera. «Era l' Italia delle battaglie referendarie, del maggioritario, dell' antimafia come frontiera indispensabile». Non è vero, dice ancora Sallusti, hai creato tu la cultura del sospetto, il giustizialismo, l' odio mediatico. «Mai stati forcaioli», ribatte Santoro. Sallusti e Porro sorridono. Sipario.

Vittorio Sgarbi batte Piercamillo Davigo in Tribunale: "Suicidio Cagliari, è il suo metodo". Per il giudice si può dire. Libero Quotidiano il 12 maggio 2021. Non è un bel momento per Piercamillo Davigo: l'ex toga di Mani pulite è stato sconfitto da Vittorio Sgarbi in Tribunale, e già questa è una notizia. Il giudice di Bologna ha assolto il deputato e critico d'arte nella causa per diffamazione intentata da Davigo in merito a un articolo del 10 marzo 2017 sul sito web Quotidiano.net. Si tratta in realtà del primo "match", perché come spiega il Giornale l'ex pm di querele ne ha presentate 4, tutte relative ad altrettante versioni dello stesso articolo. Il tema è quello delle carcerazioni preventive, contro cui Sgarbi si batte fin dai tempi di Tangentopoli. Nello specifico, il suicidio di Gabriele Cagliari, allora presidente di Eni, avvenuto nel 1993 dopo 134 giorni passati a San Vittore. Un dramma, accusava Sgarbi, frutto del "metodo Davigo". "Prima di scrivere l'articolo - ha spiegato il critico - avevo visto, il giorno prima, la trasmissione su Rai3 Agorà nella quale Davigo affermava: 'Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell'uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni'; e ancora 'Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent'anni che facevano così'". Nel suo articolo Sgarbi parla di "disgustoso cinismo" e riprende le parole del gip di Mani Pulite, Italo Ghitti, secondo cui "il vero reato di quei magistrati è di corruzione di immagine". Davigo si ritiene estraneo alla vicenda (il sostituto procuratore era Fabio De Pasquale) ma Sgarbi rivendica: "Si è attribuito la paternità di quel metodo". Una critica "feroce e aspra", ma legittima secondo il Tribunale di Bologna.

Il "metodo Davigo" e il suicidio di Cagliari. Sgarbi assolto dopo la querela dell'ex pm. Manila Alfano il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Il tribunale di Bologna: critiche feroci e aspre ma legittime, non c'è reato. Sgarbi vs capre. Già il titolo della rubrica non prometteva niente di buono, eppure per il Tribunale di Bologna, quell'articolo scritto da Vittorio Sbarbi il 10 marzo 2017 sul sito web «Quotidiano.net» non conteneva niente di male: assolto dal reato di diffamazione contro Piercamillo Davigo, il «Dottor Sottile» di Mani Pulite, perché il fatto non sussiste. Si è chiuso ieri a favore di Sgarbi dunque il primo match innescato da una sequenza di quattro querele presentate dal magistrato relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo. «Ieri il verdetto che mi ha dato ragione. Sono molto sollevato», ha raccontato soddisfatto Vittorio Sgarbi che ormai ha perso il conto di quante volte ha dovuto rispondere sul reato di diffamazione. In mezzo c'è ancora una volta il tema delle carcerazioni preventive, gli anni di Tangentopoli, l'ingegner Cagliari e il suicidio dopo 134 giorni passati in carcere a San Vittore; un metodo che ha creato dibattiti e fratture mai ricomposte, a distanza di oltre vent'anni. «Prima di scrivere l'articolo - ha spiegato Sgarbi - avevo visto, il giorno prima, la trasmissione su Rai3 Agorà nella quale Davigo affermava: Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell'uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni; e ancora Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent'anni che facevano così». Parole pesanti che diventano macigni se ad ascoltarli dall'altra parte c'è qualcuno come Sgarbi che quel metodo utilizzato dal pool di Milano lo ha sempre criticato. L'impulso è subito quello di scrivere, e lo fa il giorno dopo nella rubrica Sgarbi vs capre. Riprende le parole strazianti di Gabriele Cagliari dal carcere ai familiari prima di suicidarsi nel 1993, e scrive «Piercamillo Davigo ora, con disgustoso cinismo, si assume la responsabilità di quel crimine non riconoscendo eccessi nell'uso della misura cautelare, se non nelle scarcerazioni (sic!), Cagliari se lo erano dimenticato. Come mi disse, all'epoca, il gip di Mani Pulite, Italo Ghitti, il vero reato di quei magistrati è di corruzione di immagine». L'ex pm ormai in pensione non ci sta e querela, anche perché in quella storia lui non c'entra direttamente, (il sostituto procuratore era Fabio De Pasquale). «Eppure Davigo si è attribuito la paternità di quel metodo - risponde Sgarbi - io mi sono limitato a riprendere un fatto vero che il magistrato aveva asserito, cioè di non avere mai riconosciuto eccessi nell'impiego delle misure cautelari, se non nelle scarcerazioni. Perciò, ho replicato, in senso critico e motivatamente polemico che rilasciando tali dichiarazioni si era anche assunto la responsabilità per il suicidio dell'Ing Cagliari, ristretto in via cautelare negli anni di Tangentopoli». Insomma una legittima critica, alla Sgarbi appunto, «feroce ed aspra» ma per il Tribunale non c'è reato.

Filippo Facci, quello che è rimasto del pool di Mani Pulite: "Mancava solo Pierbirillo Davigo". Libero Quotidiano l'11 maggio 2021. In effetti mancava solo «Pierbirillo Davigo» (lo chiamavano così) per guardare con mestizia definitiva a ciò che un tempo era il mitico «pool» di Mani pulite, quello che a suo tempo demolì una Repubblica ma oggi ci costringe di continuo a revisionismi storico/giudiziari. A reggere lo scettro del duro e puro resisteva appunto Piercamillo Davigo, mentre Antonio Di Pietro è leggermente sputtanato e fa contadino, Gerardo D'Ambrosio è diventato senatore di sinistra e poi è morto, Francesco Saverio Borrelli è morto anche lui (pronunciando frasi inquietanti che vedremo) mentre Gherardo Colombo è andato in pensione dopo una trascurabile parentesi in Rai e da rassegnato educatore civico. Davigo come non vorrebbe essere ricordato? Non certo come uno che comunicava notizie riservate a un parlamentare dei Cinque Stelle in un sottoscala del Csm. Né come uno che ignorasse o violasse procedure, come l'hanno accusato d'aver fatto due suoi ex colleghi, non da soli. Come uno che dice di aver consegnato qualcosa a qualcuno, tipo il vicepresidente del Csm David Ermini, col vicepresidente Ermini poi a smentire tutto. Come uno la cui segretaria - proprio la sua, guarda caso - finisce indagata per aver passato materiale istruttorio a un giornale - guarda caso, un giornale molto amico- come Il Fatto Quotidiano. Già: ma per che cosa vorrebbe essere ricordato, uno come lui? Non possiamo saperlo. Non certo per esser stato cresciuto da una zia che si chiamava Benita e che è stata indicata come «rigida e autoritaria». Non certo per leggende, tipo una scritta da un collega del Messaggero, Fabrizio Rizzi, secondo la quale un Piercamillo 13enne alla stazione di Mortara «sfidò la morte e bloccò un treno sui binari». E forse neppure per certe frasi che ha pronunciato o per altre che non ha neppure pronunciato. Per molti resta quello che dopo il suicidio del parlamentare Sergio Moroni disse che «le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». Poi c'è tutta una serie di frasi tipo «gli innocenti sono tutti colpevoli non ancora scoperti», ma è tutta schiuma. Come lo è il suo aver detto «rivolteremo l'Italia come un calzino» anche se quella frase non in realtà non la disse mai: si limitò a riprendere una frase pronunciata da Giuliano Ferrara. Ma che l'avesse detta lui, per qualche ragione, continua a risultare credibile a tutti. Ne ha pronunciate altre di frasi, forse più emblematiche. La presunzione d'innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». La corruzione: «Abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l'hanno fatta franca». I magistrati scansafatiche: «Quelli italiani sono quelli che lavorano di più in Europa». I loro errori e negligenze: «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Per che cosa vuole essere ricordato? Il problema è la memoria, anzi «il vizio della memoria» titolava un libro di Gherardo Colombo. Ma il tormentato Colombo è il primo a sapere come funzionava Mani Pulite: c'era Di Pietro che martellava ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni - usiamo parole testuali di un altro parziale ex di Mani pulite, Francesco Greco - «diminuirono fino a cessare fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino». E l'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere. Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione. E che cosa ha detto Gherardo Colombo nel maggio dell'anno scorso? «Il carcere è da abolire. La prigione oggi è disumana e incoerente con la Costituzione, ed educa a ubbidire e non a ragionare». Quel gran signore Francesco Saverio Borrelli, ancora da lucidissimo, ebbe momenti di resipiscenza che molti hanno cercato di rimuovere. Nel 2011 disse pubblicamente: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Qualche anno prima aveva detto che alla fine di Mani pulite «apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Parole simili ad altre messe per iscritto da Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più impressionato non sono state quelle delle grandi tangenti... Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato per non fare il servizio militare. Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti». Chiudiamola qui. È inutile raccontare il piano inclinato di Antonio Di Pietro: basta guardarlo, ha somatizzato tutto, la sua faccia non mente e non ha mai mentito. È rimasto il personaggio incespicante e tristanzuolo che ha lamentato «la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa». Non grazie a Mani Pulite, almeno: che ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. E sul Pool di Mani pulite, sipario.

Tangentopoli e quelle leggi sbagliate che diedero vita allo strapotere delle toghe. Giuseppe Gargani, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998 “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”.  Francesco Damato su Il Dubbio il 27 maggio 2021. Giuseppe Gargani, Peppino per gli amici, democristiano di origine controllata e mai davvero rassegnato alla fine della Dc, 86 anni da poco compiuti e meravigliosamente portati, dei quali 37 trascorsi da deputato fra la Camera e il Parlamento europeo, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, presidente di commissioni e commissario dell’Autorità di Garanzia nelle comunicazioni, purtroppo non quelle giudiziarie, di cui da garantista com’è sempre stato avrebbe fatto strage; Peppino, dicevo, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998  “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”. Sbagliate dalle maggioranze di turno in Parlamento non sapendo l’abuso cui si potevano prestare per fare uscire l’amministrazione della Giustizia dai binari voluti dai costituenti. Temo tuttavia che qualcuno abbia giocato davvero sporco, legiferando male proprio perché avvenisse quello che è accaduto, cioè lo sconfinamento delle toghe e i danni inevitabili della loro autoreferenzialità o onnipotenza. Che si sta peraltro ritorcendo contro la stessa magistratura per il crescente discredito o – se preferite – per la decrescente credibilità e per un carrierismo che si è rivelato peggiore di ogni cattiva previsione. Giustamente Gargani ha riproposto già nella presentazione del suo libro – aggiornato con la prefazione di Mattia Feltri e con altri suoi interventi successivi al 1998, compresi alcuni articoli scritti per Il Dubbio – il fastidio avvertito nell’esplosione della cosiddetta Tangentopoli da “uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano”, Gherardo Colombo. Il quale si dolse del “ruolo politico di supplenza” assegnato alla magistratura con leggi malfatte, appunto, delegando “al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione” perché “politiche”. In una prateria così spianata le toghe più politicizzate, a volte persino inconsapevolmente, tanto erano convinte di avere una missione purificatrice da svolgere, hanno potuto produrre una situazione dalla quale temo che non si possa uscire con la speranza ancora nutrita da Gargani di “un’autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere “indipendente” per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione: questo sì capace – ha scritto l’autore – di far prevalere la questione morale su quella penale”. Temo che non verrà mai il momento considerato opportuno da tutte le parti in campo per procedere ad una riforma tanto condivisa quanto efficace. Se la politica non ritroverà il coraggio di riappropriarsi delle proprie competenze, con le buone o con le cattive, con nuove leggi o con l’abrogazione referendaria di quelle sbagliate, come sembra avere capito adesso anche la Lega di Matteo Salvini dopo avere partecipato con quel famoso cappio a Montecitorio all’ondata giustizialista e manettara dei primi anni Novanta, non se ne uscirà mai. E’ purtroppo accaduto proprio alla sinistra, anche a quella democristiana da cui proviene Gargani, di partecipare con sofferenza o di assistere con impotenza, come per una maledizione, alla degenerazione dei rapporti fra la magistratura e la politica. Ricordo il compianto Giovanni Galloni, amico e collega di partito e corrente di Gargani, alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura mentre a Milano si faceva uso assai disinvolto, per esempio, delle manette sino a provocare suicidi, che venivano cinicamente liquidati come incidenti di percorso o, peggio ancora, come ammissioni finalmente di colpe. Proprio contro quel fenomeno che grida ancora vendetta Gargani si mosse come presidente della Commissione Giustizia della Camera per rimediarvi con norme condivise “anche da parte del Pci”, come ha ricordato. Ma non si riuscì a concludere nulla perché -ricordo ancora fisicamente il malumore in Transatlantico del compianto deputato del Pds-ex Pci Giovanni Correnti- il capogruppo Massimo D’Alema non trovò quello il momento opportuno per intervenire, vista evidentemente la popolarità delle manette. Con sarcasmo di stile manzoniano Gargani ha scritto che “abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge, e cioè arrestare solo se necessario”. Il Covid insomma è arrivato con una trentina d’anni di ritardo: un’osservazione tanto paradossale quanto tragica, al pari della speranza che possano essere almeno i cosiddetti vincoli derivanti dall’integrazione europea a quella riforma della giustizia che da soli non siamo riusciti a realizzare: una prospettiva che non a caso ha indotto il giustizialismo politico e mediatico italiano a collocarsi in questi giorni su posizioni di vecchio e svillaneggiato sovranismo.

LA PARABOLA DEI “SANTI INQUISITORI”: DA EROI DI MANI PULITE A TUTTI CONTRO TUTTI. GHERARDO COLOMBO - ANTONIO DI PIETRO - PIERCAMILLO DAVIGO. DAGONOTA il 10 maggio 2021. Il Puffo della Lomellina che voleva rivoltare l’Italia come un calzino, è finito nelle maglie (bucherellate) della giustizia. Anche se Piercamillo Davigo ha sempre negato di aver proferito quella frase che transita ancora su web, ma resta ormai solo una (tragica) boutade dei tempi (drammatici) di Mani pulite: “Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti”. L’ultimo dei mohicani di quel pool che aveva fatto sognare gli italiani nell’anno della “rivoluzione italiana”. Con l’annunciato arrivo della seconda Repubblica. Mai nata e senza alcun fondamento istituzionale nonostante continui a impregnare – grazie soprattutto all’uso indiscriminato dei media -, la nostra vita politico-istituzionale. In realtà, secondo i politologi Nadia Urbinati e David Ragazzoni, si tratta di “una imago sine re, un guscio vuoto (…) una giustificazione ideologica per intervenire nel modello istituzionale…”. Una “macchina” trasversale a tutte le forze politiche, manovrata dai giornaloni dei poteri marci posseduti ai tempi dalla premiata ditta Agnelli&De Benedetti che aveva il monopolio dell’informazione su carta. I due quotidiani-corazzata, allora diretti da Eugenio Scalfari (“la Repubblica”) e da Paolino Mieli (prima “La Stampa” poi il “Corriere della Sera”) il cui declino di copie vendute collima con la rivoluzione (mancata) e l’attacco indiscriminato alla Casta (ovviamente spregevole). Esclusi ovviamente i cosiddetti poteri vili: magistrati e giornalisti. Entrambi mai pentiti della balla giornalistica più rozza dell’ultimo mezzo secolo. Con l’Avvocato e l’Ingegnere (in scia si mise pure Berlusconi con le sue tv d’assalto) che truccavano i conti delle loro aziende e speravano di farla franca nei tribunali in quanto concussi dai tangentari e non parteci della corruzione (miliardaria), come ben presto fu dimostrato in alcune aule di tribunale lontane da quel palazzaccio di Milano assurto a simbolo di Mani pulite. Cesare Romiti fu inquisito (e condannato) a Torino; Carlo De Benedetti fermato e rilasciato a Roma. Nella prima fase di Tangentopoli, però, nessun proprietario di giornali fu sfiorato dal grande ripulisti manettaro. Senza il consenso dei media – un consenso senza se e senza ma, l’operazione Mani pulite non avrebbe avuto la sua vergognosa spettacolarizzazione da circo Barnum con gli imputati fatti sfilare ammanettati (caso Enzo Carra) e messi alla berlina anche dentro le aule del tribunale. E poi i politologi à la carte continuano a domandarsi dove nasce un certo populismo. “Ma non è Tangentopoli a creare il falso in bilancio, sono i bilanci falsi a creare Tangentopoli”, aveva aggiustato il tiro nel 1996 il professor Guido Rossi facendo strame dell’azione storta di bonifica intrapresa nel paese dal pool guidato da Saverio Borrelli. Per aggiungere: “L’urgenza non è tanto uscire da Tangentopoli, l’Italia deve prima uscire da una situazione in cui truccare i bilanci è un costume diffuso. La mancanza di trasparenza nel sistema economico – concludeva – è ancora più grave, per i danni che arreca al paese, della corruzione politica”. Il teorema romitiano (non soltanto il suo) delle grandi imprese vittime della concussione crollò in una procura (Torino) mentre a Milano la Fiat trattava sotto banco con il pool di mani pulite per avere un lasciapassare che salvasse gli interessi dell’azienda e al fine di evitare l’arresto dei suoi massimi dirigenti (compreso il suo). Romiti andò a cercare conforto anche presso il cardinale Martini e al cappellano di San Vittore dov’era rinchiuso il manager della Cogefar, Enzo Papi, pronto a confessare le tangenti del gruppo dopo una lunga carcerazione preventiva. E nelle stanze culturali del “Corriere della Sera”, diretto dallo storico (senza storia) Mieli, fu redatto un suo memoriale-pentimento (due paginoni) che gli consentì di lasciare la prigione. “Ho moltissima stima del dottor Di Pietro e gli auguro di procedere fino alla fine con la sua decisione con cui ha cominciato la sua opera”, dichiarava l’Avvocato nella primavera del 1992 “scudato” dalle procure con la sua nomina a senatore a vita ricevuta (per grazia ricevuta) nel 1991 da Francesco Cossiga, che già allora aveva intuito quel devastante ciclone giudiziario. E al ristorante milanese “Savini”, Cesare Romiti apparecchiava una colazione con l’intero establishment economico-finanziario con il capo del pool, Saverio Borrelli, convitato d’onore. ‘’Sembrava un generale che passa in rassegna le truppe, salutò tutti con un cenno di capo e con un militaresco colpo di tacco”, ha ricordato l’ex vice direttore del “Corriere”, Giulio Anselmi a Marco Damilano in “Eutanasia di un potere” (Laterza). La “spallata” dei poteri marci ai partiti aveva avuto un prologo nel 1991 (referendum Segni in primis), ma questa è una storia ancora tutta da raccontare senza evocare golpe giudiziari o trame internazionali. A trent’anni da Mani pulite ancora non s’è sciolto il nodo su quella slavina (primo obiettivo abbattere Bettino Craxi) che dopo averla promossa finì per travolgerli. E senza nemmeno estirpare la malapianta della corruzione, che, a sentire il professor Guido Rossi, aveva radici profonde nei loro bilanci taroccati. La stessa magistratura di Milano, incoraggiata a svolgere il lavoro sporco con il concorso codino dei media, dopo aver fallito l’operazione di bonifica è finita anch’essa - dopo gli applausi -, nel pozzo nero del discredito (o della vergogna). Nelle procure, nel Csm e nell’associazione magistrati (Anm) i membri togati da anni si scannano al loro interno come i vecchi partiti correntizi a suo tempo decapitati dalla mannaia giustizialista. A narrarlo sono oggi le tragicomiche vicende della coppia di togati Palamara & Davigo. Già, il Puffo della Lomellina coccolato dai grillini. All’inizio della sua carriera aveva preso per buona la favoletta degli imprenditori (buoni) concussi dai tangentari (cattivi), adesso è costretto a sedersi, sia pure da pensionato accidioso, dall’altra parte della barricata. Cioè tra i sospettati dai suoi ex colleghi di aver diffuso carte secretate sull’avvocato Piero Amara. Lui il Javier della bassa nella parte del Corvo che farebbe uscire anche ai giornali considerati amici (il Fatto e la Repubblica) - grazie alla manina della sua segretaria, Marcella Contrafatto, (nomen omen?) -, il dossier che il procuratore capo Greco, da amico trasformato in nemico, avrebbe lasciato a bagnomaria nei suoi forzieri. Tutto, ovviamente, è ancora da provare. Un incartamento riservato (e avvelenato), che puzza tanto di vendetta proprio nei confronti di Greco e con l’unico scopo di alzare un polverone su quel che resta del pool una volta.  Il più amato dagli italiani come recitava lo slogan di una cucina. Insomma, una sorta di muoia Sansone con tutti i filistei gridato da Davigo, l’ultimo dei mohicani del pool. Proprio lui, il grande inquisitore che col suo decalogo giustizialista sciorinato in tv negli anni ha voluto compilare, dissimulandosi in una sorta di Daniel Defoe alle anguille, il suo personale Inno alla Gogna. Ma quella lirica lo scrittore inglese la stese dopo aver ricevuto una ingiusta condanna dal tribunale per aver scritto un “sedizioso pamphlet”. E non amministrando giustizia in quella tonnara giudiziaria guidata da Saverio Borrelli - e garantita pure dal Quirinale di Scalfaro -, in cui si contano 4.526 persone arrestate prima del giudizio, 25.400 avvisi di garanzia, oltre mille tra parlamentari, consiglieri e politici coinvolti in Mani pulite e decapitati ben prima di un processo degno. Senza lasciare nell’oblio i suicidi eccellenti di Moroni, Gardini e Cagliari. “I suicidi? Ho imparato che le sue conseguenze, come per i delitti, ricadono su quelli che li commettono non su quelli che li scoprono”, ha tagliato corto più o meno così, Davigo in una delle sue ultime comparsate televisive. Piercamillo Davigo, i cui meriti passati non vengono negati al di là degli eccessi procedurali, sembra uscito dalle pagine del mistery di Durrenmatt “La promessa”. Qui il protagonista, il commissario Matthai, gelido e inflessibile, “crede nell’innocenza di un colpevole e cerca un assassino che non può esistere”. È la storia di una ossessione che si conclude con l’Amara (Piero) considerazione finale dell’autore che “niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota”. E tale appare la “pratica” sospetta che rivela l’esistenza pure di una fantomatica Loggia Ungheria. Dopo la P2, P3 e P4 non potevamo privarci della setta magiara! “Punire senza legge, senza verità, senza colpa”, è il sottotitolo di un volumetto scritto a tesi dal giurista Filippo Sgubbi (“Il diritto penale”, il Mulino) in cui l’autore mette sott’accusa, in pratica, l’intera architettura dell’operato del pool milanese (carcerazione per far confessare gli accusati), pur meritevoli di aver scoperchiato il vaso di Pandora della corruzione dilagante da anni e sotto i loro occhi: “I giudici sono chiamati a decidere (…) senza una verità oggettiva e sicura (…) Ma l’incuranza per la verità e la mancanza di criteri oggettivi sui cui fondare  le decisioni accentua  i conflitti e la rinuncia alla verità trasforma la decisione in una questione di mero potere”. E cosa ci raccontano le ultime vicende che toccano anche i piani alti dell’istituzione giudiziaria (leggi Csm, Anm e il capo dello Stato Mattarella) con protagonisti gli attori maldestri di una commedia all’italiana dal titolo “La parabola dei Santi Inquisitori” con protagonisti “Bud” Palamara e “Danny” Davigo? Del resto i miti, osservò Albert Camus, sono fatti e resistono solo se l’immaginazione li anima.  Per dirla con le parole del politologo Otto Kirchheimer: “la giustizia politica è la forma che la politica assume nei momenti di passaggio (…) E, comunque, anche chi vince non può sfuggire a certi limiti (…) deve procurarsi sempre, attraverso la legalità, una legittimazione”. Quel riconoscimento che oggi non può essergli (ri)accordato senza che non rinunci al potere (o alla supplenza) che ha conquistato nell’ultimo trentennio. Tocca allora ai partiti e al premier Draghi rioccupare un ruolo di garanzia tra i due poteri autonomi. In cui il primo, il diritto penale “totale”, come osserva ancora il giurista Filippo Sgubbi, è spesso “invocato in ogni situazione come intervento salvifico e, soprattutto, quale preteso rimedio - politicamente e mediaticamente remunerativo - a vari mali sociali”. Giusto, come chiede il presidente Mattarella, di fare piena luce sugli anni di piombo, ma anche sulla stagione di Mani pulite che ha decapitato il sistema dei partiti andrebbe acceso un lumino per rivisitare un periodo che, abusivamente, avrebbe segnato addirittura la fine della prima Repubblica”.   

Loggia Ungheria, accuse e giustizialismo. Ardita si difende da Formigli e rivendica il suo giustizialismo: “Mai stato garantista”. Giorgio Varano su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Ardita ma amara è la vita nel Csm, anche se ha i tratti della sit-comedy. Le dichiarazioni di Davigo e Ardita andate in onda su La7 hanno ricordato i migliori botta e risposta di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. L’apice della comicità (tragica) è stato toccato quando Ardita si è accalorato di più perché non è stato evidenziato come decisivo, ai fini della immediata riconoscibilità delle dichiarazioni di Amara come una “bufala”, l’elemento più orrendamente calunnioso a suo danno: il far parte di una conventicola di garantisti che combattono i giustizialisti! Per la serie, finché parliamo delle accuse di far parte della “Loggia Ungheria” rispondo con calma, ma come vi permettete di dare del garantista proprio a me? «Già nel 2006 ho fatto tanti e tali di quei processi che riguardavano soggetti di vertice, con responsabilità importantissime, che tutto potevo essere considerato fuorché un garantista!». Come se il garantismo fosse uno dei vari standard di unità di misura o di peso, e non la giusta cultura delle regole del processo e dei diritti di tutti. Ma è evidente che in certi ambienti il mero sospetto di essere portatore di garantismo rischia di farti vivere una vita di inferno, sempre lì a dover spiegare che non è vero, a dover combattere questa odiosa maldicenza delle malelingue! Poi c’è stato il momento sentimentale. «Voglio un confronto, voglio guardarlo negli occhi e dirgli moltissime cose!». È una frase un po’ patetica, ma chi siamo noi per giudicare? Del resto, tanti hanno avuto un amore sbagliato finito in malo modo al quale avrebbero voluto dire addio in modo civile (magari non in tv in prima serata). Dopo questo sfogo, Ardita è ritornato subito nel suo personaggio di grande moralizzatore, ricordando che «c’è un modo per essere consigliere». Saremmo curiosi di capire qual è, visto che formalmente non c’è perché non esiste un codice dei doveri dei consiglieri del Csm. Poi, è arrivata la parte inquietante. Il rapporto con Davigo si è interrotto per «delle gravissime questioni che certamente non possono essere trattate in questa sede». Fermi tutti! Un consigliere in carica del Csm afferma in prima serata in tv che ci sono “gravissime” questioni che riguardano il suo rapporto con un ex consigliere. Ora, o Davigo parcheggiava male la Smart prendendo anche il posto di Ardita nel parcheggio del Csm, e allora è una questione loro (obiettivamente gravissima), o queste questioni riguardano i rapporti nel Consiglio, il governo della magistratura e l’amministrazione della giustizia, e dunque tutti i cittadini. Ardita avrebbe il dovere di dirle subito, pubblicamente oltre che al Csm, ma si è visto che sui doveri dei consiglieri c’è molta originalità di pensiero. Ma quando un amore finisce non è giusto parlare solo di uno dei due, anche perché l’altro è stato a sua volta spassoso. Davigo, infatti, confonde l’organo di governo della magistratura con la sua persona (chi se lo sarebbe mai aspettato…), affermando che il segreto investigativo non è opponibile al Csm, leggasi una “recentissima” circolare del 1994. Ovviamente questa circolare dice altro: al Csm come organo, nello svolgimento delle sue funzioni, l’autorità giudiziaria non può opporre il segreto su fatti che possono avere rilievo disciplinare. Dunque al Csm che chiede informazioni, non ad un singolo consigliere che invece le riceve a casa sua da un pubblico ministero su libera volontà di quest’ultimo. Gustoso il passaggio dei fogli word stampati dal pm come supporto alla memoria quando quest’ultimo ha interloquito con lui. Mica uno può ricordarsi tutto? Ti chiamo per parlarti di una indagine, finisce che mentre arrivo a casa tua me ne dimentico – del resto le distrazioni erano tante durante il lockdown… – e allora stampo qualche foglio (verbali senza firma…) contenente accuse gravissime per ricordarmi che te ne devo parlare. Poi, quei fogli che erano a supporto della mia memoria, te li lascio. Ma questo solo perché non avevo stampato anche un foglio con la scritta «ricordarsi di non lasciare i fogli». Dopo Davigo ne ha parlato solo con qualche consigliere del Csm, ma giusto perché erano questioni riservate e segrete! Teme di essere indagato? Assolutamente no! Questa affermazione ricorda una famosa commedia (Non ti pago) del compianto Eduardo De Filippo, quando quest’ultimo, a chi lo avvisa che potrebbe essere denunciato, risponde: e io non accetto la denuncia! Ma è stata una serata anche “amara” per tutti noi della conventicola dei garantisti. Perché, sì abbiamo riso subito dopo averla sentita, ma abbiamo tutti provato quell’inconfessabile e triste rammarico che si prova quando la battuta migliore, quella che cercavi da anni, la fa un altro. E allora dobbiamo rendere onore ad Alfredo Robledo. Dopo aver ascoltato le sfuggenti dichiarazioni di Davigo, definirlo “PierAnguillo” non solo è stata la migliore battuta mai sentita su di lui, ma anche il più degno epitaffio alla carriera del Totem della conventicola dei giustizialisti. Giorgio Varano

Open Arms, i complici della persecuzione contro Matteo Salvini: chi censura il leghista per aiutare i magistrati. Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Morta lì e pure sepolta a ritmi di funerale islamico: 24 ore dopo, la scopa della censura ha spazzato via la realtà di una sentenza. Stava per scapparmi un aggettivo consumato e pure con il punto esclamativo: incredibile! Ma no. Normale in Italia. Da quasi trent' anni l'apparato unico di magistratura-politica-media rotola come un masso sul corpo della nazione e schiaccia il respiro della sovranità popolare. È un Moloch che esibisce una maschera democratica, ma ha la zampa ungulata da regime sudamericano, però fattosi furbo. C'è bisogno di spiegare a cosa ci stiamo riferendo? Forse sì, perché se siete reduci come il sottoscritto dalla visione di qualche Tg o dalle rassegne stampa con le prime pagine degli ex grandi giornali, c'è da togliersi il catrame dagli occhi. In Italia la magistratura ha sferrato sabato un colpo alla schiena del leader del partito che oggi in Italia gode del maggior consenso, ne ha stabilito il processo imputandogli un reato gravissimo per un atto politico compiuto da ministro, con il consenso del governo, eppure la notizia è già sparita. Il fatto esiste, la ferita è uno squarcio nella pancia della democrazia, ma non si trova una protesta, un rigo, una frase sulla prima pagina di Corriere, Repubblica, Stampa, caratteri cubitali della menzogna dominante del Quotidiano-Tg-Unico è senz' altro quello di un romanzo della nostra giovinezza: "Dimenticare Palermo" di Edmonde Charles-Roux, da cui Francesco Rosi trasse un film. Il tema è la mafia della droga. Anche qui la metafora è perfetta. Ma non riusciranno a narcotizzarci. Qui esibisco alcuni temi che dovrebbero indurre a sollevare una polemica civile, e magari spingere qualche Emile Zola ad un J' accuse. Chessò uno di sinistra, una toga di Magistratura democratica, persino in pensione va bene. Occorre qualche inaspettato eroe civile. Oltretutto questo torto non tocca solo il cittadino Matteo Salvini, ma il presente e il destino della nostra democrazia. Esagero? Alcuni temi, senza pretesa di esaurire la gamma degli argomenti, sono una lacerazione della buona fede su cui può reggersi la coesione sociale più che mai oggi necessaria.

QUATTRO DOMANDE -

1) Fatto salvo che la falla all'onesta è stata prodotta dal voto al Senato che ha messo un ministro dell'Interno nell'esercizio delle sue funzioni vocitate dal Parlamento nelle mani della magistratura. Com' è possibile che non si prenda atto, dopo l'uscita del libro "Il sistema" (Palamara-Sallusti), dell'inquinamento pesantissimo da parte delle correnti politiche della magistratura l'indipendenza del giudice naturale Luigi Patronaggio, procuratore ad Agrigento, spingendolo a dare addosso a Salvini a prescindere dai fatti?

2) Come diavolo è possibile che per i medesimi atti, semplicemente decisi a qualche chilometro di distanza, Salvini sia a Catania ampiamente prosciolto dal Procuratore della Repubblica e a Palermo mandato a processo dal Gip su accuse quasi da ergastolo imputate da un procuratore delle medesima (?) Repubblica?

3) L'avvocato Bongiorno ha ampiamente dimostrato la totale collegialità delle scelte riguardo al trattamento riservato alle navi ong da cui il supposto reato. Perché il premier Giuseppe Conte, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta? Com' è possibile una simile trascuratezza della verità?

4) La ministra dell'Interno (Conte 2 e Draghi) Luciana Lamorgese ha praticato, usando circonvoluzioni amministrative, un trattamento di clausura assoluta dei presunti profughi, anche qui come illustrato in Tribunale dalla Bongiorno. Come si spiega non sia oggetto di alcuna indagine? Meglio così. Ma perché l'aggressione a Salini? Come diceva Renzo Arbore: meditate, gente, meditate. Mi fermo. Non servirà a nulla, anche se mi auguro di essere smentito. Pongo un'altra questione. Le citate testate silenti hanno una linea a sostegno del governo Draghi. È evidente che il caso Salvini, come quello Speranza, pongono problemi per la tenuta della maggioranza. Non si fa il bene né del governo né del Paese se si cerca di nascondere gli elefanti sotto un tappeto di silenzio. Senza verità, o almeno la ricerca leale della stessa, non esistono né giustizia né democrazia. Vale per la politica, e per il giornalismo. 

"Mi appoggiava il piede tra le gambe". Adesso Ciro Grillo si difende così. Angela Leucci il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. La difesa di Ciro Grillo userà video e altro materiale digitale: punta a dimostrare il consenso della ragazza. Ma dimentica i video e il contenuto di certi messaggi inviati su WhatsApp. Il caso Ciro Grillo si avvia verso il processo. La difesa assicura che tutte le proprie azioni saranno volte alla difesa dei quattro ragazzi indagati - Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria - ma senza mancare di sensibilità verso S., che li accusa di stupro di gruppo.

Le mosse della difesa

Secondo quanto riportato Quarto grado, una dichiarazione sulla strategia di difesa è stata fornita da Enrico Grillo, zio di Ciro e suo legale: “La linea di condotta nostra non eccederà mai lo stretto necessario per esercitare il diritto di difesa”. Questo significa che saranno sentite le due amiche, l’accusatrice S. e R, che invece ha affermato di aver sempre dormito durante le presunte violenze, saranno riascoltati i 4 accusati e saranno portati in tribunale diversi video, tra cui uno di oltre 20 secondi che potrebbe rappresentare, secondo la difesa, una possibilità per contestualizzare la serata sotto la chiave del consenso.

Ciro Grillo e il mistero del bacio: perché è stato filmato?

È appunto il consenso e la possibilità di S. di esprimerlo che detteranno gli esiti del processo. Al momento, da quanto è emerso, la presunta sopravvissuta alle violenze appare dai video mostrati come perfettamente a proprio agio con i quattro indagati. A partire dal video registrato al Billionaire dopo la mezzanotte di quel giorno di luglio 2019 dal fratellastro di Ciro, video che è agli atti del processo. Perché il ragazzo stava registrando quel filmato?

Ci sono poi le dichiarazioni di Francesco Corsiglia, anche per lui S. era perfettamente a proprio agio in quella situazione: “Già nel tragitto ho fatto delle avances visive, sguardi e sorrisi a S., perché era una bella ragazza e mi appoggiava il piede tra le gambe”.

I lividi e i messaggi su WhatsApp

Tutto questo non basterebbe a esprimere il consenso, tanto più che S. aveva dei lividi ed è stato evidenziato come la ragazza potrebbe non essere stata necessariamente in uno stato di coscienza vigile, alterato dall’alcol e - si ipotizza - da altre sostanze. Inoltre il fatto che S. si sentisse sicura della propria sessualità, come più volte è stato rimarcato, si potrebbe ritorcere contro la difesa: una ragazza che è tanto a proprio agio, è possibile che avverta sensi di colpa dopo un presunto rapporto sessuale di gruppo e senta il bisogno di denunciare dei ragazzi con cui è stata volontariamente?

In più ci sono dei messaggi scambiati su WhatsApp a pesare sul capo dei quattro accusati. I ragazzi raccontano la "conquista" con gli amici, ma ciò che suona particolarmente misterioso è una frase attribuita in chat a Edoardo Capitta: “All’inizio sembrava che volesse”. Cosa significa esattamente? È a tutti questi interrogativi che dovrà rispondere la giustizia.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Tommaso Fregatti Matteo Indice per "la Stampa" il 22 ottobre 2021. Alla fine hanno scelto il rito ordinario, evitando di chiedere il processo abbreviato che contempla l'automatico sconto d'un terzo della pena. Il colpo di scena è arrivato mercoledì sera, al termine d'una lunga e sofferta riunione, nella quale si sono materializzati momenti di tensione e opinioni contrastanti. Nel corso dell'incontro la squadra di avvocati che segue Ciro Grillo, 22 anni, figlio di Beppe leader del Movimento Cinque Stelle e i suoi tre amici e coetanei Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, ha deciso di comunicare al giudice di Tempio Pausania di procedere, laddove i ragazzi vengano rinviati a giudizio, con il dibattimento. Senza decurtazioni preventive di un'eventuale condanna, ma con la possibilità di difendersi a 360 gradi. I quattro sono accusati del presunto stupro di gruppo ai danni di Silvia - studentessa norvegese oggi ventunenne - e di abusi sessuali sull'amica Roberta avvenuti nel residence di Cala di Volpe in Costa Smeralda, tra la notte e la mattina del 17 luglio 2019, proprietà di Grillo. Alla riunione erano presenti tutti gli avvocati della squadra della difesa, Alessandro Vaccaro, Gennaro Velle, Romano Raimondo, Enrico Grillo, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli. All'inizio c'era chi spingeva per il rito abbreviato (procedura più snella, con vantaggi come lo sconto automatico, che non permette agli imputati di sviscerare tutte le indagini difensive e spesso rappresenta un'implicita ammissione di colpevolezza) e chi, invece, voleva l'ordinario, più lungo e rischioso soprattutto nell'entità della condanna, dove ci si può però difendere in modo più capillare. Le divisioni nel collegio difensivo, in base a quanto filtrato nelle ultime ore, sono state rilevanti, ma si è infine arrivati alla mediazione che li presenterà coesi il 5 novembre davanti al giudice dell'udienza preliminare Caterina Interlandi. Sarà lei a decidere se mandare a processo i quattro genovesi. Nel giugno scorso la Procura Tempio Pausania aveva chiesto di processare Ciro Grillo e i suoi amici con addebiti pesantissimi. In primis la violenza sessuale di gruppo «per aver costretto Silvia, abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psicofisica dovuta all'assunzione di alcolici a compiere atti di natura sessuale» e violenza sull'amica Roberta (contestata solo a Grillo, Capitta e Lauria) «per aver filmato e scattato foto a sfondo erotico a Roberta mentre si trovava in stato di incoscienza poiché dormiva». Nelle carte viene dettagliata la notte vissuta da Silvia, secondo i pm costretta prima a subire un doppio rapporto con Corsiglia e poi con gli altri amici. In precedenza, insistono i pm, «l'avevano forzata a bere vodka afferrandola per i capelli e tirandole indietro la testa». I quattro, interrogati, si sono difesi spiegando che la ragazza era consenziente. L'indagine era stata segnata dall'exploit di Beppe Grillo. Dalla sua villa genovese con un video aveva preso le difese del figlio e degli amici. Definendo «consenziente» la ragazza e aggiungendo che «i quattro non hanno violentato nessuno, semplicemente sono stati protagonisti di una ragazzata», scatenando polemiche e riportando l'attenzione mediatica sul caso. Il processo si giocherà molto su quanto emerso dai social. Tra le fonti di prova con cui i magistrati chiedono il processo figura «l'acquisizione ed elaborazione dei dati informatici di Facebook, Instagram riguardante i soggetti coinvolti attraverso foto, post e like». Quel materiale, a parere dei difensori, doveva scagionare i quattro certificando i buoni rapporti con Silvia nei giorni dopo presunto stupro, ma rischia di riverberarsi contro gli indagati, messi nei guai anche da intercettazioni telefoniche e ambientali.

Giacomo Amadori per "Panorama" il 22 ottobre 2021. La Gallura è un luogo arcaico. Da quelle parti i contadini raccontano che, la notte, ci si può imbattere nella réula, una schiera di morti usciti dall’Oltretomba per danzare e fare penitenza. Nel capoluogo, la città di granito di Tempio Pausania, si sposarono civilmente Dori Ghezzi e Fabrizio De André che qui, in località L’Agnata, si era trasferito per fare il contadino e l’allevatore. Testimone di nozze del cantautore, era il 1989, fu Beppe Grillo. Che mai avrebbe immaginato che trent’anni dopo, in quella cittadina che ha intestato all’amico «Faber» pure una piazza, sarebbe finito alla sbarra il suo ultimogenito Ciro (classe 2001), il quale, insieme a tre amici, è accusato di aver stuprato il 17 luglio 2019 nella propria abitazione di Cala di Volpe la ventenne italo-norvegese S.J..Sui social e persino in qualche giornale c’è chi sospetta che misteriose forze oscure stiano cercando di insabbiare il processo. Più banalmente, i riflettori accesi sul caso si sono abbassati perché la prossima udienza è fissata per il 5 novembre. E il Tribunale di Tempio, dopo la chiusura degli ombrelloni sulla vicina Costa Smeralda, continuerà a ospitare il dibattimento dell’anno. Entro il 25 ottobre le difese dovranno scegliere il rito da seguire. In caso di abbreviato il giudizio si svolgerebbe a porte chiuse e il Gup Caterina Interlandi sarebbe chiamata a decidere sulla base delle carte depositate sino a quel momento. Panorama ha potuto visionare il fascicolo ed è in grado di svelare quali siano le armi in mano ad accusa, difesa e parti civili. Per ricostruire la vicenda, occorre partire dall’inizio dell’iter processuale, ovvero dal momento della denuncia, quando sia i carabinieri della stazione Milano Porta Garibaldi che il centro di Soccorso violenza sessuale e domestica della clinica meneghina Mangiagalli hanno ritenuto di inoltrare alla Procura competente (quella di Tempio Pausania) i fatti denunciati dalla ragazza. Il 26 luglio 2019 la responsabile del centro, Alessandra Kustermann, la ginecologa, il medico legale e la psicologa inviano ai pm, «ravvisando gli estremi di un delitto procedibile d’ufficio», una denuncia di reato con annessa scheda clinica e documentazione fotografica. Se l’esame ginecologico, effettuato a otto giorni dai fatti, non offre spunti di particolare rilievo, i medici si soffermano sui lividi riscontrati sul corpo della ragazza, in particolare su braccio e avambraccio destro, e su entrambe le gambe. Segni che, in quel momento, paiono coerenti con il racconto della giovane, la quale sostiene di essere stata «obbligata ad avere rapporti vaginali a rotazione con tutti e quattro i ragazzi, che si disponevano uno a consumare il rapporto e altri a tenerla ferma impedendole ogni forma di resistenza». Una versione ribadita dagli esperti della Mangiagalli nel capitoletto intitolato «Esame obiettivo generale» in cui si legge: «I ragazzi la tenevano immobilizzata per gambe e braccia impedendole di muoversi». Queste aree di «soffusione verdastra del tegumento» sono dovute davvero alla notte di sesso con Ciro e compagni? Prima di rispondere non si può non tenere presente che nel luglio 2019 la presunta vittima praticava kitesurf, uno sport che può lasciare segni a causa dell’attrito violento con la tavola e le onde. Per l’avvocato della ragazza, Giulia Bongiorno, la causa dei segni è certamente da ricondurre agli abusi. A suo giudizio, ai danni psicologici patiti dall’assistita occorre aggiungere che «la persona offesa ha riportato diversi ematomi […] come risulta dalle riproduzioni fotografiche allegate alla cartella clinica del 25 luglio 2019». Il consulente delle difese Marco Salvi sta da tempo confrontando le immagini dei lividi con centinaia di foto e video trovati nel cellulare di S. e risalenti ai giorni successivi al presunto stupro (scatti e filmati in cui la giovane è ritratta in costume da spiaggia). E la sua consulenza sarà depositata entro ottobre. Un’amica di S., A.M., sentita a verbale, ha parlato di quei segni: «Ricordo di alcune foto di lei davanti a uno specchio in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia o all’altezza del bacino». Cioè in parti diverse da quelle documentate dalla Mangiagalli. E dove sono finiti gli scatti inviati ad A.M.? «Io non li ho salvati perché avevo timore di metterla in imbarazzo, poiché stava perdendo molto peso in maniera preoccupante e non era seguita da alcun specialista» ha concluso la testimone. In un audio scambiato subito dopo i fatti con l’amica norvegese Mia, è la stessa S. a fare riferimento ai lividi e al proprio rapporto con il cibo. Ecco come la stessa difesa della ragazza ha tradotto la conversazione: «Mi sento molto insicura. Lo ammetto. Ma tipo, come posso dire, quando non mangio, per esempio, vomito, rimetto, mi lascio morire di fame, arrivo quasi a distruggermi, giuro su Dio… tipo tutti questi lividi, non è che mi prenda cura di me perché la metà di quello che ho sulle braccia, non la avrei se, per esempio, mi prendessi cura di me […]». Sul punto R.M., compagna di vacanze di S. e a sua volta vittima di abusi (i ragazzi si sono fatti fotografare vicino a lei dormiente con i membri in bella vista), ha dichiarato ai carabinieri: «Quando sono andata a svegliare S. non ho notato nessun segno particolare sul suo corpo, sebbene abbia visto che era nuda non mi sono soffermata a guardarla». Dunque nella guerra di perizie entreranno anche queste voci che paiono dare ai lividi un significato più ampio rispetto all’effetto di una costrizione. La ricostruzione di S. non sembrerebbe confermata dal video di 25 secondi depositato agli atti e in cui Ciro Grillo riprende con uno smartphone una piccola parte dell’amplesso di gruppo. Il filmato è considerato dalle difese un argomento a proprio favore, sebbene il procuratore Gregorio Capasso e la pm Laura Bassani non l’abbiano ritenuto tale e per questo abbiano chiesto il rinvio a giudizio di Grillo junior, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. All’inizio di quei 25 secondi Ciro filma il proprio volto sorridente, poi sposta l’inquadratura sulla «scena del crimine». Si notano una piccola stanza, un lettino singolo con lenzuola azzurre, un abat-jour beige, una finestra con le persiane chiuse. La giovane è supina sul letto, ma non sembra trattenuta da nessuno. Si vede Capitta inarcarsi sul volto della coetanea per ottenere sesso orale, mentre, ripreso di spalle, Lauria consuma un rapporto vaginale. La ragazza, mentre si stende sul letto, dà l’impressione di incrociare per un istante lo sguardo con la telecamera del cellulare, poi inizia a masturbare Ciro che a quel punto riporta l’inquadratura sul proprio viso, esibendo un’espressione tra il divertito e l’incredulo. In quel frammento di filmato, l’unico, insieme con un altro più breve, che riprende il sesso di gruppo, la ragazza dà la sensazione (errata sia per la parte civile sia per la pubblica accusa) di essere consenziente, essendo attiva ed emettendo gemiti. Nel video più corto, lungo 6 secondi, la studentessa è carponi: Ciro riceve una fellatio e anche in questo caso fa le facce. Lauria sembra impegnato in un cunnilingus. Non si tratta di dettagli voyeuristici (ce ne sarebbero molti altri), ma di dati fondamentali per valutare se gli ipotetici aggressori potessero cogliere la contrarietà all’amplesso multiplo dell’occasionale partner. S. era ubriaca, «minorata» nella sua capacità di dare il consenso? È l’ipotesi del suo legale, accolta pienamente dagli inquirenti. La Bongiorno parla espressamente di «inferiorità fisica e psichica della ragazza dovute allo stato di alterazione alcolica (sarebbe stata costretta a ingurgitare vodka, ndr), alla stanchezza per la nottata trascorsa e allo stravolgimento emotivo causato dalla violenza subìta in precedenza (da parte di Corsiglia, che ha sempre negato l’accusa, ndr)». L’alterazione alcolica, allo stato degli atti, potrebbe non essere facile da dimostrare. Nel telefonino di S. non ci sono immagini del 17 luglio 2019, la data della violenza contestata, tranne una scattata nella discoteca Billionaire, dove S. e R. hanno incontrato i loro ipotetici aguzzini: sorridono felici prima dell’inizio dell’incubo. La italo-norvegese indossa una tutina bianca e nera, l’amica un vestito corto e scuro. Le uniche istantanee agli atti risalgono alla sera, dopo le 22, quando la ragazza è già tornata da diverse ore nella stanza del bed & breakfast dove sta trascorrendo le ferie. Nell’occasione si fa sei autoscatti in felpa e pantaloncini e immortala un bicchiere con dentro una tisana che le serve a smaltire gli eccessi di qualche ora prima. In due immagini si vedono le gambe in primo piano e si può intuire un livido sul ginocchio, ma i selfie non sembrano finalizzati a immortalare i segni dello stupro. C’è poi il tema del rapporto tra S. e R., che a sua volta si è costituita parte civile e la notte dei presunti abusi, anziché «salvare» la compagna, si sarebbe rimessa a dormire. S. nel febbraio del 2020 confida ai magistrati che lei e R. non sono «nemmeno più amiche». E nell’audio con Mia, poche ore dopo la notte a casa Grillo, sistema l’ex compagna di classe per le feste: «Pensavo fosse una delle mie amiche più care, si è rivelata un’egoista e un’ignorante su tutto. Tanto che praticamente non le parlo più».  In realtà il 18 luglio le due ragazze danno l’idea di essere ancora molto affiatate: si fanno scattare decine di foto e ritrarre in video mentre si baciano e abbracciano. Scherzano sulle loro forme molto diverse, più mediterranea R., snella e nordica S.. La quale si fa immortalare anche mentre si esibisce in una complicata verticale. Il 19 luglio, come il 17, è un altro giorno quasi senza foto-ricordo: nella memoria del telefonino restano lo screenshot di una videochiamata, un’immagine della ragazza in bikini nero e un filmato in cui si vede S. alzare il pollice: è ancora in pigiama e ha un asciugamano in testa. Sono da poco passate le 19 e il cellulare inquadra un pentolino in cui bolle dell’acqua. La madre ha raccontato ai carabinieri che al suo arrivo in Sardegna, quel venerdì sera, avrebbe trovato la figlia «in condizioni pietose», tanto che «tremava come in preda alle convulsioni». La causa ufficiale era un’«insolazione», ma la donna ha successivamente collegato quello stato allo stupro. Ancora due giorni dopo, S.J., nonostante le attenzioni dei genitori, che l’hanno curata con stracci bagnati e antipiretici, sarebbe stata «giù di morale, a prescindere dalla febbre». Descrizione che confligge un po’ con il copiosissimo archivio multimediale. Che documenta quanto segue: il 20 luglio S. si è recata nella villa con piscina di un amico, dove, tra tuffi e risate (questo perlomeno attestano i video della giornata), ha trascorso il pomeriggio mentre la sera, con tutta la famiglia e con R., ha mangiato in un ristorante all’aperto, sfoggiando un abitino leggero giallo, nero e bianco. Alle 5 e 40 della domenica è andata a correre e, intorno alle 14, ha fatto l’ultima lezione di kite. Agli atti ci sono anche i selfie divertiti e buffi con la sorella sull’aereo che le stava riportando a Milano. A onor del vero S., sabato notte, verso le 2 e 40 ha ripreso il solito pentolino fumante con a fianco una bustina del farmaco Tachifludec. Scatto che confermerebbe lo stato influenzale della ragazza. Poco prima aveva salvato alcune pagine web sull’Hiv. Resta il dubbio: l’indisposizione è davvero riconducibile all’incubo vissuto nell’appartamento di Cala di Volpe di proprietà di Grillo? Tra le carte depositate si trova anche l’esito del colloquio psicologico avvenuto il 26 luglio 2019: «La ragazza racconta quanto accadutole, spiega che nei giorni successivi non riusciva a dormire e di notte piangeva. Racconta inoltre che faceva fatica a mangiare e aveva flashback delle immagini della violenza e riviveva le sensazioni di quella notte, risentendo un senso di soffocamento e dolore in sede vaginale». Nel recente atto di costituzione di parte civile, depositato dall’avvocato Bongiorno e destinato alla richiesta di risarcimento del danno, si fa riferimento a una «profonda sofferenza morale tuttora perdurante»: «L’evento ha provocato persistenti riverberazioni sull’esistenza della persona offesa, incidendo in maniera permanente sulle abitudini di vita di S., sui suoi rapporti con i propri familiari e amici e, più in generale, sulle sue attività dinamico-relazionali». Non basta: «L’integrità psicofisica di S.J. è risultata irrimediabilmente alterata. L’esperienza dolorosa, infatti, ha provocato nella persona offesa l’insorgenza di un disturbo post-traumatico da stress, come certificato dalla relazione medico-psichiatrica del 10 maggio 2021 […]». C’è, infine, una stoccata contro il fondatore del Movimento 5 stelle: «Il morboso clamore mediatico suscitato dalla vicenda, esploso in conseguenza delle dichiarazioni a mezzo social rese dal padre dell’imputato Ciro Grillo - rimasto sopito sino a quel momento e confinato a cronache locali - ha esposto S.J. a un processo di vittimizzazione secondaria, portandola a rivivere il trauma patito e riacutizzando la relativa sintomatologia».  Da qui la richiesta di risarcimento. Ma S.J. è vittima dei quattro imputati o dei suoi fantasmi? Nell’immediatezza dei fatti la ragazza avrebbe informato la madre dei «pettegolezzi» che giravano sul suo conto e che la «mettevano in cattiva luce». Con l’amica norvegese Mia la studentessa-modella è stata ancora più esplicita, tanto che, via messaggio, l’interlocutrice le consiglia di non darsi colpe e di consultare uno psicoterapeuta. S., dopo aver promesso di farsi vedere da uno specialista, insiste (la traduzione è della consulente della Procura): «[…] Magari, chi lo sa, mi aiuterà a tornare nella strada giusta […]. Hai ragione, sto accumulando così tanti episodi e altro che non riesco più a gestirli e diventa sempre più difficile capire perché cose così accadano e come evitarle […]». Dopo essersi lamentata di essere usata e buttata «via come spazzatura» anche da quelli che considerava «amici», ribadisce in un lungo vocale gli stessi concetti e specifica, però, di ritenere il sesso «secret», un termine che la parte civile ha reso in italiano con il termine «sacro», una scelta non condivisa dalle difese, ma anche da una traduttrice da noi consultata, per cui il significato giusto sarebbe «riservato». Altra accezione su cui non c’è accordo tra le parti è quella da attribuire al verbo inglese «hook up»: per la consulente scelta dalla Bongiorno significa «divertirsi», ma secondo altre fonti il significato più giusto in questo contesto sarebbe «rimorchiare». Nelle carte c’è un ulteriore audio di S. che potrebbe risolvere la disputa linguistica: «Ma io Milano l’ho già fatta fuori, cioè nel senso è ridicola la mia situazione... io non volevo tornare a Milano anche per questo motivo, cioè io scendo giù di casa, di sera no, vado lì al bar Magenta, che c’è Ivan che mi dice: “Ma allora quei ragazzi dell’altra sera blablabla”. […] la sfiga madornale è il fatto che magari mi faccio gente in diverse serate, poi me li ritrovo lì, tutti insieme allo stesso tavolo e son tipo “Ah guarda il gruppetto che mi sono fatta a luglio” magari, o a giugno o a marzo, sempre così, ma che cazzo di sfiga. Poi tipo gente che magari mi ferma per strada e mi fa: “Ah ma tu sei la ragazza di ieri sera”. E io sono tipo: “Ah ah, io non mi ricordo della tua faccia”. Però ok, ci sta. Fanculo il mondo». Con gli investigatori l’amica A. M. ha dichiarato che S. è una ragazza «un po’ troppo influenzabile» e, mentre le conoscenze femminili la rispettano, i ragazzi pensano che sia «una ragazza più facile di altre». Tanto che in un bar (il Magenta?) aveva sentito dire da un cameriere che «alcuni ragazzi della Cattolica, riferendosi a S., dicevano che anche loro in tempi diversi, in discoteca, se l’erano già fatta».  Dal prossimo 5 novembre Ciro & c. dovranno sperare, nella terra della réula, di non aver trovato un giudice come quello cantato da De André.   

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 2 Novembre 2021. «In linea puramente teorica non è possibile escludere l'uso di sostanze di questo tipo, prima o in associazione con l'alcol». Quando scrive «sostanze di questo tipo», il professor Enrico Marinelli fa riferimento alle cosiddette droghe da stupro, «particolarmente insidiose», precisa lui, «in quanto costituite da liquidi inodori e incolori, facilmente mescolabili alle comuni bevande, anche non alcoliche, senza che la vittima se ne possa accorgere». Tutto questo il professore lo dice in una consulenza medico legale sul caso Grillo voluta e depositata in vista dell'udienza preliminare di venerdì 5 novembre, a Tempio Pausania. La relazione - 20 pagine - è «redatta nell'interesse» di Silvia e si concentra «sui fatti avvenuti tra il 16 e il 17 luglio del 2019» a Cala di Volpe (Porto Cervo), in Sardegna. Per i pochi che non ne avessero mai saputo nulla: Silvia è una ragazza oggi 21enne che quell'estate denunciò per violenza sessuale di gruppo Ciro Grillo - figlio del garante dei cinquestelle Beppe - e i suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, anche loro adesso tutti ventunenni. Lei mise a verbale il racconto di uno stupro subito la mattina del 17, prima da uno soltanto di loro (Corsiglia) e poi da tutti quanti assieme. Loro giurano invece che sia stato sesso consenziente, che, al contrario, sia stata lei a prendere l'iniziativa e che nella seconda parte di questa storia Corsiglia fosse assente perché si era addormentato. In casa, assieme a Silvia e ai quattro ragazzi, c'era anche Roberta, l'amica con la quale la sera del 16 Silvia era andata al Billionaire di Briatore e assieme alla quale aveva deciso di seguire a Cala di Volpe Ciro Grillo e gli amici appena conosciuti. Roberta però è una presenza puramente fisica, non una testimone oculare di quel che avvenne, perché durante la presunta violenza dormiva sul divano e anzi: è diventata lei stessa vittima di abusi perché mentre dormiva tre dei ragazzi hanno scattato fotografie e girato un breve video in pose e atteggiamenti osceni accanto a lei. Ora, a pochi giorni dall'avvio dell'udienza preliminare, l'avvocata Giulia Bongiorno, che difende Silvia, ha depositato la consulenza firmata dal professor Marinelli. E per la prima volta dall'inizio delle indagini in questa vicenda compare, sia pure «in linea teorica» e in un documento di parte, l'ipotesi dell'utilizzo della droga dello stupro mai avanzata dagli inquirenti. Il consulente ci arriva ragionando sul blackout legato all'assunzione di alcol: «un'amnesia - spiega - senza la perdita di coscienza e la capacità di compiere azioni complesse come conversare, guidare, avere rapporti sessuali e perfino uccidere». Silvia ha sempre raccontato di essere stata costretta a bere da una bottiglia un cocktail di vodka e lemonsoda poco prima della violenza di gruppo. Era presente a se stessa fino a decidere del sesso consenziente, come dicono i ragazzi? Dopo calcoli sul livello di alcolemia, tabelle e indicazioni scientifiche, il professore ha dedotto che no, «non può aver espresso un valido consenso al rapporto di gruppo» poiché l'alcol «scemava grandemente la sua capacità decisionale e annullava la sua capacità di autodeterminazione». E la valutazione va oltre. Il docente ritiene che sia «presumibile con alto grado di probabilità, che i presenti fossero tutti coscienti della sua temporanea incapacità di autodeterminazione». La consulenza, alla fine, valuta il racconto di Silvia come credibile e compatibile con gli approfondimenti medico legali eseguiti; considera collegate alla costrizione fisica subita le lesioni rilevate su braccia e gambe della ragazza al Soccorso violenza sessuale Mangiagalli di Milano il giorno della denuncia e mette in evidenza un disturbo post-traumatico da stress.

I lividi, il ghb, l'alcol: il caso Grillo a una svolta. Luca Sablone il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Nella consulenza medico-legale emerge che i lividi sul corpo sono "compatibili con un meccanismo di pressione e afferramento attuato da più persone contemporaneamente con le mani". E non si esclude la droga dello stupro. Il caso Ciro Grillo continua a infittirsi di incognite e ipotesi a pochi giorni da un appuntamento cruciale: venerdì 5 novembre il gup di Tempio Pausania, Caterina Interlandi, dovrà decidere sul rinvio a giudizio del figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle e dei suoi tre amici genovesi. Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria andranno a processo o saranno prosciolti? Questo il bivio di un caso intricato che al fondo ha sempre la stessa domanda: si è trattato di uno stupro o i rapporti sessuali sono stati consenzienti? Versioni differenti tra accusa e difesa, su una vicenda che continua ad arricchirsi di particolari. E nelle ultime ore sul tavolo del gup è arrivata una consulenza medico-legale che può pesare come un macigno.

La droga dello stupro

È spuntata ora l'ipotesi che possano essere state utilizzate sostanze inibitorie come il Ghb, la cosiddetta "droga dello stupro". Nella relazione del professor Enrico Marinelli, specialista in medicina legale, si legge che "in linea puramente teorica non è possibile escludere l'uso di sostanze di questo tipo, prima o in associazione con l'alcol". Va sottolineato che la consulenza medico-legale è di parte: è stata depositata da Giulia Bongiorno, che difende la giovane Silvia (nome di fantasia, che ha denunciato l'ipotetico stupro). È bene chiarire che quella dell'uso della droga dello stupro è una possibilità e non una certezza. Così come tiene a sottolineare Sandro Vaccaro, difensore di Vittorio Lauria: "Sulle ipotesi si può dire qualunque cosa. Possiamo dire qualsiasi cosa priva di fondamento, come priva di fondamento è l’ipotesi della droga dello stupro". Le droghe da stupro nella consulenza medico-legale vengono ritenute "particolarmente insidiose" poiché sono "costituite da liquidi inodori e incolori, facilmente mescolabili alle comuni bevande, anche non alcoliche, senza che la vittima se ne possa accorgere".

Quei lividi sul corpo

Altra questione di fondamentale importanza è quella dei lividi sulle braccia e sulle gambe che Silvia mostrò alle dottoresse della clinica Mangiagalli di Milano. Una sua amica ha raccontato di aver ricevuto alcune foto di lei davanti a uno specchio "in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia o all'altezza del bacino". E ha aggiunto di averle detto di "avvertire dolori nelle parti intime".

Per la consulenza medico-legale quei lividi risultano essere "compatibili con un meccanismo di pressione e afferramento attuato da più persone contemporaneamente con le mani". Il racconto della ragazza, che sostiene di essere stata costretta a una serie di rapporti sessuali con Grillo&Co, potrebbe essere dunque credibile e compatibile con gli approfondimenti medico-legali eseguiti. Secondo cui è evidente un disturbo post-traumatico da stress diagnosticato alla ragazza, giudicato "coerente con un rapporto non consenziente e invasivo".

L'alcol e i rapporti

Silvia ha denunciato di essere stata costretta a bere da una bottiglia un cocktail (di vodka e lemonsoda?). Questo sarebbe avvenuto prima dell'ipotetica violenza sessuale. Un aspetto di cui si è occupata la consulenza medico-legale, che stima il tasso alcolemico nel sangue della ragazza in 1.08 grammi/litro. La tesi di parte è che la giovane studentessa "non può aver espresso un valido consenso al rapporto di gruppo" visto che l'alcol "scemava grandemente la sua capacità decisionale e annullava la sua capacità di autodeterminazione". Ma la versione di Ciro Grillo e dei suoi amici resta la stessa: Silvia era consenziente.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a

Telefonate, chat e intercettazioni da trascrivere. Rinviata l'udienza decisiva sul figlio di Grillo. Luca Fazzo il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. I legali degli imputati hanno fornito nuovi documenti "inediti e rilevanti". Scegliere il processo in aula, portare in una lunga serie di udienze la storia di quella notte del luglio 2019 in Costa Smeralda sarà «sale sulle ferite» della ragazza che finì nelle grinfie di Ciro Grillo, figlio di Beppe, e dei suoi amici. A dirlo ieri è Giulia Bongiorno, difensore di parte civile della studentessa italo-norvegese che figura come vittima nel processo instaurato a Tempio Pausania, dopo che gli avvocati dei quattro imputati avevano confermato la decisione di non chiedere il rito abbreviato e di affrontare il processo ordinario. «È una scelta legittima su cui non mi sentirete mai esprimere un giudizio - dice la Bongiorno - anche se il protrarsi della vicenda è per la mia assistita una ferita su cui viene aggiunto sale».

La scelta del tipo di processo ha un significato preciso: Grillo junior e gli altri non puntano a limitare i danni cercando sconti di pena, ma alla assoluzione piena. E per arrivare alla assoluzione devono dimostrare in aula che la ragazza mente. Il sesso c'è stato, sesso a turno e sesso di gruppo, ma lei era d'accordo. Il rinvio a giudizio chiesto dalla Procura di Tempio Pausania potrebbe essere deciso già nel corso della prossima udienza, fissata per il 26 novembre. La decisione del giudice preliminare Caterina Interlandi poteva arrivare già ieri, ma i legali degli imputati hanno chiesto di acquisire, attraverso una perizia fonica, nuove trascrizioni di intercettazioni telefoniche effettuate dai carabinieri nel corso delle indagini. Si tratterebbe di intercettazioni «inedite e rilevanti» utili, secondo i legali, a dimostrare l'inconsistenza dell'accusa mossa ai quattro. Cosa ci sia esattamente nelle nuove intercettazioni, e soprattutto perché saltino fuori proprio ora dopo oltre due anni di indagini non è dato, per il momento, sapere. Il giudice ha dato tempi stretti per la loro analisi e trascrizione: entro dieci giorni i consulenti dovranno avere terminato il lavoro e messo il materiale a disposizione delle parti, per il 26 è fissata la discussione e la decisione sul rinvio a giudizio. Si tratta, in realtà, di una decisione praticamente scontata. Davanti agli elementi portati in aula dalla Procura, è impensabile che il gip consideri l'innocenza dei quattro giovani talmente evidente da non richiedere un processo. Sarà in aula, davanti al tribunale, tra qualche che mese, che i quattro dovranno provare a dimostrare la loro tesi. Convincendo i giudici, o almeno instillando in loro il dubbio che la ragazza in realtà fosse d'accordo. Anche la mossa di ieri, con la richiesta di nuove trascrizioni, è ormai finalizzata a quanto accadrà in aula. Contro la presunta vittima i difensori porteranno non solo il materiale estratto dal suo telefono, le immagini in cui dopo la notte nella villa di Grillo appariva sorridente e rilassata. Punteranno anche su testimonianza e perizie psicologiche. Ma il momento cruciale sarà l'interrogatorio che la ragazza dovrà sostenere in aula, rivivendo minuto per minuto la lunga nottata, e rispondendo ai controesami delle difese.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

GIACOMO AMADORI e François de Tonquédec per La Verità il 6 novembre 2021. Tutto rinviato al 26 novembre. Ieri a Tempio Pausania è stato un velocissimo mezzogiorno di fuoco. Infatti già alle 12,40 era terminata la seconda seduta dell'udienza preliminare in cui il giudice Caterina Interlandi dovrà decidere se mandare a giudizio o prosciogliere dall'accusa di violenza sessuale di gruppo Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Il Tribunale del popolo, quello mediatico, ha già stabilito che i quattro ventenni sono colpevoli di aver stuprato S.J. e di aver molestato R.M., coetanee milanesi. Ma, come sanno i lettori della Verità la vicenda è più complessa di quanto sembri, a partire dalla versione di S.J. messa in dubbio in più punti da chat, captazioni e video. L'appuntamento di ieri davanti al giudice è durato così poco perché, hanno protestato i difensori, il procuratore non aveva chiesto un'udienza stralcio per la cernita delle intercettazioni d'interesse. Così il Gup ha incaricato un perito, con l'accordo di tutti, per trascrivere (entro il 15 novembre) una dozzina di telefonate, già presenti nel fascicolo, considerate rilevanti in questa fase dalle parti e non ancora sbobinate e ha stabilito di rimandare la discussione al 26 novembre, giorno in cui il procuratore Gregorio Capasso, gli avvocati delle parti civili (Giulia Bongiorno per S. e Vinicio Nardo per R.) e gli avvocati degli indagati (Romano Raimondo e Gennaro Velle per Corsiglia, Enrico Grillo e Andrea Vernazza per Grillo junior, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli per Capitta e Alessandro Vaccaro per Lauria) dovranno esporre le proprie ragioni. Le difese formalizzeranno in quella sede la scelta del rito ordinario e non di quello abbreviato, che avrebbe garantito ai ragazzi lo sconto di un terzo dell'eventuale pena. L'accusa sarà rappresentata dal solo Capasso visto che la pm Laura Bassani, dopo aver chiesto di rimanere applicata al caso, nonostante il trasferimento a Sassari al Tribunale per i minorenni, ha rinunciato a sorpresa. La parte civile ha chiesto copia di una conversazione nel cui brogliaccio si legge che quando viene contattato dai carabinieri, dopo la denuncia di S., «Vittorio dice che ha paura che quella lì li abbia denunciati». Nelle chiamate prescelte dalle difese, però, i ragazzi sembrano del tutto ignari del motivo per cui erano stati convocati dagli uomini dell'Arma. Snodo cruciale della contesa giudiziaria sarà l'accertamento delle condizioni psicofisiche di S. al momento del rapporto sessuale di gruppo, visto che le molestie a R.M. dormiente sono cristallizzate nelle foto e in un breve video e quindi difficilmente negabili. L'aggravante dell'alcol è il punto più delicato della vicenda, visto che la minorata difesa o comunque la mancanza di un valido consenso permettono di configurare il reato di stupro in base alla consolidata giurisprudenza della Cassazione. Per gli avvocati degli indagati è, però, difficile che la ragazza, se fosse stata stordita dalla vodka al punto da perdere conoscenza, potesse svolgere poche ore dopo una lezione di kitesurf in mare come in effetti ha fatto. Il consulente di parte civile, il professor Enrico Marinelli, ha scritto: «S. J. non può aver espresso un valido consenso al rapporto di gruppo poiché l'effetto dell'alcol con alta probabilità scemava grandemente la sua capacità decisionale». Nel febbraio del 2020, la ragazza, davanti al procuratore Capasso che la incalzava, mettendo in risalto alcune contraddizioni del suo racconto, aveva fatto riferimento a un black out di cui non aveva parlato nella prima dettagliata denuncia davanti a due carabiniere: «Non saprei dire quanto sia durato il tutto, nella mia testa due minuti. Ma poi sono svenuta e mi sono risvegliata nel letto dove credo mi abbiano portato i ragazzi». E allora Marinelli azzarda: «Questo fenomeno è associabile anche all'uso delle cosiddette droghe da stupro []. In linea puramente teorica non è possibile escludere l'uso di sostanze di questo tipo prima o in associazione con l'alcool». I ragazzi hanno ammesso di aver bevuto vodka e limonata a casa. Lei ha, invece, denunciato di essere stata costretta a ingurgitarla a forza e che la bevanda aveva un «odore strano». Ma non sarebbe stata solo S. a bere la miscela alcolica la mattina del 17 luglio 2019 nell'appartamento in cui lei e l'amica R. erano rimaste ospiti a dormire insieme con gli indagati. Uno di questi, Capitta, in un messaggio Whatsapp inviato il giorno stesso alle 14:23 a un amico a cui racconta gli eventi della mattina, scrive: «Bevuto beverone alle 9». Una definizione della mix con l'«odore strano» che poi lo stesso giorno, alle 21:32, viene ripetuta in una chat di gruppo: «Stavo bevendo il beverone e (S., ndr) lo ha preso e se ne è gocciato tipo un quarto». Secondo il racconto di Capitta, quindi, S. non sarebbe stata forzata a bere, ma avrebbe ingurgitato spontaneamente il liquido nella bottiglia, forse per mostrarsi spavalda. Perché Capitta, davanti a un gruppo di ragazzi che si vantano di ogni genere di stupidaggini e delle loro imprese erotiche da B-movie anni '70, avrebbe dovuto mentire su questo particolare? Per precostituirsi un alibi? Ma allora perché, sempre via chat, ostenta il sesso a 4 e l'assunzione di alcol? In un messaggio racconta: «Che ridere ero ubriaco marcio. Frate te lo giuro». E poi insiste: «Ma io ero veramente alle 10 e 30 di mattina ubriaco marcio». Anche se si trattasse di smargiassate, questi sms sono incompatibili con un tentativo di sviare le indagini. Tali comunicazioni tra coetanei paiono genuine e ci portano a escludere del tutto l'ipotesi della somministrazione della cosiddetta droga dello stupro, che in questo caso sarebbe stata ingerita in primo luogo dal presunto stupratore. Dunque, nonostante i titoli a effetto di alcuni giornali, l'assunzione di Ghb, che non è mai stata contestata dai magistrati, va lasciata fuori da questa brutta storia. Anche perché nelle loro chat i ragazzi non hanno nessun problema a parlare di altre sostanze vietate e in particolare dell'assunzione di cannabis. Nei messaggi, ricorre spesso la parola «scittare», che significa confezionare spinelli. Per esempio il primo agosto 2019, Ciro Grillo scrive a Capitta: «Preso weed (marijuana, ndr) ma poi di nuovo scitto». Ma se gli inquirenti non hanno mai contestato l'aggravante dell'uso di sostanze stupefacenti, lo hanno fatto per la somministrazione della vodka: a giudizio dei pm S. sarebbe stata costretta a bere, anche se non c'è nessuna evidenza di ciò. E anche altre dichiarazioni della giovane italo-norvegese non hanno trovato riscontro. La ragazza ha denunciato di essere stata abusata sia da Corsiglia che dagli altri tre amici. Ma qualcosa non torna già nella ricostruzione della presunta prima violenza. R. a verbale ha dichiarato: «A un certo punto ho visto S. e Corsi dirigersi verso una stanza ad appartarsi all'interno. Ciò è stato fatto per quello che ho visto volontariamente da tutti e due. Effettivamente ho pensato che S. e Corsi avessero l'intenzione o stessero avendo un rapporto sessuale perché si erano trattenuti qualche minuto all'interno della stanza anche se io non avevo sentito nulla di particolare». S., invece, sostiene di aver subito violenza, di aver provato a svegliare l'amica e di aver pianto vicino a lei (lacrime che R. ha confermato). Poi le avrebbe chiesto di vestirsi. Ma senza successo: «R. quindi tornava a dormire, io sono andata a sedermi nel patio».E lì dice di averla vista Maria Cristina S., una vicina di casa, amica di Parvin Tadjik, la mamma di Ciro Grillo. Ricorda di essere passata davanti al giardino davanti all'appartamento dei ragazzi alle 6.15-6.30, dopo il primo presunto stupro. La donna avrebbe visto S.: «Stava seduta con i piedi appoggiati sul tavolo e con un asciugamano in testa a mo' di turbante che stava fumando una sigaretta». I loro sguardi si sarebbero incrociati a distanza di due o tre metri e vi era il «massimo silenzio»: «Non ho notato nulla di particolare» ha dichiarato la donna ai magistrati. Poco dopo S., sempre con Corsiglia e altri due indagati, sarebbe andata a comprare le sigarette in paese. Perché la stuprata segue il suo stupratore? Per paura? Ma in paese non poteva provare a scappare o a chiedere aiuto? Evidentemente, sosterranno l'accusa e le parti civili, non ha trovato il coraggio. Fatto sta che in una foto agli atti si vede la ragazza di spalle in auto. Nello scatto, poco nitido, S., che si trova sul sedile posteriore, ha la testa rivolta verso il guidatore, Corsiglia, il suo presunto aguzzino, come se stessero parlando. Terminato l'acquisto, il gruppetto sarebbe tornato a casa e lì S. sarebbe stata abusata dagli altri tre ragazzi, due ore e mezza dopo il rientro dal paese. Ma nessuno ha sentito nulla nelle casette del golf club, nonostante la presunta violenza sia avvenuta verso le 9 e 30 del mattino e in un appartamento circondato da altre case i cui inquilini sono stati tutti sentiti dagli inquirenti (compresa mamma Parvin che si trovava nell'appartamento adiacente a quello occupato dal figlio e dai suoi amici). Ma torniamo al sesso di gruppo. In una delle chat depositate per l'udienza preliminare Capitta descrive il rapporto sessuale a un amico: «3vs1 stanotte. Lascia stare». L'interlocutore chiede dettagli. Risposta: «No, no Simo. Poi ti farò vedere». E in effetti Grillo junior ha girato con il cellulare di Capitta due video, uno di 25 secondi e uno di 6 che riproducono il rapporto a quattro e in cui la ragazza dà l'impressione di essere consenziente e non di sicuro con mani e braccia bloccate come denuncerà in seguito. Certo i filmati sono brevi, ma non c'è traccia di costrizioni. Capitta il 25 luglio invia a Lauria anche due foto di quelle scattate con i peni estratti vicino al volto di R. dormiente. Su questo passaggio di filmati e foto e sulla loro condivisione con gli amici è stata ipotizzato il reato di revenge porn, ma questa fattispecie è entrata in vigore dopo la data degli invii sui cellulari. In più Capitta, di fronte alle diverse richieste di video da parte di terzi, si è sempre rifiutato in modo netto. Ieri l'avvocato Bongiorno, che, lo ricordiamo, è anche senatrice della Lega, ha dichiarato all'arrivo a Tempio Pausania: «Ogni volta che si parla sui giornali di questa vicenda per la mia assistita è come spargere sale sulla ferita. L'enfatizzazione mediatica è stata una prova pesante».

GIUSEPPE FILETTO per la Repubblica il 6 novembre 2021. Undici intercettazioni, "catturate" dai carabinieri e messe agli atti come brogliacci, vanno trascritte da un perito sopra le parti, nominato dal giudice per l'udienza preliminare. Perciò il gup Caterina Interlandi del Tribunale di Tempio Pausania ieri, dopo appena mezz' ora di udienza, ha dovuto rimandare tutto al 26 novembre prossimo. In quella data probabilmente si decideranno le sorti di Ciro Grillo (figlio del fondatore dei 5S) e dei suoi tre amici genovesi Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria che hanno già scelto il rito ordinario anziché l'abbreviato che consentirebbe in caso di condanna lo sconto di pena di un terzo. Ieri tutti assenti, ma accusati dal procuratore capo di Tempio Gregorio Capasso dei reati di stupro di gruppo nei confronti della italo-norvegese Silvia e di violenza sessuale ai danni della sua amica Roberta (i nomi sono di fantasia). La Procura ha chiesto il processo per gli imputati e il giudice dovrà decidere se accogliere la richiesta o archiviare. Le due studentesse milanesi la sera del 16 luglio 2019 avevano conosciuto Ciro e gli altri al Billionaire di Porto Cervo. Poi l'invito a passare la notte nella villa in uso alla famiglia Grillo, a Cala di Volpe. L'indomani gli abusi sessuali denunciati da Silvia. Anche se i ragazzi hanno sempre parlato di "rapporti consenzienti". Nei confronti di Roberta (difesa dall'avvocato Vinicio Nardo) invece si tratta di atti osceni mentre lei dormiva, ma "documentati" da foto e video. Cinque delle intercettazioni sono ritenute fondamentali dalla Procura e rappresenterebbero l'ossatura dell'accusa. Altri quattro colloqui telefonici per gli avvocati della difesa (Alessandro Vaccaro, Andrea Vernazza, Enrico Grillo, Romano Raimondo, Gennaro Velle, Enrico Monteverde e Mariano Mameli) proverebbero invece il consenso di Silvia. Due altre intercettazioni per l'avvocato Giulia Bongiorno, che difende Silvia, sarebbero "inedite" e la prova che la sua cliente sia stata costretta a subire gli abusi sessuali. «E ogni volta che la vicenda riemerge sui media, per la mia assistita è come spargere sale su una ferita ancora aperta», ha aggiunto. Alcuni degli 11 colloqui, di cui è stata chiesta la trascrizione, sono gli stessi, sia per l'accusa che per la difesa, ma letti in modo diverso. Parliamo di quanto ascoltato dai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano dal 26 luglio 2019, giorno in cui Silvia presenta denuncia, al 29 agosto, quando la Procura dispone il sequestro dei telefonini degli indagati e scattano le perquisizioni nelle loro abitazioni di Genova e nella villetta di Cala di Volpe. Quella mattina i carabinieri convocano i quattro nella caserma di Genova-Quinto. Tra loro, però, partono le chiamate: "Ci cercano?". Eppoi: "Ma cosa vogliono?". Per la difesa i colloqui sono la prova della loro buonafede. Per l'accusa, invece, i giovani sanno di essersi messi nei guai. Ieri il gup avrebbe voluto iniziare la discussione, per arrivare a una conclusione quanto prima, e nell'aula a porte chiuse non sono mancati momenti di frizione con le parti che hanno chiesto le trascrizioni, facendo slittare i tempi. «Senza entrare nel merito, penso che il 26 novembre l'udienza preliminare potrebbe terminare» ha detto il procuratore capo al termine dell'udienza, sotto un cielo plumbeo, aggiungendo: «Si tratta di atti già depositati ».

Giacomo Amadori per "la Verità" l'8 novembre 2021. Alla fine è uscita la prova anche del bacio in discoteca tra Ciro Grillo e la presunta vittima di stupro, la ventenne italo-norvegese S.J.. A mandarlo in onda in esclusiva è stata ieri sera la trasmissione Controcorrente di Retequattro, condotta da Veronica Gentili. Si tratta di un video di 30 secondi girato durante la serata che Ciro e i suoi amici hanno trascorso dopo la mezzanotte del 17 luglio 2019 nella discoteca Billionaire di Porto Cervo insieme con le ragazze milanesi che adesso li accusano di violenza e molestie. E da questo locale bisogna partire per raccontare tutta la storia. Qui i quattro genovesi (Grillo jr, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria) e le due milanesi si sono conosciuti grazie a un comune amico, Alex. Ciro ha prenotato un tavolo da 12 e i ragazzi hanno pagato 600 euro per una bottiglia di vodka e una di champagne. Come hanno raccontato tutti i protagonisti la comitiva ha ballato, riso e si è divertita.Ma veniamo al filmato. Ciro e S. sono seduti da soli nel privé e dalle immagini sembra che a farsi avanti sia la giovane e che inizialmente il figlio del leader 5 stelle scosti il viso, per poi ripensarci e provarci a sua volta. In questo caso senza essere corrisposto. Ciro, in qualità di indagato, viene interrogato il 5 settembre del 2019 dai magistrati di Tempio Pausania e parla di quel bacio. Sei giorni dopo, la sua difesa consegna agli inquirenti il video girato, tra l'una, 20 minuti e 2 secondi e l'una e 20 minuti e 32 secondi, con il telefonino da Matteo Scarnecchia, fratellastro di Grillo jr e organizzatore di eventi. Nei verbali dell'inchiesta sono entrati anche i corteggiamenti di quella serata. Per esempio R. si è soffermata sulle attenzioni degli indagati nei confronti di S.: «Nel prosieguo della serata mi sono accorta che un po' tutti i ragazzi si avvicinavano interessati a S.». R. ha sottolineato di non aver dato confidenza ai genovesi, contrariamente all'amica: «All'interno del locale nessuno dei ragazzi si è avvicinato a me anche perché io sono più riservata, mentre S. è più estroversa». In Procura testimoni, vittime e indagati hanno parlato anche del bacio. Un'effusione su cui non sono mancate le domande degli inquirenti. Per le parti civili quel furtivo schiocco di labbra non significa niente, mentre per le difese è la prova di una complicità che, poi, durante la notte sarebbe diventata passione. Il bacio è stato descritto così dal figlio di Grillo: «Durante la serata ci ho provato con S., la quale mi ha anche baciato». Alex, l'amico che ha messo in contatto le ragazze milanesi con i coetanei genovesi, ha aggiunto: «A un certo punto mi sono girato e ho visto non in pista, ma nel privé, che Ciro Grillo e S. si baciavano, erano soli nel privé». Anche Vittorio Lauria ha affrontato l'argomento: «Vidi S. e Ciro baciarsi in discoteca». R. è quella che si è dilungata di più sull'episodio: «Mentre ero in pista mi sono voltata verso il tavolo e ho visto Ciro e S. da soli seduti su un divanetto, che si baciavano, in particolare ho visto che il bacio è partito da S. e che dopo pochissimo S. si staccava, non mi è sembrato lo respingesse in maniera brusca, ma, comunque, conoscendola, mi è sembrato dal suo atteggiamento che non corrispondesse l'interesse verso Ciro; ho visto che dopo questo gesto S. è rimasta comunque seduta sul divano accanto a Ciro e che parlavano». La trasmissione Controcorrente ha anche trasmesso alcuni audio inediti trovati sul cellulare di S. J. e risalenti alla fine di luglio del 2019, ovvero a un paio di settimane dopo il presunto stupro in Sardegna. Si riferiscono all'organizzazione di una vacanza in Brasile per fare kite surf con Leonardo, un ragazzo che S. aveva appena iniziato a frequentare. La giovane è in agitazione, non sa come comportarsi. Ma, visto che ha appena denunciato la violenza, la madre le ha sconsigliato di partire. Alla fine, S. comunica a un'amica la sua decisione: «Sono felice di dire di no, del fatto che non andrò in Brasile, anche mamma adesso sta continuando a dire di non andare». Per correggersi subito dopo: «Mi dispiace dire di no, che palle, anche perché un po' ho voglia, ovviamente ho voglia, però, dall'altra parte non mi sento di andare». In un altro vocale precisa: «Nel senso, semmai dico: "Sono successe cose personali e non me la sento di andare, preferisco stare con la mia famiglia in calma e tranquillità" non lo so, dovrò inventare qualche stronzata, che alla fine è vero non posso raccontare quello che è successo». Poi arriva lo sfogo finale: «Guarda ti giuro, fossi stato in un altro stato mentale, lui senza ragazza e tutto fosse stata un'estate diversa in poche parole, porca t se ci sarei stata però in queste condizioni mi sento ristretta di non lo so, ho la mia barriera la mia circonferenza di quello che posso fare è troppo ristretta, manco mi riconosco sinceramente sono un po' ammanettata in questo momento e quindi niente prenderò la coca cola, perché giustamente io sono astemia (sogghigna, ndr) e poi, boh, andrò a dormire nel mio lettino singolo a casa mia dicendo ciao ciao». La trasmissione ha dedicato un servizio pure alle scuse di R. a S.. Infatti dopo aver subito il primo presunto stupro a casa dei quattro ragazzi genovesi, la studentessa italo-norvegese si sarebbe presentata piangente dall'amica R., ma questa non avrebbe compreso la situazione e si sarebbe rimessa a dormire. Il 31 luglio, dopo che S. aveva presentato denuncia e R. era stata interrogata dai carabinieri, la stessa R. scrive a S. questo messaggio, in cui si scusa per non essersi resa conto dell'accaduto: «[] Quella sera in Sardegna non ci sono stata per te, ma vorrei spiegarti il mio punto di vista, non per trovare una scusa ma perché tu capisca le mie azioni. Quando tu mi hai svegliata e stavi piangendo io non ho capito cosa era successo e anche quando tu me lo hai spiegato io non sapevo cosa fare. Non avevo capito al 100% cosa fosse successo e non riuscivo a pensare chiaramente, volevo solo andarmene da lì e parlare con te. Non puoi capire quanto io mi sia pentita di non aver fatto qualcosa immediatamente e più volte ho cercato di parlare con te, ma quando vedevo che cambiavi argomento non volevo forzarti considerando ciò che era successo. [] Scusa tantissimo per tutto, posso solo immaginare come tu ti senta in questo periodo e non sai quanto mi spiaccia non esserci stata per te. Ti voglio bene e mi manchi tanto». Un messaggio che non sembra aver avuto l'effetto voluto. Infatti il 17 febbraio 2020 davanti ai magistrati S. prima dichiara: «Questa esperienza mi ha legato di più a R.. A Milano è venuta spesso a casa mia per chiedermi come stavo». Nello stesso interrogatorio, poche risposte dopo, però, fa una bruca retromarcia: «Sono certa di aver detto a R. che ero stata violentata, anche qualche mese dopo le ho chiesto perché non fossimo andate via quando l'avevo svegliata e lei mi ha risposto che non si era resa conto di quello che le avevo detto. Adesso non siamo più amiche». 

Giacomo Amadori François De Tonquédec per "la Verità" il 26 novembre 2021. A Tempio Pausania sarà un mezzogiorno di fuoco. Alle 12 inizia l'udienza preliminare in cui il Gup Caterina Interlandi deciderà se mandare a giudizio o prosciogliere dall'accusa di violenza sessuale di gruppo Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro ventenni avrebbero stuprato S.J. e molestato R.M., coetanee milanesi, il 17 luglio 2019. Il procuratore Gregorio Capasso prenderà la parola per primo per illustrare le motivazioni della richiesta di rinvio a giudizio e dettagliare le fonti di prova. Poi toccherà agli avvocati delle parti civili, Giulia Bongiorno e Vinicio Nardo. Infine sarà la volta di sette avvocati difensori: Romano Raimondo e Gennaro Velle per Corsiglia, Enrico Grillo e Andrea Vernazza per Grillo junior, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli per Capitta e Alessandro Vaccaro per Lauria. Se tutti saranno stringati, la decisione del giudice potrà arrivare anche oggi. Due settimane fa la Bongiorno ha messo agli atti quattro articoli provenienti da testate online che ricostruiscono la vita su Instagram di Grillo junior nel 2017, quando era minorenne. I giornali ne avevano parlato nel 2019, ma la legale deve averne preso coscienza dopo il nostro articolo del 6 novembre. Nella nota la senatrice della Lega ha evidenziato due post. Il primo è l'ormai noto «ti stupro bella bambina attenta». Il secondo è una foto con la didascalia: «Cazzi durrissimi in Nz», con emoticon raffigurante la bandiera della Nuova Zelanda. Nel frattempo, Walter Marcialis, perito del Gup, ha depositato la trascrizione delle intercettazioni telefoniche e ambientali ritenute significative dalle parti civili e dalle difese che il 5 novembre avevano chiesto al giudice Interlandi di acquisirle nel procedimento. In una conversazione al cellulare, chiesta dalla difesa di S., il 9 agosto, Capitta parla per 27 minuti con un interlocutore sconosciuto. Nella chiacchierata i due discutono dei video che Edoardo ha sul telefono, ma che si rifiuta di mandare all'amico. Poi parlano di droga, ma a raccontare il suo shopping in una località della Sardegna non è Capitta. Depositata anche la telefonata del 29 agosto di cui era noto il brogliaccio: «Edoardo avvisa Vittorio che è stato chiamato dai Carabinieri e che gli hanno detto di rientrare al porticciolo, Vittorio dice che anche lui è stato chiamato dai Carabinieri e che lo stanno venendo a prendere. Vittorio dice che ha paura che quella lì li abbia denunciati». Ma dalla sbobinatura emerge che le conclusioni di Lauria sono arrivate dopo un evidente smarrimento iniziale. La conversazione inizia con Capitta che chiede: «Ti ha chiamato la polizia?». L'amico risponde affermativamente. Capitta lo incalza: «Ma per cosa? Scusa». E Lauria dice: «Non lo so mi». Ancora Capitta, agitato: «Cosa abbiam fatto? E dove sei?». A quel punto Lauria spiega che lo stanno andando a prendere e l'amico risponde che stanno facendo lo stesso con lui. Parlano del porticciolo come luogo per l'appuntamento con i Carabinieri. Lauria chiede nuovamente: «Ma per cosa?». Anche Capitta sostiene di non sapere. Solo a quel punto Lauria ipotizza: «Io gliel'ho chiesto, mi fa non si può dire al telefono, mi sa pure che quella lì che quella lì ci abbia denunciato» per poi salutare l'amico con «ho va bè dai ci vediam lì... cia'». Quindi prima di ipotizzare che una ragazza, forse S., li abbia denunciati, hanno prima dovuto viaggiare un po' con la mente. Tra i nuovi depositi c'è un'ambientale molto interessante: i quattro vengono registrati di nascosto presso la stazione dei carabinieri di Genova Quarto. Edoardo, Ciro e Vittorio (che arriva dopo) sono accompagnati dalle madri, Francesco dallo zio. È l'1 settembre e sono stati convocati per ricevere l'invito a rendere interrogatorio, cosa che avverrà quattro giorni dopo. I ragazzi, il 29 agosto, hanno consegnato i loro cellulari agli investigatori e sanno che le cose non si stanno mettendo bene. La mamma di Capitta dice che: «Bisogna cercare di star tranquilli siete sempre agitati, e poi passiamo a prendere qualche cosa». Il figlio replica: «Non è che sono agitato, però anche tu, cioè, io non son d'accordo, (interferenza dovuta a un cicalino) io non so manco che cosa abbiano in mente, perché se sapessi alla fine com' e andata... ci starebbe... ci starebbe dai porca miseria dai, ma cosi, cioè, l'ho sempre detto eh, non lo so (inc.) io no so come potrebbe reagire il mio fisico a una cosa del genere con (inc.), occhio perché se mi faccio un mese di galera [] quindi vediamo cosa succede, lo sapeva, lo sapeva, che non ho scopato, che ho il mio alibi». Ciro ha una proposta: «C'è bisogno non ci dobbiam vedere questi giorni, cioè neanche te con Vitto, perché se ci vedono insieme...». Qualcuno protesta: «Non abbiam niente da nascondere». Ciro insiste: «Me l'han detto che da quest' oggi, questo mese, mese e mezzo, non ci dobbiamo frequentare».Francesco fa sapere che vuole andare a vedere il Genoa e Ciro ribatte: «Io vado a nuotare un attimino. [] Comincio a leggere dei libri e riscopro me stesso». Parvin non apprezza il clima forse troppo allegro: «Ciro ascoltami, Ciro ascoltami, mmmh... sei veramente uno stupido, ma veramente molto grande». Ciro si giustifica: «Rido per non piangere». E la madre: «C'è poco da ridere. Siete tre bambini, ma non capite! Tre bambini siete! O porca miseria, ma siete tre bambini, è possibile, è una cosa seria 'sta qui». Arriva una telefonata da Grillo: «Giuse' siamo in sala d'aspetto. Si dimmi, si si si. Ah, cioè? No siamo qua in sala d'aspetto. Si. Ciro... sta bene. Si si». Parvin passa il telefono a Ciro: «È il papà». Il ragazzo chiude quasi subito perché sembra arrivato il loro turno. Quindi predica: «Calma e sangue freddo». Parvin condivide: «Quindi dovete essere belli tranquilli, belli rilassati, e dire bene le vostre cose bene per favore». E ricorda al figlio l'esame della patente. Il ragazzo sbuffa: «È peggio di questo». La madre parla con un altro dei parenti. Si capisce che sta cercando un'ancora di salvezza. «Con questa cosa qua non è che c'è molto margine di...». Però c'è qualcosa che sta dando «un pochino più di forza» e di «speranza». E chiede: «Hai visto tutto il video, tutto?». Forse quello in cui si vede il rapporto con la ragazza. Aggiunge: «Lui ha preso un po' di foto, un video anche Corsiglia con la ragazza... [] Serena, molto serena perché poi mi sembra che lei la denuncia l'abbia fatta a Milano. Si dopo quindici giorni un po' di credibilità non c'è cioè...». Intanto Ciro si sfoga con gli amici: «Raga sapete che mi sembra un incubo?». Gli altri rispondono all'unisono: «È un incubo». Ciro: «Mi sveglio la mattina e dico: no!!!». Edoardo prosegue: «Tutti i giorni, tutti... vado a dormire che ci penso, ti svegli che dici: vabbè dai...». Le voci si accavallano. Francesco: «Dobbiamo stare tranquilli, cioe non fare... non prendere uscire tutte le sere, tornare alle sei come abbiamo fatto fino adesso...». Vittorio prova a minimizzare: «Vabbè, ma alla fine siamo solo indagati, e sappiamo di essere innocenti». Ciro li interrompe: «Basta, basta ragazzi... e ora di finirla, cioè». I carabinieri annotano che «si alza stizzito e va a mettersi davanti alla finestra». Grillo jr commenta: «Abbiam tutta la vita per parlare di 'sta cosa». Vittorio sospira: «Speriamo che possiamo parlarne... in libertà». Francesco rincara: «Non dalla cella...». Scoppia una risata. Ciro continua la sua arringa: «Vabbè ragazzi dai... stiamo tranquilli... [] a primo impatto è un fastidio...». Vittorio interviene: «Si vabbè ho capito, ma se noi noi non abbiam fatto quelle cose li...». Il figlio del fondatore del Movimento si fa saggio: «Oh siamo entrati in un periodo particolare, facciamo quello che ci diranno gli avvocati, speriamo vada tutto bene. E se va tutto bene io prenderò posizione mi faccio pagar le vacanze». Quindi chiede agli amici che cosa stiano facendo in quei giorni. Francesco consiglia agli amici di sedersi e di stare zitti. Ciro non è d'accordo: «Serve anche a noi parlare di altro, stacchiamo due secondi». Il discorso passa sull'iscrizione all'università, sul futuro Erasmus. Ciro non è ottimista: «Se è una cosa che non finisce bene dura dieci anni sarò...». Si confrontano sui viaggi all'estero. Francesco commenta: «Non posso partire per l'Inghilterra perché mi danno in fuga. L'ha detto l'avvocato, boh rag». Ciro conferma e aggiunge: «Non ci voleva 'sta roba raga». Francesco: «Che sfiga, che sfigati che siamo cioè». Ciro vede il bicchiere mezzo pieno: «Una lezione imparata...». Si inserisce Edoardo: «È positivo se ridiamo, no? Se l'avessimo fatto veramente staremo piangendo». Ciro sbotta: «No, basta! Basta! Basta!». I carabinieri gli consegnano la notifica dell'interrogatorio. Grillo tira un sospiro di sollievo: «È una bella notizia raga», e dice agli amici: «Mi ha fatto piacere vedervi». La Interlandi, oggi, come detto, potrebbe firmare il decreto che dispone il giudizio o il dispositivo di sentenza di non luogo a procedere, rendendo successivamente pubbliche le motivazioni.

(ANSA il 26 novembre 2021) - Sono stati rinviati tutti a giudizio i quattro ragazzi, tra cui Ciro Grillo, accusati di violenza sessuale ai danni di una giovane. Il processo nei confronti di Grillo jr e Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, inizierà il 16 marzo prossimo. Lo ha deciso il gup di Tempio Pausania. I quattro giovani sono accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una coetanea italo-norvegese, dalla cui denuncia era scaturita l'indagine. I fatti risalirebbero al luglio di due anni fa in Costa Smeralda. Il rinvio a giudizio era stato sollecitato dal procuratore Gregorio Capasso. Il collegio difensivo aveva invece sollecitato il non luogo a procedere e chiesto che si proceda con rito ordinario

Ciro Grillo & Co. a processo per stupro. Luca Sablone il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Il gup di Tempio Pausania decide il rinvio a giudizio per Grillo jr e i tre amici genovesi: sono accusati di violenza sessuale. La prima udienza fissata al 16 marzo 2022. La decisione è arrivata: Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria vanno a processo per il presunto stupro che sarebbe avvenuto ai danni di Silvia (nome di fantasia) nella villetta a Cala di Volpe dopo una serata in discoteca. Il gup di Tempio Pausania alla fine ha scelto il rinvio a giudizio per il figlio del garante del Movimento 5 Stelle e per i suoi tre amici genovesi. La prima udienza si terrà il 16 marzo 2022. Le difese dei quattro giovani dovrebbero formalizzare la scelta del rito ordinario. A rappresentare l'accusa nel processo sarà Gregorio Capasso, procuratore di Tempio Pausania, che si è limitato a dichiarare: "L'impianto accusatorio ha retto. È stata accolta la nostra richiesta, ora si farà un processo e si vedrà". Il 5 novembre scorso è stato scelto di rinviare a oggi la decisione cruciale per il caso dai contorni complicati ancora da chiarire in maniera approfondita: è stato preferito prendere ulteriore tempo per ottenere la trascrizione di diverse intercettazioni che ancora non erano state trascritte negli atti a disposizione delle parti.

Le reazioni

L'avvocato Giulia Bongiorno, che difende Silvia, si dice "soddisfatta" perché "mai prima di ora ho assistito a una volontà di sgretolare atti che hanno un significato". Ritiene che ci sia stato "un accanimento contro la mia assistita che è stata messa sul banco degli imputati"; precisa però che non si riferisce ai difensori ma "a quello che ho letto, sono sati distorti gli atti". Un commento è arrivato anche da Gennaro Velle, il difensore di Corsiglia: "Andremo a processo e al dibattimento vedremo, quello dell'udienza preliminare è un passaggio tecnico".

Le "scatole nere"

Prima della decisione del gup aveva preso parola con i giornalisti l'avvocato Giulia Bongiorno, che difende Silvia: ha fatto riferimento alla presenza di "scatole nere", ovvero tutte le intercettazioni su cui ha puntato il suo intervento, che si affiancano a "tanti riscontri contro gli imputati". Senza dimenticare che secondo la Cassazione "le dichiarazioni della persona offesa di un delitto di violenza sessuale, dopo la verifica della credibilità, costituiscano di per sè prova per una condanna".

La consulenza medico-legale

Nelle ultime settimane è spuntata l'ipotesi dell'utilizzo della droga dello stupro: nella consulenza medico-legale di parte firmata dal professor Enrico Marinelli, voluta e depositata dall'avvocato Giulia Bongiorno che difende Silvia, si afferma che "in linea puramente teorica non è possibile escludere l'uso di sostanze di questo tipo, prima o in associazione con l'alcol". Il riferimento è alle sostanze inibitorie come il Ghb.

Il professor Marinelli ha scritto inoltre che la ragazza "non può aver espresso un valido consenso al rapporto di gruppo". Questo perché, a suo giudizio, l'alcol "scemava grandemente la sua capacità decisionale e annullava la sua capacità di autodeterminazione".

Il caso

I fatti risalgono alle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019, quando il gruppetto dei quattro amici e le due ragazze si conoscono in discoteca al Billionaire. Decidono poi di andare nella villetta a Cala di Volpe ed è proprio qui, secondo la versione di Silvia, che si sarebbero consumati gli stupri. Ci sarebbero stati infatti diversi rapporti sessuali, ma la comitiva di Ciro Grillo ritiene che fossero consenzienti. Questo è lo snodo principale: mentre la giovane studentessa italo-norvegese ha denunciato la violenza sessuale contro la sua volontà, i quattro giovani ritengono che lei fosse consapevole di ciò che stava accadendo.

Ci sono poi altri dettagli su cui occorrerà fare chiarezza. Si parla ad esempio di foto a Roberta (nome di fantasia, amica di Silvia) mentre dormiva, con tanto di genitali vicino al volto. C'è poi il fronte dei video: sono stati girati filmati di quegli atti sessuali e poi sono stati fatti girare nelle chat social oppure fatti visionare ad altri? Senza dimenticare l'aspetto della droga, di cui si parla negli sms choc.

Quanto all'alcol, Silvia ha raccontato di essere stata costretta a bere da una bottiglia un cocktail (di vodka e lemonsoda?) prima dei rapporti sessuali. Una versione smentita da chi si difende, secondo cui invece l'avrebbe bevuto di sua spontanea volontà per sfidare il gruppetto. Un altro aspetto importante riguarda quei lividi sulle braccia e sulle gambe che mostrò alle dottoresse della clinica Mangiagalli di Milano. Secondo la consulenza medica di parte risultano essere "compatibili con un meccanismo di pressione e afferramento attuato da più persone contemporaneamente con le mani". Il tutto viene giudicato "coerente con un rapporto non consenziente e invasivo".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

La decisione del Gup, processo il 16 marzo. Ciro Grillo e i suoi 3 amici rinviati a giudizio per il presunto stupro: rischiano fino a 12 anni di carcere. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Tutti rinviati a giudizio. Il gup del tribunale di Tempio Pausania Caterina Interlandi al termine dell’udienza preliminare ha stabilito che Ciro Grillo e i suoi tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria dovranno affrontare il processo per la presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di una studentessa italo-norvegese 19enne risalente alla notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, avvenuta nella villa in Costa Smeralda del comico genovese. Gli avvocati dei quattro (Ernesto Monteverde, Enrico Grillo, Andrea Vernazza, Gennaro Velle, Romano Raimondo, Alessandro Vaccaro e Mariano Mameli) aveva deciso nelle scorse settimane di non chiedere il rito abbreviato. La decisione del gup è arrivata dopo un’ora di Camera di consiglio, che ha accolto così la richiesta del procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso, che ha già annunciato di voler rappresentare l’accusa. La denuncia da parte della ragazza era arrivata il 26 luglio a Milano, dieci giorno dopo il presunto stupro ai suoi danni. In caso di condanna Grillo e i suoi tre amici, che non erano in aula al momento della decisione, rischiano fino a 12 anni di condanna. La prima udienza del processo si svolgerà a Tempio Pausania il 16 marzo 2022. Soddisfatto, ovviamente, il procuratore Capasso: “L’impianto accusatorio ha retto. E’ stata accolta la nostra richiesta, ora si farà un processo e si vedrà“, ha spiegato con poche parole ai cronisti presenti. L’avvocato difensore della presunta vittima, la parlamentare della Lega Giulia Bongiorno, prima della decisione del Gup aveva spiegato che nel processo “ci sono numerosi riscontri contro gli imputati, abbiamo anche la scatola nera che comprende tutte le intercettazioni e le chat, come quelle della mia assistita nella stessa notte dello stupro“. Dopo la decisione del Gup Interlandi di rinviare a giudizio i quattro amici, la stessa Bongiorno ha denunciato il clima contro la sua assistita, che “è finita sul banco degli imputati“. “Se mi chiedete se sono felice la mia risposta è no, perché la mia assistita sta soffrendo tutt’ora, se mi chiedete invece se sono soddisfatta la mia riposta è si perché veramente, come mai prima di ora, ho assistito a una volontà di sgretolare atti che hanno un significato. C’è stato un accanimento contro la mia assistita che è stata messa sul banco degli imputati e non mi riferisco ai difensori ma a quello che ho letto, sono stati distorti gli atti“, ha accusato l’avvocato difensore della studentessa italo-norvegese.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

(ANSA il 26 novembre 2021) - "Abbiamo assistito alla pubblicazione di frammenti di atti mal interpretati, oggi la gup ha risposto a questo tentativo di sgretolare atti che hanno un significato ben preciso". Così l'avvocata Giulia Bongiorno commenta la decisione della gup di Tempio Pausania, Caterina Interlandi, di rinviare a giudizio Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. "Non sono felice ma sono soddisfatta, la mia assistita soffre tuttora e ho atteso per dire che si è assistito a una distorsione da parte di alcuni giornali e la ragazza è finita sul banco degli imputati, ma il materiale probatorio racconta una verità diversa". Mentre il procuratore Gegorio Capasso si limita a dire che "l'impianto accusatorio ha retto ai fini dell'udienza preliminare" e gli avvocati difensori Gennaro Velle, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli confermano il rito ordinario, Bongiorno sottolinea che "oggi è il giorno dopo il 25 novembre, anche questa giornata diventa importante", riferendosi al fatto che ieri si celebrava la Giornata internazionale contro la violenza di genere.  "Sono arrivata a Tempio che pioveva tantissimo e ho visto un arcobaleno, l'ho preso per un segnale", confida l'avvocata. "La Cassazione dice che per andare a processo in caso di violenza sessuale basta la dichiarazione della persona offesa, se ritenuta attendibile in questo caso c'è molto di più e la scelta della giudice lo dimostra". Giulia Bongiorno spiega che "se mi chiedete se sono felice la risposta è no, perché la mia assistita soffre tuttora, ma se mi chiedete se sono soddisfatta la risposta è sì, perché ho atteso sino a oggi per dire che si è assistito a una distorsione da parte di alcuni giornali per cui la ragazza è finita sul banco degli imputati, ma il materiale probatorio racconta una verità 

Ciro Grillo, lo sfogo di Silvia: «Finalmente ricomincio a respirare». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2021. La ragazza che li ha denunciati si è isolata e ha cambiato casa. L’avvocata Bongiorno: è come se fosse uscita da un’apnea ma è traumatizzata e molto sofferente: «C’è chi si permette di pubblicare il suo nome e renderla identificabile». «E adesso come ti senti? Sei sollevata? Arrabbiata?». L’avvocata Giulia Bongiorno le parla al telefono mentre corre verso l’aeroporto di Olbia. Le spiega che questo primo passo è andato, ce l’ha fatta. Dall’altra parte c’è silenzio, un sospiro e poi lei che risponde: «Avvocato, io oggi finalmente ricomincio a respirare». Non è ragazza di troppe parole, Silvia. Ci è voluta tutta la fiducia del mondo per sedersi davanti alla sua legale e raccontare i dettagli della violenza di gruppo che giura di aver subito. Ieri, sapere che hanno creduto a lei e non a loro — ai quattro ragazzi accusati e rinviati a giudizio — è stato come uscire dall’apnea in cui l’aveva costretta la tensione di questi mesi.

«Traumatizzata e sofferente»

L’avvocata Bongiorno racconta di una ragazza «traumatizzata, molto sofferente» che vive ogni giorno «come se avesse accanto perennemente la sensazione fisica di quello che le è successo, una specie di compagna quotidiana». Non è più a casa sua, non frequenta più molti dei vecchi amici, prova a non guardare la televisione quando parlano di lei, i suoi genitori la proteggono come possono. E per chiarire: Silvia, come (quasi) tutti la chiamano dall’inizio, non è il suo vero nome, così come non è reale il nome dell’altra ragazza, Roberta.

«Ma poi c’è chi si permette di pubblicare il suo nome e cognome e renderla identificabile» se la prende Giulia Bongiorno. «Io trovo che questo sia gravissimo, mai ho assistito a una tale volontà di sgretolare la verità e distorcere i fatti. Sono stufa di leggere pezzettini di atti isolati che vengono interpretati male. Tutto questo, tra l’altro, diventa un deterrente per le donne che vogliono denunciare».

La madre

Nel suo rifugio segreto, chiamiamolo così, Silvia prova a ricostruire vita e autostima; non pensare a quel giorno è la parola d’ordine, anche se ogni tanto qualcuno le manda messaggi con qualche titolo di giornale che la riguarda. «Sofferente ma determinata», dice di lei l’avvocata Bongiorno.

Ieri non la finiva più di dirle grazie, ma niente lacrime: questo è il momento di respirare, per dirla con le sue parole. La mamma, invece, è scoppiata a piangere e si è ricordata che il 16 di marzo — cioè il giorno fissato per la prima udienza in tribunale — è la data del compleanno di sua madre. «Lo voglio vedere come un segnale di buon auspicio», ha detto lei all’avvocata Bongiorno.

«Falsità su nostra figlia»

I genitori di Silvia non hanno mai rilasciato interviste. Da loro è arrivata soltanto una nota, diffusa a fine aprile scorso, in cui dicevano: «Non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia. Abbiamo appreso che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave».

Le indagini non erano ancora chiuse. Purtroppo c’era molto altro e molto peggio da sapere.

"Silvia inattendibile", Grillo punta a screditare la vittima della violenza. Giuseppe Filetto su La Repubblica il 28 Novembre 2021. La strategia difensiva del fondatore M5S per il figlio. Pronta la perizia della psicologa forense: sarà usata nel processo. Se la gioca tutta Beppe Grillo. Senza scrupoli. Nel tentativo di difendere il figlio Ciro e i suoi tre amici (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) dalle accuse di stupro di gruppo a danno di Silvia e di violenza sessuale nei confronti di Roberta. Le due ragazze (nomi di fantasia) di Milano nell'estate 2019 erano in vacanza in Sardegna e passarono la notte del 17 luglio nella villetta di Cala di Volpe in uso ai Grillo.

"Abbiamo la scatola nera". Cosa cambia nel caso di Ciro Grillo. Luca Sablone il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Adesso spunta la "scatola nera", ovvero intercettazioni e chat anche nella stessa notte del presunto stupro: "Ci sono tanti riscontri contro gli imputati". Il caso Ciro Grillo si tradurrà in una battaglia legale tra testimonianze, intercettazioni e chat. Da una parte Silvia (nome di fantasia) denuncia di essere stata stuprata dal figlio del garante del Movimento 5 Stelle e dai suoi tre amici genovesi; dall'altra i quattro ragazzi parlano di sesso consenziente. Qual è la vera versione dei fatti? Violenza sessuale o rapporti consapevoli?

Ciro Grillo & Co.: chi sono i ragazzi accusati di violenza sessuale

Nel frattempo è arrivata una decisione che segna un punto importante nella vicenda: il gup di Tempio Pausania ha deciso il rinvio a giudizio e dunque il gruppetto andrà a processo con l'accusa di violenza sessuale di gruppo. L'avvocato Giulia Bongiorno, che difende la studentessa italo-norvegese, ha parlato di "scatola nera". Un'importante "arma" che potrebbe pesare in un processo che si prospetta piuttosto animato.

La "scatola nera"

La Bongiorno ha fatto sapere che con il termine "scatola nera" si fa riferimento a tutte quelle intercettazioni e quelle chat a disposizione, "come quelle della mia assistita nella stessa notte dello stupro". Il tutto, sempre secondo l'avvocato che difende Silvia, è affiancato da "tanti riscontri contro gli imputati". La Bongiorno ha puntato il suo intervento proprio sulla "scatola nera" e, parlando con i giornalisti, ha voluto ricordare che "la Cassazione ritiene che le dichiarazioni della persona offesa di un delitto di violenza sessuale, dopo la verifica della credibilità, costituiscono di per sé prova per una condanna".

Le intercettazioni

Durante il processo potrebbero assumere particolare valore alcune intercettazioni che sono state fatte ascoltare a Quarto grado, programma in onda su Rete 4. Una di queste riguarda il vocale che Silvia ha inviato a un'amica in Norvegia. Parole da cui affiorerebbero anche dei sensi di colpa per ciò che è accaduto, per cui bisognerà vedere quale sarà l'effettiva interpretazione che ne sarà data. "Non so se fosse colpa mia o no quella notte, giuro che è stato così difficile evitarlo. È stupido da dire e probabilmente non mi crederai, non so. Qualcuno probabilmente non mi crede, ma è stato così difficile fermare chiunque, altrimenti non l’avrei mai fatto", sarebbero state le sue parole.

"La ragazza messa sotto accusa"

A questo però si aggiunge anche un fattore umano. La Bongiorno ha usato infatti parole fortissime per sferrare un'accusa pesante: "Forse mai ho assistito a questa volontà di sgretolare atti che hanno un significato ben preciso". Ha parlato di "accanimento" nei confronti della ragazza che ha denunciato il presunto stupro, che è stata "messa sotto accusa". Una precisazione però è doverosa: l'avvocato ha specificato di non riferirsi ai difensori, ma a quanto letto sui giornali.

Per Silvia non è affatto facile ritrovare la serenità totale nella vita quotidiana, visto che ormai il caso è diventato mediatico: "Per la mia assistita è pesantissimo quello che sta subendo perché deve tenere la tv spenta". La Bongiorno ha denunciato il fatto che sarebbero state diffuse le sue generalità, i suoi dati anagrafici, identificata pure con il cognome. E si è detta "stufa" di leggere "piccoli pezzettini di atti isolati", ma al tempo stesso fa notare che oggi il gup "ha dato una risposta a quasta frammentazione di materiale probatorio".

Luca Sablone.  Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a

Chi sono i ragazzi accusati di violenza sessuale. Rosa Scognamiglio il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Ciro Grillo e gli amici sono stati rinviati a giudizio. I quattro ragazzi genovesi sono accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne. Il giorno del verdetto è arrivato. Il gup di Tempio Pausania Caterina Interlandi ha deciso di rinviare a giudizio Ciro Grillo e i suoi amici - Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta - per il presunto episodio di violenza sessuale di gruppo, aggravato dal consumo di sostanze alcoliche, ai danni della 19enne italo-norvegese che nell'estate del 2019 denunciò i quattro ragazzi genovesi per stupro.

A fronte dell'esito dell'udienza preliminare, ricostruiamo le circostanze della vicenda in riferimento ai verbali degli indagati sul racconto di quella notte turbolenta a Cala di Volpe, in Sardegna.

"Mi appoggiava il piede tra le gambe". Adesso Ciro Grillo si difende così

I fatti in sintesi

La storia è ormai nota alle cronache. È il 17 luglio del 2019. Silvia e la sua amica Roberta (nomi di fantasia) conoscono la comitiva dei genovesi durante una serata al Billionaire, noto locale della Costa Smeralda. Attorno alle 5 del mattino le due ragazze decidono di ritornare al bed & breakfast dove alloggiano durante quei giorni di vacanza ma, per via dell'ora tarda, non riescono a prenotare un taxi. A quel punto Ciro Grillo e gli amici invitano entrambe per "una spaghettata" nella casa che hanno preso nel resort sardo al Pevero, accanto alla villa di Grillo senior, con la promessa che poi le avrebbero accompagnate in albergo. Le ragazze accettano l'invito. Da quel momento è un susseguirsi di racconti discordanti su circostanze di sesso promiscuo su cui grava l'ipotesi di reato per violenza sessuale di gruppo. In mezzo a tutto questo, c'è uno scambio di video e chat ancora da chiarire.

Nuovi guai per Ciro Grillo: spunta la droga dello stupro

La versione di Silvia

Partiamo dal racconto di Silvia che, otto giorni dopo l'accaduto, decide di denunciare i quattro ragazzi genovesi per violenza sessuale. Stando al racconto della giovane, il primo ad abusare di lei sarebbe stato Francesco Corsiglia. Dopo la spaghettata sul patio, pressappoco alle 6 del mattino, Silvia si sarebbe ritirata in camera da letto. Corsiglia l'avrebbe raggiunta: "Mi ha spinta a letto e si è buttato su di me – racconta la ragazza ai magistrati di Tempio Pausania, il procuratore capo Gregorio Capasso e il sostituto Laura Bassani, nella convocazione del 17 febbraio 2020 – Continuava a spingermi. In quel momento io mi ribellavo e cercavo di andarmene". Poi il ragazzo l'avrebbe "spinta" nel box doccia, in bagno, dove avrebbe tentato un nuovo approccio sessuale. La giovane avrebbe voluto opporre resistenza "ma non riuscivo a gridare", spiega ai magistrati.

"Corsiglia mi ha lanciato il suo asciugamano, come se fossi una spazzatura – ricorda la 19enne – E allora sono scoppiata a piangere. Altri due ragazzi sono entrati in bagno e mi continuavano a dire 'perché stai piangendo, cosa è successo?'". In lacrime, la ragazza sarebbe andata dalla sua amica Roberta - che intanto riposava sul divano - per chiederle di andare via ma la giovane avrebbe fatto spallucce sopraffatta dal sonno. A quel punto Ciro Grillo, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta "per distrarmi mi hanno offerto da bere, mi hanno tenuto la testa e fatto bere metà bottiglia di vodka - racconta ancora Silvia - La mia testa ha iniziato a girare, ma ero abbastanza lucida ancora. Mi hanno accompagnato in una stanza, mi hanno detto che potevo dormire lì, che potevo stare tranquilla".

E invece, attorno alle 9 del mattino, si sarebbe consumata la presunta violenza di gruppo. "Sentivo che si davano il 'passaggio' e dicevano 'ehi dai, fai veloce che tocca a me' e cose del genere. Io non riuscivo più a gridare, non sentivo più la forza nel corpo. Ero distrutta. Dopo non so, ho visto nero.- conclude Silvia – Non so più cosa sia successo. Mi sono risvegliata in un altro letto, in un'altra stanza". Il presunto rapporto, o presunto stupro, secondo le versioni, è stato filmato con lo smartphone di uno dei ragazzi indagati e per ben 21 mesi è stato oggetto d'indagine da parte degli investigatori.

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La difesa di Francesco Corsiglia

Francesco Corsiglia sarebbe stato dunque il primo della comitiva ad approcciare con Silvia poi si è ritirato in camera a dormire. Il ragazzo si è difeso dall'accusa di stupro sostenendo che tra lui e la 19enne italo-norvegese ci fosse del feeling. "Con lei l'intesa era cominciata in taxi. Poi ho avuto l'impressione che non fosse soddisfatta della mia prestazione, avrebbe voluto durasse di più - racconta nel corso dell'interrogatorio dello scorso maggio - Il rapporto sotto la doccia era durato solo tre minuti e io non avevo avuto un'erezione completa. Ero in imbarazzo. Tutti insieme mi avevano preso in giro per questo". Più tardi, pressappoco alle 7.15, sarebbe stato svegliato da Ciro Grillo: "Mi hanno fatto cambiare stanza - ripercorre quel frangente Corsiglia - Quando mi sono svegliato lui mi ha detto testualmente: 'Ce la siamo tromb... tutti e tre'".

Il racconto di Ciro Grillo

Uno dei "nomi caldi" attorno a cui ruota l'inchiesta per violenza sessuale di gruppo è quello di Ciro Grillo. La linea difensiva scelta dal ragazzo, all'epoca dei fatti contestati dalla Procura di Tempio Pausania 20enne, tende a ridimensionare la vicenda. Seppur abbia ammesso che la situazione avesse preso una piega inaspettata – "Forse siamo andati un po' più in là, doveva essere un gioco", precisa – nega che Silvia sia stata costretta a bere vodka.

"La mattina del 17 luglio 2019 eravamo nel patio io, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta assieme a Silvia. Silvia ha bevuto qualche sorso di vodka, da sola e senza che nessuno di noi la costringesse – racconta nel corso dell'interrogatorio - Dopo la vodka ricordo che abbiamo parlato in modo scherzoso del rapporto sessuale che lei aveva appena avuto con Francesco Corsiglia e parlando lei ci ha lasciato intendere che era meglio una cosa con tre piuttosto che con uno solo". Poi il racconto dei minuti successivi e i dettagli di quello che, all'unisono, i ragazzi descrivono come "rapporto consensuale". La difesa di Grillo Jr, assistito dal cugino Enrico Grillo, quindi parla di "qualche sorso di vodka" bevuto volontariamente dalla ragazza, non "mezza bottiglia" fatta bere a forza (come racconta Silvia) e neanche di "un quarto di bottiglia per sfida", come ha detto Lauria nel corso di un'intervista al programma televisivo "Non è l’Arena".

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Il verbale di Vittorio Lauria

Vittoria Lauria è l'altro ragazzo indagato per violenza sessuale di gruppo. Così come il resto della comitiva, nell'interrogatorio del 5 settembre scorso, fornisce una versione dei fatti diametralmente opposta alla presunta vittima. Il suo racconto prende il via dalla serata al Billionaire. "Dopo aver preso un tavolo ed esserci incontrati con altre persone, di cui alcuni amici di Ciro, abbiamo consumato tutti insieme due bottiglie, una di vodka e una di spumante – riferisce Lauria ai magistrati - Eravamo circa 11 o 12 persone comprese S. e R. che conoscevo in quell'occasione. Con le medesime non ho avuto particolare modo di interloquire durante la serata. Vidi S. e Ciro baciarsi in discoteca".

Poi, il racconto prosegue con alcuni dettagli relativi alla presunta intesa tra Francesco Corsiglia e Silvia, del rapporto sessuale consumatosi tra i due, fino al momento in cui il gruppetto – con anche la ragazza – decide di bere l'avanzo di vodka mescolato a limonata della sera prima. "Prima l'ha sorseggiata Edoardo, poi l'ho assaggiata io e l'ho ritenuta imbevibile, S. ne ha bevuto più di noi, meno di un quarto di litro [...] - precisa Lauria - Lei era seduta alla mia sinistra con una gamba accavallata sulle mie e mi disse: 'Dammi che vi faccio vedere che ne bevo di più'. Dopo questo lei disse: 'Andiamo a dormire'[...]. E noi l' abbiamo seguita dopo circa un minuto, ritenendo che il suo fosse un invito a seguirla".

Cruciale nella lunga e corposa testimonianza resa agli inquirenti è il punto in cui il ragazzo descrive le riprese video del rapporto sessuale di gruppo (a esclusione di Corsiglia). "Durante i rapporti sessuali abbiamo girato un video, in particolare lo ha fatto Edoardo, al quale, nei giorni successivi, chiesi di non farlo vedere a nessuno, né inviarlo ad alcuno, perché sono fidanzato - conferma il giovane - Non penso che Edoardo abbia mostrato in giro il video. S. non si è accorta di essere ripresa perché in quel momento era girata di spalle". A Vittorio Lauria e Ciro Grillo i magistrati di Tempio Pausania contestano anche di essersi fatti fotografare in piedi "con il pene in prossimità del viso" di Roberta, l'amica di Silvia, che intanto dormiva sul divano.

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Le chat di Edoardo Capitta

Sesso promiscuo (con consenso da accertare) ma anche video e foto finite sul gruppo WhatsApp "Official Mostri" dove Ciro e i suoi amici si vantano della "notte brava" a Cala di Volpe. È il 17 luglio del 2019 quando, dopo aver riaccompagnato Silvia e Roberta ad Arzachena, pressappoco alle 14.45, i ragazzi cominciano a chattare con gli amici lontani. Il più attivo del gruppo è Edoardo Capitta che, in una chat registrata con lo pseudonimo "Capi" scrive a un amico: "No, non puoi capire"; "Cosa?" chiede l'altro. "No... 3 vs 1 stanotte, lascia stare". "Spiega meglio" insiste l' amico. "No, no, sì, poi ti farò vedere". "Ma con una tipa?"; "Ma no, guarda... ero ubriaco marcio. Frate te lo giuro". "Ma chi eravate? Te, Corsi e Ciro?". Risponde Capitta: "3 vs 1, ovvio. Ma io veramente alle dieci del mattino ero ubriaco marcio... bevuto beverone alle nove".

Secondo l'accusa, questo passaggio della conversazione tra Capitta e il suo amico (estraneo alla vicenda), lascerebbe intendere che quella notte a Cala di Volpe non c'è stato "sesso consensuale" ma di "violenza sessuale". E a proposito del presunto rapporto promiscuo, Capitta racconta: "Non so come siamo finiti in camera da letto, lei ci disse che non aveva mai avuto un rapporto a quattro. Io per pudore mi preoccupavo del fatto che ci fossero la finestra e le tende aperte e che qualche vicino ci potesse vedere, in particolare la mamma di Ciro, che alloggiava a fianco. Silvia aveva un comportamento attivo e ci faceva richieste". Dopo il rapporto di gruppo, Capitta e Silvia si sarebbero appartati da soli in un'altra camera: "Dopo pochi minuti decidevo di non proseguire, non mi piaceva la situazione. Le dicevo che volevo smettere e andare a dormire. Lei non diceva nulla. Io sono andato a dormire nell'altra camera. Lei e Ciro lì hanno avuto un ulteriore rapporto".

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Il rinvio a processo

Il gup di Tempio Pausania, Caterina Interlandi ha deciso di rinviare a giudizio Ciro Grillo e i suoi amici con l'ipotesi di reato per violenza sessuale di gruppo. Agli atti della Procura, oltre ai verbali di Roberta (l'amica di Silvia) e la testimonianza della moglie di Grillo senior, Parvin Tadjk, le trascrizioni per esteso delle conversazioni intercorse tra gli amici nelle settimane successive alla "notte incriminata". Sullo sfondo c'è anche l'ipotesi della droga dello stupro perché, secondo il medico legale Enrico Marinelli "in linea puramente teorica non è da escludere l'uso di sostanze di questo tipo, prima o in associazione con l'alcol". A latere della vicenda ci sono poi i genitori, più o meno famosi, dei ragazzi coinvolti. Monta la rabbia del papà di Roberta: "Hanno esibito il corpo di mia figlia come un trofeo", dice a proposito del video relativo al presunto stupro.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

"Vai, levale". Il video di Grillo jr con la ragazza addormentata. Francesca Galici il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. A Controcorrente sono stati mostrati in anteprima i video del racconto della presunta vittima e un video inedito di Ciro Grillo e un amico durante quella sera. Nella puntata di Controcorrente in onda domenica 28 novembre sono stati mostrati in esclusiva due video inerenti il caso di Ciro Grillo, che insieme ad altri 3 amici è stato rinviato a giudizio con l'accusa di violenza sessuale su una giovane italo-norvegese, Silvia. I fatti sono quelli noti dello scorso luglio 2019 e il processo inizierà il prossimo marzo. Si preannuncia già una battaglia legale a colpi di perizie che, se da una parte mirano a dimostrare l'inattendibilità del racconto della ragazza, dall'altra vogliono dimostrare che la giovane non fosse nel pieno delle sue facoltà. Nel programma condotto da Veronica Gentili è stato mostrato uno dei video girati quella famosa giornata, messo agli atti, in cui si vedono chiaramente Ciro Grillo e il suo amico in quella che sembra essere la sala della villa del garante del Movimento 5 stelle in Costa Smeralda. È uno dei video registrati quando l'amica di Silvia dormiva. L'amico di Grillo ha i boxer abbassati e invita il figlio del garante del M5s a fare lo stesso, mentre lui si avvicina alla giovane. I due ridacchiano e, come ha spiegato la conduttrice, è stato censurato prima della messa in onda per evitare di mostrare le parti salienti del video, quelle in cui si vedono i due giovani avvicinare le loro parti intime al volto della ragazza addormentata. Beppe Grillo, nel famoso video di aprile, ha definito tutto questo una "goliardata" ma tre dei quattro ragazzi, tra i quali Grillo, sono a processo anche per questo. In altri due video, invece, è contenuto il racconto di quella notte della ragazza: "La mia amica era stanca, quindi è andata a dormire. Io sono rimasta con questi ragazzi. Uno di loro aveva chiesto di accompagnarlo in camera per prendere tipo delle coperte". Quindi i due entrano nella camera da letto e a quel punto, stando al racconto della giovane, "mi ha tipo spinto sul letto e si è forzato su di me. Continuava tipo a tenermi giù. Io in quel momento comunque mi ribellavo e cercavo di andare. Non capivo cosa stesse facendo e lui mi tirava tipo dalle gambe. Provava ad aprire, così. Continuava a forzarsi e io non volevo e comunque sono riuscita a respingerlo in quel momento e sono tornata di là con gli altri". La ragazza dice di aver "fatto finta di nulla" e di aver avuto dagli amici la rassicurazione che avrebbe avuto una camera tutta per sé quella notte. Ma poi Silvia dichiara: "Questo ragazzo di prima è tornato in camera e si è praticamente rifondato su di me, però lì è riuscito a trattenermi e mi tirava i capelli, mi aveva immobilizzata, quasi tipo bloccata e non riuscivo… Cioè non riuscivo a muovermi. E di nuovo era riuscito a togliermi i vestiti e mi apriva le gambe. Io avevo paura, ma comunque non riuscivo a gridare tanto. Sentivo che i suoi amici erano dietro la porta". Silvia ha continuato a raccontare quei momenti, di come il ragazzo la teneva immobilizzata fino a quando, in un momento di distrazione, dice di essere riuscita a liberarsi ma mentre stava uscendo dalla stanza sarebbe stata nuovamente bloccata. A quel punto, sarebbe stata buttata dentro la doccia. "Con una mano mi teneva la testa ferma contro il muro, mi ha fatto male", spiega la giovane, che poi continua: "Una volta finito, lui è uscito dalla stanza mi ha dato un accappatoio e io mi sono rivestita". A quel punto la ragazza è scoppiata a piangere. Poi, riferendosi agli altri ragazzi che sono arrivati in un secondo momento, Silvia dice: "Avevano visto tutto, continuavano a ridere". In tutto questo l'amica di Silvia si sarebbe svegliata solo in un secondo momento ma, ricevuta la rassicurazione da parte dei ragazzi che le avrebbero riaccompagnate a casa, è tornata a dormire. Silvia, quindi, sarebbe andata a sedersi in un gazebo, poi raggiunta da due della comitiva, che dopo averla distratta l'avrebbero "forzata a bere". Così spiega la ragazza nel suo racconto. Le avrebbero tenuto la testa per farle consumare circa metà bottiglia di vodka, che le avrebbe fatto girare la testa ma senza privarla totalmente della lucidità. L'altra ragazza dormiva, gli amici a quel punto l'avrebbero accompagnata in un'altra stanza. A quel punto ci sarebbe stata l'altra violenza. "Uno dei ragazzi mi ha tirato su di lui e mi ha bloccato la testa tipo sul petto. Io non mi ero accorta che gli altri fossero dietro di me, mi hanno svestita da dietro, mi hanno bloccata, e quello che era sdraiato sopra di me mi ha preso la testa e... E li continuavo a sentire che si davano il passaggio. Dicevano: 'Dai, dai, dai veloce tocca a me', cose del genere". A quel punto la ragazza dice di essere senza forze, distrutta, "dopo non so quanto ho visto nero, poi non so cosa sia successo".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 novembre 2021. In vista di quello che si annuncia come il processo dell'anno, i difensori di Ciro Grillo & C., rinviati a giudizio venerdì con l'accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni di S.J. e R.M., hanno pronte almeno due consulenze ancora riservate. Una è quella del dottor Marco Salvi, medico legale che dovrà rispondere alle conclusioni del professor Enrico Marinelli che, incaricato dall'avvocato di parte civile Giulia Bongiorno, ha detto la sua sui lividi trovati sul corpo della ragazza e sulle conseguenze che l'alcol ingerito dalla studentessa tra la sera del 16 luglio 2019 e l'alba del 17 avrebbero avuto sul suo corpo. Per Marinelli la parte offesa «non può aver espresso un valido consenso al rapporto di gruppo» perché l'alcol «scemava grandemente la sua capacità decisionale e annullava la sua capacità di autodeterminazione». Ora toccherà a Salvi replicare. Gli avvocati di Grillo junior, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria non hanno depositato la consulenza durante l'udienza preliminare per non scoprire tutte le loro armi, ma lo faranno certamente a marzo. Stessa cosa per gli aspetti psicologici. I legali degli imputati si sono rivolti a Lucia Tattoli, psicologa che collabora con la Procura e il Tribunale di Genova. L'esperta dovrà tracciare un profilo psicologico della ragazza sulla base delle sue dichiarazioni, in particolare della lunga videoregistrazione (di oltre cinque ore) della denuncia del 26 luglio 2019. Il procuratore Gregorio Capasso si era rivolto alla dottoressa Cinzia Piredda, responsabile per la Sardegna della Società italiana di psicologia clinica forense. Capasso ha chiesto alla professionista di valutare, «sulla base delle audizioni e delle dichiarazioni rese dalla persona offesa» sia in sede di denuncia sia davanti al pm, «modalità e meccanismi di elaborazione e rievocazione dei ricordi della medesima» e in particolare quelli collegati alla mattina del 17 luglio 2019. Anche la Piredda ha analizzato video e audio delle testimonianze del 26 luglio 2019 e del 17 febbraio 2020, quando la ragazza venne sentita a Tempio Pausania dagli inquirenti. La psicologa ha evidenziato la differenza di atteggiamento della ragazza con i carabinieri e con i magistrati. In caserma, ha scritto, «alterna momenti in cui manifesta tranquillità, ad esempio quando descrive se stessa e le attività sportive praticate, a momenti in cui mostra una certa emotività, ad esempio quando descrive i fatti accaduti in occasione dei rapporti sessuali con i ragazzi, emotività che si palesa con continue interruzioni del discorso, balbettamenti, aumento della gestualità, movimenti continui sulla sedia». La situazione peggiora di molto quando si presenta davanti ai pm e questi introducono nel discorso testimonianze esterne: «Questi elementi di novità hanno determinato in S. una manifestazione emotiva-reattiva molto evidente e una maggiore attivazione fisiologica: si allontana con il corpo dalla scrivania del pm, facendo aderire la schiena alla poltrona e spostando la stessa dalla scrivania, come a cercare una certa distanza fisica ed emotiva, il respiro diventa più veloce, il viso diventa rosso e inizia a piangere». Tra le sorprese il racconto del presunto stupro subito in Norvegia nel maggio del 2018 da parte di David Enrique Bye Obando, coetaneo originario del Nicaragua. Una vicenda su cui la Procura di Tempio Pausania ha aperto un fascicolo contro ignoti, dopo che la giovane ha confermato di aver rivelato alle amiche più strette di aver subito una violenza carnale anche in quel caso, seppur mai denunciata. La Piredda conclude così la sua consulenza: «Si può affermare che le modalità e i meccanismi di elaborazione e rievocazione dei ricordi da parte di S., compresi i particolari mancanti rispetto all'intera serata, rientrano - secondo un parametro di normalità- nei processi di funzionamenti della memoria. Si ritiene utile segnalare che dai racconti della persona offesa emerge la difficoltà di quest' ultima di assumere e mantenere il controllo delle situazioni e di manifestare fattivamente la propria opposizione alle altrui condotte». La psicologa evidenzia un'ammissione di S.: «Io tendo, a volte magari non sto attenta e dovrei prendermi più cura di me stessa e non finire in situazioni così la cazzata era legata al fatto che sono andata a casa loro... dita in faccia perché sono una cretina nel senso si sa che non si va a casa di sconosciuti». E secondo la Piredda «queste difficoltà emergono in diversi momenti del racconto fatto da S.». Per questo la conclusione è tranciante: «Dal colloquio e dalla descrizione dei fatti emerge la difficoltà da parte di S. a esprimere la propria volontà e rispondere con un diniego a richieste poste dagli altri». Risultato che non dispiace alle difese che, però, vuole anche avere un proprio parere da giocarsi in aula, visto che a causa di questa presunta incapacità di dire di no adesso quattro amici rischiano sino a 12 anni di galera. Al profilo tracciato dalla Piredda adesso dovrà rispondere Lucia Tattoli. Dopo la laurea alla Sapienza in psicologia, si è specializzata a Genova con un master di II livello in criminologia e scienze psichiatrico forensi. A Parma, invece, ha perfezionato lo studio della valutazione del danno e della psicopatologia delle condotte criminali. È stata spesso incaricata di valutare l'attendibilità di giovani e giovanissime vittime di presunti abusi sessuali in qualità sia di perito dei giudici sia di consulente dei pubblici ministeri. S., nel primo verbale davanti alle carabiniere, aveva anche raccontato come fosse nata la sua decisione di confessare la vicenda del presunto stupro alla madre, una volta ritornata a Milano dalla Sardegna: «Io comunque gliene volevo parlare, perché comunque sono in buoni rapporti con mamma, naturalmente. Non ne ho avuto l'opportunità perché lei lavorava [] l'ho vista sempre stressata, pero quella sera era tornata a casa prima e, appunto, lei mi ha visto un attimo giù e che non so, avevo cose per la testa, allora ho deciso di raccontarglielo». Nella versione riassuntiva del verbale si legge: «Le ho confidato che avevo tante cose per la testa e le ho detto che c'erano tanti pettegolezzi in giro sul mio conto che mi mettevano in cattiva luce». Ma poi quel verbale sul punto non dice più nulla. Dei gossip sul conto di S.J. si parla diffusamente nella trascrizione integrale. «Che brutte voci ci sono in giro su di te?» le ha chiesto la marescialla. E la ragazza ha aperto il cuore e ha raccontato le voci che la assillavano: «Pensano che siccome sono norvegese e allora sono facile, cose così». In tanti, in Italia e in Norvegia, si sarebbero fatti avanti, chiedendole con poco garbo di fare sesso. Su certe battute aveva smesso di riderci su da tempo: «Certe volte magari diventano troppo pesanti, poi... gente che non mi conosce si fa idee strane» ha detto alle investigatrici. E così, la mattina del 17 luglio, è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso nella testa di S.J., la ragazza che, per la psicologa della Procura, non sapeva dire di no. 

Giacomo Amadori per "la Verità" il 29 novembre 2021. La trasmissione Controcorrente di Rete 4, condotta da Veronica Gentili, ieri sera ha mandato in onda un documento inedito di grande impatto emotivo. Ha trasmesso il video realizzato nella stazione milanese dei carabinieri di Porta Garibaldi il 26 luglio 2019, tra le 18.35 e l'1.30 di notte. Immagini che immortalano l'allora diciottenne S.J. mentre denuncia davanti a due marescialli donna dell'Arma Ciro Grillo e tre suoi amici, oggi tutti rinviati a giudizio, per violenza sessuale di gruppo. Un filmato che, nella versione integrale, dura più di cinque ore, ma che ha il suo momento cruciale tra il diciannovesimo e il ventiseiesimo minuto, quando, tutto d'un fiato, la studentessa riferisce alle militari la sua verità. Per poi specificare particolari che non sempre hanno tenuto alla verifica dei fatti. Ma quei primi 6-7 minuti sono importanti per cercare di scoprire, nelle increspature della sua voce, nel suo sguardo, nelle pause e nel linguaggio del corpo, chi sia davvero questa ragazza. Se sia una vittima o una bugiarda. O solo una giovane donna che ha parzialmente rielaborato, magari involontariamente, il sesso di gruppo a cui ha partecipato all'alba del 17 luglio 2019. Un cedimento alle pulsioni altrui che non si può escludere sia stato favorito dall'alcol ingerito e che la studentessa, a posteriori, potrebbe aver giudicato inaccettabile per la sua reputazione. Un'analisi di quel video è stata fatta, come abbiamo raccontato ieri, dalla psicologa incaricata dalla Procura di Tempio Pausania di stilare un profilo della giovane. Al termine del suo lavoro Cinzia Piredda, responsabile per la Sardegna della Società italiana di psicologia clinica forense, ha scritto: «Dal colloquio e dalla descrizione dei fatti emerge la difficoltà da parte di S. a esprimere la propria volontà e rispondere con un diniego a richieste poste dagli altri». E per giustificare queste sue conclusioni riporta tre episodi: «Quando S. descrive il momento in cui, seduta sotto il gazebo con i ragazzi, beve la vodka poco prima del secondo rapporto sessuale, assecondando senza opposizione il gesto di uno dei ragazzi []; quando chiede a R. (l'amica che si trovava con lei nella casa, vittima di molestie, ndr) di andar via, dopo il primo rapporto sessuale, ma la sua richiesta non viene accolta dall'amica» e S. «non insiste con R., nonostante racconti il suo disagio e accetta di rimanere ancora nella casa». E infine «quando racconta di un precedente rapporto sessuale non consenziente con il suo migliore amico, avvenuto in Norvegia nel maggio del 2018. Anche in questa occasione, secondo quanto riportato, emerge la difficoltà di S. a negarsi a un rapporto sessuale non desiderato». Ma nel racconto della italo-norvegese, anche nella parte ascoltata ieri sera a Controcorrente, qualcosa non torna, sebbene per la psicologa, «i particolari mancanti rispetto all'intera serata, rientrano - secondo un parametro di normalità - nei processi di funzionamento della memoria». Per esempio la ricostruzione del rapporto a tre con Grillo junior, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria è clamorosamente lacunoso. S. sostiene di essere stata bloccata in una posizione a «quattro zampe» da Vittorio, che era sotto di lei, mentre gli altri due facevano i loro comodi alle sue spalle. L'investigatrice l'ha incalzata: «Perciò tu non sei riuscita a vedere ognuno di loro». E S. ha confermato: «Io vedevo le loro gambe. Cioè sentivo i loro nomi, li sentivo proprio che mi toccavano». Il maresciallo ha insistito: «Quindi non riuscivi a vederli in faccia?». S. ha annuito: «In faccia no». Però ci sono almeno due video, uno di 25 secondi e un altro di 11 (ma di quella stessa scena esistono versioni di durata più breve) che raccontano tutt' altra storia. La studentessa non appare trattenuta con brutalità: in uno è in posizione supina e in un altro sotto di lei c'è Ciro Grillo e non Vittorio. Ha dimenticato tutto o ha preferito riportare solo in parte un rapporto che successivamente appare consenziente? Nei diversi filmati colpiscono le espressioni goliardiche di Ciro Grillo che fa le faccette mentre guarda uno degli amici che lo riprende con il cellulare. Il giovanotto sembra più interessato a farsi inquadrare dall'improvvisato «regista» che alla propria performance erotica. Stesso copione quando Ciro si avvicina di soppiatto con «il pisello in mano», per dirla con Beppe Grillo, a R. che sta dormendo sul divano. Insomma «un coglione» fatto e finito, sempre per citare il fondatore del Movimento 5 stelle. O almeno così appare in quei secondi di filmato. Nella narrazione di S., come ha puntualizzato Controcorrente, viene completamente rimosso un episodio di quella mattinata, quando la giovane, dopo il primo presunto stupro sarebbe andata con il suo stesso aguzzino e altri due imputati a comprare le sigarette nella frazione di Arzachena, distante pochi chilometri dall'appartamento. Di quella circostanza esisterebbe più di una prova. Per esempio nel processo che partirà il prossimo 16 marzo le difese chiederanno di esaminare le celle telefoniche, anche perché ci risulta che il telefonino di Capitta, intorno alle 7 del mattino, orario del passaggio dal bar tabacchi, avesse agganciato un ripetitore diverso da quella che copre l'appartamento. S. è davvero andata in paese con i tre? Se sì, perché non ha segnalato agli inquirenti quello spostamento? Pensava potesse rendere meno credibile la versione del primo stupro? Non lo sappiamo. Di certo, al ritorno nella casa dove soggiornavano i ragazzi, S. ride e scherza con Vittorio. Gli picchietta il naso con il dito medio come testimonia un video agli atti. Nella sua denuncia la presunta vittima descrive una trasformazione del ragazzo degna di dottor Jekyl e mister Hyde. Infatti dopo quel filmato scherzoso, sarebbe diventato un orco: «Si e alzato e mi ha preso per i capelli e me l'ha fatta bere (la vodka, ndr). Cioè me l'ha fatta bere tutta in un sorso». C'è anche la questione dei segni sul corpo di S. a dividere accusa e difesa. i medici della clinica Mangiagalli, che per primi hanno visitato S., il 25 luglio 2019, hanno evidenziato cinque lividi su braccio e avambraccio destro, e su entrambe le gambe. Segni che, in quel momento, sembravano coerenti con il racconto della giovane, la quale sosteneva di essere stata «tenuta ferma» dai suoi stupratori, in modo da impedirle «ogni forma di resistenza». Ma gli avvocati degli imputati si chiedono se queste aree di «soffusione verdastra del tegumento» non potrebbero essere conseguenza del kitesurf praticato dalla ragazza, uno sport che può lasciare segni a causa dell'attrito violento con le onde e la tavola. L'amica R. quando, nel pomeriggio del 17 luglio, andò a cercare S., non rilevò, però, nulla di particolare: «Non ho notato alcun segno sul corpo di S. quando sono andata a svegliarla». In un audio inviato subito dopo i fatti all'amica norvegese Mia, S. si dà quasi la colpa per quelle ecchimosi: «[] tutti questi lividi, non è che mi prenda cura di me perché la metà di quello che ho sulle braccia, non la avrei se, per esempio, mi prendessi cura di me []». Le difese hanno anche contestato un altro passaggio della testimonianza di S., questa volta riguardante Francesco Corsiglia: «Gli ho detto di smetterla, che era un animale e che era un grande stronzo. Però lui non ha smesso [] continuava a tirarmi i capelli indietro e a baciarmi sul collo e ha lasciato tipo dei succhiotti». Ma di questi segni, nelle foto dei giorni immediatamente successivi i legali degli imputati e il loro consulente Marco Salvi, medico legale, non sembrano aver trovato traccia. Ci sono, infine, le versioni discordanti su come siano tornate a casa le due presunte vittime dopo la notte trascorsa con i coetanei genovesi. Il 26 luglio in caserma S. dice: «Abbiamo trovato un taxi» e i ragazzi «non sono venuti ad accompagnarci fuori [] sono stati in casa». La militare chiede: «Chi l'ha chiamato tu o R.?». S. risponde sicura: «R.». Ma R. ha dato un'altra versione. Opposta. «S. chiedeva a Corsiglia di riaccompagnarci a casa» ha detto. «Veniva con noi anche Ciro che si sedeva davanti al lato passeggero, mentre io e S. ci sedevamo dietro». I genovesi proponevano di far colazione insieme e S. «diceva che voleva tornare subito a casa». Risultato: le due amiche sono state scaricate ad Arzachena, dove «S. chiamava un taxi». Nel verbale del 26 luglio la ragazza italo-norvegese ha affidato ai due marescialli anche gli ultimi feroci pettegolezzi messi in giro dai suoi stessi amici. Per esempio, i gossip sulla vacanza che aveva deciso di trascorrere in Brasile per fare kitesurf con il fidanzato della migliore amica di sua sorella: «Hanno iniziato a dire: "Eh, tanto si sa che sc, si sa che farete questo"...». Per questo S. ha deciso di rinunciare al viaggio: «Anche dopo tutta questa cosa (il presunto stupro, ndr) non ho più voglia di partire» ha ammesso. Ma i pettegolezzi andavano avanti da tempo, anche per colpa delle amiche a cui aveva affidato le confidenze sui suoi primi rapporti sessuali: «Dal nulla io sono incinta o non so quanta gente ho in giro. Adesso a quanto pare in Norvegia ho rotto mille cuori, sc... con mezzo mondo. Cioè cose così».

Ciro Grillo alla sbarra, Alessandro Sallusti e la "strana coincidenza": cosa non torna in magistratura. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 novembre 2021. Ciro Grillo, figlio ventenne del comico fondatore dei Cinque Stelle, andrà a processo insieme a tre amici con l'accusa di violenza sessuale. Lo ha deciso ieri la giudice del tribunale di Tempio Pausania, nord della Sardegna, dopo aver esaminato le carte della procura che ha indagato sui fatti avvenuti la notte del 16 luglio 2019 nella villa della famiglia Grillo di Cala di Volpe e in particolare su quelli denunciati da una ragazza di 19 anni che ha sostenuto di essere stata violentata a ripetizione da quattro ragazzi, uno dei quali Ciro, conosciuti poco prima in discoteca. La decisione di andare a processo arriva a due anni e mezzo dai fatti, una eternità se si considera che il presunto reato è immortalato nei video girati quella notte dai ragazzi stessi trovati nei loro telefonini subito sequestrati. Una eternità se paragonata ai sei mesi che fu il tempo trascorso tra l'avviso di garanzia e il rinvio a giudizio nel 2011 di Silvio Berlusconi per il caso Ruby dopo un'indagine ben più complessa e risultata poi totalmente infondata. Intendo dire che la velocità della giustizia è direttamente proporzionale non alla gravità del fatto ma agli interessi politici che attorno a quel fatto gravitano. L'inchiesta su Grillo junior ne è un esempio. Quando è scoppiato il caso, siamo nell'estate del 2019, ministro della Giustizia era il grillino Alfonso Bonafede. Per quasi due anni nulla è successo, la cosa sembrava finita nel dimenticatoio per poi tornare alla ribalta nei primi mesi di quest' anno, poco dopo l'insediamento - avvenuto a febbraio - del nuovo governo che ha visto il ministero della Giustizia cambiare di mano e uscire dall'orbita Cinque Stelle. Apriti cielo. Ad aprile, in un memorabile video, Beppe Grillo sbotta contro la magistratura e mette in dubbio pure la trasparenza della ragazza che sostiene di essere stata vittima del branco. Imbarazzo generale, anche in casa grillina, ma l'inchiesta dà l'impressione di rallentare ancora, fino alla svolta tecnicamente a questo punto inevitabile di ieri. Non tocca a me ovviamente stabilire se Ciro Grillo sia colpevole. Segnalo solo delle coincidenze che sommate ai ritardi diventano indizio di una magistratura ancora una volta così così. 

Ciro Grillo, "conferme anche dal procuratore": cosa non torna nell'inchiesta, ombre in magistratura. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 30 novembre 2021. Gli uffici giudiziari di Tempio Pausania non devono essere una grande priorità per il Consiglio superiore della magistratura, l'organo di autogoverno delle toghe che si occupa delle loro promozioni e dei loro trasferimenti. Le premure e le attenzioni del Csm sono rivolte, probabilmente, ad uffici giudiziari più importanti, come la Procura di Roma, la cui nomina del procuratore si trascina da oltre due anni fra interminabili ricorsi e controricorsi. Essendo tutte le energie concentrate altrove, il destino di un piccolo tribunale del nord della Sardegna è finito in secondo piano, con le inevitabili conseguenze. La Procura che ha svolto le indagini per violenza sessuale nei confronti di Ciro Grillo e dei suoi tre amici, ad esempio, presenta attualmente una carenza di organico del 33 per cento, fra le più elevate d'Italia. E sono solo sei gli anni di servizio complessivi dei quattro pm che vi esercitano le funzioni. A vigilare su questi magistrati alle prime armi vi è il procuratore Gregorio Capasso che, a settembre del 2018, era addirittura rimasto con un solo pm. Capasso, il cui nome compare nelle famose chat di Luca Palamara, aveva chiesto a quest'ultimo «una applicazione extradistrettuale e una pubblicazione straordinaria dei posti vacanti» per poter mandare avanti la disastrata baracca. La segnalazione, però, non andò in porto. I pm di Tempio Pausania, appena maturano il periodo minimo di permanenza (tre anni), fanno domanda e scappano a gambe levate. Sarebbe interessante capire il motivo. Emblematico al riguardo il caso della pm Laura Andrea Bassani, che ha condotto proprio le indagini su Grillo junior e i suoi amici. La magistrata, lo scorso aprile, prima ancora di aver terminato la seconda fase delle indagini, aveva presentato domanda di trasferimento per la Procura dei minori di Sassari. Essendo l'unica aspirante, il Csm aveva votato all'unanimità il suo trasferimento, e ai primi di agosto la pm era già nella nuova sede, lasciando Capasso nel panico. Il procuratore, appreso del trasferimento della sua sostituta, aveva dichiarato di aver richiesto formalmente il "posticipato possesso" della magistrata presso il nuovo ufficio di Sassari, «in modo da consentire alla collega di definire almeno una parte del carico di procedimenti a lei assegnato e di provare a chiudere i processi più importanti da lei seguiti». Il grido di dolore di Capasso si era però scontrato con quello della capa della Procura dei Minori di Sassari, Luisella Fenu, che spingeva per l'immediato arrivo della pm. Trattandosi di due istanze "contrapposte", si erano annullate a vicenda. Per restare in tema di ruoli scoperti, da circa un anno è vacante il posto di procuratore generale di Cagliari. Si tratta di una nomina importante, in quanto il pg potrebbe disporre l'applicazione della Bassani a Tempio Pausania, per non lasciare da solo Capasso nei giorni delle udienze del processo a Grillo junior e ai suoi tre amici. In una Procura abbandonata dal Csm e dal ministero della Giustizia è dunque piombata l'indagine sul figlio del fondatore del partito di maggioranza relativa. Indagine interminabile. La denuncia ai carabinieri da parte della ragazza venne presentata il 26 luglio del 2019, una decina di giorni dopo la presunta violenza subìta. I telefonini dei quattro furono sequestrati il mese successivo, il loro primo interrogatorio avvenne il 5 settembre 2019, a ridosso della formazione del governo Conte 2. La perizia sui telefonini venne depositata alla fine gennaio 2020. Poi più nulla per mesi. Le indagini vennero chiuse a novembre dell'anno scorso, per essere riaperte e quindi richiuse a maggio di quest'anno. Il dibattimento, che inizierà il prossimo 16 marzo, si preannuncia molto complicato. Grillo junior e i suoi amici rischiano almeno dodici anni di carcere e si giocheranno il tutto per tutto in udienza. Beppe Grillo è già partito lancia in resta con una super perizia per dimostrare l'inattendibilità della ragazza. La linea difensiva è che si sia trattato di un rapporto "consenziente". 

Quel silenzio assordante attorno al caso di Ciro Grillo. Francesco Curridori il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Parlamentari giallorossi e femministe irriducibili tacquero quando scoppiò il 'caso Ciro Grillo'. Quando si parla della vicenda di Ciro Grillo la mente torna inevitabilmente al video postato dal padre Beppe sui social lo scorso aprile. La vicenda della violenza sessuale per la quale il figlio del fondatore del M5S è stato rinviato a giudizio, fino alla pubblicazione di quel video, è stata opportunamente e deliberatamente tenuta a tacere. Non si sono sentite le orde di femministe che hanno prontamente condannato altri stupratori come l'imprenditore Alberto Genovese oppure il regista Fausto Brizzi (poi risultato innocente). Fino a che Beppe Grillo non se n'è uscito con quel video delirante non ci sono state 'paginate' di disapprovazione del Fatto Quotidiano il quale, però, non ha esitato nel fiondarsi sull'avversario politico quando la Lega è stata investita dal 'caso Morisi'. No, nulla di tutto questo è avvenuto fino all'aprile scorso, probabilmente perché non si voleva turbare la nascente alleanza giallorossa. Un silenzio assordante, rotto solo da Beppe Grillo che, con quel video, mise non poco in imbarazzo i parlamentari pentastellati. La maggior parte di loro si guardò bene dal commentare quelle parole, mentre alcuni ebbero l'ardire addirittura di difenderlo. Alessandro Di Battista, che all'epoca era già fuori dal Movimento, disse: “Tanti lo hanno criticato legittimamente, io essendo amico e volendo bene a Beppe non mi devo per forza accodare ai critici. Mi ha indignato soprattutto la strumentalizzazione politica che è stata fatta per attaccare il movimento, io continuo a difenderlo anche essendone uscito fuori”. E, se per la maggior parte gli esponenti grillini di sesso maschile tacquero sia prima sia dopo quel video, Paola Taverna difese il leader del M5S. La vicepresidente del Senato dichiarò: "Ciò che prova Beppe a livello umano posso solo immaginarlo, e da mamma gli sono vicina. La magistratura è al lavoro, perciò auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva, come giusto che sia, in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli". La senatrice grillina Giulia Lupo, infine, aveva posto l'accento sul lato umano dell'intera vicenda descrivendo Grillo padre come “una persona disperata e quando si è disperati si ha poca lucidità. Per i valori che ci ha sempre insegnato, però, non credo volesse sminuire la questione delle violenze di genere”. Insomma, i pentastellati, da sempre giustizialiati con tutti gli avversari, di fronte a una vicenda come questa si sono scoperti improvvisamente garantisti. E, anche il 'forcaiolo' Fatto Quotidiano che non si è fatto scrupoli nel pubblicare il numero di conto corrente di Matteo Renzi ha evitato accuratamente di guardare troppo dal buco della serratura della villa estiva dei Grillo, rispettando il classico doppiopesismo che regna sovrano da decenni nella sinistra italiana.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

L'ultima mazzata per papà Beppe. Mesi in disparte dopo il video-autogol. Domenico Di Sanzo il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Per la difesa del figlio il garante è stato attaccato anche dai suoi. La parabola discendente del guru, oggetto di minacce. Il botto, le urla. Poi il silenzio durato sette mesi. Infine le minacce e il rinvio a giudizio. La Gup di Tempio Pausania ha mandato a processo Ciro Grillo, ultimogenito di Beppe, e i suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo da una ragazza italo-norvegese per i fatti accaduti nell'estate del 2019 in Costa Smeralda, nella villa del comico. Ovviamente il fondatore del M5s non c'entra con le vicende processuali e per il figlio vale il la presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Ma è indubbio che la questione penderà come una spada di Damocle sul leader Beppe Grillo (nella foto nel suo video in difesa dei ragazzi) fino alla chiusura del dibattimento, che potrebbe concludersi con una condanna fino a 12 anni di carcere per i quattro imputati. Inevitabile che il percorso giudiziario, che si annuncia lungo e difficile, condizionerà l'azione politica del Garante del Movimento. E anche le sue possibilità di intervenire direttamente nelle faide interne di un M5s sempre più sfilacciato e balcanizzato. Forse sono state complici le fughe di notizie su un blitz imminente, resta il fatto che il comico continua a rinviare una discesa a Roma che i parlamentari gli chiedono da tempo. Nel caos stellato, la decisione di prendere il 2 per mille come fanno gli altri partiti è solo l'ultima barriera eretta tra il «gran custode dei valori» e Giuseppe Conte, il rifondatore. Grillo è sempre stato contrario a questa forma di finanziamento del partito, Conte si è reso conto che non ne può fare a meno. La base parlamentare è già spaccata. Mentre nel frattempo Conte e i suoi lanciano un aut-aut agli eletti che si stanno allontanando dall'avvocato: «Se non ci appoggiate non sarete ricandidati». Peccato che la parola definitiva sulle prossime liste spetti a Luigi Di Maio, presidente del Comitato di Garanzia voluto da Grillo. A mettere in subbuglio mezzo Parlamento, il Garante ci aveva pensato il 19 aprile scorso. Con un video estemporaneo. L'unica intrusione nell'inchiesta sul figlio. Senza dubbio un autogol, dato che lo sfogo ha irritato perfino i deputati e i senatori più vicini all'Elevato. «Se dovete arrestare mio figlio, perché non ha fatto niente, allora arrestate anche me perché ci vado io in galera», aveva detto Grillo in quell'occasione. E ancora: «Io voglio chiedere perché un gruppo di stupratori seriali, compreso mio figlio dentro, non sono stati arrestati. La legge dice che gli stupratori vengono arrestati e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari». Quindi la parte più controversa del discorso. «Sono liberi da due anni, ce li avrei portati io in galera a calci nel culo. Allora perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c'è stato niente perché chi viene stuprato e fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano», le frasi che suonano come una colpevolizzazione della presunta vittima. Anche l'amico ed ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro sgridava così Grillo sette mesi fa: «Voglio bene a Beppe, ma così ha danneggiato le ragazze e il figlio». Arriviamo così agli ultimi giorni. La politica, con lo sberleffo a Conte «specialista di penultimatum» in riferimento all'embargo del M5s sulla Rai. La cronaca, con le brutte minacce alla famiglia Grillo contenute in una lettera arrivata nella villa del comico a Genova. «Condoglianze, avrai lutti in famiglia nel periodo delle Feste». La Procura sospetta un collegamento con l'inchiesta che riguarda Ciro. Domenico Di Sanzo

Quando Beppe Grillo difendeva il figlio Ciro a spada tratta. Francesco Boezi il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Il rinvio a giudizio di Ciro Grillo riporta alla mente la difesa in video del padre. Il MoVimento, nonostante tutto, ancora lontano dal garantismo. Il rinvio a giudizio di Ciro Grillo apre il cassetto dei ricordi e la memoria non può che andare dalle parti del video con cui Beppe Grillo ha provato a difendere suo figlio. I toni di quell'intervento hanno suscitato una marea di critiche difficili da dimenticare. Tra ipotesi varie e possibili retroscena, non c'è dubbio che quel filmato abbia scosso le coscienze di molti italiani, diventando un passaggio molto discusso sulle cronache. "Ormai sono due anni, sono stufo. Se dovete arrestare mio figlio, perché non ha fatto niente, allora arrestate anche me perché ci vado io in galera", ha tuonato il fondatore del MoVimento 5 Stelle in quella circostanza. Era l'aprile di quest'anno. E ancora: "Io voglio chiedere perché un gruppo di stupratori seriali, compreso mio figlio dentro, non sono stati arrestati. La legge dice che gli stupratori vengono arrestati e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari". Sino a questo punto, le considerazioni del creatore del grillismo erano state soprattutto relative al tipo di atteggiamento assunto dalla Giustizia rispetto al caso. Poi la parte del discorso più discussa in ambito mediatico-politico: "Sono liberi da due anni, ce li avrei portati io in galera a calci nel culo. Allora perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c’è stato niente perché chi viene stuprato e fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano". Tanti - ai tempi - hanno fatto notare come una donna abbia tutto il diritto di denunciare, all'interno dei tempi consentiti sotto il profilo giuridico, quando si sente pronta, considerando pure la necessità di elaborazione psicologica che una persona che ha subito violenza - o che nel caso di Ciro Grillo potrebbe aver subito una violenza - può avere. Il garantismo prevede che sino al terzo grado di giudizio tutti debbano essere considerati innocenti. Un principio che vale anche per Ciro Grillo e che dovrebbe essere rammentato soprattutto a chi ha fatto del giustizialismo una bandiera da sventolare in funzione di qualche consenso. Tra le realtà che si sono contraddistinte per non avere troppi scrupoli nel condannare esponenti poltici sul piano pubblico ancora prima della sentenza di terzo grado, c'è di sicuro il MoVimento 5 Stelle. Oggi Giuseppe Conte dice di aver operato una svolta tanto linguistica quanto contenutistica, ma la sostanza politica di certe posizioni, comprese quelle sulla Giustizia, come dimostrato dalle barricate sulla riforma che avrebbe voluto Alfonso Bonafede, è sempre lo stesso. Beppe Grillo, per il suo video, ha usato le medesime intensità delle convinzioni giustizialiste grilline. Del resto il capostipite è lui. Una similitudine che, quando si parla di una difesa di tipo familiare, può persino apparire paradossale. Ma lo stile urlato, pensandoci bene, è sempre lo stesso.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Il manettaro garantista. Giuseppe De Lorenzo il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Quindi, oggi... Il giustizialista Grillo difende il figlio. - Il video di Beppe Grillo che difende il figlio accusato di stupro va visto, non accontentatevi dei virgolettati sui giornali. Per la prima volta parla l’uomo e non il comico: è emozionato, infuriato, ferito. E avrebbe pure alcune ragioni sul processo “mediatico” se non fosse che lui è il leader dei Cinque Stelle: chi di giustizialismo colpisce, di giustizialismo perisce. Se s’è pentito, chieda scusa ai tanti “figli di..” cui la politica manettara dei grillini ha rovinato la vita.

 (ANSA il 19 aprile 2021) - "Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi...io voglio chiedere veramente perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni, ce li avrei portati io in galera a calci nel culo. Allora perché non li avete arrestati? Perché vi sete resi conto che non è vero niente, non c'è stato niente perché chi viene sturpato e fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano. Se non avete arrestato mio figlio arrestate me perché ci vado io in galera". Così Beppe Grillo si sfoga in un video su fb.

(ANSA il 29 aprile 2021) Agcom ha adottato una delibera di richiamo nei confronti de La7 per il programma Non è l'Arena in merito al caso Alberto Genovese. L'Autorità chiede "il rigoroso rispetto dei principi sanciti nel Testo unico e nei provvedimenti dell'Autorità a tutela di una informazione imparziale e di una corretta modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari e dell'immagine della donna". Agcom ritiene che "sotto il profilo della continenza, la trattazione del medesimo argomento in ben 12 puntate del programma con spazi di durata compresa tra i 50 e gli 80 minuti, denuncia un'attenzione sproporzionata al fatto di attualità".

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” l'8 settembre 2021. Per ricostruire la vicenda, occorre partire dall'inizio dell'iter processuale, ovvero dal momento della denuncia, quando sia i carabinieri della stazione Milano Porta Garibaldi che il centro di soccorso violenza sessuale e domestica della clinica meneghina Mangiagalli hanno ritenuto di inoltrare alla Procura competente (quella di Tempio Pausania) i fatti denunciati dalla ragazza. Il 26 luglio 2019 la responsabile del centro, Alessandra Kustermann, la ginecologa, il medico legale e la psicologa inviano ai pm, «ravvisando gli estremi di un delitto procedibile d'ufficio», una denuncia di reato con annessa scheda clinica e documentazione fotografica. Se l'esame ginecologico, effettuato a otto giorni dai fatti, non offre spunti di particolare rilievo, i medici si soffermano sui lividi riscontrati sul corpo della ragazza, in particolare su braccio e avambraccio destro, e su entrambe le gambe. Segni che, in quel momento, paiono coerenti con il racconto della giovane, la quale sostiene di essere stata «obbligata ad avere rapporti vaginali a rotazione con tutti e quattro i ragazzi, che si disponevano uno a consumare il rapporto e altri a tenerla ferma impedendole ogni forma di resistenza». Una versione ribadita dagli esperti della Mangiagalli nel capitoletto intitolato «Esame obiettivo generale» in cui si legge: «I ragazzi la tenevano immobilizzata per gambe e braccia impedendole di muoversi». Queste aree di «soffusione verdastra del tegumento» sono dovute davvero alla notte di sesso con Ciro e compagni? Prima di rispondere non si può non tenere presente che nel luglio 2019 la presunta vittima praticava kitesurf, uno sport che può lasciare segni a causa dell'attrito violento con la tavola e le onde. Per l'avvocato della ragazza, Giulia Bongiorno, la causa dei segni è certamente da ricondurre agli abusi. A suo giudizio, ai danni psicologici patiti dall'assistita occorre aggiungere che «la persona offesa ha riportato diversi ematomi [] come risulta dalle riproduzioni fotografiche allegate alla cartella clinica del 25 luglio 2019». Il consulente delle difese Marco Salvi sta da tempo confrontando le immagini dei lividi con centinaia di foto e video trovati nel cellulare di S. e risalenti ai giorni successivi al presunto stupro (scatti e filmati in cui la giovane è ritratta in costume da spiaggia). E la sua consulenza sarà depositata entro ottobre. Un'amica di S., A.M., sentita a verbale, ha parlato di quei segni: «Ricordo di alcune foto di lei davanti a uno specchio in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia o all'altezza del bacino». Cioè in parti diverse da quelle documentate dalla Mangiagalli. E dove sono finiti gli scatti inviati ad A.M.? «Io non li ho salvati perché avevo timore di metterla in imbarazzo, poiché stava perdendo molto peso in maniera preoccupante e non era seguita da alcun specialista» ha concluso la testimone. In un audio scambiato subito dopo i fatti con l'amica norvegese Mia, è la stessa S. a fare riferimento ai lividi e al proprio rapporto con il cibo. Ecco come la stessa difesa della ragazza ha tradotto la conversazione: «Mi sento molto insicura. Lo ammetto. Ma tipo, come posso dire, quando non mangio, per esempio, vomito, rimetto, mi lascio morire di fame, arrivo quasi a distruggermi, giuro su Dio tipo tutti questi lividi, non è che mi prenda cura di me perché la metà di quello che ho sulle braccia, non la avrei se, per esempio, mi prendessi cura di me []». Sul punto R.M., compagna di vacanze di S. e a sua volta vittima di abusi (i ragazzi si sono fatti fotografare vicino a lei dormiente con i membri in bella vista), ha dichiarato ai carabinieri: «Quando sono andata a svegliare S. non ho notato nessun segno particolare sul suo corpo, sebbene abbia visto che era nuda non mi sono soffermata a guardarla». Dunque nella guerra di perizie entreranno anche queste voci che paiono dare ai lividi un significato più ampio rispetto all'effetto di una costrizione. La ricostruzione di S. non sembrerebbe confermata dal video di 25 secondi depositato agli atti e in cui Ciro Grillo riprende con uno smartphone una piccola parte dell'amplesso di gruppo []. Tra le carte depositate si trova anche l'esito del colloquio psicologico avvenuto il 26 luglio 2019: «La ragazza racconta quanto accadutole, spiega che nei giorni successivi non riusciva a dormire e di notte piangeva. Racconta inoltre che faceva fatica a mangiare e aveva flashback delle immagini della violenza e riviveva le sensazioni di quella notte, risentendo un senso di soffocamento e dolore in sede vaginale». Nel recente atto di costituzione di parte civile, depositato dall'avvocato Bongiorno e destinato alla richiesta di risarcimento del danno, si fa riferimento a una «profonda sofferenza morale tuttora perdurante»: «L'evento ha provocato persistenti riverberazioni sull'esistenza della persona offesa, incidendo in maniera permanente sulle abitudini di vita di S., sui suoi rapporti con i propri familiari e amici e, più in generale, sulle sue attività dinamico-relazionali». Non basta: «L'integrità psicofisica di S.J. è risultata irrimediabilmente alterata. L'esperienza dolorosa, infatti, ha provocato nella persona offesa l'insorgenza di un disturbo post-traumatico da stress, come certificato dalla relazione medico-psichiatrica del 10 maggio 2021 []». C'è, infine, una stoccata contro il fondatore del Movimento 5 stelle: «Il morboso clamore mediatico suscitato dalla vicenda, esploso in conseguenza delle dichiarazioni a mezzo social rese dal padre dell'imputato Ciro Grillo - rimasto sopito sino a quel momento e confinato a cronache locali - ha esposto S.J. a un processo di vittimizzazione secondaria, portandola a rivivere il trauma patito e riacutizzando la relativa sintomatologia». Da qui la richiesta di risarcimento.

Dibattimento mediatico e giuria del popolo: processo all’italiana sul caso Grillo jr. Il processo vero non è ancora iniziato ma la macchina mediatico-giudiziaria è quasi arrivata a sentenza. Tutto sulla pelle di un ragazzo e una ragazza. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 aprile 2021. Il processo non è mai iniziato, il dibattimento sì. Sui media. Difesa e accusa di Ciro Grillo e della sua presunta vittima scelgono di anticipare il confronto fuori dall’aula di Tribunale, producendo fantomatiche prove, ascoltando improvvisi testimoni e lanciandosi in arringhe via social. Inizia Beppe Grillo, padre del maggiore indiziato, convinto che il figlio non abbia «fatto niente», riconoscendo al massimo la colpevolezza per il reato di “coglionaggine”, nuova fattispecie creata appositamente dal garante M5S per quattro «ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello». La vittima? Nessuna vittima per “l’avvocato” Grillo, la ragazza era certamente consenziente «perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia. È strano». Cala il gelo in “aula” per qualche istante. Poi sono la mamma e il papà della ragazza a rispondere al comico, definendo la sua arringa «una farsa ripugnante». «Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste», aggiungono. Processo finito? No. Perché c’è ancora un genitore che non ha parlato. E Parvin Tadjik, moglie di Grillo, presente nella villa dove sarebbe stato consumato l’abuso, vuole aggiungere qualcosa, per replicare a Maria Elena Boschi (tra i tanti membri di un’immaginaria giuria popolare): «C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare», rincara la donna. E tra un commentatore e l’altro interviene un altro avvocato, questa volta vero, della ragazza: «Porterò il video di Beppe Grillo in Procura perché reputo che sia una prova a carico, documenta una mentalità», dice Giulia Bongiorno. Prova a carico di chi non è chiaro, visto che sotto indagine c’è Ciro e non Beppe. Del resto, sono tanti gli elementi poco chiari in questa vicenda in cui vittime e carnefici si confondono nelle urla del processo in piazza.

Il giornalismo spietato contro Grillo e Boda. Il figlio del comico subisce un processo a mezzo stampa. Come lo ha subito la dirigente del ministero dell'istruzione indagata per corruzione. E' ora che procure e giornalismo separino le carriere. Davide Varì su Il Dubbio il 20 aprile 2021. Il messaggio è duro. Ed è rabbioso. A tratti appare come la rabbia dolente di un padre che da anni assiste al processo (per ora tutto mediatico) al proprio figlio accusato di stupro. Uno stillicidio quotidiano con titoli sparati e foto impietose. «Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri tre ragazzi. Se fossero veri stupratori seriali li avrei portati io in galera a calci nel culo», ha infatti urlato nel suo breve video: un minuto, o poco più, di urla. Un flusso ininterrotto di accuse. È un dolore vero, quello del comico. Forse sguaiato e con tratti di insopportabile di misoginia. E’ un dolore che non ha tenuto conto di chi ha denunciato quella violenza. Ma tutto questo sarà esaminato in un’aula di tribunale, non siamo qui a emettere sentenze. Anzi, è esattamente quello da cui dobbiamo tenerci alla larga. Qualcuno in queste ore ricorda a Grillo che lui e suo figlio stanno subendo lo stesso trattamento che i suoi militanti hanno riservato a decine, centinaia di persone indagate e processate a mezzo stampa. Potremmo ricordarglielo anche noi del Dubbio, ma sbaglieremmo perché ora Grillo è dall’altra parte della sbarra, dalla parte dell’imputato. La vicenda del figlio di Grillo arriva pochi giorni dopo il tentato suicidio di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell’Istruzione indagata per corruzione che si è gettata dallo studio del suo avvocato dopo aver visto altri titoloni e altre foto impietose di un’indagine ancora in corso. Sono storie dolorosissime che ricordano a tutti noi quanto sia indispensabile e urgente che i giornalisti si tengano ben lontani dai magistrati. E viceversa. E forse, come qualcuno ha già detto, è questa la vera e più urgente separazione delle carriere che va realizzata.

Lo sfogo social del fondatore del M5S. Beppe Grillo scopre il garantismo per il figlio Ciro indagato per stupro: “E’ un coglione ma non c’è stato niente”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Aprile 2021.  Ciro Grillo e i suoi tre amici “sono quattro coglioni, non quattro stupratori”. Così Beppe Grillo interviene per la prima volta con un video su Facebook sulla vicenda giudiziaria che riguarda il figlio 19enne Ciro, accusato di stupro da una ragazza italo-svedese e sotto inchiesta assieme a tre amici, che nei prossimi giorni potrebbero essere rinviati a giudizio dalla Procura di Tempio Pausania. Grillo quindi, per difendere il figlio accusato di un reato gravissimo, scopre improvvisamente il garantismo, soltanto dopo aver fondato il partito più manettaro della storia italiana. Nel video, poco meno di due minuti in cui il fondatore del Movimento 5 Stelle usa toni durissimi per commentare la vicenda, attacca magistrati e stampa. “Mio figlio – spiega Grillo – è su tutti i giornali come uno stupratore seriale insieme ad altri tre ragazzi. Io voglio chiedere, voglio una spiegazione perché un gruppo di ‘stupratori seriali’, compreso mio figlio dentro, non sono stati arrestati. La legge dice che gli stupratori vengono arrestati e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari”. Invece, aggiunge Grillo, “sono lasciati liberi per due anni, perché? – si chiede -. Perché non li avete arrestati subito? Ce li avrei portai io in galera, a calci nel culo“. Poi il garante del Movimento 5 Stelle tenta di smontare personalmente le accuse della 19enne che ha denunciato il figlio e i suoi tre amici per il presunto stupro avvenuto nella villa del comico genovese a Porto Cervo, nell’estate del 2019. “Vi siete resi conto che non è vero niente che c’è stato lo stupro. Perché una persona stuprata la mattina, al pomeriggio fa kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia vi è sembrato strano. Bene, è strano – è la teoria di Grillo – E poi non è l’avvocato a parlare o io, che sono il padre, a difendere mio figlio: c’è il video. C’è tutto il video, passaggio per passaggio, si vede che è consenziente, si vede che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono 4 coglioni, non 4 stupratori e io sono stufo perché sono due anni“, aggiunge Grillo, visibilmente adirato. Nell’ultima parte, come un fiume in piena, Grillo aggiunge: “Se dovete arrestare mio figlio, che non ha fatto niente, allora arrestate anche me, perché ci vado io in galera“.

LA VICENDA – Nei giorni scorsi Ciro Grillo e i tre amici indagati sono stati ascoltati dai magistrati della Procura di Tempio Pausania. Secondo quanto trapelato, tutti hanno ribadito la loro innocenza e la tesi di un rapporto consensuale con la 19enne. Di parere opposto gli inquirenti, che indagano per stupro di gruppo: la vittima del ‘branco’ sarebbe stata “afferrata per i capelli per bere mezzo litro di vodka e costretta ad avere rapporti di gruppo”, si legge negli atti.

In un verbale dei magistrati si legge in particolare che “verso le sei del mattino mentre R. M. (amica della vittima, ndr) dormiva”, la 19enne italo-svedese è “stata costretta” ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, con uno dei ragazzi, mentre “gli altri tre indagati hanno assistito senza partecipare”. La ragazza avrebbe quindi perso conoscenza “fino 15 quando è tornata a Palau”, scrivono i pm. I quattro indagati secondo i magistrati l’avrebbero costretta ad avere “cinque o sei rapporti” sessuali.

Entro la settimana i magistrati sardi potrebbero chiedere al gip, il giudice per le indagini preliminari, il rinvio a giudizio, con gli avvocati difensori che sperano nell’archiviazione del caso.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

Ecco perché Beppe Grillo rompe il silenzio sul figlio Ciro. La procura di Tempio Pausania verso il rinvio a giudizio del ventenne (e tre amici) per «stupro di gruppo», il leader grillino lo difende: «Perché non l’avete arrestato subito?». Non ha detto una parola per 21 mesi, neanche quando l’Espresso dedicò al caso una copertina. Susanna Turco su L'Espresso il 19 aprile 2021. Per la prima volta dopo ventuno mesi, con un video su Facebook, Beppe Grillo parla del caso che vede suo figlio Ciro, oggi ventenne, accusato con tre amici (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) di aver stuprato una studentessa, nel luglio 2019, nella casa di famiglia a Porto Cervo.  «Perché non li avete arrestati subito?», incalza Grillo che prende le difese del figlio (argomentando presunti rapporti consensuali, la linea della difesa) e utilizza per paradosso proprio l’argomento della tempistica delle indagini (lunghissime), come paletto per puntellarne l’innocenza: «La legge dice che gli stupratori vengono presi e messi in galera, interrogati in galera o ai domiciliari. Sono lasciati liberi per due anni... Perché non li avete arrestati subito?». Una ricostruzione con passaggi che provocano l'indignazione generale, nella quale si cerca addirittura di mettere in discussione la tempistica della denuncia da parte della studentessa (otto giorni), come se l’autenticità dipendesse dalla rapidità. Si cerca di «trascinare la vittima sul banco degli imputati», chiariscono puntualmente gli stessi genitori della ragazza, che descrivono quella di Grillo come «una farsa ripugnante». Adesso che, secondo le indiscrezioni, si va verso il rinvio a giudizio da parte della procura di Tempio Pausania, il garante dei Cinque stelle rompe così un silenzio assoluto (anche di media e politica) durato quasi due anni: non disse una parola neanche quando l'Espresso, unico nella stampa italiana, dedicò al caso una copertina. Un silenzio che è pesato come un macigno sulla carriera di leader politico di Grillo, e che ha accompagnato tutte le sue svolte, il cambio di pelle di quello che fu il leader del Vaffa: la fine del governo con Matteo Salvini, l'apertura improvvisa a un accordo con il Pd per un nuovo esecutivo – agosto 2019, proprio nei giorni in cui la procura cominciava le indagini. Fino all'urlo di oggi, che vede il Garante tra i soci di maggioranza del governo guidato da Mario Draghi. Mentre la sua creatura politica, il Movimento 5 Stelle, arranca come mai era accaduto nella sua ormai decennale storia.

Alberto Pinna per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. È tutto nelle foto e nei video estratti dai telefoni cellulari. Immagini esplicite, se non crude quanto le parole della studentessa italosvedese che ha denunciato di essere stata ubriacata e violentata dal gruppo dei ragazzi genovesi - Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria - in vacanza sulla Costa Smeralda. Loro insistono: «Era consenziente». Negli interrogatori dei giorni scorsi, allegati con protocollo riservato, la versione degli indagati: una festicciola spinta, la vodka a fiumi, sesso ma mai violenze, gli scambi di messaggi «amichevoli» con S.J. nei giorni successivi, qualche «non ricordo» e contestazioni della procura sulle contrastanti evidenze di foto e video. Difficile che i magistrati gli credano; sembrano anzi orientati per la richiesta di rinvio a giudizio, come traspare dalle notazioni che sottolineano la rilevanza dei riscontri. Ancora da chiarire la violenza sulla seconda ragazza. Sesso di gruppo anche con lei? In un' immagine la si vede profondamente addormentata sul divano, mentre uno dei quattro ragazzi la umilia. Nella fase iniziale delle indagini R.M. ha affermato di essere piombata in sonno profondo, troppo l' alcol bevuto, e di avere pochi e confusi ricordi di quella notte. Ma è stata poi risentita, le sono state mostrate le immagini e avrebbe detto qualcosa di più. Altre immagini e video fra la doccia e la camera da letto. S.J. ha raccontato di aver cercato di svincolarsi dalla stretta di uno dei ragazzi, per raggiungere il soggiorno. Barcollava ma non era ancora in stato di semincoscienza etilico; è stata circondata dagli altri tre, che l' hanno bloccata, strattonata e spinta verso la stanza, sul matrimoniale. I controlli sui telefoni sono concentrati negli ultimi mesi del 2019, su utenze utilizzate da Ciro Grillo e dai suoi amici dopo che, a indagini già in corso, i loro cellulari erano stati sequestrati. Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo, risulterebbe essere stata intercettata anche dopo aver testimoniato. Dormiva nell' appartamento accanto. Evidentemente il suo «Non ho sentito nulla» non ha convinto i magistrati.

Ilario Lombardo per "la Stampa" il 20 aprile 2021. Il padre, Beppe Grillo, si gonfia furibondo di dolore urlando in un video l'innocenza presunta del figlio e il figlio, Ciro, l'accusato, riappare su Instagram e si autoassolve rilanciando il video del padre e l' hashtag #freeciruz. In queste settimane è andata in onda una serie, "Your honor", che racconta il dramma di un giudice diviso tra l'imperativo morale della coscienza su cui ha costruito la sua professione e il tentativo di nascondere la colpa del figlio, reo di aver lasciato morire un ragazzo investito dalla sua auto. Una tragedia che si infila tra il ruolo naturale di padre e quello sociale di giudice e che viene in mente guardando il video di Grillo in difesa del figlio accusato dalla procura di Tempio Pausania di aver stuprato con tre amici una ragazza italo svedese nel luglio 2019, nella villa del comico genovese in Costa Smeralda. Non è un video dai soliti toni grotteschi e ferocemente abrasivi: Grillo si denuda dal ruolo di comico per trasformarsi in genitore disperato, travolto dalla macchina della giustizia, dalla fame dei media, dalla danza del sensazionalismo che si alimenta tanto più quanto il protagonista al centro del vortice è famoso, è un figlio di. «Se dovete arrestare mio figlio perché non ha fatto niente, allora dovete arrestare anche me, perché ci vado io in galera». Il dolore del padre è totalizzante, investe la telecamera nella gestualità che assorbe e trascende la teatralità naturale del mestiere: nella sua casa, con il suo smartphone Grillo è solo un papà incredulo che fa quello che fanno tanti altri papà che non vogliono credere a quello che sta succedendo.

Se la prendono con quella che percepiscono come gogna mediatica e giudiziaria, senza pensare alle conseguenze di uno sfogo che investe la presunta vittima, sospettata di essere una bugiarda per non aver denunciato subito. «Mio figlio è descritto come uno stupratore seriale. Voglio una spiegazione - chiede Grillo - Perché non li avete arrestati?». Perché alla fine sotto quel dolore c' è un attacco alla magistratura. Non è importante se motivato o meno. È un attacco diretto, duro, violento di un leader politico alla magistratura. Come Silvio Berlusconi, come Matteo Salvini, come chiunque a propria difesa usa la prerogativa della notorietà e della rilevanza politica. Solo che stavolta colpisce ancora di più perché viene da chi ha fondato un partito schieratosi incondizionatamente, sin dalla nascita, con la magistratura, quando indagini e processi coinvolgevano i propri avversari politici. Puntuali glielo ricordano da destra Forza Italia e la Lega: «Garantismo a giorni alterni - dice Salvini -, se sei davvero garantista non applaudi se io vado a processo. E poi spero che la linea difensiva del figlio non sia che la ragazza ha denunciato troppo tardi». Sì perché è Grillo stesso a rispondere così alla domanda sul perché non siano mai stati arrestati, nonostante le pesanti accuse: «Perché vi siete resi conto - dice rivolto ai magistrati - che non è vero niente. Che una persona che viene stuprata al mattino, che va a fare kitesurf al pomeriggio, e dopo otto giorni fa la denuncia vi è sembrato strano. E lo è infatti». Una tesi che provoca reazioni inorridite nel Pd e in Italia Viva, e gettano nell' imbarazzo il M5S. «Un video scandaloso - attacca la capogruppo di Iv Maria Elena Boschi - ti devi vergognare per parole di maschilismo che fanno torto a tutte le donne vittime di violenza che spesso impiegano settimane per denunciare». E Barbara Seracchiani, dal Pd, lapidaria: «Non c' è amarezza di padre che tenga» e getti la colpa su «una ragazza che ha denunciato lo stupro». Per Grillo il teorema dell' accusa è fondato sul nulla, si sbriciola di fronte a un video dove, rivela, «si vede passaggio per passaggio che» il sesso di gruppo con la ragazza sarebbe stato «consenziente» e non c' è stata violenza per ben sei rapporti sessuali come sostiene l' accusa. Nel video «si vede un gruppo che ride, si vede che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello perché sono 4 coglioni non 4 stupratori». Le ultime 72 ore sono state dure. L'interrogatorio di Ciro e i dettagli dell' accusa sulla ragazza che sarebbe stata tenuta per i capelli e costretta a bere vodka diventano insostenibili per Grillo. La decisione di fare il video è presa d' istinto. Il figlio lo segue. Riapre il profilo Instagram "Ciruzzolohill" che aveva abbandonato da due anni per rilanciare il video del papà. «Condividete ovunque» scrive e lascia l' hashtag #freeciruz. Ciruzzo libero.

Federico Capurso per "la Stampa" il 20 aprile 2021. Qualcuna, nel video di Beppe Grillo, vede solo il dolore di un padre. Qualcun' altra si nasconde dietro un «no comment». Ma la maggior parte delle donne del Movimento fa un passo in più e prende le distanze dalle parole del fondatore. Parole con cui Grillo, sui social, difende il figlio Ciro e i suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo, e scredita la ragazza che li accusa, definendo «strano» il fatto che abbia denunciato dopo otto giorni, «strano» che il giorno seguente abbia fatto kytesurf. Batte i pugni sul tavolo, urla «è innocente», prima che a deciderlo sia un giudice. Il video rimbalza nelle chat, tra le parlamentari, sgomente. La vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni è tra le prime a intervenire: «Credo fermamente che ogni donna debba poter denunciare in qualsiasi momento, quando se la sente, perché ci vuole tempo per elaborare». Spadoni si è sempre battuta per la legge "Codice rosso", contro la violenza di genere, ed è sua la proposta di legge che ha allungato i termini in cui una donna può presentare querela, da sei mesi ad un anno. «Le leggi che abbiamo per la protezione delle donne sono leggi giuste - insiste infatti Spadoni -. Le domande che Grillo fa, deve rivolgerle alle autorità competenti. Umanamente mi dispiace per Beppe, non commento la vicenda familiare». Quando senatrici e deputate vengono contattate telefonicamente da La Stampa è evidente l' imbarazzo, talvolta la rabbia, per l' intervento del comico. «Non lo nascondo, siamo in grande difficoltà come donne del Movimento», ammette la senatrice Alessandra Maiorino. «Non era assolutamente il caso di pubblicarlo quel video, per tutti, anche per il figlio - aggiunge -. Il tempo che passa dalla violenza subita al momento in cui si denuncia è irrilevante. Chiunque si occupi di violenza sessuale sa che è una cosa difficile da denunciare». Non tutte, però, si mostrano altrettanto pronte a mettere un argine alle parole di Grillo. C' è chi si rifiuta di rispondere, come la senatrice Laura Bottici, e chi preferisce che «a commentare siano le colleghe», come l' ex viceministra agli Esteri Emanuela Del Re. Gira al largo anche la vicepresidente del Senato Paola Taverna, che pure si era spesa per l' approvazione del Codice rosso: «Auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli», scrive su Facebook, aggiungendo poi di sentirsi vicina a Grillo, «da mamma, per ciò che prova a livello umano». Si immedesima anche nei genitori della ragazza, invece, Lucia Azzolina: «In questa vicenda soffrono tutte le famiglie coinvolte - dice l' ex ministra - e la violenza sessuale è un tema drammaticamente serio. Come serie sono le leggi che tutelano i diritti delle donne». Tanto è serio che la deputata Federica Daga fa fatica a rispondere, «perché sono una di quelle donne che ha sporto denuncia: mi hanno messo le mani addosso e sono stata vittima di stalking». Il tono della voce è agitato, anche «a cinque anni di distanza da quello che ho subito, quando ne parlo riemerge tutto», si spiega. Non vuole criticare Grillo, «ma io - puntualizza - ho querelato dopo quasi sei mesi dall' ultima volta in cui questa persona mi aveva messo le mani addosso e a quei tempi, senza il Codice rosso, ho potuto denunciarla solo per stalking». Nella stortura delle parole di Grillo, per molte di loro, il lato umano ha comunque un peso rilevante. Quando ha guardato il video la senatrice Giulia Lupo ha visto «una persona disperata e quando si è disperati si ha poca lucidità. Per i valori che ci ha sempre insegnato, però, non credo volesse sminuire la questione delle violenze di genere». È stato «poco razionale» anche per la deputata Conny Giordano: «Probabilmente si poteva evitare, ma il dolore deve essere enorme». Di certo, un Grillo così non lo avevano mai visto le donne del Movimento. E non avrebbero nemmeno voluto vederlo. Peccato che i loro colleghi uomini, invece, non siano riusciti a far altro che esprimergli «solidarietà». Senza fare mezzo passo in più.

Nicola Porro sul video di Beppe Grillo: "Il dettaglio complottista che vi è sfuggito, a chi era rivolto". Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. "C’è un dettaglio del video di Beppe Grillo che nessuno ha notato. Non era facile, in fondo, distinguere razionalità e follia, l’esplicito e il sottinteso, in una piazzata social politicamente ma anche giudiziariamente suicida. Mi riferisco, in particolare, al passaggio in cui l’Elevato sbraita: "Arrestate anche me!".". Così scrive sul suo blog Nicola Porro, a proposito del video di Beppe Grillo in difesa del figlio sotto accusa per stupro. "È come se il garante M5s evocasse un complotto: colpite mio figlio, ma il vero bersaglio sono io. Ma a quale mandate si riferisce? La sua figura, in fondo, è ingombrante per i tanti che aspirerebbero alla scalata interna. Giuseppe Conte, ad esempio. Ma anche Luigi Di Maio, che coltiva ambizioni alternative a quelle dell’avvocato del popolo. E poi c’è la faida tra i parlamentari e Davide Casaleggio, sulla quale Grillo ha stentato a prendere una posizione, provando a salvare capra e cavoli. Oppure Beppe pensa a spintarelle esterne?", spiega Porro intravedendo dietro il messaggio video dell'ex comico un messaggio anche a quelli che fomentano le lotte interne nel Movimento. "L’unica certezza, è il doppiopesismo: quando le inchieste piovono sui nemici, la sentenza è già scritta. “Vaffanculo”, no? Quando, invece, la scure giudiziaria si abbatte su di lui, il fondatore del Movimento cambia registro. Bisogna essere garantisti, anzi, è in atto una non meglio precisata trama per spodestarlo", precisa ancora Porro evidenziando così l'ipocrisia di Grillo. L'ex comico aveva difeso il figlio dicendo che, "non c'è stato alcuno stupro". Il figlio Ciro è accusato di violenza sessuale insieme ad altri suoi tre amici genovesi nei confronti di una ragazza italo-svedese conosciuta in Sardegna a Porto Cervo nell'estate del 2019. Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha preso posizione pubblicando un video sui social e appellandosi al fatto che il figlio e gli amici non sono stati arrestati nell'immediato. "Perché non lo avete fatto?", si chiede per poi rispondersi: "Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c'è stato alcuno stupro. Una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia... Vi è sembrato strano. Bene, è strano". 

Tutto quello che non torna nell'arringa di papà Grillo. Domenico Ferrara il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. L'arringa di Grillo contiene motivazioni fragili. Alcune persino poco fondate. Lo sfogo è di quelli dirompenti. Un padre che difende il figlio. Dai media, dalle malelingue, dalla magistratura, forse anche da se stesso. Comprensibile. Ma quando l'arringa è pronunciata da un personaggio noto come Beppe Grillo la prospettiva cambia. Soprattutto se le motivazioni addotte sono quanto meno fragili. Alcune persino poco fondate. E soprattutto se ad assurgere a paladino del garantismo è uno dei principali esponenti del giustizialismo. Di seguito riportiamo alcune di queste motivazioni. "Mio figlio è su tutti i giornali come uno stupratore seriale...": i giornali hanno raccontato i vari passi dell'inchiesta, con titolazioni più o meno forti ma sicuramente non definitive, che riguarda il figlio di un personaggio politico nonché co-fondatore del Movimento 5 Stelle. Di cosa si stupisce Grillo? "Perché non è stato arrestato?": perché il codice di procedura penale prevede l'arresto per il reato di violenza sessuale solo in caso di flagranza di reato e l'applicazione di una misura cautelare (custodia in carcere o arresti domiciliari) quando sussistono gravi indizi di colpevolezza o il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. "La legge dice che gli stupratori vengono presi e interrogati in galera o ai domiciliari": non c'è traccia nel codice di procedura penale di una affermazione del genere. Per i presunti stupratori, invece, vale lo stesso principio secondo cui un indagato può restare a piedi libero se non sussistono gravi indizi di colpevolezza e se non c'è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. Repetita iuvant. "Liberi per 2 anni, perché?": anche qui, vedasi il punto precedente. Si rammenta inoltre che la querela è stata presentata a luglio 2019 e le indagini sono state chiuse a novembre 2020, nel rispetto dei 18 mesi previsti dalla legge. "Non è vero che c'è stato lo stupro": purtroppo la certezza di un padre vale meno della certezza giuridica. "Perché una persona che è stata stuprata la mattina non va a fare kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia": perché si ipotizza che una donna violentata reagisca in modo poco prevedibile visto il trauma che subisce e si suppone dunque che i tempi di elaborazione dello stesso trauma possano sottostare a variabili indefinite. E comunque i giorni intercorsi tra il presunto stupro e la denuncia della vittima sono quattro e non otto. "C'è un video in cui si vede la consenzietà che il gruppo ride...": se il video - che tra l'altro è agli atti - dimostra quello che dice Grillo, sicuramente la giustizia farà il suo corso e aiuterà gli inquirenti a optare per la giusta decisione. "Se dovete arrestare mio figlio perché non ha fatto niente, allora arrestate anche me": è comprensibile che l'amore di un padre vada oltre ogni cosa ma ci auguriamo che non sia un innocente ad andare in galera, piuttosto che vengano accertati eventuali colpevoli o innocenti.

La 5Stelle Daga: “Parole gravi quelle di Grillo. Io ho denunciato 6 mesi dopo E avevo subito ogni tipo di violenza”. Maria Novella De Luca su La Repubblica il 19 aprile 2021. "Mi vergognavo, mi sentivo sconfitta per essere entrata in relazione con un uomo così. Avevo bisogno di tempo". "Grillo ha fatto un discorso grave che mi ha fatto rivivere tutto il mio dramma. Un discorso da uomo arrabbiato. Ma come si fa a dire che una violenza non è violenza se viene denunciata otto giorni dopo? Io sono stata massacrata di botte e perseguitata da un uomo che sono riuscita a denunciare soltanto a sei mesi dalla fine di quell’incubo". Parla con una forte emozione Federica Daga, 45 anni, deputata M5S, esperta di questioni ambientali...

Grillo e la difesa del figlio, chat 5S bollenti: così ci massacrano, Letta: “Quelle frasi inaccettabili”. Annalisa Cuzzocrea su La Repubblica il 19 aprile 2021. Pentastellati solidali, ma dietro le quinte cresce la preoccupazione. Da Conte silenzio imbarazzato. Bisogna andare al di là delle vaghe parole di solidarietà pronunciate "da padre" da Alessandro Di Battista. Bisogna guardare oltre la frase quasi di rito del reggente Vito Crimi: solidarietà umana a Beppe Grillo, ma fiducia nella magistratura. Bisogna ascoltare quel che i 5 stelle dicono nelle loro conversazioni private, leggere i messaggi preoccupati che girano sulle chat, per capire quanto il video in cui un padre visibilmente disperato urla l’in...

La grillina asfalta Grillo: "Io ci ho messo 6 mesi per denunciare la violenza". Federico Garau il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Le parole del comico genovese hanno scosso la parlamentare grillina: "Quasi non riesco a commentare ciò che ha detto". Continuano a far discutere le parole di Beppe Grillo, apparso in un video postato sui social per prendere le difese del figlio Ciro, accusato di stupro di gruppo insieme a 3 suoi amici in seguito a quanto accaduto in Costa Smeralda nell'estate del 2019. Tanti i commenti da parte di vari rappresentanti della politica, che hanno attaccato le dichiarazioni del padre putativo del Movimento 5Stelle. Nel gruppo anche la grillina Federica Daga, la quale ha voluto prendere le distanze dal comico genovese: "Non riesco a commentare ciò che ha detto".

La furia di Grillo. Grillo sbotta per il figlio: "Stupro? Quattro co... arrestate me". Nel commentare il caso che vede il figlio indagato per il reato di stupro commesso ai danni di una ragazza italo-svedese, Beppe Grillo è apparso sin da subito piuttosto alterato. "Mio figlio è su tutti i giornali come uno stupratore seriale, insieme ad altri tre ragazzi. Io voglio chiedere perché un gruppo di stupratori seriali, compreso mio figlio, non sono stati arrestati. Perché non li avete arrestati? La legge dice che gli stupratori vengono presi, vengono messi in galera e poi vengono interrogati in galera o ai domiciliari. Sono lasciati liberi per due anni, perché?", si è domandato Grillo, prima di accendersi ulteriormente."Perché non li avete arrestati subito? Ce li avrei portati io in galera, a calci nel culo. Perché? Perché vi siete resi conto che non era vero niente che c'era stato un stupro. Perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio fa kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia, vi è sembrato strano. Bene, vi sembrato strano? È strano. E poi c'è il video! C'è tutto il video, passaggio per passaggio. Si vede che è consenziente, si vede che c'è il gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, in mutande e saltellano col pisello così perché sono 4 coglioni, non stupratori e io sono stufo, perché sono due anni! E se dovete arrestare mio figlio perché non ha fatto niente, allora arrestate anche me perché ci vado io in galera!".

Il commento di Daga. Le forti dichiarazioni di Grillo hanno suscitato reazioni non soltanto da parte dei rappresentanti di altri partiti. Ad essere colpita dalle parole del comico genovese anche Federica Daga, deputato del Movimento 5Stelle. Raggiunta dai microfoni di AdnKronos, la parlamentare grillina ha dichiarato di sentirsi umanamente vicina a Beppe Grillo perché il suo è "il dolore di un padre". Le pesanti affermazioni del padre putativo del Movimento l'hanno tuttavia profondamente turbata: "Quasi non riesco a commentare ciò che ha detto". Daga, infatti, ha confessato di essere stata a suo tempo vittima di violenze. "Ho avuto una relazione con una persona violenta per un breve periodo e per elaborare quanto era successo ci ho messo sei mesi, poi ho denunciato", ha rivelato la pentastellata. "Io ringrazio che ci sia il codice rosso, che consente alle donne di denunciare anche dopo sei mesi dal fatto, mentre io ho avuto solo tre mesi e infatti non ho potuto denunciare tutto quello che mi era successo", ha aggiunto. "Mi dispiace per Beppe, la giustizia è lenta e io sono in causa da cinque anni. Non può essere così lunga una causa, non sai cosa ti può succedere nell'attesa", ha concluso.

Salvini e Meloni. Duro il giudizio dei leader di Lega e Fratelli d'Italia. "La donna è vittima e l'altro deve giustificare, anche se infilare la bottiglia di Vodka nella bocca di qualcuno, quattro contro uno non è il massimo della vita", ha commentato il segretario del Carroccio Matteo Salvini, il quale ha affermato di sperare nell'innocenza del figlio di Grillo. "Non mi permetto di commentare il padre da padre. Spero tuttavia che la linea difensiva di questo ragazzo non sia che la ragazza abbia denunciato troppo tardi". "Mi ha colpito anche il modo in cui Grillo ha minimizzato su un tema pesante, come quello di una presunta violenza sessuale", ha affermato invece Giorgia Meloni, ospite a Stasera Italia."La questione è molto complessa. A differenza di Grillo non faccio politica su questa roba qui".

Da repubblica.it il 20 aprile 2021. "C'è un video che testimonia l'innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare". Lo ha scritto Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, in un commento - ripreso dal sito Open - al post su Fb di Maria Elena Boschi dove la deputata di Italia Viva critica il video in cui Beppe Grillo difende il figlio Ciro e i suoi tre amici dall'accusa di stupro. Di fatto Parvin Tadjik ripete le parole del marito, che nella sua difesa di ieri menziona l'esistenza di un video sui cellulari dei ragazzi dai quali si evincerebbe che la ragazza sarebbe stata consenziente. Il fondatore del M5S ha contestato, inoltre gli otto giorni trascorsi tra la presunta violenza e la denuncia da parte della ragazza (ma il "codice rosso", la legge contro la violenza sulle donne approvato nel 2019 su spinta del M5S allunga fino a 12 mesi il tempo massimo entro cui una vittima poteva presentare denuncia per una violenza sessuale subita). Contro le parole di Grillo proseguono anche oggi i commenti indignati. Dopo Boschi intrviene anche il leader di Italia viva Matteo Renzi: "Beppe Grillo ha fatto un video scandaloso: il dolore di un padre non giustifica l'aggressione verbale a una ragazza che denuncia violenza", scrive su Facebook e aggiunge: "Invece che aspettare il processo, il pregiudicato che ha fondato il partito dell'onestà prova a salvare la sua famiglia dopo aver distrutto le famiglie degli altri. Quanta ipocrisia nella doppia morale di chi crea un clima d'odio e poi se ne lamenta". E conclude: "Le parole di Grillo - e il contestuale silenzio di Conte e Di Maio - dicono molto su cosa è diventato il Movimento Cinque Stelle. O forse è sempre stato così ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario". "Chieda scusa a tutte le donne italiane - interviene anche il leader della Lega Matteo Salvini - capisco lo sfogo di un padre ma mi permetto di dire che è disgustoso, vergognoso e imbarazzante invocare l'innocenza del figlio in base ai giorni attesi da una ragazza per denunciare uno stupro. Questo ci riporta al Medioevo".

Lo scontro con Maria Elena Boschi. Chi è la moglie di Beppe Grillo: Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo. Vito Califano su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Parvin Tadjik è la moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro Grillo. È intervenuta sul caso che riguarda quest’ultimo, il figlio accusato di violenza sessuale di gruppo, e soprattutto per il video con il quale il marito ha criticato i giornalisti e la Procura. Ha commentato un post della capogruppo di Italia Viva di Maria Elena Boschi, durissima nel condannare il video attraverso il quale ha difeso il figlio e reso il caso una questione politica. “Arrestate me”, ha detto il comico. Sempre lontana dai riflettori, Tadjik è intervenuta come non è solita fare. Parvin Tadjik ha 63 anni. Ha origini iraniane. È figlia di Nasratollah Tadjik, importatore di tappeti nato a Teheran, e di Luisa D’Ettore, dalla provincia di Ravenna. È cresciuta a Milano. Ha una sorella: Nadereh, che si è trasferita in Africa, in Kenya. Sempre lontana dalla cronaca politica e dal gossip, viene descritta come una donna ricercata e chic. Non è mai entrata nell’impegno politico del marito. Quando i 5 Stelle entrarono in Parlamento, con le elezioni del 2013 – quando avrebbero dovuto aprire le Camere “come una scatoletta di tonno” – volò sulle spiagge di Malindi mentre il marito era alle prese con il voto. Libero ha scritto che la donna si dissocia preventivamente da tutte le dichiarazioni del marito prima dei comizi, per evitare querele. E che allo stesso sia silenziosa consigliera. Vanity Fair ha scritto che “chi la frequenta sostiene che Parvin non si fa vedere da nessuno, compreso Beppe, prima di essersi accuratamente truccata. Piuttosto sta chiusa in bagno a chiave, se non è ancora al meglio. Invece Grillo le dice che non ha bisogno di parrucchiere, che sta bene senza trucco, con i fili bianchi tra i capelli”. Riservata, personalità forte, spiritosa. Appassionata di alta moda, assidua nella spesa biologica negli hard discount. Beppe Grillo aveva sposato nel suo primo matrimonio Sonia Toni. Due i figli avuti dalla coppia, Luna e Davide. Due figli anche con Parvin Tadjik, Rocco e Ciro. Si sono sposati il 21 dicembre del 1996. Testimoni di nozze il cantautore, amico di Grillo e genovese come il comico, Fabrizio De Andrè e sua moglie Dori Ghezzi. Non un’unione tranquilla, tuttavia. Per sposarsi i due seguirono un corso prematrimoniale privato, tenuto dal parroco don Glauco Salesi. Tra i pochi higlights della relazione le parole di Grillo: “Mia moglie è iraniana. Ho scoperto che la donna, in Iran, è al centro della famiglia. Le nostre paure nascono da cose che non conosciamo”. Nessuna traccia di lapidazioni delle adultere, i pestaggi delle milizie paramilitari Basij, l’obbligo del velo e via dicendo.

LO SCONTRO CON BOSCHI – “Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi – ha lamentato Grillo ieri in un video dai toni violenti – io voglio chiedere perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni, perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, una persona che viene stuprata la mattina, il pomeriggio fa kite-surf e denuncia dopo 8 giorni è strano. E poi c’è un video in cui si vede un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande” perché “sono quattro coglioni, non quattro stupratori”. Tra le prime a replicare, durissima, Maria Elena Boschi: “Caro Grillo ti devi semplicemente vergognare. Le sue parole sono piene di maschilismo. Quando dice che la ragazza ci ha messo 8 giorni a denunciare fa un torto a tutte le donne vittime di violenza e forse non sa il dolore che passa attraverso quelle donne, che spesso impiegano non giorni, ma settimane per superare magari la vergogna e l’angoscia”, aveva dichiarato in un video l’ex ministra. La capogruppo non ha mai fatto riferimento alle responsabilità – ancora presunte, e quindi innocente a condanna – di Ciro Grillo. Parole che comunque non devono essere piaciute a Parvin che ha commentato il messaggio di Boschi: “C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare”. La donna è stata tra l’altro interrogata sulla notte dello stupro. “Non ho sentito niente”, aveva affermato ma sarebbe stata intercettata dopo aver testimoniato secondo AdnKronos. A seguire ancora una nuova replica durissima di Boschi: “Parvin Tadjik, la moglie di Beppe Grillo, risponde al mio video di ieri dicendo che suo figlio è innocente, che la ragazza era consenziente, che ci sono le prove. Io non faccio il processo sui social, gentile signora. Le sentenze le decidono i magistrati, non i tweet delle mamme. Questo modo di concepire la giustizia, giocandola sui social e non nelle aule di tribunale, è aberrante. Ed è ciò che suo marito Beppe ha sempre fatto con i suoi seguaci: si chiama giustizialismo. Io invece aspetto e rispetto le sentenze, come tutti i cittadini. Quando mio padre è stato indagato, Grillo e i grillini lo hanno massacrato. Noi abbiamo aspettato le decisioni dei giudici, rispettando il loro lavoro. E alla fine è stato archiviato. Aspetti il processo anche lei e spieghi a suo marito che è meglio credere nella giustizia anziché fomentare l’odio con il giustizialismo. Per me suo figlio Ciro è innocente fino a sentenza passata in giudicato. Suo marito Beppe invece è colpevole di aver creato un clima d’odio vergognoso. Odio contro di me, contro mio padre, ma soprattutto contro tanti italiani che non possono difendersi perché privi della stessa visibilità di suo marito. Giustizia, non giustizialismo”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da huffingtonpost.it il 20 aprile 2021. “Il video di Beppe Grillo è scandaloso. Caro Beppe Grillo, ti devi semplicemente vergognare”. La capogruppo di Italia Viva, Maria Elena Boschi critica senza mezze parole il video in cui il garante del Movimento 5 stelle dice che il figlio non è uno stupratore. “Non sta a me dire se ha torto o ha ragione: per quello ci sono i magistrati. Ma che lui utilizzi il suo potere politico e mediatico per assolvere il figlio è vergognoso”, dice Boschi. E aggiunge: “Le sue parole sono piene di maschilismo. Quando dice che la ragazza ci ha messo otto giorni a denunciare fa un torto a tutte le donne vittime di violenza e forse non sa il dolore che passa attraverso quelle donne, che spesso impiegano non giorni, ma settimane per superare magari la vergogna e l’angoscia”. Boschi prosegue: “Quando Grillo ci spiega che suo figlio è innocente perché non è né in carcere né agli arresti domiciliari, dice semplicemente una falsità da un punto di vista giuridico, e anche quando dice che si tratta di "quattro ragazzi che stanno scherzando", deresponsabilizza degli adulti maggiorenni e lo semplicemente perché lui è famoso e può fare l’avvocato del proprio figlio”. L’ex ministra continua: “A me piacerebbe che dentro il Movimento 5 stelle, qualcuno, magari qualche donna, prendesse le distanze da Beppe Grillo e non perché io debba condannare il figlio. Io sono garantista con tutti anche con lui”.

Boschi smonta Grillo: "Ti devi vergognare..." Francesca Galici il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Maria Elena Boschi è andata in video per attaccare Beppe Grillo, che ha condiviso a sua volta un video per difendere suo figlio dalle accuse di stupro. Tra le reazioni più forti al video di Beppe Grillo c'è quella di Maria Elena Boschi, deputata di Italia viva, che ha voluto rispondere al leader del Movimento 5 Stelle. L'ex cominco è voluto andare in video per difendere suo figlio dalle accuse di stupro, per la prima volta pubblicamente dopo quasi due anni di silenzio. Un video concitato, come nel registro di Beppe Grillo, che non è piaciuto a Maria Elena Boschi, che senza mezze misure ha attaccato il leader del Movimento 5 Stelle da Facebook.

L'attacco di Maria Elena Boschi. "l video di Beppe Grillo è scandaloso. Caro Beppe Grillo, ti devi semplicemente vergognare", esordisce con tono concitato la capogruppo di Italia viva a Montecitorio. Per Maria Elena Boschi, infatti, Beppe Grillo non avrebbe dovuto utilizzare il suo potere mediatico per affrontare una vicenda giudiziaria personale che riguarda suo figlio: "Non sta a me dire se ha torto o ha ragione: per quello ci sono i magistrati". Ma a far irrigidire ancor di più Maria Elena Boschi è il contenuto delle parole di Beppe Grillo, contro il quale l'esponente di Italia viva ha usato parole molto forti: "Le sue parole sono piene di maschilismo. Quando dice che la ragazza ci ha messo otto giorni a denunciare fa un torto a tutte le donne vittime di violenza e forse non sa il dolore che passa attraverso quelle donne, che spesso impiegano non giorni, ma settimane per superare magari la vergogna e l’angoscia".

"Dice falsità". La Boschi, poi, utilizza il suo titolo come avvocato per puntualizzare e smentire le parole di Beppe Grillo: "Quando Grillo ci spiega che suo figlio è innocente perché non è né in carcere né agli arresti domiciliari, dice semplicemente una falsità da un punto di vista giuridico". La capogruppo di Italia viva, poi, smonta un'altra parte del discorso del leader del Movimento 5 Stelle: "Anche quando dice che si tratta di "quattro ragazzi che stanno scherzando", deresponsabilizza degli adulti maggiorenni e lo semplicemente perché lui è famoso e può fare l’avvocato del proprio figlio".

L'appello alle donne del M5S. In chiusura del suo video, Maria Elena Boschi si rivolge direttamente alle donne, soprattutto a quelle del Movimento 5 Stelle: "A me piacerebbe che dentro il Movimento 5 stelle, qualcuno, magari qualche donna, prendesse le distanze da Beppe Grillo e non perché io debba condannare il figlio. Io sono garantista con tutti anche con lui".

Maria Elena Boschi contro Beppe Grillo: "Usa il suo potere per assolvere il figlio. Scandaloso, una vergogna". Libero Quotidiano il 19 aprile 2021. Beppe Grillo si è scagliato in difesa del figlio Ciro, accusato di violenza sessuale insieme ad altri amici nei confronti di una ragazza italo-svedese conosciuta in Sardegna. Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha respinto le accuse degli inquirenti attraverso un video che lascia molti parecchio perplessi. Tra questi Maria Elena Boschi che non perde l'occasione per criticare la scelta del Cinque Stelle: "Il video di Beppe Grillo è scandaloso - ha tuonato senza mezzi termini anche lei in un filmato apparso sui social -. Non sta a me dire chi ha torto e chi ha ragione, per quello ci sono i magistrati. Ma che Beppe Grillo usi il suo potere mediatico e politico per assolvere il figlio è vergognoso". La deputata di Italia Viva mette in croce le parole pronunciate dal pentastellato, "piene di maschilismo". Le prove? "Quando dice che la ragazza che ha denunciato il figlio per stupro è sostanzialmente una bugiarda perché ha impiegato otto giorni a denunciare, fa un torto a tutte le donne vittime di violenza, perché forse Beppe Grillo non sa il dolore che passa attraverso quelle donne che spesso non impiegano giorni ma settimane per trovare il coraggio di denunciare e superare anche magari la vergogna e l'angoscia". Poi è la volta del figlio Ciro che per gli inquirenti, assieme ad alcuni amici, avrebbe "afferrato per i capelli la ragazza" per farle "bere mezzo litro di vodka e costringerla ad avere rapporti di gruppo". "Quando Beppe Grillo dice che suo figlio è chiaramente innocente perché non è né in carcere né agli arresti domiciliari - prosegue la Boschi - dice una falsità da un punto di vista giuridico che non sta né in cielo né in terra". Infine l'invito a qualche donna nel M5s che si dissoci. Invito caduto nel vuoto visto e considerato che la grillina Alessandra Maiorino ha rimandato al mittente le accuse definendo la Boschi un "avvoltoio".

Paola Zanca per "il Fatto quotidiano" il 20 aprile 2021. Non dite a Beppe Grillo - anzi sì, diciamoglielo - che denunciare una violenza dopo otto giorni non è "strano", come sostiene lui. È "strano" il contrario: avere immediatamente la consapevolezza, l'autodeterminazione e il coraggio necessari a presentarsi in caserma e raccontare cosa ti è successo. A volte - si tenga forte, Grillo - ci vogliono mesi solo per realizzare quel che ti è accaduto, per convincerti che non sei stata tu ad aver sbagliato. È per questo che un anno e mezzo fa, il Parlamento ha raddoppiato i tempi entro cui è possibile sporgere querela: erano troppo pochi i sei mesi previsti dalla legge. E il Codice rosso - lo hanno firmato i ministri del Conte-1, Alfonso Bonafede e Giulia Bongiorno - ha allargato a un anno la finestra a disposizione della vittima per denunciare. Semmai le dovesse venire in testa di girare un altro video sul tema, le agevoliamo un altro paio di novità introdotte dalla giurisprudenza e dal codice penale: puoi essere stuprata anche se hai i jeans, la minigonna non istiga alla violenza, un no è un no (anche se un minuto prima aveva detto sì), l'alcol può essere un'aggravante. E anche quella cosa del matrimonio riparatore, attenzione a non confondersi: sono solo quarant' anni, ma non funziona più.

Michela Murgia per "la Repubblica" il 20 aprile 2021. Per far capire agli scettici nostrani del #metoo quanto sia difficile per una donna denunciare una violenza sessuale basterebbe mostrare loro il video con cui Beppe Grillo, coi toni scomposti delle reazioni a caldo, insinua che in una denuncia presentata otto giorni dopo i fatti ci sarebbe qualcosa di "strano", cioè sospetto e dubitabile. La presunta vittima, colpevole di essere stata troppo lenta a reagire, sarebbe dunque la vera carnefice, decisa a incastrare a posteriori dei ragazzi ingenui senz' altra colpa che quella di esser stati troppo esuberanti. Grillo esprime una presunzione comune a molte persone: quella di sapere come dovrebbe comportarsi ogni vera vittima di violenza per essere credibile (e dunque creduta). Secondo questo vademecum dell' affidabilità, la donna deve correre subito al primo commissariato e contestualmente al pronto soccorso, altrimenti è legittimo pensare che si sia inventata tutto a mente fredda per incastrare qualcuno e magari specularci su. Come troppi, il fondatore del Movimento 5 Stelle fa finta di ignorare che vivere l'esperienza di uno stupro non è come subire un furto. Capire di esser stata violentata mentre eri ubriaca è tutt' altro che immediato. Devi ricordare, poi superare la vergogna di confessarlo, affrontare la paura di non essere creduta (ti chiederanno com'eri vestita? Perché avevi bevuto? Come mai eri lì?) e sopportare l'ipotesi - utile agli inquirenti, ma terrificante per te - che esistano prove digitali che possano nel frattempo girare pubblicamente e che, nel caso di un rinvio a giudizio, finirebbero sotto gli occhi di decine di estranei pronti a giudicare i tuoi atteggiamenti intimi decine di volte. Visti da questa prospettiva, otto giorni per trovare il coraggio di denunciare sembrano persino pochi, invece per Grillo - manettaro da politico e garantista da genitore - sarebbero già la prova che non è vero niente, rafforzata da un filmato dove la presenza di consensualità si evincerebbe dal solo fatto che un gruppo di maschi diciannovenni sembri divertirsi molto. In che modo si siano divertiti Grillo junior e i suoi amici lo stabilirà ovviamente un tribunale. A noi spetta invece interrogarci sulla strana idea di consensualità che emerge dal ragionamento di Grillo senior, perché sta alla base della diffusa difficoltà italiana a riconoscere come tale qualunque violenza sessuale. Il consenso tra adulti esiste se le persone fanno un patto su termini condivisi. La persona consenziente è quindi quella che ha espresso un accordo esplicito. Ovvio? Non se parliamo di sesso. Per un meccanismo sociale che si chiama cultura dello stupro quella secondo la quale la violenza è sexy e la sessualità è violenta - in Italia avviene infatti l'esatto opposto: il consenso femminile ai rapporti sessuali è considerato implicito anche in assenza di disaccordo. Se non dici no, allora è già sì. Non ha alcuna importanza se il tuo rifiuto è impedito dal fatto che sei ubriaca, spaventata o intimidita da circostanze, sostanze e persone. Questi fattori possono essere addirittura considerati rafforzativi del consenso, giacché se hai assunto alcool o droghe è perché volevi perdere il controllo. Per questo, agli occhi di molti, bere sottintende già il consenso a fare sesso in stato di alterazione, così come l'indossare abiti convenzionalmente definiti provocanti o l'accettare situazioni confidenziali che però non sono ancora sessuali. Il consenso come volontà espressa non gode di gran credito nel nostro Paese, dove fior di commentatori sui giornali intervengono a giorni alterni per lamentarsi di quanto il #metoo abbia ucciso il romanticismo e di come chiedere assenso esplicito burocratizzi la spontanea arte del corteggiamento. La vicenda Grillo è come tante e la dirimerà un giudice, ma ai ragazzi e alle ragazze chiederei di usarla per fare un piccolo esperimento sociale in famiglia. Mostrate ai vostri genitori il video dell'ex comico e chiedete loro: papà, se mi diverto col corpo di un' altra persona senza chiederle il permesso, anche tu mi difenderai così? Mamma, se bevo a una festa e poi mi fanno questo, anche tu mi scaricherai così? C' è un Grillo in ogni famiglia. Forse è il momento di stanarlo.

M5s, Elisabetta Trenta dopo il video di Grillo sul presunto stupro di gruppo: “Mi sento offesa da quel video, Beppe va contro le nostre battaglie”. Giovanna Casadio su La Repubblica il 21 aprile 2021. Intervista all'ex ministra della Difesa: "Abbiamo esteso da sei mesi a un anno il tempo per la denuncia proprio perché le violenze vengono segnalate molto dopo il fatto".  "Posso accettare lo sfogo e il dolore di un padre, ma Beppe Grillo è la nostra bandiera e dire queste cose è andare contro le stesse battaglie e i valori del Movimento 5Stelle. Come donna io mi sono sentita offesa". Elisabetta Trenta, l'ex ministra della Difesa, ora semplice attivista grillina (come si definisce), ha pubblicato un post su Facebook in cui critica Grillo per quel video in difesa del figlio Ciro accusato di stupro in concorso con altri ragazzi...

Beppe Grillo, le donne e lo stupro: ultra decennale storia del sessismo a Cinque stelle. Susanna Turco su L'Espresso il 20 aprile 2021. Da Levi Montalcini «vecchia puttana» al «punto G» di Salsi, passando per «cosa fareste da soli in auto con la Boldrini», fino all’angosciante caso di Sarti. Ecco la visione del Garante che ha fatto proseliti nel M5S. Molti anni prima del video in difesa del figlio Ciro. Eppure, bisogna dirlo, c'è della coerenza. Un filo evidente di coerenza che porta dritto a una visione del mondo. Ha provocato molta indignazione la ricostruzione difensiva contenuta nel video in cui Beppe Grillo protesta l'innocenza di suo figlio Ciro, accusato di «stupro di gruppo». In particolare, in due passaggi, che svelano un maschilismo arcaico, perfettamente patriarcale, abbastanza in contrasto con l'immagine di un leader politico digitale, ambientalista e tanto attento alla contemporaneità. Anzitutto - andando peraltro nel verso contrario all'evoluzione giuridica del Codice rosso - Grillo asserisce che è «strano» la vittima abbia denunciato dopo otto giorni, come se la veridicità di uno stupro fosse legata alla sveltezza con cui viene rivelato alle autorità. E, secondo, afferma una idea di consensualità molto particolare: per lui si evince dal fatto che in un video della serata «c'è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni, che si stanno divertendo», «perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori». Ecco, al netto degli aspetti giudiziari, che probabilmente non terranno conto del video di Grillo (o almeno: questo è ciò che deve sperare, perché la legale della vittima, Giulia Bongiorno, ha già dichiarato che lo porterà «come prova a carico») è utile collocare in quale universo simbolico e valoriale si inseriscano le parole del fondatore dei Cinque stelle. Rispetto al quale le apparenti bizzarrie del leader trovano il loro posto. Quale sia l'idea delle donne nel vertice del Movimento, si evince da alcuni esempi della storia sua e del partito. I più ricorderanno anzitutto con quale argomento Grillo redarguì la consigliera di Bologna Federica Salsi, colpevole di essere andata in tv a Ballarò: era vittima del «punto G, quello che ti dà l'orgasmo nei salotti dei talk show». Apostrofata in quanto donna, per un (presunto) reato che peraltro si è poi esteso a tutti, trasversalmente al genere. È la tipologia del pubblico linciaggio, che ha avuto varie articolazioni. Famoso il post del 2014 del blog gestito dalla Casaleggio: «Cosa fareste da soli in auto con la Boldrini?», titolo a un video sull'allora presidente della Camera che scatenò i peggiori istinti e commenti della rete. Si scusò qualcuno, all'epoca? Boldrini si infuriò dicendo che era «istigazione alla violenza»; Claudio Messora, allora responsabile della comunicazione M5S, volle replicare: «Cara Laura, volevo tranquillizzarti. Anche se noi del blog fossimo tutti potenziali stupratori, tu non corri nessun rischio». Politiche attaccate perché donne, donne trattate come oggetti sessuali, a tutti i costi: persino Rita Levi Montalcini non fu risparmiata, Grillo le diede della «vecchia puttana». Sessismo con automatismi che aprono la porta alla violenza e l'accolgono con pacche sulle spalle. Nel gennaio 2016, anche l'hashtag #boschidovesei, nell'ambito degli attacchi a Maria Elena Boschi relativi alla vicenda di Banca Etruria, fu lanciato in rete da Grillo con un tweet sessista: «#Boschidovesei in tangenziale con la Pina». Anche se si trattava di banche, conflitti di interesse, l'aggressione cadeva là: l'allusione era in tangenziale. Resta nelle cronache, a novembre 2018, l'attacco modello Boldrini promosso sul blog del Movimento ai danni della deputata di Forza Italia Matilde Siracusano, rea di aver criticato in Aula il decreto anticorruzione e lodato Berlusconi: irriferibili i moltissimi commenti osceni di cui il blog consentì la pubblicazione, sotto il video rimontato del suo intervento alla Camera. Li ripostò lei stessa, per denunciare la violenza subìta. Non possiamo del resto dimenticare, anche dentro al Movimento, quale trattamento fu riservato a Giulia Sarti, la parlamentare che è stata vittima del sessimo grillino più violento: sue foto private sono state in giro per anni, dopo un hackeraggio che, secondo alcuni del M5S era stato «inside job». Una vicenda angosciante, tra il revenge porn e il regolamento di conti interno. Un lavoro sporco, comunque mai chiarito. Giusto a dire in quanta considerazione tenga il genere – lui che pure ha fondato un partito dove tante sono le donne, a partire dalle sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino – fu Grillo stesso, in occasione della campagna elettorale per le Europee 2014, quando Renzi candidò cinque donne capilista, a parlare di «quattro veline» (circolava del resto anche un fotomontaggio ad hoc) la cui «scelta è una presa per il culo ma tinta di rosa». Per forza: sono donne. Le «loro» donne, diverse dalle «nostre», come ebbe poi a chiarire in uno dei suoi spettacoli : «Ora lo psiconano vuole incontrarci: vorrà capire se nel Movimento c'è fica. Ma le nostre donne sono diverse dalle sue, forse non la danno nemmeno ai mariti». Battute, certo. E anche: un uso illuminante degli aggettivi possessivi. Una volta, durante il suo spettacolo, per spiegare qualcosa che si presentava come una contraddizione in termini, disse: «È come violentare una puttana: è lì per quello». Frasi che sono indici di modi di pensare: «Siete qui perché siete brave solo a fare pompini» gridò Massimo Felice De Rosa dai banchi del gruppo M5S alla Camera contro le deputate dem. E, ancora, reazioni che sono indici di modi di pensare: quando il vicecapo legislativo del mise, Enrico Esposito, amico e collaboratore di Luigi Di Maio fu messo nel mirino (proprio dall'Espresso) per alcuni tweet sessisti e omofobi di qualche anno prima, replicò dicendo che quelle affermazioni erano solo «black humor» e «satira » del suo «alter ego radiofonico». Insomma scherzava anche lui. Il viraggio dalla risata e alla violenza può essere carta velina, si sa. E certo, Grillo dirà che molte delle sue uscite sono espressioni paradossali di un artista. Ma spesso l'ambiguità e il raccapriccio prevalgono. Come quando scrisse, all'alba del suo blog (agosto 2006), in un post dal titolo “Nuovo femminismo”: «Le donne non sono mai state così desiderate. Il desiderio maschile cede alla passione che poi cede allo stupro. È da animali, ma è così. La natura fa il suo corso».

Caro Grillo, non esiste la presunzione d’innocenza senza il rispetto delle vittime. Grillo difende l’innocenza della propria progenie, ma infanga la vittima, dandole sostanzialmente della bugiarda, colpevole a suo dire di tardiva denuncia. Antonella Rampino su Il Dubbio il 20 aprile 2021. Come un “Urlo” di Munch fattosi parola, l’arringa di Beppe Grillo in favore del figlio imputato per il più odioso dei reati, un presunto stupro di gruppo, ha fatto irruzione violenta nel dibattito pubblico. E come cercando un soffio di razionale in qualcosa dalla quale la ragione se l’era invece palesemente data a gambe, è stata qua e là aggettivata come “garantista”. Chissà, ci si è anche chiesto, forse è il primo segno di una conversione dei grillini al garantismo…Come a voler trovare qualcosa di buono in un video che è invece urticante e impudico tanto quanto può esserlo mettere in scena all’estremo tutto il proprio dolore e la propria rabbia, senza alcun filtro. É scelta e sensibilità individuale, e dunque materia di pura umana discrezionalità, giustificare Beppe Grillo ”in quanto padre”, oppure rilevare che pur non rivestendo alcun ruolo istituzionale si tratta di un leader politico -e del partito di maggioranza relativa in Parlamento e al governo- che non dovrebbe mai pubblicamente trascendere (ed è facile profezia ritenere che quel video danneggerà politicamente i 5 Stelle più di qualsiasi altro errore dei vari che il MoVimento possa aver commesso). Ma usare l’aggettivo garantista no, proprio no: davvero è fuori luogo. Intanto, il garantismo rispetta le vittime: non si limita, come ovvio, ad affermare la presunzione di innocenza per gli indagati e gli imputati, prescritta nell’ordinamento italiano a diversi livelli giuridici a partire dal più alto, la Carta costituzionale. E invece certo Grillo difende l’innocenza della propria progenie, ma infanga la vittima, dandole sostanzialmente della bugiarda, colpevole a suo dire di tardiva denuncia -8 giorni, quando non a caso la legge prevede un termine di 6 mesi, e la non revocabilità della querela- e di aver tentato di condurre una vita normale nei giorni e nelle ore successive ai fatti. Affermazioni che prevedono tra l’altro l’essere perfettamente a digiuno della lunga storia dei reati sessuali nell’ordinamento italiano, divenuti solo da pochi decenni contro la persona e non più contro la “morale pubblica”, e al prezzo di lunghe lotte sociali e politiche prima che di diritto. È un po’ come se Beppe Grillo non avesse mai sfogliato un quotidiano, con le cronache piene per decenni delle umiliazioni a cui venivano sottoposte le donne che denunciavano violenze sessuali nelle aule dei tribunali (cosa che comunque accade ancora oggi, rendendo difficile alle vittime sottoporsi ai processi che seguono le denunce per stupro: l’arretratezza culturale italiana fa si che troppo spesso la vittima si ritrovi ad esser trattata come un imputato). Il “codice rosso” che allunga a 6 mesi i tempi di denuncia di violenze e molesti e sessuali è dovuto proprio anche alla difficoltà cui va incontro nel chiedere giustizia chi di quegli atti è stato vittima. E dov’è il garantismo, nel protestare “mio figlio è innocente, sennó lo avrebbero messo in galera subito, invece è libero da due anni”? Sembra, piuttosto, un argomento in favore della carcerazione preventiva, delle manette che scattano e restano serrate mentre magistrati e forze dell’ordine indagano: il sintomo di una ”cultura” -di una sottocultura- giuridica di tutt’altro tipo, che in Italia si è faticato a rovesciare ma che ancora sopravvive. E che è appunto il sintomo di qualcosa di diametralmente opposto: la presunzione di colpevolezza. Anche volendo tralasciare altri passaggi in cui, forse perché in preda alla violenza delle sue emozioni, Grillo ha mostrato scarsa conoscenza della storia giuridica dei capi d’imputazione di cui dovrà rispondere suo figlio in tribunale, l’esito fattuale è stato aver fornito un inevitabile assist alla difesa della vittima. Non siamo nel sistema giuridico americano, nel quale spostare l’attenzione sulla vittima e sulle sue eventuali manchevolezze è da sempre tecnica efficace -anche perché  oltre Atlantico chi emette sentenze è una giuria popolare, non giuristi in toga. Ma l’avvocata della difesa Giulia Bongiorno ha immediatamente chiesto l’inserimento del video negli atti processuali: testimonia in quale cultura è stato allevato il presunto stupratore. Il cui padre descrive la scena del delitto come una semplice notte brava, “c’è un video! Sono ragazzini che si divertono!”. É questo il punto più grave, il nervo scoperto dell’assoluta mancanza di garantismo nelle parole di Grillo: ferma restando la presunzione di innocenza degli imputati, proprio perché il processo sia equo occorre rispettare le vittime. Se dopo una “notte brava” qualcuno sporge denuncia, deve essere la magistratura nella disanima dei fatti ad emettere il giudizio. Non il padre dell’accusato. Che avrebbe potuto -meglio: dovuto- protestare l’innocenza del figlio anzitutto scusandosi con chi, denunciando, ha mostrato di esser stato offeso. E tanto più se l’offeso è una donna, e per la via di atti sessuali: non per niente, non perché “di sprezzo degno/ se stesso rende/ chi pur nell’ira/ la donna offende” (Francesco Maria Piave, La Traviata, anno 1853), ma perché siamo in Occidente, e nel XXI secolo. Non esiste la presunzione di innocenza dei colpevoli senza il rispetto delle vittime. Simul stabunt, simul cadent. Sono l’una lo specchio dell’altra. Ma appunto, il video di Grillo era solo un urlo. Un doloroso, irrazionale, irragionevole evitabilissimo grido.

Da romatoday.it il 21 aprile 2021. Dopo 2 anni di accuse al figlio, il fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo ha sbottato e si è sfogato con un video che ha provocato una vera e propria bufera. Da un lato la difesa del figlio Ciro, dall'altra le velate colpe alla vittima. Un video sui social che si ribalta in una colpevolizzazione della vittima quando dice che "una ragazza che la mattina viene stuprata, il pomeriggio fa kitesurf e 8 giorni dopo fa la denuncia, è strano". E proprio l'attacco alla vittima ha scatenato la bufera. Bufera giunta fino a Roma dove è sindaca Virginia Raggi, donna del M5s, che ieri è finita oggetto di un vero e proprio pressing. Una richiesta di presa di distanze da più parti politiche che solo ieri sera ha visto la prima cittadina prendere posizione. "E' una storia piena di dolore con vittime giovanissime", ha spiegato Raggi a margine di un evento in Campidoglio. "Capisco la sofferenza di Beppe ma per una donna deve esserci sempre la possibilità di denunciare". Poche parole per accodarsi a quelle del leader in pectore del M5s, Giuseppe Conte: "Comprendo le preoccupazioni e l'angoscia di un padre, ma non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati, vale a dire la giovane ragazza direttamente coinvolta nella vicenda e i suoi familiari che sicuramente staranno vivendo anche loro momenti di dolore e sofferenza. In questa vicenda vi è poi un principio fondamentale che non possiamo mai perdere di vista: l'autonomia e il lavoro della magistratura devono essere sempre rispettati. Perciò anche in questo caso attendiamo che i magistrati facciano le loro verifiche". A chiedere con forza una presa di posizione di Raggi ci avevano pensato per tutto il giorno le consigliere del Pd capitolino Valeria Baglio, Ilaria Piccolo e Giulia Tempesta. "Le parole di Beppe Grillo sono di una gravità assoluta. Tutta la mia solidarietà va alla ragazza coinvolta e alla sua famiglia, che hanno visto banalizzare il loro dolore. Se c'è stata una violenza, saranno i giudici a deciderlo: a differenza di Grillo, noi siamo garantiste sempre, non solo quando sono coinvolti familiari o amici. Di certo, però, uno stupro non è "quattro coglioni che si divertono": se non c'è assenso, o non ci sono condizioni di dare l'assenso, si tratta di violenza. Non è un divertimento, di certo non per chi è vittima e porta dentro di sè una cicatrice così profonda. All'interno delle Istituzioni ci battiamo ogni giorno affinchè per le vittime sia meno difficile denunciare, affinchè si sentano protette, affinchè non vengano lasciate sole. Sfruttare la propria visibilità mediatica per usare parole che pesano come pietre è vergognoso. Spero che il video venga ritirato al più presto, e che il fondatore del gruppo di maggioranza relativa in Parlamento chieda scusa. Per senso di responsabilità, ma anche e soprattutto per dignità. Ci aspettiamo parole di condanna, ancora non pervenute, da parte della Sindaca di Roma: ci si deve esporre sempre, a difesa delle donne, quando viene lesa la loro dignità". Linea condivisa anche dal coordinatore romano dell'Udc Roberto Riccardi: "Il video del "giustizialista a giorni alterni" è scandaloso. Non sta a noi dire abbia torto e chi ragione, spetta ai magistrati, ma è vergognoso che Grillo usi il suo potere mediatico e politico per assolvere il figlio accusato di stupro di gruppo. Reputiamo indispensabile che Virginia Raggi, sempre pronta a rilasciare dichiarazioni, prenda una posizione decisa e pubblica a difesa di tutte le donne. Lo faccia almeno stavolta, dopo i silenzi di quando Beppe Grillo definì sul suo blog i romani gente di fogna".

Da ilgiorno.it il 21 aprile 2021. Il caso Grillo non smette di sollevare reazioni dentro e fuori dal Parlamento. E anche all’interno del M5S non mancano i distinguo. Dopo il caso della deputata Daga, che aveva criticato Grillo, affermando di avere subito lei stessa violenza ed avere trovato il coraggio di denunciare dopo sei mesi, anche il ministro grillino delle Politiche agricole Stefano Patuanelli dice la sua: “Io credo che chi si sente vittima di violenza possa denunciarlo in qualsiasi momento. Dopodiché è la magistratura che deve decidere e lo fa sulla base di dati e fatti“. La tesi è semplice: “Capisco la difficoltà e la grande preoccupazione, la grande sofferenza di Beppe padre, sono padre anch’io. Ma capisco anche la condizione di chi oggi si sente vittima e capisco che alcuni elementi del video portano a un dibattito che sarebbe stato meglio evitare, perché portare il piano politico ad intersecarsi con quello personale e privato lo ritengo fuori luogo”. Il rilievo, anche qui, è sui tempi della denuncia. “Io credo che le vittime debbano poter denunciare in qualsiasi momento se si sentono vittime - ha aggiunto - dopo di che la magistratura è quella che deve decidere e lo fa sulla base di dati e fatti da ricostruire ad accertare”. Hanno poi destato scalpore le parole di Marco Travaglio, da sempre sponsor dell’ex comico, fondatore dei M5S: “ Grillo non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto“. Poi ammette che nel video qualcosa non andava: “Gli errori sono altri - aggiunge Travaglio -, primo, far intendere che la consensualità del rapporto sessuale sia dimostrata dal ritardo di 8 giorni con cui la ragazza ha sporto denuncia: a volte possono passare anche mesi, e giustamente la nuova legge del Codice rosso (firmata dal suo ministro Bonafede e dalla Bongiorno) ha raddoppiato i tempi per le querele da 6 mesi a 1 anno”. “Il secondo è l’assenza di una parola di vicinanza alla ragazza, che comunque, se ha denunciato, si sente vittima. Potrebbe esserlo, come pure non esserlo: alcune denunce di stupro si rivelano fon date e altre infondate”. Subito dopo Travaglio aggiunge: “Sarà il gup a decidere se Ciro e i suoi tre amici vanno processati e altri giudici stabiliranno se fu stupro o no. Invece tutti parlano come se lo stupro fosse già certo, senza non dico una sentenza, ma neppure un rinvio a giudizio“. Un’uscita che non ha mancato di scatenare indignazione: “Per Travaglio lo stupro è qualcosa che può accadere in una serata alcolica. Cito testualmente le sue parole e non aggiungo altro sulla misoginia, gli stereotipi ed un certo modo di pensare che derubrica la violenza contro le donne. C’è una retorica di cui da uomo mi vergogno degli altri uomini dietro questa frase”. Lo dice il presidente dei senatori di Italia Viva Davide Faraone”. E anche dal territorio la musica è la stessa. “Non entro nella vicenda giudiziaria e rispetto la sofferenza di un padre, ma Beppe Grillo ricopre un ruolo politico quindi su certi temi ci vuole attenzione e cautela, perchè si rischia di fare grandi danni con certe affermazioni. Sbandieriamo quotidianamente la necessità di difendere le donne e poi ne usciamo con un video di quel tipo”. Così Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia.

Caso Grillo, Appendino prende le distanze dal fondatore: "Non c'è un momento per denunciare". Giornata di polemiche, con i grillini torinesi che si dividono. Lo staffista della sindaca scrive su Facebook: "Forza Beppe, vicenda vergognosa". Ma c'è chi invece definisce "raccapriccianti" le parole del comico. La Repubblica il 21 aprile 2021.  "Non c'è un momento giusto. Una donna o un uomo hanno diritto di denunciare eventuali violenze quando lo ritengono più opportuno e comunque entro i termini stabiliti dalla legge, che sono stati correttamente allungati". Così, interpellata dall'Ansa, la sindaca di Torino Chiara Appendino a proposito della vicenda del video diffuso da Beppe Grillo sull'inchiesta in cui il figlio è accusato di stupro. "La giustizia, poi, farà il suo corso, come lo farà in questa vicenda - aggiunge Appendino -. Purtroppo, con i suoi tempi e portandosi dietro la sofferenza di tutte le parti coinvolte, anche quella di Beppe a cui sono umanamente vicina". La polemica sul video-sfogo di Beppe Grillo relativo alla vicenda giudiziaria del figlio arriva anche sui banchi del Consiglio comunale di Torino. Ed è scontro all'interno dei Cinque Stelle, tra prese di distanza e condanne da un lato, e messaggi di vicinanza e sostegno al garante del Movimento dall'altro. Ad aprire la polemica in realtà era stato Xavier Bellanca, uno dei suoi stretti collaboratori, il suo social media manager, che, sotto il post in cui Beppe Grillo ha pubblicato il suo discusso video-sfogo, ha commentato così: "Una vicenda semplicemente vergognosa. Forza Beppe" corredato da un cuore. Analoghi messaggi di solidarietà dal grillino Davide Serritella ("Forza Beppe. Mi dispiace per tutto ciò che state passando. Hai fatto bene a dire come stanno le cose. Aspettiamo la verità. Forza Beppe!") e dalla consigliera M5s Monica Amore, appena finita nella bufera per il suo post contro il gruppo Gedi, corredato da vignette antisemite: "Forza Beppe non mollare, mi raccomando" con varie faccine aggiunte. Parole a cui fanno da contraltare, sempre nell'universo grillino torinese, le voci critiche nei confronti del fondatore del Movimento. "Prima di essere un consigliere comunale del M5s sono un marito, uno zio di una bambina e spero, in un futuro, di essere anche un padre - ha commenta su Facebook Marco Chessa - Trovo quindi normale e corretto non concordare e dissociarmi da quanto riferito da Beppe Grillo su un caso che deve essere valutato esclusivamente nelle sedi competenti. Nella speranza che la cultura dello stupro non venga mai più alimentata, ma, al contrario, debellata". Posizione condivisa non solo dalla collega di gruppo Daniela Albano, che definisce le parole di Grillo "nei confronti della donna che ha denunciato la violenza, raccapriccianti", ma anche dall'ex M5s, oggi consigliere M4o, Damiano Carretto. Quest'ultimo ha anche presentato una richiesta di comunicazioni alla sindaca in merito al sostegno manifestato sotto il post di Grillo "da uno staffista e da diversi consiglieri e consigliere della maggioranza al vergognoso video di Beppe Grillo che utilizza toni inaccettabili quando si parla di un tema così delicato".

Grillo e la difesa del figlio, Boschi: "Le donne del M5S prendano le distanze". La replica di Taverna: "Serve rispetto, no a speculazioni da sciacalli". Maria Edera Spadoni (5S): "Una donna ha diritto di denunciare". Salvini: "Garantista quando gli conviene". La Repubblica il 19 aprile 2021. "Le parole di Beppe Grillo sono piene di maschilismo. Fanno torto a tutte le vittime di violenza". La renziana Maria Elena Boschi punta il dito contro il Garante del Movimento 5 Stelle, che ha pubblicato su Facebook un video in cui difende il figlio Ciro, accusato di stupro insieme ad altri suoi tre amici genovesi, nei confronti di una ragazza italo-svedese conosciuta in Sardegna a Porto Cervo nell'estate del 2019. Parole che hanno provocato l'indignazione di tutto il mondo politico. Due esponenti dei 5Stelle si pronunciano: Maria Edera Spadoni (5S) esprime un cauto dissenso: "Parole Beppe? Una donna ha diritto di denunciare quando se la sente". Così Elisa Tripodi: "La magistratura valuterà, ma  le donne hanno sempre il diritto di denunciare, come e quando lo ritengono più opportuno. Mi auguro che la vicenda verrà trattata con serietà e rispetto". "Mi piacerebbe - aveva detto  Boschi - che dentro il Movimento 5 Stelle qualcuno, magari qualche donna, prendesse le distanze da Beppe Grillo". Ma la senatrice pentastellata Paola Taverna replica: "La magistratura è al lavoro, perciò auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva, come giusto che sia, in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli". "Mai si può trasformare una vittima in colpevole: qui c'è una ragazza che ha denunciato un reato grave contro la sua libertà sessuale. Ne va rispettata la dignità e tutelata la persona, in ogni modo. Quanto al resto decideranno i giudici. Grillo abbia rispetto di questa ragazza e del lavoro della magistratura", attacca Cecilia D'Elia, presidente della conferenza delle donne del Pd. Non risparmia le accuse neanche la capogruppo dem al Senato, Simona Malpezzi: "Leparole utilizzate da Grillo sono pietre. Dopo anni di legislazione contro la violenza sulle donne, esprimono quanto di più lontano da qualunque forma di cultura del rispetto di chi denuncia abusi sessuali. Il frasario tipico di chi colpevolizza la vittima non può trovare alcuna forma di spazio pubblico nell'Italia del 2021".E il leader della Lega, Matteo Salvini, aggiunge: "Da Grillo garantismo a giorni alterni. Il sabato Salvini è colpevole, il lunedì suo figlio è innocente". "Io rispetto il bisogno di protezione di un padre verso un figlio. Ma un padre dovrebbe rispettare anche il dolore di una donna che potrebbe essere sua figlia e che denuncia uno stupro" scrive su Facebook l'ex ministra di Iv, Teresa Bellanova. "Il rispetto - aggiunge - si esercita soprattutto aspettando le sentenze definitive. In silenzio. Lasciando che gli organi preposti svolgano il loro difficile lavoro verso la verita' delle cose. Con rispetto". E mentre gli esponenti del Movimento 5 Stelle, dall'ex Alessandro Di Battista ("Coraggio Beppe, spero che tutto si risolva presto) a Vito Crimi ("Vicini a Beppe, la magistratura accerterà la verità") difendono Grillo, in molti dagli altri partiti non risparmiano le polemiche. Il pd, Andrea Romano, concentra le accuse in particolare su una frase pronunciata dal fondatore del M5S nel suo video in difesa del figlio: " 'Ma se vieni stuprata, poi vai a fare kitesurf?'. Basterebbe questa frase di #Grillo - scrive Romano su Twitter - pura colpevolizzazione della vittima, a bandirlo per sempre da qualsiasi tavolo politico. Utile se avvenisse, anche per lavorare all'alleanza possibile con M5s senza il peso della sua barbarie". E l'europarlamentare dem, Pina Picierno, aggiunge: "Condannare o assolvere il figlio di Grillo spetta alla magistratura, ma non si può tacere sulle parole del padre: affermare che la veridicità di uno stupro dipenda dai tempi della denuncia è un'aberrazione e offende le vittime a cui è servito del tempo per denunciare l'aggressore".

Beppe Grillo e la popolarità politica (a fini privati) che umilia il M5S. Il video di Beppe Grillo a difesa del figlio Ciro accusato di stupro è un’ulteriore conferma che chi è abituato a giudicare tutti non tollera di essere giudicato. E anzi non riconosce autorità a chi per legge è chiamato a farlo. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 21 aprile 2021. A Beppe Grillo va riconosciuta la capacità di far parlare di sé, e non solo perché è uno degli uomini più influenti d’Italia; sono i toni utilizzati, è la cifra comica divenuta cifra politica e messa a disposizione di una visione personale delle cose e del mondo da sempre nella sostanza sessista, razzista e intrinsecamente contraddittoria. E tutto questo, per quanto possa sembrare incredibile, fino a qualche tempo fa faceva persino ridere. Oggi Beppe Grillo si è ridotto a utilizzare la sua enorme popolarità politica per fini privati, incurante di umiliare le esponenti e gli esponenti del suo stesso movimento che tanto si sono spese e spesi perché alle donne fosse consentito il massimo tempo possibile per denunciare una violenza subita. Fanno ridere, per non dire altro, quelli che, nel tentativo disperato di difendere l’indifendibile — banalizzazione di una nobile virtù pannelliana —, hanno sottolineato «il dolore del padre» raggiungendo vette di involontaria comicità degne de «l’occhio della madre» di fantozziana memoria: o si è spietati sempre o non si è spietati mai, non ci sono vie di mezzo, ma solo convenienze personali. Fanno ridere, ma sono anche offensivi, perché sembrano suggerire che questa sia la normale reazione di qualsiasi padre in una situazione simile. Ovviamente non è così, con l’aggravante, per il comico-politico, di aver usato abusivamente un pulpito non suo; a meno di voler ammettere che il movimento pentastellato sia una proprietà privata, come la dependance di una villa in Sardegna. Ma dalle parole di Grillo traspare anche altro, e non si può non pensare a quanto gli avvocati del figlio siano disperati dopo una tale intemerata. Pare quasi che il comico-politico abbia atteso pazientemente la fine delle indagini— nonostante ci si trovi in una fase all’esito della quale la Procura potrebbe ancora chiedere l’archiviazione degli atti — per poi reagire pesantemente e in apparenza d’istinto; quasi che avesse diverse aspettative, e non solo in veste di padre. Come pure è assai interessante il passaggio sulla custodia cautelare alla quale Ciro Grillo e i suoi amici sarebbero «scampati». Grillo sembra voler far intendere che, siccome il figlio non è stato arrestato, allora è innocente. Molti hanno scritto che oggi Grillo è garantista con sé dopo essere stato giustizialista con tutti gli altri: ma cosa c’è di più giustizialista della equiparazione tra custodia cautelare e colpevolezza? Soprattutto in un Paese come l’Italia, che negli ultimi trent’anni ha pagato quasi un miliardo di euro per risarcire migliaia di ingiuste detenzioni cautelari. Grillo continua, anche quando parla di suo figlio, a considerare la custodia cautelare alla stregua di una sentenza di colpevolezza e questo è assolutamente coerente con la sua storia, che non è una bella storia. E così, un’ultima considerazione — ultima non per importanza — può essere fatta oggi grazie al suo latrato, e riguarda il potere cautelare esercitato in Italia dall’Autorità giudiziaria, i cui limiti, data l’entità dei risarcimenti per ingiusta detenzione, evidentemente meritano una profonda riflessione da parte del legislatore. Grillo si chiede perché suo figlio non sia stato arrestato, io mi chiederei piuttosto come sia potuto accadere che un numero così enorme di cittadini è stato ingiustamente privato della propria libertà personale in questi anni. Si può concludere pensando che, nonostante tutte le bestialità dette, lo sfogo di Grillo in fondo un’utilità l’abbia avuta perché, ragionando al contrario di come fa lui, si ha sempre la possibilità di trovare la via per capire bene cosa accade. Ed è questo, forse, il suo estremo contributo alla nostra vita pubblica: l’aver confermato, ancora una volta, che coloro i quali giudicano tutti, non tollerano di essere a loro volta giudicati e non riconoscono alcuna autorità a chi per legge è chiamato a farlo.

Le polemiche sul garante 5 Stelle. Grillo e l’indagine sullo stupro, Conte fa l’equilibrista: “Comprendo Beppe ma non trascuro la ragazza”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Dopo ore di "rumoroso silenzio", Giuseppe Conte interviene sul caso di Beppe Grillo e del video pubblicato lunedì dal garante del Movimento 5 Stelle per difendere il figlio Ciro, indagato e a rischio di rinvio a giudizio in una inchiesta in cui è accusato dello stupro di una ragazza 19enne avvenuto nel 2019 nella villa in Sardegna del comico. L’ex premier, che punta alla leadership del Movimento 5 Stelle, usa parole misurate e difende sia Grillo che la presunta vittima della violenza, dopo le tante sollecitazioni arrivate in particolare dagli "alleati" del Partito Democratico con l’ex ministro Peppe Provenzano e il senatore Andrea Marcucci. Conte spiega in una nota di “comprendere le preoccupazioni e l’angoscia di un padre”, riferendosi così a Beppe Grillo, ma “non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati”. Così l’ex premier si riferisce “alla presunta vittima, la giovane ragazza direttamente coinvolta nella vicenda e i suoi familiari che stanno vivendo anche loro momenti di dolore e sofferenza”. Da Conte quindi la difesa del garante grillino, con cui ha avuto modo di parlare “in più occasioni e conosco bene la sua sensibilità su temi particolarmente delicati. Sono ben consapevole di quanto questa vicenda familiare lo abbia provato e sconvolto. E’ una vicenda – ha aggiunto il  futuro leader del Movimento 5 Stelle – che sta affliggendo lui, la moglie, il figlio e l’intera famiglia”. Quindi l’intervento sulla magistratura, tirata pesantemente in ballo nel video di Grillo in difesa del figlio Ciro. L’avvocato pugliese ribadisce che i questa vicenda “vi è un principio fondamentale che non possiamo mai perdere di vista: l’autonomia e il lavoro della magistratura devono essere sempre rispettati. Perciò anche in questo caso attendiamo che i magistrati facciano le loro verifiche”. IL CASO ALLA CAMERA – Il caso Grillo era sbarcato anche alla Camera oggi, all’apertura dei lavori. A prendere la parola per prima la deputata di Fratelli d’Italia Lucaselli che chiede la convocazione immediata della conferenza dei capigruppo sul tema, ma critiche arrivano anche da LeU, col capogruppo Federico Fornaro che deplora il video del fondatore del Movimento e critica “il garantismo a correnti alternate”. LA DIFESA DELLA MOGLIE DI GRILLO – A difesa del 19enne interviene invece la madre Parvin Tadjik, rispondendo su Facebook ad un video pubblicato lunedì dalla capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi, che aveva criticato duramente il video di Grillo, il suo garantismo a targhe alterne e l’aver minimizzato le pesantissime accuse rivolte al figlio. “C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare”, scrive la madre di Ciro. Parole alle quali risponde la stessa Boschi: “Questo modo di concepire la giustizia, giocandola sui social e non nelle aule di tribunale, è aberrante. Ed è ciò che suo marito Beppe ha sempre fatto con i suoi seguaci: si chiama giustizialismo. Io invece aspetto e rispetto le sentenze, come tutti i cittadini”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Caro Beppe, puntare il dito contro una presunta vittima di stupro è sempre una violenza. Gianluigi Nuzzi su Notizie.it il 20/04/2021. Non so dove stia la verità e spero che i giudici facciano chiarezza, ma Beppe Grillo con questo video ha fatto un pessimo servizio alle donne vittime di violenza. di Rimango senza parole davanti al video di Beppe Grillo dove per difendere il figlio Ciro da un’accusa di stupro di gruppo arriva a fare delle affermazioni che evidentemente vanno contro la dignità della presunta vittima, della ragazza che sarebbe stata stuprata da lui e da alcuni suoi amici. Caro Beppe, ci sono ragazze che non denunciano e che si uccidono dopo un mese, un anno. Ci sono ragazze che rimangono in silenzio tutta la vita. Non è la denuncia del furto di una borsa o del portafogli in metropolitana che uno fa d’istinto, subito dopo il reato. Lo stupro è qualcosa di pesante e ognuno reagisce in modo proprio. Denunciare dopo otto giorni non altera la veridicità delle accuse. Dice Beppe Grillo che a difesa del figlio c’è un video che dimostra che si è trattato di uno scherzo tra coetanei. Io non so dove stia la verità e spero che i giudici facciano chiarezza, ma puntare il dito contro la vittima o la presunta vittima perchè denuncia dopo otto giorni è una violenza che si fa ai danni non solo di questa ragazza ma di tutte le donne che hanno il coraggio di denunciare. Se è dopo otto giorni o dopo un anno non importa, l’importante è arrivare alla verità. Beppe Grillo con questo video ha fatto un pessimo servizio non tanto alla giustizia quanto alle donne, che vanno protette e difese e a cui va data la possibilità di trovare intorno a sé molta solidarietà e poche dita puntate.

Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".

Da corriere.it il 20 aprile 2021. «Umanamente mi dispiace per Beppe, il suo è il dolore di un padre. Quasi non riesco a commentare ciò che ha detto. Ho avuto una relazione con una persona violenta per un breve periodo e per elaborare quanto era successo ci ho messo sei mesi, poi ho denunciato». Lo racconta all’Adnkronos Federica Daga, deputata M5S, quando le viene chiesto di commentare le parole di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro, accusato di stupro di gruppo. In particolare hanno sollevato un polverone le dichiarazioni del garante 5 Stelle in relazione alla tempistica con cui è avvenuta la denuncia nei confronti del figlio («perché una persona che viene stuprata la mattina e dopo otto giorni fa la denuncia?», la frase pronunciata da Grillo). «Io ringrazio che ci sia il codice rosso, che consente alle donne di denunciare anche dopo sei mesi dal fatto. Mi dispiace per Beppe, la giustizia è lenta e io sono in causa da cinque anni», aggiunge la parlamentare. Con un tweet interviene anche la vicepresidente del Senato in quota M5S, Paola Taverna: «Ciò che prova Beppe a livello umano posso solo immaginarlo, e da mamma gli sono vicina. La magistratura è al lavoro, perciò auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva, come giusto che sia, in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli». Intanto i genitori della ragazza che avrebbe subito le violenze di gruppo da parte di Ciro Grillo e di alcuni suoi amici si sfogano: «Lo spettacolo sul dolore è una farsa ripugnante»

Giuseppe Alberto Falci per il "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. «Le colpe di un uomo non possono cadere sul fratello» dice Federica Daga, deputata M5S alla seconda legislatura a Montecitorio, che ieri ha attaccato Grillo ricordando la sua vicenda: cinque anni fa ha avuto una relazione con il fratello di un parlamentare pentastellato, una convivenza sfociata nella violenza. Daga preferisce non rivelare l' identità del collega, né tantomeno quella dell' ex compagno. «Non ha senso dirlo» ripete con un filo di voce. C' è traccia di questa storia culminata in un processo per stalking in un articolo comparso sul Tempo il 4 ottobre del 2018 dove si legge che l' ex «fidanzato» sarebbe il fratello di un deputato grillino, nonché sottosegretario ai tempi del governo Conte I. I rapporti con il collega? «Normali, cordiali». Raccontano che nel gruppo parlamentare M5S in queste ore c' è un certo imbarazzo per le parole pronunciate da Grillo in difesa del figlio Ciro. Oggi Daga parla con un filo di voce di quello che le è capitato ormai sei anni fa. È l' autunno del 2015, sono gli ultimi scampoli della scorsa legislatura, e in quei giorni Federica inizia a frequentare un ragazzo.

«Si occupava della sicurezza del Movimento, ci siamo conosciuti così. Ma mai avrei potuto pensare che una guardia del corpo mi mettesse le mani addosso. All' inizio sembrava una persona normale».

E poi?

«Poi i suoi comportamenti sono mutati in un crescendo di violenza fisica e psicologica. Mi picchiava, e allo stesso tempo cercava di distruggermi psicologicamente. Mi ripeteva: "Non vali niente, non sei nessuno"». La relazione va avanti per novanta giorni. A gennaio del 2016. Daga decide di allontanarlo: «Sono distrutta, non so cosa fare. Per rendersi conto di quello che è successo una persona ci mette un po'. Vuoi per la vergogna, vuoi perché non sai a chi rivolgerti». Eppure, l' ex ragazzo non demorde: «Mi comincia a stalkerare, me lo ritrovo sotto casa, mi contatta su tutti i canali possibili...».

Daga vuole uscire da questo incubo e si presenta dalla polizia: «Lo faccio per sporgere denuncia. E sa cosa mi dicono le forze dell' ordine?». Cosa? «"Signora, lei è cosciente di potere ricevere una querela?". E ancora: "È convinta di quello che le è successo?"». A questo punto si rivolge a un' attivista che lavora presso un centro antiviolenza. «Mi sfogo, mi consiglia di parlare con un avvocato. Dopodiché decidiamo di depositare la denuncia».

Tutto questo succede nell' estate del 2016, a più di sei mesi di distanza dalla fine delle relazione. Inizia la battaglia processuale.

«Aspetto un anno prima che il pm inizi a fare le indagini. E dopo un altro anno arriva la prima condanna a 8 mesi».

Ha più rivisto quell' uomo?

«No, so che si è presentato alla sentenza di primo grado».

Di certo, la ferita non va più via: «Fin quando non si chiuderà la causa avrò dentro di me un fastidio». E forse anche per tal ragione prima di chiudere la telefonata ripete: «Deve pagare, deve pagare...».

Beppe Grillo, la replica dei genitori della ragazza: "Farsa ripugnante, una miseria sulla pelle di nostra figlia". Libero Quotidiano il 19 aprile 2021. Dopo le parole di Beppe Grillo in difesa del figlio, ecco che arrivano quelle dei genitori della ragazza per cui - a detta degli inquirenti - Ciro Grillo è accusato. "Siamo distrutti. Il tentativo di fare spettacolo sulla pelle altrui è una farsa ripugnante", hanno detto all'Adnkronos attraverso il loro legale Giulia Bongiorno. La ragazza, di origine italo-svedese, ha denunciato di essere stata stuprata, nel luglio del 2019 in Sardegna, dal figlio del garante del Movimento 5 Stelle e da tre suoi amici, mandando su tutte le furie Grillo. Il Cinque Stelle ha voluto pubblicare un video sui social in cui metteva in dubbio il lavoro degli inquirenti e avanzando l'ipotesi che, non essendo ancora stato arrestato, il figlio non può aver stuprato la ragazza. "Perché non li avete arrestati? - diceva Grillo nel video -. Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c'è stato niente perché chi viene stuprato fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano". Insomma, per il pentastellato le accuse sono infondate. Un filmato che però non è piaciuto affatto ai genitori della ragazza. "Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l'angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell''inedito", hanno ribadito i genitori della giovane, che aveva denunciato il presunto stupro al suo ritorno a Milano dopo una vacanza in Costa Smeralda. Per la Procura di Tempio Pausania le cose la giovane sarebbe stata "costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno", "afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka" e "costretta ad avere rapporti di gruppo", con i 4 giovani che avrebbero "approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica" di quel momento. Ipotesi che invece Ciro Grillo respinge. 

Grillo, i genitori della ragazza: “Siamo distrutti, sta ridicolizzando il nostro dolore”. Redazione lunedì 19 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. “Siamo distrutti. Il tentativo di fare spettacolo sulla pelle altrui è una farsa ripugnante“. È questa la reazione, raccontata in esclusiva all’Adnkronos, attraverso il loro legale Giulia Bongiorno, dei genitori della ragazza italo-svedese che ha denunciato di essere stata stuprata, nel luglio del 2019, da Ciro Grillo, figlio del garante del M5S e tre suoi amici, tutti indagati dalla Procura di Tempio Pausania, in provincia di Sassari, per violenza sessuale di gruppo. I genitori hanno visto il video, mandato in rete da Beppe Grillo, in cui dice che il figlio è innocente. E in cui parla di “divertimento“. “Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell’”inedito”, dicono ancora i genitori della giovane. Che aveva denunciato il presunto stupro al suo ritorno a Milano da una vacanza in Costa Smeralda. Ma cosa ha detto Grillo nel video che sta girando in rete? “Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi… Io voglio chiedere veramente perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni, ce li avrei portati io in galera a calci nel culo“. “Allora perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c’è stato niente perché chi viene stuprato fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano”, ha detto ancora Grillo nel video. “E’ strano. E poi c’è tutto un video, passaggio per passaggio, in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così…perché sono quattro coglioni“. Le accuse della Procura di Tempio Pausania al figlio di Grillo e agli altri tre ragazzi sono, in realtà, molto gravi. “Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno“, “afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka” e “costretta ad avere rapporti di gruppo” dai quattro giovani indagati che hanno “approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica” di quel momento. Eccolo, nero su bianco, l’atto di accusa della Procura di Tempio Pausania a carico di quattro ragazzi della Genova bene, tra cui Ciro Grillo. Pagine su pagine di orrori, come apprende l’Adnkronos, raccontati dalla giovane studentessa italo-svedese S.J, di appena  19 anni, che avrebbe subito, nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019, una violenza di gruppo nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Beppe Grillo. Come si legge nelle carte della Procura “il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato” dalla giovane ragazza ed “è riconducibile a Beppe Grillo“.

Da liberoquotidiano.it il 20 aprile 2021. "Lo porto in Procura". Giulia Bongiorno, a L'aria che tira su La7, annuncia una nuova guerra legale contro Beppe Grillo, questa volta per il video con cui il comico e fondatore del Movimento 5 Stelle ha cercato di difendere il figlio Ciro, accusato di stupro di gruppo sue due ragazze. La violenza sarebbe avvenuta l'estate di due anni fa, nella villa in Sardegna di Grillo, nella stanza accanto alla quale riposava la compagna del comico e madre di Ciro, Parvin Tadjk, che intercettata e sentita dai magistrati ha sempre ribadito di non essersi accorta di nulla. Tra le carte dell'inchiesta anche un video girato da chi era presente nella stanza della presunta violenza. Secondo le ragazze, sarebbe la prova della colpevolezza di Ciro e dei suoi amici. Secondo gli accusati e Beppe Grillo, l'esatto opposto: "Sono dei 19enni che saltano con il pis***o di fuori, sono dei cog***i non degli stupratori", ha accusato il fondatore del M5s sui social lunedì pomeriggio, in un video che ha fatto molto discutere e in cui si chiede "come mai dopo la violenza la ragazza ci ha messo 8 giorni per denunciare". "Reputo che questo video sia una prova a carico - spiega la Bongiorno, senatrice della Lega, in collegamento con Myrta Merlino, documenta la mentalità del "non succede niente, sono cose che si possono fare". Questo metodo si chiama eufemizzazione, prendere delle cose importanti e ridurle in briciole, ed è il metodo usato da molti uomini per giustificarsi quando sono imputati. Credo che denoti una certa mentalità, quindi prendo questo video e lo porto in Procura". "Le colpe di Grillo non possono ricadere sul figlio", contesta la Merlino. "Però denotano la mentalità e linea di difesa - ribatte la Bongiorno, che è anche avvocato difensore di Matteo Salvini nei processi siciliani su Gregoretti e Open Arms -, ed è anche un messaggio: state attente vittime che adesso vi facciamo diventare imputate. Secondo me è un eloquente prova di quello che si vuole fare in futuro alle vittime, se andate avanti poi ci pensiamo noi. Ma noi non ci facciamo intimidire".

Anna Macina e il video di Grillo. Bongiorno e Salvini la denunciano, la Lega: "Si dimetta da sottosegretaria". Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. Un disastro politico. Anna Macina, sottosegretaria M5s alla Giustizia, in un'intervista al Corriere della Sera per difendere in qualche modo Beppe Grillo dopo il suo discusso video-sfogo sul figlio Ciro indagato per stupro pensa bene di attaccare Giulia Bongiorno e Matteo Salvini. E ora i diretti interessati minacciano di trascinarla in tribunale, mentre la Lega ne chiede le dimissioni dal governo. "Le insinuazioni della sottosegretaria Macina sono gravissime, insultanti e indegne di un membro del governo. La Lega chiede dimissioni immediate - recita una nota del Carroccio -. Ipotizzare che il senatore Salvini abbia visto il video di Ciro Grillo attraverso l'avvocato Giulia Bongiorno è inaccettabile: l'imbarazzo del Movimento 5 Stelle per una vicenda così grave e che coinvolge la famiglia del loro fondatore non è un buon motivo per infangare il senatore Salvini e l'avvocato Bongiorno. Il leader della Lega agirà contro il sottosegretario in tutte le sedi civili e penali". La Macina accusava la Bongiorno: "Mi ha gelato sentirla dire che porterà il video di Grillo in Tribunale, lasciando intendere che il comportamento del papà ricadrà sul figlio. Cosa vuole fare, il processo alla famiglia? Rabbrividisco". Replica secca della leghista definendo le parole della grillina "fantasiose e gravissime". "Mossa dalla cultura del sospetto (verso i nemici) che caratterizza il Movimento 5 Stelle, il sottosegretario Macina - continua Bongiorno - lede gravemente la mia immagine di essere umano, prima ancora che di avvocato, nel provare a insinuare che io abbia reso noti a chicchessia atti del processo. Mi occupo di violenza sulle donne da decenni come a tutti è noto. Ho assunto questo incarico un anno dopo la denunzia che ha dato vita alle indagini e non ho mai parlato con nessuno di questo procedimento nonostante le numerose e pressanti richieste dei giornalisti. Il sottosegretario Macina dovrà rispondere di queste affermazioni farneticanti in sede giudiziaria". La Bongiorno, in diretta a L'aria che tira su La7, aveva considerato il video di Grillo una "evidenza a carico del figlio Ciro" in quanto "indicatore di un clima culturale", quello che punta a far passare per carnefici le vittime, in questo caso la ragazza che avrebbe subito il presunto stupro 2 anni fa nella villa sarda del comico e fondatore del Movimento 5 Stelle.

Liana Milella per repubblica.it il 22 aprile 2021. "Accuse farneticanti". "Da immediate dimissioni". "Accuse che finiranno in tribunale". "Perché agirò nei suoi confronti in quanto si lancia in accuse gravissime e del tutto fantasiose contro di me". È furibonda Giulia Bongiorno contro la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, avvocata pugliese e grillina. In un'intervista al Corriere della Sera Macina ipotizza che Bongiorno, da avvocato della ragazza che ha denunciato il figlio di Beppe Grillo per violenza, possa aver rivelato al leader della Lega Matteo Salvini il contenuto di un video di cui parla lo stesso Grillo. In pratica utilizzando atti di un processo per uno scopo politico. E proprio su questo passaggio esplode la collera di Bongiorno che ne parla con Repubblica, mentre la Lega ne chiede le dimissioni: "Le insinuazioni della sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina sono gravissime, insultanti e indegne di un membro del governo" attacca il partito di Salvini in una nota.

Ha letto l'intervista?

"Sì, certo. Porterò questa sottosegretaria in tribunale e agirò nei suoi confronti per le accuse farneticanti che mi ha rivolto".

La Lega chiederà le sue dimissioni?

"Certo. Un sottosegretario di Stato alla Giustizia deve garantire l'imparzialità della giustizia.  Non può schierarsi contro un legale. Io ho difeso la vittima da un attacco scomposto di Beppe Grillo".

Macina fa scrivere che lei avrebbe mostrato a Salvini gli atti e quindi userebbe questo processo per scopi politici.

"Ma di cosa parla? Chi dice una cosa del genere non conosce me e tutta la mia storia. Io ho sempre tenuto rigorosamente distinta la mia attività di avvocato da quella politica. E ovviamente l'ho fatto anche in questo caso".

Cioè non ne ha mai parlato a Salvini?

"Io non parlo né con Salvini né con altri della mia attività professionale. Mai. Su tutta la vicenda di questa ragazza io ho tenuto sempre il massimo riserbo. Dalla Macina, ma anche da altri esponenti di M5S, arrivano accuse deliranti".

Perché?

"Ho assunto questa difesa nel 2020, quindi un anno dopo i fatti. E per mesi di fronte alle insistenti richieste di interviste ho perfino negato di aver assunto questo incarico. Dirò di più...".

Mi dica.

"Quando mi è stato chiesto di assumere l'incarico ho preso tempo prima di accettare e ho fatto presente alla ragazza e ai genitori che la mia nomina avrebbe potuto essere oggetto di strumentalizzazione politica. La famiglia, conoscendo il mio impegno nella difesa delle donne, ha manifestato massima fiducia nei miei riguardi e alla fine ho accettato. Quando ho accettato non ho comunicato a nessuno il mio mandato. A nessuno".

Però in questi mesi ha ricevuto pressioni per raccontare dettagli sulla storia.

"Certo che ne ho ricevute. Soprattutto da voi giornalisti. E ho detto e ripetuto che gli atti del processo erano conservati nella mia cassaforte personale e che nessuno, neppure i miei collaboratori di studio, potevano vederli. Nonostante dozzine di telefonate ho sempre detto che non avrei diffuso una sola carta di questo processo per tutelare la riservatezza e la serenità della mia assistita".

E non ne ha parlato con Salvini?

"Della vicenda giudiziaria no. Ho parlato con tutti e anche pubblicamente del fatto che il video di Grillo era sorprendente anche perché con Bonafede avevamo allungato i termini per proporre la querela e Grillo nel video attacca la vittima dicendo che avrebbe impiegato ben 8 giorni per denunziare. In tv e con chiunque ho commentato questo. La sottosegretaria Macina delira e finirà in tribunale per questo".

Giulia Bongiorno, "tutto cominciò con Andreotti": la verità mai raccontata, così l'avvocato è diventata regina. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. Mettiamoci nei panni di chi si trova ad avere per avvocato, anzi per avvocata, Giulia Bongiorno. Che cosa prova? Sicurezza. Non quella metallica dei lucchetti, ma qualcosa persino di spirituale. Il salmo dice: «Sono tranquillo come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». L'accusato, se c'è lei, prova la stessa sensazione di Frodo Baggins che porta il peso infinito dell'anello e non ce la fa più, ma ecco viene afferrato dall'aquila e viene adagiato sulle morbide ali. Eppure lei è esile, una canna di fucile spettinata. Chi l'ha osservata in aula a Catania e l'ha scorta a Palermo mentre difendeva Matteo Salvini ha capito che c'era sì il capitano, con le sue pose vagamente marsupiali, ma aveva abdicato il comando alla generalessa, la cui unica imponenza sta nella tensione elettrica che la circonda e fa vibrare l'aria dei tribunali. Una protezione insieme elettrica e materna. Per questo osiamo dire «avvocata nostra». Lei che conosce il catechismo e la Salve Regina balza su: sacrilegio! Sicurezza che ha due ragioni. La prima è l'esperienza che si fa standole accanto prima e durante i processi. Questa donna ha la capacità di assorbire le preoccupazioni del suo cliente, non perché sia una maga della psicologia, ma per lo spettacolo in cui introduce quello che un momento prima si sentiva perduto e si trova al centro dell'officina di Vulcano. Non un secondo è perduto, si forgiano spade, lì dentro. Ha il suo metodo: Giulia lascia che il racconto del suo patrocinato, le carte dei pm, le memorie dei legali avversari entrino non nella sua pancia (non ne ha) ma nelle proprie ossa, si mescolino al midollo della sua scienza giuridica, diventando una pietra angolare del suo tempo, dei suoi sentimenti, del suo stesso destino. Quando vedi una che lavora così, resti incantato ma non rimbambito.

L'officina di vulcano. La seconda ragione per cui anche il più refrattario alla serenità si pacifica è la statistica. Non mi risulta abbia mai perso una causa. Lei mi risponde: «Dipende dall'obbiettivo. Se c'è la certezza della colpevolezza, vincere significa ottenere le attenuanti». Ho cercato di ricordare a chi si riferisse. Ma certo, a Francesco Totti. Nel 2004 era stato filmato mentre sputava a un danese. Lei riuscì a dimostrare che quella prova era stata raccolta tenendo fissa, ossessivamente, una telecamera su di lui, fino a moltiplicare l'impatto di un fatterello da quasi niente. Del resto i giocatori in campo non fanno altro che scatarrare... Pena ridotta. Per il resto ha portato tutti all’assoluzione. Ha imparato dai suoi maestri: lo scomparso Gioacchino Sbacchi, che la assunse a Palermo a 26 anni e la portò al processo Andreotti, di cui era difensore insieme a Franco Coppi, il secondo maestro. Diversissimi tra loro, e diversissimi da lei che ha attinto da Sbacchi la pazienza e lo scrupolo nello studiare a memoria le carte, fino a trovare un rigo in cui l’accusa incespica; mentre da Coppi ha raccolto la furia meticolosa e la prontezza di riflessi nel piazzare una batteria di cento domande al testimone. Legge cinque volte tutte le carte. Le sue note finiscono su fogli di diversi colori. Quelli più accesi laddove ci scappa il colpo fatale all’avversario, via via in toni pallidi per le questioni di gradazione meno decisiva. Ma una cosa – come le diceva Sbacchi – si trova sempre. Scusate la presunzione, ma io sono stato il giornalista che ha la primogenitura della sua conoscenza. Seguivo, mandato alle sue costole da Vittorio Feltri, Giulio Andreotti con tutti i suoi guai di mafia. Il 26 settembre si aprì il «processo del secolo» nell’aula bunker di Palermo. A sera, mi arrivò una chiamata in camera all’Hotel des Palmes. Era Andreotti: «Ha finito l’articolo? Vorrei che cenasse con me e i miei avvocati». Nella sua stanza, con il cardigan blu, stava seduto e versava del bianco il divo, pallido come sempre. C’erano al tavolo Sbacchi, Coppi e il suo avvocato storico, il modenese Odoardo Ascari, e poi c’era quella ragazzina smilza, 29 anni, ma ne dimostrava meno, e mi fu presentata. Giulia e io – i più giovani – non dicemmo una parola. Ho gli appunti di quei discorsi, qui cito solo il desiderio di Andreotti di avere una certa cassata-gelato dalla tal pasticceria, prima però il vitello tonnato. Capitò altre volte di ritrovarci a tavola con la medesima compagnia, e lei cresceva di udienza in udienza nella considerazione degli altri avvocati e di Giulio. Il mattino prestissimo accompagnava l’imputato a messa per fargli compagnia. Lei studiava e studiava. Andreotti non sopportava di vederla smunta perché dormiva poco e lavorava di domenica. Erano gli anni in cui la sinistra lottava per le 35 ore. «Pensa se ti vedesse Bertinotti», le diceva (lei lo imita). 

Studio e ancora studio. Il suo capolavoro fu al processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, e si risolse – come capita - in un disastro. Era successo che lei aveva smontato il movente dell’accusa. Secondo i pm Andreotti avrebbe commissionato alla Banda della Magliana l’assassinio del direttore di OP, perché in possesso di una copia integrale del memoriale Moro, consegnatagli da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quella pubblicata – dattiloscritta – sarebbe stata purgata da pagine scomode. Quella vergata a mano da Moro fu in effetti ritrovata dietro un’intercapedine (ma questo è un altro articolo) nel 1990. C’erano pagine inedite, tra cui quelle su Gladio. I pm dissero: allora è vero! Pecorelli ricattava Andreotti, era in possesso di rivelazioni che inchiodavano Belzebù. Bongiorno, come una egittologa con i geroglifici, meticolosamente, sotto la lente, con il raffronto sillaba a sillaba, paragonò le due versioni. Su Andreotti non c’era nulla di nuovo. Movente bruciato. Andreotti assolto! Fu così in primo grado. Ma in appello, di domenica sera, 17 novembre 2002, condanna! 24 anni per omicidio. L’avvocato svenne, era in motorino in piazza San Lorenzo in Lucina – mi disse la segretaria di Andreotti, Lina Vido, citando Dante, – e «cadde come corpo morto cade». Si appurò che tutto dipendeva forse dalla celiachia, ma la sberla era l’ingiustizia. L’aveva tramortita il pensiero che il suo assistito, fidandosi di lei, ora rischiava di morire - aveva 83 anni - lasciando sui propri cari l’onta di una condanna senza rimedio. Racconta adesso che quella volta Andreotti le diede una grande lezione. Le fece giungere una coppa d’argento, premio per una antica regata. Con queste parole incise: «Nelle regate chi gira per primo la boa spesso perde». Era lui che confortava l'avvocata nostra amen. Per lei, più importante che l’essere congratulata dopo la vittoria, era l’aver fatto contento il cliente mentre si aspetta la sentenza. Ho dato tutto, sono stata brava. In Cassazione Giulia, con Coppi, trionfò.

«E' giusto esserci». Una curiosità mi sono tolto con lei. Ma Andreotti è stato assolto anche a Palermo, o è stato riconosciuto colpevole per fatti passati in prescrizione? Lei è arci-convinta e arci-decisa. «E' stato assolto. Punto. La Cassazione è chiamata a dare solo giudizi di legittimità». Insomma: la Corte d’appello ha legittimamente optato per la prescrizione, così come legittimamente il Tribunale aveva ritenuto di escludere qualsiasi ipotesi criminosa. Scrive il giudice estensore che «non è consentito scegliere quale delle due sentenze di merito sia più rispettosa dei consueti canoni ermeneutici». La Cassazione lascia che ciascuno si tenga la sua convinzione. E Giulia ha la sua. Fuori dello studio di Giulia Bongiorno in piazza San Lorenzo in Lucina ieri le facevano la posta con le telecamerine alcuni giornalisti. Telecamerine a parte, stesse scene di 25 anni fa. Da questa porta usciva allora Andreotti. Lei ne ha ereditato la scrivania, gli uffici, forse anche l’ironia e l’idea che non ci si ritira. Il crocchio di cronisti si spiega perché l’avvocata difende Silvia J., la ragazza che ha denunciato il figlio di Grillo e i suoi compari per stupro. Le vogliono spremere qualche parola. Giulia Bongiorno è una magra Pentesilea, la regina delle Amazzoni, e come tale difende il suo reame femminile. Del tutelare le donne offese ha fatto ragione di vita. Ha accettato di entrare in politica per questo. Con Michelle Hunziker ha messo su una fondazione che prova a strappare dal gorgo maligno queste sorelle indifese. Ma Draghi? Si scopre che è stata lei a spingere Salvini ad entrare nel governo, e a rimanerci. Ma come? Tu lo difendi dai comunisti che lo vogliono in galera, e poi lo convinci a unirsi alla congrega? «Qui Salvini mostra la sua tempra. Comprendo la contraddizione, e la capisce lui. Ma c’è qualcosa di più importante. E' una fase storica che non ha precedenti, stare al governo oggi coincide con il momento costituente del dopoguerra, persone diversissime gettano le fondamenta del futuro. Siamo al governo per spingerlo ad andare oltre. Oltre nelle riaperture. Oltre sull’immigrazione. Oltre sulla giustizia. Siamo con la Cartabia, ma non ci si può fermare alle regole e alle procedure, occorre una riforma più vasta e incisiva nel campo della giustizia penale». Stare al governo costa in termini di consenso... «Sono una che in tutti i campi crede debba prevalere l’etica delle scelte sulla convenienza della bottega. E' giusto esserci».

Le (indegne) accuse 5s per coprire il fango di Grillo. Andrea Indini il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. L'inchiesta sul figlio di Grillo accusato di stupro finisce in politica quando il comico entra a gamba tesa con un video vergognoso. Il M5s, già in crisi per la rottura con Casaleggio, sprofonda nel baratro. Per risollevarsi lancia accuse infamanti contro Salvini. All'inizio di tutto c'è un'inchiesta aperta. Da una parte Ciro Grillo, figlio dell'ex comico nonché garante del Movimento 5 Stelle, dall'altra una italo-svedese che lo accusa di averla stuprata nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019 al termine di una serata alcolica iniziata nella discoteca Billionaire e finita all'alba nella casa del giovane. Le indagini vanno avanti da tempo. Presto, molto probabilmente, si andrà a processo. A far uscire il caso dalle mura della procura di Tempio Pausania, in provincia di Sassari, dove gli inquirenti ipotizzano la violenza sessuale di gruppo nei confronti della giovane conosciuta in vacanza, e a portarlo dritto nelle stanze del potere romano, è lo stesso Grillo senior pubblicando un video vergognoso in cui per difendere la figlio si mette a infangare pubblicamente la ragazza. Un minuto e mezzo di violenza verbale che scatena l'indignazione generale. Non nel Movimento 5 Stelle, però. Al di là della timida presa di distanza di Giuseppe Conte e di qualche voce fuori dal coro, i grillini non solo non riescono a condannare il capo ma, pur di risollevarsi dal baratro in cui sono sprofondati, si mettono a lanciare accuse infamanti contro Matteo Salvini e Giulia Bongiorno. È un burrone che non conosce fine, quello in cui stanno ruzzolando giù Beppe Grillo e i suoi adepti. I problemi sono innumerevoli. Problemi di leadership e problemi di immagine. I primi stanno dilaniando il movimento ormai da mesi e rischiano di finire in una irrimediabile fuga da Davide Casaleggio e dai server della piattaforma Rousseau. È una guerra intestina che va avanti da tempo e che non troverà pace se non quando le due anime si manderanno a-farsi-benedire e andranno ognuna per la propria strada. Oltre a questi scossoni i pentastellati devono far fronte a un altro grattacapo. Non senza imbarazzi. Perché ce l'ha in casa il boss. È il reato infamante che i pm hanno appiccicato addosso a Ciro Grillo. La chiusura delle indagini deve aver fatto letteralmente sbroccare l'ex comico. Ed ecco il video choc sbattuto sul blog e su YouTube. Un minuto e trentanove secondi di delirio dove gli indagati diventano "ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello" di fuori, perché non sono quattro stupratori ma soltanto "quattro coglioni", e la ragazza viene dipinta come una bugiarda cha ha denunciato soltanto otto giorni dopo. Non è solo la ferocia con cui attacca la giovane a fare impressione. C'è anche la gogna ordita sui canali generalmente usati per la propaganda politica a moltiplicare la potenza e la violenza del messaggio. Lo capiscono anche all'interno del movimento. "Io ci ho messo 6 mesi per denunciare la violenza", si dissocia Federica Daga. Non è la sola. Ma il dissenso è circoscritto. I vertici del Movimento 5 Stelle tacciono dinnanzi alla zampata del capo. Solo Conte accenna un passo indietro. E gli altri? Muti. Persino il ministro per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone, che lo scorso 8 marzo (festa della donna) aveva pubblicato uno scatto con i piedi sopra il tavolo e la felpa dei Nirvana per sbandiera tutta la sua emancipazione femminile, si guarda bene dall'inorridere. "Credo sia davvero meschino entrare nel merito di una questione che riguarda privati cittadini, che non conosciamo e su cui sta lavorando la magistratura", scrive (soltanto oggi) su Facebook. "È meschino rendere spettacolo una vicenda che evidentemente fa soffrire le molte famiglie coinvolte". Viene da aggrottare la fronte, senonché c'è chi riesce a fare persino di peggio. In una intervista al Corriere della Sera la collega Anna Macina, sottosegretario alla Giustizia, prende di mira la Bongiorno, avvocato difensore della ragazza che denuncia Ciro Grillo (oltre che senatrice della Lega), accusandola di aver passato sotto banco informazioni a Salvini. "In tv ha riferito di averne parlato con la Bongiorno - si legge - e ha detto di aver saputo altri dettagli. Non è che questo video che non doveva vedere nessuno, lui l’ha visto? Sarebbe grave". Le insinuazioni della Macina sono gravissime. Tanto più perché vengono da un membro del governo. E non uno qualunque. "Un sottosegretario di Stato alla Giustizia deve garantire l'imparzialità della giustizia - tuona la Bongiorno in una intervista a Repubblica - non può schierarsi contro un legale". Ora, mezzo parlamento vuole la testa della Macina. Non c'è solo il Carroccio a chiederne le dimissioni. Anche Forza Italia, Italia viva e Fratelli d'Italia pretendono l'intervento del Guardasigilli Marta Cartabia. "Quella va licenziata!", è il refrain che irrompe nell'Aula della Camera. I grillini, però, fanno quadrato. E quello che sembrava uno scivolone di un improvvisato sottosegretario diventa, di punto in bianco, l'arma con cui attaccare il nemico leghista. "È legittimo avere un dubbio - dicono i pentastellati - e su questo dubbio ci aspettiamo dei chiarimenti". Esattamente come Grillo ha infangato la giovane che chiede giustizia, la Macina, dal suo scranno al dicastero di via Arenula, getta infamie contro la Bongiorno. Una zampata per provare a coprire il fango dell'ex comico e i guai di un movimento che ogni giorno che passa si sta sgretolando sempre di più.

La Cartabia striglia Macina: "Serve riserbo". Francesca Galici il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. Dopo l'intervista rilasciata al Corriere della sera con le accuse a Giulia Bongiorno, il ministro Cartabia ha convocato Anna Macina per un confronto. Anna Macina, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, è nella bufera da questa mattina, da quando è iniziata a circolare l'intervista rilasciata dal sottosegretario della Giustizia al Corriere della sera. Anna Macina ha insinuato il dubbio che Giulia Bongiorno possa aver rivelato in qualche modo a Matteo Salvini il contenuto di uno dei video inerenti il caso di Ciro Grillo, figlio del leader del Movimento 5 Stelle. Accuse pesantissime nei confronti dell'avvocato della ragazza, presunta vittima del gruppo di amici che avrebbero abusato di lei in Costa Smeralda nell'estate del 2019. Questo pomeriggio il ministro Marta Cartabia ha convocato il sottosegretario per chiarire la posizione: "Una posizione istituzionale richiede il massimo riserbo sulle vicende giudiziarie aperte".

Il caso. Il clamore suscitato dall'intervista al Corriere di Anna Macina ha destato molto clamore e inevitabilmente la questione è finita sulla scrivania della Guardasigilli. Una situazione delicata che si inserisce in un contesto ancora più particolare, quello del caso Grillo. Per questo motivo Marta Cartabia ha convocato Anna Macina in via Arenula alle 18 per capire e avere spiegazioni su quanto dichiarato al quotidiano. Il ministro della Giustizia ha chiesto riserbo al suo sottosegretario, rimarcando la linea che la Cartabia ha chiesto ai suoi più stretti collaboratori fin dall'inizio del suo mandato. Un riserbo che, stavolta, è mancato da parte di Anna Macina. Oggi è stata una giornata molto complicata in tal senso, perché le sue parole sono arrivate proprio nelle ore in cui l'Associazione nazionale magistrati si è spesa in difesa dei magistrati di Tempio-Pausania impegnati nel caso di Ciro Grillo. La ragazza che ha denunciato i fatti è seguita proprio dall'avvocato Giulia Bongiorno e lei avrebbe mostrato a Salvini i video di cui lo stesso Beppe Grillo ha parlato nel suo ormai noto intervento video in cui ha tentato di difendere il figlio.

Le giustificazioni. Alla luce della bufera mediatica, Anna Macina nel pomeriggio aveva provato a giustificare le sue affermazioni: "Le mie parole erano, e sono, un invito a sgombrare il campo da equivoci e ambiguità su una vicenda rispetto alla quale non mi sono mai permessa di entrare nel merito ma che non deve essere politicizzata". Il sottosegretario conclude: "Sono stupita dal polverone che ne è nato, da parte mia nessuna accusa ma un semplice interrogativo, sorto dopo alcune dichiarazioni a mezzo stampa del senatore Matteo Salvini. Solo la richiesta di chiarezza e trasparenza".

Le polemiche. Durante la giornata si erano rincorse le critiche e le lamentele per il comportamento di Anna Macina. La Lega ha annunciato di aver presentato un'interrogazione parlamentare a Marta Cartabia sulla compatibilità di Anna Macina, della quale ha chiesto le dimissioni. Enrico Costa, avvocato e responsabile Giustizia di Azione! ne ha chiesto il licenziamento già dal mattino: "La sottosegretaria M5S alla Giustizia attacca sui giornali l'avvocata della ragazza che ha denunciato il figlio del suo leader e insinua che gli atti siano diffusi dalla difesa per fini politici. La ministra Cartabia, che ha fatto del riserbo il suo stile, la cacci seduta stante". Mentre il M5S ha difeso il sottosegretario, il Partito democratico ha preferito la linea del silenzio. Forza Italia, invece, ha protestato definendo l'intervento "del tutto improprio", così come Italia viva ha etichettato come comportamento "grave" quello di Anna Macina, soprattutto perché si tratta di "una donna che rappresenta le istituzioni".

“Il Fatto” abbandona le sue asprezze manettare. Travaglio passa dalla nostra parte, col solenne editoriale in difesa di Ciro Grillo apre la crociata garantista. Alfredo Romeo su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Caro Direttore, stavolta la lettera la mando direttamente a te. Avrei voluto mandarla al mio amico Travaglio, così la faceva leggere anche a Marco Lillo (è importante che a Lillo certe cose siano dette) ma poi ho pensato che tanto lui le mie lettere e le mie interviste non le pubblica mai, e allora le mando direttamente a te. Comunque la lettera che volevo scrivere a Travaglio era una lettera di sperticate lodi. Se le merita, dammi retta, e se posso darti un consiglio è questo: smettila di polemizzare con lui, ormai lui è passato dalla parte nostra, lui sta diventando il vero leader dello schieramento garantista, e questa è una fortuna. Sei scettico, come sempre? Non ci credi? E allora lèggiti non solo quell’articolo splendido di Henry John Woodcock del quale ti parlavo ieri – un capolavoro di difesa dello stato di diritto contro gli attacchi dei giustizialisti – ma soprattutto lèggiti il solenne editoriale scritto ieri di sua mano e penna da Marco Travaglio in persona, in difesa del giovane Ciro Grillo figlio di Beppe. Caro Sansonetti: tutto da sottoscrivere, dalla prima all’ultima parola, cristallino, liberale, eroico: molto più – non ti offendere – dei tuoi editoriali. Travaglio con il suo stile solito è spietato contro quei giornalisti che usano il sospetto come strumento di lavoro. Che sbattono sul giornale nomi e volti di indiziati che ancora non sono stati condannati fino al terzo grado. Apre una vera e propria crociata garantista, che ha per obiettivi i magistrati dal sospetto allegro e i giornalisti che fanno i velinari e considerano l’accusa più importante della difesa. E infatti – penso che tu l’abbia notato – Il Fatto è stato l’unico giornale che si è comportato in modo esemplare sul caso Grillo. Mentre tutti i giornaloni (compreso, devo dire con rammarico, il nostro) sbattono in prima pagina le urla di Grillo contro i magistrati e contro quella ragazza che sostiene di essere stata stuprata dal figlio di Grillo, Il Fatto, giustamente, mette la sordina. Un richiamino in prima pagina, piccolo piccolo, e via. È la nuova linea. Vedrai che da oggi in poi il Fatto si comporterà così con tutti. Se dovesse arrivare un avviso di garanzia a Renzi, o a Berlusconi, non sarà certo Il Fatto a dare la notizia. Prudenza, prudenza, rispetto per gli inquisiti. E siccome tutti i giornali ci inzupperebbero il pane, puoi stare certo che il giorno dopo Travaglio si scatenerebbe con la sua polemica tagliente contro la stampa asservita ai Pm. Direttore, sono contento. Finalmente non siamo più soli. Alla fine il diritto vince sempre, e la ragione. Dammi la possibilità, attraverso il nostro giornale, di mandare un grazie sentito a Marco.

Alfredo Romeo. Nato a Cesa (Caserta) l’1 marzo 1953, si è laureato in Giurisprudenza nel 1977 presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II ed è iscritto all’Albo degli Avvocati di S. Maria Capua Vetere. Dopo una breve esperienza come Direttore Generale e poi come Amministratore Delegato di una Società immobiliare fonda nel 1979 la Romeo Immobiliare, nel 1985 la società finanziaria Romeo Investimenti, nel 1989 la Romeo Gestioni e nel 2001 la Romeo Alberghi e la Romeo Partecipazioni costruendo così negli anni il Gruppo Romeo il quale, interamente posseduto dalla famiglia Romeo, rappresenta oggi la prima realtà in Europa nell’offerta di servizi integrati alla proprietà immobiliare.

Beppe Grillo, il retroscena: "Perché ti ho telefonato". Voci drammatiche, come si è ridotto il capo del M5s. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. Il Movimento5Stelle è in un momento critico. Oggi scade l’ultimatum che Rousseau aveva lanciato ai parlamentari morosi ("o vengono sanate le pendenze o le nostre strade si separano") e il caso creato dal video di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro, non cenna a placarsi. l'imbarazzo da parte dell'alleato Pd è evidente: al Parlamento europeo i dem hanno deciso per esempio di rinviare la risposta alla richiesta di incontro avanzata dai colleghi a 5 Stelle per parlare della possibile adesione al gruppo dei Socialisti e Democratici. C'è in atto se non una retromarcia, almeno un rallentamento dopo le parole esagitate dell'ex comico. Grillo anche è in grossa difficoltà. Ieri, mercoledì 21 aprile, ha telefonato ad alcuni big chiedendo parole di solidarietà. Così prima Danilo Toninelli ("Esprimo totale solidarietà a Beppe Grillo, come padre, per la sofferenza che sta subendo e totale disprezzo nei confronti di quelli che fino a ieri erano i garantisti, anche quando beccavano un politico con la mazzetta in mano. Sia politici che organi di informazione") e poi Laura Castelli ("comprensione per le parole di un padre, che è un uomo che conosciamo, che vengono strumentalizzate dal punto di vista politico"), si sono prestati alla richiesta di aiuto. Ma le critiche interne nei confronti di Grillo sono tante. Come quella di Raffaella Andreola, componente del collegio dei probiviri, spiega che, "mi sono sentita in imbarazzo per quanto ho visto in quel video e chiedo al Movimento di fare chiarezza. Come donna chiedo rispetto per ogni donna, per la sua libertà e per la sua dignità". Inoltre a creare altre polemiche l'idea di Ciro Grillo di postare su Instagram il video del padre. Con oltre duemila commenti, in maggior parte  insulti o giudizi negativi per lui e per il padre. Insomma il momento politico per i grillini non è proprio dei migliori.

Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto.

Dagospia il 22 aprile 2021.Estratto dell'articolo di Maddalena Oliva per il "Fatto quotidiano". Confesso, quel video l'ho dovuto interrompere. E ho anche una certa difficoltà a leggere i tanti articoli e commenti di questi giorni […] E, invece, se il video di Beppe Grillo ha un pregio (l'unico) è di aver acceso, suo malgrado, il dibattito su un tema - la violenza, lo stupro presunto o tale, la vittimizzazione secondaria, il linguaggio, il #MeToo - troppo spesso relegato a questione di genere. […] Non mi sconvolge tanto la brutalità del messaggio di un padre, che però è pure un politico e in quanto tale deve rispondere di quanto dice e assumersene la responsabilità. […] attraverso il linguaggio, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione. Ecco perché siamo qui a discutere del video di Beppe Grillo. Non perché io voglia entrare su una dolorosa vicenda privata […] Ma perché le parole hanno un potere. A maggior ragione se usate in una storia di violenza, per quanto presunta. Le parole offrono sempre un linguaggio condiviso. Ma da chi e per chi, in questo caso? Il sottotesto […] del linguaggio di Beppe Grillo è: la ragazza "è una furbetta". Perché, cito testuale, "non è vero niente". Perché "è andata a fare kitesurf il pomeriggio". Perché "dopo 8 giorni fa la denuncia". Perché era lì, "consenziente", che si divertiva anche lei in "un gruppo che ride", perché "si vede che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello perché sono 4 coglioni, non 4 stupratori". Io non so come siano andati i fatti quella notte […] ma così come esiste la presunzione di innocenza per gli accusati (anche se si chiamano Grillo) e il loro diritto a difendersi, esiste anche il diritto della vittima - tale è, fino a prova contraria - a non essere offesa. Umiliata. Colpevolizzata. Beppe Grillo, se è convinto dell'innocenza del figlio, non poteva come tutti i normali cittadini aspettare la fine delle indagini, l'esito di un eventuale processo e, poi, se la magistratura darà ragione a lui e a suo figlio, sporgere eventuale querela contro la ragazza? Nell'attesa però, si dirà, il figlio viene completamente sputtanato. Mai, mi permetto di replicare, come dopo il videomessaggio del padre. […]

Emilio Pucci per "il Messaggero" il 22 aprile 2021. «Mi dovete sostenere, qui colpiscono mio figlio per prendersela con me». C' è tutta la rabbia nelle parole di Beppe Grillo che martedì sera ha sentito al telefono i big M5s. Le distanze prese dai vertici e dai parlamentari le ha interpretate come delle coltellate alle sue spalle. «Non mi avete difeso», l'accusa. L'Elevato non ha intenzione di fare marcia indietro. Ieri avrebbe voluto fare un altro video ma è stato stoppato: «Meglio di no». In realtà la base parlamentare si sarebbe aspettata un suo intervento ma per scusarsi, non certo per rilanciare. Ed è calato il gelo. Anche tra il fondatore M5s e Conte. I due si sono parlati ma ognuno è rimasto sulle sue posizioni. In tanti, in realtà, avrebbero preferito che l'ex premier fosse stato più esplicito nel condannare quel j'accuse contro tutti. E il caso rischia seriamente di minare l'asse con il Pd. Grillo è irritato anche con Letta che a suo dire avrebbe strumentalizzato la vicenda, non comprendendone l'intento. «In ballo c'è la vita di mio figlio che è innocente, tutto il resto sono interpretazioni», il suo ragionamento. Nessuna giravolta, quindi. Da qui il malessere tra le fila pentastellate. «E' stato un attentato al nostro credo, così ha bruciato la casa che ha costruito», una delle invettive di deputati e senatori. Il dato è che Grillo non è più intoccabile. Quelli che da sempre gli sono vicini non vogliono certo farne a meno. «Resta il nostro punto di riferimento. Non possiamo farne a meno», il refrain. Ma non la pensa così chi non ha condiviso le affermazioni dell' ex comico. «Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia», la protesta. Andreola, componente del Collegio dei probiviri M5s, ha espresso tutto il suo rammarico. «Devono intervenire i vertici», la sua richiesta. Domani è prevista un' assemblea dei deputati. All' ordine del giorno il bilancio, ma si parlerà ovviamente anche del caso Grillo. Difficile che questa volta si appalesi. E intanto il figlio Ciro è tornato su Instagram dopo un anno e mezzo di assenza, ricevendo pero' una marea di insulti. Ora il passaggio decisivo per M5s è la risoluzione del nodo Rousseau. Ci stanno lavorando lo stesso Conte insieme a Crimi. L'ex premier e i vertici pentastellati hanno paura di non poter fare a meno di Casaleggio. Hanno cercato altre piattaforme E-voting ma la caccia è stata vana. Solo Rousseau assicura garanzie di affidabilità e di riservatezza e non ha problemi di andare in crush. Il termine fissato per un accordo dal figlio di Gianroberto scade oggi. E' in corso l' ultima trattativa ma nei giorni scorsi è arrivata la mano tesa di Casaleggio che ha fornito tutti i dati degli iscritti M5s ma non l' uso del software. Tre le strade alle quali si sta lavorando: una è quella di accettare l' ingresso politico' di Casaleggio nel Movimento, ovvero la possibilità che lavori alla scrittura del manifesto e alle regole, anche quelle per le rendicontazioni. Ma deve far votare sulla leadership di Conte sulla piattaforma per sbloccare la partita: Davide vuole prima gli arretrati e non si fida. Da qui l' impasse. La seconda comporta un utilizzo di una piattaforma, diluendo il traffico degli iscritti in rete e accettando quindi meccanismi farraginosi. L' ultima ed è quella che potrebbe a questo punto essere la più percorribile è che Conte faccia qualcosa di nuovo, cambiando non solo il simbolo ma nei fatti costruendo un proprio partito e svuotando così M5s. Ora l' ex premier è ad un bivio ma il pressing affinché decida è sempre più forte.

"GRILLO SI SVEGLIA GARANTISTA ADESSO CHE ALLA SBARRA RISCHIA DI FINIRCI IL FIGLIO". Dagoselezione il 20 aprile 2021.

Selvaggia Lucarelli. Caro Grillo, tuo figlio è un presunto innocente, tu- oggi- un sicuro cretino.

Antonio Polito. Di che vi meravigliate? Grillo è sempre stato questo. Ha difeso anche il regime degli ayatollah. Disse che aveva scoperto che in Iran “la donna è al centro della famiglia”.

Nicola Porro. Grillo si sveglia garantista adesso che alla sbarra rischia di finirci il figlio. Ma dove sono finite le femministe? Non s'indignano per la frase sui giovani che "saltellano col pisello"?

Gianni Riotta. Quanti silenzi sulla requisitoria di Grillo su stupro politica e giustizia. Quante ipocrisie quante complicità quante mancate vergogne. Firme di donne e uomini sempre all'assalto di tutto oggi perdute spaventate omertose.

Matteo Renzi. Grillo prova a salvare la sua famiglia dopo aver distrutto quelle degli altri. Che scandalo: ha creato lui - per anni! - un clima d'odio. Le parole di Grillo, e il silenzio di Conte e Di Maio, dicono cosa sono oggi i 5Stelle. O forse cosa sono sempre stati. Sipario. 

Andrea Salerno. Il video di Grillo è inaccettabile. L’avesse fatto Salvini sarebbe stato crocifisso giustamente. Non c’è altro da aggiungere. Più di un grave errore.

Giusi Fasano. Donne del M5S che dicano almeno mezza parola per la ragazza ne abbiamo?

Luca Fois.Eh sì, uno stupro si può denunciare anche dopo 8 giorni, anche dopo 8 mesi, che sempre stupro rimane. E c'è anche chi perfino non ha la forza di denunciare, ma sempre stupro rimane. 

Paola Iperborea_Grillo è un involucro vuoto che sbraita, cerca di coprire con le urla il silenzio assordante degli ingranaggi della sua mente. È l'eco più becero della pancia del Paese, per questo mi terrorizza lui ma mi terrorizza soprattutto chi la pensa come lui. Anzi, chi NON PENSA, come lui.

Jacopo Iacoboni. Il video di Grillo è squallido, machista, sessista Una sinistra degna di questo nome stasera stessa direbbe: abbiamo provato a fare un percorso comune, ma non possiamo scendere a tanto. Mi aspetto poi che parli Enrico Letta. Proprio dopo le battaglie che ha fatto per le donne.

Lia Celi. Che poi questa teoria che se uno è coglione non può essere #stupratore mi è nuova. Io credevo fosse esattamente il contrario 

Elivito. Grillo dava alla Montalcini della "vecchia puttana" e chiedeva ai suoi seguaci cosa avrebbero fatto se si fossero trovati da soli in macchina con Laura Boldrini. Di cosa vi meravigliate? 

David Carretta. Ho visto il video di Grillo. Due cose. Un sospetto stupro è un sospetto stupro. In quanto tale va trattato. Compreso il rispetto della vittima e della presunzione di innocenza (entrambi calpestati da Grillo). Uno dei quattro coglioni con pisello in mano lo ha educato Grillo.

Dagospia il 19 aprile 2021. MAIL:

"NON E' VERO NIENTE – dice Grillo a proposito dei comportamenti del figlio -. PERCHE' UNA PERSONA CHE VIENE STUPRATA LA MATTINA, IL POMERIGGIO VA IN KITE SURF E DOPO OTTO GIORNI FA LA DENUNCIA…”. Dunque cosa ne pensa Beppe Grillo, l’elevato dei 5 stelle, delle due ragazze assistite dall’avvocato (di Corona) Chiesa che, mesi dopo una notte della quale non ricordano cosa sia successo, e dopo essersi riaccompagnate ad Alberto Genovese per altri giorni, lo hanno denunciato per stupro?

Come mai, proprio ora, Beppe Grillo si lancia in un'appassionata difesa del figlio Ciro dalle accuse di stupro? La sua è una sortita "preventiva", per tastare il terreno, vedere l'effetto che fa ma più da un punto di vista politico che giudiziario. Dopo la sua intemerata avete letto dichiarazioni di solidarietà in suo favore da parte dei maggiorenti grillini? Solo due: Alessandro Di Battista ("Sei un papà e ti capisco. Spero che tutto si possa chiarire e alla svelta") e Paola Taverna ("Ciò che prova Beppe a livello umano posso solo immaginarlo e da mamma gli sono vicina"). Gli altri, tacciono. Da Conte a Di Maio, tutti zitti.  Il povero Grillo, oltre ai guai del figlio Ciro, si ritrova solo all'interno del Movimento che ha creato. Si è "elevato" così tanto da non essere più visto da nessuno. Conte, indeciso a tutto, non "obbedisce" agli ordine e risponde solo alla sua personale confusione.

Dagospia il 19 aprile 2021.Riceviamo e pubblichiamo: "Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi...io voglio chiedere veramente perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni”. Perché due anni fa, negli stessi giorni, c’era da votare il nuovo governo Conte con l’entrata del PD. Fortunatamente, però, c’è un ritorno al M5S delle origini, della casa di vetro e dello streaming permanente, infatti “c’è un video in cui si vede che c’è la consenz ...(parola mangiata)” e “si vede che c’è il gruppo che ride che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo che sono in mutande e saltellano” concetto chiarissimo e che nessuno mette in dubbio, ma è proprio qui il punto, sul chi, del gruppo, si stesse divertendo. Infatti la situazione del trovare entusiasmante un video in cui i protagonisti girano "con il pisello così perché sono quattro coglioni e non quattro stupratori” risulta incerta dal punto di vista anatomica: se i giovani che si “divertivano” erano infatti quattro, i coglioni dovrebbero essere otto (a meno di disabilità, comunque non giustificatorie sul piano accusatorio). Rimangono due quesiti apicali rispetto alla conservazione di un video di una partouze sul proprio smartphone. O si stava lavorando ad attività, nobilissime e commerciali, nella sempre più emancipata categoria del porno. O si stava memorizzando materiale per attività ricattatorie e bullizzatorie. Quella dell’archiviazione digitale a fini di testimonianza politico sociologica o, in genere, partecipativa risulta claudicante. E comunque “non è vero niente perché una persona che viene stuprata la mattina e il pomeriggio va in kite surf e dopo otto giorni fa la denuncia … è strano” dimostra quello che tutti sanno: che la minigonna chiamava la violenza sessuale degli anni ’70 mentre gli sport acquatici, con le loro relative succinte mise sportive, la giustifica negli anni duemila. Giovanni Bertuccio

LA FOLLIA DI BEPPE GRILLO, OMICIDA STRADALE CHE GIUSTIFICA UNO STUPRO DI MASSA, PER “SALVARE” IL FIGLIO. Il Corriere del Giorno il 20 Aprile 2021. Le accuse della Procura di Tempio Pausania al figlio di Grillo e agli tre ragazzi sono molto gravi. “Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno”, “afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka” e “costretta ad avere rapporti di gruppo” dai quattro giovani indagati che hanno “approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica” di quel momento. “Siamo distrutti. Il tentativo di fare spettacolo sulla pelle altrui è una farsa ripugnante”. dicono all’Adnkronos, attraverso il loro legale Giulia Bongiorno i genitori della ragazza italo-svedese, che ha denunciato di essere stata stuprata, nel luglio del 2019, da Ciro Grillo, figlio del garante del M5S e tre suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria., sono tutti indagati dalla Procura di Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo. I genitori hanno visto il video mandato in rete da Beppe Grillo in cui dice che il figlio è innocente e in cui parla di “divertimento“. “Vi siete resi conto che non è vero niente che c’è stato lo stupro. Perché una persona stuprata la mattina, al pomeriggio fa kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia vi è sembrato strano. Bene, è strano – è questa la teoria farneticante ed arrogante di Beppe Grillo – E poi non è l’avvocato a parlare (che poi è suo cugino ! n.d.r. ) o io, che sono il padre, a difendere mio figlio: c’è il video. C’è tutto il video, passaggio per passaggio, si vede che è consenziente, si vede che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono 4 coglioni, non 4 stupratori e io sono stufo perché sono due anni“, aggiunge Grillo, visibilmente fuori controllo. Le accuse della Procura di Tempio Pausania al figlio di Grillo e agli tre ragazzi sono molto gravi. “Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno“, “afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka” e “costretta ad avere rapporti di gruppo” dai quattro giovani indagati che hanno “approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica” di quel momento. E’ questo, nero su bianco, l’atto di accusa della Procura di Tempio Pausania (Sassari) a carico di quattro ragazzi della Genova bene, tra cui Ciro Grillo. Pagine su pagine di orrori, raccontati dalla giovane studentessa italo-svedese S.J, di appena 19 anni, che avrebbe subito, nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019, una violenza di gruppo nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Beppe Grillo. Come si legge nelle carte della Procura “il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato” dalla giovane ragazza ed “è riconducibile a Beppe Grillo“. “Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati – ancora i genitori della giovane, che aveva denunciato il presunto stupro al suo ritorno a Milano da una vacanza in Costa Smeralda – cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell’’inedito’”. Ma cosa ha detto Grillo nel video? “Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi… Io voglio chiedere veramente perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni, ce li avrei portati io in galera a calci nel culo”. “Allora perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, non c’è stato niente perché chi viene stuprato fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano“, ha detto ancora nel video Beppe Grillo, che è bene ricordare ha alle spalle una condanna definitiva per omicidio colposo. “E’ strano. E poi c’è tutto un video, passaggio per passaggio, in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così…perché sono quattro coglioni”.

Le reazioni politiche. Il Partito democratico ha dovuto prendere con tutte le sue forze le distanze dal Garante M5S. Tutte le donne del Pd si sono schierate. I deputati come Andrea Romano e Matteo Orfini, oppositori interni dem della linea filo-M5S, si sono spinti a dire che questo “dovrebbe cambiare tutto” e “far stracciare ogni intesa“. Ma se anche le loro parole non vengono raccolte, se anche i vertici dem possono dire di trattare con Conte, non con Grillo, il problema c’è ed è gigantesco. “Nonostante sia evidente l’impatto emotivo per il coinvolgimento personale – dice il segretario nazionale PD  Enrico Letta a La Repubblica – sono frasi inaccettabili”. Alessia Rotta lo accusa anche di “retorica maschilista contro le donne. È un insulto per chi ha subito violenze“. 

Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva. “Non sta a me dire chi ha torto e chi ha ragione, per quello ci sono i magistrati. Ma che Beppe Grillo usi il suo potere mediatico e politico per assolvere il figlio è vergognoso”” attacca Maria Elena Boschi, deputata di Italia Viva : “Quando Beppe Grillo dice che suo figlio è chiaramente innocente perché non è né in carcere, né agli arresti domiciliari, dice una falsità da un punto di vista giuridico che non sta né in cielo né in terra». E ancora: «Anche quando ci spiega che sono solo dei “coglioni”, cito Grillo, quattro ragazzi che stanno scherzando, deresponsabilizza degli adulti maggiorenni. E lo fa semplicemente perché lui è famoso e può fare l’avvocato del proprio figlio“. E prosegue, nell’attacco rivolto a Grillo in veste di donna, di avvocato e di esponente politica, passando alla stoccata in punta di autocommiserazione e vittimismo. “Di che cosa si lamenta oggi Beppe Grillo? Di un clima schifoso, di un attacco verso la sua famiglia? Ma vi ricordate cosa ha fatto a me? A mio padre? Alla mia di famiglia?”. dice la Boschi “Mio padre è stato accusato di ben altri reati, certo non di stupro… Eppure quanto odio. Quanta volgarità. Quanta violenza verbale in quegli anni hanno accompagnato la mia famiglia. Spesso ispirati da Beppe Grillo e dal M5S. Eppure noi abbiamo aspettato che parlassero i giudici. Abbiamo aspettato che la giustizia facesse il proprio corso a differenza di Beppe Grillo. E allora oggi? Oggi Beppe Grillo ci spiega che ci sono due pesi e due misure. Che ci sono le regole e la morale che si applicano a lui e alla sua famiglia. E quelle che valgono per la mia di famiglia e quella di tutti gli altri attaccati ingiustamente negli anni dal M5S. Caro Grillo ti devi semplicemente vergognare“. L’ex-premier Giuseppe Conte con grande ipocrisia tace in un momento così delicato. Aveva deciso che questa sarebbe stata la settimana del lancio del nuovo statuto e della carta dei valori. Aveva spiegato alle persone a lui più vicine il perché di alcune scelte. Ma ora? Allucinanti le parole di solidarietà pronunciate “da padre” di Alessandro Di Battista. “Sei un papà e ti capisco. Spero che tutto si possa chiarire e alla svelta. Immagino siano stati due anni difficilissimi. Coraggio Beppe“, così come la dichiarazione cerchiobottista del reggente Vito Crimi: “solidarietà umana a Beppe Grillo“, ma “fiducia nella magistratura“. Sarebbe utile ascoltare quel che i 5 stelle dicono nelle loro conversazioni private, leggere i messaggi preoccupati che girano sulle chat, per capire come il video in cui un padre visibilmente disperato urla l’innocenza del figlio addossando la responsabilità di tutto a una ragazza che all’epoca aveva 19 anni e ai giornali, sempre ai giornali, sia devastante per il Movimento 5 stelle. 

Federica Daga, deputata M5S. “Umanamente mi dispiace per Beppe, il suo è il dolore di un padre. Quasi non riesco a commentare ciò che ha detto. Ho avuto una relazione con una persona violenta per un breve periodo e per elaborare quanto era successo ci ho messo sei mesi, poi ho denunciato“. racconta all’Adnkronos Federica Daga, deputata M5S, quando le viene chiesto di commentare le parole di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro, accusato di stupro di gruppo. Ed aggiunge: ““Io ringrazio che ci sia il codice rosso, che consente alle donne di denunciare anche dopo sei mesi dal fatto, mentre io ho avuto solo tre mesi e infatti non ho potuto denunciare tutto quello che mi era successo. Mi dispiace per Beppe, la giustizia è lenta e io sono in causa da cinque anni. Non può essere così lunga una causa, non sai cosa ti può succedere nell’attesa”. “Da Grillo garantismo a giorni alterni. Il sabato Salvini è colpevole, il lunedì suo figlio è innocente”, commenta Matteo Salvini. A cui si associa Forza Italia: “Grillo, fustigatore giudiziario per professione, manettaro per credo politico, adesso diventa iper-garantista a difesa, guarda un po’, del figlio Ciro, coinvolto in un’inchiesta per violenza sessuale”, commenta il capogruppo azzurro Roberto Occhiuto. “Tutti, ma proprio tutti sono garantisti con parenti e amici e forcaioli con gli avversari. Per la Lega se di mezzo c’è il processo a Salvini, vale la presunzione di innocenza. Se tocca al capo di Gabinetto di Giani è condanna istantanea. Il Pd applica esattamente lo schema opposto, tifando per la condanna di Salvini e difendendo i compagni di partito. Di Grillo abbiamo ascoltato oggi l’appassionato intervento, dopo anni a difendere il giustizialismo più sfrenato. Siamo rimasti in pochi ad essere garantisti senza se e senza ma“. dichiara in una nota Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione.

Azzurra Barbuto per "Libero Quotidiano" il 19 aprile 2021. In questi anni i pentastellati di contraddizioni ne hanno manifestate tante, anzi troppe. Ma la loro più grande antinomia si esprime senza ombra di dubbio in quel giustizialismo feroce, di cui vanno fieri, che li induce a scagliarsi contro gli avversari politici, indotti alle dimissioni anche solo per un avviso di garanzia, ossia ancora prima del rinvio a giudizio che potrebbe non sopravvenire. Giustizialismo che clamorosamente si affievolisce fino a spegnersi allorché a finire sotto la lente di ingrandimento delle toghe sono propri eletti o individui a loro vicini. Persino davanti a condanne i cinquestelle sono pronti a giustificare membri del Movimento consentendogli di restare al loro posto. È questo il caso, ad esempio, della sindaca di Torino Chiara Appendino, condannata lo scorso gennaio ad un anno e sei mesi per disastro, lesioni e omicidio colposi. Insomma, gli indagati degli altri partiti sono criminali, i condannati del M5s invece sono sempre e comunque innocenti, in barba al parere dei giudici. A sinistra Ciro Grillo, il figlio di Beppe, accusato di violenza sessuale di gruppo. A destra Renzo Bossi, il figlio di Umberto È questa la prova provata della ignoranza dei grillini, della assenza di cultura e preparazione giuridica, della assoluta mancanza di consapevolezza riguardo i principi fondamentali del diritto, su cui poggiano democrazia e civiltà. Con i cinquestelle al potere abbiamo fatto un salto nel Medioevo, quindi siamo tornati indietro di secoli. A questo proposito, preme fare notare un elemento non irrilevante. Questi onesti cittadini, come si autodefiniscono, che vanno all'attacco e scattano e si scandalizzano e si indignano allorché un individuo è sospettato di avere compiuto un illecito, non hanno speso una parola, neppure una, in relazione alla vicenda che vede coinvolto il figlio ventenne del comico Beppe Grillo, Ciro, accusato di violenza sessuale di gruppo, ossia in concorso con altri tre giovani genovesi, ai danni di una studentessa italo-svedese, la quale, secondo la ricostruzione dei magistrati, la notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019, sarebbe stata «costretta ad avere rapporti sessuali di gruppo in camera da letto e nel box del bagno», sarebbe stata «afferrata per la testa e obbligata a bere mezza bottiglia di vodka». Lo stupro sarebbe avvenuto proprio nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Grillo e i presunti autori del crimine avrebbero «approfittato delle condizioni di inferiorità fisica e psicologica» della diciannovenne, stando agli atti dei pm. In base alla Costituzione, i quattro indagati, che a breve, a quanto pare, saranno rinviati a giudizio, sono innocenti fino a sentenza definitiva. In base alla morale grillina, invece, morale che noi stessi rigettiamo, sarebbero da considerarsi già rei. E qui l'etica pentastellata entra in cortocircuito: dato che è figlio di Grillo, Ciro è non responsabile di ciò di cui è incriminato. Se fosse stato figlio di Matteo Salvini, o di Silvio Berlusconi, o di Giorgia Meloni, o di altri esponenti di partiti avversi, allora - questo è certo - sarebbero state lanciate invettive cariche di sdegno e pure pietre. Anche gli organi di informazione hanno trascurato questa faccenda, quasi a voler proteggere il comico. Non fu usata la medesima premura nei confronti di Renzo, figlio di Umberto Bossi, fondatore della Lega, su cui la stampa e certi partiti, ancora prima che il giovane venisse eletto nel Consiglio regionale lombardo, si accanirono, ridicolizzandolo in ogni modo e tacciandolo di avere avuto difficoltà a superare gli esami di maturità nonché di avere comprato la laurea in Albania. Del resto, lo stupro è meno grave di questa roba qui. E come dimenticare il casino mediatico scatenatosi nel 2015 su Luca Lupi, figlio di quel Maurizio Lupi allora ministro delle Infrastrutture del governo Renzi, colpevole di avere ricevuto un Rolex in regalo per la sua laurea da parte di un soggetto indagato? Il ministro Lupi, reputato dagli organi di informazione alla stregua di un corrotto nonostante non fosse neppure sotto indagine, dovette dimettersi per quello che fu presentato come uno scandalo. Poco dopo i pm di Firenze archiviarono l'inchiesta nella quale - è opportuno ribadirlo - Lupi non era stato neppure coinvolto, semplicemente il suo nome compariva due volte nelle carte in relazione al figlio Luca e a quell'innocente quantunque prezioso dono di laurea.

Mar. Gra. Per “il Fatto Quotidiano” il 14 aprile 2021. Nei giorni scorsi si sono presentati in Procura i tre amici - Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta - accusati di violenza sessuale di gruppo. Adesso sarà la volta di Ciro Grillo, figlio di Beppe, indagato a Tempio Pausania per il presunto stupro di una coetanea dopo una notte alla discoteca Billionaire di Porto Cervo, fatti che risalgono all'estate del 2019. Sulla vicenda, da tempo, c'è un riserbo massimo, al punto che persino il giorno dell'interrogatorio è stato mantenuto segreto, per aggirare i giornalisti. A denunciare i ragazzi una coetanea, poco più che ventenne, che ha denunciato di essere stata violentata nella villa di Grillo, un addebito smentito dai ragazzi, secondo cui ci fu un rapporto di gruppo consenziente.

"Afferrata per i capelli". Verso il rinvio a giudizio per il figlio di Grillo. Ignazio Riccio il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Per Ciro, figlio 20enne del garante del Movimento 5 Stelle, e per i suoi tre amici, indagati per violenza sessuale nei confronti di una giovane studentessa italo-svedese di appena 19 anni, lo spettro del processo. La Procura di Tempio Pausania, in provincia di Sassari, sta decidendo in queste ore se chiedere il rinvio a giudizio per Ciro, figlio 20enne del garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo, e per i suoi tre amici, accusati di volenza sessuale nei confronti di una giovane studentessa italo-svedese S. J., di appena 19 anni. L’episodio si sarebbe verificato nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019, nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Grillo. I magistrati attendono l'iter procedurale per poi prendere la decisione. Un procedimento blindato, blindatissimo, anche se sembrerebbe che la Procura sia orientata a chiedere il processo per i quattro ragazzi. L’accusa nei loro confronti è pesante. La 19enne sarebbe stata “costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno, dopo essere stata afferrata per i capelli e obbligata a bere mezza bottiglia di vodka”. Inoltre, i giovani avrebbero “approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica”. Come si legge nelle carte della Procura, "il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato dalla giovane ragazza ed è riconducibile a Beppe Grillo". Nei giorni scorsi sono stati interrogati i quattro indagati (Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria), i quali hanno respinto tutte le accuse e hanno parlato di "sesso consenziente di gruppo". Ma i Pm non gli credono. Un interrogatorio lungo, difficile, terminato solo in tarda serata. É stato il suo legale a chiedere alla Procura di sentire Grillo junior. Nel novembre scorso il magistrato ha chiuso le indagini e ha messo gli atti a disposizione della difesa, che ha chiesto un termine per fare le controdeduzioni ed eseguire le indagini difensive. A carico degli indagati ci sarebbero anche alcune fotografie che i consulenti della Procura hanno trovato sui cellulari e qualche intercettazione. La ragazza, che è difesa dall'avvocata Giulia Bongiorno, ex ministra leghista nel primo governo Conte, è stata più volte dagli inquirenti e ha raccontato, fin nei minimi particolari, quanto sarebbe accaduto in quella notte. I magistrati in quasi due anni di indagini hanno anche messo sotto controllo i telefoni non solo dei ragazzi, ma anche di Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo e moglie del comico genovese. La donna, sentita dai Pm, ha sempre raccontato che quella sera dormiva nell'appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente. Lo scorso 20 novembre, dopo più di un anno dai fatti, la Procura, guidata da Gregorio Capasso, ha inviato la notifica alle difese mettendo a disposizione il materiale agli atti. Il procuratore Capasso e la sostituta Laura Bassani, hanno inserito nel fascicolo le immagini ritrovate nei telefoni che, secondo l'accusa, mostrerebbero gli abusi anche ai danni della seconda ragazza che dormiva. E adesso, a giorni, è atteso il deposito della richiesta di rinvio a giudizio negli uffici del Gup del piccolo Tribunale di Tempio Pausania, guidato dal magistrato napoletano Giuseppe Magliulo.

Tommaso Fregatti Matteo Indice per "la Stampa" il 20 aprile 2021. Quattro video, una foto più importante delle altre e, novità dell' ultima ora, testimoni con ogni probabilità entrati in contatto con le vittime nei giorni successivi alla presunta violenza, che secondo i difensori potrebbero corroborare la versione d' un rapporto consenziente. Sono questi gli elementi cardine dell'inchiesta, giunta ormai alle soglie della richiesta di rinvio a giudizio, su Ciro Grillo e i tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti poco più che ventenni, genovesi e accusati di violenza sessuale di gruppo avvenuta nel 2019 nella casa in Sardegna del fondatore del Movimento Cinque Stelle. Contro queste accuse si è scatenato ieri Beppe Grillo con un video, suscitando le ire della famiglia. «Siamo distrutti. Il tentativo di fare spettacolo sulla pelle altrui è una farsa ripugnante», fanno sapere i genitori della ragazza attraverso una nota diffusa dal loro legale, Giulia Bongiorno. «Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l'angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell' inedito», aggiungono. Per quanto riguarda l'inchiesta a Grillo, Capitta e Lauria sono addebitati i soprusi su due studentesse (S. J. ed R. M., entrambe diciannovenni), a Corsiglia su una, ancorché violentissimo. I fatti risalgono alla notte del 17 luglio 2019, in un appartamento del residence "Pevero" a Porto Cervo. Il dato nuovo riguarda i testimoni a favore di cui Grillo jr ha parlato nell' interrogatorio di giovedì. Le indiscrezioni sono risicate, ma è acclarato che si tratta di persone, non presenti nell' appartamento, che potrebbero aver raccolto confidenze nei giorni successivi al presunto stupro. E da queste, nell' opinione dei legali, emergerebbero prove a sostegno della «consensualità» dei rapporti. La versione collide in pieno con i verbali di S. J., che avrebbe subito i soprusi più violenti e ha sporto denuncia alla stazione carabinieri Moscova di Milano, otto giorni dopo i fatti. «Ero completamente ubriaca - la dichiarazione reiterata ai militari dalla ragazza, il cui legale è l' ex ministra Giulia Bongiorno - hanno continuato a farmi bere pure dopo essere usciti dalla discoteca Billionaire e hanno abusato di me», con ulteriori ragguagli. Le sue parole sono state messe a confronto con il materiale trovato nei telefonini di tutti i protagonisti. In primis con quattro filmati che riprendono varie fasi della serata e dell' incontro fra i genovesi e S. J. La quale, secondo i pm, è in condizioni così precarie per l'alcol che le avevano fatto ingerire, da compiere atti contro la propria volontà. E così sintetizzano quella notte il procuratore capo Gregorio Capasso e la sostituta Laura Bassanini: «Gli indagati mediante violenza, costringevano e comunque inducevano S. J., abusando delle sue condizioni d' inferiorità fisica e psichica dovuta all' assunzione di alcolici, a subire e compiere atti di natura sessuale». Nell'elenco del materiale audiovideo compaiono poi gli screenshot di alcuni post sui social network, che ancora S.J. aveva diffuso in seguito. In quei commenti, secondo gli avvocati, non traspare affatto l'orrore rivelato più avanti e la vacanza è descritta come se nulla fosse. Per la parte civile si è trattato di un atteggiamento comprensibile: sotto choc, la diciannovenne avrebbe rimosso temporaneamente il trauma. Un altro scontro si profila su una fotografia emersa da uno smartphone degli indagati. Nello scatto si vede uno dei ragazzi (nelle prime carte della Procura è indicato come tale Ciro Grillo, ma sul punto ci sono dubbi e non sono esclusi aggiornamenti) immortalato in una posa a sfondo sessuale, come fosse davanti a una preda, accanto a R. M. incosciente per l' alcol, dopo che S. J. a parere dei pm aveva in precedenza subito una serie di aggressioni. Quello scatto ha materializzato la seconda contestazione di abuso e ha rinforzato agli occhi degli investigatori la credibilità di S. J: uno dei dubbi riguardava proprio il fatto che R. M., addormentata sul divano, non avesse sentito nulla. Le condizioni mostrate nell' immagine confermerebbero invece la coerenza del racconto, ma i difensori contestano questa prospettiva.

Gregorio Capasso, il magistrato che indaga su Grillo junior: "Presto tutto sarà chiarito". Giuseppe Filetto su La Repubblica il 21 aprile 2021. L'incontro con il procuratore di Tempio Pausania: "Le parole di Beppe Grillo? Non rispondo, ho il dovere di tutelare tutti". "Di questa indagine non posso e non voglio parlare: questo ufficio ha il dovere di tutelare tutti i soggetti interessati da questa vicenda. Che però quanto prima sarà definita", si limita a dire il procuratore capo Gregorio Capasso. L'inchiesta è quella a carico di Ciro Grillo, figlio di Beppe, il garante dei 5 Stelle, e di altri tre giovani della Genova Bene (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria).    

Francesca Bernasconi per ilgiornale.it il 22 aprile 2021. La vicenda sembra essere vicina alla conclusione del primo step: processo o archiviazione. A decidere sulla sorte di Ciro Grillo e degli altri tre ragazzi accusati di violenza sessuale sarà la procura di Tempio Pausania. "Presto questa vicenda sarà definita- ha dichiarato a Repubblica il procuratore capo Gregorio Capasso, che coordina l'inchiesta-Non passerà molto tempo". Sembra, quindi, che si avvicini una prima conclusione, che prevede la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro indagati o l'archiviazione. Anche se, stando agli elementi emersi nel corso dell'inchiesta e trapelati nei giorni scorsi, a carico di Ciro Grillo e dei tre coetanei che erano con lui nella villa in Costa Smeralda ci sarebbero immagini, video e intercettazioni che mostrerebbero quando avvenuto nella notte del 16 luglio 2019. Secondo l'accusa, i giovani avrebbero violentato la 19enne S.J., conosciuta al Billionaire e invitata nella villa del fondatore del Movimento 5 Stelle insieme all'amica R.M: entrambe sarebbero state costrette prima a bere alcol e poi, mentre R.M. dormiva, S.J. sarebbe stata costretta a "cinque o sei rapporti sessuali". A subire gli abusi sarebbe stata anche la seconda ragazza, stando a una foto choc che la mostra addormentata, mentre viene umiliata da uno dei ragazzi. A difendere le studentesse c'è l'avvocato Giulia Bongiorno, ministro del primo governo Conte, duramente criticata dal senatore pentastellato Danilo Toninelli che ha dichiarato: "Ma trovate normale che a parlare per conto della famiglia della vittima, dell'eventuale vittima, di quella ragazza, sia un politico? Lo stesso politico che difende Salvini nei casi delle Ong, Gregoretti, Open Arms… Cioè, a parlare per la famiglia della presunta vittima è una senatrice della Lega, che prende probabilmente gratuitamente, per strumentalizzare politicamente una roba del genere". La vicenda, sia per la gravità delle accuse che per le implicazioni politiche, è delicata. "Di questa indagine non posso e non voglio parlare- ha detto il procuratore capo di Tempo Pausania-questo ufficio ha il dovere di tutelare i soggetti interessati a questa vicenda. Tutti". Infatti, precisa Capasso, "da quando è esploso questo caso, non ho mai parlato con alcun giornalista". A Repubblica dice poche parole, alla presenza di un ispetttore di polizia e di un carabiniere, annunciando che la procura è vicina alla decisione. Non aggiunge molto altro. "Ma non è sempre così- precisa- si parla quando ci sono notizie ostensibili, questa volta no". E non risponde nemmeno all'attacco di Beppe Grillo, che nel video in cui difendeva il figlio, diceva: "Voglio chiedervi, voglio una spiegazione sul perché un gruppo di stupratori seriali, compreso mio figlio, non sono stati arrestati. Perché non li avete arrestati?". Secondo il procuratore, "non è il momento" di commentare queste parole e chiede: "Non mettetemi in difficoltà". Intanto, stando a quanto riporta Repubblica, il fondatore del Movimento 5 Stelle avrebbe già chiesto la collaborazione di un medico legale, per cercare di dimostrare l'innocenza dei ragazzi. Secondo la difesa, infatti, la ragazza sarebbe stata consenziente. È questo, ora, il nocciolo della questione, sul quale la difesa insiste.

Da adnkronos.com il 24 aprile 2021. Il video di Grillo in cui difende il figlio Ciro accusato di stupro? "Una sciocchezza mostruosa, un danno grave all'immagine della ragazza e anche del figlio a prescindere della decisione che prenderà il giudice". Così all'Adnkronos Antonio Di Pietro, ex magistrato del pool di Mani Pulite ed ex ministro dei Lavori Pubblici. "Nutro grande affetto per Beppe Grillo ma non posso condividere la sua scelta di fare quell'intervento video - ha aggiunto Di Pietro -. Da sottolineare il mancato rispetto nei confronti della ragazza, che sarà o non sarà vittima, ma certamente va rispettata come donna, e il mancato rispetto nei confronti del figlio". "Il processo si doveva svolgere all'interno del tribunale, dove si fanno valere le proprie ragioni. Ora si sono creati tanti pregiudizi, tante, troppe polemiche che finiranno per sporcare l'esito finale che decideranno i giudici, qualunque esso sia. Sono amareggiato, sono amico di Beppe e gli voglio bene ma gli sfoghi, questo genere di sfoghi, - ha detto ancora Di Pietro - si fanno davanti allo specchio e non davanti alla telecamera di un cellulare". Di Pietro ha poi voluto evidenziare che "c'è un altro aspetto molto imbarazzante a mio avviso: il silenzio vigliacco della dirigenza del Movimento 5 Stelle, sfuggono ai microfoni e non vogliono parlare. Ed il colpo dato al cerchio e alla botte da parte del democristiano Antonio Conte".

 (ANSA il 24 aprile 2021) "Dopo quella sera non erano più le stesse, si vedeva che era successo qualcosa. Mi sembra non siano più uscite di sera". A parlare ai microfoni di Quarto grado su Retequattro l'albergatore della Costa Smeralda che nell'estate del 2019 ospitò la ragazza, e la sua amica, che accusa Ciro Grillo e altri tre giovani di averla violentata. "Ho conosciuto meglio una delle due. L'amica è arrivata solo per qualche giorno alla fine della vacanza, mentre la ragazza che si è fermata di più mi è sembrata una brava ragazza -racconta l'albergatore- È venuta qui con i genitori e la sorella, poi i genitori andavano e venivano e lei è rimasta con la sorella più piccola, che le era stata affidata. Una ragazza in gamba, sportiva. Una delle due mi pare facesse la modella e anche l'altra avrebbe potuto benissimo farlo: erano due ragazze giovani, di un metro e ottanta, due belle ragazze. Non erano appariscenti, quella che abbiamo conosciuto meglio sembrava quasi una ragazza timorata di Dio, una che ogni papà vorrebbe avere come figlia». L'albergatore spiega che dopo quella sera, quella del presunto stupro di gruppo, "non erano più le stesse. Si vedeva che era successo qualcosa. Io e la mia ragazza, per darci una spiegazione, pensavamo avessero litigato tra di loro. Poi non mi ricordo se quel giorno o quello seguente, la ragazza che avevamo conosciuto meglio ci ha chiesto in prestito la bicicletta, perché doveva andare a Palau a fare delle commissioni". Le ragazze si sono fermate nell'hotel "un'altra settimana, dove in realtà hanno fatto la solita vita. Noi le vedevamo per colazione e poi o stavano in camera, a studiare, oppure andavano in spiaggia ma -aggiunge il proprietario dell'hotel- mi sembra non siano più uscite di sera. Quando abbiamo saputo del fatto siamo rimasti increduli".

 Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 24 aprile 2021. «Silvia, perché piangi?», prova a chiedere Roberta, accarezzando i capelli all'amica, completamente nuda ancora a letto. Silenzio. «Mi hanno violentata», risponde tra i singulti. «Ma chi?», «Tutti... Roberta... Tutti». Sono le 14,45 di mercoledì 17 luglio 2019, Roberta si è appena svegliata intontita nel soggiorno della villetta a Cala di Volpe. Cerca l'amica Silvia e la ritrova nella stanzetta priva di porta, con una tenda che separa il vano dal corridoio, di fronte al bagno. Ascolta quelle parole. Con le palpebre pesanti di una notte passata tra la discoteca Billionaire e la nottata con quei quattro ragazzi di Genova, impiega e secondi e minuti e ore per ricordare i dettagli, mettere insieme i pezzi e capire. Compie una fatica enorme a rendersi davvero conto che la divertente vacanza con la compagna di classe italonorvegese è appena precipitata in un incubo tale da farle oggi indicare da giornali e tv con nomi di fantasia. Ma dov' è la ragione, Silvia ha patito una violenza di gruppo o invece era consenziente, come Beppe Grillo e il figlio Ciro urlano da giorni, indicando come prova regina un video di 24 secondi? Per capire cos' è accaduto bisogna ripercorrere quella serata nella sua interezza, basandosi sul fascicolo delle indagini, sviluppate in una ricostruzione certosina: sono stati sentiti decine di testimoni (financo tassisti, baristi e il fotografo della discoteca, amici, istruttori sportivi), intercettati i telefoni, recuperati i messaggi, persino analizzati al millimetro i frame di video e foto per capire dagli indumenti intimi, da mutande e t-shirt, chi agiva e chi guardava. Silvia era sbarcata in Sardegna il 5 luglio, per esser poi raggiunta da Roberta e godersi il mare, il kite surfing e le serate a ballare, lasciando da parte greco e latino e gli impegni del liceo classico. A fine settimana i genitori la raggiungevano per stare insieme in un quadretto tra maturità e prima autonomia, che fa della costa Smeralda in luglio una colonia degli adolescenti dell'Italia opulenta alla conquista dell'attesa indipendenza. Silvia aveva scelto su internet un decoroso bed&breakfast in localita Barrabisa a Palau, a due passi dalle spiagge, e da lì con i taxi si muoveva, insieme all'amica, di giorno e di notte. E così martedì 16, alle 23,45, le ragazze avevano l'auto per il trasferimento alla discoteca Billionaire dove avevano fissato all'ingresso l'appuntamento con altri tre compagni di scuola, una coppia e un ragazzo. Ed è proprio quest' ultimo a conoscere quattro ragazzi genovesi (Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Ciro Grillo), che sono ben lieti di ospitarli al tavolo, prenotato a nome di Ciro, che ha compiuto solo da qualche giorno 19 anni. La serata scivola via spensierata, nei verbali le due ragazze ricordano un consumo di vodka al tavolo mentre i genovesi sottolineano più le bevute di Red Bull, la bibita energizzante. Il gruppo ormai amalgamato sembra affiatato, dai verbali emerge anche che durante un ballo sarebbe scappato un bacio tra Ciro e Silvia, ma niente di più. Alle 3,30 inizia a farsi tardi e i tre amici delle «milanesi» salutano e se ne vanno. Balli, bevute, balli, chiacchiere, la normalità. Alle 5 la comitiva decide di uscire, viene pagato il conto e si torna all'aperto. Ma le due ragazze non trovano un taxi: «Dai venite a fare due spaghetti da noi, poi vi riaccompagniamo domattina al bed&breakfast, abbiamo l'auto a casa, nessun problema». Roberta tentenna, Silvia è più accondiscendente e alla fine vanno tutti a Cala di Volpe. Nel tragitto, secondo uno dei ragazzi proprio Silvia allunga un piede tra le gambe di uno dei nuovi amici che vive la cosa come un atteggiamento disponibile, ma la ragazza a verbale minimizza l'accaduto, non dandogli alcun peso. Insomma, se è successo non era neanche intenzionale. Sono le 5,30 ormai quando i giovani sorseggiano ancora qualche alcolico nel gazebo, mentre Roberta cucina gli spaghetti. Anche qui i racconti divergono: le ragazze sottolineano come i quattro continuassero a bere esageratamente, mentre il loro comportamento era più normale. La situazione inizia però a cambiare. Fa freddo, e così Corsiglia accompagna Silvia a prendere delle coperte nella camera matrimoniale dove per l'accusa l'afferra, sbattendola sul letto, mettendosi sopra, baciandola sulla bocca e provando un approccio sessuale. Lei si divincola e raggiunge il gazebo per cenare con gli altri. Il fatto passa senza conseguenze, lui nei racconti successivi minimizzerà, indicandola come una normale dinamica di corteggiamento. Sono passate da poco le 6 quando Roberta saluta e va a sdraiarsi sul divano del soggiorno, addormentandosi rapidamente. Silvia rimane a scherzare con Lauria nel gazebo, mentre gli altri sparecchiano. Da lì a qualche minuto tutto degenera. Silvia è stanca e Corsiglia l'accompagna nella camera singola, dove lei si sdraia sotto le lenzuola. Ma il ragazzo non se ne va, Silvia glielo chiede più volte, niente, anzi, la raggiunge e la costringe a un rapporto completo. Lei cerca di liberarsi, racconta che gli altri ragazzi stavano sull'uscio della stanza, tanto per l'accusa a bloccarne l'uscita. Chi rideva. Chi commentava. Silvia è fisicamente più debole, i giovani sono tutti ben palestrati. A un certo punto però riesce ad andare in bagno dove Corsiglia la raggiunge, spingendola di spalle nel box doccia per un altro rapporto contro volontà. Lei piange in bagno. Lauria e Capitta le chiedono perché ma lei non risponde. Proprio quest' ultimo le chiede di dormire insieme ma lei si rifiuta e cerca di svegliare l'amica per andarsene. Qui Roberta ha i ricordi confusi, in dormiveglia risponde di lasciarla tranquilla, ma di fatto non capisce quello che succede, non si alza e continua a dormire. Per la difesa, invece, potrebbe essere questo un elemento a sostegno della tesi che la vittima fosse consenziente. Silvia vuole prendere un taxi, cerca il telefonino ed è proprio Lauria che - stando al racconto della vittima - interviene per tranquillizzare la ragazza, dicendo che appena Corsiglia si sarebbe ripreso dall'alcol, l'avrebbero portata a casa. L'accompagna quindi fuori per mostrarle l'auto. Anche qui, Silvia racconta che sarebbe stata presa per i fianchi, riuscendo però a divincolarsi e a tornare al gazebo. Ricorda come ormai fossero le 9 quando piange nel gazebo, i ragazzi le chiedono perché e lei risponde: «Lo sapete benissimo, Francesco mi ha fatto male e voi non siete intervenuti». Ma la situazione si fa incandescente e degenera. Grillo, Lauria e Capitta l'avrebbero costretta a bere della vodka, tenendola per i capelli. La giovane afferma in procura che i ricordi le si offuscano. Ha in mente quando Lauria l'avrebbe invitata «a dormire in camera matrimoniale» e lei non capiva più niente in preda all'alcol. Gli altri la raggiugono, le vanno addosso sul letto ubriachi, la violentano a turno e insieme fino a quando perde conoscenza. Alle 14,45 Roberta si sveglia e trova l'amica paralizzata dalla paura. È una situazione surreale, nessuno parla: «C'era del mutismo da parte di tutti», ricorderà l'amica della vittima. Silvia cerca i vestiti e si ricopre. Corsiglia e Grillo le accompagnano ad Arzachena dove le due giovani prenderanno alle 15 un taxi per rientrare al bed&breakfast: «Quel pomeriggio le ragazze non erano più le stesse - racconterà Daniele, il titolare -. Poi sono rimaste, credo ancora una settimana ma non erano più le stesse. Erano educate, carine, una sembrava una "timorata di Dio" tanto era riservata ma da quel pomeriggio erano distaccate, silenti. Silvia ci ha chiesto una bici in prestito per andare a Palau». In effetti la ragazza vuole andare in farmacia a comprare la pillola del giorno dopo, visto che i ragazzi non avevano usato i preservativi. Poche ore dopo va alla lezione fissata di kite surfing a Porto Pollo ma anche qui l'istruttore mette a verbale di aver trovata la giovane chiusa, scostante, come percependo che fosse accaduto qualcosa di brutto: «Ricordo che era molto turbata». «Lei ha raccontato quanto accaduto a degli amici?», ha chiesto il pubblico ministero e Silvia ha indicato i nomi di un'amica concittadina e di un'altra che vive fuori Milano che avrebbero confermato le confidenze ricevute e il fatto che l'amica era anche spaventata dal mancato uso di contraccettivi. Venerdì arrivano i genitori, ospiti dello stesso bed&breakfast. All'inizio Silvia si vergogna, non racconta nulla ma poi scoppia a piangere. «Mamma, mi hanno violentato». Intanto, i tre ragazzi che Beppe Grillo vede nel video si mandavano su whatsapp messaggi finiti nell'inchiesta. Il 29 agosto escono le prime indiscrezioni: «Ho paura che quella ci ha denunciato», scrive Capitta in un messaggio. E poi: «3 vs 1», invia uno di loro agli amici. Tre contro una, come un compiacimento, come se fosse stato un gioco della playstation e non un incubo che offuscherà la vita di tutti.

Ciro Grillo, "come erano ridotte dopo quella sera": la testimonianza dell'albergatore, scacco matto al figlio del comico? Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Una testimonianza cruciale quella che ha fornito Daniele Ambrosiani, l’albergatore della Costa Smeralda che nell’estate del 2019 ospitò la presunta vittima di stupro di Ciro Grillo. "Dopo quella sera non erano più le stesse, si vedeva che era successo qualcosa. Mi sembra non siano più uscite di sera", ha detto Ambrosiani ai microfoni di Quarto Grado su Rete 4, riferendosi alla ragazza, che accusa Grillo jr e tre suoi amici di violenza sessuale, e alla sua amica. “Ho conosciuto meglio una delle due. L'amica è arrivata solo per qualche giorno alla fine della vacanza, mentre la ragazza che si è fermata di più mi è sembrata una brava ragazza – ha spiegato l'albergatore - È venuta qui con i genitori e la sorella, poi i genitori andavano e venivano e lei è rimasta con la sorella più piccola, che le era stata affidata”. Ambrosiani l'ha descritta come una ragazza in gamba e sportiva. “Erano due ragazze giovani, di un metro e ottanta, due belle ragazze. Non erano appariscenti, quella che abbiamo conosciuto meglio sembrava quasi una ragazza timorata di Dio, una che ogni papà vorrebbe avere come figlia”, ha continuato Ambrosiani. Che poi ha sottolineato di aver notato un cambiamento nelle due amiche dopo la notte della presunta violenza sessuale: “Si vedeva che era successo qualcosa. Io e la mia ragazza, per darci una spiegazione, pensavamo avessero litigato tra di loro”. E ancora: “Mi sembra che da quel momento non siano più uscite di sera. Quando abbiamo saputo del fatto siamo rimasti increduli".

Ciro Grillo, il racconto della ragazza che accusa il gruppo: "Scagliata nel box doccia e stuprata". Poi il messaggio: "Tre contro uno". Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. "Silvia, perché piangi?", chiede l'amica. "Mi hanno violentata. Tutti... Tutti...". Questa la rivelazione con cui poi è partito il caso che vede sotto accusa per violenza sessuale Ciro Grillo, figlio di Beppe, assieme ad altri tre amici. Gianluigi Nuzzi sulla Stampa racconta i fatti partendo dalla confessione della ragazza che ha fatto poi scattare la denuncia. Silvia era sbarcata in Sardegna il 5 luglio 2019, per esser poi raggiunta dall'amica. Silvia aveva scelto su internet un bed&breakfast a Palau. Martedì 16 le ragazze tramite un compagno di scuola conoscono quattro ragazzi genovesi (Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Ciro Grillo) e si siedono al tavolo con loro che hanno un tavolo prenotato al Billionaire di Flavio Briatore. Alle 5 la comitiva decide di uscire. Silvia e l'amica non trovano però un taxi per tornare a casa. "Dai venite a fare due spaghetti da noi, poi vi riaccompagniamo domattina al bed&breakfast, abbiamo l'auto a casa, nessun problema". L'amica tentenna, mentre Silvia sembra più propensa - scrive Nuzzi - ad ad accettare l'invito per andare a Cala di Volpe. "Secondo uno dei ragazzi proprio Silvia allunga un piede tra le gambe di uno dei nuovi amici che vive la cosa come un atteggiamento disponibile, ma la ragazza a verbale minimizza l'accaduto, non dandogli alcun peso. Insomma, se è successo non era neanche intenzionale", scrive sempre Nuzzi. All'arrivo i racconti divergono: le ragazze affermano che i quattro amici continuassero a bere. Uno di loro accompagna Silvia a prendere delle coperte nella camera matrimoniale "dove per l'accusa l'afferra, sbattendola sul letto, mettendosi sopra, baciandola sulla bocca e provando un approccio sessuale. Lei si divincola e raggiunge il gazebo per cenare con gli altri. Il fatto passa senza conseguenze, lui nei racconti successivi minimizzerà, indicandola come una normale dinamica di corteggiamento", rivela Nuzzi che ha spulciato tutte le carte dell'inchiesta. Verso le sei Silvia è stanca e sempre l'amico di prima  l'accompagna nella camera singola, dove lei si sdraia sotto le lenzuola. La raggiunge nel letto e la costringe a un rapporto completo. Lei cerca di liberarsi e racconta che gli altri ragazzi erano sulla porta per fare in modo che lei non scappasse. Riesce però a scappare in bagno, ma sempre il primo ragazzo la violenta una seconda volta, spingendola di spalle nel box doccia. Dopo un paio di ore la "situazione si fa incandescente e degenera. Grillo, Lauria e Capitta l'avrebbero costretta a bere della vodka, tenendola per i capelli. Così poi la raggiugono, le vanno addosso sul letto ubriachi, la violentano a turno e insieme fino a quando perde conoscenza". Poco prima delle 15, l'amica si sveglia e trova l'amica "paralizzata dalla paura". Da lì la domanda che ha fatto scattare tutto. Il 29 agosto del 2019 escono le prime indiscrezioni: "Ho paura che quella ci ha denunciato", scrive uno degli amici di Grillo jr in un messaggio. E poi: "3 vs 1", invia uno altro agli amici. 

Ciro Grillo, l'albergatore che ospitava la ragazza: "Distaccata e silente. Quando sono arrivati gli agenti in borghese, ho capito". Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Spunta una nuova testimonianza che complica la posizione di Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, e dei due altri ragazzi accusati di violenza sessuale, il caso rimbalzato in modo fragoroso agli onori delle cronache dopo il video del comico M5s che ha suscitato tante polemiche. A parlare, in una intervista al Corriere della Sera, è Daniele, il titolare del bed & breakfast in cui soggiornava Silvia, una delle due ragazze che ha denunciato la presunta violenza. Daniele spiega di aver conosciuto Silvia come una giovane "educata e carina", ma dopo quella notte è diventata "distaccata e silente". Insomma, secondo lui qualcosa è accaduto, qualcosa la ha segnata. L'albergatore ricorda di averi visto le ragazze tornare verso le ore 15. Scendono dal taxi e la sua compagna nota che Silvia e Roberta hanno gli stessi vestiti che indossavano la sera prima, quando erano uscite: "Ci sembrava strano che avessero passato la notte fuori perché erano qui da parecchi giorni e non erano ragazze che uscivano tutte le sere, se non ricordo male non erano proprio mai uscite di sera e men che meno erano rimaste fuori a dormire". Quindi nota la camminata rapida, veloce, furtiva," gli occhiali scuri e la testa basse". Dritte in camera, l'umore cambiato: "Ci è sembrato più scuro, diverso". Inizialmente Daniele e la moglie pensavano a un litigio tra le due. Ma il giorno dopo Ferragosto arrivano due carabinieri in borghese e iniziano a fare delle domande: "E lì abbiamo capito". Il punto è che i militari hanno chiesto  informazioni sulle loro due ospiti, cercando di capire se al loro ritorno erano scosse, spettinate e se piangevano. E Daniele spiega: "Noi volevamo capire perché quelle domande, ma non ci hanno detto niente, finché ho fatto io una domanda precisa sulla violenza sessuale e anche se non c’è stata risposta ho capito che si trattava di quello". E ancora, aggiunge: "Silvia mi è sembrata nervosa, aveva i modi e l’aria di chi aveva fretta di fare qualcosa". Tanto che quando si era offerto di darle un passaggio in auto, la ragazza si era rifiutata. "Ho saputo soltanto adesso che voleva andare in farmacia a prendere la pillola del giorno dopo. Lì per lì mi è parsa un po’ agitata, appunto. Nervosa", conclude Daniele.

Caso Grillo, il testimone: "Dopo quella notte le ragazze erano cambiate". Luca Sablone il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Il racconto del titolare del bed&breakfast dove alloggiava la ragazza coinvolta: "Era nervosa, silenziosa e pensierosa. Aveva fretta, ora so che andava in farmacia per la pillola". C'è anche una testimonianza. Ve ne avevamo già parlato ieri: Daniele, il titolare del bed&breakfast dove Silvia era ospite, aveva raccontato come la ragazza non era più la stessa. L'aveva conosciuta come una giovane "educata e carina", per poi assistere a un cambiamento che l'ha portata a essere "distaccata e silente". Quella notte in compagnia di Ciro Grillo e i suoi tre amici l'ha evidentemente segnata: Silvia più volte è scoppiata in lacrime prima di confessare tutto all'amica Roberta e ai suoi genitori. E pensare che uno del gruppetto sulla chat commentava così: "3 vs 1". Un messaggio quasi di compiacimento. Ma dietro quella vicenda c'è il forte dolore di una ragazza turbata da quanto avvenuto. Daniele vede le ragazze tornare verso le ore 15. Scendono dal taxi e la sua compagna nota che Silvia e Roberta hanno gli stessi vestiti che indossavano la sera prima, quando erano uscite: "Ci sembrava strano che avessero passato la notte fuori perché erano qui da parecchi giorni e non erano ragazze che uscivano tutte le sere, se non ricordo male non erano proprio mai uscite di sera e men che meno erano rimaste fuori a dormire". Una camminata veloce, "occhiali scuri e testa bassa". Poi si infilano in camera e da quel momento si capisce che il loro umore è completamente cambiato: "Ci è sembrato più scuro, diverso". La cosa che più salta all'occhio è che non sono più serene come il giorno prima: "Erano silenziose e pensierose". Daniele e la compagna ipotizzano un litigio tra le due, ma un giorno dopo Ferragosto arrivano due carabinieri in borghese a fare domande: "E abbiamo capito...".

La testimonianza di Daniele. I militari chiedono informazioni sulle loro due ospiti, cercando di capire se al loro ritorno erano scosse, spettinate e se piangevano: "Noi volevamo capire perché quelle domande, ma non ci hanno detto niente, finché ho fatto io una domanda precisa sulla violenza sessuale e anche se non c’è stata risposta ho capito che si trattava di quello". A quel punto si danno una spiegazione per quel cambio di umore improvviso. I titolari del bed&breakfast - situato a Barrabisa, una località del Comune di Palau, in Gallura - ovviamente non posso giudicare veritiero o meno il racconto delle ragazze, ma danno per certo "che quella notte qualcosa è successo". Daniele rivela al Corriere della Sera che la ragazza italo-svedese, dopo la notte con Ciro Grillo e i suoi tre amici, chiede una bicicletta per andare a Palau: "Mi è sembrata nervosa, aveva i modi e l’aria di chi aveva fretta di fare qualcosa". Prova a offrirle un passaggio in macchina, ma lei rifiuta perché preferisce andare da sola. "Ho saputo soltanto adesso che voleva andare in farmacia a prendere la pillola del giorno dopo. Lì per lì mi è parsa un po’ agitata, appunto. Nervosa", conclude il titolare del b&b.

Beppe Grillo "nel panico perché ha scoperto di essere intercettato?": la teoria sul video in difesa del figlio.  Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Beppe Grillo è stato intercettato? Potrebbe essere un’ipotesi, visto che la moglie del comico genovese, Parvin Tadjik, è stata tenuta sotto osservazione nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Tempio Pausania, in cui è coinvolto il figlio della coppia, Ciro di 19 anni. Quest’ultimo è accusato di violenza sessuale su una ragazza conosciuta in Sardegna insieme ad altri tre ragazzi. Dal momento del presunto stupro, luglio 2019, la madre del ragazzo sarebbe stata intercettata dalla Procura, stando a quanto rivela l’Adnkronos. La donna, tuttavia, ha sempre detto di non aver sentito nulla quella notte. “Sono nel panico, Beppe Grillo e sua moglie. Solo con un attacco di panico si può giustificare una uscita così suicida da parte di entrambi. Sanno qualcosa che non sappiamo, anche a proposito dell’indagine”, ha rivelato al Riformista l’ex socio di Casaleggio, Marco Canestrari, riferendosi al video choc di Grillo e al commento di sua moglie sotto a un post di Maria Elena Boschi. “Mi sembra che Grillo abbia un disperato bisogno di protezione, ecco perché si è affrettato a formare un governo con il Pd e poi a sostenere Draghi. Ha l’esigenza di tenersi al coperto, dentro l’area di governo”, ha continuato Canestrari. Anche secondo l’ex socio di Casaleggio, inoltre, è verosimile che il fondatore del M5s sia stato intercettato. Anche perché nei giorni della presunta violenza, Grillo non era in Sardegna con la moglie e quindi l’avrà chiamata frequentemente. “Grillo non gode di alcuna immunità, possono aver sentito le conversazioni tra i due. E la reazione inconsulta si può leggere con questa luce – ha spiegato Canestrari -. Perché Grillo quando parla al telefono non è la stessa persona di quando parla in pubblico”. Può essere, insomma, che il garante dei pentastellati sia andato nel panico dopo aver scoperto di essere stato intercettato: “Il Grillo pubblico e il Grillo privato, i segreti inconfessabili dei festini alcolici, il timore di essere finito all’orecchio di un grande Fratello giudiziario”, scrive il Riformista.

Da iltempo.it il 25 aprile 2021. Il telefono di Beppe Grillo potrebbe essere stato intercettato nell’ambito dell’inchiesta sul presunto stupro del figlio Ciro e di altre tre amici del ragazzo. A lanciare l’ipotesi è Il Riformista, che ricorda come il cellulare di Parvin Tadjik, moglie del leader e fondatore del Movimento 5 Stelle, risulti attenzionata dalle indagini della Procura di Tempio Pausania. La moglie di Grillo, dormiva nell’appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza di gruppo e risulterebbe essere stata intercettata dopo aver testimoniato, probabilmente per delle spiegazioni che non hanno convinto i magistrati. “Sono nel panico, Beppe Grillo e sua moglie. Solo con un attacco di panico si può giustificare una uscita così suicida da parte di entrambi. Sanno qualcosa che non sappiamo, anche a proposito dell’indagine” dice Marco Canestrari, ex socio di Gianroberto Casaleggio. “Mi sembra - prosegue Canestrari - che Grillo abbia un disperato bisogno di protezione, ecco perché si è affrettato a formare un governo con il Pd e poi a sostenere Draghi. Ha l’esigenza di tenersi al coperto, dentro l’area di governo. Grillo intercettato? È probabile, Grillo non gode di alcuna immunità, possono aver sentito le conversazioni tra i due. E la reazione inconsulta si può leggere con questa luce. Perché - chiude il suo racconto Canestrari - Grillo quando parla al telefono non è la stessa persona di quando parla in pubblico”.

Ecco cosa c'è dietro il video di Grillo. Francesca Galici il 25 Aprile 2021 su Il Giornale.  Nervoso e diverso dal solito: il video di Beppe Grillo in difesa di suo figlio ha lasciato molti dubbi per le modalità e qualcuno azzarda un'ipotesi. Sono tanti gli interrogativi dietro il video di Beppe Grillo. Perché il leader Movimento 5 Stelle si sarebbe esposto in questo modo? Perché questo nervosismo? Per qualcuno dietro potrebbe esserci un'intercettazione telefonica che farebbe tremare Grillo. Il quotidiano Il Riformista riporta che il cellulare del leader del Movimento 5 Stelle potrebbe essere stato attenzionato dagli inquirenti nell'ambito dell'inchiesta che coinvolge suo figlio Ciro in merito a un presunto stupro su una ragazza in Costa Smeralda. Questa l'ipotesi del quotidiano per spiegare il comportamento inusuale dell'ex comico, uscito dai panni del politico provocatore per vestire anche in pubblico quelli del padre preoccupato e in tensione per le sorti di un figlio. Il video di Beppe Grillo ha suscitato molte polemiche per il trattamento riservato da Beppe Grillo alla presunta vittima, anche per il silenzio assordante del Movimento 5 Stelle. L'ipotesi de Il Riformista si basa su alcune deduzioni. Il telefono della madre di Ciro Grillo, infatti, pare sia stato posto sotto attenzione da parte della procura di Tempio Pausania, soprattutto perché la donna quando si sarebbero svolti i fatti dormiva nell'appartamento accanto. Pare che lei sia stata intercettata dagli inquirenti a seguito della sua testimonianza rilasciata sui fatti oggetto di indagine. Il motivo potrebbe risiedere in spiegazioni non perfettamente esaustive fornite dalla donna, che hanno spinto i magistrati ad approfondire la questione. "Sono nel panico, Beppe Grillo e sua moglie. Solo con un attacco di panico si può giustificare una uscita così suicida da parte di entrambi. Sanno qualcosa che non sappiamo, anche a proposito dell’indagine", ha affermato Marco Canestrari, ex socio di Gianroberto Casaleggio. Canestrari si spinge anche oltre e analizza la situazione di Beppe Grillo anche dal punto di vista politico: "Mi sembra che Grillo abbia un disperato bisogno di protezione, ecco perché si è affrettato a formare un governo con il Pd e poi a sostenere Draghi. Ha l’esigenza di tenersi al coperto, dentro l’area di governo". Sulle intercettazioni, Marco Canestrari a Il Riformista conferma l'ipotesi sulle intercettazioni: "È probabile, Grillo non gode di alcuna immunità, possono aver sentito le conversazioni tra i due. E la reazione inconsulta si può leggere con questa luce. Perché Grillo quando parla al telefono non è la stessa persona di quando parla in pubblico".

La strategia choc degli avvocati di Grillo: pubblicare il video. Luca Sablone il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. I legali pensano al contrattacco: rendere noto il filmato che riprende una scena di sesso tra la studentessa e il gruppetto di Ciro Grillo. Trasmissioni televisive, siti web e quotidiani cartacei: ormai tutti parlano del caso Ciro Grillo. Un martellamento di indiscrezioni giudiziarie così pressante che adesso rende percorribile un'ipotesi che fino a poche ore fa appariva del tutto inimmaginabile: la strategia del contrattacco, stando a quanto appreso e riportato da Il Fatto Quotidiano, potrebbe prevedere la pubblicazione del video per mettere le cose in chiaro. Si starebbe dunque pensando alla possibilità di rendere noto il filmato che riprende una scena di sesso tra S.J., ovvero la studentessa italo-norvegese, e il gruppetto del figlio del comico genovese. Si è probabilmente raggiunto il momento più difficile di questi due anni e quindi da alcuni familiari dei ragazzi sarebbe giunta la richiesta di modificare la strategia comunicativa adottata fino a questo momento. Proprio tale proposta dovrebbe essere oggetto di discussione nel corso di una riunione tra tutti gli avvocati difensori, che nella giornata di domani si potrebbero riunire per fare il punto anche sull'aspetto comunicativo della vicenda. L'eventuale pubblicazione del video, è il ragionamento che fanno, potrebbe servire a fare luce su quanto avvenuto e a silenziare una volta per tutte il caso. Per il momento le due versioni rimangono distanti: gli avvocati delle parti civili reputano che si tratti di un elemento in grado di provare la violenza sessuale e lo stato di debolezza della giovane; per i difensori dei quattro ragazzi invece è la dimostrazione che la studentessa fosse consenziente.

"Processo in aula, non in tv". Gli avvocati del gruppetto temono che, allo stato attuale delle cose, possa essere fornita una sola narrazione e dunque che venga fatta passare per certa la vicenda senza averla vista con una lente diversa. Ecco perché si starebbe ragionando su un cambio di passo nella gestione comunicativa del fatto. "Per noi il processo va condotto in aula, non sulla stampa o in tv. Certo, siamo consapevoli che in questo momento questa scelta possa significare esporsi a un massacro mediatico", è la posizione degli avvocati difensori dei quattro ragazzi. Negli ultimi giorni il tema si è infuocato: Beppe Grillo ha pubblicato su Facebook un video per sfogarsi prendendo le difese del figlio. Inoltre proprio ieri vi abbiamo parlato della confessione fatta dalla ragazza all'amica Roberta e ai genitori. Senza dimenticare la testimonianza fornita da Daniele, il titolare del bed&breakfast dove alloggiava Silvia in quei giorni: "Dopo quella notte era diventata distaccata, silente e pensierosa. Mi è sembrata nervosa e agitata. Non era più la stessa. Io non posso sapere se è vero o no quello che raccontano le ragazze e che ho sentito in questi giorni, ma so che quella notte di certo qualcosa è successo".

Beppe Grillo, la strategia-choc dei legali per difendere Ciro: "Pubblicare il video". Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Una strategia choc quella che gli avvocati di Grillo vorrebbero adottare nel corso del processo per stupro in cui è coinvolto Ciro, il figlio 19enne del fondatore del M5s. Il ragazzo, infatti, è accusato, insieme a tre suoi amici, di violenza sessuale nei confronti di un’altra ragazza, conosciuta in Sardegna nel luglio del 2019. Dopo la pubblicazione del video di Beppe Grillo, che ha reso la faccenda più mediatica di quanto non fosse fino a poche settimane fa, la difesa di Ciro sta pensando adesso alla strategia del contrattacco. Strategia che, stando a quanto riportato dal Fatto Quotidiano, potrebbe prevedere la pubblicazione del filmato della notte della presunta violenza. Il video che i legali potrebbero portare in aula riprende una scena di ses** tra la studentessa e il gruppetto di Ciro Grillo. Gli avvocati difensori potrebbero vedersi nella giornata di domani sia per discutere della pubblicazione del filmato sia per fare il punto sull'aspetto comunicativo della vicenda, finita ormai su tutti i giornali e le tv. Secondo i legali, in particolare, il video potrebbe aiutare a capire meglio quanto avvenuto e a mettere un punto una volta per tutte al caso.  Le parti in causa la pensano, ovviamente, in maniera diversa: mentre gli avvocati delle parti civili pensano che il video possa provare la violenza sessuale e la condizione di debolezza in cui si trovava la ragazza, per i legali della difesa, invece, il filmato dimostrerebbe l’innocenza dei ragazzi e il consenso della ragazza. "Per noi il processo va condotto in aula, non sulla stampa o in tv. Certo, siamo consapevoli che in questo momento questa scelta possa significare esporsi a un massacro mediatico", questo il pensiero dei legali dei ragazzi, riportato dal Fatto Quotidiano.  La storia negli ultimi giorni si è fatta sempre più complicata. Dopo il video choc di Beppe Grillo, infatti, è venuta fuori anche la testimonianza di Daniele, l’albergatore che ha ospitato la presunta vittima due estati fa: "Dopo quella notte era diventata distaccata, silente e pensierosa. Mi è sembrata nervosa e agitata. Non era più la stessa. Io non posso sapere se è vero o no quello che raccontano le ragazze e che ho sentito in questi giorni, ma so che quella notte di certo qualcosa è successo".

Beppe Grillo, indiscrezioni dalla procura: "Il caso del figlio, trovata una foto molto incriminante". Lo scatto dietro al video? Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Beppe Grillo nella difesa del figlio Ciro dalle accuse per le quali è indagato dalla procura di Tempio Pausania, violenza sessuale di gruppo in concorso con altri tre ragazzi di una giovane di 19 anni, aveva parlato che c'era un video che scagionava il figlio. Filmato che secondo la procura sarda rappresenterebbe una prova a sfavore di Ciro Grillo. Oggi, sabato 24 aprile, però Gregorio Capasso, il procuratore capo che coordina e segue l'inchiesta , ha detto a Repubblica che "siamo vicini al termine delle indagini e al momento in cui  potrà chiedere il rinvio a giudizio e quindi il processo per gli indagati o l'archiviazione". Gli investigatori infatti hanno trovato una foto nel cellulare di Ciro Grillo, un selfie considerato "particolarmente incriminante" per il giovane, scrive Repubblica "Un elemento che potrebbe aver avuto un peso nella scelta da parte del fondatore del Movimento 5 Stelle di lanciarsi nella clamorosa difesa social del figlio". Nelle intercettazioni inoltre ci sono elementi di quanto accaduto nella notte  del 17 luglio 2019 tra i ragazzi incriminati, all'interno della villa e la diciannovenne. "Esprimo totale solidarietà a Beppe Grillo, come padre, per la sofferenza che sta subendo e totale disprezzo nei confronti di quelli che fino a ieri erano i garantisti, anche quando beccavano un politico con la mazzetta in mano. Sia politici che organi di informazione", sono invece le parole del senatore del Movimento 5 Stelle Danilo Toninelli, intervistato da Zona Bianca su Retequattro.  Una delle tante dichiarazioni che stanno arrivando in sostegno di Grillo da parte del Movimento. Una richiesta esplicita di Grillo che ha capito di trovarsi in difficoltà e ha chiesto aiuto ai big grillini di schierarsi attorno a lui dopo le tante critioche ricevute per l'imbarazzante video in difesa del figlio sotto accusa. 

 (ANSA il 22 aprile 2021) - "Le recenti dichiarazioni di Beppe Grillo sfiduciano il processo. È essenziale per la vita democratica del Paese che i processi, e quelli per violenza sessuale anzitutto, si svolgano al riparo da indebite pressioni mediatiche I magistrati di Tempio Pausania sapranno accertare i fatti con serenità ed equilibrio, garantiti dalla propria professionalità, nel rispetto dei diritti di tutti, degli imputati, che devono essere assistiti dalla presunzione di innocenza, e della denunciante, la cui dignità va tutelata". Lo sottolinea in una nota l'Associazione nazionale magistrati.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 23 aprile 2021. Gli attori recitano tutti bene, ma non è un dramma, né una tragedia, e neppure un teatrino della politica: è un'opera buffa all'italiana. Sono riusciti a costruire una perfetta opera buffa (breve, vuole la tradizione: speriamo) e questo attorno allo sfogo felice o infelice di un padre in difesa di suo figlio, che tutto sommato resta la cosa più seria di tutto l'intreccio: la meno seria, invece, resta la scomposta e autoassolutoria reazione del numerosissimo pubblico non pagante (perché a pagarla, per anni, saremo sempre noi, che grillini non siamo mai stati) che è un pubblico sicuramente composto in buona parte da grillini pentiti, gentaglia che ha trovato il pretesto inattaccabile per scaricare il disastroso equivoco da loro costruito in cabina elettorale. Recita bene Beppe Grillo, che del resto è un professionista, un comico, e c'è da stupirsi che abbia impiegato tanto (due anni) per sfogare la sua comprensibile versione faziosa in un Paese faziosissimo: probabilmente è vero, pensava che avrebbero archiviato tutto e ciao, gli sembrava logico, pensava che la giustizia funzionasse per logica. Gli unici appena fuori posto, forse all'apparenza seriosi nel contesto buffonesco, restano i magistrati di Tempio Pausania: che sono i più seri e discreti mai visti (non una dichiarazione, non una carta sfuggita, un ammiccamento al proscenio) e che se hanno impiegato così tanto tempo, per l'indagine preliminare su Ciro Grillo, è solo per la banalissima ragione che sono quattro gatti (forse tre) e avevano tanto altro lavoro da sbrigare. Non hanno dato precedenza al cognome famoso. Hanno tirato dritto, se ne sono fottuti e sono andati avanti nonostante la stessa Magistratura nazionale li abbia sempre confinati con un organico sparuto e ridicolo: anche se ora, la Magistratura nazionale, si è impalcata e ha preso parola. Ieri è arrivata l'Anm (la sputtanatissima associazione nazionale magistrati) e ha decretato che «le recenti dichiarazioni di Beppe Grillo sfiduciano il processo. È essenziale per la vita democratica del Paese che i processi, e quelli per violenza sessuale anzitutto, si svolgano al riparo da indebite pressioni mediatiche». L'hanno scritta in una nota, questa roba. Insieme a quest'altro: «I magistrati di Tempio Pausania sapranno accertare i fatti con serenità ed equilibrio, garantiti dalla propria professionalità, nel rispetto dei diritti di tutti, degli imputati, che devono essere assistiti dalla presunzione di innocenza, e della denunciante, la cui dignità va tutelata». Ma davvero? Sicuri? Oh: ma come faremmo senza i preziosi comunicati dell'Anm? Probabilmente avremmo pensato che i magistrati di Tempio Pausania non avrebbero accertato i fatti, che non sono sereni, che sono degli squilibrati, che non avrebbero rispettato nessuno, che la presunzione d'innocenza fosse stata abolita, e che la dignità di chi denuncia uno stupro fosse carta igienica. Insomma, i magistrati di Tempio Pausania avranno tirato un sospiro di sollievo: temevano davvero che lo sfogo di un padre in difesa del proprio figlio potesse «sfiduciare il processo». Come se tutti i processi, in Italia, per quel che ne pensa l'opinione pubblica, non fossero tutti sfiduciati in partenza, da soli. Per fortuna c'è la politica. Per fortuna che nelle prime file del teatrino, a fischiare l'opera buffa di cui sono parte, c'è una fila interminabile di politici che si conforma alla marmaglia dei grillini pentiti. No, l'elenco non lo facciamo: forse ne avete già letto. C'è solo da aggiornare e aggiungere Nicola Zingaretti, che ieri su Rai1 ha detto: «Attenzione, le donne possono essere vittime due volte: vittime di violenza, ed è una cosa drammatica, e poi può esserci una seconda violenza, la solitudine o sentirsi accusate». Ma tu pensa: non ci avevamo pensato. Serviva lo sfogo di Grillo per arrivarci. Con l'aiutino, magari, di averci governato insieme, a questo signor Grillo: ed è stata una discreta violenza - per noi - anche quella. Ma a ben pensarci, domanda: l'opinione di Mario Draghi non l'hanno ancora sondata? Ci pare fondamentale. Qualcuno gli chieda, per favore, che cosa pensa del video di Grillo, e ci raccomandiamo: subito dopo la domanda al Mario nazionale, vogliamo una foto della sua faccia.

Il giustizialismo di Grillo. Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco il 24 aprile 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo un intervento di Vito Plantamura, professore associato di diritto penale presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari. Si tratta di un punto di vista eterodosso rispetto ad alcuni commenti pubblicati negli ultimi giorni. Il fondatore e garante del Movimento 5 Stelle non ha rinnegato il giustizialismo che ha da sempre connotato la sua azione politica ma, difendendo il proprio figlio, ha elevato all’ennesima potenza l’elemento costitutivo della propria identità. «Secondo un’opinione diffusa, Beppe Grillo col suo video in difesa del figlio Ciro, indagato, assieme ad altri suoi tre amici, per il reato di violenza sessuale di gruppo, avrebbe dato prova di una doppia morale, e cioè di un garantismo riservato solo alle persone a lui più care, che risulterebbe in contrasto col giustizialismo che lo ha sempre caratterizzato nei confronti di tutti gli altri. Ad una più attenta analisi, tuttavia, risulta che l’impostazione di Grillo nel video in questione rimane sempre la medesima, caratterizzandosi per giustizialismo, manicheismo e cultura del sospetto. Il primo e principale argomento difensivo espresso a favore del figlio, infatti, è costituito dall’assunto per cui, visto che c’è una legge in virtù della quale gli stupratori devono essere subito arrestati e messi in carcere, dato che gli inquirenti non hanno fin qui richiesto misure cautelari, significa che loro stessi non sono convinti degli indizi a carico degli indagati. Fortunatamente, però, una legge del genere non esiste, e non potrebbe mai esistere, nel nostro ordinamento. Grillo, cioè, deduce la necessità di una misura cautelare personale dalla gravità del reato contestato. Nella sua mente, quindi, la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost., per cui non si è considerati colpevoli sino alla condanna definitiva, semplicemente non esiste. Mentre è proprio in virtù di quella presunzione che le misure cautelari personali rimangono – o, per lo meno, dovrebbero rimanere – l’eccezione, e comunque non sono applicabili, anche riguardo al più grave dei reati e in presenza del quadro indiziario più completo, in assenza di specifiche e tassative esigenze cautelari. Mentre davvero non si comprende perché, in relazione ad un fatto assolutamente episodico –per quanto gravissimo, se integrato/commesso da quattro incensurati, tali esigenze dovrebbero ritenersi sussistenti. Ma veniamo al secondo argomento difensivo del video, espressivo di manicheismo, secondo la netta contrapposizione, ad es., tra onesti e corrotti, tipicamente grillina. Notoriamente, infatti, per Grillo la realtà è in bianco e nero. Per cui o c’è lo stupratore che, con violenza, costringe la donna al rapporto sessuale oppure c’è il rapporto sessuale consenziente, penalmente irrilevante. Ma per il nostro codice penale così non è. E così non era neppure prima della pessima legge di riforma della materia del 1996. In Italia, infatti – come in altri Paesi europei: ad es., Spagna, Germania e Portogallo -, si prevede, e si prevedeva già nel codice penale ottocentesco, pure la punizione di chi induca un soggetto a compiere atti sessuali abusando della sua condizione di inferiorità psico-fisica, che non lo rende capace di resistere alle iniziative sessuali altrui. Un caso paradigmatico è quello della persona ubriaca o drogata indotta ad avere rapporti sessuali che, in altre circostanze, avrebbe rifiutato. Il rapporto è sì consensuale, ma il consenso è viziato, per cui il reato sussiste. Significa, però, che la realtà non è in bianco e nero, ma sfumata. Certo, sarebbe meglio se, per le ipotesi di rapporti sessuali indotti in situazioni asimmetriche, ad una diversa sfumatura fattuale corrispondesse una pena meno severa*.  Il terzo argomento difensivo del video è quello relativo alla pretesa tardività della denuncia. E qui emerge un altro tratto saliente dell’impostazione di Grillo, legato alla cultura del sospetto. Gli otto giorni passati prima di denunciare farebbero pensare, cioè – o meglio sospettare -, che qualcosa non torni. E non rileva che il termine ordinario per presentare querela sia di tre mesi, né che, per ragioni intuitive, in un reato come la violenza sessuale tale termine sia più lungo; ed anzi sia stato di recente innalzato addirittura ad un anno. Perché ormai il sospetto di strumentalità e insincerità della querelante è stato instillato. In definitiva, nel politicamente controverso, se pur umanamente comprensibile, video in difesa di suo figlio, Grillo rimane Grillo: non diventa garantista, non muta mentalità, ma si rifà al suo solito bagaglio argomentativo fatto di giustizialismo, manicheismo e cultura del sospetto, che tanto ha contribuito all’affermazione elettorale del movimento politico da lui creato».

Wall & Street. La legge 66/1996. ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine, previsti dalla normativa previgente, nella nozione unitaria di atti sessuali, collocando detti reati tra i delitti contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume. La sfera sessuale quindi diventa diritto della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante penalmente va valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all’attitudine ad offendere la libertà di determinazione della stessa. In base alla sentenza  della III Sezione Penale della Corte di Cassazione 37395/2004, è atto sessuale «qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porre in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale». La giurisprudenza, pertanto, tende ad applicare pene severe anche a condotte che all’opinione pubblica potrebbero non apparire penalmente rilevanti, sebbene moralmente censurabili. Secondo Vito Plantamura, «quella del 1996 è davvero una pessima legge, che punisce sotto la stessa rubrica lo stupro e il bacio rubato sul collo – e, in questo, risulta più unica che rara nel panorama internazionale – dimostrandosi priva del buon senso giuridico necessario per punire meno gravemente la violenza sessuale per induzione rispetto a quella per costrizione».

Il salto del Grillo e i grillini neo-garantisti: il peggio della settimana. Michel Dessì il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Dal garantismo di Grillo alla morale di Salvini e Toninelli scrive il suo primo libro. Tutto il peggio della settimana. Chi di giustizia ferisce di giustizia perisce. È il caso dell’auto elevato Beppe Grillo. Il padre giustizialista del Movimento5 stelle finisce dritto nel peggio della settimana, forse di sempre. Il comico nel video (ormai noto a tutti) pubblicato sui suoi social a difesa dell’altro figlio, Ciro, accusato di stupro di gruppo, da fiato alla bocca con rabbia e veemenza e affonda il movimento. Il colpo di grazia lo da la sua lady, su facebook commenta a Maria Elena Boschi: “C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare.” Beppe ha messo tutti in difficoltà, compreso Giuseppi, che prova a mantenere le distanze.

PAROLE COME PIETRE. Beppe e il video: “Mio figlio è su tutti i giornali come uno stupratore seriale, assieme ad altri tre ragazzi. Perché allora non sono stati arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente. Una persona che viene stuprata alla mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia... Vi è sembrato strano. Bene, è strano...”

PAOLA TAVERNA. La senatrice di borgata si risveglia garantista! Su twitter scrive: “Ciò che prova Beppe a livello umano posso solo immaginarlo, e da mamma gli sono vicina. La Magistratura è al lavoro, perciò auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva, come giusto che sia, in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli.” Ah si? Lo vada a dire a tutti quelli che ha infangato negli anni.

FABIANA DADONE. Ve la ricordate? Sì, la ministra rock, ultra-femminista, quella con le scarpe rosse sulla scrivania pronta a tutto pur di difendere le donne. Bene, dopo giorni di silenzio ha deciso di “parlare”: “Giocare al chi si esprime prima è più pro diritti delle donne e chi lo fa dopo è meno donna dura e pura, meno femminista, meno garantista non fa per me.” Nessuna gara, è solo questione di buonsenso.

ALESSANDRO DI BATTISTA. Il puro e duro del Movimento scende in campo a difesa del sul “Beppe”: “Coraggio, sei un papà e ti capisco, spero che si possa chiarire tutto e alla svelta.” Ma alla (presunta) vittima chi ci pensa? Oltre al caso Grillo c’è di più, c’è la politica che ha ripreso a litigare. Noi lo avevamo anticipato, nella maggioranza salva-Italia non corre buon sangue. Salvini si scaglia contro Draghi sul coprifuoco e tira dritto per la sua strada accusato di fare campagna elettorale.

MATTEO SALVINI. Il capitano ha coraggio da vendere. In diretta su Rete4 da Nicola Porro, commentando la denuncia dell’attore Alessandro Gassman, che sui social ha scritto di una festa organizzata dai vicini, interrogandosi se chiamare la polizia o meno, ha detto: “Un Paese dove c’è l’attore che chiama la polizia per denunciare il vicino di casa non è un Paese civile, non è un bel modello. La delazione di Stato, in Unione Sovietica… cosa fai? Ma vai a citofonare al vicino “ma guarda che stai facendo casino”?” Ma lo dice proprio lui che, solo un anno fa in campagna elettorale, ha citofonato ad presunto spacciatore? “Scusi, ma lei spaccia?”

DANILO TONINELLI. L’annuncio shock dell’ex ministro: “Oggi è la Giornata mondiale del libro. E il libro che sto scrivendo da mesi è quasi finito.” Bisogna aggiungere altro?

VINCENZO DE LUCA. Il Presidente della Campania torna a far parlare di sè. Nel suo solito monologo del venerdì pomeriggio va all'attacco del generale Figliuolo e, sulla scia della Murgia, lo intima a spogliarsi della divisa: "La sensazione è che si decida alla giornata e a come capita. E allora chiedo al governo e al commissario di governo: per quale motivo continuate a dormire in piedi e non chiedete ad Aifa di valutare gli altri vaccini disponibili? Ma il governo dorme in piedi." E poi il consiglio spassionato al generale: "Mi permetto di consigliargli di andare in giro per l’Italia in abiti civili. Quando si hanno funzioni civili credo che sia inappropriato andare in giro con tuta mimetica, anfibi e cappello militare, non solo per un’appropriatezza di funzioni, ma anche per evitare problemi delicati. Questo comportamento rischia di scaricare sull’immagine delle forze armate la polemica politica. Ma, chissà perché, siamo affezionati alla teatralità, che può avere anche risvolti abbastanza seri." E se lo dice De Luca...

MATTEO RENZI. Mentre uno fa lo scrittore, l’altro diventa imprenditore. È il caso del ganzo di Firenze che ha aperto una società con sede a Roma, si chiama Ma.Re Consulting srl. Il futuro è segnato.

PAOLA BINETTI. La senatrice ammette i propri limiti a Repubblica: “Va bene, però mi chiedo: se ci troviamo di fronte un transessuale come lo definiamo, un uomo o una donna?” Come darle torto?

CARLO GIOVANARDI. “I numeri parlano chiaro: i gay sono più tutelati delle donne”.

CARLO CALENDA. Il candidato sindaco di Roma in un video social contro i suoi delatori: “Tale Damiano Er Faina mi ha voluto dedicare qualche minuto del suo prezioso tempo per spiegarmi l’importanza del linguaggio spiccio romanesco. Rispondere non era esattamente una mia priorità, ma sembra che molti ragazzi lo seguano”: “a Damià, a me la veracità me piace, la veracità romana, quella de Belli, quella de Trilussa, quella sboccacciata de Proietti, ma è la veracità, non la volgarità, soprattutto verso le donne. Per la volgarità ci stanno solo i ceffoni. Faì, questa mano po esse piuma o po esse fero: oggi è stata piuma, ma fai er bravo...”

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. Questa storia non è il video di Grillo. Non sono le sue parole urlate alla telecamera. Non è il suo dramma di padre. È prima di tutto la storia di una ragazza di 19 anni che racconta di aver subito una violenza sessuale e davanti a quella parola - stupro - rovesciare la prospettiva è un dovere. Quindi. C' è una ragazza (in realtà due, anche se dell' altra non si parla mai) che racconta di essere stata violentata. E ci sono quattro ragazzi che invece sostengono che non c' è stata nessuna violenza, che lei «ci stava», per essere chiari. È tutto lì il discrimine, nel concetto di una donna che «ci sta», che «era consenziente», che «ha denunciato dopo otto giorni... Strano». E poi, dice Grillo, «c' è un video e si vede il gruppo che ride», che «sono ragazzi che si stanno divertendo», che «sono in mutande, saltellano col pisello così perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori». E se invece la ragazza sta dicendo la verità? Come può sentirsi la vittima di uno stupro se per ore e ore - ormai da due giorni - vede la sua storia su ogni sito, su ogni talk show, su ogni giornale, raccontata da un uomo che, in sostanza le dà della bugiarda? Giulia Bongiorno, l' avvocata che la difende, parla di «dolore amplificato», di notte senza sonno, di «lacrime e disperazione», e dice che «la famiglia della ragazza è totalmente distrutta». Rivela una quantità infinita di richieste di interviste ma «hanno scelto il silenzio», giura, anche se il video di Grillo - già dirompente il primo giorno - ha creato ancora più tempesta ieri. «Quel video è un boomerang», si è spinta a dire. «Ha ridicolizzato i fatti, un' atipica strategia difensiva: si riduce in briciole un fatto in modo tale che sembri irrilevante. Ora mi aspetto un video in cui si dirà: beh, allora che sono venute a fare in Sardegna? È una strategia che tende a sostituire i ruoli processuali: le ragazze diventano imputate». Per entrare nel merito delle accuse dice che «il fascicolo penale è ricco di documenti, foto, video, chat. I fatti da valutare saranno tanti». Non sarà né un padre né la pubblica opinione a stabilire chi ha ragione. Certo, al di là del video di cui parla Grillo, l' indagine deve essere stata complessa se la procura di Tempio Pausania ha chiuso l' inchiesta dopo più di un anno. Un capo di imputazione che dice cose tipo: «costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno», «afferrata per la testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka», «costretta ad avere rapporti di gruppo» dagli indagati che hanno potuto contare sulle «sue condizioni di inferiorità fisica e psichica». Erano quattro ragazzi e due ragazze, la notte fra il 15 e il 16 luglio del 2019. Ciro, il figlio di Grillo, ospitava tutti nella sua casa in Sardegna. Con lui gli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti sott' accusa per violenza sessuale di gruppo. Il 20 novembre 2020 la procura guidata da Gregorio Capasso ha chiuso le indagini e adesso si deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio. Di tutte le tappe di quest' inchiesta il video di Grillo senior è stata senza dubbio la più rumorosa. «Lo porterò in procura come prova a carico», ha detto ieri mattina Giulia Bongiorno a L' aria che tira su La7. «È una prova che documenta una mentalità dell' eufemizzazione, spesso usata dagli uomini per giustificarsi quando sono imputati. Si dice alle vittime: state attente». «L' avvocato Bongiorno faccia quello che crede. Io avrei qualche perplessità, ma è inutile discuterne al di fuori dall' udienza...» è la replica affidata all' Adnkronos da Gennaro Velle, avvocato che con i colleghi Barbara e Romano Raimondo, assiste Francesco Corsiglia. «Io - insiste Velle - parlo di quello che accade nel processo, quello che accade fuori non mi interessa».

Da la7.it il 21 aprile 2021. Michela Murgia contro Beppe Grillo per il video in difesa del figlio accusato di stupro: "Di Battista e Taverna hanno minimizzato, "povero" padre. No, ha minimizzato la violenza scaricando responsabilità sulla vittima".

Da adnkronos.com il 21 aprile 2021. "Beppe Grillo ha fatto un video scandaloso: il dolore di un padre non giustifica l’aggressione verbale a una ragazza che denuncia violenza". Lo scrive Matteo Renzi, su Facebook, commentando il video con cui Beppe Grillo ieri ha difeso il figlio, accusato di stupro con 3 amici. "Invece che aspettare il processo, il pregiudicato che ha fondato il partito dell’onestà prova a salvare la sua famiglia dopo aver distrutto le famiglie degli altri. Quanta ipocrisia nella doppia morale di chi crea un clima d’odio e poi se ne lamenta", dice il leader di Italia Viva. "Le parole di Grillo – e il contestuale silenzio di Conte e Di Maio – dicono molto su cosa è diventato il Movimento Cinque Stelle. O forse è sempre stato così ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario".

Da iltempo.it il 21 aprile 2021. Salta all'ultimo l'intervento di Luigi Di Maio a L'aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino! E scatta il giallo: imbarazzo per il video di Beppe Grillo? La comunicazione ufficiale dello staff del ministro degli Esteri è stata: "È insorto un problema improvviso, non possiamo...". Poi la giustificazione ufficiale: "Il ministro ha avuto un impegno imprevisto". Secondo ricostruzioni effettuate da Il Tempo poco prima dell'inizio della trasmissione è arrivata la comunicazione della visita in Italia domani della ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush. E immediatamente sono state convocate riunioni per preparare l'incontro ed esaminare i dossier aperti. Nel corso della trasmissione la stessa Merlino aveva preso posizione sul video di Beppe Grillo, in cui il leader del M5S ha difeso il figlio Ciro e gettato fango sulla ragazza, presunta vittima di violenza sessuale: "La frase di Grillo sulla ragazza, che non ha denunciato subito e quindi era consenziente, è davvero inaccettabile, una frase carica di stereotipi, che spazza via in dieci secondi decenni di battaglie sul rispetto delle donne e fa confusione tra presunte vittime e presunti colpevoli. Quel video ha prodotto un danno a Grillo stesso, al figlio e al Movimento 5 Stelle intero. Oggi vaffa te lo dico io Beppe, da donna e da madre. Come si può dire che il processo non serve e che ci sono innocenti a prescindere? Ieri Grillo non è apparso lucido e in molti, anche tra i 5 Stelle, si chiedono come un uomo in questo stato possa gestire una fase politicamente così difficile per il M5S. Ieri la passione non è mancata, il cervello...".

Dagospia il 21 aprile 2021. Dall'account facebook di Salvatore Merlo. Fabiana Dadone è il ministro delle politiche giovanili. È del movimento cinque stelle e ha trentasette anni. L’8 marzo scorso, festa della donna, ha pubblicato una foto su instagram di cui si è molto discusso perché la  ritraeva con i piedi sulla scrivania del ministero, una maglietta dei nirvana e le scarpe rosse simbolo della lotta alla violenza contro le donne. Scriveva Dadone: “In questa giornata tanto evocativa e tanto attenta al politically correct, vorrei dire con molta onestà che sul fronte della parità di genere c'è ancora molta strada da fare. Una strada in salita e piena di ostacoli culturali che dobbiamo avere la forza di affrontare con tutta la tenacia che abbiamo nel cuore". Da ieri le chiedo di commentare le parole oscene di Beppe Grillo. Niente da fare. “Con tutta la tenacia del cuore”. Non che debba parlare con me, ma parlare sì. In qualunque modo. Con chiunque, anche da sola su Facebook, lì dove manifestava una “enorme” sensibilità per l’argomento della violenza contro le donne. Facile mettersi le scarpe rosse e farsi una foto suggerita dal social media manager.  Più coraggioso sarebbe tirarle, le scarpe, in testa al troglodita che le ha dato il seggio in Parlamento.

"Vi spiego perché la legge dà torto a Grillo". Sofia Dinolfo il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. L'ex comico "assolve" il figlio colpevolizzando la vittima che non ha denunciato subito. Ma l'avvocato Elisabetta Aldrovandi spiega il Giornale.it perché Ciro Grillo può andare a processo (e rischiare la condanna). Non si fermano le polemiche legate al video pubblicato da Beppe Grillo sulla vicenda che vede il figlio Ciro coinvolto in un’indagine per violenza sessuale di gruppo verso una ragazza italo-norvergese. I fatti per i quali indaga la procura risalgono alla notte del 16 luglio del 2019 e potrebbero aprire le porte del processo per Ciro Grillo assieme agli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Le parole del fondatore del Movimento 5 Stelle continuano a fare il giro del web sollevando diverse reazioni. Fra queste vi sono quelle legate ad alcune affermazioni che riguardano aspetti meramente giuridici come i tempi legati alla denuncia dello stupro e all’avvio di un’inchiesta giudiziaria. Su il Giornale.it assieme ad Elisabetta Aldrovandi, avvocato e presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, abbiamo fatto chiarezza su alcuni elementi legati alle dinamiche giuridiche che scaturiscono nell’ambito di una denuncia per stupro.

Quali sono i termini concessi ad una vittima di violenza sessuale per sporgere denuncia?

“Dopo l’entrata in vigore della legge 69/2019, ossia dall’8 agosto 2019, i termini per presentare denuncia per il delitto di violenza sessuale è stato aumentato da sei mesi a un anno. E questo, perché è stata raccolta la proposta proveniente da più parti, tra cui anche l’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime che mi onoro di presiedere, di riconoscere maggiore tempo per denunciare a chi ritiene di avere subito un delitto così gravemente lesivo della propria intimità e devastante da un punto di vista psicologico, oltre che fisico”.

Nell’ambito della sua esperienza professionale che tempi impiegano le vittime di solito?

“Una vittima di stupro non sempre si rende conto di esserlo nell’immediatezza del fatto. Anzi, spesso si vergogna, prova un senso di colpa e addirittura si sente responsabile per il reato subito, magari perché aveva bevuto un bicchiere di troppo o indossava un abito succinto. La stessa denuncia, spesso, rappresenta una seconda violenza per la vittima, la quale si ritrova a dover ripercorrere, istante dopo istante, i momenti della violenza e dell’aggressione. Io chiamo lo stupro “omicidio dell’anima”, poiché le conseguenze che ne derivano sono gravi e difficilmente superabili, anche nel lungo periodo, coinvolgendo esse la sfera più intima e personale della vittima, quella sessuale”.

Nel momento in cui la vittima si presenta agli inquirenti per raccontare i fatti, cosa succede? Che iter si avvia a partire da quel momento?

“In quel momento viene verbalizzato il fatto nel modo più particolareggiato possibile. La denuncia viene sottoscritta dalla persona offesa e dai verbalizzanti e inviata in procura. Dopo di che, entro 72 ore da quando il Pubblico Ministero riceve la denuncia, viene attivato il cosiddetto “codice rosso”, ossia la vittima viene riascoltata per comprendere se sussiste la necessità di assumere provvedimenti limitativi della libertà della persona denunciata, anche in relazione alla pericolosità della stessa che, in parte, si può desumere dalle dichiarazioni della persona offesa.

Possiamo spiegare perché i presunti stupratori non sono stati portati subito in galera (è uno dei dubbi che avanza Grillo nel video)?

“La violenza sessuale è uno dei delitti per cui è previsto l’arresto in flagranza, il quale deve essere convalidato nelle ore successive, e in sede di convalida il giudice può determinare una misura cautelare come la detenzione in carcere. Tuttavia, nelle denunce effettuate dopo il fatto, misure di detenzione carceraria possono essere assunte solo se sussistono i presupposti di cui all’art. 274 codice di procedura penale, ossia il pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Evidentemente, nel caso in esame, il giudice non ha ritenuto sussistente nessuno dei suddetti elementi, ma questo non può incidere minimamente su un eventuale successivo processo diretto a stabilire l’innocenza o la colpevolezza degli imputati o di alcuni di essi”.

Dopo la denuncia c’è un termine perentorio per il possibile avvio di un processo? Perché dalla denuncia del 2019 si sta parlando solo adesso di un possibile rinvio a giudizio dei ragazzi?

“Le indagini preliminari hanno una durata massima di diciotto mesi, tranne che per reati come omicidio o quelli di stampo mafioso per cui si può arrivare a due anni. Tenuto conto l’anno eccezionale in tema di emergenza sanitaria che abbiamo passato e che ancora non è terminato, e che dalla fine delle indagini preliminari alla richiesta di archiviazione o rinvio a giudizio può passare altro tempo, i tempi relativi a queste indagini non mi paiono esageratamente lunghi”

L’avvocato Giulia Bongiorno a “L’aria che tira” su La7, ha detto che userà il video di Beppe Grillo come “strumento di prova a carico”. Prova dell’eufemizzazione, “cioè quella mentalità di prendere cose importanti e ridurle in briciole sminuendo la gravità del fatto”. In che modo quel video può mostrare davvero ciò?

“Sicuramente alcune frasi, legate al tentativo di destituire di peso la denuncia per il fatto di essere stata presentata otto giorni dopo il fatto, o che la ragazza, il giorno successivo, era a fare kitesurf, sembrano sintomatiche di un approccio superficiale e di scarsa conoscenza del mondo delle vittime di reati violenti. Poi, che si tratti di frasi pronunciate perché in preda al dolore e alla disperazione, può renderle comprensibili ma non giustificabili, considerato il seguito social e mediatico di colui che le ha pronunciate”.

L’avvocato Bongiorno dice che il video è stato un boomerang. È davvero così da un punto di vista processuale?

“Non sono in grado di rispondere in modo esaustivo non conoscendo le carte processuali. La collega Bongiorno è un ottimo avvocato, il suo ragionamento sarà sicuramente frutto di ragionamenti e deduzioni fondati”.

"Vuol essere arrestato? Uccise la mia famiglia ora vada pure in cella". Gian Paolo Serino il 21 Aprile 2021 su Il Giornale. Cristina Pozzi nel 1981 perse genitori e fratello nell'incidente per cui Grillo è stato condannato. «Arrestate me, invece che mio figlio Ciro». Così Beppe Grillo nel video-arringa dove difende il suo rampollo dalle accuse di «stupro di gruppo». Che il comico genovese si sia deciso a pagare davvero con la galera le sue colpe? Perché mentre Grillo si mostra alle telecamere come un padre disperato, c'è una bambina, oggi diventata donna, e una famiglia che per colpa sua piangono davvero da quarant'anni. È Cristina Pozzi che, per la prima volta in questa intervista esclusiva, ha deciso di rivelare il proprio nome e cognome: «La cattiveria del Grillo uomo, che ha distrutto la mia infanzia e la mia gioventù ora non mi fanno più paura. Beppe Grillo ha ucciso la mia famiglia: era il 21 Dicembre 1981, io ero rimasta a casa a giocare ma mio padre Renzo, mia madre Rossana e mio fratellino Francesco non li ho mai più rivisti. Erano a bordo della jeep Chevrolet di Grillo: lui si è salvato, la mia famiglia è morta per colpa sua». La storia è nota ma ancora poco conosciuta rispetto al delitto: in quel 1981, con il comico all'apice del successo, Grillo si fece ospitare dall'amico di infanzia Renzo Giberti, 45 anni, e dalla moglie Rossana Quartapelle, 35 anni, nella loro villa in montagna a Limone Piemonte. Grillo insistette molto, dopo pranzo, per raggiungere i 3000 metri di quota con la sua nuova jeep, che aveva fatto appena arrivare dall'America. Secondo i testimoni non la sapeva guidare: sì testimoni, perché Grillo è stato condannato nel 1985 in Corte d'appello per omicidio plurimo e nel 1988 ritenuto responsabile anche dalla Corte di Cassazione. Solo lui si salvò: aprendo la portiera e lanciandosi sulla strada mentre la jeep proseguiva la folle corsa precipitando in un burrone. La condanna fu di «un anno e due mesi di reclusione con sospensione della patente di guida per eguale periodo di tempo», pena poi condonata perché era incensurato. Grillo difendendo il figlio ripete più volte che se è davvero uno stupratore deve essere arrestato, ma questo suo precedente smentisce la sua arringa. Non ha mai fatto un giorno di prigione, mentre la prigione del dolore non è stata è «condonata» alla famiglia degli uccisi. La piccola Cristina fu adottata dalla zia Maura Quartapelle: anche lei decide di parlare per la prima volta ricordando che quella tragedia in cui perse la sorella, il cognato e il nipotino di 9 anni, ha sempre segnato la sua vita: «Non ci fecero vedere neanche i cadaveri. Ci misero due giorni e due notti per ritrovare il mio nipotino: era incastrato, a pezzi, sotto la jeep. E dire che era proprio a fianco di Grillo: giocava con una macchinina della Range Rover che Grillo stesso gli aveva regalato quel giorno. Sarebbe bastato allungare una mano e l'avrebbe salvato. Mio cognato Renzo Giberti - stimato imprenditore di Genova - lo trovarono con mezzo cervello fuori, come mia sorella, che mi dissero, era completamente irriconoscibile». «Grillo - continua Maura Quartapelle - malgrado le insistenze di mio cognato che conosceva le strade, volle per forza usare la sua jeep che guidava pochissimo. Non sapeva neanche scalare le ridotte. Quando arrivai a Limone Piemonte il giorno dopo, Grillo era già andato via: neanche una parola, una scusa: niente. Non venne neanche ai funerali a Genova e mentre sui giornali dell'epoca si diceva distrutto, dopo neanche un mese dalla morte di tre persone aveva già ripreso gli spettacoli nei teatri». Cristina Pozzi, la bambina rimasta orfana a 7 anni, ricorda bene Beppe Grillo perché «veniva sempre a casa mia e andava a vedere il Genoa con il mio papà. Io l'ho cercato, ma invano. Volevo almeno che mi raccontasse gli ultimi attimi di vita dei miei genitori, che mi desse pace, che mi chiedesse almeno scusa. Poi con il tempo - non ho mai preteso nulla da lui e non voglio farmi pubblicità, non intendo diventare un caso mediatico - ho solo deciso, adesso che ho raccontato la verità ai miei due figli, di non vergognarmi più». «Perché Beppe Grillo - ci confessa - è stato capace, con il suo silenzio, di farmi sentire in colpa: Perché non c'ero? Perché ero rimasta a casa? Avrei potuto salvarli?». Grillo, malgrado le dichiarazioni sui giornali del 1981 da prima pagina «Adotterò Cristina», non si è mai fatto vivo. Il dolore è sempre stato quotidiano, ma ora Cristina Pozzi non ha più paura di Beppe Grillo: «Ogni volta che lo vedo in televisione o lo sento parlare vedo un uomo - condannato dal tribunale per l'omicidio dei miei familiari - che non ha scontato neanche un giorno di galera. Adesso chiede di essere arrestato al posto del figlio? Bene: è ora che paghi la sua condanna. Sta vivendo la condanna della vita: perché prima o poi la vita ti presenta il conto e non c'è coscienza che possa sfuggire». Veronica Pozzi ricorda la cugina che d'improvviso si ritrovò sorella: «Cristina aveva gli incubi nei primi mesi, si è portata dentro questo dolore tanto, troppo tempo. La nostra non è una vendetta o un accanirci sulle disgrazie del figlio, ma vedendo il video abbiamo ritrovato lo stesso uomo, lo stesso tentativo di far sentire in colpa le vittime. La mia famiglia è rimasta dilaniata da quegli omicidi impuniti: mio fratello Matteo è rimasto segnato da questa vicenda tanto da tentare più volte il suicidio sino alla morte». «Un politico? - conclude Cristina Pozzi -. Non lo so, non mi interessa. Mi interessa solo dire: Caro Beppe, mi hai ridotto con il tuo colpevole silenzio a essere Cristina tutta la vita. Ora sono Cristina Pozzi e sono madre di due figli splendidi». Il resto è cronaca e tribunali, ma la storia della famiglia Pozzi Quartapelle, sentita interamente al telefono, provoca i brividi. Quei brividi che la carta di un giornale non sempre riesce a trasmettere, ma quello che è evidente è che almeno una donna in Italia si è liberata definitivamente dei Grillo: Cristina Pozzi.

Maurizio Belpietro per "La Verità" il 21 aprile 2021. Una donna che parla di un'altra donna. Una donna di 62 anni che parla di una ragazza appena maggiorenne e definisce consenziente il sesso di quest' ultima con quattro coetanei. Non siamo moralisti, ma una giovane che si dedica a un' orgia, al sesso di gruppo, per il comune senso del pudore è considerata una puttana. Ecco, ParvinTadjik, moglie di Beppe Grillo, ieri ha praticamente dato della puttana alla ragazza che accusa suo figlio e i suoi amici di averla violentata. Era consenziente, ha sentenziato. Un video lo dimostra. Peccato che questo modo di dire sia tra le prove di accusa che la stessa Giulia Bongiorno, legale della giovane, ha intenzione di produrre davanti al giudice. I giornalisti che si occupano di cronaca nera e spesso sono costretti a riferire casi di violenza sessuale, sanno che la difesa più abusata dagli stupratori è quella sentita l' altro ieri nel video del fondatore del Movimento 5 stelle e ribadita ieri dalla moglie. La ragazza era consenziente. Lo dissero anche i due carabinieri di Firenze che furono accusati di aver violentato due studentesse americane. Non hanno dato segno di non volere fare sesso quando ci siamo accostati a loro. Certo, erano ubriache e non erano in grado di respingere i loro violentatori in divisa. Quelle due ragazze non erano nelle condizioni di resistere all' abuso: questo hanno appurato gli inquirenti e questo hanno sentenziato i giudici che hanno condannato i due uomini dell' Arma a 5 anni e 6 mesi e a 4 anni e 8 mesi. Si fa presto a dire consenziente. Lo ha detto anche Alberto Genovese delle sue giovani vittime, quelle a cui faceva consumare ogni genere di sostanza, per poi poterle avere inermi a sua disposizione, pronte per essere usate in ogni modo, come animali in trappola in una camera da letto sorvegliata a vista affinché nessuno disturbasse il padrone di casa durante i suoi «giochi». Sì, tutte consenzienti. Le studentesse americane, le modelle della movida milanese, la minorenne che a La Spezia un anno fa venne abusata nel parco da due coetanei, la ragazza stuprata in spiaggia a Cagliari. Consenziente perfino l' educatrice di un centro per minori in provincia di Ravenna, rinchiusa in una stanza e violentata per una notte. L' ho scritto ieri: un padre ha il diritto di difendere il proprio figlio e così pure una madre. Entrambi possono sostenere ciò che vogliono, arrivando a minimizzare e anche a negare i fatti. Tuttavia, c' è un limite al diritto di difesa del proprio pargolo ed è l' offesa della vittima. Beppe Grillo e sua moglie, sostenendo la tesi del sesso consenziente, un sesso praticato con violenza e con rapporti multipli con più ragazzi, stanno offendendo una ragazza. Si divertivano, secondo il comico. Una serata da coglioni, non da violentatori. Sono parole sue, di Grillo, e vergognandomene le riporto. Ma come si fa a ritenere pacifico, normale, che in quattro si siano «fatti» una ragazza. Come si fa a pensare che una giovane, dopo aver bevuto mezza bottiglia di vodka - peraltro non di sua spontanea volontà, ma costretta - possa essere in grado di difendersi o anche solo di capire che cosa le sta accadendo. D' accordo, un genitore crede sempre che il proprio figlio sia un angioletto, ma nel branco l' angioletto si può trasformare. Noi non siamo qui a fare il processo a Ciro Grillo e ai suoi amici: a quello, se sarà il caso, ci penseranno i giudici. Tuttavia, non vogliamo nemmeno che il processo lo facciano alla vittima i due genitori dell' indagato. È intollerabile. Già sopportiamo a malapena le scemenze che Grillo dice su argomenti di interesse generale, sull' economia, sulle strategie industriali, su quelle sociali. Ma sentirlo parlare senza ritegno di una vicenda delicata e sofferta come quella che vede coinvolto suo figlio e una ragazza di vent' anni, è qualche cosa che mai avremmo immaginato. Ci domandiamo dove siano le donne, le intellettuali che negli anni passati scendevano in piazza a difesa della dignità femminile, quelle che manifestavano al grido di «Se non ora quando?». Non hanno niente da dire se il leader di un Movimento che tiene in pugno il Parlamento dà della bugiarda a una ragazza solo perché prende il surf il giorno dopo la presunta violenza? Nulla da obiettare se, in barba a una legge introdotta dal governo Conte, il suo governo, e dal ministro Bonafede, che estese a 12 mesi la possibilità di denunciare, Grillo dice che rivolgersi ai carabinieri otto giorni dopo i fatti prova che lo stupro non c' è stato? Sì, le frasi di Grillo e della moglie sono rivoltanti, oltre che un' indebita pressione, se non un' intimidazione come ha detto il legale della vittima. Tuttavia, è rivoltante anche il silenzio dei big grillini, quelli che in Parlamento sono arrivati al grido di «Onestà, onestà». Consenzienti anche loro?

Il figlio di Beppe Grillo si difende in procura: “Non ci fu violenza, ma sesso consenziente”. Da "lastampa.it" il 17 aprile 2021. «Non c'è stata violenza sessuale, ma sesso consenziente». Lo ha ripetuto più volte Ciro Grillo, il figlio del garante del M5S, davanti al procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, durante l'interrogatorio che si è tenuto in gran segreto giovedì sera nei locali della piccola procura. Un interrogatorio lungo, difficile, terminato solo in tarda serata, come apprende l'Adnkronos. È stato il suo legale a chiedere alla procura di sentire Grillo junior, che è indagato, con tre amici, per violenza sessuale di gruppo su una giovane che sarebbe avvenuto nel luglio 2019 nella sua villa in Costa Smeralda. Nel novembre scorso il magistrato ha chiuso le indagini e ha messo gli atti a disposizione della difesa, che ha chiesto un termine per fare le controdeduzioni ed eseguire le indagini difensive. E nei giorni scorsi sono stati ascoltati gli altri tre indagati dell'indagine, tenuta top secret. Giovedì sera è toccato, invece, al giovane Ciro Grillo, all’epoca dei fatti 19enne. Dalla procura bocche cucite sul contenuto dell'interrogatorio. Intanto, il termine sta per scadere e la Procura sta decidendo in queste ore se chiedere il rinvio a giudizio per Grillo junior e i suoi tre amici. Come apprende l'Adnkronos, la procura è orientata a chiedere il processo per i quattro ragazzi. Perché secondo i magistrati non fu «sesso consenziente», come dice invece la difesa degli indagati. Per l'accusa è stata «violenza sessuale di gruppo». L'inchiesta è a carico di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro, nel luglio del 2019, erano in vacanza in Costa Smeralda, tra serate danzanti al Billionaire e cene con gli amici. Ma una notte, il 16 luglio, come poi ha raccontato una ragazza di 19 anni, si sarebbero resi responsabili di stupro di gruppo. A loro carico ci sarebbero anche alcune fotografie che i consulenti della procura hanno trovato sui cellulari e qualche intercettazione. Per l’accusa, la ragazza è stata «costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno», «afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka» e «costretta ad avere rapporti di gruppo» dai quattro giovani indagati che hanno «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica» di quel momento. È difesa dall'avvocata Giulia Bongiorno, ex ministra leghista nel primo governo Conte, è stata più volte dagli inquirenti e ha raccontato, fin nei minimi particolari, quanto sarebbe accaduto in quella notte. I magistrati in quasi due anni di indagini hanno anche messo sotto controllo i telefoni non solo dei ragazzi ma anche di Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo e moglie del comico genovese. La donna, sentita dai pm, ha sempre raccontato che quella sera dormiva nell'appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente. Lo scorso 20 novembre, dopo più di un anno dai fatti, la Procura, guidata da Gregorio Capasso, ha inviato la notifica alle difese mettendo a disposizione il materiale agli atti. I legali hanno chiesto una proroga per le memorie difensive perché il materiale è «enorme», come dice chi ha potuto vederlo. Il procuratore Capasso e la sostituta Laura Bassani, hanno inserito nel fascicolo le immagini ritrovate nei telefoni che, secondo l'accusa, mostrerebbero gli abusi anche ai danni della seconda ragazza che dormiva. E adesso, a giorni, è atteso il deposito della richiesta di rinvio a giudizio negli uffici del gup del piccolo Tribunale di Tempio Pausania, guidato dal magistrato napoletano Giuseppe Magliulo. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, grazie al racconto della vittima ma anche di alcuni testimoni, quella notte di metà luglio 2019, Ciro Grillo e i suoi tre amici avevano trascorso la serata al Billionaire. Poi, quasi all'alba, avevano lasciato il locale con due giovani studentesse milanesi. Le ragazze avevano seguito i quattro giovani nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda. Solo che su quello che è accaduto qui ci sono diverse versioni. Da un lato la ragazza, che ha raccontato di essere stata stuprata, dopo che l'amica si era addormentata. La giovanissima ha detto di essere stata costretta a un rapporto sessuale con uno dei ragazzi. E poi essere stata stuprata anche dagli altri tre. Ma la versione fornita dai giovani rampolli della Genova bene è del tutto diversa. Hanno raccontato che il rapporto di gruppo con la giovane c'era stato ma che era «consenziente». E per rafforzare la loro tesi hanno raccontato ai magistrati che li hanno interrogati più volte che dopo il primo rapporto, lei e il primo ragazzo, sarebbero andati insieme a comprare le sigarette, e al ritorno, nella villa del Pevero, a Porto Cervo, lei avrebbe avuto rapporti consenzienti con gli altri tre. E che nei giorni seguenti ci sarebbero stati scambi di messaggi con i ragazzi. La denuncia è avvenuta solo successivamente, quando la ragazza era tornata a casa a Milano. Una versione che contrasta con quanto raccontato dalla ragazza, una studentessa italo-svedese in vacanza con l'amica. Negli atti di accusa, visionati dall'Adnkronos, c’è il racconto crudo della ragazza che racconta di essere stata stuprata a turno. «Verso le sei del mattino - si legge in un verbale - mentre R. M. (l'amica della vittima ndr) dormiva», scrivono i magistrati, la giovane è «stata costretta» ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, con uno dei ragazzi. «Gli altri tre indagati hanno assistito senza partecipare». Poi un'altra violenza, costringendo la giovane a bere mezza bottiglia di vodka contro il suo volere. La procura ha anche una serie di fotografie e immagini che ha inserito nel fascicolo. «La ragazza ha poi perso conoscenza fino alle 15 quando è tornata a Palau», scrivono i pm. La «lucidità» della vittima «risultava enormemente compromessa» quando è stata «condotta nella camera matrimoniale dove gli indagati» l'avrebbero costretta ad avere «cinque o sei rapporti». sessuali. Adesso spetta alla Procura decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione dei quattro ragazzi.

Beppe Grillo, il figlio torna su Instagram e pubblica il video di papà: "Giornalisti o giudici?". Scatta il linciaggio, resta un sospetto. Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Diciassette mesi dopo la sparizione social, avvenuta in concomitanza con l’inizio dell’indagine sul presunto stupro in Costa Smeralda ai danni di una 19enne milanese, Ciro Grillo ha riattivato il suo profilo Instagram. E, stando a quanto riportato dal Corriere della Sera, lo ha fatto per pubblicare un solo contenuto: il video in cui il padre Beppe si sfoga e lo difende a spada tratta da tutte le accuse, prendendosela con la giovane donna che ha denunciato e mettendo pressione sulla magistratura. “Giornalisti o giudici?”, è la didascalia che il figlio del garante M5s ha scelto a corredo del video. Sotto al quale sono piovuti quasi duemila commenti, la stragrande maggioranza dei quali non è riportabile, contenendo insulti pesantissimi e indirizzati sia a lui che al padre. “Vergognati”, “imbarazzante”, “un’altra pagliacciata” sono solo alcuni dei commenti meno pesanti, insieme a quelli in difesa della 19enne: “Ma vi pare - scrive un utente - che una giovane stuprata vada subito a denunciare dopo un trauma del genere? Vergognatevi”. E non mancano neanche le minacce nei confronti di Ciro Grillo: “Se ti trovano per strada chissà che ti fanno”. C’è però un giallo sul profilo del figlio del garante M5s, evidenziato da Il Messaggero. Sebbene il Corsera abbia dato per certo che quello fosse l’account riattivato da Ciro Grillo, secondo alcuni la veridicità di tale account non può essere data per scontata: la foto del profilo è infatti la stessa utilizzata da tutti i giornali negli ultimi mesi ed è comune ad almeno un altro paio di profili Instagram a nome di Ciro Grillo. Quindi Il Messaggero non si sente di escludere che possa trattarsi di un fake. 

Alessandro Fulloni per corriere.it il 21 aprile 2021. Un hashtag eloquente, #freeciruz. E il video del padre Beppe condiviso nuovamente sul suo profilo Instagram dal quale, attorno ai primi di settembre del 2019, a seguito del via dell’indagine sul presunto stupro in Costa Smeralda ai danni di una 19enne milanese, erano scomparse tutte le foto e i post. Ciro Grillo dopo circa diciassette mesi di silenzio riattiva dunque il suo account social — il nickname è «Ciruzzolohiil» — e posta il filmato con lo sfogo del genitore e Garante M5S intervenuto a sua difesa. Il titolo (come riporta «il Secolo XIX » che ha dato la notizia in un articolo a firma Tommaso Fregatti e Matteo Indice) è lo stesso — «Giornalisti o giudici?»— preparato dal comico per il suo blog. L’unica novità è che a corredo c’è l’hashtag. Appunto: #freeciruz.

Una raffica di insulti. Non si può dire che la Rete abbia molto apprezzato il ritorno del primogenito di Grillo su Instagram. Tra i circa 1.000 commenti totalizzati nella serata di martedì spiccavano soprattutto insulti, in gran parte irriferibili e indirizzati tanto a lui quanto al padre. Ecco il campionario dei commenti tra i meno pesanti: «Vergognati», «imbarazzante», «un’altra gran pagliacciata». Molti sono a difesa della 19enne: «povera ragazza», «ma vi pare che una giovane stuprata vada subito a denunciare dopo un trauma del genere? Vergognatevi». E ancora: «Un buon padre avrebbe solo taciuto». Altri si rivolgono direttamente al figlio del comico: «Perché non ci mostri la tua versione dei fatti?». Non mancano quelli che se la prendono «con il tuo stile di vita» e altri che, neanche troppo velatamente, lo minacciano: «Se ti trovano per strada chissà che ti fanno».

Il profilo Instagram chiuso due anni fa. Come detto, Ciro Grillo chiuse il suo profilo all’indomani della comparsa sui giornali della notizia dell’indagine che lo vedeva coinvolto. Sino a poche ore prima sul suo account Instagram erano visibili foto di feste sulla spiaggia con il drink in mano, sorrisi e abbracci con le ragazze, i selfie sorridenti in comitiva e gli addominali scolpiti. In una foto dell’agosto 2017 il figlio del comico scriveva, accanto a una foto in un cui compie un esercizio atletico, un commento decisamente pesante: «Ti stupro bella bambina, attenta». In un’immagine del 31 agosto 2017, ripresa durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College (scuola che si trova a Bucklands Beach, Auckland), ecco il ragazzo in primo piano con degli amici e un suo commento: «C...i durissimi in Nuova Zelanda».

Tante foto di combattimenti di savate. Un’altra foto lo ritraeva insieme a un amico con i rayban neri. Sotto comparivano queste parole: «la tua bitch (prostituta, ndr) mi chiama jonny sinn». Poi anche un hashtag, quello di #Bluwhale, famigerato gioco (rimasto un fenomeno sul web, mai verificato) che prevede la sottomissione di adolescenti a complessi rituali che indurrebbero al suicidio. E infine tante foto di combattimenti di savate, arte marziale praticata da Grillo jr che ha vinto tre titoli nazionali guadagnandosi anche una convocazione in azzurro. Sono numerose le interviste online in cui Ciro Grillo parla della sua passione nata poco più che quindicenne per la boxe francese «che mi serve per non pensare allo stress della scuola». Gli allenamenti «sono frequenti, almeno quattro a settimana e ciascuna seduta può durare un paio d’ore. Papà è orgogliosissimo dei miei titoli: dice che sono il frutto dell’allenamento».

Selvaggia Lucarelli, l'articolo contro Beppe Grillo pubblicato da Tpi, ma non dal Fatto. Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Il filmato di Beppe Grillo in difesa del figlio, sotto accusa per stupro, ha scosso anche la redazione del "Fatto quotidiano", giornale da sempre vicino alle posizioni dell'ex comico, ma che da tempo ribolle per la linea editoriale del direttore Marco Travaglio così schiacciata su Conte-PD. Un durissimo editoriale contro Grillo di Selvaggia Lucarelli, che è una degli editorialisti del quotidiano, non ha trovato spazio sul quotidiano, ma sul sito di Tpi dove collabora la Lucarelli. L'articolo di Paola Zanca, invece, che ha sottolineato come "denunciare una violenza dopo otto giorni non è strano", è stato relegato in un trafiletto a pagina 8 nella rubrica "Lo Sberleffo". Praticamente un siluro sapientemente depotenziato, fa notare Dagospia. Lo stesso Travaglio, nel suo editoriale di oggi dal titolo "Due errori e un diritto", sostiene Grillo: "Non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto", ha scritto. Travaglio ha inoltre precisato che "infilare la politica in un processo per stupro è quanto di più demenziale, anche perché Ciro Grillo non fa politica. La fa suo padre, il quale non risulta aver mai detto che si è colpevoli prima della sentenza". E Dagospia, inoltre, fa notare che quel video, arrivato dopo 20 mesi di silenzio e a ridosso di un probabile rinvio a giudizio del figlio Ciro, "diffuso con la potenza di fuoco a disposizione di Grillo e maldestramente argomentato (la consensualità del rapporto sessuale dimostrata dal ritardo di 8 giorni nella denuncia) come riconosce lo stesso Travaglio, è come un rutto in Chiesa: inopportuno. Che poi abbia avuto l'effetto opposto a quello desiderato, è un altro discorso". Insomma il fattore Grillo sta mettendo a soqquadro anche la redazione del Fatto quotidiano, da sempre vicino alle posizioni grilline. 

Da liberoquotidiano.it il 21 aprile 2021. Certo, nel suo incredibile editoriale di oggi, mercoledì 21 aprile, sul Fatto Quotidiano, Marco Travaglio è riuscito a difendere Beppe Grillo. Già, Marco Manetta, il direttore simbolo dell'ultra-giustizialismo italiano, per il comico M5s è diventato garantista. La vicenda ovviamente è quella del violento e discusso video di Grillo in difesa del figlio Ciro, accusato di violenza sessuale, il video in cui il comico di fatto afferma che la ragazza che accusa il pargolo sta mentendo e addirittura si spinge a chiedere di "arrestate me". Farneticazioni, in grado però di fare male, male vero, alla presunta vittima e alla sua famiglia. Ma, si diceva: Travaglio, il Fatto. Bene, se il direttore comunque riesce nella mirabile impresa di vergare un fondo garantista, ovviamente per Grillo, se Travaglio afferma che gli fanno "ribrezzo" quelli che accusano Grillo per la sua rabbia, ecco che comunque in prima pagina, sul medesimo quotidiano, piove anche un duro attacco al comico ligure, al presunto Elevato contro il quale si è scatenato l'intero arco parlamentare, da destra a sinistra e arrivando fino al M5s (alcuni hanno espresso pubblicamente il dissenso per quel video, rumors di stampa danno conto di un partito in ebollizione. In toto). Eccoci dunque all'attacco, che piove nella vignetta firmata da Mannelli, eccezionalmente non contro Salvini, ma proprio contro Beppe. Nel disegno, ecco il faccione di Grillo, smostrato dalla rabbia, mentre urla in modo scomposto: "Arrestate me, arrestate me, arrestate me". Il tutto mentre sputazza saliva per gli urlacci. E in calce, il tagliente commento di Mannelli: "In effetti è quasi più di fuori del pisello del figlio". E il riferimento è dopo: ad essere fuori è Grillo, mentre quando Mannelli parla del pisello si riferisce a quanto detto su Ciro proprio dal comico nel corso del controverso filmato.

Da liberoquotidiano.it il 21 aprile 2021. Chi l'avrebbe mai detto. Per una volta Gad Lerner prende le difese di Matteo Salvini. O meglio, il giornalista lo tira in ballo senza motivazioni salvo poi lanciarsi in un parziale endorsement. Il tema della puntata del 20 aprile di Cartabianca è Beppe Grillo e il figlio Ciro accusato di stupro. In particolare quello che sta facendo più scalpore è il video rilanciato dal fondatore del Movimento 5 Stelle in cui prende a spada tratta le difese del figlio arrivando addirittura a negare lo stupro. "Un filmato orrendo e vergognoso - lo definisce lo stesso Lerner - e penso al male che ha fatto a quella giovane donna, a suo figlio e agli imputati in un processo di autodistruzione personale e della sua leadership. Il Papeete di Salvini è una bazzecola a confronto". Nel video Grillo tuonava: "La legge dice che gli stupratori vengono arrestati e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari. Invece sono lasciati liberi per due anni, perché? - si chiede Grillo -. Perché non li avete arrestati subito? Ce li avrei portai io in galera, a calci nel c***". E ancora: "Vi siete resi conto che non è vero niente che c'è stato lo stupro. Perché una persona stuprata la mattina, al pomeriggio fa kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia vi è sembrato strano. Bene, è strano". Parole fortissime che non sono andate giù neppure all'interno del Movimento. Chiusa la parentesi Grillo, è la volta del coronavirus. Anche Lerner tra le fila dei chiusuristi alla Speranza maniera: "I Paesi che hanno riaperto, come Israele o Regno Unito, hanno vaccinato gran parte della loro popolazione e ridotto i numeri del contagio. Noi stiamo andando in controtendenza rispetto a Francia e Germania. Spero non avremo di che pentircene".

Da ilmessaggero.it il 21 aprile 2021. «Capisco il dolore e il dramma di un padre. Soprattutto di un padre che ha avuto una figlia stuprata da un gruppo di maschi, per divertimento». Con un duro post su twitter, Nicola Piovani, il grande compositore e musicista, irrompe sulla vicenda del figlio di Grillo accusato di stupro e fa il verso alla lettera che Conte ha scritto ieri proprio al fondatore del M5s.

La lettera di Conte. Dopo le parole di difesa di Beppe Grillo nei confronti del figlio, molto critiicate sia a destra che a sinistra, l'ex premier ha voluto infatti dire la sua: «Sono ben consapevole di quanto questa vicenda familiare lo abbia provato e sconvolto. Comprendo le preoccupazioni e l’angoscia di un padre, ma non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati, vale a dire la giovane ragazza direttamente coinvolta nella vicenda e i suoi familiari che sicuramente staranno vivendo anche loro momenti di dolore e sofferenza». Una mossa più che altro politica. Una prova di fedeltà - per evitare che Grillo lo disconosca e si penta di avergli affidato il partito - unita però a una presa di distanza e a uno smarcamento per scongiurare che il movimento venga travolto.

Le critiche. Sono tanti i personaggi famosi che in queste ore hanno criticato le parole di Grillo nel video pubblicato sui social. Parole pesanti, «c’è un video girato da lui e dagli altri amici quella notte, in cui si vede che c’è la consensualità: un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello di fuori perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori». Dalla scrittrice Dacia Maraini a Damiano, leader dei Maneskin, gruppo che ha vinto Sanremo, che ha dichiarato «è stupro anche se viene denunciato dopo», al conduttore Francesco Facchinetti.

Beppe Grillo, Vittorio Feltri: "Quel video è agghiacciante, ma il comico va rispettato". La scomoda verità del direttore. Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 21 aprile 2021. È iniziato il tiro al bersaglio. Tutti i lacchè i quali per alcuni anni hanno umettato le terga di Beppe Grillo adesso gli sparano addosso per demolirlo, solita operazione squallida all' italiana che provoca ondate di disgusto. I fatti sono noti. Il figlio Ciro (io avevo un cane con questo nome che era il più saggio della mia famiglia) del comico ligure verrà probabilmente rinviato a giudizio insieme a tre amici, con i quali avrebbe abusato di una ragazzina nel 2019, dopo averla costretta a tracannare alcol a iosa. Brutto affare su cui ci auguriamo faccia chiarezza il tribunale. Cosa sia successo in realtà lo ignoriamo non avendo visto le carte giudiziarie. Nel frattempo però, con l' avvicinarsi del probabile processo, il capo del Movimento 5 Stelle ha sentito l' esigenza di sfogarsi in un video postato sui social network e poi trasmesso dalla tv. Un filmato agghiacciante nel quale l' attore politico difende in modo invero sgangherato il suo erede, adducendo motivazioni da verificare, comunque legittime. In sintesi, egli ha sostenuto che la signorina non sia stata violentata bensì fosse consenziente. Oddio, è difficile credere che una fanciulla, per quanto ciucca fradicia, abbia fatto volentieri l' amore addirittura con quattro giovanotti. Tuttavia Grillo spiega di possedere una registrazione le cui immagini dimostrerebbero che lei ci stava. Quindi Ciro e compagnia sarebbero innocenti. Stabilirà la magistratura come si sono svolti gli accadimenti. Intanto stiamo zitti, consapevoli che gli imputati non sono colpevoli fino a prova contraria. Mi limito a dichiarare con veemenza un paio di cose. Non sono in grado di redarguire il vecchio Beppe che, essendo un padre, non se la sente di unirsi al coro di quelli che vorrebbero condannare a priori il suo ragazzino, e cerca pertanto di salvaguardarlo a ogni costo. Qualunque genitore disperato va capito se si scatena per proteggere il proprio discendente che rischia la galera dura per un episodio da accertare. Grillo forse ha esagerato nella foga, probabilmente avrebbe dovuto riservare alla fanciulla un minimo di riguardo, non essendo provato che sia una leggerona, per non dire di peggio. Sappiamo che lo stupro ha due componenti decisive: la prepotenza maschile e la debolezza femminile, spesso accresciuta dalla paura degli orchi. Il povero istrione avrebbe fatto meglio a tenere il piede sul freno mentre concionava, così si sarebbe evitato le reprimende conformistiche di una folla di critici crudeli e insensibili, gente che sorvola sui sentimenti nobili della paternità. Io che non ho mai sfiorato la pelle di una donna se non su sua esplicita richiesta, comprendo lo stato d'animo di Grillo che vive come un incubo l'idea che il suo Ciro subisca una sentenza pesante. Pertanto sono solidale con lui e deploro coloro che delle altrui disgrazie profittano per demolire vigliaccamente un uomo politico, peraltro a me non gradito ma da me rispettato. E non mi importa nulla che egli si sia trasformato in un battibaleno da manettaro a garantista. Meglio tardi che mai. Ripeto una frase che ho pronunciato ieri in tv, ospite di Milo Infante: quando comincia la caccia alle streghe io sto con le streghe.

“Chi critica il M5S deve vergognarsi”: Sul video di Grillo, Travaglio attacca la Bongiorno “salviniana”. Marta Lima venerdì 23 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è piaciuto molto l’articolo di Travaglio. L’essersi messo nei panni di Grillo, citando come esempio la preoccupazione per i suoi stessi figli, ha voluto significare che questi spiacevoli episodi possono accadere a chiunque. Attaccare Grillo investendolo sul piano politico, denota sciacallaggio”, E’ una delle lettere che un fan del “Fatto Quotidiano” ha inviato al direttore del giornale per complimentarsi della posizione in difesa del fondatore del M5S, assunta nei giorni scorsi, dopo la pubblicazione del video in difesa del figlio presunto stupratore. Ma non tutti condividono: “A mio parere, una persona, specialmente se pubblica, ha l’assoluto dovere di essere obiettiva sempre, anche quando ci sono in ballo componenti della sua famiglia. Diversamente, per la famiglia, ci si potrebbe sentire autorizzati a tutto: a scavalcare le file, a rivelare segreti di Stato, a facilitare assunzioni e così via. Insomma: l’Italia di oggi”, è il parere diametralmente opposto di un altro lettore. Anche oggi Travaglio, nel suo solito pezzo nostalgico su Conte, difende Grillo. “Tra tutte le critiche al suo video, la più grottesca è che Grillo abbia politicizzato il processo per stupro a suo figlio. Infatti dai 5Stelle non s’ è levata una sola voce in sua difesa: due o tre hanno solidarizzato sul piano umano, qualcuno ha taciuto, tutti gli altri (Conte in primis) l’hanno criticato. Come dovrebbe accadere in tutti i partiti se fossero comunità di uomini liberi e non cosche mafiose in cui, appena viene toccato il boss, tutti fanno fronte comune a prescindere. Quando qualcuno in FI , nella Lega e in Iv oserà contraddire anche timidamente il suo capo, potrà parlare di Grillo e dei 5Stelle. Nell’attesa, tacete e vergognatevi”, attacca Travaglio, che solleva il tema della separazione delle carriere, non dei magistrati, ma degli avvocati. Ma non sospetta di una manina leghista nel caso Grillo: “Il Cazzaro Verde esterna solo quando non sa di cosa parla, altrimenti tace. Il vero scandalo è il conflitto d’interessi dei parlamentari eletti per rappresentare la Nazione e poi ridotti a rappresentare tizio o caio. Lo facevano Previti, Pecorella, Ghedini, Taormina nel centrodestra, Pisapia e Calvi nel centrosinistra, spesso sedendo nelle commissioni Giustizia che riformavano o depenalizzavano i reati dei loro clienti (chissà le parcelle, dopo)…”.

Travaglio garantista con Grillo: “Sono padre anche io, non ha sbagliato a difendere il figlio”. Lucio Meo mercoledì 21 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia.  Marco Travaglio non molla gli amici in difficoltà. anche a costo di difendere l’indifendibile. Era accaduto con Andrea Scanzi, il baby vaccinato che il direttore del “Fatto” aveva considerato colpevole solo di aver detto pubblicamente quello che aveva fatto, si è ripetuto anche con Beppe Grillo, in un lungo editoriale in cui oggi lo assolve. Una mezza assoluzione era arrivata ieri anche dall’amico dell’amico, Giuseppe Conte. “Da padre di un ragazzo e di una ragazza, ho vissuto per anni nell’incubo che potesse accadere loro qualcosa in una serata alcolica. Quindi sì, un po’ mi sono immedesimato. Ora però molti lettori mi chiedono che ne penso. Grillo non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto. Gli errori sono altri….”. Il giornalista, dunque, non ritiene sgradevole e offensivo quel video con il quale il comico, leader del M5S, di fatto si scagliava contro una presunta mitomane che si sarebbe inventata uno stupro, dopo un presunto rapporto consenziente a quattro. Gli errori, secondo Travaglio, sono stati quelli di non considerare la presunta innocenza della vittima. Un po’ contorto, come ragionamento. Dove avrebbe sbagliato Grillo, secondo Travaglio? “Primo, far intendere che la consensualità del rapporto sessuale sia dimostrata dal ritardo di 8 giorni con cui la ragazza ha sporto denuncia: a volte possono passare anche mesi, e giustamente la nuova legge del “Codice rosso” (firmata dal “suo” ministro Bonafede e dalla Bongiorno) ha raddoppiato i tempi per le querele da 6 mesi a 1 anno. Il secondo è l’assenza di una parola di vicinanza alla ragazza, che comunque, se ha denunciato, si sente vittima. Potrebbe esserlo, come pure non esserlo: alcune denunce di stupro si rivelano fondate e altre infondate. Sarà il gup a decidere se Ciro e i suoi tre amici vanno processati e altri giudici stabiliranno se fu stupro o no”. Travaglio, che in genere ama sparare sentenze sulla base delle prime fasi delle indagini, stavolta fa il garantista con Grillo. “Tutti parlano come se lo stupro fosse già certo, senza non dico una sentenza, ma neppure un rinvio a giudizio. E lo deducono, pensate un po’, dal fatto che Grillo ha fondato il M5S e il M5S è giustizialista. Sono gli stessi che ai loro compari applicano la presunzione di non colpevolezza anche dopo la condanna in Cassazione (tipo B. e Craxi) ed esultano per i vitalizi a Formigoni&C. Infilare la politica in un processo per stupro è quanto di più demenziale, anche perché Ciro Grillo non fa politica….”. Per Travaglio il fondatore del M5S, Beppe Grillo, ha posto una domanda legittima: “Perché quattro presunti stupratori di gruppo sono a piede libero da 2 anni col rischio che lo rifacciano? Noi, che il filmato e i messaggi non li abbiamo visti, non abbiamo nulla da dire sul punto. Se non che gli indagati hanno il diritto di difendersi e i loro genitori di difenderli”. Bravo Grillo, è la linea del “Fatto“.

Bongiorno Italia di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 24 aprile 2021. Per dire come funziona quella che spiritosamente chiamiamo “informazione”. Il Tempo riporta una dichiarazione di Salvini dopo il video di Grillo sulle accuse al figlio: “Qualcosina su come siano andate le cose mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che ha denunciato lo stupro, ovvero Giulia Bongiorno”. Né Salvini né Bongiorno smentiscono. Anna Macina, sottosegretario M5S alla Giustizia, pone la domanda che tutti si pongono: la Bongiorno, nella sua doppia veste di legale della ragazza e di Salvini, nonché di avvocata e di senatrice, ha spifferato notizie sul caso di Grillo jr. al suo cliente e leader che l’ha portata in Parlamento? Se così fosse, un conflitto d’interessi già enorme (un’eletta per rappresentare l’intera nazione che rappresenta tizio o caio) si moltiplicherebbe vieppiù, senza contare la questione deontologica degli eventuali segreti di una cliente rivelati a un altro cliente. In un Paese normale, tutti chiederebbero a Salvini e Bongiorno di chiarire l’imbarazzante situazione. Invece siamo in Italia e tutti attaccano la Macina, che si dovrebbe dimettere dal governo per aver detto l’unica cosa sensata in tutta la vicenda. Salvini tace. La Bongiorno chiede le dimissioni della Macina e minaccia di trascinare anche lei in tribunale per non si sa bene cosa, visto che la sua domanda è tipica dell’attività parlamentare, scriminata dall’insindacabilità. A quel punto, toma toma cacchia cacchia, arriva l’ineffabile ministra Cartabia, che ammonisce la sottosegretaria al dovere “istituzionale del massimo riserbo sulle vicende giudiziarie aperte”. Peccato che la Macina non abbia detto nulla sul processo a Grillo jr.: è il senatore Salvini che ha detto di sapere ciò che non dovrebbe grazie alla Bongiorno che non l’ha smentito. Intanto l’altro sottosegretario alla Giustizia, il forzista Sisto, deputato e avvocato di B. nel processo Escort, dichiara che il rinvio a giudizio di Salvini per Open Arms non sta in piedi perché “è impossibile pensare che abbia commesso tutto da solo”. Tifo da stadio per il neoimputato anche dai ministri Gelmini e Garavaglia e dai sottosegretari Durigon e Gava. Ma per loro non risultano moniti della Cartabia. Riavvolgiamo il nastro. Se Salvini ha detto la verità, la Bongiorno ha tradito il mandato legale, dunque dovrebbe dimettersi, se non da parlamentare, almeno da avvocata della ragazza, e querelare per diffamazione non la Macina, ma se stessa. Se Salvini ha mentito, dovrebbe dimettersi lui e la Bongiorno dovrebbe querelare lui, non la Macina. In attesa di sapere chi se ne deve andare e fra Salvini e la Bongiorno, gli unici che devono dare spiegazioni sono Salvini e la Bongiorno. E l’unica che deve restare al suo posto senza spiegare nulla è la Macina.

Avvisate Travaglio che Conte è un avvocato. Il Fatto denuncia il clamoroso “conflitto di interessi”. Ma scorda una particolare: anche il suo premier ideale è un avvocato...di Davide Varì su Il Dubbio il 26 aprile 2021. Ci sono volute settimane, forse mesi, e probabilmente è servito anche l’aiuto di qualche coraggioso 007, ma alla fine la verità è venuta a galla: il Parlamento italiano è un covo di avvocati. Lo scoop è arrivato dal Fatto quotidiano, il giornale di Travaglio che ha una visione delle cose talmente manichea da considerare la giurisdizione divisa in buoni a cattivi: da un lato i magistrati – i buoni naturalmente – dall’altro i cattivi, gli avvocati. E sì, il mondo in bianco e nero di Travaglio e soci vive di contrasti senza mediazioni e i loro profeti intingono sempre la penna nel fiele e nell’odio. E capita assai spesso che l’obiettivo di tanto “amore” sia l’avvocato, ovvero colui che si si ostina a difendere i diritti di chi è indagato pretendendo, pensate, il rispetto delle garanzie e della Costituzione.  

Il dolore di un padre non c’entra nulla. Il video di Grillo è un atto di tracotanza, proprio lui che ha costruito le fortune sulla gogna. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Quale figlio di due severi grecisti (e latinisti), ho avuto la fortuna (a lungo imposta, in verità, ma non smetterò di ringraziarli), di frequentare con assiduità (e spero con qualche minimo profitto) le meraviglie della Grecia Antica, dove tutto quello che di più essenziale e profondo vi è da dire e da capire dell’animo umano, fu già detto e scritto. Ora, temo che Beppe Grillo ignori che la Giustizia, nella mitologia greca, avesse (almeno) due volti: quello di Dike e quello di Nemesis. Dike è la Dea che rappresenta la Giustizia -se così possiamo dire- nella sua oggettività. È colei che ispira gli uomini a fissare le leggi, le regole della convivenza, il patto sociale. Chi viola la legge merita di essere punito perché ha oltraggiato Dike (la quale, ogni volta che la legge viene infranta, si precipita piangendo da suo padre Zeus, non so se mi spiego). Insomma, Dike è la Legge: dunque la regola e, ad un tempo, la sanzione per la sua violazione. Chi commette un reato sfida le ire di Zeus, che mal tollera di veder soffrire la sua adorata figlia. Compito degli uomini è individuare il responsabile di un reato, quindi dell’offesa a Dike, e di punirlo per conseguenza. Ecco perché il processo è un rito sacro: occorre individuare il colpevole, senza peraltro correre il rischio -ancora più grave della impunità- che è la condanna dell’innocente. Una responsabilità da far tremare le vene ai polsi. Comprendiamo bene, allora, come solo una masnada di protervi analfabeti può immaginare di celebrare i processi al bar, o sui giornali, o sui social, mettendo bocca su fatti appena conosciuti o orecchiati, in luogo dei giudici. Meno che mai può immaginarsi che i processi li celebrino i genitori degli imputati, o i genitori delle vittime, ciascuno illustrando a modo proprio le ragioni della innocenza o della colpevolezza. Può essere ben comprensibile dal punto di vista umano, ma è un errore fatale. Un peccato di Hybris, che nella tragedia e nella letteratura greca (aridaglie!), significa una empia manifestazione di superbia, di tracotanza, di smodata percezione di sé. Cioè il peccato del quale si è macchiato Beppe Grillo con quel suo ormai famoso video. Non c’entra nulla “il dolore di un padre”. Qualunque genitore di un figlio accusato di un crimine così orrendo ed infamante, è condannato a patire le pene dell’inferno, a fracassarsi ogni sera la testa contro il muro, ad essere sopraffatto dalla disperazione e dal rancore. Ma l’idea di accendere un video per far sì che tutto il mondo sappia di quella tua disperazione e di quel tuo rancore, inveendo contro una accusa che denunci come ingiusta, appartiene solo a chi coltivi una idea smodata, arrogante e tracotante di sé stesso. Una idea che è questa: sono un uomo pubblico, le mie parole hanno un peso, userò quel peso per aiutare mio figlio. Ecco dove Grillo paga la sua verosimilmente scarsa frequentazione dell’antica Grecia. Ha pensato di sostituirsi a Dike, o peggio ancora di tirarla per la veste divina; e con gli Dèi non si scherza. Perché se pecchi di Hybris, ecco lì che arriva Nemesis. Ora, la parentela è complessa, ma per semplificare sarebbe una sorella di Dike, addirittura preferita da papà Zeus, con il quale avrebbe intrattenuto perfino rapporti incestuosi (d’altronde, quod licet Iovi, non licet bovi). Nemesis è la Dea sì anch’essa della Giustizia, ma della “Giustizia riparatrice”, quando non addirittura vendicativa. Quella che interviene quando occorre non solo punire chi viola la legge (a quello ci pensa Dike), ma quando occorre punire, riequilibrare un atto empio di superbia e di tracotanza. Nel caso del video di Grillo, Nemesis ha preso le sue debite informazioni, e ha scoperto che il peccatore ha costruito le proprie fortune politiche sul “vaffanculo”, cioè sulla gogna spiccia. Qualunque avversario sociale e politico potesse essere lapidato e scotennato anche se appena sfiorato dal sospetto, e con lui i figli ed i figli dei figli, veniva scotennato e lapidato da lui e dalle folle plaudenti dei suoi adepti, che lo issavano, trionfante, su un canotto sorretto da un mare di vaffanculisti in piazze stracolme. Che sono così diventati il primo partito italiano, hanno eletto il Ministro della Giustizia (cioè il rappresentante di Dike in terra, capite?), e hanno costruito la propria forza sostituendo la presunzione di colpevolezza alla presunzione di innocenza come parametro di giudizio dei fatti penali, sul quale lucrare consenso politico. Ecco allora che Nemesis ha sbroccato: tu, proprio tu, metti su un video per spiegare, urlando sputando e sacramentando, ciò che Dike deve fare di tuo figlio? Proprio tu, il re del vaffanculo, pretendi, sbattendo i pugni, la presunzione di non colpevolezza per il tuo ragazzo? È troppo. Questa è Hybris, ma tanta Hybris, si è certamente detta, tra sé e sé, Nemesis. E con un solo gesto, senza colpo ferire, ha posto fine alla intensa, fortunata ma ora anche breve carriera di leader politico dell’ex comico. Game over. Dite a Grillo, insieme agli auguri sinceri (ma sinceri davvero) che suo figlio possa essere giudicato da giudici ossequienti a quel culto della presunzione di innocenza che lui ha sempre oltraggiato ed irriso, che non c’entrano nulla gli avversari politici, i servizi segreti o la massoneria. È Nemesis, egregio signore. Le sarebbe stato utile conoscerla prima, perché con lei non si scherza.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane.

IL “GRILLETTO” di Vito Massimano su L’Opinione delle Libertà il 21 aprile 2021. Le esternazioni di Beppe Grillo in difesa del di lui figlio non ci hanno stupito più di tanto. Ci hanno piuttosto intristito, perché ci hanno mostrato un saltimbanco gonfio, paonazzo, imbolsito, invecchiato e per nulla in grado di dissimulare e dissacrare come sempre accade. Per noi, che non siamo grillini vomitanti bile, il sentimento istintivo e naturale è l’umana comprensione per una vicenda che avrebbe fiaccato qualsiasi genitore. Però, di fronte a un simile ragionamento senza freni, la comprensione non può bastare perché necessita di un supplemento di analisi, cui nemmeno un genitore in difficoltà può e deve sfuggire. Se Beppe Grillo fosse un cittadino qualunque, non dovrebbe né potrebbe permettersi di affermare pubblicamente che i quattro ragazzi accusati di stupro siano degli ingenui intenti a giocare “col pi…lo ciondolante” nel mentre la presunta vittima era palesemente consenziente, tanto da pensarci otto giorni prima di denunciare l’accaduto. Il cittadino comune che avesse argomentato in questo modo avrebbe nel contempo tirato fuori tutto il repertorio machista più becero, offendendo nel contempo la sensibilità di una giovane donna che (otto giorni prima o subito non cambia molto) è salita agli onori della cronaca per essere incappata nella compagnia sbagliata, decidendo di rendere pubblica una violenza capace di segnarla a vita. Se Beppe Grillo fosse stato un anonimo cittadino, avrebbe in poche parole profanato il dolore della presunta vittima insinuando che ella, da consenziente, si sia finta vittima per mero interesse (il solito “se l’è cercata”) assolvendo i quattro ragazzi, rei di essere incappati in una persona perfida mentre volevano solo divertirsi. Peccato però che Beppe Grillo non sia un cittadino comune ma un capo politico che sul giacobinismo forcaiolo, sugli scandali giudiziari e sui soprusi dei potenti che riescono sempre a insabbiare le loro malefatte, ci ha costruito una carriera e un partito. Il fatto di avere cotanto potere, politico e mediatico, rende tutto diverso trasformando lo sfogo di un padre in un manifesto politico o quasi in un atto intimidatorio verso la controparte piuttosto che verso chi deve fare le indagini. Ciò aggravato dal fatto che il capo Pentastar ingenuamente si domandi per quale motivo le indagini, durate due anni, non abbiano portato all’immediato arresto di suo figlio. Il quale, sempre secondo lui, se fosse stato palesemente colpevole, sarebbe sicuramente finito in galera da un pezzo. Questa frase, che per molti nasconde un verdetto bruscamente sbattuto in faccia al giudice a mo’ di pizzino, è invece una domanda che – a voler essere maliziosi – nasconde una sequela di ulteriori interrogativi: ma non è che la presenza di un grillino a via Arenula abbia in qualche modo dilatato i tempi del processo, condizionando psicologicamente le indagini? Ma non è che l’alleanza con il Partito Democratico – alla luce degli intrecci tra politica e giustizia descritti da Luca Palamara – sia stato un modo pubblico per risolvere questioni private? Vuoi vedere che il primo Governo Conte non è caduto a causa delle esternazioni al Papeete? E vuoi vedere che l’improvvisa accelerata sulla notizia derivi dal fatto che il Garante del Movimento sia in qualche modo di ostacolo al nuovo centrosinistra del duo Conte- Zingaretti? Sicuramente quello appena descritto è cospirazionismo da quattro soldi, sicuramente le domande che ci siamo posti sono inutili e sbagliate ma, in tutta sincerità, il dubbio ci è venuto per poi liquidarlo come una sciocchezza fantasiosa qualche secondo più tardi. L’unica certezza che abbiamo invece trova fondamento nella palese disonestà intellettuale di tutti coloro i quali, a vario titolo, vengono annoverati come alleati e sostenitori del Movimento Cinque Stelle. Tutti zitti dopo l’intemerata maschilista di Beppe Grillo, tutti a minimizzare (nella migliore delle ipotesi), a nicchiare se non proprio a tacere. Mute le femministe del Partito Democratico e cespugli dei vari Me too, mute le boldriniane (quelle che di fronte alla differenza tra presidente e presidenta sono pronte a fare le barricate), muti i giustizialisti del Movimento che nelle parole del loro leader non riescono proprio a scorgere un attacco alla magistratura o il fantomatico “conflitto di interessi” tra ruolo pubblico e questioni private, muto Marco Travaglio che su Silvio Berlusconi e Ruby Rubacuori ci ha sguazzato per anni. L’onestà andrà di moda, dicevano quelli del Movimento prima di perdere anche la faccia. Noi quella intellettuale non riusciamo proprio a scorgerla all’orizzonte.

Ciro Grillo, lo psicoanalista: "Denuncia in ritardo? Segno della gravità del trauma". Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Se la denuncia di uno stupro arriva in ritardo, vuol dire che il trauma è molto grave: la pensa così lo psicoanalista Luigi Zoja che, in un’intervista alla Stampa, ha commentato il caso del figlio di Beppe Grillo, il 19enne Ciro, accusato insieme a tre suoi amici di aver violentato una ragazza conosciuta in Sardegna nell’estate del 2019. “Lo spostamento temporale è segno della gravità del trauma che si vorrebbe rimuovere”, ha spiegato l’esperto, che così ha smentito il garante dei pentastellati. In un video choc di qualche giorno fa, infatti, Grillo aveva gettato un’ombra proprio sul fatto che la presunta vittima abbia denunciato diversi giorni dopo la notte incriminata. Parlando delle condizioni in cui si sarebbe trovata la ragazza, poi, Zoja ha spiegato: “Si sarebbe infierito su una persona resa mentalmente fragile, dopo una notte passata in quel modo. Una violenza di fatto”. Nel suo ultimo libro, inoltre, lo psicoanalista ha evidenziato anche il fatto che spesso lo stupro produce silenzio: “Disumanizza la vittima e anche l’aggressore perché distrugge in entrambi la capacità di narrarsi”. Secondo l’esperto, inoltre, in queste situazioni ha un ruolo fondamentale anche la scuola: “Dipende dai buoni o dai cattivi insegnanti. Con i social il loro compito è reso più difficile”. Parlando proprio di social e video, Zoja ha aggiunto: "L'episodio fa parte della degenerazione della cultura sociale. L'orrore e il sadismo di scambiarsi messaggi la dice lunga".

L'intervista a Loredana Rotondo. “Beppe Grillo ricalca le oscenità di "Processo per stupro"”, parla la regista del film cult. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Processo per stupro andava in onda nel 1979 e non è mai passato di moda. Prima cattiva notizia. La seconda è che la Rai non lo rimanda in onda. Fiorella, 18 anni, nel Tribunale di Latina raccontava come fosse stata adescata, sequestrata e violentata per un pomeriggio intero da quattro uomini. Durante il dibattimento però era emersa quella che viene definita vittimizzazione secondaria; la colpevolizzazione della vittima. Se n’è parlato molto anche in questi giorni, a proposito del caso di Ciro Grillo. “Una persona che viene stuprata la mattina, il pomeriggio fa kite-surf e denuncia dopo 8 giorni è strano. E poi c’è un video in cui si vede un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così … sono quattro coglioni, non quattro stupratori”, ha detto il padre Beppe, comico, fondatore e Garante del Movimento 5 Stelle, in un video sui suoi social network. Se Ciro Grillo – con gli altri tre indagati (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) per violenza sessuale di gruppo ai danni di una 19enne italo svedese in Costa Smeralda – è colpevole lo stabiliranno i giudici. È innocente fino a sentenza passata in giudicato. Le uscite del padre sul kite surf e sulla “denuncia dopo otto giorni, è strano” resteranno invece anche in caso di assoluzione da ogni accusa, un terremoto sulla politica e sul M5s. Dimostrano anche una certa noncuranza della legge Codice Rosso, approvata dal governo Conte 1, il primo con i grillini dentro, che ha prolungato da sei mesi a un anno lo spazio per le querele in caso di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, stalking. Gli avvocati difensori di Processo per stupro chiesero dei rapporti orali alla ragazza, interrogarono la madre sulle conoscenze della figlia, paragonarono la violenza al rapporto tra marito e moglie, chiamarono a testimoniare persone che screditarono la vittima. Furono tre milioni i telespettatori che guardarono il film in prima serata il 26 aprile del 1979. Oltre nove milioni quando venne riproposto in seconda serata. Sei registe – Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini – tra cui Loredana Rotondo, che riconosce in certi passaggi di Grillo certi toni del suo film pluripremiato e conservato negli archivi del MOMA di New York. “Un atteggiamento maschilista rispetto alla violenza sessuale”, dice a Il Riformista.

Immagino abbia seguito il caso.

Il punto è sempre lo stesso: bisogna accertare il consenso, e questo va accertato in sede di giudizio. E quindi è inutile fare i processi fuori dalle sedi opportune. Se l’operazione dev’essere – come si faceva, e a volte ancora succede, con le donne, a dispetto dell’articolo 3 della Costituzione secondo il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni – gettare discredito e non dare fiducia alla vittima, a chi denuncia, e rimandare all’idea delle portatrici della colpa; se questo è il pregiudizio c’è poco spazio per fare emergere la verità dei fatti. Non c’entra com’erano vestiti e se volevano divertirsi. Il giudice deve accertare se c’era consenso. Punto.

Che cosa insegna tutto ciò?

La questione non fa che reiterare un atteggiamento maschilista rispetto alla violenza sessuale. Problema centrale nella nostra cultura. Gli argomenti degli avvocati di Processo per stupro non erano lontani dal video di Beppe Grillo. Il metoo è riuscito in qualche modo a incidere negli Stati Uniti, ma dopo tanti anni siamo ancora molto arretrati. Vorrei risponderle con una citazione.

Dica pure.

Parto da un libro, La mia parola contro la sua – Quando il pregiudizio è più importante del giudizio (Harper&Collins), scritto dalla magistrata Paola Di Nicola, che pone la questione della credibilità delle parole di una donna che denuncia una violenza sessuale. I pregiudizi sono invisibili e molte donne non riescono tutt’ora, nonostante ci sia più attenzione e più ascolto da parte delle donne, e da parte di molti uomini – anche se vorrei fossero di più – a denunciare. Vorrei che finalmente cambiasse qualcosa, una svolta storica.

Da una proiezione di “Processo per stupro”

Cos’è cambiato invece da quando andò in onda il film nel 1979?

Certi processi procedono a macchia di leopardo, e poi ci sono dei momenti in cui si fanno dei passi in avanti molto significativi. Oggi c’è maggiore consapevolezza, autorità e indipendenza da parte delle donne. Sono cambiate, e anche tanto, le donne. Sono diverse da quelle di Processo per stupro, dalle madri del film per esempio. E io sono molto fiduciosa. Resta però una resistenza, superata dalla società, dalla nostra vita di tutti i giorni, una sacca che non è tanto diversa rispetto ad allora se ancora ne parliamo.

Processo per stupro è un documento storico, un punto di riferimento. E all’uscita fu un evento, un successo enorme.

Da un sondaggio emerse che gli spettatori lo avevano giudicato molto interessante. E dissero anche perché: perché era nuovo, originale certo, ma anche interessante sul piano etico. Aveva colpito maschi e femmine nello stesso modo. Era un programma diverso, differente.

Come nacque?

Eravamo sei autrici. Da un po’ nei convegni delle avvocatesse, delle magistrate, si denunciava come in questi casi, nei tribunali, da vittime si diventasse colpevoli. Il Convegno Internazionale sulla Violenza contro le donne alla Casa delle donne a Roma, nel 1978, organizzato dal movimento femminista, fu fondamentale. Ma come succede, ma perché, come mai? Questo chiedevamo e ci chiedevamo. E quindi il passo successivo: “Ok, voi lo dite, ma noi vogliamo rappresentarlo”. Chiedemmo allora al presidente del tribunale di Latina di poter riprendere un processo. La novità era che erano delle donne a parlare di questo. La realtà veniva guardata e rappresentata anche dalle donne; che poi è la grande realtà del secolo scorso: finalmente le donne studiavano, parlavano, descrivevano, dicevano la loro, facevano politica. La Rai però non vuole saperne di ripescarlo.

Come mai?

Non saprei. Si dovrebbe indagare. Gian Antonio Stella del Corriere della Sera se lo chiese qualche anno fa, a 40 anni dalla messa in onda. Processo allo stupro ha giocato un larghissimo ruolo sociale, e potrebbe essere davvero funzionale alla Giornata Internazionale della donna dell’8 marzo o alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre. Ormai sono delle feste e invece servono a ribadire che certi aspetti delle nostre vite non sono ancora così chiari e nemmeno giusti, equi. Quel film ha viaggiato in parrocchie, oratori, circoli. Ne ha fatti di chilometri e ha contribuito dopo 17 anni, nel 1996, a far approvare la legge contro la violenza sessuale (legge n. 66, Norme contro la violenza sessuale, identificata come delitto contro la persona, ndr).

Stella ha scritto che gli avvocati in vita e i familiari di quelli morti abbiano preteso l’oblio del film per via delle loro arringhe machiste. Si possono recuperare spezzoni su Youtube. Solo uno stralcio su Raiplay con l’arringa della difenditrice di parte civile Tina Lagostena Bassi.

La regia di quest’ultimo non è neanche la nostra, ed è strano. È una cosa che non ha senso. A bloccare il film pare ci sia non si capisce bene quale e che forma di diritto all’oblio. Non c’è la possibilità, e basta. Mi hanno riferito che un consigliere di amministrazione della Rai, interrogato sul caso, abbia osservato: ‘Perché devo occuparmene io, perché non se ne occupano le donne?’

Questo suona ancora più grave.

Non so cosa dirle. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da uomo non ho niente da ridere sullo stupro. Lorenzo Di Palma su Notizie.it il 20/04/2021. Il metodo dello Zoo di 105 è sempre lo stesso: si solleva un polverone e, se qualcuno non apprezza o si offende, si gira tutto in caciara o ci si barrica dietro la libertà di parola o di satira. Ci risiamo, l’hanno fatto di nuovo. Parlarne è un po’ fare il loro gioco, ma a volte si deve. Lo Zoo di 105 ha fatto ancora parlare di sé, grazie a una storiella di cattivo gusto su qualcuno che non si accorge di aver stuprato una ragazza, fino a quando non glielo fanno notare. Capirai le risate. Il tutto condito da grasse sganasciate e da giustificazioni tipo: “Siamo uomini, ci sta avere degli scheletri nell’armadio”. D’altronde il metodo è rozzo, ma efficace, visto il seguito della trasmissione, ed è comune a tutti gli auto-nominatesi “provocatori”: si solleva un polverone e se qualcuno non apprezza o peggio si offende, si gira tutto in caciara o, al limite, ci si barrica dietro concetti di ben altra dignità, come la libertà di parola o di satira. Ma qui nessuno chiede di non fare satira su tutto, anche sugli stupri se è il caso. Ma bisogna esserne capaci, solo pochi lo sono davvero. Lo stupro è una violenza che lascia tracce profonde nel corpo e nell’anima di chi lo subisce e capisco che tante ragazze che hanno subito violenza si siano sentite di nuovo colpite nel profondo. Da uomo, anche a me la storiella dello Zoo non fa affatto ridere. Non mi stupisce che si parli dell’ennesima espressione della “cultura dello stupro”, la stessa che autorizza Grillo a inveire, senza contradditorio come sempre, contro i giudici e soprattutto contro due presunte (c’è un processo in corso) vittime, poco credibili, secondo lui, solo perché la denuncia è arrivata dopo nove giorni. La stessa “cultura” che colpevolizza chi denuncia uno stupro. Si chiama “vittimizzazione secondaria”. Secondaria nel senso che è, in teoria e in pratica, una seconda aggressione, che le rende di nuovo tutte vittime. Chi ascolta questi programmi, chi li scrive conduce e produce, le radio che li trasmettono e le aziende che ne comprano la pubblicità, vogliono davvero questo?

Lorenzo Di Palma. Lorenzo Di Palma, nato a Napoli nel ‘68, laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista da oltre 20 anni. È stato freelance, “abusivo” e dipendente. Pubblicista e professionista. Collaboratore e caporedattore. In mensili, settimanali, quotidiani e siti web. Per pubblicazioni specializzate e generaliste. Per l’editore più grande d’Italia e per service piccolissimi. Si è occupato di cronaca, tecnologia, Tv, lifestyle, spettacoli, cultura, economia, motori, sanità, design, arte, pubblica amministrazione e dirige una rivista dedicata alla “Cultura del Colore”. Tifa sempre per il Napoli, ma vive e lavora a Milano perché gli piace “il clima, la gente…”

Beppe Grillo, Pietro Senaldi sfida il Pd: "Ora blocchino la legge liberticida che abolisce la prescrizione". Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Il direttore di Libero Pietro Senaldi sul video di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro : “È partita la caccia grossa a Beppe Grillo: ma come è sgarbato, ma quanto strilla, non ha rispetto delle istituzioni, non ha rispetto delle donne… e in questo non ci sono discriminazioni perché in generale il fondatore del Movimento 5 Stelle non rispetta tutto il genere umano. Il video in cui ha difeso il figlio gli ha portato più danni che benefici: molto probabilmente la gente ha pensato, "Con un padre così invasato, povero ragazzo". Quello che fa specie è il Pd, che ha l'atteggiamento della verginella, sembra che abbia scoperto oggi che il comico è un maleducato, eppure ha fondato un partito fondato sul Vaffa. Anziché fare critiche sul galateo, bisognerebbe attaccarlo sui fatti: Grillo ha lamentato che il figlio è tenuto in ballo dalla magistratura da due anni. C'è una legge grillina in parlamento che abolisce la prescrizione: adesso che Grillo, a sue spese, ha scoperto che non è piacevole essere ostaggio dei magistrati a lungo, perché il Pd non lo sfida a ritirare questa legge liberticida? Molto semplice, il Pd chiacchiera ma nei fatti non è affatto diverso da Grillo ". 

L’accordo Pd-M5S dopo il video dell’Elevato. Come può il Sarracino allearsi con un tipo come Grillo? Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il video in cui Beppe Grillo difende il figlio Ciro, accusato di stupro insieme con tre amici, ha fatto il giro del web e catalizzato l’attenzione degli organi di informazione. Il contenuto delle parole dell’Elevato, così come il comico genovese si fa chiamare dagli iscritti al Movimento 5 Stelle, è di una gravità inaudita. È disgustoso l’esercizio di garantismo a favore del figlio da parte di chi ha fatto del giustizialismo la cifra del proprio impegno politico. È inaccettabile che uno stupro, al momento soltanto presunto, venga derubricato a bravata. Ed è intollerabile che la ragazza vittima di una violenza sessuale – allo stato attuale solo presunta, è il caso di ribadirlo – venga infangata sottolineando il fatto che abbia presentato la denuncia otto giorni dopo i fatti finiti al vaglio della Procura di Tempio Pausania. Le esternazioni di Grillo mettono in imbarazzo innanzitutto per il M5S, già devastato da liti sulla piattaforma Rousseau, scissioni, mancanza di una direzione e dalla leadership dell’ex premier Giuseppe Conte che stenta a decollare. Soprattutto, però, sono dinamite per chi col M5S vuole strutturare un’alleanza organica in vista delle prossime amministrative, cioè per il Partito democratico. In un’intervista a Repubblica, l’ex ministro e attuale membro della segreteria nazionale dem è stato chiaro: «Uniremo il centrosinistra ovunque e, dove possibile, faremo l’alleanza col M5S in tutti i 1.304 Comuni al voto». Il che vuol dire che il Pd, se non condivide, è almeno disposto a “chiudere un occhio” sul garantismo a corrente alternata e sul becero maschilismo espressi da Grillo. Le parole di quest’ultimo, però, sono addirittura una bomba atomica per chi non solo è pronto ad allearsi col M5S in vista delle comunali, ma è persino disposto a farlo senza passare per le primarie e accettando l’idea che il candidato sindaco possa essere un grillino (quindi, almeno sulla carta, un esponente politico che condivide la sottocultura rappresentata dall’Elevato). Il riferimento, ovviamente, è al Pd napoletano. Il segretario metropolitano Marco Sarracino, dopo aver ipotizzato la candidatura a sindaco del pentastellato Roberto Fico, ha definito «superata» l’ipotesi delle primarie di coalizione avanzata dal leader nazionale Enrico Letta e ha poi ribadito la necessità di un candidato unitario che sia sostenuto da dem, grillini e altre forze del centrosinistra. A Sarracino e a tutti i napoletani iscritti al Pd non sfuggirà il significato di una simile scelta: condividere il candidato sindaco col M5S vuol dire accettare il complesso dei (dis)valori che Grillo ha esternato in modo tanto volgare e violento. E farlo senza primarie equivale a negare al proprio elettorato la possibilità di esprimersi su tutto ciò che significa, al giorno d’oggi, essere grillini. Il Pd napoletano – lo stesso che ha abbandonato Antonio Bassolino ai tempi dei processi sui rifiuti e ora l’ha relegato tra i “vecchi arnesi” della politica – è garantista oppure, come si usava ai tempi della Prima Repubblica e come Grillo ha fatto in video, vuole che la legge sia applicata per i “nemici” e interpretata per gli “amici”? I dem partenopei avallano la cultura della violenza verbale e del linciaggio alla quale molti pentastellati si sono associati nel momento in cui hanno espresso solidarietà al loro leader? Sarebbe il caso che qualche autorevole esponente del Pd partenopeo sciogliesse questi nodi: in gioco non c’è solo la credibilità del partito, ma il futuro stesso di Napoli.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

L'inchiesta sul figlio di Grillo. Ma come fa il Pd ad allearsi con chi giustifica uno stupro? Angela Azzaro su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Dopo una giornata di silenzio finalmente in serata, tirato per la giacchetta, Giuseppe Conte è intervenuto sul video di Beppe Grillo. Ha provato a far finta di nulla. Poi davanti alle critiche che gli piombavano addosso ha dovuto prendere posizione, ma lo ha fatto salvando capre e cavoli. Un colpo a favore di Grillo («conosco bene la sua sensibilità su temi così delicati. Sono ben consapevole di quanto questa vicenda famigliare lo abbia provato e sconvolto») e un colpo a favore della giovane donna che ha denunciato il figlio di Grillo («ma in questa vicenda ci sono anche altre persone che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati»). Frasi che risultano come una critica molto debole nei confronti del garante dei Cinque Stelle che nel video dell’altro ieri aveva di fatto giustificato lo stupro e messo alla gogna la presunta vittima. Frasi che non dovrebbero bastare a rilanciare il rapporto con il Pd: come fa infatti Letta a pensare di allearsi con una forza politica violenta e ambigua nei confronti dei diritti delle donne? Ripetiamolo allo sfinimento. Non sappiamo se il figlio di Grillo, Ciro, e i tre ragazzi che erano con lui abbiano o meno usato violenza contro la ragazza che li ha denunciati. La procura di Tempio Pausania, a conclusione delle indagini, deciderà (pare sia questione di giorni) se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Poi eventualmente ci sarà un processo che stabilirà come sono andati i fatti. Ma le parole di Grillo sono inaccettabili e vanno deprecate con toni ben più duri di quelli usati da Conte. Dicono che la ragazza che ha denunciato non è credibile perché un video lo dimostra e perché subito dopo i fatti non ha denunciato. Il video proverebbe che tutti si stanno divertendo, hanno il pisello di fuori e sono ragazzi. Cioè hanno fatto una bravata. A Grillo non interessa che cosa abbia provato la ragazza coinvolta, né si interroga sul fatto che anche il video è di per sé una forma di violenza. Quanto al ritardo di otto giorni, bisogna ricordare al capo dei grillini che, proprio anche grazie ai Cinque stelle, il tempo per sporgere querela è di un anno. E che se le donne ci mettono tanto tempo è spesso perché hanno paura, perché temono di finire loro sotto processo. Timore confermato dalle parole del garante Cinque stelle che di fatto mette alla gogna la ragazza. Perché questo Conte non lo ha sottolineato? Perché non ha detto: no caro Grillo, così non si fa!? Così non si dice!? Ieri abbiamo scritto che questo episodio ci riporta indietro di tanti, troppi anni. Quando in Italia i processi per stupro finivano per mettere sotto accusa le donne che denunciavano. Pensavamo di non dover sentire più certe accuse, certi ragionamenti maschilisti. E invece ritornano per bocca di un leader politico che alle ultime elezioni ha raggiunto oltre il 30 per cento dei consensi. Le sue parole e la debole condanna di Conte non possono essere giustificati dal Pd, un partito che proprio sulla libertà e il rispetto dei diritti delle donne ha costruito il suo profilo politico. Non è una questione secondaria su cui si può passare sopra, è un cardine di civiltà che non può mai e poi mai essere travalicato. In questi anni, con Il Riformista abbiamo fortemente criticato i Cinque stelle perché hanno rappresentato un vulnus democratico e dello Stato di diritto, ma forse ingenuamente pensavamo che su alcuni temi non sarebbero mai tornati indietro. Invece l’altro ieri l’amara sorpresa. Non perché Grillo abbia difeso il figlio, ma per le parole che ha usato, per il tono con cui lo ha fatto. Se pensa che denunciare qualcuno per violenza sessuale sia una passeggiata, vuol dire che non ha capito neanche l’abc. E in quell’abc c’è il livello di civiltà di un Paese.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica.

L'amore nostrano per il populismo. Beppe Grillo e il video a difesa del figlio Ciro, come ha fatto l’Italia a credere a questo personaggio. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il video di Beppe Grillo fuori controllo e fuori decoro è tale da porre un problema che non riguarda lui, ma noi italiani. Che cosa è successo in questo Paese, per cui un tale evento – il video – possa essere considerato un evento politico di cui si parla nei telegiornali, possa essere considerato posizione politica? Sono, siamo, impazziti? Senza risalire ad Adamo ed Eva, a De Gasperi e Togliatti e Nenni e Berlinguer e anche Almirante, Andreotti e Moro e Craxi, la domanda resta incombente come un meteorite. La domanda non riguarda Grillo, suo figlio, i quattro adolescenti sotto accusa. E possiamo solo avere curiosità antropologica per un poveretto che perde il controllo, se mai ne ha avuto, dei propri nervi e urlando che il suo pargolo insieme agli amichetti smutandati stava facendo solo un po’ di trombate in famiglia, che volete che sia, e poi lei ci stava, si vedeva, non ha neanche avuto il fegato di denunciare subito come devono fare le brave ragazze che non aspettano giorni e magari settimane per correre al commissariato accompagnate dalla mamma, perché se non voleva giocare allo schiaffo del soldato o ai quattro cantoni con gli smutandati nella camera da letto della casa al mare dopo aver bevuto, si sarebbe dovuta comportare in un altro modo. Inutile cercare e sprecare aggettivi: il fatto e il video sono quello che sono. Ma perché una tale porcheria diventa un fatto politico? Che cosa ci è successo? È successo che quell’uomo, sia da avanspettacolo che da retroscena, ha ottenuto la certificazione che lo ha reso leader. Il leader – o duca, o duce, führer, capatàz, grande timoniere, piccolo timoniere, giocoliere, marziano con casco spaziale, conducator – è uno che precede e indica la via, la rotta, la direzione e il verso. Il contrario di un follower, che se ne sta indietro cercando di adeguarsi agli umori collettivi. Come è potuto accadere? Un giorno la scienza forse risponderà. Ma intanto questo coso che suggerisce banalità, mancanza del senso del pudore e del rispetto per l’altrui persona, lasciamo stare per le donne, è diventato un soggetto politico, un faro, o almeno un led, dietro al quale si spintonano politici, conduttori e conduttrici, politologi, commentatori indignati sì, ma con misura, mentre il paese intero, nella sua melmosa totalità, realmente discute di quelle parole, di quel volto, di quegli occhi iniettati di paura, odio, angoscia tribale da sacrificio umano di un poverello che propone uno scambio: prendete me, imprigionate me ma liberate il mio povero ragazzo con il pisello di fuori per allegria. Perché l’intero movimento politico che dice di essere un movimento politico non lo espelle? Non lo caccia? Non lo rinnega e mette al bando? Perché una tale scaturigine di imbarazzo e di offesa per le donne è tuttora considerato un capo politico che sale e scende i gradini del Parlamento, di Palazzo Chigi, del Quirinale, con o senza scafandro? Ma, più che altro, come diavolo fa il Pd a parlare seriamente, anche per bocca di Enrico Letta che è una persona istruita, a considerare una scaturigine di tali miserie come un compagno di strada, un alleato, un partner? Grillo abita una allegra magione in cui gli adolescenti circondano le ragazze col pisello di fuori, ma il partito della sinistra riformista erede sia del Pci che della Dc, dove abita? Su quale pianeta? E quale cura contro il rossore gli ha prescritto il dermatologo?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'inchiesta sul figlio Ciro. Grillo e la moglie nel panico, sono stati intercettati? “Hanno commesso un suicidio mediatico”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Beppe Grillo è stato intercettato, è rientrato collateralmente nei brogliacci con cui la magistratura ha tenuto sotto osservazione il telefono di sua moglie, Parvin Tadjik? L’ipotesi è verosimile, posto che l’utenza privata della signora Tadjik-Grillo risulta attenzionata dalle indagini della Procura di Tempio Pausania che indaga sulla presunta violenza sessuale a carico di Ciro Grillo e dei suoi tre amici. Il reato si sarebbe consumato a casa di Beppe Grillo a Porto Cervo nel luglio del 2019 e da allora la Procura, che ha sempre mantenuto un atteggiamento dubitativo sulla posizione di Ciro e dei suoi sodali, avrebbe posto sotto intercettazione – come rivela AdnKronos – anche sua madre. La donna ha sempre dichiarato agli inquirenti di non aver sentito nulla quella notte: dormiva nell’appartamento contiguo, non ha notato niente di strano. Nel fascicolo dell’inchiesta, oltre alle testimonianze, risultano inserite anche alcune intercettazioni e le immagini ritrovate nei telefonini. Ieri la giornata di Grillo e di sua moglie è stata movimentata ancor più dall’improvvida sortita con cui Parvin Tadjik-Grillo ha preso di petto Maria Elena Boschi. Sulla signora si sono accesi i riflettori che forse il loro avvocato avrebbe consigliato di tenere spenti. «Sono nel panico, Beppe Grillo e sua moglie», dice al Riformista uno che li conosce bene, l’ex socio di Casaleggio, Marco Canestrari. «Solo con un attacco di panico si può giustificare una uscita così suicida da parte di entrambi. Sanno qualcosa che non sappiamo, anche a proposito dell’indagine», continua Canestrari. «Mi sembra che Grillo abbia un disperato bisogno di protezione, ecco perché si è affrettato a formare un governo con il Pd e poi a sostenere Draghi. Ha l’esigenza di tenersi al coperto, dentro l’area di governo». Se Parvin Tadjik è stata tenuta sotto osservazione, è verosimile e credibile che Beppe Grillo, anche solo per il fatto di averla chiamata frequentemente, in quei giorni in cui non era presente in Sardegna, sia finito a strascico nella rete delle telefonate intercettate. E sarebbe interessante, avendone conferma, capire per quanto tempo c’è rimasto. «È probabile, Grillo non gode di alcuna immunità, possono aver sentito le conversazioni tra i due. E la reazione inconsulta si può leggere con questa luce», aggiunge Canestrari. Come se Grillo, temendo di essere stato intercettato, rivelasse un suo tallone d’Achille particolare. «Perché Grillo quando parla al telefono non è la stessa persona di quando parla in pubblico», chiosa l’ex socio di Casaleggio, che con Grillo e la moglie è stato anche in vacanza – «Ma nella casa che hanno in Toscana, non in Sardegna», precisa. Il Grillo pubblico e il Grillo privato, i segreti inconfessabili dei festini alcolici, il timore di essere finito all’orecchio di un grande Fratello giudiziario: una nemesi incredibile per il profeta dello Stato etico, il Savonarola che ha costruito una fortuna sulle prediche contro i “politici immorali”. Il Procuratore Capo di Tempio Pausania, dottor Gregorio Capasso e la pm Laura Bassani hanno interrogato Ciro nei giorni scorsi e devono ora decidere per il rinvio a giudizio. Ed ecco Grillo entrare a gamba tesa, far pesare la sua leadership sul primo partito in Parlamento e riscuotere dalla Rai – ancora appesa ad un filo con Salini e Foa – un trattamento di favore. «Il Tg1 ha censurato Giulia Bongiorno, avvocato della ragazza che ha denunciato il presunto stupro nella villa di Grillo, mentre ha dato spazio alla moglie del comico che difende il figlio accusato. Al Tg1 delle 13.30 nessuno spazio alla dichiarazione della Bongiorno (“Porteremo il video di Grillo in Procura”), mentre ha avuto ampio spazio il commento di Parvin Tadjik su Facebook», fa notare sommessamente il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. Sulla pagina Facebook della signora notiamo una intensa attività, non proprio impegnata sui temi del Movimento: resort in Kenya, grand hotel a Londra, vacanze in barca a Formentera, i post che si leggono non parlano d’altro. Ci sono frequenti gallerie fotografiche – anche con foto esplicite – con un diario delle vacanze dal 2015 a oggi, ma non ci sono post nel luglio del 2019. Quando qualcosa a Porto Cervo è successo. E la politica non sta a guardare. L’imbarazzo in casa 5 stelle è palpabile. Tentano di “mettere al riparo” il Movimento dalle polemiche verso quella che è solo una “vicenda personale” sulla quale si pronuncerà la magistratura, afferma il capogruppo Davide Crippa. Dice la sua anche l’avvocato Giuseppe Conte: «Con il Movimento 5 Stelle mi accomunano da sempre queste due convinzioni: di ritenere indiscutibile il principio dell’autonomia della magistratura e di considerare fondamentale la lotta contro la violenza sulle donne, una battaglia che abbiamo sempre combattuto in prima linea». Una enunciazione di principi che non accontenta Marcucci: «Troppo poco, prenda le distanze da Grillo», lo esorta il senatore Dem. Dopo che la signora Tadjik-Grillo si avventura a propugnare l’esistenza di un video da cui si evincerebbe la natura amichevole della serata, le risponde la capogruppo Iv, Boschi: «Io non faccio il processo sui social, gentile signora. Le sentenze le decidono i magistrati, non i tweet delle mamme. Questo modo di concepire la giustizia, giocandola sui social e non nelle aule di tribunale, è aberrante», scandisce Boschi. Ancor più duro Matteo Renzi: «Beppe Grillo ha fatto un video scandaloso: il dolore di un padre non giustifica l’aggressione verbale a una ragazza che denuncia violenza. Invece che aspettare il processo, il pregiudicato che ha fondato il partito dell’onestà prova a salvare la sua famiglia dopo aver distrutto le famiglie degli altri – aggiunge il leader di Italia viva – Quanta ipocrisia nella doppia morale di chi crea un clima d’odio e poi se ne lamenta». Giulia Bongiorno, parlamentare della Lega e avvocato, annuncia in tv che porterà il video di Beppe Grillo in tribunale quale documento a sostegno dell’accusa. E da Forza Italia, Andrea Ruggeri chiama in causa l’Anm: «Ieri Grillo oggi sua moglie, attaccano la magistratura di Tempio Pausania, alla vigilia di una decisione delicatissima, e ignorando il tatto che si dovrebbe a una donna presunta vittima di stupro di gruppo. Ma dov’è la Anm, finora in silenzio di fronte a queste aggressioni, e invece sempre solerte a stracciarsi le vesti gridando all’eversione e a difendere, a prescindere e per molto meno, magistrati verso cui si è in passato anche solo alzato il sopracciglio?»

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Ciro Grillo indagato per stupro, le carte: "Ragazza costretta a bere e avere rapporti, "no, sesso di gruppo consenziente". Libero Quotidiano il 17 aprile 2021. "Violenza sessuale", "no, sesso consenziente". Ciro Grillo, figlio di Beppe, il comico e fondatore del M5s, è indagato assieme ad altri tre amici della "Genova bene" per aver "costretto ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno", e costretto "a bere mezza bottiglia di vodka", una studentessa italo-svedese, S.J., di 19 anni, nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019, nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Grillo. L'Adnkronos  ha pubblicato l'atto di accusa della Procura di Tempio Pausania (Sassari) a carico dei quattro ragazzi. Come si legge nelle carte della Procura "il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato" dalla giovane ragazza ed "è riconducibile a Beppe Grillo". "Non c'è stata violenza sessuale, ma sesso consenziente" ha ripetuto più volte Ciro Grillo, davanti al Procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, durante l'interrogatorio che si è tenuto in gran segreto giovedì sera 15 aprile. Nel novembre scorso il magistrato ha chiuso le indagini e ha messo gli atti a disposizione della difesa. Nei giorni scorsi sono stati ascoltati gli altri tre indagati dell'indagine, tenuta top secret. Giovedì sera è toccato, invece, al giovane Ciro Grillo. Intanto, il termine sta per scadere e la Procura sta decidendo in queste ore se chiedere il rinvio a giudizio per Grillo junior e i suoi tre amici. La Procura sarebbe orientata a chiedere il processo per i quattro ragazzi perché secondo i magistrati non si trattò di "sesso consenziente" ma di "violenza sessuale di gruppo". L'inchiesta è a carico di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro, nel luglio del 2019, erano in vacanza in Costa Smeralda. La notte del 16, come poi ha raccontato una ragazza di 19 anni, si sarebbero resi responsabili di stupro di gruppo. A loro carico ci sarebbero anche alcune fotografie che i consulenti della Procura hanno trovato sui cellulari e qualche intercettazione. La ragazza, che è difesa dall'avvocato Giulia Bongiorno, è stata più volte dagli inquirenti e ha raccontato, fin nei minimi particolari, quanto sarebbe accaduto in quella notte. I magistrati in quasi due anni di indagini hanno anche messo sotto controllo i telefoni non solo dei ragazzi ma anche di Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo e moglie del comico. La donna, sentita dai pm, ha sempre raccontato che quella sera dormiva nell'appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente. Il procuratore Capasso e la sostituta Laura Bassani, hanno inserito nel fascicolo le immagini ritrovate nei telefoni che, secondo l'accusa, mostrerebbero gli abusi anche ai danni della seconda ragazza che dormiva. E adesso, a giorni, è atteso il deposito della richiesta di rinvio a giudizio negli uffici del gup del piccolo Tribunale di Tempio Pausania, guidato dal magistrato napoletano Giuseppe Magliulo. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, quella notte Ciro Grillo e i suoi tre amici avevano trascorso la serata al Billionaire. Poi, quasi all'alba, lasciarono il locale con due giovani studentesse milanesi. Le ragazze avevano seguito i quattro giovani nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda. Solo che su quello che è accaduto dopo ci sono diverse versioni. La ragazza ha raccontato di essere stata stuprata, dopo che l'amica si era addormentata, di essere stata costretta a un rapporto sessuale con uno dei ragazzi e poi di essere stata stuprata anche dagli altri tre. Ma la versione fornita dai giovani rampolli è del tutto diversa. Hanno raccontato che il rapporto di gruppo con la giovane c'era stato ma che era stato "consenziente". Tanto che nei giorni seguenti ci sarebbero stati scambi di messaggi con i ragazzi. La denuncia è avvenuta solo successivamente, quando la ragazza era tornata a casa a Milano. Ora spetta alla Procura decidere se chiedere o meno il rinvio a giudizio.

La ricostruzione. Il caso di Ciro Grillo: l’accusa di stupro di gruppo, il video di Beppe, la bufera politica. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Il video pubblicato da Beppe Grillo sui social network ha fatto letteralmente esplodere il caso del figlio Ciro Grillo. Se n’era scritto poco, in due anni, dell’accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni del figlio 20enne del comico e fondatore e Garante del Movimento 5 Stelle. Un vero e proprio cortocircuito, politico e giudiziario. Un testa-coda sul garantismo, il colpevolismo, il maschilismo, la parità e la violenza di genere. Due le cose certe finora: Ciro Grillo, e con lui i suoi quattro amici, è innocente fino a sentenza passata in giudicato; gli inquirenti dovranno decidere a breve per l’archiviazione o per il rinvio a giudizio dei quattro indagati. Secondo media e indiscrezioni sembrerebbe propendere più per la seconda opzione. 17 luglio 2019, Costa Smeralda. Ciro Grillo passa la serata al Billionaire di Flavio Briatore con gli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro conoscono due ragazze, S. J. ed R. M.  e le invitano a casa a mangiare qualcosa, raccontano le ragazze. La casa è quella del garante del Movimento 5 Stelle a Porto Cervo. Gli atti depositati dalla Procura di Tempio Pausania riportano come i ragazzi avrebbero “afferrato per i capelli la ragazza, l’hanno ubriacata costringendola a bere mezzo litro di vodka e l’hanno violentata a turno”. La lucidità della ragazza, secondo i pm, sarebbe stata “enormemente compromessa” e quindi i presunti aggressori avrebbero “approfittato delle condizioni di inferiorità psicologica e fisica”. Nell’appartamento di fianco dormiva Parvin Tadjik. La vittima del presunto stupro ha 19 anni, studentessa, italo-svedese. Avrebbe perso conoscenza fino alle 15:00 del giorno dopo, quando è tornata a Palau. “Il pomeriggio fa kite-surf”, ha detto Beppe Grillo. Per qualche giorno è rimasta in Sardegna. Denuncia la violenza sessuale di gruppo dopo essere tornata a Milano, otto giorni dopo, e dopo essersi confidata con la madre. Prima di andare dai carabinieri si sottopone a una visita medica. La Procura di Tempio Pausania (Sassari) sarebbe orientata a chiedere il rinvio a giudizio per i quattro indagati. I quattro hanno ribadito che il rapporto è stato consenziente. La Procura comunque ha centellinato le notizie sul caso, dopo quasi due anni dall’episodio denunciato. Non abbastanza, evidentemente, per Beppe Grillo, che ieri pomeriggio in un video sui suoi canali social ha accusato i giornalisti di dipingere il figlio come uno stupratore e ne ha fatta una questione politica. “Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri 3 ragazzi. Io voglio chiedere perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati, la legge dice che vanno presi e messi in galera e interrogati. Sono liberi da due anni, perché non li avete arrestati? Perché vi siete resi conto che non è vero niente, una persona che viene stuprata la mattina, il pomeriggio fa kite-surf e denuncia dopo 8 giorni è strano. E poi c’è un video in cui si vede un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così …” perché “sono quattro coglioni, non quattro stupratori”. Secondo la difesa dei quattro, scrive AndKronos, dopo il primo rapporto, la ragazza e uno dei ragazzi sarebbero usciti a comprare le sigarette. E nei giorni successivi ci sarebbero stati altri messaggi definiti “amichevoli” con i quattro. Altra debolezza secondo i legali: le foto che la 19enne ha pubblicato sui social network nei giorni successivi alla presunta violenza sessuale. Il video, che sarebbe uno dei punti cruciali dell’inchiesta, è stato acquisito dalla Procura. Ci sarebbero anche delle foto. I legali dei ragazzi hanno dichiarato: “S. J. era consenziente”. Gli inquirenti sarebbero invece più convinti del racconto della studentessa. “Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste”, la dichiarazione dei genitori di S. J. tramite l’avvocata Giulia Bongiorno, senatrice della Lega. “Questo video io lo porterò in Procura perché reputo che sia una prova a carico – ha detto Bongiorno a L’Aria Che tira su La7 – è una prova perché documenta una mentalità, la mentalità del ‘non succede niente’, ‘sono cose che si possono fare’: si chiama eufemizzazione, prendere delle cose importanti e ridurle in briciole. Ed è il metodo spesso usato dagli uomini per giustificarsi quando sono imputati”. Stupore e indignazione dopo il video dai toni violenti di Beppe Grillo. A far discutere è soprattutto quel passaggio su “il pomeriggio fa kitesurf e denuncia dopo 8 giorno, è strano”. L’articolo 609 bis del codice penale sulla violenza sessuale stabilisce che è punibile a querela irrevocabile della persona offesa, che ha un anno di tempo. L’arresto, poi, è obbligatorio in flagranza di reato. La detenzione va dai 6 ai 12 anni, se la violenza sessuale è di gruppo dagli 8 ai 14 anni. Tra le aggravanti, l’uso di sostanze alcoliche. Contro l’uscita di Grillo si sono espressi Italia Viva, il Partito Democratico, Fratelli d’Italia, la Lega, Forza Italia. Solidarietà a Grillo dall’ex pasionario dei 5s Alessandro Di Battista e di Paola Taverna, vicepresidente del Senato. La questione ha però spaccato il Movimento nel pieno di una trasformazione totale tra la piattaforma Rousseau e la ricostruzione dell’ex premier Giuseppe Conte. Il capo politico Vito Crimi ha espresso vicinanza “umanamente” al comico e confermato la “fiducia nel lavoro della magistratura, che accerterà la verità”. Il caso è arrivato nell’Aula della Camera dei deputati all’apertura dei lavori con gli attacchi di Lucaselli di Fdi, di Ravetto della Lega e di Valentini di Fi. Critiche anche di Liberi e Uguali. Il commento più sdegnato al video del Garante è stato quello di Maria Elena Boschi. “Caro Grillo ti devi semplicemente vergognare. Le sue parole sono piene di maschilismo. Quando dice che la ragazza ci ha messo 8 giorni a denunciare fa un torto a tutte le donne vittime di violenza e forse non sa il dolore che passa attraverso quelle donne, che spesso impiegano non giorni, ma settimane per superare magari la vergogna e l’angoscia”, aveva dichiarato in un video l’ex ministra. La capogruppo non ha mai fatto riferimento alle responsabilità – ancora presunte, e quindi innocente fino a condanna – di Ciro Grillo. A Boschi ha replicato Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo, che ha commentato il messaggio di Boschi: “C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare”. La donna era stata interrogata sulla notte dello stupro. “Non ho sentito niente”, aveva affermato ma sarebbe stata intercettata a lungo dopo aver testimoniato secondo AdnKronos. L’ex ministra ha replicato nuovamente: “Parvin Tadjik, i processi si fanno in aula non sui social. Si chiama giustizia, non giustizialismo. Suo marito Beppe Grillo ha massacrato mio padre ma quando è stato archiviato non una parola, nemmeno ‘scusa’. Io non giudico suo figlio, giudico suo marito: colpevole d’odio”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2021. Questo articolo riporta essenzialmente le accuse della procura di Tempio Pausania (Sardegna) che saranno il probabile fulcro della richiesta di rinvio a giudizio contro il 20enne Ciro Grillo (figlio di Beppe) e dei suoi tre amici della cosiddetta «Genova bene»: parliamo di accuse di violenza sessuale di gruppo contro una 19enne, insomma stupro, mica noccioline: e, anche se le indagini sono state tenute sottotraccia per molto tempo, e i pm hanno le bocche cucitissime (complimenti alla discrezione della procura, che è riuscita a tenere segreti anche gli interrogatori dei ragazzi) tuttavia sappiamo che riportare crudamente le accuse suona sempre come una mezza condanna per gli accusati: soprattutto se hanno linee difensive così banali e inconsistenti, e spiace dirlo. La richiesta di rinvio a giudizio comunque dovrebbe essere depositata entro fine mese, e comunque ripartiamo dal contesto: metà luglio del 2019, vacanze in Costa Smeralda, serate al Billionaire, cene con gli amici, giovincelli decisamente esuberanti e patiti della propria fiera fisicità, e poi - eccoci - versioni alquanto contrastanti su quando accadde nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2019 nella villa in Costa Smeralda di proprietà di Beppe Grillo, due appartamenti contigui di 80 metri quadri in un golf club di Cala di Volpe, in Costa Smeralda, Sardegna, vicino a Portocervo: co-protagoniste (loro malgrado) una studentessa italo-svedese e una sua amica, entrambe abitanti a Milano, oltre naturalmente ai loro presunti violentatori. I magistrati, in quasi due anni di indagini, hanno messo sotto controllo anche i telefoni di Parvin Tadjik, madre di Ciro e moglie del comico genovese. La donna, sentita dai pm, ha sempre raccontato che la sera in questione dormiva nell' appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente

LE FOTO Le espressioni usate in qualsiasi richiesta di rinvio a giudizio (che puntano a ottenere un processo, che nel caso si preannuncia probabile) non sono mai tenere, e i pm di Tempio Pausania non fanno eccezione. La giovane sarebbe stata costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, afferrata per la testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka prima di subire rapporti di gruppo con tutti e quattro. In pratica i maschi avrebbero «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica» e gli orrori che avrebbero perpetuato riempiono pagine e pagine delle accuse, benché imperniate fondamentalmente sui racconti di lei, che aveva fatto in tempo a scattare una foto del residence così da farlo successivamente individuare. Dalle foto depositate il 20 novembre scorso, a chiusura delle indagini, ci sarebbero anche immagini che mostrerebbero abusi anche ai danni dell' amica della 19enne, che ufficialmente dormiva. Un video mostrerebbe Ciro Grillo compie un atto sessuale su una ragazza sfinita dall' alcol, inerte, addormentata. Insomma, in termini probatori gli indagati sono discretamente nella merda.

I MESSAGGI Anche perché la posizione della difesa è un po' semplicistica (il che non significa che sia falsa) e ha poche pezze d' appoggio. Il quel luglio 2019 Ciro e i tre amici erano stati al Billionaire quasi sino all' alba e poi se n' erano andati con le due giovani studentesse milanesi, che li avevano seguiti nella villa di Beppe Grillo per una spaghettata: e sin qui tutti d' accordo. Poi le versioni cominciano parecchio a cambiare. Come detto, la ragazza ha raccontato d'esser stata stuprata dopo che l' amica si era addormentata, e nel modo che abbiamo descritto. I ragazzi invece riferiscono che i rapporti di gruppo con la 19enne ci sono stati, sì, ma che era lei «consenziente»: con rispetto parlando, nel caso sarebbe stata praticamente un' assatanata o un' aspirante pornostar. I ragazzi hanno anche precisato che, dopo il primo rapporto sessuale, lei e il primo ragazzo sarebbero andati a comprare le sigarette, dopodiché, al ritorno, lei avrebbe ricominciato ad avere rapporti multipli (ma consenzienti, come detto) con gli altri tre. Nei giorni successivi ci sarebbero anche stati ordinari scambi di messaggi con i ragazzi. In effetti la denuncia è avvenuta solo successivamente, quando la ragazza era tornata a Milano e dopo aver raccontato l' accaduto (se accaduto) durante una visita alla clinica Mangiagalli. Nell' insieme, comunque vada, resta una storiaccia. Comunque vada, qualcuno griderà all' ingiustizia. Comunque vada, stiamo parlando di quasi minorenni con la vita segnata, nel bene e nel male. Comunque vada, anche Beppe Grillo su questo argomento non dice comprensibilmente una parola e alla sua palpabile tristezza non sembrano estranei problemi anche con la moglie Parvin Tadjik. Ma qui, per mesto che sia, siamo al gossip.

La disco, il video, la violenza: cosa sappiamo sull'inchiesta su Grillo Jr. Francesca Bernasconi il 21 Aprile 2021 su Il Giornale. Dalla notte delle presunte violenze al possibile processo: a che punto è l'inchiesta che coinvolge Ciro Grillo? Un video choc del fondatore del Movimento 5 Stelle che ha scatenato polemiche da parte di tutte le forze politiche. Ma questa volta, Beppe Grillo non è sceso in campo per combattere una battaglia di partito, ma per difendere il figlio Ciro, indagato insieme ad altri tre coetanei (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) per violenza sessuale di gruppo. Due le versioni a confronto, che raccontano i fatti risalenti alla notte del 16 luglio 2019.

La notte sotto accusa. A denunciare la vicenda era stata una studentessa italo-norvegiese, S.J., che nell'estate del 2019 si trovava in vacanza in Sardegna con un'amica. Le giovani avevano passato la serata del 16 luglio al Billionaire, dove avevano conosciuto Ciro Grillo e gli altri tre amici, che le avevano invitate nella villa in Costa Smeralda di proprietà del fondatore del Movimento 5 Stelle. Verso le sei del mattino però, mentre l'amica dormiva, S.J. sarebbe stata costretta "a subire e compiere atti di natura sessuale". Uno dei quattro ragazzi avrebbe chiesto alla studentessa di accompagnarlo nella camera e poi l'avrebbe a afferrata e "scaraventata sul letto". Il tutto sarebbe continuato "nel tentativo d'avere un rapporto sessuale, mettendosi nuovamente sopra di lei e allargandole le gambe, ma S. J. riusciva a divincolarsi e a uscire dalla stanza". Le violenze si sarebbero poi consumate sia nella camera da letto che nel box doccia e la ragazza sarebbe stata costretta a "cinque o sei rapporti". Secondo la procura di Tempio Pausania, la "lucidità" della vittima "risultava enormemente compromessa" al momento dei fatti. Anche l'amica della studentessa italo-svedese, R.M., potrebbe essere stata vittima di violenza. Una delle foto trovate nei cellulari dei ragazzi infatti la ritrarrebbe addormentata, mentre uno dei giovani la umilia. Secondo la procura, dopo le violenze, "la ragazza ha perso conoscenza fino alle 15 quando è tornata a Palau". Una volta tornata a Milano, la studentessa si era poi recata a sporgere denuncia: era il 26 luglio 2019. Così, due anni fa, era iniziata l'inchiesta sui presunti stupri.

Verso il processo. Lo scorso novembre la procura ha chiuso le indagini sulla vicenda che coinvolge il figlio di Beppe Grillo e ha messo gli atti a disposizione della difesa. La difesa aveva quindi chiesto un termine per fare le proprie controdeduzioni ed eseguire indagini difensive. Nei giorni scorsi, i quattro indagati sono stati ascoltati dalla procura, che non ha rivelato i contenuti degli interrogatori. Intanto sta per scadere il termine e la procura dovrebbe decidere in questi giorni su una possibile richiesta di rinvio a giudizio per Ciro Grillo e per i suoi tre conoscenti, che quella notte erano con lui nella villa in Costa Smeralda. Secondo quanto appreso da Adnkronos, il procuratore sarebbe orientato a chiedere il processo per i quattro ragazzi, perché secondo i magistrati non si trattò di "sesso consenziente".

La versione della difesa. Diversa invece la versione della difesa, secondo cui non ci fu violenza sessuale. Stando al racconto dei giovani infatti quella notte venne consumato un rapporto di gruppo, ma la ragazza era "consenziente". Per rafforzare la loro tesi i ragazzi avrebbero raccontato ai magistrati, stando alle indiscrezioni di Adnkronos, che dopo il primo rapporto la studentessa e uno degli amici di Grillo sarebbero andati insieme a comprare delle sigarette, e al loro ritorno lei avrebbe avuto rapporti sessuali anche con gli altri tre. Nei giorni seguenti inoltre, S.J. e i quattro amici si sarebbero scambiati alcuni messaggi. Nel fascicolo dell'inchiesta sono stati inseriti foto e video trovati nei cellulari dei ragazzi e alcune intercettazioni a carico di Grillo jr e degli altri tre ragazzi. Il prossimo passo ora spetta ai magistrati, che stanno decidendo se rinviare a giudizio i giovani.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 20 aprile 2021. I fatti sono del luglio 2019, ma per la chiusura dell'indagine bisogna aspettare il novembre del 2020. I pm si sono convinti che quando nei video la vittima appare subire senza ribellarsi gli amplessi dei quattro ragazzi, tra cui Grillo Jr, fosse perché era stata «afferrata per la testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka». Hanno taciuto per quasi due anni, mentre l'inchiesta languiva, affrontando in silenzio le contromosse dei difensori dei ragazzi che hanno trasformato in inferno la vita della loro figlia. Si sono occupati di lei, si sono dedicati a portarla fuori dal trauma della notte in Costa Smeralda nella villa di Beppe Grillo divenuta un incubo. Ma ieri, di fronte alla invettiva via Internet del comico genovese, i genitori di S.J. hanno deciso che la misura era colma. E hanno affidato alla Adnkronos una dichiarazione di fuoco: «Siamo distrutti. Il tentativo di fare spettacolo sulla pelle altrui è una farsa ripugnante». E ancora: «Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il suo dolore, la disperazione e l'angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste, che non hanno nemmeno il pregio dell' inedito». È uno sfogo drammatico, che arriva dopo una indagine in cui per mesi la famiglia della ragazza ha dovuto fare i conti non solo con le manovre delle difese ma anche con le cautele della Procura. Basti pensare che con un quadro di prove praticamente uguale, l'imprenditore milanese Alberto Genovese il 6 novembre scorso venne arrestato immediatamente. Anche lì c'era il racconto della vittima e i filmati di un sesso imbambolato, sotto l'effetto di alcol e paura. Invece Ciro Grillo e i suoi compagni di vacanze sono rimasti a piede libero, e - a quasi due anni dalla denuncia contro di loro - non c'è ancora la richiesta di rinvio a giudizio contro di loro. Una situazione paradossale che rende legittima la domanda-invettiva lanciata ieri da Grillo: «Perché non sono in galera se sono degli stupratori?». La verità è che il fascicolo scaturito dalla denuncia che S.J., studentessa milanese (e non «modella», come la definì da subito la stampa vicina al comico, come se questo fosse un'attenuante) ha viaggiato con i tempi placidi di una Procura di paese, un capo e quattro sostituti, un territorio affollato un mese all'anno e semideserto d'inverno. Quando la denuncia della ragazza viene trasmessa da Milano a Tempio, viene gestita come un fascicolo ordinario. Il nome di Beppe Grillo, padre di uno degli indagati, proprietario della villa dove lo stupro sarebbe avvenuto, fa il resto per indurre alla cautela. Per interrogare l'unica testimone possibile, la madre di Ciro Grillo, i pm aspettano tre mesi. Per nominare un tecnico che analizzi i telefoni del quartetto, due mesi. Per la chiusura dell' indagine bisogna aspettare il novembre del 2020. E lì si scopre che comunque un po' di riscontri alle dichiarazioni della vittima sono stati trovati. I pm si sono convinti che quando nei video la vittima appare subire senza ribellarsi gli amplessi a raffica dei quattro fosse perché era stata «afferrata per la testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka». Da quel momento in poi, S.J. non è più in grado di dire né di sì né di no, è un giocattolo in mano a Ciro e agli amici. «Dei ragazzi in mutande con il pisello di fuori», come li definisce Grillo (che evidentemente ha visto il video dello stupro). Ma la frase cruciale nella difesa d'ufficio degli indagati è quando il padrone di casa dice che la ragazza è inattendibile perché dopo lo stupro «è andata a fare kitesurf». È la stessa linea difensiva che fin dall'inizio i legali degli indagati hanno offerto alla Procura di Tempio Pausania, depositando video e foto estrapolati dai profili social di S.J. che dimostrerebbero la serenità della ragazza: lei che fa sport, lei che sorride, lei che va in vacanza con i genitori. La stessa linea che Grillo ieri lancia nel web, e scatena la reazione dei genitori di S.J.

DAGONEWS il 21 aprile 2021. Beppe Grillo era cautamente ottimista. Dopo quasi due anni da quella sera di luglio 2019 in cui Ciro Grillo e tre amici si sono ritrovati nella villa dell'Elevato in Costa Smeralda con due studentesse 19enni, era convinto che il rinvio a giudizio con l'accusa di stupro sarebbe stato evitato. Pochi giorni fa, invece, i suoi avvocati lo hanno informato che la procura di Tempio Pausania era più che convinta a spedire il figlio a processo. BeppeMao è andato in tilt, ha perso il controllo e ha consegnato al web il suo furibondo intervento fin troppo sopra le righe. "L'Elevato" ha ruggito da padre ferito ma ha messo alla prova anche la sua leadership politica. S'aspettava che il suo intervento catalizzasse la solidarietà dei maggiorenti grillini. Risultato: silenzio assordante. A parte le caute dichiarazioni di Paola Taverna e Alessandro Di Battista, il nulla. Per spingere l'indeciso-a-tutto Giuseppe Conte a spiccicare qualche parola s'è dovuto adoperare a lungo il povero Vito Crimi. Un pressing forsennato che ha prodotto una felpatissima dichiarazione di solidarietà ("Comprendo le preoccupazioni e l'angoscia di un padre, ma non possiamo trascurare i sentimenti della giovane ragazza coinvolta"). Il solito cerchiobottismo che non ha convinto nessuno e ha scontentato tutti. Luigino Di Maio? Tace, s'imbosca, ha dribblato anche l'intervista a "L'aria che tira" e ha intimato ai suoi di restare sottocoperta. In questo scenario di desolante solitudine, Grillo ha chiesto alla moglie, Parvin Tadjk, di esporsi con il commento ("Un video testimonia l'innocenza dei ragazzi") al video con cui Maria Elena Boschi l'aveva ferocemente criticato. Il filmato del "Fondatore" ormai mezzo affondato ha scosso anche la redazione del "Fatto quotidiano" che da tempo ribolle per la linea editoriale di Travaglio così schiacciata su Conte-PD. Il durissimo editoriale contro "l'Elevato" di Selvaggia Lucarelli, che pure collabora al quotidiano, ha trovato spazio sul sito di Tpi. L'articolo di Paola Zanca, che ha sottolineato come "denunciare una violenza dopo otto giorni non è strano", è stato relegato in un trafiletto a pagina 8 nella rubrica "Lo Sberleffo". Praticamente un siluro sapientemente depotenziato. Lo stesso Travaglio, nel suo editoriale di oggi dal titolo "Due errori e un diritto", attinge a una inusuale empatia per sostenere Grillo: "Non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto". Solo che Beppone non è un padre qualsiasi: è il fondatore di un movimento politico che ha fatto dell'onestà-tà-tà la sua missione, che ha sì incalzato i condannati in via definitiva ma ha anche crocifisso gli avversari colpiti da un avviso di garanzia (con tanti saluti alla presunzione d'innocenza). Il M5s ha lanciato le sue crociate contro la Casta che si autotutela, contro l'arroganza e l'impunità del potere. Travaglio ha ragione a precisare che "infilare la politica in un processo per stupro è quanto di più demenziale, anche perché Ciro Grillo non fa politica. La fa suo padre, il quale non risulta aver mai detto che si è colpevoli prima della sentenza". Ma la forma è sostanza. Quel video, arrivato dopo 20 mesi di silenzio e a ridosso di un probabile rinvio a giudizio del figlio Ciro, diffuso con la potenza di fuoco a disposizione di Grillo e maldestramente argomentato (la consensualità del rapporto sessuale "dimostrata" dal ritardo di 8 giorni nella denuncia) come riconosce lo stesso Travaglio, è come un rutto in Chiesa: inopportuno. Che poi abbia avuto l'effetto opposto a quello desiderato, è un altro discorso…

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi e Giuseppe Filetto per “la Repubblica” il 27 aprile 2021. Beppe Grillo a Milano avrebbe chiesto "indagini conoscitive" su Silvia, la 19enne studentessa italo-svedese appassionata di kite surf che ha denunciato di essere stata violentata, la notte del 17 luglio 2019, a Porto Cervo, da Ciro Grillo, figlio del leader M5S e dai suoi tre amici e compagni di vacanza. Inoltre, il Guru ha incaricato un medico legale di fare una perizia sulla ragazza. La notizia […] rischia di avere l'effetto di un secchio di benzina su un fuoco già acceso. […] con il mandato a un professionista, l'outsider Marco Salvi, noto per essersi occupato del serial killer Donato Bilancia e dell'omicidio di Carlo Giuliani durante il G8. A Salvi, attraverso i filmati e le foto, il compito di definire quanto Silvia quella notte fosse ubriaca o capace di intendere e di volere. Inoltre, c'è l'intento di ricostruire la personalità ed i comportamenti di quella che appare sin qui la vittima di una brutta storia […]  

Caso Grillo, è scandalo per “l’indagine conoscitiva” Ma lo prevede la legge…Valentina Stella su Il Dubbio il 27 aprile 2021. Ennesima tegola mediatica dopo la notizia che il fondatore del M5S avrebbe chiesto un'indagine conoscitiva sulla ragazza che ha denunciato suo figlio per stupro. Una possibilità prevista dal codice, secondo cui il difensore ha il diritto di investigare per conto del proprio assistito. Una nuova polemica è scoppiata ieri in merito al caso Grillo: secondo quanto riportato da Repubblica, il fondatore del Movimento Cinque Stelle avrebbe chiesto di approfondire il comportamento di Silvia, la 19enne studentessa italo-svedese che ha denunciato di essere stata violentata nella villa del comico a Porto Cervo, in Sardegna, la notte del 17 luglio 2019, dal figlio e da altri tre suoi amici. Ennesima tegola mediatica dunque dopo il video sfogo di Grillo padre e dopo che era trapelata la notizia che i legali avrebbero voluto mostrare il famoso filmato in cui avviene l’atto sessuale. Un circo mediatico che sembra non volersi arrestare soprattutto alla luce di quanto appunto emerso ieri: infatti, scrivono i colleghi, Grillo avrebbe ingaggiato un noto ed ascoltato medico-legale di Genova, Marco Salvi, che in passato si è occupato anche del serial killer Donato Bilancia e dell’omicidio di Carlo Giuliani durante il G8. A Salvi, attraverso i filmati e le foto, il compito di definire quanto S.J. fosse ubriaca o invece capace di intendere e di volere. Su questo punto si giocherà l’eventuale processo. Ma, sempre stando ad ulteriori indiscrezioni, il Guru dei pentastellati avrebbe chiesto indagini conoscitive sulla ragazza: personalità, frequentazioni, studi. Insomma una indagine sulla vita privata.  Abbiamo provato a contattare via email il dottor Salvi per chiedere qualche delucidazione ma al momento nessuna risposta. «La notizia –  scrive Repubblica –  per come si sta sviluppando, anche mediaticamente, la vicenda del presunto stupro subito dalla ragazza rischia di avere l’effetto di un secchio di benzina su un fuoco già acceso». Mentre Libero titola: «Beppe Grillo, mossa estrema per salvare il figlio Ciro». Dunque l’ultima tappa in ordine di tempo della presunta strategia di Grillo sarebbe vista con sospetto da certa stampa. Invece non c’è alcuno scandalo: la legge n. 397 del 2000 ha inserito un nuovo titolo nel libro V del codice di procedura penale dedicato interamente alla disciplina delle indagini che il difensore ha il diritto di svolgere in favore del proprio assistito, reperendo documentazione e prove atte a contraddire e sconfessare la tesi accusatoria. In particolare l’articolo 391 bis del Codice di procedura penale prevede, tra l’altro, che «il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa». Come ci spiega meglio l’avvocato Giuseppe Belcastro, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali, «il difensore ha la possibilità di effettuare investigazioni direttamente o attraverso consulenti tecnici, come previsto dal Codice. Tutti noi ne facciamo quando ad esempio abbiamo bisogno di fare attività sui luoghi o semplicemente acquisire dichiarazioni informali da possibili testimoni. L’oggetto delle investigazioni deve avere attinenza con i fatti relativi all’indagine o al processo». L’avvocato tende a precisare che «finché ci si muove in questo ambito, in questo hortus conclusus dei limiti codicistici e deontologi, va tutto bene. Tuttavia la spettacolarizzazione del caso di cui stiamo discutendo, soprattutto perché relativa ad un presunto stupro di gruppo, rischia di tingere con colori che non sono propri del processo penale una prassi che sarebbe normale nel corso di una attività difensiva».

L’avvocato Belcastro, precisando ovviamente di non conoscere i dettagli del caso, aggiunge: «Porre sotto i riflettori mediatici una vicenda così delicata rischia di compromettere l’accertamento processuale dei fatti». Facciamo presente all’avvocato che qui forse è in gioco da parte della difesa di Grillo un lavoro difensivo per stabilire l’attendibilità della presunta vittima: «se la questione è inerente alla credibilità di una fonte dichiarativa, certamente questa verifica rientra nei compiti del difensore, cosa che non c’entra nulla con il rispolverare un armamentario vecchio ed obsoleto per demonizzare la presunta vittima».

Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2021. Si parla del caso di Ciro Grillo, il figlio di Beppe Grillo, accusato insieme ad altri tre amici di stupro di gruppo, in studio da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, nella puntata di domenica 25 aprile. La ragazza che li ha denunciati, è difesa dalla senatrice leghista Giulia Bongiorno, che da sempre si batte contro la violenza sulle donne. In collegamento c'è Peter Gomez de Il Fatto Quotidiano, che critica l'avvocato: "Fossi stato in lei avrei passato la difesa di questa ragazza ad un altro legale, perché avrei tolto l'idea che dietro tutto questo ci fosse una speculazione politica. Anche se nessuna legge lo vietava". Giletti quindi gli fa notare che l'ex ministro difende da sempre le donne contro ogni forma di violenza, che la Lega non c'entra nulla. Ma Gomez insiste che sarebbe stata una questione di opportunità, "Per rafforzare la ragazza, per dire che non potete nemmeno avere quel retropensiero". In apertura di puntata, Giletti aveva mostrato nello schermo alle sue spalle le dichiarazioni fatte dall'accusa: "Corsiglia (uno dei ragazzi) si infilava nel letto di un’altra stanza priva di porta, in cui la J. si era coricata, la afferrava per i capelli spingendola sotto la coperta e tirandola su di sé, la costringeva a subire un rapporto orale; poi la girava mettendola in posizione supina e sdraiata, e, dopo averle abbassato anche l’intimo, la costringeva a un rapporto vaginale". E ancora: "La forzavano a bere vodka, afferrandola per i capelli la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali con ciascuno di loro". E non contenti, non ancora soddisfatti, se la sono presa anche con l’amica, precipitata in un sonno conciliato dall’ alcol". Di più. Il conduttore aveva poi fatto vedere un'altra grafica: "La notte brava non sembra finita lì", aveva spiegato ai telespettatori prima di svelare quanto detto dall'amica della giovane vittima: "In particolare Grillo, alla presenza di Capitta che scattava fotografie per immortalarlo e di Lauria, appoggiava i propri genitali sul capo di R. M., la quale, in stato di incoscienza perché addormentata, era costretta a subire tale atto sessuale".

Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2021. "Lui non farebbe mai nulla, lui non aveva idea di cosa succedeva". Nel servizio mandato in onda da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, nella puntata di domenica 25 aprile, parla una amica di Ciro Grillo, il figlio di Beppe, accusato di stupro di gruppo insieme ad altri tre ragazzi. "Lui pensava solo di divertirsi e di far serata", spiega la giovane. "Lei era complice. Io ho visto il video, c'era complicità massima". E ancora, spiega: "Sono in quattro tutti insieme, era una situazione tranquilla. Nel video lei è complice della situazione, ride. Se tu ti senti abusata e violata non stai lì così". Poi l'affondo: "Se lei era sbronza e non si rendeva conto della situazione, allora anche gli altri non si rendevano conto. Se tutti sono ubriachi e tu stai al gioco non è che poi il giorno dopo dici che hai abusato di me". In apertura di puntata, Giletti aveva mostrato nello schermo alle sue spalle le dichiarazioni fatte dall'accusa: "Corsiglia (uno dei ragazzi) si infilava nel letto di un’altra stanza priva di porta, in cui la J. si era coricata, la afferrava per i capelli spingendola sotto la coperta e tirandola su di sé, la costringeva a subire un rapporto orale; poi la girava mettendola in posizione supina e sdraiata, e, dopo averle abbassato anche l’intimo, la costringeva a un rapporto vaginale". E ancora: "La forzavano a bere vodka, afferrandola per i capelli la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali con ciascuno di loro". E non contenti, non ancora soddisfatti, se la sono presa anche con l’amica, precipitata in un sonno conciliato dall’ alcol". Di più. Il conduttore aveva poi fatto vedere un'altra grafica: "La notte brava non sembra finita lì", aveva spiegato ai telespettatori prima di svelare quanto detto dall'amica della giovane vittima: "In particolare Grillo, alla presenza di Capitta che scattava fotografie per immortalarlo e di Lauria, appoggiava i propri genitali sul capo di R. M., la quale, in stato di incoscienza perché addormentata, era costretta a subire tale atto sessuale".

Massimo Malpica per "il Giornale" il 26 aprile 2021. Il video-boomerang di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro accusato di stupro di gruppo continua a far discutere. Criticata trasversalmente, anche dal M5s, ora quell'uscita dell'ex comico avrebbe spaccato anche la linea comunicativa dei difensori degli altri tre ragazzi indagati dopo le dichiarazioni della 19enne S.J., che accusa i quattro di averla violentata nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 2019 nella villetta di Grillo, a Porto Cervo. Ma soprattutto quel contrattacco unilaterale, deciso autonomamente dal fondatore dei Cinque Stelle per «difendere» il pargolo nasconderebbe altro. Forse pure il timore di essere stato intercettato. Plausibile, peraltro, visto che la moglie Parvin Tadjik lo è stata prima e dopo essere stata interrogata dai magistrati sardi, visto che dormiva nella stessa villa ma ha raccontato di non aver sentito nulla. A ipotizzare che quel gesto sia stato spinto dall'ansia, parlando con il Riformista, è stato l'ex socio di Casaleggio Marco Canestrari, commentando il video e il successivo intervento della moglie, anche lei in difesa di Ciro, in replica al video con cui Maria Elena Boschi attaccava il messaggio di Beppe. «Solo con un attacco di panico si può giustificare una uscita così suicida da parte di entrambi. Sanno qualcosa che non sappiamo, anche a proposito dell'indagine», spiega l'esperto mediatico, che i coniugi Grillo li conosce bene. E non esclude che nel fascicolo d'indagine su cui sono al lavoro i magistrati di Tempio Pausania ci sia, tra video e messaggi, anche qualcosa che turba il fondatore del M5s, tanto da fargli perdere il controllo. Il problema, ora, sono anche i coindagati di «Ciruzzo», Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, gli altri tre ragazzi che avrebbero preso parte al presunto stupro. I loro legali, sorpassati e sorpresi dal «messaggio alla nazione» di Beppe, avrebbero cominciato a valutare un cambio di direzione nella strategia comunicativa, e secondo quanto racconta Il Fatto Quotidiano starebbero addirittura studiando l'ipotesi di rendere pubblico il video di quella notte. Un elemento che secondo la difesa degli indagati scagionerebbe Grillo junior e i suoi amici dimostrando che la ragazza era consenziente, ma che per la procura è invece una prova a carico, una sorta di pistola fumante che proverebbe la brutalità della scena, oltre a confermare le condizioni di fragilità e debolezza della ragazza. Diffondere quel video sembra insomma una mossa azzardata, oltre che di dubbia opportunità e legalità, visto che la difesa dei quattro ragazzi ha sempre detto che il processo andrà fatto in aula, ma come racconta Il Fatto, i legali si sarebbero detti, in seguito all'alzata di scudi provocata dall'uscita di Grillo, «consapevoli che in questo momento questa scelta (ossia mantenere un basso profilo, ndr) possa significare esporsi a un massacro mediatico». Anche perché la difesa paterna di Ciro ha innescato una serie di reazioni nocive ai quattro indagati. Non solo per la generale indignazione della politica e della società civile, con i social in rivolta contro padre e figlio Grillo, ma anche per la pubblicazione di stralci del verbale della ragazza e di interviste al titolare del B&B che la ospitava (e che racconta che dopo quella serata la vide «non serena»), che hanno tra l'altro amplificato la mediaticità del caso invece di ridurla, ad onta dello stesso titolo scelto da Grillo per quel controverso video («giornalisti o giudici?»). Insomma, è tutto un pasticcio. Che continua a gonfiarsi: ieri sera Massimo Giletti a «Non è l'Arena» su La7 ha fatto ascoltare un audio in cui, con voce artefatta, uno dei quattro ragazzi accusati di stupro sostiene che nel video acquisito come prova «si vede che la ragazza sta benissimo e che la vodka la beve da sola, e per sfida». Inoltre un'inviata della trasmissione ha intercettato per strada Ciro Grillo chiedendogli conto del video difensivo del padre.

L’INDAGINE. Ciro Grillo e l’accusa di stupro, la difesa di uno dei ragazzi: «Dormivo e non sono nel video». Gli altri tre confermano la versione. La ragazza ribadisce: violenze da tutti. Voci su una richiesta di rito abbreviato da parte dei ragazzi accusati di stupro di gruppo. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2021. Lui l’ha detto fin dal primo interrogatorio nell’estate del 2019: io non ho partecipato a nessuno stupro di gruppo. Non ne so niente perché dopo aver fatto sesso con la ragazza mi sono addormentato. E gli altri tre? Cosa raccontano loro della sua versione? «La confermano», dice uno degli inquirenti. Lo hanno fatto anche qualche settimana fa negli ultimi interrogatori. «Raccontano anche loro che nella seconda parte di questa storia Francesco non c’era».

Le accuse di stupro di gruppo. Francesco è Francesco Corsiglia, 22 anni, uno dei ragazzi che la Procura di Tempio Pausania ha indagato per stupro di gruppo nel caso Grillo. In quella storiaccia che risale alla notte fra il 16 e il 17 luglio 2019 ci sono due amiche di Milano, Silvia e Roberta, e quattro amici di Genova. Francesco, appunto, poi Ciro — che è il figlio del fondatore del M5S — Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Erano tutti a casa di Ciro, nel residence Pevero Golf Club di Porto Cervo. E sono tutti nell’inchiesta per violenza sessuale di gruppo: a danno di Silvia, che ha raccontato ai carabinieri di essere stata stuprata a più riprese e a turno, e a danno di Roberta che mentre dormiva ha subito atti sessuali di cui c’è traccia in un selfie trovato nei cellulari dei ragazzi.

La versione di Silvia. Ma — ammesso che tutta questa vicenda arrivi al rinvio a giudizio e quindi al processo — la partita, per i ragazzi, si giocherà sull’ipotesi del consenso di lei e sulle distinzioni delle responsabilità contestate. Esattamente quello a cui punta Corsiglia, che oggi si trova in Spagna, dove sta studiando. «Io dormivo, non ho partecipato a nessuno stupro di gruppo» giura con i suoi avvocati Romano Raimondo e Gennaro Velle. Racconta che Silvia «ci stava» quando ha avuto rapporti sessuali con lui e che dopo, sfinito, si è addormentato. Fine della nottata. Domanda: perché se lui non c’era la Procura gli contesta la violenza sessuale di gruppo? La risposta è nella denuncia della ragazza: perché lei ha detto che mentre la violentavano sentiva le voci di tutti.

Il video e le foto. Silvia ha fatto mettere a verbale che lei non era per nulla consenziente, né con Francesco (che l’ha costretta ai rapporti sessuali contro i quali lei ha provato inutilmente a resistere) e tantomeno con gli altri tre che — dice la sua denuncia — hanno approfittato di lei costringendola a bere vodka dopo una serata già parecchio alcolica. Nella parte in cui entra in scena la vodka e nel selfie a sfondo sessuale che i ragazzi scattano accanto a Roberta, Francesco non si vede. Non c’è nemmeno nel video di 24 secondi di cui parla Beppe Grillo quando dice che «si vede che si stanno divertendo», che «non c’è violenza».

Silvia: «Mi hanno stuprato tutti». E rispondendo alle domande degli inquirenti lo dicono anche i suoi amici: non c’era né quando hanno scattato il selfie né quando ciascuno di loro ha «fatto sesso» con Silvia (lei usa ben altra espressione: «Mi hanno stuprata tutti», dice). Quindi, Ciro, Vittorio ed Edoardo sono accusati sia dello stupro di gruppo sia degli abusi su Roberta che dormiva. Francesco è accusato soltanto dello stupro di gruppo ma non si vede nel famoso filmato e viene tirato in causa (come parte del gruppo) perché Silvia ha sentito anche la sua voce.

La serata al Billionaire. Naturalmente questo non esclude lo stupro, e infatti lei lo ha ripetuto più volte agli inquirenti: non ero consenziente con nessuno di loro. Tra l’altro, ragazzi conosciuti poche ore prima al Billionaire di Flavio Briatore. Nella discoteca Silvia e Roberta erano arrivate verso mezzanotte assieme a tre amici. Uno di quei tre amici ha incrociato una persona che conosceva il gruppo dei genovesi, e siccome un tavolo al Billionaire costava 600 euro (compresa una bottiglia di champagne e una seconda bottiglia di un alcolico) la proposta è stata mettersi tutti assieme allo stesso tavolo e dividere le spese. Così hanno fatto e alla fine a quel tavolo erano in quindici. Fine dei balli alle cinque del mattino. Taxi introvabile e allora Ciro Grillo e i suoi amici propongono: spaghettata da noi e poi vi riportiamo a casa al vostro bed & breakfast. Il resto è nella cronaca di questi giorni, è nelle carte di un’inchiesta di cui non è ancora depositata la richiesta di rinvio a giudizio ma che — scrive l’Ansa — ad alcuni fa già ipotizzare la possibilità di un rito abbreviato con un terzo di sconto dell’ipotetica pena.

La vodka, i rapporti, le lacrime. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2021. Ciro Grillo, Silvia e il racconto della notte: la vodka, i rapporti con i quattro e le lacrime il mattino dopo. L'inchiesta sul figlio di Beppe Grillo, Ciro, e i suoi amici. Le versioni contrastanti e le testimonianze. L'amico di Ciro: «Il video? Beppe non doveva farlo». «Ma alla fine con lei avete avuto un rapporto sessuale tutti e quattro?». «Sì esatto». Tutti e quattro. Tutti sconosciuti fino a poche ore primaEppure lei non soltanto «ci sta», per farla semplice. Ma beve un bel po’ di vodka sfidando i maschi che non riescono a farlo e poi — in pieno consenso — decide di avere un rapporto sessuale con tutti e quattro quei ragazzi. A più riprese e a turno. Dopodiché se ne pente, scrive messaggi alle sue amiche: «Ho sbagliato un’altra volta, ho fatto un’altra caz...». Ecco.

La ragazza: «Il giorno dopo non sembrava più la stessa». Cominciamo da questa ricostruzione dei fatti. L’ha raccontata esattamente così — prima in Procura e poi in tv — Vittorio Lauria, uno dei quattro ragazzi del caso Grillo. Nella sostanza ha descritto una ragazza dagli insaziabili desideri sessuali che fa a pugni con quella raccontata invece dai genitori, dagli amici e da chi la conosce: «Una persona serissima, studiosa, educata, senza eccessi», «una che in settimane di vacanze è uscita la prima volta proprio quella sera lì e che sembrava timorata di Dio», per dirla con le parole del gestore del bed & breakfast dove alloggiava. Una che il giorno dopo «non sembrava più la stessa, era triste, cambiata».

Il video di Beppe Grillo. Da qualunque parte la si guardi, questa storia è diventata una storia di sopravvivenza. Non sono previsti prigionieri, chi si salva butta a mare la controparte. Veleno. E l’avvelenatore dei pozzi, senza volerlo, è stato lui, Beppe Grillo, con quel video livoroso e drammatico che doveva essere la difesa di suo figlio Ciro e dei suoi tre amici. Sappiamo com’è andata a finire. Il ragazzo e gli altri — cioè Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta — sono da giorni sulla graticola come mai lo erano stati da quando hanno saputo di essere indagati, cioè ad agosto del 2019.

Lauria: «Il video di Beppe Grillo? Non andava fatto». Le implicazioni politiche hanno fatto il resto e il risultato è che perfino lo stesso Lauria (intervistato da «Non è l’Arena» di Massimo Giletti) a domanda risponde che no, quel video «non andava fatto», fa capire che difendendo suo figlio in quel modo Beppe ha inguaiato gli altri tre, perché «noi non siamo conosciuti e non sarebbe successo niente» senza la sua sfuriata. Parole per prendere in qualche modo le distanze da Ciro, l’amico diventato «ingombrante» in tutta questa storia. E Lauria non sarebbe il solo a prendere delle distanze: lo fa con gli altri tre amici, come riporta oggi La Stampa, anche Francesco Corsiglia, che ha spiegato agli inquirenti che lui ha avuto, sì, rapporti sessuali con Silvia, ma «erano consenzienti». Lui non avrebbe nulla a che fare — dice — con la violenza di gruppo, perché di quella lui non sa nulla. Se è successa, sono stati gli altri tre, mentre lui dormiva. Una versione che sarebbe confermata dal fatto che lui non compare nel famoso filmato di cui parla Grillo o nelle fotografie agli atti. Escluso il suo nome anche dal secondo dei capi di imputazione: quello che riguarda gli abusi sessuali su Roberta, una delle due ragazze presenti quella sera.

Il rinvio a giudizio. In mezzo a tutto questo c’è una Procura che sembra sottovuoto tanto è chiusa ermeticamente, ci sono gli avvocati degli indagati e delle parti civili ciascuno con qualche buon motivo per essere risentito di questo o di quel dettaglio pubblicato. E ci sono quasi due anni di indagini che dovrebbero diventare a breve una richiesta di rinvio a giudizio per i quattro ragazzi. Non sono pochi, due anni, specie se la chiusura dell’inchiesta è ormai di cinque mesi fa. Perché tanto tempo per decidere se chiedere o meno il rinvio a giudizio? La risposta arriva dagli avvocati degli inquisiti: sono state richieste proroghe; c’è voluto l’incarico a un consulente per trasferire sui dischetti le carte che chiedevano; sono slittati gli interrogatori dei ragazzi per impedimenti degli stessi legali, più i tempi delle notifiche e problemi personali del pm.

La ricostruzione dei fatti. Così siamo arrivati a oggi, a quello che è finora emerso della notte fra il 16 e il 17 luglio 2019 a Cala di Volpe, in costa Smeralda, nella casa di Grillo senior. Quella sera Silvia, italo-svedese, e la sua amica Roberta escono per andare al Billionaire, la discoteca di Briatore, dove arrivano poco prima di mezzanotte. Sono alloggiate in un b&b di Porto Pollo, Silvia ospita Roberta per l’ultima settimana di vacanza. Al Billionaire conoscono i quattro amici genovesi e alle cinque del mattino, siccome non trovano un taxi che le riporti al b&b, accettano l’invito dei ragazzi a una spaghettata a casa di Grillo junior con la promessa che poi le avrebbero riaccompagnate loro stessi.

Le presunte violenze. Spaghetti, chiacchiere, molto alcol — stando al racconto di Lauria più lei di loro — finché alle sei del mattino Roberta cade sfinita sul divano e si addormenta mentre Silvia va in una camera. Corsiglia l’accompagna, si infila sotto le lenzuola con lei e — dice il capo di imputazione — la violenta una prima volta approfittando della sua «minorata difesa» dovuta all’alcol.

L’alcol. Gianluigi Nuzzi, che ha ricostruito i fatti per «Quarto Grado», racconta degli altri tre che commentavano e ridevano. Nel suo verbale lei dice che riesce a fuggire in bagno, che Corsiglia la raggiunge e la violenta di nuovo. Inutile cercare di svegliare l’amica che non si accorge di nulla, Silvia spiega agli inquirenti che Grillo, Capitta e Lauria la costringono a bere vodka. Nessuna sfida, come invece rivela Lauria («è lei che l’ha presa, da sola e per sfida, l’ha bevuta tutta «gocciandola» perché noi non ci riuscivamo»).

Il consenso. Dopo la vodka la violenza degli altri tre, a turno. Così dice l’accusa. Quando Roberta si sveglia la trova in lacrime: «Mi hanno violentata tutti». «No, era consenziente» replicano loro. E qui torniamo al punto di partenza. Una ragazza che racconta di uno stupro e quattro ventenni che parlano di consenso.

UNO DEGLI AMICI SCARICA GRILLO JUNIOR "DURANTE IL SESSO DI GRUPPO DORMIVO". Tommaso Fregatti Matteo Indice per "la Stampa" il 27 aprile 2021. Si rompe il fronte degli amici di Ciro Grillo. E ora quella notte di follia del 17 luglio 2019 avvenuta nel residence di Porto Cervo in Sardegna di proprietà del fondatore del Movimento Cinque Stelle si fa un po' meno nebulosa. Da una parte Vittorio Lauria, uno degli indagati, che dopo oltre venti mesi di silenzi e no comment, interviene in tv su «La 7» e si dissocia dal videomessaggio di Beppe: «Ha sbagliato a parlare dei giorni trascorsi tra i fatti e la denuncia». Ma soprattutto, dettaglio mai emerso finora, dalle carte dell'inchiesta emerge una presa di posizione autonoma da parte d' uno dei quattro amici coinvolti. Si tratta di Francesco Corsiglia, 22 anni, oggi allievo in Svizzera in una scuola di perfezionamento alberghiero. Due settimane fa davanti al procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso ha raccontato la sua verità, diversa da quella riferita da Ciro e dagli altri. Ha ammesso, sì, d'essere stato pure lui presente quella notte, ma ha rimarcato di non aver nulla a che fare con la violenza di gruppo. «Dormivo», fatto mettere a verbale. Ha precisato d' aver avuto un rapporto sessuale con Silvia, la studentessa che li ha poi denunciati a Milano, ma «consenziente». Non solo. Corsiglia, viene confermato da ambienti investigativi, a corroborare le proprie dichiarazioni e lo smarcamento dal resto della compagnia, ha evidenziato d' essere l'unico che non compare nelle foto e nei video fondamentali secondo i pm nel provare lo stupro. In particolare, è assente da un selfie (trovato in uno dei telefoni cellulari sequestrati) in cui Ciro Grillo ha immortalato se stesso, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta (il quarto indagato) durante il rapporto con Silvia. Parimenti, Corsiglia nel corso dell'audizione ha ribadito di non essere presente nelle immagini pornografiche - pure queste rinvenute dagli investigatori - degli altri tre indagati con Roberta, amica di Silvia che era in un'altra stanza intontita dall' alcol: una di quelle foto ha fatto scattare una seconda contestazione di violenza sessuale nei confronti di Grillo, Lauria e Capitta, ma effettivamente non di Corsiglia. Le dichiarazioni rilasciate ai pubblici ministeri dopo la conclusione dell'indagine preliminare non aiutano evidentemente Ciro, che si ritrova per certi aspetti più isolato dopo le parole offerte agli inquirenti appunto da Corsiglia, e alla televisione da Lauria (il più vicino a Ciro Grillo resta al momento Edoardo Capitta, l'unico che nel giorno dell'exploit di Beppe ha postato l'immagine di un applauso sotto l'hashtag dell'amico «free ciruz»).  Lauria invece, intervenuto a «Non è l'Arena» condotta da Massimo Giletti, era stato netto su più aspetti: «Il video di Beppe non andava fatto, non se ne parlava più se fossimo stati io e gli altri due miei amici, sconosciuti, non sarebbe successo niente». Lauria ha comunque sostenuto che Silvia «era consenziente e ha bevuto da sola la vodka, per sfida non era tanta», collocando questo momento in una fase successiva al rapporto tra Corsiglia e Silvia. Queste ricostruzioni contrastano duramente con quanto riferito sempre da Silvia ai pm: la ragazza, all' amica e poi agli investigatori, ha raccontato d' essere stata «violentata da tutti» e di essere stata costretta a bere dopo che l'avevano presa per i capelli.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per "la Verità" il 26 aprile 2021. Hanno studiato insieme al Collegio Emiliani diretto dai padri somaschi. Uno splendido istituto a picco sul mare, forse la scuola con la vista più bella di Genova. È in questo posto da fiaba che si sono conosciuti i presunti quattro stupratori di Arzachena: Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Dopo la folle notte tra il 16 e 17 luglio 2019 in cui avrebbero violentato la coetanea S.J. e abusato anche dell'amica R.M., si erano convinti che il processo sarebbe andato avanti a luci spente, come stava accadendo da due anni. Ma ad attirare l'attenzione di tutti i media ci ha pensato Beppe Grillo con il video choc in cui assolve il figlio e gli amici e attacca la presunta vittima, a suo giudizio consenziente, accusandola di non aver denunciato subito la violenza, ma di avere atteso otto giorni. E se Ciro ha pubblicato sul proprio profilo Instagram il filmato del padre, gli altri ragazzi e i rispettivi avvocati non devono aver accolto l'iniziativa con lo stesso entusiasmo. Come conferma l'audio di uno di loro, trasmesso ieri sera in esclusiva nella trasmissione Non è l'Arena di Massimo Giletti. È stata la prima volta che uno dei quattro indagati per violenza sessuale di gruppo è stato sentito in uno studio televisivo. Ieri abbiamo bussato alle loro porte e, con noi, Lauria ha confermato di aver pronunciato le frasi trasmesse in tv. Nel video esordisce così: «Sto bene, è un po' dura. Speriamo che si risolva». L' intervistatore, facendo riferimento al video di Grillo, gli parla di «danno clamoroso» e il giovane rimarca l'aggettivo «clamoroso», aggiungendo che «ogni cosa che viene detta a nostro nome, comunque cade su quello». Insomma peggiora la situazione, anche perché a suo dire viene raccontato «tutt' altro di quel che è successo». Il suo giudizio è netto: «Secondo me non andava fatto. Non se ne parlava più e ora è riuscito tutto perché ha fatto (Grillo, ndr) sta roba qua. Perché se fossimo stati io e gli altri miei due amici non conosciuti non sarebbe successo niente». Ma perché l'ex comico ha deciso di farsi un autogol del genere? «Secondo me, nel video, lui voleva specificare come siamo fatti noi, che siamo più dei coglioni, perché comunque le cose bisognava dirle [] ha detto quello che è successo». Ma nel suo sfogo, Grillo avrebbe fatto una clamorosa topica: «La cosa che ha detto Beppe del video, la cosa degli otto giorni secondo me non ci stava dirlo []. Dire una roba del genere comunque, davanti poi chissà quanta gente ha visto ormai quel video lì contro una donna, non è giusto perché non c' entra tanto quanto ha aspettato, ma la cosa è che l'ha fatto proprio senza senso». Quindi persino un ragazzo di 20 anni capisce che aspettare otto giorni per denunciare una violenza non significa che quell' abuso non ci sia stato. E infatti il legislatore ha concesso alle vittime 12 mesi per presentarsi all' autorità giudiziaria, essendo note le difficoltà per una donna violata di denunciare il proprio aguzzino e affrontare un processo su questioni tanto intime. Ma in tv Lauria ha anche raccontato la sua personalissima versione della serata e ha provato a descrivere il contenuto del video del presunto stupro finito agli atti: «Si vede proprio la ragazza che comunque sta, uno, benissimo e, due, che comunque noi non costringiamo niente». Secondo l'accusa la ragazza sarebbe stata «costretta» a bere vodka. Lauria non ci sta: «Invece è proprio lei che l'ha presa da sola e per sfida [] l'ha bevuta tutta, "gocciandola", ma non era tanta, era un quarto di vodka [] lei per sfida ha detto "dai che ce la faccio" e se l'è bevuta. E poi è andata a dire che io l'ho presa per la gola, ho fatto». L' indagato conferma che lui e i suoi amici hanno avuto un rapporto sessuale con S.J., ma per lui si era trattato di sesso consensuale. Allora perché la studentessa milanese ha dato una versione opposta alla loro, accettando di affrontare l'incubo di un processo per stupro? La risposta di Lauria lascia esterrefatti: «Si è pentita. Perché ci sono anche i messaggi suoi dove dice: "Ho sbagliato un'altra volta"; "ho fatto un'altra cazzata"». Frasi che, però, non avrebbe detto a loro, ma a delle amiche. La versione dei quattro genovesi e delle due milanesi conosciute in Sardegna collima su un punto: dopo quell' alba di sesso i due gruppi non si sarebbero più incontrati. «Noi non l'abbiamo più rivista, ma non perché [] il giorno dopo cioè lei ha fatto le sue cose. Ma perché il giorno dopo? Dopo una cosa che lei ha descritto in tal modo, non penso sia così semplice andare in spiaggia, andare a fare kyte (surf, ndr), andare a fare un'altra serata in discoteca». Qui Lauria, pur avendo criticato il video, sembra aver assorbito gli stessi concetti retrogradi di Grillo senior. Quindi puntualizza una ipotetica contraddizione della ragazza, la quale dopo il primo presunto stupro sarebbe andata a comprare le sigarette con loro dal tabacchino: «Lei aveva detto che non c'era, invece, poi abbiamo trovato una foto e lei era in macchina con noi che siamo andati a prendere le sigarette in un posto vicino a un locale []. Mi ricordo che lei aveva detto di non essere venuta e invece c'era una foto che è là con noi». Ieri, come detto, abbiamo suonato al campanello di casa Lauria. La famiglia vive nell' elegante quartiere di Albaro, in una palazzina di quattro piani, affacciata su un viale alberato. L' appartamento dei Lauria è al piano ammezzato. Ci apre proprio Vittorio: indossa slippini bianchi e una felpa scura. Sulla gamba destra notiamo dei tatuaggi. Ha il tono pacato e gentile. Quando gli scappa il gatto, lo insegue per le scale. Poi ritorna da noi. Ci spiega: «Non posso assolutamente parlare». Ma resta sulla soglia, quasi desideroso di dire la sua. «I rapporti con Ciro? Con lui siamo amici da sempre». Sul video si mostra cauto: «Se era meglio non farlo? Non lo so, si vedrà []. Non dovete mica chiederlo a me, non l'ho fatto io». Vittorio, ex studente del liceo scientifico all'istituto Emiliani, sta recuperando un paio d' anni a Napoli; è fidanzato e si ritiene un bravo ragazzo. A questo punto gli spariamo secca la domanda: ti senti uno stupratore? «No, non lo sono», ribatte, prima di chiudere la porta dietro di sé.

Giacomo Amadori per La Verità il 28 aprile 2021. A Genova, da Levante a Ponente, non si fa che parlare del famoso video di una ventina di secondi citato da Beppe Grillo nella sua sbroccata di una settimana fa. In realtà l'ex comico, quando parla di «quattro coglioni che saltellano con il pisello di fuori», fa riferimento a foto e immagini che ritraggono solo tre dei quattro ragazzi accusati di violenza sessuale di gruppo: Edoardo Capitta, Ciro Grillo e Vittorio Lauria. Il loro compagno di bisboccia, Francesco Corsiglia, in realtà, a quel punto era già addormentato, come avevamo scritto nel settembre del 2019. Questo non significa che ci siano crepe nel pool difensivo come ribadiscono i legali all'unisono. Anche perché nell'avviso di chiusura delle indagini Corsiglia è sì accusato di aver violentato la giovane italo-norvegese S.J. da solo e non di avere abusato, a differenza degli amici, di R.M., l'amica di S.J. in quel momento dormiente, ma risponde anche lui di stupro di gruppo, perché, secondo i magistrati (sulla scorta delle dichiarazioni di S.J.) al suo rapporto sessuale avrebbero assistito anche gli amici che «ostruivano il passaggio» alla ragazza, impedendole la fuga, e «commentavano fra loro» un secondo rapporto dentro al box doccia tra Corsiglia e S.J..Per gli inquirenti di Tempio Pausania tutto questo sarebbe avvenuto in modo violento: Corsiglia l'avrebbe afferrata per i capelli, costretta a un rapporto orale, prima di strapparle con forza la biancheria intima. Di questa fase, però, non ci sarebbero né foto, né video. C'è, invece, il filmato di poco più di venti secondi, in cui il presunto branco si avventa sulla preda e la possiede standole a cavalcioni. Anche contemporaneamente. «1 vs 3» scrive Capitta a un amico per vantarsi di quell'amplesso di gruppo. Una pratica, quella della gang bang, assai gettonata sui siti porno. Gli avvocati degli indagati puntano sul fatto che la ragazza in quel video non appaia passiva, ma che, come scritto nell'avviso di chiusura indagini, pratichi anche un rapporto orale e con una mano masturbi il giovane che in quel momento sta girando il video. La scena è scabrosa, ma sarà sezionata nell'aula dove le difese, le parti civili e i pm dovranno convincere un giudice delle loro tesi contrapposte. Certo l'immagine di due maschi addosso a un'esile e longilinea ventenne e un altro che si fa dare piacere rimanendo di lato non può lasciare indifferenti, ed è difficile arrendersi all'idea che questo assalto famelico a un corpo femminile, oppresso e invaso da quelli virili, possa essere diventata la normalità tra i ragazzi. Eppure sembra volerci far credere questo un'amica di Ciro Grillo, coetanea della presunta vittima, che nella trasmissione Non è l'Arena ha detto di aver visto il video e che la ragazza «stava al gioco», era «complice lì in mezzo a ragazzi seminudi». Concetto accentuato in un altro passaggio: «Complicità massima nel video sono in quattro tutti insieme e basta anche delle mie amiche hanno fatto queste cose [] non è una cosa così assurda []». La Procura, dopo mesi di valutazione di quel video, passato al vaglio frame per frame, ha deciso, però, di contestare la violenza di gruppo. Evidentemente, anche se le immagini non sono così chiare (altrimenti, immaginiamo, sarebbe scattato l'arresto), per i magistrati quella ragazza che amoreggiava con tre coetanei non era in sé. Lo avrebbero certificato anche le psicologhe del Soccorso violenza sessuale e domestica, il centro antiviolenza della clinica Mangiagalli di Milano, dove è stata dirottata la ventenne dopo aver presentato denuncia davanti ai carabinieri.  Lì è stata visitata, ma, a otto giorni dagli amplessi, era difficile trovare segni di violenza: per questo non ci sarebbero stati referti medici, né prognosi, ma solo una valutazione di tipo psicologico. Tanto che nell'avviso di chiusura delle indagini non si parla di lesioni, né si fa riferimento a documentazione clinica. A inizio marzo le difese hanno incaricato Marco Salvi, sessantenne medico legale coinvolto nei principali casi liguri di cronaca nera, di provare a far luce in questa scivolosa vicenda: «Qui mi sembra di capire che nessuno neghi un incontro sessuale: c'è da stabilire quanto fosse valido il consenso di questa donna». Per il consulente, la giovane, nel video, «non sembra confusa», ma poi ammette: «Per paura si può sottostare a qualunque situazione. Qui, però, c'è più di un elemento che mi lascia perplesso. Ha accettato il rapporto per timore del branco? Qui, però, a mio giudizio, di violenza non ce n'è. A questo punto ci deve essere un vizio di consenso, per esserci vizio di consenso ci deve essere uno stato di alterazione che andrà valutato». Il suo sarà un lavoro sulle carte. Con a disposizione gli atti dell'indagine, la documentazione e le testimonianze, dovrà cercare di capire, dal punto di vista medico legale, le condizioni psicofisiche della presunta vittima al momento del fatto: «Bisognerà stabilire quanto abbia bevuto e in che modo abbia influito sulle sue capacità, occorrerà analizzare se fosse incapace e si possa parlare di minorata difesa» ha detto Salvi. Che ha aggiunto: «Però, ove si riuscisse a stabilire il tasso alcolemico della ragazza e a confrontarlo con la sua corporatura, potrebbe essere comunque un dato non decisivo. Vediamo arrivare da noi gente che guidava con un tasso di alcolemia di 2,5; e gente che con 2,5 dorme tutta la notte. Sarebbe stato meglio se fosse stato tutto tenuto su un basso profilo. È ovvio che ci troviamo di fronte a un processo politico/mediatico, non certo forense». Per Salvi è «troppo presto» per parlare di tempi per il deposito della sua consulenza. Nel fascicolo ci sono, a carico degli indagati, anche numerose foto in cui si vedono Capitta, Grillo e Lauria «con il pisello di fuori», per dirla con il fondatore del Movimento 5 stelle. Sono state tutte scattate nella stessa stanza, quella in cui R.M. stava dormendo. «Una brutta goliardata», la definisce un difensore. Un altro legale fa presente che «se uno vuol fare violenza mette le mani da qualche parte, tira giù i pantaloni o solleva su la maglietta». E di questo non c'è nessuna evidenza. In un'immagine un giovanotto, individuato dai magistrati in Ciro Grillo (anche se alcuni difensori non concordano), con la maglietta scura, avrebbe avvicinato il proprio organo genitale alla testa della ragazza. Forse, addirittura, ve lo avrebbe appoggiato. È questa l'immagine più compromettente di quell'album imbarazzante.

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per "la Verità" il 29 aprile 2021. Schiaffi su natiche e schiena, frammenti di video hot che passerebbero di mano in mano, un'ulteriore violenza subita in Norvegia. S. J., la ragazza che ha denunciato Ciro Grillo e altri tre amici, accusandoli di averla stuprata, avrebbe subito questi ulteriori abusi, denunciati dal suo legale Giulia Bongiorno e contenuti nelle carte. Partiamo dalla nuova clamorosa notizia di una violenza, così come emerge in tre diversi verbali di testimonianza. La ragazza e sua mamma, C.S., nell'estate del 2019 si recano dai carabinieri per denunciare lo stupro che S. avrebbe subito all'alba del 17 luglio a casa di Ciro Grillo ad Arzachena. Ai militari le due donne non dicono di quanto accaduto nel Paese d'origine del padre della giovane italo-norvegese. S. riferisce, però, di aver raccontato la violenza subita in Sardegna a un'amica milanese. Per questo i pm, nell' autunno del 2019, convocano la testimone per chiedere conferma di quanto sostento da S. e in particolare notizie sul presunto stupro avvenuto ad Arzachena. Il verbale inizia con la giovane che spiega di essere amica di S. al punto da aver ricevuto la confidenza di una violenza. Ma, un po' a sorpresa, cita quella avvenuta in Norvegia e di cui i magistrati in quel momento non sapevano nulla. «S. me l'ha riferita senza entrare nei particolari» confida la giovane. A febbraio, dopo il deposito della perizia del consulente dei pm sugli apparati elettronici degli indagati, viene convocata S., la quale conferma la scabrosa vicenda e descrive più dettagliatamente quanto successo. Racconta che, mentre dormiva in tenda, si sarebbe svegliata all'improvviso perché l'amico con cui era in vacanza la stava penetrando. Passano cinque mesi, e a fine lockdown viene convocata l'altra presunta vittima del festino sardo a casa di Grillo, R.M.. R. a precisa domanda riferisce quanto aveva appreso da S. al suo ritorno dalla vacanza scandinava: «L'episodio riguardava quando si trovava in Norvegia in campeggio e la violenza sarebbe stata commessa da un suo amico mentre dormiva. S. non denunciò l'episodio alle autorità». Intanto a Tempio Pausania si starebbe aggravando la posizione di alcuni indagati. Nonostante l'inchiesta sia stata chiusa a novembre 2020, proprio i nuovi dettagli impressi nei verbali degli indagati sembra che abbiano portato la Procura di Tempio Pausania a ridefinire i capi d'imputazione. In particolare i pm starebbero modificando il secondo, quello contestato a Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, che fa riferimento a una serie di foto o frame di video realizzati tutti nella stessa stanza, in cui si vedono a tratti due, a tratti tre ragazzi (in alcune foto, sfocate, non si distingue il volto dei giovani coinvolti), con i genitali scoperti, in un caso appoggiati sul capo dormiente della seconda presunta vittima, R. M.. A giudizio di alcune fonti verrà presto depositato in cancelleria un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari. Per altri, invece, questa ipotesi sarebbe di difficile applicazione. Negli atti, come ha riferito l'Adnkronos, gli inquirenti parlerebbero anche di «schiaffi sulla schiena e sulle natiche» di S..Un altro duro colpo per i familiari della ragazza che ha denunciato: «Abbiamo appreso che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo. Qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave». I frame potrebbero far parte del video ricostruito ieri dalla Verità in cui si vedono Grillo junior, Capitta e Lauria mentre hanno un rapporto sessuale di gruppo con S..I suoi genitori, attraverso l'avvocato Bongiorno, hanno fatto sapere anche che «non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia, aggiungendo dolore al dolore: il nostro e il suo. D'altro canto, sarebbe fin troppo facile smentirle sulla base di numerosi atti processuali che sconfessano certe arbitrarie ricostruzioni e che, per ovvie ragioni, non possono essere resi pubblici. Confidiamo nel fatto che tutto questo fango sarà spazzato via facendo emergere la verità». E infine hanno aggiunto di aver conferito mandato al loro legale «di agire in sede giudiziaria contro tutti coloro che a qualsiasi titolo partecipano e parteciperanno a questo deplorevole tiro al bersaglio». Il clima giudiziario e politico su questa vicenda si sta davvero surriscaldando. Da parte loro le difese hanno deciso di ingaggiare un medico legale, Marco Salvi, per provare a valutare il tasso alcolemico della ragazza al momento dei presunti abusi. Una decisione presa quasi alla chiusura delle indagini. Ma perché gli avvocati e le famiglie dei ragazzi hanno deciso di muoversi con tanto ritardo? Per provare a capirlo bisogna riavvolgere il nastro dei ricordi di quasi due anni. Il 26 luglio 2019 S. sporge denuncia contro i suoi presunti stupratori. Il 29 agosto il procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso fa sequestrare i cellulari degli indagati. Il 5 settembre 2019 gli avvocati portano Ciro & C. in Sardegna a rendere interrogatorio al buio. Infatti le parti in quel momento non conoscono nessun atto del procedimento. Perché i giovani hanno accettato di farsi sentire anziché avvalersi della facoltà di non rispondere? Si sentivano allora come oggi innocenti? O forse qualcuno gli aveva promesso un'indagine senza troppi scossoni? Del resto, i magistrati, non solamente non ne avevano chiesto l'arresto, ma, a loro volta, avevano convocato gli indagati senza aver visionato il contenuto dei cellulari. Infatti la Procura aveva fissato per il 24 settembre l'inizio delle operazioni tecniche, decisione che aveva lasciato perplessi gli investigatori. Dunque il 5 settembre, nel giorno del giuramento del secondo governo Conte, accusa e difesa si erano affrontate mostrando grande fiducia l'una nell' altra. La perizia del consulente è stata consegnata a fine gennaio 2020 con un po' di ritardo sulla tabella di marcia. Poi è scoppiato il Covid e il processo si è quasi inabissato per dieci mesi. Solo a novembre è arrivato, infatti, l'avviso di chiusura delle indagini, quando al governo c'era ancora Conte e Guardasigilli era ancora Alfonso Bonafede. Anche in questo caso gli avvocati non hanno ritenuto di cambiare atteggiamento. Nelle more del deposito degli atti, complicato da problemi tecnici, c'è stato il cambio di governo (premier Mario Draghi) e di ministro della Giustizia (Marta Cartabia). Solo a questo punto i legali, dopo aver preso visione di tutto il materiale probatorio, hanno deciso, come detto, di affidarsi a un consulente per verificare il reale stato fisico della presunta vittima al momento dei rapporti sessuali con i ragazzi. Quindi hanno tentato la carta disperata di un secondo interrogatorio. Infine Beppe Grillo è sbottato nell' ormai celebre video. Che cosa è cambiato dal settembre 2019 a oggi, oltre al Guardasigilli e al presidente del Consiglio, da consigliare un così radicale cambio di linea? Gli avvocati non sapevano quale fosse il contenuto dei cellulari? L'ex pm Luca Palamara, esperto di questioni politiche legate alla giustizia, attento osservatore di questo procedimento e in rapporti con Capasso («Ho sostenuto la sua nomina, come ho fatto per tanti altri magistrati presenti nelle mie chat»), attraverso La Verità, manda un messaggio a Grillo: «È chiaro che una politica giudiziaria incentrata sul giustizialismo e meno attenta ai diritti della difesa possa mostrare improvvisamente i suoi limiti».

Ciro Grillo, "schiaffi sulla schiena e sulle natiche della ragazza" vittima dello stupro. Giuseppe Filetto su La Repubblica il 28 aprile 2021. Si aggravano le accuse per alcuni indagati, tempi più lunghi per l'inchiesta. Emergono nuovi particolari dall'inchiesta per stupro a carico di Ciro Grillo, il figlio del Garante dei 5Stelle, e di altri tre suoi amici. Negli atti in mano alla Procura di Tempio Pausania gli investigatori avrebbero verbalizzato anche gli "schiaffi sulla schiena e sulle natiche" di Silvia (nome di fantasia), la ragazza che poi ha denunciato tutto ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano, al suo ritorno dalla Sardegna, una settimana dopo il presunto stupro di gruppo nella villa Beppe Grillo, a Porto Cervo, il 17 luglio del 2019. La giovane, con la mamma, otto giorni dopo si era presentata alla clinica Mangiagalli di Milano per farsi visitare, poi ha denunciato i quattro giovani della Genova bene: oltre Ciro Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. ll fascicolo, alla luce dei racconti che gli indagati hanno fornito il 15 aprile scorso al procuratore capo Gregorio Capasso e al sostituto Laura Bassani, si è arricchito di nuove informazioni, tra cui il video di cui parla Beppe Grillo nel su intervento diventato virale in cui dice che il figlio Ciro e gli altri ragazzi "non sono stupratori ma sono quattro co...i", e che "è strano che la ragazza abbia presentato la denuncia solo dopo otto giorni". Secondo quanto trapela da fonti giudiziarie della cittadina gallurese, il quadro indiziario sarebbe cambiato. Per alcuni in peggio, per qualcuno in meglio. Certo è che la Procura si è presa ancora un mese di tempo. Entro tale termine sarà depositato in cancelleria un nuovo avviso conclusione indagini preliminari (il 415 bis), un secondo avviso di garanzia. Poi gli avvocati avranno 20 giorni per (ri)chiedere ulteriori interrogatori o depositare nuove memorie difensive. Non ci si aspetta in tempi brevi alcuna richiesta di processo da parte della procura, né di archiviazione. E per il pronunciamento del giudice per l’udienza preliminare se ne parlerà in estate. La frenata giudiziaria si sarebbe resa necessaria appunto il 15 aprile scorso, dopo le dichiarazioni rese ai magistrati dai quattro. In particolare, Corsiglia (figlio di un noto cardiologo) assistito dal suo avvocato, avrebbe ribadito che intorno alle 6 del mattino del 17 luglio 2019 avrebbe avuto «un rapporto sessuale consenziente» con Silvia, la italo-svedese. Prima che questa bevesse una bottiglia di vodka: «Senza costrizione, ma per sfida, per dimostrare che era in grado di reggere l’alcol», ha dichiarato Lauria. Il sesso di gruppo sarebbe avvenuto dopo le 9 del mattino, con la ragazza ubriaca. E per stabilire quanto fosse in stato di ebrezza o invece capace di intendere e di volere, Beppe Grillo ha ingaggiato un medico legale, Marco Salvi. Inoltre, avrebbe chiesto «un’indagine conoscitiva sulla vita della ragazza». E Corsiglia non avrebbe partecipato allo stupro di gruppo: «Dopo aver fatto sesso, sono andato a dormire», ha precisato ai pm. L’altro capo di imputazione è la violenza sessuale ai danni di Roberta: Ciro, Capitta e Lauria si sono immortalati mentre la oltraggiavano quando dormiva. Quella foto è stata mostrata ad altri amici.

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi per la Repubblica il 28 aprile 2021. Nella stanza di Silvia ci sono: un letto matrimoniale alla francese - dove dormivano lei e Roberta (i nomi sono di fantasia) - un altro letto singolo, un armadio bianco a due ante e un mobiletto con sopra la tv e alcuni libri. […] Una delle due bici. Silvia, alle quattro del pomeriggio del 17 luglio 2019, la prende per andare nella farmacia del paese a comprare la pillola del giorno dopo. «In due anni ho visto passare centinaia di clienti, ma quell' immagine ce l'ho stampata negli occhi: quando sono rientrate Silvia e Roberta avevano in mano le scarpe col tacco, la faccia stravolta […]», dice Daniele Ambrosiani. Quarantacinque anni, […] titolare di B&b più intervistato d'Italia. […] Sedici e 17 luglio 2019 ingranditi a ritroso. Adesso. Ripercorriamo la mappa, i posti, le persone di quei due giorni di inferno […] Il paradiso dei surfisti a due passi dal B&b. E a due passi è anche la farmacia Nicolai […]Stando al racconto che Silvia ha fatto ai magistrati, la pillola del giorno dopo è il passaggio che la ragazza fa quando si riprende dopo la notte delle presunte violenze sessuali di gruppo a casa Grillo. […] Casa Grillo. Al Pevero Golf Club di Cala di Volpe, in questi giorni, è calata un'omertà tipo Piana di Gioia Tauro. Tentativi di depistaggio («no, non è qua la casa!)», pareti di gomma («che cosa è successo?»). Eccola, la casa. Nel complesso esclusivo del golf di Porto Cervo bisogna scendere giù, dopo le ville, dopo la clubhouse. Il teatro del festino organizzato da Ciro Grillo e dai suoi tre compagni […] è quella terrazza con affaccio sul campo da golf. […] Erano arrivati qui tutti belli su di giri dal Billionaire alle 5 del mattino: Ciro, Francesco, Vittorio, Edoardo, e Silvia e Roberta. Il resto è storia da aula giudiziaria. […]

Ciro Grillo, "la ragazza presa a schiaffi". Ma quel video di 20 secondi potrebbe aiutare gli accusati: ecco cosa si vede. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Ora spuntano nuovi particolari sul video, perno - pare - dell'impianto accusatorio. Poco più di venti secondi in stile porno casareccio tra immagini sghembe, risate sguaiate e sesso torrido a quattro. In cui affiorano dubbi sulla correità dello strupro di gruppo e si mescolano a quelli sulla reale natura del rapporto, se non consenziente, «non del tutto passivo», parte di una "normale" gang-bang (in italiano, orgia) tra gente adulta e vaccinata. Mah. Nella storiaccia di sesso e ferocia (etica, mediatica, politica, finanche giudiziaria) raccontata sul caso di Ciro Grillo e dei suoi tre amici accusati di essersi accaniti sul corpo della ragazza italo norvegese, adesso emergono nuovi fotogrammi e particolari del filmino girato la notte della presunta violenza. Il cui contenuto comprenderebbe l'orgia suddetta in cui Ciro Grillo, figlio di Beppe, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, tre dei «quattro coglioni col pisello di fuori» si spalmano su Silvia. E le si avvinghiano addosso mentre lei pratica un rapporto orale a uno dei ragazzi e uno manuale contemporaneamente proprio al giovane che gira il video. Laddove l'impressione sarebbe di «complicità massima», specie a detta di un'amica di Ciro Grillo; la quale amica, dopo aver visionato le immagini, ospite in tv da Massimo Giletti, si è sentita in dovere di commentare. Altri, come il medico legale Marco Salvi, incaricato dalle parti della perizia, affermano invece che se costretti «si può sottostare a qualsiasi condizione»; e si chiedono se «Silvia ha accettato il rapporto per paura del branco?»; e indagano l'elemento processuale del "vizio di consenso" dovuto probabilmente all'idea che la ragazza fosse strafatta di Vodka.

TRISTE E BRUTALE. Comunque sia, il video, oltre che brutale, è di una tristezza infinita. E, ovviamente ha prodotto l'altra notizia della giornata, nell'attesa della richiesta di un rinvio a giudizio degli indagati data per certa ma che ancora tarda ad arrivare, con la difesa che punterebbe, nel caso, al rito abbreviato. Ma l'altra notizia - si diceva - è la reazione che proprio la divulgazione del suddetto video ha suscitato nei genitori di Silvia. I quali, esasperati, sfogano la loro rabbia in un comunicato affidato al loro legale, Giulia Bongiorno, dopo giorni e giorni di silenzio e dopo aver letto e sentito ogni genere di narrazione sul conto della ragazza. «Non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia, aggiungendo dolore al dolore». Ora, per rimanere freddi, la situazione s'ingarbuglia ancora di più. È una matassa oscena di fatti, atti e testimonianze la cui interpretazione ognuna delle parti in causa - difesa, accusa, parti civili - dovrà presentare dinnanzi al giudice. Ci sono i segni della violenza sulla schiena della ragazza ma anche l'accenno a "preservativi da comprare" (o pillola del giorno dopo che sia); ci sono la violenta presa per i capelli e lo strappo della biancheria intima e l'orgia a beneficio della telecamera; c'è la denuncia dopo otto giorni ma pure il diritto di avere il tempo psicologico e giuridico per elaborare l'abuso del corpo e l'orrore della violenza. Ed emergono, via via che il caso si dipana, le descrizioni ora della vittima di una gang di violentatori animaleschi; ora il ritratto di una ragazza dagli insaziabili desideri sessuali che contrasta con quello dipinto invece dai genitori, dagli amici e da chi Silvia la conosce bene.

ELEMENTI DEL DRAMMA. «Una persona serissima, studiosa, educata, senza eccessi», «una che in settimane di vacanze è uscita la prima volta proprio quella sera lì e che sembrava timorata di Dio», per dirla con le frasi del gestore del bed & breakfast dove Silvia alloggiava. Una che il giorno dopo «non sembrava più la stessa persona, era triste, cambiata». Tutti gli elementi del dramma qui si mescolano. E sfociano, alla fine, nell'invettiva rabbiosa di Grillo che - come ha scritto Filippo Facci su queste colonne - rendendo al caso dimensione nazionale «ha eliminato ogni possibile sfumatura rispetto a comportamenti che di sfumature possono averne. Non è che esista solo lo stupro brutale o il più assoluto consenso». Insomma, questa faccenda è talmente incasinata, è talmente una pericolante camminata sulle uova del giudizio e del pregiudizio che perfino i magistrati hanno deciso di prendere tempo.

Estratto dell'articolo di Giu.Sca per "il Messaggero" il 29 aprile 2021. Sull' inchiesta che coinvolge il figlio di Beppe Grillo, Ciro Grillo e suoi 3 amici accusati di aver violentato una 19enne, il 17 luglio del 2019 a Porto Cervo in Sardegna, nella villa del fondatore dei 5Stelle, interviene anche il Garante della Privacy. L'intervento dell'Authority non riguarda l'indagine della procura di Tempio Pausania, ma il video, agli atti dell'inchiesta, che documenterebbe lo stupro. Un filmato che rischierebbe di divenire virale e arrecare altri danni alla 19enne, giovane vittima. Frammenti di riprese che «girano tra amici come un trofeo» e che hanno portato la famiglia della studentessa di Milano a rompere il silenzio. […] «Abbiamo appreso - hanno scritto i genitori della ragazza - che frammenti di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto. Confidiamo nel fatto che tutto questo fango sarà spazzato via facendo emergere la verità. Abbiamo dato mandato al nostro legale di agire in sede giudiziaria contro tutti coloro che a qualsiasi titolo partecipano a questo deplorevole tiro al bersaglio». Il Garante ha così ricordato «che chiunque diffonda tali immagini compie un illecito, suscettibile di integrare gli estremi di un reato […] […] Gli investigatori, subito dopo la denuncia della ragazza, sentono decine di testimoni. Tra questi anche l'istruttrice con cui la presunta vittima fece lezione il pomeriggio del 17 luglio, il giorno stesso del presunto stupro. L'istruttrice sostituiva il collega con il quale si era allenata nei giorni precedenti. «Mi è sembrata vivace ed estroversa», ha detto agli inquirenti. «Quando ci siamo presentate - si legge nei verbali - mi è apparsa come una ragazza solare, vivace, estroversa. Quando è terminata la lezione era molto felice e soddisfatta della sua performance sportiva». L'istruttrice è stata sentita dagli investigatori subito dopo la denuncia della giovane, così come sono stati ascoltati tanti altri che però hanno raccontato di un cambiamento di umore nella diciannovenne. L'insegnante ha anche escluso che la ragazza fosse sotto effetto di alcol. «Se avessi avuto la sensazione» di una persona poco lucida «non le avrei fatto fare la lezione, non sarebbe stato sicuro». […]

Estratto dell'articolo di Niccolò Zancan per "la Stampa" il 29 aprile 2021. […] I genitori della ragazza che ha denunciato di essere stata stuprata all' alba del 17 luglio 2019 in Costa Smeralda dal figlio del fondatore del Movimento 5Stelle Ciro Grillo e dai suoi amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria per la prima volta hanno deciso di parlare. […] «Non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia, aggiungendo dolore al dolore: il nostro e il suo. D' altro canto, sarebbe fin troppo facile smentirle sulla base di numerosi atti processuali che sconfessano certe arbitrarie ricostruzioni e che, per ovvie ragioni, non possono essere resi pubblici. Abbiamo appreso, inoltre, che frammenti - frammenti! - di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave». […] Ora si aggiungono altri particolari contenuti nelle carte dell'inchiesta: «Schiaffi sulla schiena e sulle natiche». Così come sono agli atti certe frasi pubblicate da Ciro Grillo molto prima di quella notte, quando sul suo profilo Instagram aveva scritto in tutt' altro contesto: «Ti stupro bella bambina attenta». […] Ieri nella villa di Sant' Ilario, a Genova, sono venuti a pranzo quattro amici. I giardinieri pulivano il parco. Nessuno aveva più voglia di commentare. «Non rilascio dichiarazioni» ripetevano tutti. […]

Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. Hanno provato a tenere un profilo basso, a scomparire dai radar. Ma «non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia», hanno fatto sapere ieri la madre e il padre di Silvia. […] «Abbiamo appreso che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave». […] Condivisi fra chi? Probabile che il riferimento sia a una ragazza che conosce gli indagati e che (intervistata da «Non è l'Arena») ha detto, in sostanza, che «sì, nel video si vede che lei è consenziente». Domanda: e tu come lo sai? Risposta: «L'ho visto». Il che sarebbe un reato oltre che una violazione amministrativa sulla privacy, poiché «chiunque diffonda tali immagini compie un illecito», come ricorda proprio il Garante della privacy. […]

Caso Ciro Grillo, i genitori della presunta vittima: "Condiviso video col corpo di nostra figlia come un trofeo”.  Le Iene News il 28 aprile 2021. I genitori della ragazza che ha denunciato il figlio di Beppe Grillo e tre amici per violenza sessuale scrivono una lettera: “Si continuano a scrivere e a dire falsità sul conto di nostra figlia aggiungendo dolore al dolore”. Noi de Le Iene vi abbiamo appena raccontato in onda le polemiche politiche seguite a un video in cui il fondatore del Movimento 5 stelle difende il figlio. Roberta Rei e Marco Occhipinti hanno chiesto un parere a Rocco Casalino, che si è smarcato dalle sue parole.

Falsità su nostra figlia”: rompono il silenzio i genitori della ragazza 19enne che denuncia di esser stata violentata da Ciro Grillo e tre suoi amici. Dopo giorni di polemiche, riaccese anche dal video pubblicato da Beppe Grillo in difesa del figlioil padre e la madre della ragazza sono intervenuti con una lettera affidata al loro legale, l’ex ministra leghista Giulia Buongiorno. “Non è facile rimanere in silenzio davanti alle falsità che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia, aggiungendo dolore al dolore: il nostro e il suo”, scrivono i genitori della ragazza, come riportano varie fonti giornalistiche. “D’altro canto, sarebbe fin troppo facile smentirle sulla base di numerosi atti processuali che sconfessano certe arbitrarie ricostruzioni e che, per ovvie ragioni, non possono essere resi pubblici”. E poi ancora: “Abbiamo appreso, inoltre, che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave”. Infine “confidiamo nel fatto che tutto questo fango sarà spazzato via facendo emergere la verità. Abbiamo dato mandato al nostro legale di agire in sede giudiziaria contro tutti coloro che a qualsiasi titolo partecipano a questo deplorevole tiro al bersaglio”. Noi de Le Iene ci siamo occupati del caso politico scoppiato dopo la pubblicazione del video di Beppe Grillo in difesa del figlio, nel servizio di Roberta Rei e Marco Occhipinti che potete vedere qui sopra. Il video del Movimento 5 Stelle ha provocato forti polemiche.

Tra le varie cose dette dal fondatore del Movimento 5 Stelle, alcuni passaggi commentano il comportamento della presunta vittima: “Si vede che c’è la consenzientità si vede che c’è il gruppo che ride che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande, con il pisello così perché sono quattro coglioni non quattro stupratori”. E poi ancora: ”Non è vero niente che c’è stato lo stupro, non c’è stato niente. Perché una persona che viene stuprata la mattina al pomeriggio va in kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia, vi è sembrato strano”. Come detto le parole di Grillo hanno causato forti polemiche politiche, con noti esponenti 5 Stelle che hanno preso le distanze dal fondatore. Tra questi anche Giuseppe Conte, leader in pectore del Movimento. Tra i pochi a difenderlo l’ex ministro delle Infrastrutture e Trasporti Danilo Toninelli, che ha attacco l’avvocatessa della famiglia della presunta vittima: “Vada a parlare con la Bongiorno che è senatrice della Lega che difende che difende i genitori, secondo lei non c’è quantomeno un senso di schifosa inopportunità in tutto questo?”. C’è chi si è chiesto perché Beppe Grillo abbia pubblicato quel video, e una fonte autorevole all’interno del M5S ci ha confidato il sospetto che il fondatore abbia potuto subire delle pressioni e dei condizionamenti legati alla situazione del figlio. C’è chi pone l’attenzione sui tempi così lunghi delle indagini - circa un anno e nove mesi - e su cosa sarebbe successo nel frattempo nel mondo della politica italiana. È il caso del famoso giornalista Paolo Mieli, che ospite a Cartabianca su Rai3 dice: “La cosa strana ripeto, è che la cosa arriva un anno e mezzo dopo, durante i quali lui prima è stato decisivo per fare il governo Conte Bis, quell’estate stessa, e poi il Governo Draghi”. E Mieli aggiunge: Dico che qualcuno l’ha indotto a credere che comportandosi bene la cosa non sarebbe mai arrivata davanti a un giudice”. Di tutto questo noi siamo andati a parlare con Rocco Casalino, storico portavoce del Movimento 5 stelle, che si è smarcato dalle dichiarazioni di Grillo: Io non avrei detto quelle cose”, ci ha confidato Casalino. E sul fatto che e donne che denunciano poi durante il processo diventano imputate, cioè questa colpevolizzazione delle vittime, l’ex portavoce ci ha detto: “Allora, credo effettivamente che ci sia una visione maschilista in casi come questo per cui spesso si cerca di dare la colpa alle donne, e questa è una cosa che va superata”.

LE TAPPE DELLA NOTTATA DEL PRESUNTO STUPRO DI GRUPPO. Giuseppe Filetto per repubblica.it il 29 aprile 2021. Emergono nuovi particolari dall'inchiesta per stupro a carico di Ciro Grillo, il figlio del Garante dei 5Stelle, e di altri tre suoi amici. Negli atti in mano alla Procura di Tempio Pausania gli investigatori avrebbero verbalizzato anche gli "schiaffi sulla schiena e sulle natiche" di Silvia (nome di fantasia), la ragazza che poi ha denunciato tutto ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano, al suo ritorno dalla Sardegna, una settimana dopo il presunto stupro di gruppo nella villa Beppe Grillo, a Porto Cervo, il 17 luglio del 2019. La giovane, con la mamma, otto giorni dopo si era presentata alla clinica Mangiagalli di Milano per farsi visitare, poi ha denunciato i quattro giovani della Genova bene: oltre Ciro Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Il fascicolo, alla luce dei racconti che gli indagati hanno fornito il 15 aprile scorso al procuratore capo Gregorio Capasso e al sostituto Laura Bassani, si è arricchito di nuove informazioni, tra cui il video di cui parla Beppe Grillo nel su intervento diventato virale in cui dice che il figlio Ciro e gli altri ragazzi "non sono stupratori ma sono quattro co...i", e che "è strano che la ragazza abbia presentato la denuncia solo dopo otto giorni". Secondo quanto trapela da fonti giudiziarie della cittadina gallurese, il quadro indiziario sarebbe cambiato. Per alcuni in peggio, per qualcuno in meglio. Certo è che la Procura si è presa ancora un mese di tempo. Entro tale termine sarà depositato in cancelleria un nuovo avviso conclusione indagini preliminari (il 415 bis), un secondo avviso di garanzia. Poi gli avvocati avranno 20 giorni per (ri)chiedere ulteriori interrogatori o depositare nuove memorie difensive. Non ci si aspetta in tempi brevi alcuna richiesta di processo da parte della procura, né di archiviazione. E per il pronunciamento del giudice per l’udienza preliminare se ne parlerà in estate. La frenata giudiziaria si sarebbe resa necessaria appunto il 15 aprile scorso, dopo le dichiarazioni rese ai magistrati dai quattro. In particolare, Corsiglia (figlio di un noto cardiologo) assistito dal suo avvocato, avrebbe ribadito che intorno alle 6 del mattino del 17 luglio 2019 avrebbe avuto «un rapporto sessuale consenziente» con Silvia, la italo-svedese. Prima che questa bevesse una bottiglia di vodka: «Senza costrizione, ma per sfida, per dimostrare che era in grado di reggere l’alcol», ha dichiarato Lauria. Il sesso di gruppo sarebbe avvenuto dopo le 9 del mattino, con la ragazza ubriaca. E per stabilire quanto fosse in stato di ebrezza o invece capace di intendere e di volere, Beppe Grillo ha ingaggiato un medico legale, Marco Salvi. Inoltre, avrebbe chiesto «un’indagine conoscitiva sulla vita della ragazza». E Corsiglia non avrebbe partecipato allo stupro di gruppo: «Dopo aver fatto sesso, sono andato a dormire», ha precisato ai pm. L’altro capo di imputazione è la violenza sessuale ai danni di Roberta: Ciro, Capitta e Lauria si sono immortalati mentre la oltraggiavano quando dormiva. Quella foto è stata mostrata ad altri amici.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. Nelle carte dell'inchiesta di Tempio Pausania sul caso Grillo ci sono anche «schiaffi sulla schiena e sulle natiche» di cui racconta Silvia, la ragazza che ha denunciato la violenza sessuale di gruppo. I quattro ragazzi contro i quali lei punta il dito hanno sempre parlato di consenso: nessuna violenza, lei era consapevole di quello che faceva - dicono - la notte fra il 16 e il 17 luglio 2019, quando Silvia e la sua amica Roberta finirono nell'appartamento che i ragazzi avevano affittato per l'estate accanto alla villetta di Grillo senjor. Ci andarono che erano le cinque del mattino, dopo la prima parte della notte passata al Billionaire di Briatore, dove si erano conosciuti. «Una spaghettata e poi vi riportiamo a casa» avevano promesso i ragazzi. Ma dopo gli spaghetti Silvia racconta di essere stata violentata da uno dei quattro, Francesco Corsiglia, mentre Roberta dice di essersi buttata sul divano a dormire. Nel racconto dei ragazzi c'è anche un tentativo di approccio sessuale con Roberta «che però rifiuta e li caccia», è la tesi dei difensori di Ciro junior, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Tutto questo mentre - è la versione dei ragazzi - Silvia è «appartata» con Francesco («mi stava violentando», dice lei). Lui nega tutto, racconta di un rapporto consenziente dopo il quale si è addormentato profondamente. A quel Punto Silvia sarebbe uscita con gli altri tre a prendere delle sigarette. E (dice la sua versione) al ritorno è successo il peggio: stuprata da tutti e tre dopo essere stata presa per i capelli, costretta a bere vodka e ridotta all' incapacità di difendersi. Della violenza esiste un breve filmato ed esistono anche delle fotografie a sfondo sessuale che i tre scattano accanto a Roberta che dorme. Le foto vicino a Roberta sono diventate un'altra accusa per violenza di gruppo ma nei loro recenti interrogatori in Procura i ragazzi provano a rovesciare la prospettiva. Perché si sarebbero semplicemente arresi a Roberta che li ha respinti se è vero che sono stati così violenti con Silvia?, hanno ragionato con i loro legali. La violenza contro Roberta è nelle azioni sessuali che si vedono nelle foto mentre lei dorme e, interrogati, loro hanno chiarito dettagli finora non spiegati di quelle immagini. Motivo per cui la Procura ridefinirà i capi di imputazione e la condotta di ciascuno. Allungando inevitabilmente i tempi per la richiesta di rinvio a giudizio.

La foto choc della notte con Grillo&Co: "Genitali sulla testa della ragazza". Luca Sablone il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Si aggravano le accuse per alcuni, in particolare per le foto dei giovani nudi con la ragazza: "Genitali scoperti appoggiati sul capo dormiente dell'amica". Si allungano i tempi dell'inchiesta relativa al caso Ciro Grillo. Come riferito dall'Adnkronos, il Procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, è al lavoro per ridefinire il capo di imputazione su alcuni degli indagati. Sarebbe infatti cambiata la posizione di alcuni dei quattro componenti del gruppetto, per i quali in queste ore si starebbero ridefinendo i capi di imputazione. Nello specifico sarebbe stato modificato il secondo, ovvero quello che riguarda una serie di foto "in cui si vedono a tratti due, a tratti tre ragazzi, con i genitali scoperti appoggiati sul capo della seconda ragazza, R.M, amica di S.J., che dorme". In alcune immagini, sfocate, non si riuscirebbe a individuare con precisione il volto dei giovani coinvolti. Gli inquirenti smentiscono "una nuova indagine" ma i nuovi capi di accusa fanno parte sempre dello stesso fascicolo. Ve ne avevamo già parlato a novembre 2020, quando sui giornali venivano svelati i contenuti del fascicolo giudiziario relativo alla vicenda che ha coinvolto il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle e suoi tre amici. A smarcarsi di recente è stato Francesco Corsiglia, uno degli amici di Ciro Grillo: "Ho avuto un rapporto consenziente con S.J., eravamo solo io e lei, poi mi sono addormentato. Di ciò che è successo dopo io non so niente". Il dettaglio sull'ora in cui avrebbe preso sonno lo potrebbe collocare fuori dal rapporto sessuale di gruppo. Va inoltre considerato un ulteriore aspetto: pare che Corsiglia non compaia nelle foto e nei video di quella notte. Nel frattempo il procuratore Capasso e la pm Laura Bassani sono tornati al lavoro per ridefinire gli ultimi eventi, tra interrogatori e indagini difensive presentate dai legali. Tra queste però, al momento, non vi sarebbe la consulenza del medico legale Marco Salvi, incaricato per far luce sulle dichiarazioni della studentessa italo-norvegese che accusa Ciro Grillo e gli altri ragazzi di stupro di gruppo nei suoi confronti. L'esperto, che in passato si è occupato del serial killer Donato Bilancia e dell'omicidio di Carlo Giuliani durante il G8, ha chiarito che il suo lavoro sarà fatto sulle carte e che dunque non dovrà periziare la ragazza: "Con a disposizione gli atti dell’indagine, la documentazione, le testimonianze ed eventuali certificazioni sanitarie, il mio compito sarà cercare di capire, dal punto di vista medico legale, le sue condizioni psicofisiche al momento del fatto". Relazione che tuttavia, sempre secondo l'Adnkronos, non sarebbe ancora arrivata sul tavolo della procura di Tempio Pausania.

Le carte su Grillo Jr: "Schiaffi sulle natiche". La procura della Repubblica di Tempio Pausania si è presa un ulteriore mese di tempo per valutare al meglio il quadro indiziario dopo gli interrogatori e le nuove prove emerse. Si aggiungono nuovi dettagli sulla vicenda del presunto stupro di gruppo per il quale risultano indagati il figlio di Beppe Grillo Ciro ed altri tre suoi amici.

Nel fascicolo in possesso della procura della Repubblica di Tempio Pausania si fa riferimento ad altri particolari riferiti dagli investigatori, compresi gli "schiaffi sulla schiena e sulle natiche" inferti dai quattro protagonisti della vicenda alla vittima. Quest'ultima, una ragazza italo-svedese, ha deciso di denunciare quanto subito solo una volta rientrata a casa dalla Sardegna, più o meno una settimana dopo i fatti avvenuti all'interno della villa di Porto Cervo di proprietà del padre putativo del Movimento CinqueStelle (17 luglio 2019). Prima la visita medica, svolta presso la clinica Mangiagalli, quindi la denuncia ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano. Da quel momento erano scattate le indagini ai danni dei quattro ragazzi genovesi: oltre a Ciro Grillo, sono stati iscritti nel registro degli indagati anche Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Oltre alle dichiarazioni dei diretti interessati, gli inquirenti hanno potuto raccogliere ulteriori prove sulla vicenda, compreso il famoso video di cui ha parlato lo stesso Beppe Grillo durante l'intervento effettuato sui social in difesa del figlio. Dichiarazioni che avevano suscitato roventi polemiche anche in ambito politico, e che continuano tuttora a creare forte imbarazzo tra gli stessi grillini. Con le nuove prove di cui è entrata in possesso, la Procura della Repubblica ha deciso di prendere un ulteriore mese di tempo per rivalutare il quadro indiziario: entro il termine prestabilito dovrà essere depositato in cancelleria un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari, con un secondo avviso di garanzia, A questo punto i legali dei quattro indagati avranno a disposizione ulteriori 20 giorni per depositare le proprie memorie difensive ed eventualmente richiedere altri interrogatori. Le stesse dichiarazioni rilasciate dagli indagati il 15 aprile scorso sono al vaglio degli inquirenti. Francesco Corsiglia avrebbe rivelato di aver avuto un "rapporto sessuale consenziente" con la vittima alle ore 6:00 del mattino del 17 luglio 2019, pertanto prima che la giovane italo-svedese bevesse una bottiglia di vodka. Anche il bere sarebbe avvenuto senza che vi fosse alcuna forzatura: "Senza costrizione, ma per sfida, per dimostrare che era in grado di reggere l’alcol", avrebbe dichiarato Vittorio Lauria, come riferito da Repubblica. Verso le 9 del mattino, e con la vittima completamente ubriaca, sarebbe invece avvenuto il sesso di gruppo, al quale non avrebbe partecipato invece Corsiglia: "Dopo aver fatto sesso, sono andato a dormire".

Lo stesso Beppe Grillo ha ingaggiato un medico legale per appurare quale fosse il grado di ebbrezza della vittima e chiarire se fosse o meno capace di intendere e volere, e richiesto inoltre una "indagine conoscitiva sulla vita della ragazza".

Ciro Grillo, Filippo Facci e l'sms inviato dalla ragazza dopo la presunta violenza: "Ho fatto un'altra caz***".

Filippo Facci su Libero Quotidiano il 28 aprile 2021. Bel casino davvero: pare che siamo qui a commentare una sentenza (e già le sentenze non si dovrebbero commentare) e invece la sentenza non solo non c'è, ma non c'è neanche il processo, e neanche il rinvio a giudizio, e neanche la richiesta di rinvio a giudizio, e neanche una posizione univoca tra indagati (i quattro ragazzi) e la denunciante (la ragazza) i quali dovete ficcarvelo nel cranio: sono tutti dei «presunti» qualcosa, non c'è niente di assodato, niente, non è il processo a Genovese dove c'erano 37 telecamere e una confessione, potrebbero anche essere tutti innocenti o tutti colpevoli di qualcosa che non abbiamo voglia di capire o concepire. I giudici servono, e andrebbero selezionati, per conoscere la legge e interpretarla con umanità e intelligenza: altrimenti basterebbero dei software in cui inserire degli schedari. Bisogna avere il coraggio di dirlo, anche se non è l'epoca adatta: uno stupro può essere un'opinione. Anche con noi stessi. E gli altri, e noi? Tutti a buttare in politica lo sfogo di Grillo (perché siamo dei malati) che a sua volta non ha retto la terribile tensione di un'indagine in cui tutto procedeva in maniera incredibilmente normale: tutti a cercare significati reconditi, addirittura a giustificare l'esistenza di un governo solo per via della spada di Damocle che il processo rappresentava (persino Vittorio Sgarbi ogni tanto può dire una cazzata) e tutti a complicarsi la vita scegliendo proprio l'avvocato leghista Giulia Bongiorno come legale della famiglia della ragazza ma anche di Matteo Salvini in altro processo: la stessa Bongiorno della quale tutti hanno lodato la discrezione prima che cominciasse a straparlare anche lei. Perché non è vero che è stata zitta: intanto ha chiamato «imputati» dei semplici indagati, dopodiché è andata in tv, a «Zona Bianca» e a «L'aria che tira» a buttarla in politica e in caciara pure lei.

Silenzio mica tanto - Insomma, silenzio mica tanto: la sfilata in tv è cominciata, e diranno che è colpa di Grillo (Beppe) anche quella. Sui giornali qualcosa è uscito, una sorta di calvario subito dalle ragazze: ed è totalmente da escludere - fidatevi - che possa aver avuto un ruolo il primo avvocato della ragazza prima che le subentrasse la Bongiorno, Laura Panciroli dello studio Ichino: una che, se glielo chiedi, non ti dice neanche che ore sono. Cordialmente, ha fatto notare informalmente allo scrivente solo questo: «Tenga conto che tutta l'attività di indagine viene a conoscenza delle parti solo dopo l'avviso di chiusura delle stesse. Il dato temporale, dunque, deve tener conto di questo aspetto». Non ha detto niente. Ha detto tutto. La versione della ragazza («mi hanno stuprata tutti») è uscita sulla stampa di sabato scorso, dopo la chiusura delle indagini: e dopo la reazione di Grillo: e l'autore finge palesemente di aver aver letto il fascicolo delle indagini per depistare dalla sua fonte. In sostanza si descrive univocamente la versione dello stupro progressivo e catalizzato dall'alcol, il tutto in un clima difficile da comprendere (per noi) dove tra uno stupro e l'altro si parla, si va a comprare le sigarette, ci si dondola sul gazebo, e il giorno dopo si va a comprare - lei - la pillola del giorno dopo e si fa lezione di kite surfing. Lei comunque è turbata, non è soddisfatta e andrà a denunciare otto giorni più tardi, come gli altri a un certo punto vengono a sapere.

Sfumature - Poi, ancora dopo la versione di Grillo, c'è l'uscita televisiva di uno degli accusati Vittorio Lauria che maledice il video di Beppe che a suo dire ha ingigantito tutto, ha eliminato ogni possibile sfumatura rispetto a comportamenti che di sfumature possono averne. Non è che esista solo lo stupro brutale o il più assoluto consenso. Non è che a determinare tutto sia sempre la forza bruta rispetto alla costrizione assoluta. Non è che l'alcol renda dei gorilla tutti gli uomini e delle ninfe tutte le donne. E non è che non ci si possa semplicemente pentire di aver ceduto a dei comportamenti (forzati, insistiti, certamente) quando il sole risorge e la sbornia svanisce. Non è che non possa accadere che tu vada a casa di ragazzi perché te ne piace uno solo (il primo) e però poi finisca in un modo che nessuno ha voluto o saputo frenare. Non è che dopo una nottata passata da cinque giovanissimi marziani che non conosciamo (e dove i due sessi forse non appaiono così diversi tra loro, generazionalmente, da come invece appaiono a noi) una persona non possa riuscire a fare kite surfing o la sera tornare in discoteca. Sarà capitato a molti di risvegliarsi in letti in cui non ricordano come sono capitati. Sarà capitato a molti, magari, di provare una situazione sgradevole e di pentirsi con ancora il saporaccio dell'alcol in bocca. Secondo un accusato lei avrebbe messaggiato a delle amiche: «Ho sbagliato un'altra volta ho fatto un'altra cazzata». È andata così? Ecco: non-lo-sappiamo. Non sappiamo niente. E i processi si fanno anche per questo: ma non dal divano di casa. Tutto è possibile: che uno sia stato uno stupro e un altro no, due no e due sì, tutti e quattro sì, tutti e quattro no, tutti e quattro sì a senza neppure accorgersene, dai rispettivi fronti, se non il giorno dopo. O due. O tre.

La legge lo consente - Così, come al mercato, anche in tribunale si spara un prezzo alto o basso per cercare di mediare. Beppe Grillo ha incaricato un esperto in medicina legale piuttosto noto per cercare di capire le condizioni psicofisiche della ragazza al momento del fatto. La legge lo consente. Sono le odiosissime sfumature che gli interessano: capire quanto ha bevuto, quanto influito, se fosse davvero incapace di difendersi. Si parla tanto di un breve video che proverebbe complicità tra tutti gli attori: lo decideranno i giudici. Così come decideranno se abbia voluto bere vodka o l'abbiano costretta, o se abbiano fatto una gara. Si parla anche di uno dei quattro ragazzi che avrebbe scaricato gli altri perché a un certo punto - dice - lui si è addormentato dopo aver avuto un rapporto condiviso con la ragazza. Normale. Quello che sarà più difficile da comprendere o da ammettere, per noi tutti, è che un rapporto sessuale tra quattro ragazzi e una ragazza possa esser stato uno stupro o anche qualcosa di condiviso, consenziente. Quest' ultima cosa non fa parte della nostra cultura: ma della loro sì. I maschi possono ammetterlo già ora (se non mentono) ma lei avrebbe difficoltà, e il maschilismo anno 2021 è tutto qui. Ieri sera comunque è circolata notizia che gli indagati potrebbero chiedere un rito abbreviato, che consente uno sconto di pena fino a un terzo e sostanzialmente dà ragione alle tesi dell'accusa. Ma non sono tutti d'accordo: per esempio quello che dormiva.

Grillo, nella prima denuncia di Silvia ignorati le foto e il video dello stupro. Giuseppe Filetto il 30 aprile 2021. Ancora una stranezza, quantomeno una cosa da spiegare e sulla quale a quanto pare stanno facendo approfondimenti gli investigatori, emerge dall'inchiesta sullo stupro e la violenza sessuale ai danni di due ragazze milanesi da parte di Ciro Grillo, figlio del Garante dei 5Stelle, e di tre suoi amici della Genova bene. Lui, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, indagati dalla Procura di Tempio Pausania, hanno scattato foto e prodotto un video sia durante il presunto rapporto "non consenziente" tra Corsiglia e Silvia (nome di fantasia), sia quando gli altri tre avrebbero abusato della diciannovenne dopo che questa aveva bevuto vodka. Di queste immagini la ragazza e la sua amica Roberta (anche questo nome di fantasia) ne hanno parlato con il procuratore capo Gregorio Capasso e con il sostituto Laura Bassani durante gli interrogatori. E però, stando a quanto affermano alcuni avvocati difensori dei quattro giovani genovesi, di quel video e delle foto Silvia non avrebbe fatto cenno ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano: il 26 luglio 2019, quando prima si è fatta visitare in ospedale, poi con la madre ha denunciato la violenza subita la notte del 17 luglio a Porto Cervo, nella villa dell'ex comico. Tra le ipotesi che si fanno, non è escluso che Silvia avesse voluto nascondere questo particolare ai genitori, forse per timore. Oppure, perchè non ne era ancora a conoscenza. Non è escluso che la ragazza abbia saputo dopo dell'esistenza delle immagini, soltanto quando sono circolate sui telefonini dei quattro indagati e dei loro amici: comunque prima del 29 agosto, quando i carabinieri sequestrano i cellulari dei quattro, sia a Genova presso le loro abitazioni, sia a Marina di Bibbona, un'altra delle ville di Beppe Grillo. Tanto che per la diffusione delle foto e del video la Procura sta rimodulando i capi di imputazione, contestando anche il reato di revenge porn. Intanto, La Verità ha scritto che ad intervistare Vittorio Lauria è stato Fabrizio Corona, l'ex paparazzo appena tornato dagli arresti domiciliari. Il dialogo è finito sul programma tv "Non è l'Arena" di Massimo Giletti. Non è la prima volta: in passato altri scoop, come la vicenda milanese della violenza e del sequestro di una diciottenne da parte di Alberto Genovese, sono passati dalla trasmissione di Giletti.

"Gira tutto...". Il video della notte a casa di Grillo. Luca Sablone il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Alcuni ragazzi raccontano di aver visionato il filmato: "Un sacco di amici l'hanno visto". Il Garante della privacy avverte: "Farlo circolare è un illecito". I tempi del caso Ciro Grillo si allungheranno ulteriormente, tra nuovi interrogatori e memorie difensive. Ma nel frattempo continua a tenere banco l'aspetto legato alla circolazione di un video registrato quella notte nella villetta a Cala di Volpe. I genitori di Silvia, la studentessa che accusa il gruppetto di stupro, hanno recentemente denunciato un fatto che - se confermato - sarebbe grave: "Abbiamo appreso che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave". Una conferma è arrivata da un ragazzo che, ai microfoni di Non è l'arena su La7, ha dichiarato: "Un sacco di amici l'hanno visto. Con i telefoni gira tutto...". Lo stesso Beppe Grillo nel suo sfogo choc aveva fatto riferimento a un video in grado di dimostrare che la ragazza fosse consenziente: "C'è tutto un video, passaggio per passaggio, in cui si vede che c'è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così...". La medesima versione è stata confermata da alcuni ragazzi che dicono di aver visto il filmato: "Si vede che lei... Non è che non ci stesse. Diceva 'Fai questo, fai quell'altro'". Ma secondo un amico di Grillo jr, Ciro non avrebbe fatto girare il video tra gli amici: "È una cazz***. Neanche per spacconeria, lui non è così. È proprio... Se fa delle cose lui se le tiene per sé". E ha aggiunto che a scuola aveva un buon profitto: "Tranquillo, un ragazzo normale, aveva la media alta. Andava bene a scuola. C'era suo padre che gli diceva di andare bene". Nei giorni scorsi però il Garante della privacy si è espresso chiaramente: "Chiunque diffonda tali immagini compie un illecito, suscettibile di integrare gli estremi di un reato oltre che di una violazione amministrativa in materia di privacy". Effettivamente le domande a cui dare risposta sono diverse: la ragazza ha autorizzato le riprese? Era consapevole di essere su quei telefoni? Ne era felice? Sulla questione è intervenuta anche la psicoterapeuta Stefania Andreoli: "Il fatto di subire il calvario di vedere la propria vita sul vetrino, osservata da vicino da chiunque poi ci faccia sopra dei commenti, è sempre un'esperienza estremamente dolorosa e violenta".

Da Ciro Grillo alla ragazza di Trapani: donne stuprate vittime due volte. Sofia Dinolfo il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Secondo il presidente nazionale dell'Osservatorio Violenza e Suicidio, Stefano Callipo, "I veri danni non sono visibili immediatamente ma possono manifestarsi anche dopo anni". Il problema legato alle donne vittime di abusi sessuali nelle ultime settimane sta echeggiando sempre di più dopo le vicende giudiziarie legate a Ciro Grillo. Quest’ultimo, figlio dell’ex comico e fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo, è indagato assieme ad altri tre ragazzi per il reato di violenza sessuale di gruppo nei confronti della 19enne e studentessa S.J. Non solo: a far sollevare polemiche è anche il caso dello stupro di gruppo consumatosi a Campobello di Mazara in provincia di Trapani nei confronti di una 18enne. Il fatto è accaduto a febbraio e nei giorni scorsi, dopo l’accusa da parte della procura di Marsala per il reato di violenza sessuale di gruppo aggravata, per due degli aguzzini si sono aperte le porte del carcere, mentre per altri due sono stati disposti gli arresti domiciliari. A sollevare clamore l’inaspettato gesto del padre della vittima: si è presentato ai carabinieri della locale stazione accusando la figlia di essersi inventata tutto e, al contrario, ha difeso gli stupratori. Quali sono i meccanismi che si possono innescare nel momento in cui la vittima di stupro sporge denuncia? Come affrontarli? Ne parliamo a IlGiornale.it con il presidente dell’Osservatorio Violenza e Suicidio, Stefano Callipo, che è anche psicologo clinico, giuridico e psicoterapeuta.

Dottore iniziamo col caso che vede coinvolto Ciro Grillo. Perché secondo lei la studentessa ha denunciato di essere stuprata dopo otto giorni?

"Il fatto che una vittima di stupro in genere non presenti la denuncia immediatamente dopo la violenza subìta è un fatto non raro. Ciò può essere dovuto a diversi fattori. Consideriamo che lo stupro è un tipo di violenza molto cruento e feroce e le reazioni da parte della vittima nella prima fase possono essere derealizzative, come stati di shock, incredulità, paura, rabbia, perdita di controllo, reazioni in cui non ha ancora piena coscienza di ciò che ha da poco subìto. Si tratta di un meccanismo di difesa volto a proteggerci. Una seconda fase, che può durare anche anni, può essere caratterizzata da sentimenti come la vergogna, sensi di colpa, disperazione e vulnerabilità. Altri fattori per i quali non si denuncia possono essere il timore di non essere creduti e molte altre variabili. Nella fattispecie del caso del figlio di Grillo non possiamo esprimerci poiché la magistratura sta svolgendo il suo lavoro e noi possiamo pronunciarci soltanto per ipotesi".

Come si concretizzano i sensi di colpa che spingono le vittime a denunciare con ritardo rispetto all’abuso subito?

"Subire un abuso significa vivere un’esperienza dal dolore talmente indicibile che può modificare persino l’assetto di vita della vittima. I sensi di colpa possono essere fortemente emotigeni e, se si è giovani, i danni possono essere ancora più pervasivi. I sensi di colpa possono modificare e talvolta stravolgere completamente il proprio assetto comportamentale e in altri casi persino esistenziale, nel senso che si può arrivare persino ad assumere condotte suicidiarie. I danni di uno stupro spesso non sono visibili nella loro interezza nell’hic et nunc, ma possono manifestarsi persino a distanza di anni. La loro valutazione nell’immediato è quasi sempre una valutazione parziale, proprio per questo motivo".

Come aiutare le vittime a superare questo blocco e quindi denunciare?

"La vittima di abuso ha bisogno di un supporto immediato per iniziare una psicoterapia che agisca su due livelli, nel ‘qui’ e ‘ora’ e alla ‘distanza’. Soprattutto se si tratta di un soggetto in età evolutiva. Il ‘blocco’ può essere affrontato e gestito soltanto con l’aiuto di un professionista. Far sentire la persona accolta, non giudicata, accogliere i suoi vissuti emotivi incondizionatamente da parte dei familiari può essergli d’aiuto. Arrivare a denunciare significa aver già elaborato una parte del dolore e aver raggiunto una consapevolezza dell’accaduto. Da soli è difficile. La denuncia è importante, perché permette non soltanto di salvare se stessi ma anche di essere messi in sicurezza, e ancora di evitare che gli stupratori possano mietere altre vittime. Nell’abito di un’azione preventiva bisognerebbe diffondere la cultura della denuncia, poiché con essa non si salva soltanto la propria vita ma anche quella di molte altre donne".

"Chi non denuncia subito non è meno vittima"

La difesa di Ciro Grillo ha nominato un medico legale per indagare sulle reali condizioni psicofisiche della ragazza quella notte e nei giorni a seguire. Potrebbe esserci il rischio che la 19enne da vittima venga trasformata in colpevole dentro al tribunale come accaduto in altri casi?

"Nel caso di Grillo non ritengo sia giusto pronunciarsi, poiché è compito della magistratura far luce sull’accaduto, i processi si fanno nelle aule dei tribunali, e le procure svolgono egregiamente il loro compito".

Il video che immortala le immagini di quella notte dentro la villa di Ciro Grillo sta facendo il giro di diversi cellulari oltre a quello dei legali. Ci sono gli estremi per un illecito legato a revenge porn?

"È opportuno non pronunciarsi su questo. Lasciamo la procura svolgere le indagini".

La diffusione a più persone di quelle immagini unitamente alla nomina di un medico legale che indaghi sulla ragazza quanto può compromettere la serenità della 19enne? Potrebbe fare dei passi indietro?

"Nell’ipotesi che la ragazza sia una vittima i danni possono essere indicibili. Significherebbe rivivere traumi non ancora elaborati e vivere una seconda vittimizzazione. Un tormento emotivo pericoloso. Occupandomi di rischio suicidario, sia come professionista sia come presidente nazionale dell’Osservatorio Violenza e Suicidio, ho sempre sostenuto che il dolore mentale può essere più forte e insopportabile di quello fisico. Nell’ipotesi avanzata in questo caso il dolore mentale verrebbe esacerbato ancora di più".

Non solo il caso di S.J. che viene indagata dal consulente di Grillo ma anche quello della giovane di Trapani che viene accusata dal padre di essersi inventata tutto. Quali sono i danni che la vittima può subire quando viene sminuita la gravità dello stupro subito?

"Ragionando sempre per ipotesi, nel non sentirsi creduti, come nel caso di Trapani oppure nel caso di S.J., ma anche per le tante donne che hanno subìto la stessa condizione, mi preoccupano gli effetti che si possono generare. Mi riferisco al victim blaming: si tratta di un meccanismo che davanti a una violenza feroce di genere porta le persone ad attribuire una certa colpa dell’accaduto alla vittima. A volte sminuendo l’accaduto stesso con frasi del tipo 'aveva la minigonna, quindi se l’è cercata'”.

Perché il padre della ragazza siciliana, di fronte all’evidenza dei fatti accertati dalla procura, dà torto alla figlia e difende gli stupratori? Come si può interpretare questo atteggiamento?

"Non conoscendo la realtà dei fatti dello specifico caso non posso rispondere alla domanda. Posso però dire che a volte un genitore può negare a se stesso l’atrocità dell’accaduto sulla propria figlia, come se la sua mente non lo accettasse. Si tratterebbe di un meccanismo di difesa che avrebbe effetti devastanti sulla figlia".

Vicende di questo tipo possono scoraggiare altre vittime alla denuncia? O al contrario possono rafforzare lo spirito di far giustizia contro gli aggressori?

"Dobbiamo sempre considerare gli effetti che ogni notizia mediatica, soprattutto relativa a una violenza o ancor di più di uno stupro può generare sulle vittime. Vicende di questo tipo incluse".

In che modo cercate di riabilitare le vittime di violenza, ma anche di un processo mediatico, verso il ritorno alla normalità?

"Non è un percorso facile per la vittima. Essa deve essere messa immediatamente in sicurezza e avviata a un percorso di psicoterapia, di psicotraumatologia e isolata da eventi traumatici che possano portarla a rivivere ciò che ha subìto, come per esempio notizie mediatiche che potrebbero produrre il victim blaming o una seconda vittimizzazione".

Una donna vittima di violenza sessuale può anche pensare al suicidio?

"Purtroppo sì, esiste una forte correlazione tra una violenza sessuale subìta e il suicidio. Donne vittime di un’aggressione di tipo sessuale hanno una probabilità pari a 3/4 volte maggiore di tentare un suicidio rispetto ad altre donne. Inoltre le vittime di stupro hanno circa il 13% di probabilità in più di tentare il suicidio. Gli effetti della violenza sessuale su una donna possono inoltre portare la vittima ad avere depressione, disturbi della condotta alimentale, disturbi fobici, attacchi di panico, disturbi psicosomatici e disturbo post traumatico da stress. Importante è saper cogliere in tempo i primi segnali e agire tempestivamente".

Non è l'Arena, Vittorio Sgarbi tira in ballo la Gruber: "Grillo e Ciro? Cosa mi diceva quando andavo a Otto e mezzo". Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. La gestione di Beppe Grillo sul caso dell'inchiesta per stupro ai danni del figlio Ciro, spiega Vittorio Sgarbi, è "politica". Lo era quando la notizia si diffuse, nel settembre 2019, proprio mentre il comico e fondatore del Movimento 5 Stelle era in trattativa con il Pd per formare il Conte Bis. E lo è ora, con il famigerato video-sfogo, arrivato nel momento più travagliato dei 5 Stelle, una lotta di potere interna tra lo stesso Giuseppe Conte, Grillo, Davide Casaleggio e chi, dentro il Movimento, è tentato dalla scissione. "Quando lo dicevo i 5 Stelle reagirono in maniera offesa e l'informazione non accolse - spiega ora il parlamentare, ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena -. Quando andavo in tv, dalla Gruber a Otto e mezzo, dalla Berlinguer a Cartabianca, da Porro e dalla Palombelli, appena iniziavo a dire questa cosa mi dicevano che il problema non riguarda la politica. Invece la riguarda, tant'è che oggi il video di Grillo è un suicidio politico". Una buccia di banana mediatica, sottolinea caustico Sgarbi, che non mi muove a compassione ma a felicità". Non per una questione umana, ovviamente, ma puramente politica. "Il fatto che lui sia talmente lontano dalla politica, così come durante il periodo del Covid, e non dando nessuna indicazione ai suoi eletti che devono tutto a lui. Senza di lui non ci sarebbero la Raggi, la Appendino, Morra, Di Maio. Oggi devono mettersi d'accordo tra il loro profeta e la loro attuale posizione politica, e Grillo li ha completamente spaesati".

Ciro Grillo, le ragazze: «Arrivati alla villa nessuno era già ubriaco». Il racconto delle ragazze che denunciano le violenze. La comparsa della vodka e le fotografie. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'1 maggio 2021. All’inizio tutti erano presenti a se stessi; la vodka — e quindi la ragazza stuprata da ubriaca di cui parla il capo di imputazione del caso Grillo — è entrata in scena nella seconda parte della violenza di gruppo. «Ero sobria, mi rendevo conto di ciò che accadeva, così come ho già detto per gli altri ragazzi e per Silvia. Certamente ero molto stanca perché avevamo fatto molto tardi...». Così Roberta riassume a verbale il suo stato psicofisico a casa di Ciro Grillo, il figlio del garante del movimento Cinquestelle. Sia lei sia la sua amica Silvia hanno detto al procuratore capo di Tempio Pausania Gregorio Capasso e alla sua sostituta Laura Bassani che quella notte di luglio del 2019 non erano ubriache quando sono arrivate nella villetta dove Silvia ha poi raccontato di aver subito lo stupro di gruppo.

Il primo stupro. Dagli atti risulta che anche Ciro e i suoi amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia non erano in uno stato di alterazione dovuto all’alcol. È vero che al Billionaire avevano preso una bottiglia di champagne e una di un altro superalcolico, ma il contenuto lo avevano diviso in quindici. Quindi almeno fino alla spaghettata — per la quale le due ragazze avevano seguito i quattro amici dopo la discoteca — a casa di Grillo junior nessuno pare fosse ubriaco. Con gli spaghetti i ragazzi hanno mandato giù qualche bicchiere di birra, le ragazze non l’hanno bevuta. Finita la pasta e sparecchiato tutto Roberta si addormenta sul divano mentre Silvia, ancora sobria, subisce la prima delle violenze che racconta ai magistrati. Francesco — dice la sua denuncia — si infila nel suo letto (con gli altri che guardano, commentano e ridono davanti alla porta) e la costringe a un rapporto sessuale che comincia in camera da letto e finisce in bagno, dove lui la trascina. Lei prova a resistere ma è inutile ogni tentativo di liberarsi, racconta. Silvia spiega che Francesco ci aveva provato anche mentre preparava gli spaghetti in cucina ma lei gli aveva dato un calcio facendolo cadere e lì per lì lui aveva desistito. «Non è vero» ha raccontato lui nel suo ultimo interrogatorio. Nessun approccio, nessun calcio, nessuna violenza. Semplicemente lei ci stava. «E dopo il rapporto sessuale mi sono addormentato».

Il tentativo di svegliare l'amica e il secondo stupro. La versione di Silvia è drammatica: dice di aver provato a svegliare Roberta per andar via da quella casa ma che lei, nel dormiveglia, non ha capito la situazione d’allarme. Di fatto — così Silvia racconta ai carabinieri nella sua denuncia — fra le 8.30 e le 9 ricominciano le violenze e stavolta, però, compare una bottiglia di vodka. Lei dice che l’hanno afferrata per i capelli, costretta a berne mezza bottiglia e ad avere rapporti di gruppo. E la Procura contesta ai ragazzi l’aggravante della «minorata difesa» dovuta allo stato di alterazione psicofisica indotto dalla vodka. Ma i ragazzi negano tutto. La sola cosa che confermano è la versione di Francesco («a quel punto non era con noi, dormiva»). Francesco non compare in nessuna delle immagini trovate sui cellulari dei ragazzi: né nel video dove si vedono i suoi amici (assieme) durante lo stupro che loro chiamano «rapporto consenziente», né sulle fotografie a sfondo sessuale scattate a Roberta che dormiva sul divano. Gli altri tre negano di aver costretto Silvia a bere la vodka; Vittorio Lauria ha raccontato a Non è l’Arena che «l’ha bevuta lei per sfida, “gocciolandola”» e che «non era tanta, era un quarto». Qualcuno dei tre ha aggiunto davanti ai pm che «era pure allungata». Dettagli che faranno la differenza nello scontro fra le parti davanti al giudice.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 30 aprile 2021. Come era prevedibile, ora Ciro Grillo e i suoi tre amici indagati con lui per stupro di gruppo potrebbero trovarsi ad affrontare una nuova grana. In un certo senso, innescata anche questa dalla «svolta mediatica» dell'inchiesta imposta dal videomessaggio di Beppe Grillo, che ha calcato la mano sul video girato quella notte dai quattro ragazzi e che, secondo il fondatore pentastellato, dimostrerebbe che la ragazza che ha denunciato lo stupro, la 19enne italonorvegese S.J., era consenziente. Il problema non è solo che i pm la pensino in maniera opposta quanto a ciò che quel video proverebbe, ma anche che quelle immagini non sono rimaste riservate. Hanno girato, sono state inviate e mostrate a persone che non avrebbero dovuto vederle. Un esempio su tutti è l'amica d' infanzia di Ciro Grillo che, a Non è l'Arena, su La7, ha confessato candidamente che lei quel video l'ha visto. E proprio in seguito a quell'ammissione, la famiglia della ragazza che ha denunciato lo stupro ha lamentato l'uso di quei fotogrammi «come se nostra figlia fosse un trofeo» e ha annunciato iniziative legali per chi lo ha fatto. Ovviamente, la divulgazione di quelle immagini potrebbe aggiungere ai reati contestati ai quattro anche quello di revenge porn, che punisce la diffusione illecita di immagini sessualmente esplicite senza il consenso di chi vi è ritratto. Il caso sembra calzante, anche se c' è da capire fino a quando quel video avrebbe circolato, visto che quella legge è in vigore dal 9 agosto del 2019, poco meno di un mese dopo la data della presunta violenza nella casa di Grillo in Sardegna. Insomma, con una nuova magagna all'orizzonte, sembra non esserci pace per Ciro Jr, per suo padre e per i suoi amici. Anche perché, sempre ieri, ha rimesso il suo mandato l'avvocato Paolo Costa, finora difensore di Vittorio Lauria, uno dei tre amici di Ciro che, sempre intervistato dal programma di Giletti, ha detto la sua sull' indagine, confermando il rapporto di gruppo - pur sostenendo che fosse consensuale -, contestando il video di Grillo, rivelando il contenuto di messaggi che la ragazza avrebbe mandato ad alcune amiche e raccontando una versione alternativa a quella della presunta vittima anche sul perché era sotto l' effetto dell' alcol. Una iniziativa che evidentemente il suo legale non ha gradito, spiegando all' Agi che «vi sono delle divergenze sulla condotta extra-processuale da tenere sempre, specie in processi come questi» tra lui e il suo ormai ex giovane cliente. Intanto, dalla procura di Tempio Pausania dove dovrebbe essere imminente la decisione sull' eventuale rinvio a giudizio dei quattro ragazzi, rimbalza anche la notizia di una precedente violenza che la ragazza avrebbe subito in passato, quando avrebbe abusato di lei un amico con il quale stava trascorrendo un periodo di vacanza in campeggio in Norvegia. Un precedente comunque che la ragazza non avrebbe mai denunciato, che sarebbe emerso perché riferito a verbale dalla sua amica R. e del quale non si comprende l'attinenza con l'indagine sulla presunta violenza della notte del 19 luglio 2019. Ancora incerta, invece, l'intenzione della procura di procedere per violenza anche per le foto che ritraggono alcuni dei ragazzi in atteggiamenti osceni proprio intorno a R. che dormiva su un divano. Intanto, sul videomessaggio di Grillo arriva anche il commento, caustico, dell'ex M5s Piernicola Pedicini, secondo il quale le tiepide reazioni pentastellate hanno un motivo chiaro: «Chi si permette di dire qualcosa contro Beppe Grillo? Nessuno lo fa, sapendo che il rischio è di non essere più candidati».

Ciro Grillo, nuovo capo d'accusa: "Chi ha fatto cosa", decisive le foto e gli interrogatori. Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. La Procura di Tempio Pausania ha depositato il nuovo avviso di conclusione delle indagini sul caso di Ciro Grillo e dei suoi tre amici. Lo riporta il Corriere della Sera, secondo cui dopo aver raccolto le versioni dei quattro indagati la Procura ha deciso di riformulare uno dei due vecchi capi di accusa. Riguarda il secondo degli episodi contestati, quello del presunto stupro di gruppo del quale sono accusati il figlio del garante del Movimento 5 Stelle e i suoi amici Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Escluso, invece, Francesco Corsiglia, che già in precedenza non era indagato assieme agli altri ragazzi. Inoltre il Corsera fa sapere che stavolta il capo di imputazione specifica chi ha fatto cosa: dalle fotografie allegate agli atti non emergevano con chiarezza tutte le responsabilità, ma gli interrogatori dei ragazzi lo scorso aprile sono serviti a chiarire molte cose. Nel dettaglio, l’episodio modificato riguarda Roberta, l’amica della ragazza che ha denunciato il presunto stupro: sarebbe stata vittima di fotografie a sfondo sessuale mentre dormiva sul divano. Quello che non è cambiato è l’accusa di violenza sessuale di gruppo nei confronti di Grillo, Lauria e Capitta. Così come di strupro è accusato Corsiglia, che sarebbe stato il primo a “servirsi” di Silvia mentre gli altri guardavano davanti alla porta. Poi sarebbe avvenuta la violenza di gruppo, con i ragazzi che hanno girato un breve video di quei momenti, che a loro dire sarebbero avvenuti con il consenso della ragazza.  

Chiarite le responsabilità individuali. Ciro Grillo, nuova chiusura delle indagini: modificato un capo di imputazione. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Nuovo avviso di conclusione delle indagini sul caso del presunto stupro che vede imputato Ciro Grillo e altri tre suoi amici. Dopo aver ascoltato i quattro indagati il procuratore capo Gregorio Capasso e la sua sostituta Laura Bassani hanno deciso di riformulare uno dei due vecchi capi di imputazione e hanno notificato di nuovo alle parti, appunto, le loro conclusioni. I quattro sono accusati di violenza sessuale. Con il nuovo atto i pm hanno specificato meglio il secondo capo di imputazione, ovvero quello relativo alle foto oscene con la seconda ragazza scattate mentre dormiva. In particolare, secondo la procura, sarebbero almeno tre le immagini contestate a Grillo junior, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, mentre è escluso da questa accusa (sempre di violenza sessuale) Francesco Corsiglia. Corsiglia aveva detto ai magistrati di avere avuto un rapporto consenziente con la giovane e poi di essersi addormentato. Adesso i legali dei quattro giovani genovesi (Sandro Vaccaro, Romano Raimondo, Gennaro Velle, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli) potranno chiedere un nuovo interrogatorio. I magistrati avranno poi venti giorni di tempo per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Intanto i 4 continuano a ripetere che il rapporto sessuale sia stato consensuale e a negare le accuse di stupro.

I VERBALI DELLA RAGAZZA – È un racconto dell’orrore quello che appare nel verbale dell’interrogatorio compilati dai carabinieri di Milano Porta Garibaldi di S.J., la 19enne presunta vittima di uno stupro di gruppo avvenuto nella notte tra 16 e 17 luglio 2019 in Sardegna, nella villa del garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo. I dettagli di quel verbale, col racconto avvenuto nove giorni dopo il presunto stupro e raccolto da due marescialle dei carabinieri, Cristina Solomita e Camilla Ciccaglione, fa emergere un quadro di brutali violenze, negate con forza dai quattro indagati.

LA PRIMA VIOLENZA – Nel verbale pubblicato oggi dal quotidiano La Verità, S.J spiega di trovarsi in Sardegna assieme alla sorella minore e ad una amica e compagna di classe, R. È all’entrata del Billionaire, noto locale di Porto Cervo, conoscono Ciro Grillo e i suoi tre amici. “Ci siamo seduti a un tavolo riservato dove abbiamo iniziato a consumare bevande alcoliche, c’erano diverse bottiglie sul tavolo di alcolici dalle quali potersi servire liberamente. Ricordo di aver consumato un bicchiere di champagne e una vodka con Redbull. Nel corso della serata siamo stati sempre tutti insieme, abbiamo ballato un po’intorno al tavolo e un po’ nella pista centrale e abbiamo parlato tra di noi”. Alle cinque del mattino quindi S.J e l’amica seguono il gruppo dei genovesi nella villa per continuare la serata, fare una spaghettata, dormire e ripartire la mattina successiva. Quando S.J. si trova con una scusa nella stanza con Francesco Corsiglia vi sarebbe stato un primo tentativo di approccio, col giovane che la spinge sul letto ma la 19enne si divincola e se ne va, rifiutando di avere un rapporto orale. Al termine della spaghettata, durante la quale la 19enne spiega di non aver bevuto né fumato, vi sarebbe stata la prima violenza: mentre R. “diceva di essere stanca e tornava in casa”, è ancora Corsiglia a infilarsi sotto le lenzuola di S.J. “Mi ha preso per i capelli indirizzandomi la testa verso il suo pene, dicendomi cagna apri la bocca e mi chiedeva di fargli sesso orale. Inizialmente ho resistito ma lui continuava a farmi violenza. Io mi dimenavo perché non volevo, ma non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene”, racconta la ragazza. Una violenza che sarebbe continuata, nonostante la ragazza non volesse, ma “non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene”. Corsiglia avrebbe abusato di lei quindi una seconda volta, poco dopo. “Mi ha spinto sotto la doccia, ha aperto l’acqua, e mi ha spinto con la mano il viso contro la parete. Mi teneva con la mano il collo, tenendomi bloccata di spalle a lui e mi penetrava”. Anche in quell’occasione avrebbe provato a liberarsi dalla presa del ragazzo, senza successo. Finito tutto, S.J. sarebbe rimasta “in bagno da sola, avvolta nell’accappatoio”.

IL RUOLO DELL’AMICA – Dopo essersi ripresa S.J. esce dal bagno e va dall’amica R., che sta dormendo sul divano in salotto, non trovando però supporto. “Mi sono seduta per terra accanto a lei, l’ho svegliata, inizialmente non riuscivo bene a parlare, mi chiedeva che cosa avevo e le dicevo “mi hanno violentata”. R. inizialmente non capiva e glielo ripetevo, poi le chiedevo se potevamo andare a casa. R. si è seduta sul divano e mi ha fatto spallucce; io ho ripetuto di andare via perché stavo male e mi avevano violentata, ma lei non mi diceva nulla. Io l’ho presa e l’ho fatta alzare dal divano e le ho detto di vestirsi per andare via”, racconterà la 19enne ai carabinieri di Milano.

LA VIOLENZA DI GRUPPO – Si fanno le nove del mattino e S.J. vuole andare via dalla villa di Grillo, ma il gruppo le chiede di aspettare che Corsiglia si riprenda dalla sbronza e possa rimettersi alla guida dell’auto. Su uno dei tavoli della casa c’è quindi una bottiglia di vodka che secondo la 19enne “ha un odore strano”. Secondo la sua versione dei fatti Vittorio Lauria l’avrebbe costretta a bere: “Mi afferrava con forza la testa, con una mano mi teneva il collo da dietro e con l’altra mi forzava a berla tutta. Sentivo che mi girava la testa dopo aver bevuto, non ricordo bene”. Una versione negata dallo stesso giovane, che al contrario ha raccontato che sarebbe stata la stessa S.J. ad aver bevuto il quarto di bottiglia rimasto tutto d’un per sfidare il gruppo. Sopraffatta dall’alcol, la 19enne sarebbe stata quindi spogliata, messo sopra un letto matrimoniale e dato il via ad uno stupro di gruppo. Stupro che sarebbe stato documentato in parte dai video girati con i telefonini. “Sentivo che si chiamavano per nome tra di loro e si dicevano ‘ora tocca a me, dai spostati’ e sentivo che si davano il cambio. Uno mi tirava i capelli e mi tiravano schiaffi sulle natiche e sulla schiena. Mi girava la testa e continuavo a cadere in avanti. Ho visto nero, da quel momento non ricordo più nulla, ho perso conoscenza”, è la sequenza raccontata da S.J.

LA FINE DELL’INCUBO – La presunta vittima dello stupro si riprende solamente intorno alle 14:45, quando l’amica R. entra nella stanza e la sveglia. “Ricordo l’ora perché alle 15 avevo lezione di kite […]. R. mi chiedeva come stavo, ma non riuscivo neanche a rispondere e continuavo a cercare le mie cose per la casa. […] Poi R. voleva andare a salutare i ragazzi prima di andare via, quindi siamo entrate nell’altra camera matrimoniale e ho visto che erano tutti lì. Non ho detto nulla quando li ho visti, non riuscivo neanche a parlare e loro vedendomi hanno distolto lo sguardo. Io e R. siamo riuscite ad andare via mentre loro sono rimasti a casa”, è il racconto messo a verbale dai carabinieri. Le due ragazze decidono di prendere un taxi per tornare all’alloggio. Nel tragitto rimangono mute, non parleranno della violenza. Alcuni giorni dopo la ragazza racconta ad una amica di Milano del presunto stupro, quindi alla madre: “Ho un rapporto di confidenza con lei, le racconto tutto. Quella sera mi ha visto giù di morale e mi ha chiesto come stavo. Per cui le ho confidato che avevo tante cose per la testa e le ho detto che c’erano tanti pettegolezzi in giro sul mio conto che mi mettevano in cattiva luce e da qui le ho raccontato anche quanto accaduto il 16 luglio”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ciro Grillo, il racconto della vittima: “Sono stata stuprata nel letto e nella doccia”. Debora Faravelli il 03/05/2021 su Notizie.it. La vittima del presunto stupro ad opera di Ciro Grillo e dei i suoi tre amici ha fornito un racconto dettagliato della violenza subita. La ragazza di 19 anni che ha presentato una denuncia nei confronti di Ciro Grillo e dei suoi tre amici ha raccontato di essere stata stuprata nel letto e nella doccia. Secondo gli stralci riportati dal quotidiano La Verità relativi alla sua testimonianza, “mi toglieva i pantaloncini e le mutande, io mi dimenavo perché non volevo, ma non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene“.

Ciro Grillo, il racconto della vittima. Nella sua denuncia su quanto avvenne la notte tra il 16 e il 17 luglio in Sardegna, la giovane ha spiegato di aver ricevuto le prime pesanti avances da Francesco Corsiglia, recatosi in camera per prendere delle coperte: “Dapprima mi ha baciato in bocca, io l’ho fermato dicendo che non volevo“. Da qui altre avances e la pretesa di sesso orale, ma la ragazza sarebbe riuscita a divincolarsi e sarebbe tornata dagli altri. Per lei i problemi sono iniziati una volta a letto. Nella ricostruzione fornita agli inquirenti il primo ad avvicinarsi a lei sarebbe stato sempre Corsiglia che l’ha portata in doccia: “Mi ha spinto contro la parete e ha aperto l’acqua. Gli ho detto per due volte di smetterla, che era un animale e uno str*nzo, ma lui ha continuato più forte tirandomi i capelli“. Dopo il presunto stupro, la ragazza avrebbe poi svegliato la sua amica che stava dormendo sul divano per raccontarle di essere stata violentata. Lei inizialmente non capiva e glielo ripeteva, poi le ha chiesto se potevano andare a casa. “Si è seduta sul divano e mi ha fatto spallucce: io ho ripetuto di andare via perché stavo male e mi avevano violentata, ma lei non diceva nulla”. Vittorio Lauria, uno degli amici di Ciro, le avrebbe però convinte a rimanere perché, avendo Francesco (unico patentato) bevuto alcolici, non avrebbe potuto guidare e si doveva riposare. Ma a quel punto, intorno alle 9 del mattino, per la giovane l’incubo continua. Sul tavolo c’era una bottiglia di vodka che il ragazzo l’avrebbe obbligata a bere: “Mi afferrava con forza la testa, con una mano mi teneva il collo da dietro e con l’altra mi forava a berla tutta. Mi girava la testa dopo avere bevuto, non ricordo bene“. Poi altre violenze, stavolta di gruppo, fino al pomeriggio. Soltanto intorno alle 3 le due amiche sono riuscite a prendere un taxi e a tornare nel loro B&B. Dopo quella notte la vittima non avrebbe poi più parlato della vicenda con la sua amica: “Non ho più voluto affrontare l’argomento e lei non mi ha più fatto nessuna domanda“. Soltanto dopo una settimana è riuscita a raccontare i dettagli di quella notte ai genitori una volta tornata a Milano.

Ciro Grillo, i verbali-choc della 19enne: "Penetrata da 3 per 6 o 7 volte. La mia amica fece spallucce". Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. Emergono nuovi dettagli della tragica notte per cui ora Ciro Grillo e altri tre amici sono indagati con l'accusa di stupro di gruppo. Nel dettaglio sono i verbali dell'interrogatorio dell'accusatrice, la ragazza italo-norvegese, a far parecchio discutere. "I problemi sono iniziati - si legge sulla Verità - quando siamo andati a letto. Uno dei tre, Corsiglia, mi ha preso per i capelli indirizzandomi la testa verso il suo pene, dicendomi cagna apri la bocca e mi chiedeva di fargli sesso orale. Inizialmente ho resistito poi continuava a farmi violenza e a tenermi per i capelli e ho ceduto. Mi ha anche penetrata. Dopo 10 minuti mi ha spinta nel box doccia tenendomi per il collo e mi ha ancora penetrata. Mi dimenavo e cercavo di liberarmi dicendogli che era un animale, uno st***o, ma lui continuava". Ma le pesantissime accuse non sono solo rivolte ai quattro ragazzi che l'avrebbero violentata dopo una serata al Billionaire in Costa Smeralda: "A quel punto - prosegue la ragazza nel verbale - ho cercato di svegliare la mia amica dicendole che mi avevano violentata e che volevo andare via. Ma lei non ha fatto niente. Ho dovuto ripeterle più volte che volevo andare via. Solo a quel punto lei si è alzata e mi ha chiesto che cosa volessi fare". E ancora in quello che è un racconto pieno di sconcertanti dettagli: "Inizialmente non capiva e glielo ripetevo, poi le chiedevo se potevamo andare a casa. R. si è seduta sul divano e mi ha fatto spallucce; io ho ripetuto di andare via perché stavo male e mi avevano violentata, ma lei non mi diceva nulla. Io l'ho presa e l'ho fatta alzare dal divano e le ho detto di vestirsi per andare via". Ma la serata che per la giovane è stata un vero e proprio incubo non è terminata lì: "A quel punto intervenne un altro dei ragazzi, Vittorio Lauria, che nonostante io gli dicessi che un loro amico mi aveva violentata e che loro non erano intervenuti, ha cominciato a provarci. Poi verso le 9 del mattino mi hanno fatto bere la vodka, afferrandomi per il collo. Poi mi hanno portata nel letto matrimoniale e mi hanno stuprata. Ero in posizione quadrupede, Vittorio mi spingeva il pene in bocca e due da dietro mi penetravano a turno, dicendosi dai ora tocca a me, per 6 0 7 volte. Mi sbattevano il pene in erezione sulla schiena e mi tiravano schiaffi sulle natiche e sulla schiena. Da quel momento non ricordo più nulla, ho perso conoscenza". Intanto gli inquirenti cercano di capire se il video della presunta violenza ai danni della 19enne sia stato fatto girare di telefonino in telefonino. In questo caso non si può escludere una nuova accusa che andrebbe ad aggravare la posizione dei quattro indagati, il figlio di Beppe Grillo compreso.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 3 magio 2021. Ecco l'atto che ha dato il via al procedimento per violenza sessuale di gruppo contro Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Sono le 18,20 del 26 luglio 2019 quando la ventenne italo-norvegese S.J., nella stazione dei carabinieri di Milano Porta Garibaldi, inizia a raccontare la sua versione a due marescialle, Cristina Solomita e Camilla Ciccaglione. Le parole di S. sono videoregistrate dalle militari e trascritte in un «verbale di ricezione di denuncia». La donna è lì per ricostruire quanto accaduto 9 giorni prima, la mattina del 17 luglio, quando in un appartamento nella località di Cala di Volpe sarebbe stata violentata a turno e anche contemporaneamente dai quattro genovesi. Il suo è un racconto molto crudo che non sarà facile riscontrare, visto che non sarebbero rimaste tracce di violenza sul corpo, ma solo un breve video di un rapporto di gruppo, dove la giovane avrebbe un ruolo apparentemente anche attivo. Era consenziente o, a causa dell'alcol ingurgitato, era incapace di dare il suo assenso? La studentessa, bionda e bellissima, era partita per una vacanza in Sardegna con la sorella minore, G., appena quindicenne. I genitori, entrambi lavoratori, facevano la spola tra Milano e l'isola, per raggiungere le figlie nel week end. Le giornate delle due teenager trascorrevano tutte uguali: «La mattina mi svegliavo presto per andare a correre, poi tornavo a casa per stare con mia sorella, fare i compiti o guardare la tv, nel pomeriggio dalle 16 alle 18/19 ci recavamo a lezione di kite surf. Terminate le lezioni restavamo un po' in spiaggia oppure andavamo in qualche chiosco a prendere da bere. A cena tornavamo a casa e ci preparavamo da mangiare». Per lo più passavano le serate così, senza uscire. Ma quel 16 luglio alle sorelle si era unita una compagna di classe di S., R.M., la quale aveva appena trascorso una settimana di ferie a Ibiza. «Soltanto la sera del 16, quando è arrivata R., siamo andate a Porto Cervo e lì è successo il casino». Ovvero la notte brava con i genovesi. Tutto inizia quando «un comune amico» lombardo delle giovani, A.C., le invita a ballare. Verso le 21,45 S. e R. (la sorella più piccola viene lasciata nel bed & breakfast) raggiungono A. a casa sua a Porto Cervo. Il programma è di bere qualcosa prima e poi andare alla «discoteca Billionaire». «In un locale sul porto», prosegue il racconto, «abbiamo consumato 2/3 drink alcolici ciascuno, poi, verso le 23,45 abbiamo preso un taxi per recarci al Billionaire dove siamo giunti verso mezzanotte, mezzanotte e 15». All'entrata attendono degli amici di A.: «Dapprima arriva una coppia, un ragazzo e una ragazza, e dopo circa 10 minuti giungevano altri quattro ragazzi, con un pulmino taxi». Questi ultimi sono i presunti stupratori di S.. La quale in caserma li descrive per come li ricorda: tutti alti tra il metro e 70 e il metro e 80. Francesco, pantaloni da vestito e camicia bianca, Edoardo t-shirt bianca, Vittorio camicia bianca e pantaloni e infine Ciro, il più abbronzato, «corporatura magra, capelli corti pettinati con il ciuffo, di color biondo scuro, [] indossava camicia nera e pantaloni neri». S. ha, invece, una tuta lunga con pantaloni bianca e nera, con le scarpe da ginnastica. «Ci siamo seduti a un tavolo riservato dove abbiamo iniziato a consumare bevande alcoliche, c'erano diverse bottiglie sul tavolo di alcolici dalle quali potersi servire liberamente. Ricordo di aver consumato un bicchiere di champagne e una vodka con Redbull. Nel corso della serata siamo stati sempre tutti insieme, abbiamo ballato un po' intorno al tavolo e un po' nella pista centrale e abbiamo parlato tra di noi». Durante la serata uno dei liguri, utilizzando il telefono di S., la aggiunge «come follower del gruppo di cui fanno parte denominato "official_mostri"». Dopo oltre tre ore di balli e bevute A., alle 3 e 30, lascia il locale insieme con la coppia. «R. e io siamo rimaste in compagnia dei quattro amici di A. sino alla chiusura, verso le ore 5». Al momento di tornare al B&B, S. e R. non avrebbero trovato «un taxi disponibile»: «Per questo i quattro ragazzi ci proponevano di fermarci a dormire a casa loro, dove ci recavamo in taxi tutti insieme», continua S..Il gruppo entra nell'appartamento circondato da un giardinetto, con cucina che affaccia su un gazebo. I sei si siedono intorno al tavolo: «Abbiamo chiacchierato un po', gli altri hanno bevuto e fumato sigarette, io non ho bevuto né fumato». La presunta vittima non ricorda «la presenza di sostanze stupefacenti». A quel punto R. si mette a cucinare la pasta e Francesco chiede a S. di accompagnarlo in una camera da letto per prendere delle coperte. Qui la ragazza, a suo dire, avrebbe subito le prime pesanti avances: «Dapprima mi ha baciato in bocca, ma io l'ho fermato dicendo che non volevo. Lui mi ha detto che "voleva solo scopare". Gli ho risposto di no e lui ha insistito dicendomi: "Cosa ti costa farmi solo un bocchino?". Io gli ho detto ancora di no e gli ho chiesto di tornare di là insieme agli altri». Francesco non si sarebbe dato per vinto, sdraiandosi sopra di lei, ma la ventenne sarebbe «riuscita a respingerlo con le mani e a divincolarsi dalla presa». Quindi S. torna dagli altri e mangia con loro. Finita la spaghettata, «R. diceva di essere stanca e tornava in casa». S. rimane fuori a parlare con Vittorio ed Edoardo: «Non ricordo gli argomenti, ricordo che ridevamo e scherzavamo». Quando arriva il momento di andare a dormire Vittorio presta a S. una t-shirt e pantaloncini della tuta. Ma, una volta a letto, per la ragazza sarebbero iniziati i problemi. Nella ricostruzione della italo-norvegese il primo a infilarsi sotto le sue lenzuola sarebbe stato di nuovo Corsiglia. Il racconto è molto forte, anche se, in questa parte, non è suffragata da video o foto: «Gli dicevo che non volevo fare nulla, ma lui mi afferrava per i capelli e mi spingeva sotto le coperte indirizzandomi la testa sul suo pene, nel frattempo mi diceva "cagna apri la bocca" e mi chiedeva di fargli sesso orale. Inizialmente cercavo di respingerlo, ma poi, visto che lui continuava a spingermi e a tenermi per i capelli [] cedevo». La violenza sarebbe continuata: «Mi toglieva i pantaloncini e le mutande, io mi dimenavo perché non volevo, ma non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene». Dopo 5-10 minuti il giovanotto avrebbe interrotto la penetrazione, salvo ritornare alla carica in bagno: «Mi ha spinto sotto la doccia, ha aperto l'acqua, e mi ha spinto con la mano il viso contro la parete. Mi teneva con la mano il collo, tenendomi bloccata di spalle a lui e mi penetrava. Per due volte gli ho detto di smetterla, che era un animale, uno stronzo, ma lui ha continuato più forte, tirandomi i capelli e baciandomi sul collo». Dopo qualche minuto si sarebbe placato: «Vabbé basta», avrebbe detto prima di andare a dormire. La ragazza sarebbe rimasta in bagno da sola, avvolta nell'accappatoio passatole da Francesco: «A quel punto sono scoppiata a piangere», fa mettere a verbale. Alla domanda di Edoardo e Vittorio sul perché piangesse, non avrebbe risposto: «Mi sono girata di spalle perché non volevo guardarli in faccia, mi sono stretta l'accappatoio addosso, sono uscita dal bagno e sono andata da R. che stava dormendo sul divano in salotto. Mi sono seduta per terra accanto a lei, l'ho svegliata, inizialmente non riuscivo bene a parlare, mi chiedeva che cosa avevo e le dicevo "mi hanno violentata". R. inizialmente non capiva e glielo ripetevo, poi le chiedevo se potevamo andare a casa. R. si è seduta sul divano e mi ha fatto spallucce; io ho ripetuto di andare via perché stavo male e mi avevano violentata, ma lei non mi diceva nulla. Io l'ho presa e l' ho fatta alzare dal divano e le ho detto di vestirsi per andare via». Dopo essersi rimessa la tuta e le scarpe, S. incrocia R. sull' uscio di una stanza: «Ho visto che ancora non si era cambiata i vestiti [] io mi sono diretta verso l' uscita e lei mi ha seguito chiedendomi cosa fare, io ho proposto di chiamare un taxi per tornare a casa». Ma Vittorio le avrebbe convinte a rimanere: «Ci chiedeva di aspettare un po' di tempo perché avendo bevuto alcolici Francesco (unico patentato e presunto violentatore, ndr) non poteva guidare e si doveva riposare». A quel punto R. rientra in casa per rimettersi a riposare sul divano e con S. inizia a provarci Lauria. Nel gazebo la italo-norvegese spiega perché abbia pianto: «Dicevo che Francesco mi aveva fatto male e che loro non erano intervenuti». Sono le 9 del mattino. Sul tavolo c'è una bottiglia di vodka dall'«odore strano» e che secondo i ragazzi è «impossibile da finire». Vittorio a questo punto si sarebbe alzato e diretto con il liquore verso S.: «Mi afferrava con forza la testa, con una mano mi teneva il collo da dietro e con l' altra mi forzava a berla tutta. Sentivo che mi girava la testa dopo aver bevuto, non ricordo bene». Il presunto violentatore ribalta il senso dell'episodio: S., per sfidare i maschi, avrebbe bevuto il quarto di bottiglia rimasto tutto d'un fiato. In ogni caso, quando la giovane comincia a sentire gli effetti dell'alcol, sarebbe iniziata una vera e propria gang bang, immortalata in un filmato trovato sui cellulari degli attuali indagati. La denunciante sarebbe stata di nuovo spogliata contro la sua volontà sopra un letto matrimoniale: «Vittorio mi spingeva il pene in bocca spingendomi la testa», mentre gli altri la avrebbero messa in «posizione di quadrupede». «Uno di loro alle spalle iniziava a penetrarmi [] sentivo che si chiamavano per nome tra di loro e si dicevano "ora tocca a me, dai spostati" e sentivo che si davano il cambio». Sarebbe andata avanti così per 6/7 rapporti. «Mentre uno mi penetrava, gli altri due mi stavano intorno, mi toccavano il seno, ricordo che uno di loro mi sbatteva il pene in erezione sulla schiena []. Durante l'atto mi colpivano con schiaffi forti alla schiena e alle natiche. Nel frattempo Vittorio continuava a tenermi per i capelli e mantenermi il suo pene in bocca. Poi a un certo punto mi ha tolto la mano dalla testa e io ricordo che non ci vedevo più, mi girava la testa e continuavo a cadere in avanti. Ho visto nero, da quel momento non ricordo più nulla, ho perso conoscenza». Verso le 14,45 S. viene svegliata da R. e si accorge di essere in uno dei letti singoli, nuda, avvolta in una coperta: «Ricordo l'ora perché alle 15 avevo lezione di kite []. R. mi chiedeva come stavo, ma non riuscivo neanche a rispondere e continuavo a cercare le mie cose per la casa. [] Poi R. voleva andare a salutare i ragazzi prima di andare via, quindi siamo entrate nell' altra camera matrimoniale e ho visto che erano tutti lì. Non ho detto nulla quando li ho visti, non riuscivo neanche a parlare e loro vedendomi hanno distolto lo sguardo. Io e R. siamo riuscite ad andare via mentre loro sono rimasti a casa». Le due milanesi prendono un taxi e tornano al loro alloggio. Ma non fanno riferimento alla violenza: «Non abbiamo parlato durante tutto il viaggio», ha detto la studentessa alle carabiniere. «Quando siamo arrivate a casa, mia sorella era preoccupata perché l'avevamo lasciata da sola tutto quel tempo. Mi ha chiesto se era tutto a posto. Forse ha notato che ero nervosa, ma io ho risposto in maniera evasiva. Mi sono cambiata, ho messo il costume e sono uscita per andare a lezione di kite che avevo spostato alle 16». Proprio al maestro titolare (quel giorno indisponibile a causa di un infortunio), S. manda un messaggio vocale, dove sembra fare riferimento alla nottata: «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono, comunque ehm sto andando a lezione, mi spiace un casino che non ci sei, spero che ti rimetta presto comunque, perché ci tengo anche io (ride), prima la tua salute ovviamente, poi ci tengo anche a fare lezione con te ehm e niente spero di vederti appunto presto così, cioè, parliamo e ci divertiamo (ride)». Invece con R. non riparla della serata: «Non ho più voluto affrontare l'argomento e lei non mi ha più fatto nessuna domanda». S. avrebbe confidato la violenza subita a un'altra coetanea di Milano, A.M., e a due amiche norvegesi. Due giorni dopo la raggiungono i genitori, ma S. trova la forza di raccontare la storia nei dettagli solo dopo una settimana, il 24 luglio, una volta ritornata a Milano. E lo fa con la mamma: «Ho un rapporto di confidenza con lei, le racconto tutto. Quella sera mi ha visto giù di morale e mi ha chiesto come stavo. Per cui le ho confidato che avevo tante cose per la testa e le ho detto che c'erano tanti pettegolezzi in giro sul mio conto che mi mettevano in cattiva luce e da qui le ho raccontato anche quanto accaduto il 16 luglio (in realtà il 17 mattina, ndr)». In caserma S. spiega di non avere il numero di cellulare dei suoi presunti aguzzini (che identifica con il nome di battesimo) o altri riferimenti, se non la pagina Instagram del gruppo «official_mostri». Le militari domandano se i genovesi durante gli atti sessuali abbiano girato video o fatto foto e S. replica: «No, non li ho visti e non l'ho notato». In realtà nei cellulari degli indagati gli inquirenti hanno trovato sia un filmato sia istantanee oscene e sulla loro corretta interpretazione si deciderà molto probabilmente l'esito del processo.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 4 maggio 2021. L'inchiesta nei confronti di Ciro Grillo e dei suoi tre compagni di scorribande (Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria), tutti accusati di stupro di gruppo, non conosce sosta. I pm hanno riformulato il secondo dei capi di imputazione, quello a carico di Capitta, Grillo e Lauria, dove, in particolare, veniva contestata una foto in cui Ciro «appoggiava i suoi genitali sul capo di R.M.», una delle due presunte vittime (l'altra è S.J.). Ma, come aveva già rivelato La Verità, nell'immagine incriminata non era così chiaro chi avesse avvicinato il pene alla faccia di R. e solo grazie ai recenti interrogatori degli indagati sono state meglio individuate le singole responsabilità. Il numero degli scatti osceni contestati è salito a tre e in essi gli indagati si sarebbero scambiati i ruoli. Si attende ora la richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione da parte della Procura nei confronti dei genovesi. Lauria, nel frattempo, ha sostituito il proprio difensore, Paolo Costa (che si era dimesso dopo l'intervista rilasciata dal suo assistito a Fabrizio Corona) con l'avvocato Alessandro Vaccaro. Insieme al nuovo avviso di chiusura delle indagini, i magistrati hanno depositato gli interrogatori dei quattro indagati, resi ad aprile su richiesta delle difese. Ma c'è un altro verbale di sommarie informazioni testimoniali di cui vogliamo parlare oggi. È quello della madre della ventenne italo-norvegese S.J.. C.S. è una donna forte, una manager conosciuta anche all'estero. Nell' estate del 2019 è stata travolta dalla vicenda della presunta violenza subita dalla figlia. Il 26 luglio si reca insieme con S. a denunciare, presso la stazione dei carabinieri di Milano Porta Garibaldi, quanto accaduto nella notte tra il 16 e il 17 luglio, o quanto meno ciò le aveva raccontato la figlia. Con lei c' è anche il marito T.J., il quale, però, resta un passo indietro: «Ho saputo delle violenze subite da mia figlia da mia moglie; mia figlia non mi ha raccontato direttamente i fatti, aprendosi con la madre alla luce della delicatezza degli accadimenti». In quel momento, in una stanza a fianco due marescialle stanno ascoltando la versione di S.. Quasi contemporaneamente inizia il racconto di C.S.. A verbalizzare le sue parole sono due carabinieri, il capitano Matteo Martellucci e il luogotenente Egidio Colomba. La donna ricorda che il 16 luglio, alle sue due figlie, che erano in vacanza in un bed & breakfast, si era unita R.M. «un'amica di scuola di S. con cui ha frequentato il collegio []». A invitarle ad andare in discoteca al Billionaire, dove avrebbero incontrato i quattro presunti aggressori, era stato un altro compagno di scuola, A.C. «che ha una casa al Pevero e il cui padre ricordo essere titolare dell'agenzia funebre []». Secondo C.S. le due giovani e il loro amico avrebbero condiviso il tavolo con i genovesi per «abbattere i costi dello stesso». L'idea di andare tutti insieme a mangiare qualcosa a casa di uno degli indagati sarebbe nata in modo estemporaneo, dopo che questi «avevano suggerito alle ragazze di usare lo stesso taxi, un minivan, anche stavolta per dividere le spese». La donna fa anche il nome del presunto proprietario dell'appartamento: «Da quello che mi dice mia figlia, dovrebbe trattarsi del figlio di Beppe Grillo». È la prima volta, che in questa vicenda, viene pronunciato quel nome. La madre fa mettere a verbale anche il racconto delle prime avance subite dalla figlia, che, però, non avevano avuto conseguenze: «A quel punto i presenti nella casa hanno mangiato la pasta che aveva cucinato R., tranne mia figlia che è rimasta a digiuno perché non si sentiva molto bene. Nella circostanza i ragazzi avevano offerto nuovamente da bere alle ragazze». Per C.S. è in quel momento che i genovesi propongono alle nuove amiche di fermarsi a dormire da loro, promettendo di riaccompagnarle a casa più tardi. Ai carabinieri la mamma riferisce la versione della figlia sulle violenze subite. Compresi alcuni particolari specifici, come «la testa schiacciata contro la parete» dentro il box doccia o l'accappatoio lanciato da uno dei genovesi, «con una brutta faccia». C.S. riporta anche la reazione un po' sorprendente di R.: «S. era andata piangendo dall'amica, che nel frattempo ancora dormiva e le aveva chiesto di andare via perché nel frattempo era stata violentata. L'amica confusa aveva alzato le spalle senza dire nulla e si era rimessa a dormire». La mamma non sembra avere una grande opinione dell'amica di sua figlia: «R. è stata spesso a casa nostra e anche S. è stata sovente sua ospite, per quello che so non aveva un rapporto trasparente con la madre, ha un carattere molto forte, dominante anche su mia figlia che è una persona più genuina». Il pomeriggio del 17 R. e S. lasciano la casa dei presunti abusi e tornano al b&b. S. sarebbe stata particolarmente provata: «Mi ha detto che ha comprato la pillola del giorno dopo in farmacia, non so dire se con R., e mi ha detto che stava male e che avvertiva dolori fisici alle parti intime, alla testa, alla bocca e alle gambe. Stava molto male». Nei giorni seguenti la mamma si rende conto «che c'era qualcosa che non andava, perché S. era sempre stanca e nervosa, un po' irascibile». Venerdì 19 luglio i genitori raggiungono le figlie in Sardegna, come di consueto nei week end: «Siamo in confidenza con i titolari del b&b e chiediamo sempre loro di informarci su tutto, per esempio se le nostre figlie erano in compagnia di qualcuno e conoscevamo anche il gruppo di kite che frequentava mia figlia. Era un contesto che ritenevamo sicuro e che era sempre stato tranquillo e controllato fino alla sera in cui è arrivata R.». Ecco che cosa succede il 19 sera: «Al nostro arrivo eravamo consapevoli di trovare S. con un po' di febbre, a causa di un'insolazione, perlomeno questo è quello che ci aveva raccontato. Appena l'abbiamo vista ci siamo però resi conto che le sue condizioni erano pietose, tremava come in preda alle convulsioni». I genitori curano S. con antipiretici e stracci bagnati e il giorno dopo lasciano la ragazza a riposarsi con il padre. Quel sabato, però, in un altro passaggio del verbale, la mamma dice che la figlia e l'amica R. sarebbero andate a trovare A.C., il compagno di scuola che le aveva invitate al Billionaire. Domenica 21 luglio, la famiglia rientra a Milano: «Anche R. sarebbe dovuta partire con noi, ma non è riuscita prendere il volo perché era in overbooking ed è rimasta a Olbia, per tornare a Milano il giorno successivo» dice C.S.. Davanti alle due marescialle la figlia ha dichiarato di aver parlato in modo esplicito dello stupro con tre amiche il 18 luglio e di aver affrontato il discorso con la madre la sera del 24. In realtà, C.S. ha rivelato che il discorso era già stato intavolato: «Durante il viaggio in aereo (di domenica 21, ndr), ho provato più volte a chiedere a mia figlia che cosa avesse, per capire il suo malessere; perché era giù di morale, a prescindere dalla febbre, e la cosa mi era sembrata assai strana, visto che stavamo rientrando da un periodo di vacanza. S., lì per lì, mi ha raccontato, così a grandi linee, l'episodio della serata in discoteca, dicendo che l' avevano fatta bere e violentata senza entrare troppo nei particolari perché c'erano altre persone, promettendomi che mi avrebbe raccontato poi a casa. Le ho subito chiesto se R. sapesse dell'accaduto e mia figlia mi ha confermato che sapeva della prima violenza, perché era stata proprio lei a raccontargliela, ma non l'aveva aiutata perché dormiva». Non è tutto. «R. le aveva poi fatto promettere di concordare la versione del racconto della serata, temendo la reazione di sua madre, accordandosi per dire che erano state in discoteca, ma che erano rientrate a dormire nel b&b nelle prime ore del mattino, senza fare alcun cenno alla violenza sessuale». In sostanza, secondo C.S., la preoccupazione principale di R. sarebbe stata quella di non far saper alla propria madre che aveva dormito fuori e che l'amica era stata stuprata. Poi, però, avrebbe cercato di riallacciare i rapporti: «S. mi ha detto che R. in questi giorni le ha mandato diversi messaggi per chiederle come mai fosse distante senza che tuttavia lei rispondesse». Il 26 luglio carabinieri chiedono a C.S. se abbia messo da parte la tuta e la biancheria che S. portava la notte della presunta violenza e la donna risponde: «I vestiti che mia figlia indossava quella sera li ho, senza sapere, lavati quando siamo tornati a Milano e le ho disfatto la valigia». Nei giorni seguenti i genitori avrebbero «più volte provato a tornare in argomento» con la figlia, «per capire di più e convincerla a denunciare i fatti». Il 25 luglio la madre approfitta di un appuntamento programmato con la propria ginecologa per portare con sé S. per una visita di controllo. La dottoressa appena apprende la vicenda consiglia di recarsi subito presso il pronto soccorso della clinica Mangiagalli, specializzata in violenze carnali, per degli esami specifici. «Siamo stati lì fino a mezzanotte e mezza per poi tornare nella mattinata seguente per effettuare dei colloqui con la psicologa e con gli assistenti sociali e dopo siamo venuti qui in caserma da voi» prosegue la donna. Con gli investigatori, il 26 luglio, parte la caccia ai presunti stupratori. C.S. spiega: «Ho chiesto a mia figlia se era in grado di dirmi l'identità dei quattro ragazzi che hanno abusato di lei. Non ricordava i cognomi, ma li ha cercati su Instagram, poiché durante la serata si erano scambiati i profili». Grazie a una foto pubblicata da uno dei quattro, S., «tramite la geolocalizzazione [], è riuscita a ricordarsi la località in cui era ubicata la casa ove si sono consumati gli abusi». La studentessa non aveva riferito alla madre «molti particolari fisici o caratteristiche dei violentatori», salvo che «sono tutti di Genova, vivono lì e che sono figli di persone potenti». Infatti «uno dei quattro è figlio del noto Beppe Grillo» specifica la testimone. Il verbale prosegue: «Ho chiesto a mia figlia se fosse a conoscenza di video e foto realizzati dai suoi aggressori durante la serata, ma mi ha detto che, per quello che sapeva, non ne erano stati fatti []. Le ho chiesto se aveva notato per caso qualcuno metterle delle sostanze, pillole o altro nei drink o nei bicchieri, ma lei mi ha detto di non essersene accorta, mi ha solo detto che la vodka [] consumata» nella casa degli aggressori «aveva uno strano sapore e i ragazzi "puzzavano di fumo" []. Per quanto ne so, mia figlia non fuma, non beve, se non in compagnia, e non fa uso di sostanze stupefacenti». Ma tutto ciò non è bastato a evitarle questa brutta avventura.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 6 maggio 2021. Sul loro gruppo Instagram «official_mostri», i quattro presunti stupratori della giovane S. avevano indicato le regole da seguire per «vivere sempre e comunque da mostri»: «Scittare, bere, bettare». Bettare, viene dal verbo inglese to bet, scommettere, mentre scittare ha un'origine genovesizzata. Infatti nel capoluogo ligure lo scitto è la droga leggera, una storpiatura dell'inglese shit che identifica l'hashish. Ma se Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria si presentavano così sui social, sembra che la droga sia il convitato di pietra anche della folle notte tra il 16 e il 17 luglio 2019. Quella in cui S. sarebbe stata violentata dal branco e l'amica R. sarebbe entrata, a sua insaputa (stava dormendo), in almeno tre foto oscene. Infatti gli indagati avrebbero proposto alle loro presunte vittime di sballarsi insieme, ricevendo in risposta un cortese rifiuto. Secondo Il Fatto Quotidiano, nel verbale reso davanti ai carabinieri della compagnia Milano Duomo il 27 agosto 2019, R. ha dichiarato: «I ragazzi tra loro parlavano di erba e di dove l'avessero nascosta, parlavano del fatto di averne già fumata e di averne avanzata, anche se non ho visto nessuno fumare». S., un mese prima, aveva detto: «Abbiamo chiacchierato un po', gli altri hanno bevuto e fumato sigarette, io non ho bevuto né fumato. Non ho notato la presenza di sostanze stupefacenti». Anche la mamma di S. ha parlato di possibili droghe: «Ho chiesto a mia figlia se aveva notato per caso qualcuno metterle delle sostanze, pillole o altro nei drink o nei bicchieri, ma lei mi ha detto di non essersene accorta, mi ha solo detto che la vodka [] consumata» nella casa degli aggressori «aveva uno strano sapore e i ragazzi "puzzavano di fumo". Non le ho chiesto se per fumo intendeva l'odore di una normale sigaretta o di sostanze stupefacenti. Per quanto ne so, mia figlia non fuma, non beve, se non in compagnia, e non fa uso di sostanze stupefacenti». Dal passato di S. emerge anche un altro trauma, come rivelato dalla Verità la settimana scorsa, ovvero la storia di un precedente stupro mai denunciato e subito da un compagno di classe, durante una vacanza in tenda in Norvegia. R. in caserma l'ha ricostruita così: «S. si era svegliata con un amico nella sua tenda a metà della notte []. Questo episodio aveva creato problemi coi compagni di classe, la fidanzata di quel ragazzo l'accusava di aver cominciato lei e di essersi inventata tutto». R. ha ripetuto questa versione quasi un anno dopo ai magistrati di Tempio Pausania che indagano sulle violenze che sarebbero avvenute a casa Grillo: «L' episodio riguardava quando si trovava in Norvegia in campeggio e la violenza sarebbe stata commessa da un suo amico mentre dormiva. S. non denunciò l'episodio alle autorità» ha ribadito la giovane. Anche A. M., un'altra compagna di classe di S. , aveva confermato che l'amica italo-norvegese aveva fatto riferimento allo stupro in tenda, ma «senza entrare nei particolari». Nel febbraio del 2020 è proprio S. a rivelare i dettagli di quel drammatico evento ai pm: «In passato, quando ero in Norvegia, c'era stato un flirt con un mio amico, con il quale condividevo la tenda in un camping scolastico. Ricordo che mi ero addormentata e lui mi aveva penetrata. È accaduto nel 2018. In quell' occasione mi ero svegliata accorgendomi che lui stava venendo, quindi uscivo dalla tenda e scappavo nel bosco a piangere. Non ho mai denunciato il fatto perché non avevo capito che cosa fosse successo, ma anche per paura e perché lui era il mio migliore amico. Non volevo parlare con nessuno di questa cosa. A mia madre l'ho raccontato solo un anno dopo. Lo sapevano R. e A. e l'ho confidato anche all' istruttore di kite». Nel suo verbale R. racconta, sempre secondo Il Fatto Quotidiano, anche i pochi ricordi che ha della notte delle presunte violenze, quando lei si era addormentata sul divano: «In un'occasione Ciro Grillo urlava a uno degli altri in corridoio, era arrabbiato perché S. era in camera con qualcuno, io ho subito pensato a Corsiglia: "Io me la sono portata a casa perché me la volevo scopare, invece se la sta scopando lui". L'amico provava a calmarlo: "Tanto era brutta, ne troviamo un'altra domani"». R. avrebbe riaperto gli occhi anche in un altro momento: «In un caso mi si è avvicinato Ciro, che mi ha chiesto se ero sicura di voler dormire sul divano o se volessi andare con lui. Gli rispondevo che stavo benissimo lì e lui si è allontanato senza insistere». L’ultima volta è S. a far sussultare R.: «Era accovacciata accanto a me in accappatoio e piangeva. Le ho chiesto cosa stesse succedendo, ma lei singhiozzava []. Dopo aver pianto ancora si è calmata e mi ha detto di non preoccuparmi, che stava bene». In realtà, poco dopo, avrebbe subito un'altra violenza e la mattina successiva R. l'avrebbe trovata «confusa e sconvolta»: «Aveva tutto il trucco colato, credo per il pianto, si guardava intorno come se non sapesse dove si trovasse. Mi era capitato di vederla ubriaca, ma mai in questo stato, non mi è sembrato che fosse per gli effetti dell'alcol». Tornate a Milano, le due amiche non avrebbero più parlato di quella nottata sino al 2 agosto 2019: «Lei mi ha detto che si stava facendo aiutare, presumo da uno psicologo, e che non dovevo preoccuparmi, che ne aveva parlato con la madre e che avrebbe preso provvedimenti» ha concluso R..

Giacomo Amadori per “la Verità” l'8 maggio 2021. Capelli biondi mossi, fisico asciutto e abbronzato, collanina d' ordinanza: in poche parole il maestro di kitesurf come te lo aspetti. È lui uno dei primi testimoni chiamati a confermare la versione di S.J., la ventenne italo-norvegese che sostiene di essere stata violentata, la mattina del 17 luglio 2019, da Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Il 25 agosto 2019, Marco G., quarantacinquenne originario di Gorizia e trapiantato in Sardegna per amore del mare, davanti ai carabinieri del Reparto territoriale di Olbia, ha mostrato innanzitutto le chat che aveva scambiato con S. quel 17 luglio. Alle 12.10, mentre S. sta ancora dormendo a casa di Ciro e compagni, le scrive per avvertirla che si è infortunato e che quindi non potrà essere presente alla lezione delle 15. L' uomo allega anche la foto della caviglia gonfia. Un paio d' ore dopo S. viene svegliata dall' amica R.M. che la trova «confusa e sconvolta [] con tutto il trucco colato [] per il pianto». Alle 14.36 S. sembra voler far finta di nulla con il maestro: «Uddio come stai? Come cazzo hai fatto?». Passano venti minuti e S. realizza: «Nooo quindi oggi non sono con te giusto? Mi spiaceeeeee. Spero che tu ti rimetta presto». Altri venticinque minuti e S. digita: «Marco ieri sera ho fatto casino poi quando ci vediamo ti racconterò». Alle 15.47, mentre la «grande kiter» (così la chiama il maestro) sta andando a lezione, Marco G. replica: «Spero non si tratti di nulla di grave». E lei gli manda questo vocale: «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono, comunque ehm sto andando a lezione, mi spiace un casino che non ci sei []. Niente spero di vederti presto così, cioè, parliamo e ci divertiamo (ride, annotano gli investigatori, ndr)». Marco G. ipotizza che quel riferimento alle «5 dita in faccia» potesse significare «che per quello che aveva fatto si meritava una sberla». Le chat proseguono la sera: «Alle ore 20.25 mi ha risposto di non preoccuparmi che quando ci saremmo visti mi avrebbe parlato. Subito dopo mi ha mandato un messaggio chiedendomi che cosa avessi fatto al piede e alle 20.27 mi ha inviato un ulteriore audio raccontandomi, peraltro con voce soddisfatta e felice, della lezione che aveva sostenuto con la mia collega Francesca e che aveva fatto un figurone. Dopo un minuto mi ha mandato un nuovo audio in cui ha specificato che nonostante la lezione fosse andata benissimo, si era recata in spiaggia senza avere dormito e ubriaca. Si giustificava dicendo che era andata perché aveva bisogno di uno "stacco", ma non l'avrebbe fatto mai più. Le ho risposto che avevo provato a telefonarle e che mi sentivo più tranquillo nell' apprendere che la cazzata che aveva fatto era riferita all' ubriacatura e al fatto che non avesse dormito. Quindi la consolavo dicendole che alla sua età erano cose che capitavano». L'ultimo messaggio risale alle 23.19, quando S. scrive: «Marco sono collassata dal sonno e mi sa che tra un po' mi riaddormenterò». Nei giorni successivi i due si sono rivisti, forse in occasione dell'ultima lezione, avvenuta il 21 luglio, quando la giovane è tornata a Milano con i genitori. Marco G. ricorda: «Mentre ci stavamo dirigendo [] in acqua, S. ha iniziato il discorso, informandomi che la sera in cui era successo il casino si era ubriacata. Poi era entrata in acqua per fare la lezione e io ho percepito dal suo atteggiamento che aveva bisogno di esternare un qualcosa. Infatti durante i tempi morti della lezione ha iniziato a raccontarmi, in maniera peraltro confusionaria, che le era successa una cosa brutta e non sapeva come comportarsi. Io mi sono preoccupato e le ho chiesto cosa fosse accaduto. Lei ha replicato "Eh, è che è successo di nuovo". A seguito di questa frase ho subito immaginato che si stesse riferendo alla confidenza che mi aveva fatto l' anno prima, ossia che era stata abusata dal suo migliore amico». A questo punto un investigatore chiede spiegazioni. Risposta: «In sostanza, sempre durante una lezione, S. mi aveva confidato che il suo migliore amico d'infanzia, senza rivelarmi il nome, l' aveva costretta a un rapporto sessuale anche se lei non era d'accordo e mi chiedeva come si doveva comportare. Ricordo che la esortai a fare due cose: denunciare l'accaduto e renderlo pubblico oppure parlare con il suo amico per costringerlo, in un certo senso dandogli due alternative, a farsi aiutare da qualcuno competente oppure che lo avrebbe denunciato. Lei lo descriveva come il suo migliore amico e (diceva, ndr) che gli voleva molto bene e che in passato si erano baciati senza andare oltre». Marco G. riferisce di aver riaffrontato l'argomento in tempi più recenti: «Quest' anno mi ha confermato di averne parlato con lui, il quale sentendo le accuse era caduto dalle nuvole, ritenendo il rapporto sessuale consenziente. S. aveva, quindi, deciso di non denunciarlo perché, a suo dire, gli aveva creduto. Se devo esplicitare la sensazione che ho avuto durante il racconto, ho pensato che S. si stesse arrampicando sugli specchi, perché, essendo una vittima, avrebbe dovuto approfondire la cosa e, invece, non aveva fatto nulla, né lo aveva denunciato, né lo aveva comunque aiutato, credendo alla sua dichiarazione. Quindi ho pensato che la ragazza stesse cercando di attirare la mia attenzione. Faccio presente che nel mio ambiente lavorativo, poiché si entra in sintonia con gli allievi, mi è capitato di ricevere da loro confidenze, a mio avviso talvolta poco veritiere». Ricordiamo che S. ha vissuto dal 2017 al giugno del 2019 in Norvegia insieme con il padre originario di Oslo, mentre madre e sorella sono rimaste a Milano. Lassù la presunta vittima ha frequentato il quarto e quinto anno di liceo «in quanto non si trovava bene nella scuola italiana». E nel 2018, in Norvegia, S. avrebbe subito la prima violenza. Che la giovane ha menzionato ai magistrati nel febbraio 2020: «In passato, quando ero in Norvegia, c'era stato un flirt con un mio amico, con il quale condividevo la tenda in un camping scolastico. Ricordo che mi ero addormentata e lui mi aveva penetrata. È accaduto nel 2018. In quell' occasione mi ero svegliata accorgendomi che lui stava venendo, quindi uscivo dalla tenda e scappavo nel bosco a piangere. Non ho mai denunciato il fatto perché non avevo capito che cosa fosse successo, ma anche per paura e perché lui era il mio migliore amico. Non volevo parlare con nessuno di questa cosa». Ma poi l' ha confidata alla madre, a due amiche e al maestro di kite. Marco G., con i carabinieri, prosegue il resoconto delle confidenze ricevute da S.: «Quando mi ha detto che le era successo di nuovo le ho subito chiesto di cosa si trattasse. Lei mi ha riferito, in maniera a mio avviso piuttosto confusa e contraddittoria, di essere uscita in un locale, non ricordo se mi abbia detto quale, e di aver conosciuto dei ragazzi, tipo 5 o forse 7, non lo ricordava perché aveva bevuto. Alla fine questi ragazzi, forse 4, avevano abusato sessualmente di lei. Il racconto, come detto, era alquanto confusionario e S. sosteneva sempre di non ricordare bene l'accaduto perché era molto ubriaca e non sapeva neanche se fosse accaduto di sera o di mattina. Sinceramente, per i molti non ricordo che S. stava esprimendo, non ho creduto più di tanto a quello che mi stava dicendo e le ho detto che non sapevo cosa consigliarle. Le ho comunque fatto presente che la cosa da lei raccontata era molto grave e il fatto che fosse stata ubriaca e non ricordasse i particolari non andava certo a suo favore in caso di denuncia e poteva andare incontro a conseguenze». Il maestro, infine, dice di non aver notato eventuali lividi sul corpo di S., anche perché gli allievi usano la muta lunga.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 9 maggio 2021. Nel nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui La Verità è venuta in possesso viene citato un nuovo video, che permette di comprendere meglio che cosa sia accaduto nella notte tra il 16 e il 17 luglio in cui Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria avrebbero abusato delle coetanee S.J. e R.M. L'accusa riformata (il capo B) riguarda tutti gli indagati per stupro di gruppo, tranne Corsiglia: «Tutti riuniti tra loro» si legge nell'atto, «presenziavano, filmavano, scattavano e si immortalavano vicendevolmente, utilizzando il telefono di Capitta, nei video e nelle fotografie sottoelencate in cui esponevano i propri genitali avvicinandoli alla testa della M. e in un caso, arrivando fino a toccarne la fronte, mentre la medesima si trovava in stato di incoscienza perché addormentata, cosi da costringerla a subire tali atti sessuali». Poi i magistrati descrivono i contenuti, tra cui quello del video, che sembra corrispondere a quello a cui ha fatto riferimento Beppe Grillo nel suo discusso intervento pubblico in difesa del figlio e in cui sosteneva che i ragazzi «sono quattro coglioni col pisello così»: «Alle ore 6 e 25, Grillo e Lauria si facevano riprendere da Capitta in un video mentre si scoprivano i genitali e Grillo, tenendosi i genitali in mano, si posizionava in piedi a lato del divano su cui R. M. poggiava la testa, rivolto in direzione di quest' ultima; alle 6 e 39, Lauria si faceva immortalare in una fotografia mentre si trovava in piedi con i genitali esposti frontalmente e in prossimità del viso della M.; alle ore 7 e 15, uno di loro si faceva immortalare in due fotografie mentre si trovava in piedi in posizione frontale rispetto al viso della M. ed appoggiava i propri genitali sulla fronte della medesima». Ma dalle carte dell'inchiesta spuntano anche altri episodi, in gran parte inediti, che permettono di ricostruire meglio quella notte di eccessi. S. a verbale ha raccontato di avere bevuto 2 o 3 drink alcolici tra le 22 e le 23 e 30 in un bar del porto di Arzachena. R. ha dichiarato che tutti e tre (con loro c'era anche un ex compagno di classe delle ragazze, A.C.) hanno bevuto due drink, mettendo a verbale di aver bevuto uno spritz e una piña colada. A.C. invece ha dichiarato di aver «bevuto tre drink, tra cui un "americano"» e che le ragazze hanno preso «due consumazioni alcoliche a testa», senza però ricordare quali. In discoteca S. ha invece mandato giù una vodka con Redbull e un bicchiere di champagne. Ha poi bevuto vodka anche a casa dei ragazzi, al mattino. Dice di non aver fumato, mentre la madre di S. ha riferito che i ragazzi odoravano di «fumo», aggiungendo di non aver chiesto alla figlia se parlava «di sostanze stupefacenti», R., invece, ha raccontato che i ragazzi «tra loro parlavano di erba ed in particolare chiedevano l' un l'altro dove l' avessero messa, dove fosse e la cercavano in casa e nelle rispettive stanza []. Parlavano anche del fatto di averne già fumata, infatti cercavano quella che era avanzata». S. dice che la vodka bevuta a casa Grillo aveva un «odore strano». È un riferimento alla droga dello stupro? Era in queste condizioni S. di dare un consenso non viziato? La vodka che la ragazza sostiene di essere stata costretta a ingoiare dai suoi presunti stupratori, l'avrebbe bevuta intorno alle 9. Dopo il rapporto con Corsiglia che è avvenuto, invece, almeno un'ora e mezzo dopo aver lasciato la discoteca e dopo aver mangiato un po' di pasta. Secondo R.M. l'amica S. e Ciro Grillo in discoteca «si baciavano, il bacio era partito da lui e dopo pochissimo S. si staccava. Non mi è sembrato che lo respingesse in modo brusco, ma conoscendola mi è sembrato che non corrispondesse l'interesse di lui». S. avrebbe ballato anche con gli altri, in particolare con Corsiglia. S. racconta che alle 5 del mattino i ragazzi le hanno invitate a dormire da loro e che lei e l'amica hanno accettato non essendoci «taxi disponibili». Ma per A.C., che sostiene di aver lasciato il Bilionaire intorno alle 3, quell' opzione era già stata decisa prima che lui e le ragazze si separassero: «R. mi aveva detto comunque di non preoccuparmi, perché loro avrebbero preso un taxi o sarebbero andate a dormire dai ragazzi, o meglio da Ciro, e l'indomani le avrebbero riaccompagnate a Porto Pollo. Sentito ciò uscivo dal locale». Per R.M. e per la mamma il taxi condiviso serviva a risparmiare. I ragazzi si sono fatti un'idea sbagliata di quelle due studentesse che hanno accettato di andare a dormire a casa di giovani conosciuti la stessa sera? Forse sì, visto che anche R. M. racconta di aver respinto le avances di almeno tre dei quattro ragazzi. Durante il tragitto in taxi, secondo R., l'amica S. «aveva disteso le gambe sui sedili di fronte a lei, non ricordo se accanto a Corsi (Corsiglia, ndr) o sulle sue gambe, e che lui le appoggiava le mani sulle gambe». Arrivati a casa, mentre gli altri preparano la cena, Corsiglia tenta un primo approccio con S., che la ragazza racconta così: «Dapprima mi ha baciato in bocca, ma io l'ho fermato dicendo che non volevo. Lui mi ha detto che "voleva solo scopare". Gli ho risposto di no e lui ha insistito dicendomi: "Cosa ti costa farmi solo un bocchino?"». Dopo averlo respinto S., avrebbe, però, mantenuto un atteggiamento molto confidenziale con il ragazzo: «S. e Corsi mangiavano nello stesso piatto, ho notato che parlavano molto tra di loro ed erano seduti molto vicini, ognuno sulla sua sedia, mentre dopo ho visto che S. si sedeva in braccio a Corsi» ha raccontato R.. A verbale, però, S. ha dichiarato di non aver cenato. Dopo essere andata a dormire, accompagnata da Corsiglia, secondo S., c' è stato un doppio rapporto non consenziente che avrebbe avuto luogo prima in camera e poi in bagno. R.M., che dormiva su un divano, dichiara di essere stata svegliata una prima volta dalla voce di Ciro Grillo che si lamentava dicendo: «Io me la sono portata a casa perché me la volevo scopare e invece se la sta scopando lui». Ma per S. quel rapporto, come detto, non era consenziente. Un'amica di S., A.M. ha raccontato ai pm come sarebbe degenerato il rapporto tra Corsiglia e la italo-norvegese: «Lei era andata in una stanza con Francesco, avevano iniziato a baciarsi ma quando lui ha voluto di più lei ha rifiutato ed a quel punto lui la costringeva a stargli sotto, l'ha spogliata completamente e poi avrebbe abusato di lei». Agli atti dell' inchiesta sono state depositate altre foto che dimostrerebbero come S., intorno alle 7 del mattino, sarebbe andata a comprare le sigarette a un distributore automatico, insieme al suo presunto primo stupratore, Corsiglia, Capitta e Lauria, mentre Ciro sarebbe rimasto a casa a riposare. Secondo quanto risulta alla Verità, le difese collocano quella foto, grazie a un' importante testimonianza, dopo il rapporto sessuale tra S. e Corsiglia, un elemento che, unito ad altri, proverebbe la consensualità del rapporto. Una delle immagini immortalerebbe anche un gesto di confidenza tra Corsiglia e la ragazza. Dopo il presunto stupro di gruppo e un breve sonno, nel primo pomeriggio, i ragazzi non hanno riaccompagnato le ragazze al b&b, come invece avevano promesso di fare, ma solo fino ad Arzachena, perché, secondo il racconto di R., «Porto Pollo era troppo lontano e loro avevano altri impegni nel pomeriggio». Nei giorni successivi l'amico A.C. incontra di nuovo, casualmente, Ciro Grillo al quale chiede come fosse andata con la sua amica, sentendosi rispondere: «Le abbiamo trattate come dei veri gentleman». Nella testimonianza di A. M. emergono alcuni importanti elementi, tra cui un'apparente contraddizione sull'assunzione da parte di S. della pillola: «Mi chiese un consiglio per evitare un'eventuale gravidanza ed io le consigliai di rivolgersi subito ad una farmacia e di prendere la pillola dei 5 giorni dopo, cosa che poi mi ha scritto di aver fatto». La telefonata sarebbe avvenuta la notte del 21 luglio, ma S. ha dichiarato a verbale che aveva assunto, quasi subito, la pillola del giorno. A.M. racconta anche di aver ricevuto da S. sull'app Snapchat alcune foto con dei lividi collegati forse alla violenza: «Ricordo di alcune foto di lei davanti a uno specchio in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia o all' altezza del bacino. Disse di avvertire dolori nelle parti intime. Purtroppo l'applicazione cancella foto e messaggi subito dopo la lettura. E io non li ho salvati perché avevo timore di metterla in imbarazzo, poiché stava perdendo molto peso in maniera molto preoccupante e non era seguita da alcun specialista». A.M. conclude la sua deposizione dicendo che S. «ultimamente ha ripreso peso e, purtroppo, sta mostrando ad alcuni ragazzi alcune sue foto attraverso l'applicazione "Instagram" o forse anche altre. Quando era in Norvegia mi disse che faceva lo stesso ma con Tinder (app di incontri, ndr) e ha scambiato più foto con più ragazzi», anche immagini «in abbigliamento intimo e non». A. ha anche riferito che S. è una ragazza «un po' troppo influenzabile» e che, mentre le conoscenze femminili la rispettano, i ragazzi pensano che sia «una ragazza più facile di altre». Tanto che in un bar aveva sentito dire da un cameriere che «alcuni ragazzi della Cattolica, riferendosi a S., dicevano che anche loro in tempi diversi, in discoteca, se l'erano già fatta». Gossip crudeli che S. mal sopportava, tanto da sfogarsi con la madre, come ha riferito ai magistrati: «Le ho confidato che avevo tante cose per la testa e le ho detto che c' erano tanti pettegolezzi in giro sul mio conto che mi mettevano in cattiva luce».

Grillo jr, "Silvia? Eccitata ed euforica" Doppia versione dell'istruttrice di surf. Affari Italiani l'11/5/2021. Caso Grillo, "Silvia? Era eccitata ed euforica alla mia lezione di kite surf". Il caso di Ciro Grillo e i suoi amici, accusati di stupro di gruppo ai danni di due ragazze in una notte di agosto del 2019 in Costa Smeralda, si arricchisce di nuovi sviluppi. Ad aggiungersi alle tante testimonianze raccolte su quella controversa nottata, arriva la ricostruzione dell'istruttrice di kite surf di una delle presunte vittime delle violenze da parte del figlio del garante del M5s e dei suoi compagni. La versione della donna, ribalta il quadro. Silvia aveva fatto mettere a verbale di aver abusato con la vodka, di avere dolori su tutto il corpo essendo stata abusata da tutti i ragazzi presenti in casa. Ma l'istruttrice di kite surf racconta questa versione, sul giorno successivo alle violenze, quando viene interrogata dai carabinieri. "Silvia, mi è sembrata eccitata ed euforica. Escludo - si legge sulla Verità - che abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto l'effetto di alcolici, perchè altrimenti non le avrei permesso di iniziare la lezione". Ma la stessa donna, Francesca Brero, intervistata da Corriere della Sera e Repubblica lo scorso 9 maggio, racconta una storia totalmente diversa. "Era arrivata in semi hangover. Non al massimo della lucidità, diciamo così. Mi è sembrata una di quelle ragazze che arrivano stonate a fare lezione. Mi ha detto che aveva bevuto molto". Insomma, una versione dei fatti totalmente ribaltata rispetto a quanto fatto mettere a verbale davanti ai carabinieri. Anche Marco Grusovin, l'altro istruttore ha dato due versioni in totale contrasto. Quando Silvia le ha raccontato dell'altro stupro subito in una vacanza in Norvegia, lui ha risposto così agli inquirenti: "Non ho creduto molto peso a quello che mi stava dicendo". Ma in televisione, intervistato da quarto grado cambi il suo ricordo di quel giorno. "Ho visto Silvia dolorante e molto confusa".

"Mentre davo i caffè...": cosa non torna sul caso Grillo. Francesca Galici il 10 Maggio 2021 su Il Giornale. Il caso di Ciro Grillo continua a tenere banco a Non è l'arena, dove l'albergatore ha rivelato le modalità di raccolta della sua testimonianza. Il caso di Ciro Grillo e del presunto stupro di gruppo compiuto insieme ad altri tre amici ai danni di una coetanea continua ad arricchirsi di nuovo dettagli. Durante la puntata di Non è l'arena, Massimo Giletti è tornato sulla questione, cercando anche testimonianze inedite da parte dei protagonisti, che raggiunti dai giornalisti si sono chiusi nel silenzio e hanno preferito tacere. È un tema che il programma tratta da settimane, soprattutto dopo il video di Beppe Grillo che ha portato la questione anche sul piano politico. Massimo Giletti ha messo al centro della puntata il racconto delle ragazze, fatto attraverso i verbali che riportano la versione delle presunte vittime. Silvia e Roberta, nomi fittizi delle due ragazze, frequentano un istituto prestigioso di Milano e hanno scelto la Sardegna per la loro vacanza estiva. Scelgono di trascorrere una serata in Costa Smeralda ed è qui che conoscono la comitiva di Ciro Grillo. Loro alloggiano in un b&b ai confini di quella parte dell'isola, lontano dalla movida sfrenata delle località più note. Anche per questo motivo accettano di trascorrere la notte a casa di Grillo vista l'assenza di taxi disponibili a tarda notte per tornare nel loro alloggio. A Non è l'arena è tornato a parlare proprio il gestore della struttura ricettiva scelta da Roberta e Silvia, che pare abbia ricordi nitidi di quella notte di due anni fa. Daniele Ambrosiani, titolare del b&b nel quale le due ragazze soggiornavano, è tornato sull'argomento anche sulla base di discordanze nelle sue dichiarazioni. In particolare, sono alcune dichiarazioni dell'uomo che sembrano non essere in linea nei suoi diversi racconti. "Non abbiamo mai detto che erano felici, mi sembravano due ragazze tornate da una nottataccia in giro. Noi con gli inquirenti abbiamo parlato un'ora con i carabinieri, quello che risulta sono solo i primi 5 minuti", ha ribadito Daniele Ambrosiani. Nei verbali delle forze dell'ordine sono presenti le dichiarazioni della sua fidanzata, con la quale gestisce il b&b, e che lui avrebbe confermato. L'albergatore ha raccontato la verbalizzazione della loro testimonianza da parte delle forze dell'ordine: "Noi sul momento siamo stati un po' vaghi, pensavamo addirittura che ci venissero a chiedere qualcosa che avevano fatto le ragazze. Sono venuti la prima volta mentre io servivo le colazioni. Ogni tanto io mi allontanavo per preparare dei caffè, poi mi hanno chiesto se ero d'accordo con la mia ragazza e io sono solitamente d'accordo con lei". L'albergatore, quindi, ha ripetuto quanto detto la prima volta a Non è l'arena: "Le ragazze erano scosse nei giorni successivi, lo confermo, com'era uscito con gli inquirenti e forse non l'hanno messo a verbale. Non credo mi abbiano dato una copia del verbale. La ragazza mi ha dato la sensazione di non essere più quella di prima". Dal racconto di Daniele Ambrosiani fatto a Non è l'arena pare emergano alcune discrepanze rispetto a quanto messo a verbale, dove l'albergatore sostiene che manchino alcune sue dichiarazioni.

Fabio Amendolara per "la Verità" l'11 maggio 2021. I verbali dell'inchiesta sul presunto stupro di gruppo che vede Ciro Grillo & company accusati di una violenza sessuale di gruppo che si sarebbe consumata il 17 luglio 2019 ad Arzachena, in Costa Smeralda, fotografano una realtà che ora i testimoni sembrano ribaltare. È come se ci fossero due storie parallele e diametralmente opposte: una raccontata davanti agli investigatori (dove i testimoni hanno l'obbligo di dire la verità) e l'altra davanti al tribunale mediatico. L' atteggiamento di S. J., la diciannovenne che ha denunciato di essere stata stuprata, durante lezione di kite surf a Porto Pollo, per esempio, si è trasformato drasticamente. Francesca Brero, l'istruttrice con la quale S. J. quello stesso 17 luglio aveva fatto lezione, davanti ai carabinieri di Palau, il 27 agosto 2019, ha reso questa versione dei fatti: «Quando ci siamo presentate mi è sembrata una ragazza vivace, solare ed estroversa. Posso dire che era eccitata ed euforica [...]». La lezione deve essere andata bene, perché la testimone verbalizza: «Ricordo che la ragazza era molto entusiasta e felice della sua performance». Inoltre non si sarebbe lasciata andare a confidenze di sorta su come aveva trascorso la serata in Costa Smeralda. «Eravamo a fine lezione», verbalizza Francesca, «ed è stato un commento estemporaneo». Poi le viene chiesto se le sembrava che avesse potuto abusare di alcolici. E la testimone risponde: «Escludo che abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti di alcolici, perché non le avrei consentito di iniziare la lezione». E ha anche aggiunto, a proposito dello stato d' animo di S. J., «il suo stato d' animo potrebbe essere motivato dalla spensieratezza della sua età, dall' essere in vacanza e dal praticare uno sport, il kite surf, con successo e dalla performance, come detto, che ha avuto quel pomeriggio con me». Fin qui la versione che è finita nell' inchiesta e che hanno letto i magistrati inquirenti. Al Corriere della Sera, domenica 9 maggio 2021 (e in un'intervista fotocopia su Repubblica), però, Francesca fornisce una ricostruzione che deve aver fatto letteralmente saltare sulla sedia i carabinieri che avevano raccolto la sua testimonianza. «S.J.», secondo l'istruttrice, «quel giorno era arrivata in semi hangover, non proprio al massimo della lucidità, diciamo così. Mi è sembrata stonata, di quelle ragazze che arrivano stanche a fare la lezione, di sicuro non lucida». Altro che performance di successo. Poi, a proposito dei commenti sulla serata in Costa Smeralda, aggiunge: «Mi ha detto che avevano bevuto parecchio, come le ragazze di quell' età che fanno le sei del mattino. Arrivano stanche e lei lo era sicuramente molto». Ai carabinieri aveva detto che se si fosse accorta che aveva bevuto le avrebbe impedito di partecipare alla lezione. Ma non è l' ultima stranezza. L'istruttrice trasforma anche l'esito della lezione che, se davanti ai carabinieri era stata descritta come un'ottima performance, con il Corriere diventa una débâcle: «Se non ricordo male non ce l'ha fatta a finirla». Ma anche nella versione dell'altro istruttore, Marco Grusovin, c'è qualcosa che non torna. Sentito negli uffici del Nucleo operativo radiomobile del reparto territoriale di Olbia, ha raccontato di conoscere S. J. dall' anno precedente. Con lui c' era una certa confidenza, tanto che la ragazza gli aveva anche raccontato del precedente stupro in Norvegia. E lui le aveva anche dato dei consigli. L' istruttore, sentita la storia, però, pensò che la ragazza stesse cercando di attirare la sua attenzione. Ma a suo giudizio il racconto era «confuso e contradditorio». E a verbale aveva precisato: «Non ho creduto più di tanto a quello che mi stava dicendo». Durante la puntata di Quarto grado di venerdì 7 maggio, però, l' istruttore ha parzialmente ribaltato la deposizione. Ha detto che S. J. «era dolorante e molto confusa», ma non ha mai messo in dubbio la versione della ragazza, anzi si è preoccupato di evidenziare i consigli che le aveva dato. Ma è nel lancio dell' intervista che emerge un particolare che apre un nuovo scenario. La giornalista Martina Maltagliati afferma di aver parlato molto al telefono con il testimone. E a un certo punto dice: «Proprio in questi giorni ha cercato tramite il legale di S. J. di contattarla perché è in apprensione, vuole sapere come riesce a reggere tutta questa pressione». Una notizia che potrebbe aver fatto rizzare i capelli in testa agli avvocati degli indagati, considerando che tra quella sentita in tv e il verbale dell' agosto del 2019 la versione del maestro sembra essere un po' cambiata. Come era già accaduto con quella dei due gestori del Bed and breakfast in cui avevano alloggiato le ragazze. Maika Pasqui, con l' intervento di Daniele Ambrosiani che a fine verbale ha confermato le dichiarazioni della compagna, ai carabinieri di Olbia che il 22 agosto 2019 hanno fatto visita al B&B per raccogliere la loro versione ha dichiarato: «Durante il loro soggiorno le abbiamo viste poco e posso dire che erano tranquille [...]. Non ho notato situazioni particolari e le due ragazze erano molto serene [...]». Nel verbale, gli investigatori annotano anche che il compagno Ambrosiani, quando le due ragazze erano rientrate al B&B, «ha avuto la sensazione che erano entrambe felici». Poi, però, lo stesso albergatore a Non è l' Arena del 25 aprile 2021, ha fornito una versione differente: «Da quel ritorno in taxi, da questa serata, non ci sono più sembrate le stesse ragazze allegre e spensierate che ci eravamo abituati a vedere []. Soprattutto la ragazza che poi abbiamo scoperto aver fatto la denuncia era diventata schiva. Era diventata molto riservata e più che altro triste. [...] Avendo un Bed and breakfast gli ospiti vivono a casa nostra, fanno colazione con noi, quindi il rapporto anche se sono quasi sconosciuti è quotidiano». Ma c' è una terza versione. Sempre a Non è l' Arena, il 9 maggio, lo stesso albergatore risponde alle domande di Francesco Borgonovo, e sostiene che il verbale «è impreciso». E che quelle «sono le parole della fidanzata e non le "nostre"»: «Io c' ero e non c' ero in quella situazione, avevamo ospiti e poi mi hanno chiesto se ero d' accordo con quello che aveva detto la mia fidanzata», aggiunge. «Noi con gli inquirenti abbiamo parlato per più di un' ora e quello che c' è nel verbale sono i primi cinque minuti. Forse hanno voluto trascrivere solo quelle parole. Sul momento probabilmente anche noi forse siamo stati un po' vaghi. Pensavamo che ci venissero a chiedere addirittura qualcosa che avevano fatto le ragazze». E la parola «felici»? «Non l' ho mai usata», dice l' albergatore. «Con gli inquirenti ho usato altri termini. Ho detto che sembravano due ragazze tornate da una nottataccia in giro», ma «forse non l'hanno messo a verbale». Adesso gli inquirenti potrebbero voler sentire nuovamente i testimoni. Per capire se abbiano mentito o se, invece, abbiano sbagliato gli investigatori.

"Svegliata dalle urla di Ciro Grillo". E spunta pure la droga. Luca Sablone il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Il racconto di Roberta: "Ci hanno proposto di fumare marijuana". La furia di Grillo jr contro l'amico: "Mi sono portato a casa la ragazza perché me la volevo scop*** e invece lo sta facendo lui". Adesso spunta anche la droga. Al momento non ci sono conferme, ma riportiamo quanto emerge dalla deposizione di Roberta, l'amica di Silvia. Sul caso Ciro Grillo continuano a emergere ulteriori dettagli rispetto a quelli ormai noti da diversi mesi: la giovane ha raccontato di essere stata svegliata "tre volte", in un caso dalle urla del figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle. Che, dice, era insofferente perché un suo amico era con l'altra. Proprio ai danni di Roberta sarebbero state scattate delle foto choc ritraenti i genitali a pochi centimetri dal volto della ragazza mentre dormiva. Per questo gesto i pm di Tempio Pausania hanno puntato il dito contro Grillo jr, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Le due giovani conoscono i quattro genovesi al Billionaire verso l'1:30. L'organizzatore della serata sarebbe stato proprio Ciro. "Si vantava di avere contatti con il personale del locale. Nel privé ci hanno portato due bottiglie di champagne e due di vodka, abbiamo bevuto tutti", è la versione di Roberta. Mentre è in pista avrebbe visto Ciro e Silvia che si baciavano su un divanetto: "Silvia si staccava e mi è sembrato che non corrispondesse l'interesse". A fine serata arriva l'invito a recarsi nella villetta a Cala di Volpe, accettato nonostante i dubbi della ragazza: "Non ero molto convinta, ma quando Silvia mi ha proposto di andare ho acconsentito, mi diceva di non preoccuparmi".

La droga e la rabbia di Grillo jr. Una volta arrivati a casa Grillo, pare che Corsiglia abbia provato ad "avvicinarsi a Silvia". Alle due amiche avrebbero offerto alcuni alcolici, ma loro avrebbero rifiutato. Verso le ore 6, dopo aver mangiato pasta, Roberta decide di andare a dormire sul divano. Il resoconto riferito ai carabinieri rappresenta un importante elemento per la ricostruzione della vicenda. E proprio in tal senso, come riporta La Stampa, spunta un dettaglio inedito: "Io e Silvia non abbiamo usato droghe, ma quando eravamo a casa ci proponevano di fumare marijuana. Si chiedevano l'un l'altro dove l'avessero messa". Roberta, come già detto, non sempre dorme: "Una volta mi sono svegliata e sentivo Ciro che urlava, era arrabbiato perché Silvia era con un altro". E ha riferito ciò che Grillo jr avrebbe esclamato: "Me la sono portata a casa perché me la volevo scop*** e invece lo sta facendo lui". Poi il figlio di Beppe si sarebbe avvicinato e le avrebbe chiesto se volesse andare in camera con lui: "Ho detto di no".

"Silvia era nuda e confusa". A un certo punto vede Silvia che piange in accappatoio, "accovacciata". Roberta le chiede cosa fosse successo: "Non rispondeva". Solo dopo arriva uno del gruppetto: "Chiedeva se era tutto a posto e lei gli volgeva le spalle, si è allontanata". Tra le 12:30 e le 13 Roberta si sveglia e va alla ricerca dell'amica: "Era in un letto singolo, nuda, confusa, aveva tutto il trucco colato". Si guarda attorno come se non riuscisse a capire dove fosse. Poi arriva la confessione: "Mi hanno violentata tutti". Silvia viene descritta "evasiva e turbata" nei giorni successivi. Il primo agosto le due amiche si incontrano in un bar di Milano. Silvia le racconta di aver parlato con sua madre di quanto accaduto quella notte a casa Grillo: "Mi ha detto che stava prendendo provvedimenti". Infine racconta che la giovante studentessa italo-norvegese aveva già parlato di episodi simili, per alcuni aspetti, avvenuti in passato: "L'anno prima era in campeggio con la scuola, in Norvegia, aveva dormito in tenda con un compagno. Si era svegliata all'improvviso perché lui le era saltato addosso e aveva avuto un rapporto con lei e contro la sua volontà".

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per "la Stampa" il 5 maggio 2021. Quella notte fu svegliata «tre volte», in un caso dalle urla di Ciro Grillo, insofferente perché un altro era con la sua amica. Provò a consolare Silvia che le disse piangendo d'essere stata violentata, «era sconvolta, non sapeva più dove si trovava e si chiuse», ma a due settimane dai fatti si videro per parlare. E svela che il gruppo dei ragazzi genovesi propose di usare droga. Roberta, 21 anni il prossimo agosto, era nell'appartamento di Porto Cervo il 17 luglio 2019 dove in quattro - il figlio di Beppe Grillo, Ciro, e poi Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia - secondo i pm di Tempio Pausania hanno stuprato la sua coetanea Silvia, e i primi tre abusato della stessa Roberta scattandosi una foto hard davanti al suo volto, mentre lei dormiva. Il resoconto ai carabinieri è uno degli elementi cardine per ricostruire la sequenza. I genovesi, spiega, le raggiungono al Billionaire «verso l'1.30 l'organizzatore della serata era Ciro Grillo, il figlio di Beppe: si vantava di avere contatti con il personale del locale Nel privé ci hanno portato due bottiglie di champagne e due di Vodka, abbiamo bevuto tutti Mentre ero in pista ho visto Ciro e Silvia che si baciavano su un divanetto Silvia si staccava e mi è sembrato che non corrispondesse l'interesse a fine serata Ciro ci proponeva di fermarci a dormire a casa sua, con gli altri. Io non ero molto convinta ma quando Silvia mi ha proposto di andare ho acconsentito, mi diceva di non preoccuparmi». Arrivano a casa Grillo «e Corsiglia cercava molto di avvicinarsi a Silvia ci hanno offerto alcolici ma non abbiamo accettato». Dopo aver mangiato pasta Silvia e gli altri ragazzi spariscono dalla veranda: «Alle 6-6.30 decidevo di andare a dormire sul divano». In un altro passaggio illumina una circostanza finora inedita: «Io e Silvia non abbiamo usato droghe ma quando eravamo a casa ci proponevano di fumare marijuana si chiedevano l'un l'altro dove l'avessero messa». Poco prima che Roberta dormisse, e mentre dormiva, si consumano secondo la denuncia di Silvia le violenze. Inizialmente compiute da Corsiglia, che tenta di abusarne in camera e poi la stupra sotto la doccia (lui ribadisce che la studentessa era consenziente). Quindi sono gli altri tre, insiste Silvia, a violentarla in gruppo. E però Roberta non ha sempre dormito. «Una volta mi sono svegliata e sentivo Ciro che urlava era arrabbiato perché Silvia era con un altro. Diceva: «Me la sono portata a casa perché me la volevo sc e invece lo sta facendo lui» poi, mentre dormivo, si è avvicinato e mi ha chiesto se volessi andare in camera con lui, ho detto di no. A un certo punto Silvia era accovacciata accanto a me, in accappatoio e piangeva. Le chiedevo cos' era successo, non rispondeva. È arrivato uno dei ragazzi, chiedeva se era tutto a posto e lei gli volgeva le spalle si è allontanata, saranno state le 8.30 tra le 12.30 e le 13 mi sono svegliata e sono andata a cercarla. Era in un letto singolo, nuda, confusa, aveva tutto il trucco colato si guardava intorno come se non riuscisse a capire dove fosse ha detto: «Mi hanno violentata tutti». La descrive «evasiva e turbata» nei giorni successivi, finché non s'incontrano in un bar di Milano l'1 agosto. «Mi ha detto che aveva parlato di quella sera con sua madre e stava prendendo provvedimenti». Infine le chiedono di spiegare se Silvia le avesse mai parlato di episodi per certi aspetti simili. «L'anno prima era in campeggio con la scuola, in Norvegia, aveva dormito in tenda con un compagno. Si era svegliata all'improvviso perché lui le era saltato addosso e aveva avuto un rapporto con lei e contro la sua volontà».

Tiziana Lapelosa per "Libero quotidiano" il 5 maggio 2021. Se per Ciro Grillo e compagni ci sarà una richiesta di rinvio a giudizio, o se la loro vicenda si concluderà con una archiviazione, la procura di Tempio Pausania lo deciderà entro la fine del mese. Quel che potrebbe cambiare, invece, entro i prossimi venti giorni, è la possibilità di un nuovo interrogatorio a carico del figlio del comico-politico e dei suoi amici, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, accusati di aver violentato una studentessa italo-norvegese la notte tra il 16 e il 17 luglio del 2019, nella casa del fondatore del Movimento 5 Stelle a Porto Cervo, dopo una serata trascorsa al Billionaire. Dopo essere stati ascoltati nelle scorse settimane e aver chiarito i dubbi dei pm, se interrogare ancora i quattro amici su quella serata della quale la ragazza che dice di essere stata stuprata ha raccontato moltissimi particolari, lo decideranno i legali difensori dei giovani, che sono Sandro Vaccaro, Romano Raimondo, Gennaro Velle, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli. Lunedì scorso, la procura di Tempio Pausania, guidata dal procuratore Gregorio Capasso che con il pm Laura Bassani coordina le indagini, ha depositato un secondo avviso di conclusione delle indagini. Rimasta invariata l'accusa di violenza sessuale di gruppo, è stato modificato il capo di imputazione che riguarda la fotografia scattata da tre ragazzi con i genitali appoggiati sul viso dell' amica della vittima, mentre dormiva. In pratica sono state chiarite le responsabilità individuali di alcuni degli indagati che nella prima chiusura dell'inchiesta non erano limpide. In alcune foto, infatti, non si vedeva bene il volto dei ragazzi coinvolti, ma dopo gli interrogatori è risultato che si tratta di Lauria, Grillo e Capetta e, quindi, di una seconda violenza sessuale. Il tutto mentre i quattro amici continuano a dirsi innocenti e a parlare di rapporti «consenzienti». Ed è contro la ragazza che dormiva che si scaglia la madre della vittima. Nei verbali del racconto fatto ai carabinieri e pubblicati dal quotidiano La Verità, S., la ragazza italo-norvegese, dice di averle chiesto aiuto. «S. era andata piangendo dall' amica, che ancora dormiva e le aveva chiesto di andare via perché nel frattempo era stata violentata. L'amica», dice la madre, «confusa aveva alzato le spalle senza dire nulla e si era rimessa a dormire. R. è stata spesso a casa nostra e anche S. è stata sovente sua ospite, per quello che so non aveva un rapporto trasparente con la madre, ha un carattere molto forte, dominante anche su mia figlia che è una persona più genuina». Il giorno dopo le due amiche lasciano la casa del presunto stupro e tornano al B&b chele ospitava. «S. mi ha detto che ha comprato la pillola del giorno dopo in farmacia, non so dire se con R., e mi ha detto che stava male e che avvertiva dolori fisici alle parti intime, alla testa, alla bocca e alle gambe. Stava molto male», si legge nei verbali. Quandoil 19luglioigenitori di S. arrivano in Sardegna, trovano la figlia con la febbre, strana. La madre capisce che qualcosa non va ma fa fatica a far parlare la figlia. «Appena l’abbiamo vista ci siamo però resi conto che le sue condizioni erano pietose, tremava come in preda alle convulsioni». Viene curata con antipiretici e stracci bagnati. Rientrati a Milano, la verità di S. verrà fuori. «R. le aveva poi fatto promettere di concordare la versione del racconto della serata, temendo la reazione di sua madre, accordandosi per dire che erano state in discoteca, ma che erano rientrare a dormire nel b&b nelle prime ore del mattino, senza fare alcun cenno alla violenza sessuale». S., invece, si è fatta coraggio e ha parlato. Il resto è noto.

Ciro Grillo, la testimonianza della seconda ragazza che lo inguaia: "Diceva che se la voleva sco***e, era arrabbiato". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. C'è il verbale della testimonianza di R.M., la seconda ragazza del caso Ciro Grillo, che dà la sua versione dei fatti accaduti in quella notte di luglio del 2019 nella villa di Beppe Grillo in Sardegna. La giovane racconta di essersi addormentata sul divano dopo aver respinto le avance di almeno tre dei quattro ragazzi che hanno ospitato lei e l'amica italo-svedese dopo la serata in discoteca: "Uno mi ha anche invitato in camera, senza specificare se da sola o con lui, ma volevo evitare situazioni ambigue". Sono le sei di mattina e R.M. ha perso di vista da la sua amica S.J. che accusa Ciro e gli altri tre ragazzi di stupro di gruppo. I carabinieri della compagnia Milano-Duomo, il 27 agosto 2019, le chiedono se ricorda o ha sentito qualcosa, rivela Il Fatto quotidiano. La ragazza dice di essersi svegliata tre volte: "In un'occasione Ciro Grillo urlava a uno degli altri in corridoio, era arrabbiato perché S.J. era in camera con qualcuno, io ho subito pensato a Corsiglia: 'Io me la sono portata a casa perché me la volevo sco***e, invece se la sta scop***o lui'. L'amico provava a calmarlo: 'Tanto era brutta, ne troviamo un'altra domani'". R.M. viene svegliata altre due volte. "In un caso mi si è avvicinato Ciro, che mi ha chiesto se ero sicura di voler dormire sul divano o se volessi andare con lui. Gli rispondevo che stavo benissimo lì e lui si è allontanato senza insistere". L'ultima volta è S.J. a svegliarla: "Era accovacciata accanto a me in accappatoio e piangeva. Le ho chiesto cosa stesse succedendo, ma lei singhiozzava. Nel frattempo è arrivato uno dei ragazzi, che le ha chiesto se andasse tutto bene. Lei gli ha dato le spalle, per non farsi vedere piangere. Io ho risposto di sì per farmi dire cosa era successo. Ma lei dopo aver pianto ancora si è calmata e mi ha detto di non preoccuparmi, che stava bene". Alle 13, molte ore più tardi, R.M. ritrova S.J. su un letto, completamente nuda, da sola. "Era confusa e sconvolta. Aveva tutto il trucco colato, credo per il pianto, si guardava intorno come se non sapesse dove si trovasse", racconta. "Mi era capitato di vederla ubriaca, ma mai in questo stato, non mi è sembrato che fosse per gli effetti dell'alcol". Per i pm Gregorio Capasso e Laura Bassani durante la notte è avvenuto uno stupro di gruppo. S.J., incalzata dall'amica, dice: "Mi hanno violentata tutti". E i ragazzi? "C'era un silenzio surreale, facevano finta di niente. Si comportavano come se non fosse successo niente". R.M. è la principale testimone della presunta violenza sessuale di gruppo che vede indagati Ciro Grillo, figlio di Beppe, e i tre amici Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. Tutti si proclamano innocenti. L'interrogatorio di Roberta, 20 anni, è avvenuto il 27 agosto del 2019. A raccogliere il suo racconto è il maresciallo Cristina Solomita, che ha già messo a verbale la denuncia di Silvia, assistita dall'avvocato Giulia Bongiorno. Dalla sua testimonianza emerge un altro dettaglio. Mentre erano in discoteca, al Bilionaire, a un certo punto R.M. vede che S.J. è su un divanetto con Ciro: "Si baciavano, il bacio era partito da lui e dopo pochissimo Silvia si staccava. Non mi è sembrato che lo respingesse in modo brusco, ma conoscendola mi è sembrato che non corrispondesse l'interesse di lui".  

Ciro Grillo, il racconto dell’amica della ragazza: “Mi ha detto che l’avevano violentata tutti”. Ilaria Minucci su Notizie.it il 05/05/2021. L’amica della ragazza che ha accusato di stupro di gruppo Ciro Grillo e 3 suoi amici ha fornito il proprio racconto sulla vicenda ai carabinieri. In merito al presunto stupro avvenuto il 17 luglio 2019, l’amica 21enne della vittima ha rilasciato agli inquirenti la propria versione dei fatti. Entrambe le ragazze, infatti, si trovavano nell’appartamento di Porto Cervo insieme a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Laura e Francesco Corsiglia. A proposito di quella drammatica notte, la 21enne ha raccontato: “I genovesi ci raggiunsero al Billionaire verso l’una e trenta. L’organizzatore della serata era Ciro Grillo, il figlio di Beppe, che si vantava di avere contatti con il personale del locale”. La serata, quindi, è stata trascorsa dal gruppo di giovani tra privé e pista da ballo. Rispetto al tempo trascorso al Billionaire, la ragazza ha spiegato: “C’erano due bottiglie di champagne e due di vodka che abbiamo bevuto tutti. Mentre ero in pista, ho visto Ciro e la mia amica che si baciavano su un divanetto ma lei si staccava e mi è sembrato che non corrispondesse l’interesse”. Dopo aver deciso di lasciare il locale, poi, Ciro Grillo avrebbe proposto alla comitiva di trasferirsi al completo alla sua villa, presso la quale i pm di Tempio Pausania ritengono che sia avvenuto sia lo stupro di gruppo che lo scatto di fotohard con la 21enne, amica della vittima di abuso sessuale, mentre dormiva. Il racconto della 21enne prosegue spiegando di essere stata convinta dall’amica ad andare con i ragazzi nell’abitazione di Porto Cervo e di aver poi visto la ragazza sparire con i quattro presunti stupratori in veranda, dopo aver mangiato tutti insieme della pasta. A quel punto, la 21enne ha ammesso: “Alle 6-6:30 decidevo di andare a dormire sul divano, io e lei non abbiamo usato droghe ma quando eravamo a casa di proponevano di fumare marijuana e si chiedevano l’un l’altro dove l’avessero messa”. Nel corso della sua testimonianza ai carabinieri, poi, la ragazza ha ricordato: “Fui svegliata tre volte. In un caso dalle urla di Ciro Grillo, insofferente perché un altro dei suoi compagni era con la mia amica. Diceva: ‘Me la sono portata a casa perché me la volevo sc… e invece lo sta facendo lui’”. Una seconda volta, poi, è stata svegliata nuovamente dal figlio di Grillo che le chiedeva in modo diretto di andare in camera con lui, proposta che lei avrebbe rifiutato. Infine, una terza volta la ragazza è stata svegliata dall’amica: “Era accovacciata accanto a me, in accappatoio e piangeva. Le chiedevo cosa fosse successo ma non rispondeva”. In relazione alle ricostruzioni effettuate, in quel momento lo stupro di gruppo si sarebbe già consumato. La 21enne, poi, ha ricominciato a dormire svegliandosi soltanto alcune ore dopo: “Alle 12:30-13, quando mi sono alzata e ho deciso di andare a cercarla, lei era in un letto singolo, nuda, confusa, con il trucco colato che si guardava intorno come se non riuscisse a capire dove fosse. Poi mi ha detto: ‘Mi hanno violentata tutti’”. In seguito alla tragica nottata, le due amiche si sono nuovamente incontrate soltanto il 1° agosto 2019 in un bar di Milano, poiché “nei giorni immediatamente successivi alla serata lei era molto evasiva e turbata”. In quella circostanza, la ragazza ha spiegato di aver appreso che la giovane vittima aveva raccontato quanto accaduto alla madre. Inoltre, la 21enne ha anche rivelato che lo stupro di gruppo avvenuto nella villa di Porto Cervo non sarebbe stato il primo episodio di violenza subito dalla studentessa: “L’anno prima era in campeggio con la scuola, in Norvegia, aveva dormito in tenda con un compagno. Si era svegliata all’improvviso perché lui le era saltato addosso e aveva avuto un rapporto con lei, contro la sua volontà”.

ECCO LA DENUNCIA AI CARABINIERI DELLA VITTIMA DELLO STUPRO DI CIRO GRILLO ED I SUOI AMICI IN SARDEGNA NELLA VILLA DEL COMICO FONDATORE DEL M5S. Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2021. La denuncia della ragazza italo-norvegese che accusa di stupro sessuale Ciro Grillo ed i suoi tre amici: “Mi tenevano ferma su un letto matrimoniale e mi hanno costretta a 6 o 7 rapporti sessuali”. E’ una deposizione agghiacciante, quella fornita il 26 luglio 2019 ai Carabinieri della Compagnia Duomo di Milano nella querela firmata da S.J., la diciannovenne italo-norvegese violentata da Ciro Grillo, figlio del Garante dei 5Stelle, e ai suoi tre amici della Genova bene, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauri. Un racconto dettagliato che coinvolge il ventenne Corsiglia, figlio di un noto cardiologo genovese: “…Mi ha abbassato i pantaloni e gli slip con forza… Io mi dimenavo perché non volevo, ma non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene”. Il verbale in cui la ragazza descrive quanto accaduto nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villa di Grillo, a Porto Cervo, è stato pubblicato dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro. La ragazza italo-norvegese che in un primo momento aveva scelto un legale milanese, al quale poi è subentrata l’ex sottosegretaria leghista Giulia Bongiorno, si trovava in quel periodo in vacanza assieme alla sorella minore in un B&B di Palau in Sardegna. Con loro anche una amica R.M., coetanea milanese e compagna di scuola, difesa dall’avvocato Vinicio Nardo di Milano. La sera del 16 luglio le due ragazze decidono di passare la serata in discoteca. La sorella minore invece rimane a Palau. Al Billionarie avviene l’incontro con Ciro Grillo ed i tre amici genovesi con i quali bevono solo qualche cocktail. Quasi all’alba, alla fine della nottata in discoteca, le due ragazze non riuscivano a trovare un taxi per tornare al B&B, ed allora i quattro ragazzi genovesi si offrono per ospitarle nella villa di Grillo.  “Abbiamo chiacchierato, loro hanno fumato sigarette (non ricordo presenza di sostanze stupefacenti) e bevuto, io no – ha aggiunto ragazza italo-norvegese – poi Francesco (Corsiglia n.d.r.) mi ha chiesto di accompagnarlo a prendere delle coperte nella camera da letto… prima mi ha baciato sulla bocca, io mi sono tirata indietro… ha preteso sesso orale… mi sono divincolata… sono tornata con gli altri”. La ragazza italo-norvegese va a dormire, ma Corsiglia secondo quanto denunciato, si sarebbe infilato sotto le sue lenzuola, dove sarebbe avvenuto il primo stupro, seguito da un altro sotto la doccia: “Ha aperto l’acqua e mi ha spinto contro la parete… gli detto per due volte di smetterla, che era un animale e uno stronzo, ma lui ha continuato più forte tirandomi i capelli”. Ma l’incubo non è finito lì. Quando Corsiglia si è addormentato verso le 9 del mattino, gli altri tre ragazzi della “Genova bene”… l’avrebbero costretta a bere vodka ed abusare sessualmente di lei: tutti contemporaneamente, filmando la scena e scattando delle foto con i loro cellulari. La ragazza prima ne avrebbe parlato con la sua amica e, poi qualche giorno dopo con la mamma che nel frattempo l’aveva raggiunta a Palau. Ma a quanto pare solo al rientro a Milano la ragazza avrebbe confidato tutto ai genitori. Il 26 luglio viene presentata la denuncia ai carabinieri. Nel corso delle indagini il procuratore di Tempio di Pausania, Gregorio Capasso durante l’interrogatorio al giovane Edoardo Capitta, gli ha chiesto se ha mai inoltrato, diffuso, pubblicato da qualche parte il video raffigurante lo stupro di gruppo, trovato nel suo telefonino. Il giovane rampollo genovese, risponde che non l’ha mai fatto girare ma, aggiunge, l’hanno visto degli amici. Nelle carte depositate dalla Procura c’è anche un riferimento preciso a quel filmato fra le chat dei ragazzi. Uno degli altri indagati scrive via WhatsApp a Capitta: “Mi giri il video?”. La risposta no e la conversazione si chiude lì. Il procuratore che, assieme alla sua sostituta Laura Bassani e agli investigatori informatici della polizia giudiziaria, ha provato a cercare il video fuori dal telefonino di Capitta sui social, nelle chat, nelle mail ma inutilmente. Non l’ha trovato e quindi, nel chiudere le indagini, non ha potuto contestare anche il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti“, che è una norma contenuta nel Codice rosso entrato in vigore il 9 agosto del 2019, cioè 23 giorni dopo i fatti. Perciò, semmai fosse provata la diffusione, il reato varrebbe soltanto se fosse accaduto dopo il 9 agosto. Altra cosa è invece la paventata e possibile violazione penale in materia di privacy, evocata dal Garante per la protezione dei dati personali. 

Ciro Grillo, brutto colpo per la difesa dei quattro ragazzi: non solo le foto, anche il tabaccaio sbagliato. su Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. La difesa di Ciro Grillo e degli altri tre ragazzi accusati di stupro di gruppo si basa sulla tesi che la giovane fosse consenziente. Per dimostrare che la serata si era svolta in serenità c'era anche il fatto che la mattina erano andati insieme a S.J. a comprare le sigarette. La polizia giudiziaria, riporta il Fatto quotidiano, aveva quindi provato a verificare questo particolare ma con la chiusura indagini si è scoperto che era stato sentito il tabaccaio sbagliato. È stata così acquisita la nuova testimonianza, sebbene a due anni di distanza difficilmente potrà essere rilevante. C'è poi il famoso video di cui ha parlato anche Beppe Grillo. Secondo i difensori degli indagati, il filmato girato con il telefonino dai ragazzi dimostrerebbe proprio che il rapporto era consenziente. Per i pm, invece, il consumo di alcol è un elemento importante per dimostrare la "minorata difesa" della vittima e l'impossibilità a esprimere un consenso a quel rapporto. Agli atti delle indagini sono stati aggiunti altri accertamenti. Infine c'è la sequenza di foto ricostruita in un modo più definito, in cui Ciro Grillo e gli amici Edoardo Capitta e Vittorio Lauria scattano immagini oscene con i telefonini, accanto a una delle due ragazze, R.B. che è addormentata sul divano e non si accorge di nulla, forse a causa dell'alcol. Adesso i magistrati hanno ricostruito come in quegli scatti compaiano a turno tutti e tre i ragazzi. Quelle foto, di per sé, hanno portato a un'ulteriore accusa di violenza sessuale. In quel momento, intorno alle sei del mattino, secondo quanto denunciato dalla ragazza italo-svedese, S.J., nella stanza accanto si consumava il primo stupro, da parte di Francesco Corsiglia. Una seconda violenza sessuale, questa volta di gruppo, alle 9 del mattino, ancora una volta ai danni di S.J. Agli inquirenti la studentessa ha raccontato che Grillo, Capitta e Lauria l'avrebbero obbligata a bere mezza bottiglia di vodka che aveva un "odore strano". Dopo aver bevuto, per gli inquirenti, la giovane è stata portata in camera da letto e costretta a un rapporto sessuale di gruppo. 

Antonio Di Francesco per “La Verità” il 4 maggio 2021. «Giuse sente che sta crollando tutto, sta cercando disperatamente di prendere dei mattoni e metterli di nuovo uno sopra all’altro, ma non ha più il cemento per farlo. Non dovete credere a niente di quello che dice». La vecchia compagnia di Piazza San Martinez, nel quartiere genovese di San Fruttuoso, non si fida del «Grillo Furioso», l’invettiva pubblicata dal fondatore del Movimento 5 Stelle in difesa del figlio Ciro, indagato per violenza sessuale di gruppo insieme ad altre tre persone. La violenza delle parole pronunciate nel video non impressiona particolarmente chi di Grillo conosce le diverse sfaccettature, come Orlando Portento, che ne è stato ispiratore e che ha condiviso con lui la prima parte della carriera.

Orlando Portento, l’intemerata contro la magistratura ha creato non poco imbarazzo tra le fila dei cinque stelle, soprattutto nei parlamentari più vicini a Beppe Grillo. Perché non c’è da fidarsi, secondo lei?

«Sono l’unico a non essersi lasciato impressionare dalla violenza di quelle immagini: Giuse, come lo chiamavamo nella nostra compagnia, è così. Dopo anni in cui si è sentito un padreterno, è uscito fuori l’altro lato di sé».

Di quale lato parla?

«Io la chiamo la parte degli ortotteri».

Cioè? Che cosa intende?

«Ha reagito così perché dentro di sé ha tanti grilli. Tutti sono rimasti scioccati, per me nulla di nuovo. Grillo è così: quando si mette i caschi in testa, per esempio, vi prende tutti per il culo. Noi ci poniamo sempre questa domanda: come è possibile che sia arrivato a parlare con Mario Draghi? Proprio lui che per noi era la belina, di fatto il presuntuoso, l’arrogante della compagnia. Fin quando lo prenderete sul serio, si divertirà a prendervi in giro».

Sta dicendo che ritiene quel video una sorta di messa in scena?

«Noi lo conosciamo cento volte meglio di tutti gli opinionisti, i parlamentari che hanno detto la loro in queste ultime due settimane. Che cosa ne sanno di Grillo tutti quei deputati e senatori che in questi anni sono stati soggiogati da lui? Che cosa ne sa Alessandro Di Battista, che dice di conoscerlo bene e di capire il dolore che prova? Ho scritto e ribadisco quello che penso, cioè che Grillo sia un impostore, nato e cresciuto da impostore. I grillini sono degli impostori in buona fede. Anni fa li ho ribattezzati “sonnambuli”».

La sua è una accusa forte, perché la sta facendo?

«Grillo ha la forza di condizionare le menti di tutte queste persone, che gli devono molto. Del resto, stiamo parlando di miracolati catapultati in Parlamento: avvocati che facevano cause per poche lire sono finiti a occupare le poltrone dei ministeri. Ora che è uscito con questo video, tutti hanno gli incubi. Ogni notte penseranno: “Cosa devo dire?”. A mio giudizio, sono disperati».

Crede nell’ipotesi che Grillo abbia deciso di realizzare quel video spinto dal dolore che prova come padre?

«Mi dispiace, ma non ci credo. Non è vero nulla».

Perché?

«La storia del dolore per il figlio, per lui, è un alibi di ferro. La realtà è che il dolore non c’entra nulla questa volta».

Che cos’è allora, secondo lei?

«Lui non è addolorato, è incazzato. Voi confondete il dolore con la rabbia. Di fronte a quelle sue parole, c’è chi si è lasciato impietosire dall’immagine paterna. Lui è arrabbiato perché è crollata la sua potenza. Si trova perduto, non può più alzare il telefono e chiamare il Presidente del Consiglio o il ministro della Giustizia, perché il vento è cambiato».

Il potere gli ha giocato un brutto scherzo?

«Credo si sia montato la testa, ergendosi a padreterno. Lui si sentiva l’uomo intoccabile, ricercato da tutti. Riceveva telefonate tutti i giorni e “ingrassava”. Solo con le telefonate, chiaramente, dal momento che non mangia perché preferisce non spendere, come è noto a tutti. Si nutriva e si nutre di questa adulazione, ma non si abbuffa più come prima. Sospetto anche io, come altri, che il cambio di passo politico abbia dato una nuova rotta anche all’inchiesta e lui si è sentito smarrito. A quel punto, ha tentato l’inconcepibile».

L’inconcepibile? Si tratta uno degli aneddoti che lei racconta nel suo primo libro, “Due Quori e una Cavagna” (Ed. Pathos)?

«Da giovani usavamo questo termine per parlare delle imprese impossibili. Del ragazzo che, pur non essendo un adone, faceva la corte alle signorine bellissime. “Belin, tenta l’inconcepibile”, commentavamo nel nostro dialetto genovese. Ecco, Grillo ha tentato l’inconcepibile e non ce l’ha fatta».

Lo ritiene un suicidio politico il suo?

«Sì, anche se preferisco usare altri termini. Grillo ha provato, ma gli è andata male. Chissà come sono le sue notti, la rabbia starà aumentando sempre di più. Lo ripeto: non il dolore, ma la rabbia. Se un domani arriverà il rinvio a giudizio per i quattro ragazzi, non so cosa potrà inventarsi. L’arrabbiatura arriverà a un livello massimo. Attendetevi qualcosa di eclatante, magari arriverà a incatenarsi, chissà. Un nuovo coup de théâtre, insomma, che stupirà solo voi, non chi lo conosce bene».

Tra i due figli, quello naturale e quello politico, Grillo non ha avuto dubbi sulla posizione da prendere. Lei lo ha accusato di voler approfittare della situazione per ragioni economiche. Perché?

«Beppe Grillo non è mai stato un padre. La domanda è: ha mai cambiato un pannolino ai figli? Lui non se ne rende ancora conto, ma ha sempre pensato solo ai soldi. È la sua cancrena. A Genova si dice “braccino corto”. Lui il braccio non ce l’ha proprio, è mutilato. Bisogna parlare con i figli, se sei un padre ti sacrifichi. Non pensi solo ai soldi. Io e lui abbiamo vissuto delle avventure, abbiamo combinato delle marachelle, ma non siamo mai andati oltre. Avrebbe dovuto parlare di più con i figli, per insegnare loro a divertirsi come facevamo noi. Tra di noi, non c’erano bottiglie di vodka né fotografie. Anche se quella notte in Sardegna c’è stato consenso, come sostengono i 4 giovani, a me la situazioni fa ugualmente schifo».

In poco più di un minuto, Grillo ha fatto a pezzi alcuni totem che hanno guidato il Movimento 5 Stelle in tutti questi anni, come il rigore morale e la fiducia a ogni costo nella giustizia. Che cosa ne pensa della svolta del re del «vaffa», che sulla gogna ha costruito buona parte del successo politico?

«A Genova ci sono i portentiani e i grilliani. Noi portentiani sappiamo che Beppe Grillo della politica se n'è sempre fregato. Era una specie di ibrido, non gli è mai interessato nulla».

Come si spiegano queste sue contraddizioni?

«Non mi meravigliano. Quando Grillo ha fondato la sua creatura, si contraddiceva già. Una volta erano favorevoli a certi tipi di battaglie, poi mollate per pura convenienza politica e personale. Non ci ho mai creduto fino in fondo. Non è possibile farlo quando di mezzo c’è Grillo, che reputa tutti delle beline, dei superficiali».

Come spiega il successo del Movimento 5 Stelle, allora? Dopo tutto, restano il primo partito in Parlamento.

«Non è la prima volta che in Italia si vota con la pancia, per protesta. È già successo altre volte, con i radicali per esempio. Ci sono periodi in cui gli italiani sfogano le loro incazzature attraverso le urne. Ora quel mondo si sta sgretolando. Quattro anni fa pensavo che i grillini si sarebbero presto dimezzati. In Italia le proteste non sono mai andate oltre i 3 anni, questa volta è durata di più, ma non credo abbia futuro». 

Tuttavia, l’«inconcepibile» è riuscito. Almeno in quel caso.

«Grazie a quel genio di Gianroberto Casaleggio. Beppe ha avuto delle combinazioni mostruose nella vita, tutte favorevoli. Come si dice, meglio fortunati che ricchi».

Solo fortuna? O c’è di più?

«Grillo era in una fase discendente della carriera, era crollato come cabarettista e la sua esperienza nel mondo del cinema non aveva portato i risultati sperati. Poi ha trovato Casaleggio e si è buttato in politica. Andava nei teatri a rompere i computer e tutti sono caduti nella sua trappola».

Per quale motivo parla di trappola?

«Ha capito che in quel modo avrebbe guadagnato le “palanche”. Insieme a Casaleggio, sono riusciti a intercettare il momento e a incanalare la protesta. Ha trovato la sua fonte di guadagno quadrupla. Non è vero che voleva cambiare il mondo con il “vaffa”.  Quando usava i salvagenti in mezzo alle piazze, sapeva già tutto: vi sto imbarcando. Dentro di sé deve aver pensato: “Io ci guadagno dieci, venti volte di più”. Nessuno lo ha mai più controllato perché era lanciato verso le stelle. Lui si sentiva lanciato verso le stelle. Ora delle stelle è rimasta solo la polvere. O meglio, polvere di stracci».

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per "la Stampa" il 6 maggio 2021. «Silvia dopo la notte in cui venne violentata nella casa di Ciro Grillo mi mandò alcuni selfie scattati davanti a uno specchio. Foto in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia all' altezza del bacino...lei è all' apparenza molto socievole con i ragazzi, ma in realtà fragile e suggestionabile e spesso si fanno un'opinione di lei sbarazzina, ma sbagliata». Amanda, studentessa universitaria di 21 anni, è una delle migliori amiche di Silvia, la giovane che, secondo i pm di Tempio Pausania, la notte del 17 luglio 2019 è stata violentata da quattro genovesi - Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia - nell' appartamento di Porto Cervo di proprietà del comico e leader del M5S Beppe Grillo. Il 5 settembre del 2019 - due mesi dopo i fatti - viene interrogata dai carabinieri della compagnia di Milano Duomo. E quel verbale è per gli inquirenti un altro degli elementi cardine dell'inchiesta. Per la prima volta emerge che Silvia era così sconvolta per quanto accaduto nel residence in Costa Smeralda, da condividere scatti in cui si vedevano i possibili segni dei soprusi subiti. Ma nel resoconto di Amanda vengono anche delineati con profondità aspetti del carattere della stessa Silvia. E dopo averla definita, appunto, «fragile ma suggestionabile», racconta altri episodi difficili della sua vita precedenti alla notte in Sardegna. «È una ragazza solare e di buona famiglia - evidenzia Amanda -molto gentile ed educata con tutti, non l'ho mai vista litigare con nessuno. Ma è cresciuta in un ambiente estremamente protettivo che l'ha resa un po' troppo influenzabile». E aggiunge: «In quel periodo era in un momento particolarmente difficile, stava perdendo molto peso». È tuttavia sulle immagini che si concentra l'attenzione degli investigatori. Perché rappresentano una nuova, potenziale prova fotografica dello stupro, una sequenza molto diversa da quella che secondo Beppe Grillo restituiscono i video registrati dagli indagati, nei quali a parere del comico si vede «una giovane consenziente». Nei frame descritti da Amanda, Silvia risulterebbe invece ferita, dolorante. «Non erano foto della casa - prosegue l'amica - ma di lei. Ho visto i lividi in più parti del corpo e nei commenti mi ha anche aggiunto che aveva molto dolore». Silvia e Amanda, cinque giorni dopo la violenza, si sentono al telefono e parlano a lungo. Anche se l'amica la cerca già il giorno dopo la notte choc. «Mi aveva mandato un messaggio su Snapchat dicendo che mi doveva parlare di una cosa importante che le era successa». Silvia racconta all' amica quanto avvenuto quella sera. Ed evidenzia che Roberta (altra amica, presente nella casa, che si era messa a dormire su un divano svegliandosi tuttavia di notte per le urla di Ciro Grillo) le era stata poco d' aiuto: «Mi diceva che le aveva raccontato le violenze subite e che voleva andare via. Ma Roberta le ha risposto che la cosa non le importava e si è rimessa a dormire (la medesima Roberta, sentita dall' Arma, ha invece detto di aver aiutato Silvia, ndr)». Un comportamento diverso, secondo Amanda, da quello tenuto da Andrea, un amico comune che aveva presentato a Silvia i quattro genovesi e aveva trascorso la prima parte della serata al Billionaire insieme a loro, ma non era presente a casa Grillo. Precisa ancora Amanda agli inquirenti. «Il 4 settembre io e Silvia ci siamo viste a pranzo. Ero appena tornata dall' estero e mi ha raccontato di aver sporto denuncia per le violenze. Abbiamo commentato l'atteggiamento di Roberta quella notte. Silvia è molto arrabbiata con lei perché non è intervenuta in suo aiuto, non ha fatto nulla per evitare che avesse conseguenze maggiori. Mentre era molto felice per il comportamento che aveva avuto Andrea: si era arrabbiato e voleva andare a picchiare i genovesi per quello che avevano fatto».

Ciro Grillo, l'amico della ragazza: "Ho capito che era successo qualcosa. Avrei voluto menare lui e i suoi amici". Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. “Posso fare qualcosa? Vuoi che vada a menarli?”: a parlare è Andrea, amico di Silvia, la presunta vittima di Ciro Grillo e dei suoi tre amici, che sono ora sotto inchiesta per violenza sessuale di gruppo. Alla fine di agosto 2019, il giovane - sentito dai carabinieri di Milano – racconta cosa ha visto e cosa ha saputo in merito a quanto accaduto nella villa di Ciro in Sardegna a luglio. “Quelli non mi piacevano. Per tutta la sera avevano dimostrato di tirarsela, in discoteca. Il loro atteggiamento non mi piaceva”, ha spiegato Andrea, come riportato dal Corriere della Sera. C’era stata una notte – fra il 16 e il 17 luglio — che lui aveva passato fino a un certo punto assieme a Silvia, al Billionaire di Flavio Briatore in Costa Smeralda. Ed è di quello che parla nel suo verbale. Racconta di aver accompagnato Silvia e la sua amica Roberta in discoteca e di aver subito guardato con sospetto quei ragazzi genovesi con cui hanno condiviso il tavolo all’interno del locale. Di Ciro, per esempio, dice: “Si è tenuto gli occhiali da sole”. Parlando con i carabinieri, Andrea ricorda anche di aver visto Silvia baciarsi con Ciro. Poi spiega di essere tornato a casa a metà notte dopo aver salutato Roberta e Silvia, che invece avevano deciso di rimanere con i genovesi. “Non le ho più viste per un paio di giorni e così le ho chiamate e invitate ad andare in piscina”, si legge nei verbali di Andrea riportati dal Corriere. Quando incontra le due ragazze, Andrea capisce che qualcosa non va e chiede a Silvia se abbia fatto se**o con Ciro Grillo. “A quel punto ho visto che Roberta mi ha guardato e ha fatto una faccia strana mentre Silvia era evasiva, non voleva parlare, io chiedevo risposte chiare ma lei continuava a non rispondere. E allora ho intuito che era successo qualcosa di brutto”, racconta ancora il giovane. A un certo punto Silvia ammette di essere stata con Ciro, precisando che “mi hanno fatto bere mezza bottiglia di vodka”. Nei verbali del ragazzo infine si legge: “Le ho chiesto: ma solo con Ciro? Lei non mi rispondeva... mi ha fatto capire che c’era stato se**o anche con qualcuno degli altri ragazzi e allora le ho chiesto: posso fare qualcosa? Vuoi che vada a menarli? Lei mi ha risposto di no”. 

"Vuoi che vada a menarli?". L'ira dell'amico di S. su Ciro Grillo. Luca Sablone il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. La versione dell'amico della ragazza: "Mi sembrava sconvolta, mi disse che le avevano fatto bere mezza bottiglia di vodka. Quel gruppo non mi piaceva". Verso la fine di agosto del 2019 tocca anche ad Andrea raccontare ai carabinieri la sua versione dei fatti, cosa sapeva, cosa le aveva raccontato Silvia e cosa era successo durante le vacanze in Sardegna. La sua posizione parte proprio dalla notte tra il 16 e il 17 luglio, quando passa una parte di serata al Billionaire con l'amica. Dice di aver portato in discoteca sia Silvia sia Roberta, ed esplicita un suo punto di vista sulla comitiva composta da Ciro Grillo e i suoi amici con cui poi le due ragazze hanno trascorso il resto delle ore: "Quelli non mi piacevano. Per tutta la sera avevano dimostrato di tirarsela, in discoteca. Il loro atteggiamento non mi piaceva". In particolare sarebbe stato proprio il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle a infastidirlo. Per far capire quanto poco gli piacesse, vuole sottolineare che quella sera "si è tenuto gli occhiali da sole". Ma in realtà anche Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria non gli vanno proprio a genio. Andrea racconta che al Billionaire vede Silvia baciarsi con Grillo jr, commentando successivamente la scena con Roberta. A metà notte, riferisce, saluta le due amiche (che rimangono con la comitiva dei genovesi) e torna a casa.

"Silvia era sconvolta". A verbale fa mettere che non le vede più per un paio di giorni, per poi chiamarle e invitarle ad andare in piscina. Proprio quella è l'occasione che consente ad Andrea di capire che più di qualcosa non va. E la sua mente torna subito alla serata in discoteca. "Hai fatto sesso con Ciro?", chiede a Silvia. A quel punto Roberta lo guarda e gli fa una faccia strana, "mentre Silvia era evasiva, non voleva parlare". Lui chiede risposte chiare ma lei continua a non rispondere. E allora intuisce "che era successo qualcosa di brutto". Andrea inizialmente non riesce a cogliere le occhiatacce di Roberta. Allora prosegue nel discorso, ponendo l'ennesima domanda a Silvia. Che alla fine ammette di essere stata con Grillo, ma tiene a specificare: "Mi hanno fatto bere mezza bottiglia di vodka". La sua versione si ferma solo alla vodka, senza andare oltre. Ma Andrea, come riporta il Corriere della Sera, capisce che c'è dell'altro: "Era strana, mi sembrava sconvolta. Le ho chiesto: 'Ma solo con Ciro?'. Lei non mi rispondeva... Mi ha fatto capire che c’era stato sesso anche con qualcuno degli altri ragazzi". Ecco perché alla fine Andrea avanza un gesto di amicizia e generosità: "Posso fare qualcosa? Vuoi che vada a menarli?". Silvia risponde di no, ma è proprio quell'atto di protezione che le fa prendere atto che da quel momento ha Andrea dalla sua parte.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2021. «Quelli non mi piacevano. Per tutta la sera avevano dimostrato di tirarsela, in discoteca. Il loro atteggiamento non mi piaceva». È la fine di agosto del 2019. Andrea sta raccontando ai carabinieri, a Milano, che cosa ha visto e che cosa sa della sua amica Silvia e di quello che le è successo mentre era in vacanza in Sardegna, nelle settimane precedenti. C' era stata una notte - fra il 16 e il 17 luglio - che lui aveva passato fino a un certo punto assieme a lei, al Billionaire di Flavio Briatore, in Costa Smeralda. Ed è di quello che comincia a parlare nel suo verbale. Dice che ha portato Silvia e la sua amica Roberta in discoteca, parla di quei ragazzi genovesi con i quali si era condiviso il tavolo e dice - appunto - che «quelli» non erano sulla sua stessa lunghezza d' onda. Quel tipo, poi, Ciro: per dire quanto poco gli fosse andato a genio racconta dettagli che lo infastidivano, tipo che «si è tenuto gli occhiali da sole». Ciro è Ciro Grillo, il figlio del garante del Movimento 5 Stelle, e quella notte, al Billionaire, era lì con altri tre ragazzi genovesi come lui: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Oggi sono tutti sotto accusa per violenza sessuale di gruppo e Silvia è la ragazza che li ha denunciati facendo partire l' inchiesta della Procura di Tempio Pausania. Dopo di lei li ha denunciati anche Roberta, ritratta in fotografie a sfondo sessuale mentre dormiva sul divano. Sfondo dei fatti: la villetta affittata dai quattro per le vacanze estive, accanto a quella di Grillo senior. Quando parla con i carabinieri Andrea racconta che nelle ore del Billionaire aveva visto Silvia baciarsi con Ciro e che aveva commentato quella scena con Roberta. Poi ricorda che a metà notte è tornato a casa e ha salutato Silvia e Roberta che sono rimaste con il gruppo dei genovesi. «Non le ho più viste per un paio di giorni - fa mettere a verbale - e così le ho chiamate e invitate ad andare in piscina». Si incontrano. Appena vede le due ragazze lui nota un clima teso. C' è qualcosa che non va. Torna subito alla serata del Billionaire. «Hai fatto sesso con Ciro?» chiede all' amica. «A quel punto - racconta - ho visto che Roberta mi ha guardato e ha fatto una faccia strana mentre Silvia era evasiva, non voleva parlare, io chiedevo risposte chiare ma lei continuava a non rispondere. E allora ho intuito che era successo qualcosa di brutto». Andrea insiste, non coglie le occhiatacce di Roberta che gli suggeriscono di chiudere il discorso. E davanti all' ennesima domanda Silvia gli risponde che sì, è stata con Ciro, ma precisa che «mi hanno fatto bere mezza bottiglia di vodka». «Mi disse della vodka e non aggiunse altro ma dal suo atteggiamento ho capito che c' era dell' altro. Era strana, mi sembrava sconvolta. Le ho chiesto: ma solo con Ciro? Lei non mi rispondeva... mi ha fatto capire che c'era stato sesso anche con qualcuno degli altri ragazzi e allora le ho chiesto: posso fare qualcosa? Vuoi che vada a menarli? Lei mi ha risposto di no». La reazione di Andrea - il suo amico e compagno di scuola che anche senza sapere dettagli aveva capito e si era schierato dalla sua parte - aveva illuminato la giornata di Silvia, lei era felice di saperlo al suo fianco. Quei giorni non erano che l'inizio di questa storiaccia raccontata al mondo come poche altre dopo l'ormai celebre video con il quale Beppe Grillo ha difeso figlio e amici con quel «non c'è stata violenza, sono solo quattro coglioni, non quattro stupratori». Fra allora e oggi ci sono montagne di atti giudiziari, gli ultimi dei quali depositati pochi giorni fa. Nelle carte è in evidenza anche una fotografia che non ha nulla a che fare con le foto oscene trovate nei cellulari dei ragazzi. È un' immagine scattata dopo le 6.30 del mattino, cioè dopo la spaghettata dell' alba e dopo la prima violenza che Silvia racconta di aver subito da Francesco Corsiglia. Nelle loro versioni i quattro ragazzi dicono da sempre che invece lei - dopo gli spaghetti - si è appartata con Francesco spontaneamente e che poi è andata proprio con Francesco, con Edoardo e con Vittorio a comprare delle sigarette. La fotografia scattata quella mattina presto mostrerebbe lei, Francesco e altri due (non visibili in volto) durante il percorso verso il tabaccaio. Silvia dell' episodio delle sigarette non parla mai nelle sue deposizioni. Racconta tutto il resto, che alla sua amica Roberta disse con quattro parole quando lei si svegliò: «Mi hanno violentata tutti».

Ciro Grillo, i verbali dell'amica della ragazza: "Com'era ridotto il suo corpo il giorno dopo". Le immagini sono sparite. Libero Quotidiano il 06 maggio 2021. S.J., la ragazza italo-svedese che accusa Ciro Grillo e gli altri tre ragazzi della Genova bene di averla stuprata, il giorno dopo si confida con un'amica A.M., via chat. "Quel pomeriggio ho ricevuto un suo messaggio su Snapchat, mi diceva: 'Ti devo raccontare cosa è successo'. Sapevo mi avrebbe scritto un messaggio lunghissimo, era il suo modo di farmi sapere qualcosa che avrebbe richiesto un po' di tempo". Su Snapchat i contenuti scambiati e condivisi si cancellano automaticamente. E A.M. .è l'unica testimone ad aver visto quelli che sembrano segni di violenza sul suo corpo, riporta il Fatto quotidiano: "Ricordo di alcune foto di lei davanti a uno specchio - si legge nei verbali - in cui si vedevano chiaramente alcuni lividi sul costato a sinistra, sulla scapola destra e sulla coscia o all'altezza del bacino. Disse di avvertire dolori nelle parti intime. Purtroppo l'applicazione cancella foto e messaggi subito dopo la lettura. E io non li ho salvati perché avevo timore di metterla in imbarazzo, poiché stava perdendo molto peso in maniera molto preoccupante e non era seguita da alcun specialista". Il 5 settembre 2019, ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano A.M. racconta che l'amica è "una ragazza solare, molto educata e di buona famiglia", ma "con una mentalità un po' infantile" e "un po' troppo influenzabile". I militari hanno già perquisito i quattro ragazzi genovesi indagati: Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, e gli amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. "Io e S. ci raccontiamo tutto", esordisce A.M. "Mi aveva anche confidato di un'altra violenza subita in Norvegia, tra gennaio o febbraio". Su Snapchat, la giovane parla ad A.M. della serata passata al Billionaire con l'amica R.: "Mi scrisse che dopo erano andate da questi ragazzi e che R. si era addormentata sul divano. Lei aveva iniziato a baciarsi con uno di loro, Francesco, ma quando lui aveva voluto di più e lei aveva rifiutato, lui l'aveva costretta a stargli sotto, l'aveva spogliata e poi avrebbe abusato di lei. In seguito l'aveva portata in bagno e mi disse che mentre era sotto la doccia sentiva gli altri che bussavano alla porta. Terminato il rapporto, Francesco era uscito e lei era andata da R., ma lei avrebbe fatto un gesto come se non le importasse, continuando a dormire". Quindi la vodka che i ragazzi l'avrebbero costretta a bere. "Sentiva i postumi dell'alcol, poi mi ha scritto di aver avuto un black-out. Ricorda di aver trovato i quattro ragazzi nudi nella stanza". Da qui inizierebbe la violenza di gruppo. "Era molto arrabbiata con R. perché non l'aveva difesa. Mentre A., l'altro amico con loro al Billionaire, voleva picchiare i ragazzi. Il 21 luglio mi chiese un consiglio per evitare un'eventuale gravidanza. Io le ho suggerito di prendere la pillola dei 5 giorni dopo, cosa che poi mi ha scritto di aver fatto".  

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 12 maggio 2021. Nella loro visione della vita quell' esperienza era da raccontare. Sesso in tre con una sola ragazza e poi, quando lei torna a casa, le vanterie con gli amici via chat. Cose più o meno come queste: «Che è successo?». «È stato forte», oppure «Poi ti dico fra', so' stanchissimo». Qualcuno li incalzava: «Ma com' era?», nel senso: era bella o brutta? Risposta: «Mah...niente di che...». Messaggi brevi, parole spesso oscene per descrivere una situazione che loro raccontano come un divertimento, lei come un incubo. Che loro chiamano «sesso consenziente», lei «violenza». «All' inizio sembrava che non volesse...» spiega uno dei ragazzi a un amico che vuole sapere. E così quella ragazza bionda conosciuta al Billionaire diventa una specie di trofeo da esibire nei messaggini per amici lontani. La voce di lei che «ci stava» e della performance sessuale dei tre si moltiplica nell' arco di poche ore. Diventa un racconto aperto a esterni e da mescolare alle bevute, al mare, ai festeggiamenti per la maturità appena sostenuta. Sui social o su WhatsApp, nel gruppo «Official Mostri» o nei messaggi diretti: è la narrazione di ore spensierate. È il vanto in quel messaggio - «3 vs 1» - che uno di loro invia agli amici. Ed è un'altra storia rispetto a quella drammatica che racconta lei. Lei è Silvia, la ragazza italonorvegese che oggi ha 21 anni e che nel 2019 denunciò per violenza sessuale di gruppo Ciro Grillo (il figlio del garante del Movimento 5 Stelle) e i suoi amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. I fatti sono ormai noti. Una serata al Billionaire di Briatore, a Porto Cervo; Silvia e la sua amica Roberta che conoscono i quattro ragazzi genovesi; i balli fino alle cinque del mattino e poi l'invito per una spaghettata nella villetta che i quattro hanno preso in affitto per le vacanze, proprio accanto a quella di Grillo senior, a Cala di Volpe. Le ragazze, che non trovano un taxi per tornare al loro bed&breakfast, accettano l'invito con la promessa che poi saranno accompagnate a casa. Da qui in poi ciò che succede quel mattino (è il 17 luglio 2019) è il racconto di versioni diverse in un fascicolo giudiziario aperto dalla Procura di Tempio Pausania. Roberta si addormenta sul divano e Silvia, invece, racconta ore di sopraffazione e violenza. Il primo ad abusare di lei - spiega agli inquirenti quando fa denuncia - è Francesco (che nega e parla di un normale rapporto sessuale). Dice che l'ha violentata prima nella camera da letto e dopo in bagno, dove l'ha trascinata. Ricostruendo i fatti racconta che poi - sempre mentre Roberta dormiva - gli altri tre l'hanno costretta a mandar giù mezza bottiglia di vodka e hanno abusato di lei che per via dell'alcol non era in grado di opporre nessuna resistenza. Nella sua versione in quella stanza c'è anche la voce di Francesco ma sia lui sia gli altri dicono che invece lui a quel punto dormiva. «Non è vero», negano in ogni caso gli altri tre a proposito della violenza. «Lei ci stava e ha bevuto da sola un quarto di bottiglia di vodka che era allungata con lemon». Nelle chat non ci sarebbero riferimenti né alla vodka né a situazioni di violenza. Fra le frasi evidenziate dai magistrati quel «3 vs 1» e poi «ho paura che quella ci ha denunciato», parole che Edoardo scrive a Vittorio il giorno in cui gli sequestrano il telefonino. È il 29 agosto 2019 e Francesco compiva 19 anni. Il compleanno peggiore della sua giovane vita.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 13 maggio 2021. A verbale è descritto questo: non soltanto lei «ci stava», come dicono loro. Ma, in sostanza, avrebbe proposto proprio lei il sesso di gruppo. I ragazzi accusati della violenza a casa di Ciro Grillo, il figlio del garante del Movimento Cinquestelle, si difendono, negano, attaccano. «Ma quale violenza...» è la sintesi della loro versione davanti ai magistrati. Proprio Ciro, nel suo interrogatorio racconta che «la mattina del 17 luglio 2019 eravamo nel patio io, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta assieme a Silvia (che, ricordiamo, non è il suo vero nome, ndr ). Silvia ha bevuto qualche sorso di vodka, da sola e senza che nessuno di noi la costringesse. Dopo la vodka ricordo che abbiamo parlato in modo scherzoso del rapporto sessuale che lei aveva appena avuto con Francesco Corsiglia (il quarto ragazzo coinvolto nell' inchiesta, ndr) e parlando lei ci ha lasciato intendere che era meglio una cosa con tre piuttosto che con uno solo». Poi il racconto del «siamo andati tutti di là» e i dettagli di quel che descrivono come «rapporto consensuale». Ciro dice a un certo punto che quel che è successo in camera «doveva essere un gioco» ma che «poi siamo andati un po' più in là...». La difesa quindi parla di «qualche sorso di vodka» bevuto spontaneamente, non mezza bottiglia fatta bere a forza (come racconta invece lei) né di «un quarto» di bottiglia bevuto «per sfida», come ha detto Lauria in una intervista rilasciata al programma Non è l'arena. Il capo di imputazione accusa tutti e quattro di violenza sessuale di gruppo aggravata dall' uso delle sostanze alcoliche e racconta tutta un'altra storia. Cioè che «il rapporto sessuale con Francesco Corsiglia» era uno stupro e che il resto è andato così: «Quando ormai si era fatto giorno ed erano circa le 9 del mattino, in concorso e riuniti fra loro, dopo che Lauria, Capitta e Grillo l'avevano forzata a bere della vodka afferrandola per i capelli e tirandole indietro la testa, approfittando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica di lei la quale era reduce da una intera notte insonne trascorsa in discoteca, dalle violenze sopra descritte (di Corsiglia, ndr ) e aveva comunque ingerito una consistente quantità di vodka, la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali con ciascuno di loro».

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 13 maggio 2021. È la mattina del 17 luglio 2019. In una villetta a Cala di Volpe, in Sardegna, ci sono quattro ragazzi genovesi amici d' infanzia e due ragazze di Milano conosciute la sera prima al Billionaire di Briatore, a Porto Cervo. Il 26 luglio, nove giorni dopo, una delle due ragazze racconta ai carabinieri - a Milano - che in quella villetta, quel giorno, aveva subito violenza. Ripetutamente e da tutti e quattro, mentre la sua amica dormiva. Un anno e dieci mesi dopo, quel racconto è il punto di partenza di un' inchiesta della Procura di Tempio Pausania. Ma è anche un caso politico scatenato dal garante del Movimento Cinquestelle, Beppe Grillo, che è il padre di uno degli accusati, Ciro, e che ha acceso la miccia delle polemiche con l' ormai celebre video in cui prende le difese del figlio e degli altri ragazzi: «non è vero niente che c' è stato lo stupro (...) una persona che viene stuprata la mattina e il pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia è strano (...) c' è il video, Si vede che c' è il gruppo che ride». Negli atti c' è un video, sì. Ci sono fotografie, chat, testimonianze, accertamenti, intercettazioni, interrogatori... Ma che cosa sappiamo finora di questa storia? I ragazzi finiti sotto accusa per violenza sessuale di gruppo aggravata dall' alcol sono Ciro e tre suoi amici d' infanzia, tutti classe 2000: Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. La ragazza che li ha denunciati per prima è italonorvegese e tutti la chiamano Silvia anche se non è il suo vero nome. Roberta invece è il nome di fantasia scelto per la sua amica che, appunto, dormiva durante le violenze raccontate da Silvia e che a sua volta ha subito abusi sessuali (foto e video osceni) mentre era addormentata. Le due erano arrivate al Billionaire insieme ad altri tre amici, uno dei quali conosceva Ciro. Presentazioni e tavolo in condivisione con altri (in tutto una quindicina di persone). Una notte di balli, con bottiglie di alcol sul tavolo da cui servirsi liberamente. Alle 3.30 gli amici con cui le ragazze sono arrivate tornano a casa. Loro due restano fino alla chiusura, alle cinque. Ma a quell' ora non trovano taxi per tornare a casa e così il gruppetto dei genovesi le invita a una spaghettata a Cala di Volpe. «Poi vi riportiamo noi al bed & breakfast», promettono. Quando arrivano a casa di Grillo junior le ragazze non sono ubriache. Roberta dichiara ai carabinieri che nessuno lo era. Silvia fa mettere a verbale che dal tavolo del Billionaire si è servita soltanto con un bicchiere di champagne e una vodka con redbull. Alle sei del mattino, con la spaghettata, l' effetto dell' alcol preso in discoteca è svanito. Sono tutti sobri e stanchi. Silvia racconta che mentre Roberta cucina con gli altri lei va con Francesco in camera da letto a prendere una coperta e dice che lui prova un approccio sessuale. «Sono riuscita a respingerlo e a divincolarmi». Sparecchiato tutto Roberta si mette a dormire sul divano. Sono ormai passate le sei del mattino, è ora di andare a dormire. È da qui in poi che Silvia racconta le violenze, prima di Francesco e, dopo più di due ore, anche degli altri tre. La Verità - che di questa storia ha pubblicato in esclusiva molti degli atti d' inchiesta - ricostruisce il racconto dettagliato e drammatico che Silvia mette a verbale. Lei si infila nel letto - dice - e lì arriva Francesco che la afferra per i capelli e la costringe con la forza a un rapporto sessuale prima in camera da letto e poi in bagno, dove la trascina a forza. Lui nega tutto. Niente violenza, né prima degli spaghetti né dopo. Lei ci stava. E poi, ha spiegato, siamo andati in bagno per avere più intimità perché la camera da letto non ha la porta, ma soltanto una tenda. Silvia ricorda che a quel punto voleva tornare a casa: «Sono andata da Roberta che dormiva. Mi sono seduta per terra accanto a lei, l' ho svegliata, non riuscivo a parlare, le ho detto che mi avevano violentata. Inizialmente non capiva, gliel' ho ripetuto e le ho chiesto se potevamo andare a casa. Lei si è seduta sul divano e mi ha fatto spallucce». Dopo essersi vestita Silvia torna da Roberta «che ancora non si era cambiata i vestiti». Silvia è sull'uscio, vuole chiamare un taxi ma Vittorio la convince: «Ci ha chiesto di aspettare un po' perché Francesco non poteva guidare avendo bevuto». Quindi Roberta torna sul divano a dormire e Silvia si siede nel gazebo con gli altri. Lei non dice nemmeno una parola su una gita - chiamiamola così - fatta fra la prima delle violenze che racconta (Francesco) e la seconda parte degli abusi, quella con tutti e tre gli altri. Loro invece parlano di un salto in paese a prendere le sigarette. Ci sarebbe andato Francesco (il solo patentato), Vittorio ed Edoardo assieme a Silvia. Uno dei ragazzi ha rintracciato anche una fotografia che mostrerebbe proprio la ragazza con Francesco e gli altri due in macchina durante il percorso da Cala di Volpe al tabaccaio. Silvia dice che dopo la violenza di Francesco, mentre era nel gazebo con i ragazzi, Vittorio ha preso la bottiglia della vodka e «mi ha afferrato con forza la testa. Con una mano mi teneva il collo da dietro e con l' altra mi forzava a berla tutta. Dopo aver bevuto sentivo che mi girava la testa». Da lì in avanti il racconto è quello di uno stupro di gruppo (in parte ripreso dal famoso video di cui parla Grillo senjor) fino a quando «ho perso conoscenza». Francesco giura di essersi addormentato dopo la gita delle sigarette. I tre ragazzi, come lui, negano tutto. Niente violenza, lei era consenziente e ha bevuto solo «qualche sorso» di vodka. Sono molti i testi sentiti a verbale, alcuni dei quali ricordano oggi dettagli non raccontati ai carabinieri nel 2019 o narrati in modo diverso. Fra gli altri anche la mamma di Ciro, Parvin Tadik, che quella mattina era nella villetta accanto assieme alla sua colf. Alcuni quotidiani ieri hanno pubblicato la sua versione: «Non abbiamo visto e sentito nulla di anomalo».

"Lei non era niente di che...". Spuntano gli sms choc di Grillo e amici. Luca Sablone il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. I messaggi tra gli amici dopo la notte a base di sesso: "All'inizio sembrava che lei non volesse...". Poi il timore: "Ho paura che quella ci ha denunciato". Si aggiungono altri dettagli al caso Ciro Grillo. I fari sono sempre puntanti su quella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe. Cosa è accaduto veramente? C'è stato uno stupro di gruppo o i rapporti con la ragazza erano consenzienti? Secondo Silvia i componenti della comitiva avrebbero abusato di lei, mentre i quattro amici genovesi respingono le accuse e sostengono che la giovane fosse consapevole al momento dell'atto sessuale. Un intreccio di testimonianze, versioni e racconti che però deve fare i conti con una serie di incongruenze e un'indagine che solamente pochi giorni fa si è conclusa.

Spuntano gli sms. Nel frattempo continuano a emergere diversi particolari sulla vicenda che coinvolge il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia dopo una serata passata alla discoteca Billionaire. A svelare il contenuto di alcuni messaggi scambiati è il Corriere della Sera, che riporta solamente alcuni degli sms inviati dopo aver trascorso la notte in compagnia di Silvia e Roberta. "Che è successo?"; "È stato forte"; "Poi ti dico fra', so' stanchissimo"; "Ma com'era?". Probabilmente il riferimento era proprio alla ragazza con cui avevano consumato il rapporto: "Mah... niente di che...". "All'inizio sembrava che non volesse...", avrebbe spiegato poi uno del gruppo a un amico che voleva maggiori informazioni su quella notte. Da una parte Silvia parla di "violenza"; dall'altra la comitiva genovese ritiene sia stato "sesso consenziente" sottolineando che lei "ci stava". Vi avevamo già parlato di quel famoso sms, "3 vs 1". Qual è il vero significato? Un messaggio di vanto e di compiacimento come in un videogioco? Oppure si intendeva che ci fossero tre versioni contro una? Senza dimenticare i timori di uno dei ragazzi nelle ore successive: "Ho paura che quella ci ha denunciato".

Costretta a bere vodka? Bisognerà comunque far luce sul "nodo vodka". L'assunzione di alcol ha un'importanza fondamentale nel caso Grillo. Silvia ha raccontato di essere stata costretta a bere vodka (forse un quarto di bottiglia, allungata con lemon) mentre era tenuta per i capelli. Invece uno della comitiva ha riferito che sarebbe stata proprio la giovane studentessa a berla - di sua spontanee a volontà - per sfidare il gruppo: "Nel video si vede che la ragazza comunque sta benissimo e che noi non costringiamo niente. Per sfida lei ha bevuto la vodka, perché noi non riuscivamo a berla".

"Non ho sentito nulla...". La madre di Ciro Grillo nega lo stupro. Luca Sablone il 12 Maggio 2021 su Il Giornale.  La testimonianza della mamma di Ciro: "I ragazzi erano tutti tranquilli, non mi è stata fatta alcuna confidenza specifica sulla serata". Nei verbali si legge anche la testimonianza di Parvin Tadjik, che potrebbe rappresentare uno dei testimoni chiave per scagionare il figlio Ciro Grillo e gli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. La giovane Silvia li accusa di stupro, mentre i ragazzi ritengono che quella notte sia andato in scena solo del sesso consenziente. Su questo sarà chiamata a esprimersi la procura di Tempio Pausania. Intanto, tra le varie versioni fornite, vi è anche quella della moglie di Beppe. Proprio in quel periodo si trovava in vacanza nella sua casa in Sardegna, situata a pochi metri dalla dependance dove i ragazzi avevano trascorso una notte in compagnia delle due amiche. La madre di Ciro, sentita a verbale dal procuratore Gregorio Capasso e dal pm Laura Andrea Bassani, ha ricostruito le ore tra il 16 e il 17 luglio 2019 e i momenti successivi. Ha rivelato, ad esempio, che l'ipotetico stupro (ma per il gruppo si trattava di sesso consenziente) sarebbe avvenuto non nell'appartamento di proprietà di Beppe Grillo ma in una dependance messa a disposizione da un'amica: "Non avendo spazi a sufficienza per ospitare anche gli amici di mio figlio, e comunque volendo mantenere la mia privacy, ho chiesto a una mia amica con cui ci scambiavano favori di poter dare in uso la sua abitazione ai ragazzi per il periodo di vacanza". L'immobile di loro proprietà si trova al civico 36, mentre quello della sua amica al 37: "Le due abitazioni sono vicinissime e adiacenti. E in realtà sono divise solo da un patio".

"Non abbiamo visto nulla". Per "motivi di tranquillità", racconta la Tadjik, aveva chiesto di tenere le finestre aperte durante la vacanza "in modo da essere sempre comunque in contatto con loro". Dunque la mattina del 17 luglio - quando Silvia (secondo la sua versione) sarebbe stata violentata - a pochi metri di distanza nessuno si sarebbe accorto di nulla: "Mi sono svegliata presto perché ho sentito la mia amica partire passando dalla porta finestra ma non mi sono alzata. L’ho fatto alle 9 quando ho fatto colazione nel patio adiacente la casa e devo dire che non ho sentito o visto nulla di anomalo". Cita poi la colf che "faceva le pulizia tutti i giorni anche nelle casa in uso ai ragazzi" e il giardiniere che "quella mattina lavorava nei giardini antistanti le abitazioni".

Cosa è accaduto dopo. La moglie di Grillo, si legge su La Stampa, ha riferito poi ai magistrati una situazione di serenità all'interno della casa dopo quella notte: "I ragazzi erano tutti tranquilli e non mi è stata fatta alcuna confidenza specifica sulla serata. Se non che avevano conosciuto due ragazze che si erano fermate da loro perché non se la sentivano di rientrare a Porto Pollo e che avevano fatto una spaghettata insieme". Anzi, ha raccontato che quel giorno con i ragazzi ha registrato un video sul cellulare che poi è stato inviato a tutte le altre tre mamme: "Ci conosciamo tra noi da tanto tempo e con i loro genitori abbiamo anche una chat su WhatsApp dove ci teniamo in contatto e in cui ho postato il video dei ragazzi". La Tadjik ha raccontato di essersi arrabbiata con suo figlio e gli amici genovesi per essere arrivati in ritardo a pranzo: "Mangiavamo insieme tutti i giorni alle 14 ma quel giorno sono arrivati alle 15. Per questo ho chiesto spiegazioni". Ricorda che il figlio Ciro e l'amico Francesco le dissero "di aver fatto tardi per aver accompagnato le due ragazze ad Arzachena".

Tommaso Fregatti per "la Stampa" il 12 maggio 2021. «Non abbiamo visto e sentito nulla di anomalo. Io, la mia colf che tutte le mattine faceva le pulizie e rassettava anche la dependance dei ragazzi ma neppure il giardiniere e la mia amica Cristina che, dopo un periodo di vacanza trascorso insieme a me, si era alzata presto per partire dalla Sardegna». Parvin Tadjik, 63 anni, moglie di Beppe Grillo, comico e leader del M5S, è per la difesa uno dei testimoni chiave per scagionare il figlio Ciro e gli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, accusati dalla Procura di Tempio Pausania di violenza sessuale nei confronti di due studentesse, la mattina del 17 luglio 2019. La moglie del comico genovese, infatti, proprio in quel periodo si trovava in vacanza nella sua casa in Sardegna e si trovava a pochi metri dalla dependance dove è avvenuta la violenza. Il 19 ottobre del 2019, due mesi dopo i fatti, sentita a verbale dal procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e dal pm Laura Andrea Bassani, ricostruisce le ore del presunto stupro e quelle successive. Svelando, per la prima volta, come la presunta violenza non sia avvenuta nell'appartamento di proprietà di Beppe Grillo quanto piuttosto in una dependance messa a disposizione da un'amica. Dependance che si trova a fianco dell'abitazione dove dormiva Parvin. «Non avendo spazi a sufficienza per ospitare anche gli amici di mio figlio - dice la Tadjik a verbale - e comunque volendo mantenere la mia privacy ho chiesto a una mia amica con cui ci scambiavano favori di poter dare in uso la sua abitazione ai ragazzi per il periodo di vacanza. L'immobile di nostra proprietà si trova al civico 36 mentre quello della mia amica al 37. Le due abitazioni sono vicinissime e adiacenti. E in realtà sono divise solo da un patio». Tadjik evidenzia ai carabinieri come l'immobile sia di proprietà della Gestimar «facente capo a suo marito Giuseppe (Beppe ndr) Grillo» (si tratta di una società immobiliare titolare di diversi immobili tra Valle d'Aosta, Sardegna e Liguria di cui il comico ha il 99 per cento delle quote ma viene di fatto amministrata dal fratello) e spiega che in quei giorni era stata sempre stata molto attenta alla sicurezza dei ragazzi. «Per motivi di tranquillità mia - precisa in Procura - avevo chiesto durante la vacanza ai ragazzi di tenere le finestre aperte della sala anche di notte, così come facevo io, in modo da essere sempre comunque in contatto con loro, fermo restando che le zanzariere restano chiuse». Dunque la mattina del 17 luglio quando Silvia venne violentata (secondo la ricostruzione dei magistrati) prima da Corsiglia e poi da Ciro, Capitta e Lauria, a pochi metri di distanza dormivano tre persone che non si sarebbero accorte di nulla. «Mi sono svegliata presto - aggiunge la moglie di Grillo - perché ho sentito la mia amica partire passando dalla porta finestra ma non mi sono alzata. L'ho fatto alle 9 quando ho fatto colazione nel patio adiacente la casa e devo dire che non ho sentito o visto nulla di anomalo». Cita come testimoni delle sue dichiarazioni oltre all'amica anche la colf Rosa Marilù che «faceva le pulizia tutti i giorni anche nelle casa in uso ai ragazzi» e il giardiniere Massimo che «quella mattina lavorava nei giardini antistanti le abitazioni». Ai magistrati poi Tadjik ricostruisce le ore successive allo stupro. Raccontando di una situazione di serenità all'interno della casa. «I ragazzi erano tutti tranquilli - dice - e non mi è stata fatta alcuna confidenza specifica sulla serata. Se non che avevano conosciuto due ragazze che si erano fermate da loro perché non se la sentivano di rientrare a Porto Pollo e che avevano fatto una spaghettata insieme. Anzi, proprio quel giorno con i ragazzi abbiamo registrato un video sul mio telefono che abbiamo inviato a tutte le altre tre mamme. Ci conosciamo tra noi da tanto tempo e con i loro genitori abbiamo anche una chat su Whatsapp dove ci teniamo in contatto e in cui ho postato il video dei ragazzi». Parvin racconta di essersi alterata poco prima del video con suo figlio e gli amici perché arrivati in ritardo a pranzo. «Mangiavamo insieme tutti i giorni alle 14 ma quel giorno sono arrivati alle 15 - prosegue - per questo ho chiesto spiegazioni. Ricordo perfettamente che sia mio figlio Ciro che Francesco mi dissero di aver fatto tardi per aver accompagnato le due ragazze ad Arzachena». La moglie di Grillo parla anche dei giorni e le ore precedenti la notte di follia. E cioè l'arrivo del figlio Ciro in Sardegna l'11 luglio «cinque giorni dopo di me». E il fatto che il 12 luglio «festeggiasse il suo compleanno». Ma anche come si fidasse dei ragazzi che erano con lui. E cioè Vittorio, Edoardo e Francesco che Ciro «conosceva sin dall'asilo». «Pranzavamo e cenavamo insieme - conclude - poi loro uscivano per conto loro e avevano i loro spazi autonomi. Quella sera ho accompagnato io con la mia macchina i quattro ragazzi in discoteca al Billionaire perché volevo evitare che tornassero in auto. Preferivo prendessero il veicolo di giorno».

"Doveva essere un gioco...". Adesso Ciro Grillo prova a difendersi. Luca Sablone il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Il figlio del garante del M5S prova a giustificarsi: "Poi siamo andati un po' più in là, ma la ragazza ha bevuto vodka da sola". La posizione di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia è chiara: respingono l'accusa di stupro e sostengono che sia andato in scena solamente del sesso consenziente. Su cosa però sia realmente accaduto quella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe sarà chiamata a esprimersi la procura di Tempio Pausania. La giovane studentessa ha dichiarato di essere stata abusata contro la sua volontà, mentre i quattro amici genovesi ritengono che fosse consenziente in occasione degli atti sessuali. Lo ha ribadito anche il figlio del garante del Movimento 5 Stelle, che di fronte ai carabinieri ha provato a chiarire la sua posizione.

La versione di Ciro Grillo. Come si legge su La Repubblica, la sua versione presuppone la consensualità della giovane conosciuta in discoteca al Billionaire: "Doveva essere un gioco, poi siamo andati un po' più in là". La parte centrale del racconto di Grillo jr riguarda la notte trascorsa nell'appartamento antistante al villino in cui dormiva sua madre Parvin Tadjik: "La mattina del 17 luglio 2019 eravamo nel patio io, Lauria e Capitta assieme a Silvia". La ragazza ha denunciato che a quell'ora sarebbe stata già costretta ad avere un rapporto sessuale con Francesco Corsiglia. Il figlio di Beppe ha inoltre chiarito l'aspetto relativo all'alcol: da una parte Silvia dice di essere stata costretta a bere vodka mentre era tenuta per i capelli; dall'altra i componenti del gruppo riferiscono che sarebbe stata proprio lei a berla, di sua spontanea volontà, per sfidare la comitiva. "Silvia ha bevuto qualche sorso di vodka. Ha bevuto soltanto lei e senza che nessuno di noi la costringesse. Dopo la vodka ricordo che abbiamo parlato in modo scherzoso di Corsiglia e del fatto che erano stati insieme", è la sua dichiarazione. Solo dopo, appurata la consensualità, sarebbe arrivata la richiesta: "A quel punto le abbiamo detto: 'Allora andiamo in camera'".

La mamma di Grillo jr. Una testimonianza chiave per gli sviluppi della vicenda potrebbe essere quella di Parvin Tadjik, la moglie di Beppe Grillo che ha fornito il suo racconto relativo a quella notte e alle ore successive. La donna ha fatto sapere di essersi svegliata verso le 9 e di aver fatto colazione nel patio adiacente la casa: "Devo dire che non ho sentito o visto nulla di anomalo". Anche perché, dettaglio di non poco conto, le finestre sarebbero rimaste aperte durante quelle ore: "Avevo chiesto durante la vacanza ai ragazzi di tenere le finestre aperte della sala anche di notte, così come facevo io, in modo da essere sempre comunque in contatto con loro".

Giacomo Amadori per "la Verità" il 13 maggio 2021. È con Ciro Grillo il nome più noto di questa brutta storia. Stiamo parlando di Vittorio Lauria, accusato insieme con tre coetanei di aver stuprato la coetanea S.J. e di aver molestato l'amica R.M. Infatti una sua chiacchierata con Fabrizio Corona trasmessa in tv ha suscitato polemiche e ha convinto il suo avvocato, Paolo Costa, a rimettere il mandato difensivo. A sostituirlo è stato un principe del foro genovese come Alessandro Vaccaro. Lauria è accusato di avere violentato S. insieme con Edoardo Capitta e Grillo junior durante un'orgia e di aver fatto video e foto oscene intorno a R.M. dormiente. Con i magistrati di Tempio Pausania, il giovanotto, il 5 settembre 2019, ha offerto una versione antitetica rispetto a quella di S., anche questa pubblicata in esclusiva dal nostro giornale. Due letture opposte e inconciliabili di una stessa serata di follia. L'interrogatorio parte dalla serata al Billionaire: «Dopo aver preso un tavolo ed esserci incontrati con altre persone, di cui alcuni amici di Ciro, abbiamo consumato tutti insieme due bottiglie, una di vodka e una di spumante. Eravamo circa 11 o 12 persone comprese S. e R. che conoscevo in quell'occasione. Con le medesime non ho avuto particolare modo di interloquire durante la serata. Vidi S. e Ciro baciarsi in discoteca». Un ricordo confermato anche da R., una delle due presunte vittime. La ragazza ha anche riferito un altro episodio descritto pure da Lauria: dopo l'uscita dalla discoteca «già sul taxi avevo notato che S. aveva poggiato il suo piede sulle gambe di Francesco (Corsiglia, il quarto indagato, ndr) e in seguito, mentre mangiavamo la pasta (a casa di Grillo, ndr) S. si era seduta sulle ginocchia di Corsiglia». Il resoconto dell'alba del 17 luglio prosegue: «A un certo punto S. e Francesco si sono trasferiti nella camera di Edoardo []. Io, Ciro ed Edoardo per gioco bisbigliavamo e ridevamo allo scopo di disturbare Francesco e S. in maniera goliardica. Francesco ci diceva di andare via perché avevamo esagerato nel disturbarli. Ciro si era arrabbiato perché all' inizio S. gli aveva dato un bacio e aveva avuto l'impressione che avesse un interesse particolare per lui». Un'arrabbiatura confermata anche da R. nel suo verbale. Insomma sembra che tra i ragazzi in quel momento ci fosse un po' di gelosia. Lauria dice di aver visto «Francesco sdraiato sul letto e S. a cavalcioni sopra di lui» che «si copriva con un lenzuolo». Non esclude poi di aver udito l'amico gridare alla ragazza «andiamo in bagno!», per consumare un secondo rapporto. A questo punto Vittorio ricostruisce a suo modo il momento in cui sono state scattate foto e video osceni: «In seguito con Edoardo e Ciro ci siamo spostati nella sala in cui dormiva R. e cercavamo di infastidirla, le tiravamo per gioco delle caramelle». In realtà le immagini estratte dai cellulari (che forse Lauria nel settembre del 2019 non ricordava) hanno portato i magistrati a contestare veri e propri abusi: Grillo e Lauria, per esempio, sono accusati di essersi fatti filmare da Capitta mentre si scoprivano i genitali vicino alla R. e Vittorio anche di essersi fatto fotografare in piedi con il pene «in prossimità del viso» della giovane. Nel verbale c'è, poi, la descrizione di S. che, dopo essere uscita dal bagno «con un accappatoio e un turbante», si intrattiene per un po' a parlare con l'amica R.. Nel racconto delle ragazze S. era sconvolta per la violenza subita da Corsiglia e stava piangendo. Lauria le smentisce: «Notai i capelli bagnati. Non aveva un'espressione particolare, né piangeva. Non ricordo segni di trucco sul suo viso». Vittorio avrebbe prestato alle due milanesi del vestiario: una casacca del Genoa a R., maglietta e pantaloncini a S.: «Quest' ultima dopo avere indossato la mia roba è uscita raggiungendoci nel gazebo». Poi S., Edoardo, Francesco e Vittorio (Ciro era andato a riposarsi), tra le 7 e le 7 e 30 sarebbero andati a comprare le sigarette in auto: «S. era tranquilla, scherzava normalmente con noi e non ho notato niente di strano». Al ritorno Francesco sarebbe andato a riposarsi, mentre Ciro si sarebbe unito agli altri. «Parlammo con S. del rapporto che aveva avuto con Francesco, ridendo e chiedendole come era andata» continua Vittorio, che descrive una S. molto diversa da quella che hanno incontrato i magistrati, una specie di mangiauomini: «Ricambiava con toni divertiti e scherzosi, dicendo poi la frase "meglio tre che uno"». Il gruppetto, mentre la temperatura ormonale saliva, avrebbe bevuto vodka mescolata a limonata, un avanzo della sera precedente: «Prima l' ha sorseggiata Edoardo, poi l' ho assaggiata io e l' ho ritenuta imbevibile, S. ne ha bevuto più di noi, meno di un quarto di litro []. Lei era seduta alla mia sinistra con una gamba accavallata sulle mie e mi disse: "Dammi che vi faccio vedere che ne bevo di più". Dopo questo lei disse: "Andiamo a dormire" []. E noi l' abbiamo seguita dopo circa un minuto, ritenendo che il suo fosse un invito a seguirla». Nella stanza c' erano due letti singoli uniti e da questo momento il verbale di Vittorio si trasforma nella sceneggiatura di un film pornografico. Inizialmente i tre indagati si sarebbero seduti intorno alla ragazza italo-norvegese e poi avrebbero iniziato ad amoreggiare. La descrizione dell' amplesso è in parte confermata dal frammento di video oggi agli atti. S. avrebbe praticato sesso orale a Ciro e masturbato Edoardo, mentre Vittorio la penetrava da dietro. Il verbale non risparmia particolari crudi e scabrosi, ma descrive anche l' imbarazzo del momento. Dice Lauria: «Stavamo tutti ridendo e non riuscivo ad eccitarmi perché la ritenevo una situazione molto strana []. Io avevo già avuto rapporti sessuali in precedenza, ma solo con una ragazza e una volta sola». Finito il rapporto Vittorio è andato in bagno: «Quando sono tornato, c' era Ciro da solo che mi disse che Edoardo e S. si erano spostati nell' altra stanza per proseguire il rapporto e che lui stesso avrebbe raggiunto S.». Lauria ha anche parlato del filmato: «Durante i rapporti sessuali abbiamo girato un video, in particolare lo ha fatto Edoardo, al quale, nei giorni successivi, chiesi di non farlo vedere a nessuno, né inviarlo ad alcuno, perché sono fidanzato. Non penso che Edoardo abbia mostrato in giro il video. S. non si è accorta di essere ripresa perché in quel momento era girata di spalle». Lauria ha anche risposto a una domanda sull' alcol ingerito dalla combriccola: «Presumo che S. abbia bevuto almeno un drink in discoteca, ma non saprei dirlo con certezza. A casa sicuramente ha bevuto la vodka lemon di cui ho parlato prima. Non l' ho vista bere nient' altro di alcolico. Non era ubriaca, era allegra, ma non dava segni di ebbrezza. Nessuno di noi era ubriaco, eravamo tutti lucidi. S. non mi ha mai chiesto di andare via da casa e non l' ho mai vista avere malesseri di alcun genere. Dopo questi episodi abbiamo visto dei video su "Instagram", sul profilo di S. , in particolare, in uno pubblicato il 17 luglio alle 16 e 30, c' era scritto "sono in perfette condizioni drunk + alcol" in inglese e una faccina in segno di silenzio. In seguito nessuno di noi l' ha più vista, né sentita».

Alcol, video hot e violenza sessuale: ecco su cosa si gioca il caso Grillo. Luca Sablone il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Dalla serata in discoteca ai rapporti sessuali: accusa e difesa divisi tra stupro e consensualità. Su quella notte ci sono ancora due versioni. Il punto di partenza dell'inchiesta della procura di Tempio Pausania è proprio la denuncia di Silvia: la ragazza ha raccontato di essere stata stuprata nelle ore passate in compagnia di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia dopo una serata in discoteca al Billionaire. I quattro amici genovesi respingono l'accusa di stupro e parlano invece di sesso consenziente. Le ricostruzioni giornalistiche si basano di certo non su convinzioni e certezze, ma su quanto messo a verbale dalle varie testimonianze raccolte dopo la notte tra il 16 e il 17 luglio 2019. L'accusa e la difesa sono divise tra stupro e consensualità: la partita si giocherà su alcolici e consenso, i due punti chiave di una vicenda che deve essere ancora chiarita e su cui rimane un'ombra di dubbi.

È stato stupro? La giovane studentessa ha riferito di essere stata costretta prima a un rapporto con Corsiglia e poi con gli altri tre ragazzi. Il suo racconto ripercorre quanto, a suo giudizio, sarebbe avvenuto nella villetta a Cala di Volpe: "Sbattuta sul letto, mettendosi sopra, baciandola sulla bocca e provando un approccio sessuale". Poi "spinta di spalle nel box doccia per un altro rapporto contro volontà". E ancora nella stanza da letto: "Gli altri la raggiugono, le vanno addosso sul letto ubriachi, la violentano a turno e insieme fino a quando perde conoscenza". Ha aggiunto anche di essere stata costretta a bere vodka mentre era tenuta per i capelli.

Il rapporto era consenziente? Ma è davvero andata così? Non secondo Ciro Grillo e i suoi tre amici, che invece hanno raccontato che la ragazza "ci stava" e che dunque non sarebbe stata affatto stuprata. Il figlio del garante del Movimento 5 Stelle sostiene che "doveva essere un gioco, poi siamo andati un po' più in là", sottolineando sempre la consapevolezza da parte della giovane: "Ha bevuto qualche sorso di vodka. Ha bevuto soltanto lei e senza che nessuno di noi la costringesse". Anche un altro componente della comitiva ha detto che sarebbe stata proprio lei a bere vodka, di sua spontante volontà, per sfidare il gruppo: "Nel video si vede che la ragazza comunque sta benissimo e che noi non costringiamo niente. Per sfida lei ha bevuto la vodka, perché noi non riuscivamo a berla".

Quel video hot. Alcuni conoscenti del gruppetto di Ciro Grillo hanno dichiarato a Non è l'arena di aver preso visione di un filmato ritraente la ragazza nel corso di un rapporto sessuale: "Un sacco di amici l'hanno visto. Con i telefoni gira tutto...". Un'amica è sicura che proverebbe la consensualità: "C'era complicità massima. Non mi è sembrata una scena di violenza. Una situazione ti dico proprio... Quattro cretini". Probabilmente si tratta dello stesso video a cui ha fatto riferimento Beppe Grillo nello sfogo choc pubblicato su Facebook: "C'è tutto un video, passaggio per passaggio, in cui si vede che c'è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così...". Dall'altra parte però c'è l'ira dei genitori di Silvia, che hanno esternato la loro rabbia alla luce di quanto emerso: "Abbiamo appreso che frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave". Sul tema si è espresso anche il Garante della privacy: "Chiunque diffonda tali immagini compie un illecito, suscettibile di integrare gli estremi di un reato oltre che di una violazione amministrativa in materia di privacy".

La colf, il giardiniere e la perizia fonometrica: chi ha sentito Ciro Grillo? Luca Sablone il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. La moglie di Beppe racconta: "Ho chiesto di tenere le finestre aperte, non ho sentito nulla di anomalo". Una perizia per capire cosa si possa sentire e a quale distanza. Rimangono ancora diversi dubbi sul caso Ciro Grillo. Cosa è accaduto realmente quella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe? Si è trattato di uno stupro o i rapporti sessuali sono stati consenzienti? La versione fornita dalla giovane è in contrasto con quanto raccontato dai quattro amici genovesi, che invece respingono l'accusa e parlano di consapevolezza da parte di Silvia al momento dell'atto. Pochi mesi dopo la denuncia della studentessa italo-norvegese è stata sentita Parvin Tadjik, la moglie di Beppe. La donna innanzitutto ha chiarito una cosa: qualunque cosa sia successo non è avvenuto in casa Grillo. La madre di Ciro ha infatti sottolineato che, "non avendo spazi a sufficienza per ospitare anche gli amici di mio figlio e comunque volendo mantenere la mia privacy", aveva chiesto a una sua amica "di poter dare in uso la sua abitazione ai ragazzi per il periodo di vacanza". L'immobile di Grillo si trova al civico 36, mentre quello della sua amica al 37: "Le due abitazioni sono vicinissime e adiacenti. E in realtà sono divise solo da un patio". Nel verbale si legge un altro dettaglio fornito: "Loro erano ospitati nell'abitazione a fianco, nella nostra dormivo io con la mia colf, e a rotazione sono venute alcune amiche a trovarmi".

La colf e il giardiniere. La Tadjik racconta di essersi svegliata alle ore 9 del mattino e di aver fatto colazione nel patio della sua abitazione: "Mi sono svegliata presto perché ho sentito la mia amica partire passando dalla porta finestra ma non mi sono alzata". C'è inoltre un particolare che potrebbe risultare cruciale per rivedere la posizione del figlio e gli amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria: "Non ho visto né sentito alcunché di anomalo. Quella mattina non sono andata in spiaggia, e quindi ne ho approfittato per sistemare un po' di cose". Poi la moglie di Beppe ha citato la colf che "faceva le pulizia tutti i giorni anche nelle casa in uso ai ragazzi" e il giardiniere che "quella mattina lavorava nei giardini antistanti le abitazioni".

La perizia fonometrica. I pm Gregorio Capasso e Laura Bassani, riporta Il Fatto Quotidiano, avrebbero già disposto una perizia fonometrica per capire cosa si possa sentire e a quale distanza. Nella testimonianza della madre di Ciro Grillo emerge un ulteriore dettaglio: la donna ha raccontato di aver chiesto ai ragazzi di tenere le finestre aperte durante la vacanza "in modo da essere sempre comunque in contatto con loro, fermo restando che le zanzariere restavano chiuse". Una richiesta avanzata ai quattro amici genovesi "per motivi di sicurezza e anche per la mia tranquillità".

Grillo Jr, spunta la pillola: perché può cambiare tutto. Valentina Dardari il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La giovane dice di aver assunto il farmaco dopo la violenza ma non ci sarebbero conferme a riguardo. Secondo la difesa lo fece molti giorni dopo. Quando la ragazza che ha denunciato di essere stata vittima di violenza sessuale da parte di Ciro Grillo e suoi amici, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, assunse la pillola anti-gravidanza? Su questo punto, che sembra essere fondamentale per accusa e difesa, ci sono però molte lacune e incertezze. Un po’ perché i filmati registrati dalle telecamere di sicurezza presenti dentro e fuori le farmacie sono ormai andati persi, un po’ perché i dipendenti non se lo ricordano. Eppure, sembra che servirebbe proprio fare chiarezza su quel punto per poter ricostruire quanto avvenuto la notte del 17 luglio 2019 nella casa a Porto Cervo di Beppe Grillo. Ma se questo non sarà possibile, il rischio è che quel particolare non farà parte del processo. Quasi due anni di indagini portate avanti da Procura e carabinieri non sono serviti per fare luce su quando la ragazza, studentessa milanese italo-norvegese di nome Silvia, comprò la pillola del giorno dopo per evitare il rischio di una gravidanza indesiderata. Secondo gli inquirenti circa ventiquattro ore dopo la presunta violenza. Due sono le farmacie della Costa Smeralda visitate dai militari, dove la ragazza potrebbe aver acquistato il farmaco. Nella prima, indicata inizialmente dalla stessa Silvia, nessuno l’avrebbe riconosciuta. Una delle farmaciste ha spiegato a verbale: “Il 18 luglio 2019 ho venduto quattro pillole del giorno dopo. Ma tra le persone non ricordo la giovane in questione”. Eliminata in parte la prima farmacia, le indagini si sono rivolte sulla seconda indicata dalla giovane. Qui una dipendente sembra ricordarsi più o meno della studentessa, senza però esserne certa e soprattutto senza sapere quando e che cosa possa avere comprato. Intanto i carabinieri hanno sequestrato le ricevute di entrambi i punti vendita. Anche nella seconda, quel 18 luglio sarebbero state vendute almeno cinque confezioni dello stesso farmaco. Nessun aiuto neanche dalle telecamere di sicurezza, dato che erano passati alcuni giorni tra la notte della violenza e la denuncia, formalizzata il 25 luglio, e i filmati risalenti al 18 luglio erano già stati cancellati. Le registrazioni infatti hanno durata di pochi giorni, al massimo sette, e quando sono arrivati i militari erano già state cancellate. Come riportato da La Stampa, per la difesa, i legali quindi di Ciro Grillo e degli altri giovani, il luogo e in particolare la data esatta di acquisto da parte della ragazza della pillola del giorno dopo sarebbero importanti. Nella prima denuncia Silvia aveva detto di aver assunto il farmaco il giorno successivo. Secondo le informazioni acquisite dai difensori, questo sarebbe invece avvenuto qualche giorno dopo. Per la difesa, se questo venisse confermato, starebbe a significare che la ragazza non era sconvolta per la notte passata in compagnia dei giovani. O che comunque ricordava poco cosa fosse successo. Amanda, la sua amica del cuore, quando era stata ascoltata dai carabinieri aveva dichiarato che Silvia non aveva preso niente fino al 21 luglio, quando hanno parlato al telefono. “Sono stata io a consigliarle, dopo quello che mi aveva raccontato, di prendere la pillola. Lei mi disse che sarebbe andata nella farmacia più vicina e poche ore più tardi mi ha inviato un messaggio dicendo di averla presa” aveva raccontato Amanda. Alquanto difficile comunque adesso, dopo quasi due anni, chiarire questo particolare.

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per “la Stampa” il 14 maggio 2021. Farmacia sbagliata, registrazioni delle telecamere ormai cancellate, ricostruzione lacunosa e memoria delle inservienti poco fotografica. E così un elemento importante per ricostruire la notte di follia nel residence di Porto Cervo di Beppe Grillo rischia di uscire dall' eventuale e futuro processo. In quasi due anni di indagini Procura e carabinieri non sono riusciti a dimostrare con certezza il giorno in cui Silvia, la studentessa milanese che secondo l'accusa è stata violentata il 17 luglio 2019 da Ciro Grillo e dai suoi amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, ha acquistato la pillola del giorno dopo. Farmaco che, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sarebbe stato assunto dalla studentessa milanese ventiquattr' ore dopo la violenza, per evitare una possibile gravidanza. Nelle carte dell'inchiesta recentemente depositate sono evidenziati due sopralluoghi dei carabinieri in due diverse rivendite della Costa Smeralda. Tuttavia nel primo negozio, quello indicato in un primo tempo dalla ragazza italo-norvegese, nessuno l'ha riconosciuta. «Il 18 luglio 2019 - ha spiegato una delle farmaciste a verbale - ho venduto quattro pillole del giorno dopo. Ma tra le persone non ricordo la giovane in questione». I militari a quel punto hanno chiesto nuove delucidazioni alla vittima, che ha indicato un'altra farmacia. Nel secondo esercizio l' rma ha trovato un' impiegata che ha definito «compatibile» la foto della studentessa, ma non l'ha riconosciuta con certezza e non ha saputo dire quale farmaco abbia acquistato né quando. I carabinieri hanno sequestrato tutte le ricevute, ma anche nella seconda farmacia il 18 luglio risultano vendute almeno cinque scatole di quella tipologia. Inoltre, poiché erano passati diversi giorni dai fatti (la denuncia è stata formalizzata il 25 luglio) non sono riusciti a trovare il passaggio di Silvia nelle telecamere dei due negozi. Gli impianti di videosorveglianza conservano infatti le registrazioni per pochi giorni (una settimana al massimo) e all' arrivo dei carabinieri il server era già stato sovrascritto. Perché la data dell'acquisto rappresenta un elemento di rilievo? Per il collegio difensivo che assiste Ciro Grillo e gli altri studenti genovesi, quella sul luogo e soprattutto sul giorno di acquisto sarebbe una delle contraddizioni più importanti di Silvia. Che avrebbe assunto il medicinale, secondo le loro informazioni, non il giorno successivo lo stupro come specificato nella prima denuncia, ma più avanti. E questo, sempre a parere dei difensori degli indagati, dimostrerebbe come la ragazza non fosse sconvolta al mattino o comunque - sempre nell' opinione dei difensori - poco sicura di quanto accaduto. A svelare la circostanza che rende meno chiaro il racconto Silvia agli inquirenti era stata la sua stessa amica del cuore, Amanda. Ascoltata in caserma, aveva dichiarato che la medesima Silvia non aveva preso nulla fino al 21 luglio, giorno in cui si è sentita telefonicamente con lei: «Sono stata io - racconta l'amica - a consigliarle, dopo quello che mi aveva raccontato, di prendere la pillola. Lei mi disse che sarebbe andata nella farmacia più vicina e poche ore più tardi mi ha inviato un messaggio dicendo di averla presa». Eppure ora, nonostante quasi due anni di accertamenti, sarà pressoché impossibile ricostruire nel dettaglio questo aspetto.

Girllo Jr, l'intercettazione: "Mandameli, non li ho visti..." Luca Sablone il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. Quella chiamata intercettata che ha svelato la presenza dei filmati sul cellulare: "Non posso girarteli, poi ti racconto quando vengo..." Adesso è spuntata quella conversazione che ha consentito di accelerare i tempi nell'ambito del caso Ciro Grillo e che ha svelato la presenza dei video nel cellulare, considerato un indizio molto importante per l'accusa. La telefonata risale al 9 agosto 2019 quando Edoardo Capitta, non sapendo di essere intercettato da giorni, è in chiamata con un suo amico non meglio identificato. I due continuano a parlare di alcuni filmati e con il passare dei minuti i carabinieri riescono a delineare molteplici dettagli: quei video riguarderebbero infatti proprio la mattina del 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe, quando i quattro amici genovesi hanno passato diverse ore in compagnia di due ragazze conosciute in discoteca al Billionaire. Una delle due giovani ha denunciato il gruppo di stupro, mentre la comitiva si difende e sostiene che i rapporti sessuali fossero del tutto consenzienti. Gli inquirenti non sanno dell'esistenza di spezzoni brevi di video e di alcune fotografie che potrebbero documentare quanto avvenuto quella notte con Ciro Grillo e i suoi tre amici. Poi arriva la telefonata che cambia il passo sulla vicenda e aggiunge ulteriori dettagli di particolare rilievo. Un amico tartassa Capitta di domande, su cosa fosse accaduto con le due ragazze, su chi avesse fatto cosa e in che modo. E poi si parla espressamente di filmini. Questo, come riportato da La Repubblica, lo scambio di battute rispettivamente tra l'amico e Capitta: "Dai mandameli..."; "No, non li mando a nessuno"; "Dai, sono l'unico che non li ha visti!"; "No, non posso. Poi ti racconto quando vengo...". In pratica la conversazione dice agli investigatori due cose: la prima è relativa appunto alla presenza di filmati che potrebbero provare o meno ciò che Silvia ha raccontato; la seconda riguarda il fatto che quei filmati sono stati già visti da altre persone, magari da amici del gruppetto. Però va fatta una precisazione doverosa: sul Corriere della Sera si legge che quei video non sarebbero mai usciti dal cellulare di Capitta, mai condivisi con altri, probabilmente consapevole dei relativi rischi. Così gli inquirenti 20 giorni dopo, ovvero il 29 agosto, decidono di sequestrare i telefonini ai ragazzi. Il 23 maggio scadranno i 20 giorni a disposizione delle difese, entro i quali potranno chiedere altri accertamenti o nuovi interrogatori. Non è da escludere la possibilità che venga proposto un ulteriore accertamento sulle celle telefoniche a cui - tra il 16 e il 17 luglio 2019 - si sono agganciati telefonini dei quattro, di Silvia e dell'amica Roberta. Il che servirebbe per definire meglio spostamenti e orari. Ma se venissero accolte, l'eventuale udienza preliminare potrebbe slittare a dopo l'estate.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2021. C'è un giorno in cui l' inchiesta cambia passo. C' è una conversazione che accelera i tempi e che svela, per la prima volta, l'esistenza di indizi importanti per l' accusa: dei video. È il 9 agosto del 2019. Edoardo Capitta, uno degli amici di Ciro Grillo indagati per la presunta violenza sessuale, è al telefono con un ragazzo non identificato. Non sa, ovviamente, di essere intercettato da giorni. I due parlano di alcuni video e più ne parlano più i carabinieri in ascolto definiscono di che si tratta. Sono filmati proprio del luogo e dei fatti su cui si sta indagando, cioè della mattina del 17 luglio precedente a Cala di Volpe, in Sardegna. Lì, in una villetta accanto a quella di Beppe Grillo - il garante del M5s - Edoardo Capitta, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia e Ciro, il figlio di Grillo, avrebbero violentato Silvia, la ragazza che li ha poi denunciati facendo partire le indagini della Procura di Tempio Pausania. Fino al 9 agosto gli inquirenti non sanno dell' esistenza di alcun filmato. Poi quella conversazione. L' amico di Capitta che insiste: «Dai, mandameli». «Ti ho detto di no», ripete lui. L' altro non si vuole arrendere ma Capitta non cede: «No, no, non li mando a nessuno. Poi ti racconto quando vengo». Ancora un tentativo: «Ma dai. Sono l' unico che non li ha visti...». Quello scambio di battute dice agli investigatori due cose. La prima è che esistono filmati che potrebbero provare ciò che racconta la ragazza. La seconda è che, qualunque cosa mostrino, quei filmati hanno già fatto il giro degli amici, nel senso che li hanno guardati e commentati in molti a giudicare da quel «sono l' unico che non li ha visti». Sappiamo oggi che è stato accertato se alla fine Capitta li abbia mai girati a qualcuno e la risposta è no, non sono mai usciti dal suo telefonino. E sappiamo di quali video si trattava perché, proprio valutando il contenuto della telefonata e per evitare eventuali cancellazioni, gli inquirenti hanno poi deciso di non aspettare troppo a lungo per sequestrare i telefonini dei ragazzi, cosa che avverrà venti giorni dopo, il 29 agosto. Proprio quel 29 agosto i carabinieri registrano l' ultima conversazione che negli atti sarà annotata in neretto come degna di interesse: «Ho paura che quella ci ha denunciato», si scrivono fra loro due degli indagati nelle ore fra la scoperta di essere inquisiti e la consegna dei cellulari. I filmati che tanto avrebbe voluto avere l' amico di Edoardo Capitta, si scoprirà dalle indagini, sono almeno due, entrambi raccontati più volte dalle cronache di questa storiaccia. Uno è lungo una ventina di secondi e mostra i ragazzi tutti assieme (escluso Corsiglia che pare dormisse e che Silvia accusa di averla violentata per primo) in un rapporto sessuale che loro definiscono «consenziente» e che invece Silvia descrive come violenza sessuale «dopo avermi costretto a bere vodka». L' altro - anche questo di pochi secondi - mostra sempre loro tre che si filmano in pose oscene accanto a Roberta, l' amica di Silvia che era addormentata sul divano. Il 23 maggio scadono i venti giorni entro i quali le difese possono chiedere nuovi accertamenti (da valutare) o nuovi interrogatori (obbligatori, se richiesti, e non è escluso che succeda). Dopodiché ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio e la parola passerà a quel punto al giudice dell' udienza preliminare.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 14 maggio 2021. «Abbiamo fumato una canna a casa. Le ragazze no» e «durante il rapporto con S. ho fatto un video con il telefono. Proprio dal video si può vedere che S. partecipava attivamente al rapporto». Sono forse queste le dichiarazioni più sorprendenti rese da Ciro Grillo davanti ai magistrati di Tempio Pausania il 5 settembre 2019. Mentre il padre battezzava sul Continente il neonato governo giallorosso, l' erede rivelava ai magistrati la sua notte di sesso, droga e alcol per cui è stato iscritto sul registro degli indagati per stupro di gruppo. Il verbale è la cronaca di un exploit erotico che quattro ventenni avrebbero condiviso con una ragazza, a loro dire, molto più sveglia. Peccato che S.J., la presunta Circe, quel sesso di gruppo l' abbia vissuto come una violenza traumatica, che ha elaborato per nove giorni prima di riuscire a denunciarla ai carabinieri. Il racconto di Ciro parte dalla discoteca in cui le due presunte vittime, la italo-norvegese S.J. e l' amica R.M., hanno incontrato verso l' 1 di mattina del 17 luglio 2019 i quattro indagati, i genovesi Grillo junior, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Ciro ricorda: «Quella sera avevo organizzato un tavolo al Billionaire. Ho invitato degli amici di famiglia che ci hanno presentato le due ragazze S. e R.. Siamo stati assieme nel locale fino alle 4 e 30 circa. Eravamo 12 persone e abbiamo bevuto della vodka che avevamo ordinato al tavolo []. Non abbiamo bevuto molto perché, essendo in 12, con le bottiglie ordinate abbiamo bevuto un cocktail a testa []. Durante la serata ci ho provato con S. la quale mi ha anche baciato. Vedevo che le ragazze erano a loro agio e pertanto le ho invitate a casa mia piuttosto che tornare a casa loro a Porto Pollo». La ricostruzione continua: «Già sul taxi S. ci ha provato con il mio amico Corsiglia, infatti era molto disinvolta e metteva la sua gamba nei genitali del mio amico. Questo fatto mi faceva rimanere male perché in discoteca S. si era dimostrata disponibile con me. Dopo cinque minuti di taxi siamo arrivati a casa dove abbiamo deciso di cucinare un piatto di pasta. Ricordo che mentre mangiavamo S. si sedeva sulle gambe di Francesco. Di lì a poco Francesco e S. e si sono appartati in una stanza, mentre R. è andata a dormire nel salotto». Grillo junior riferisce ai pm che cosa avrebbero fatto lui, Capitta e Lauria: «Ci siamo accorti che Francesco e S. facevano del sesso ed a quel punto scherzosamente spostavamo la tenda per sbirciare e infastidirli. Infatti la stanza non ha la porta, ma solo una tenda. Vedevo che inizialmente si baciavano e dopo che la ragazza era a cavalcioni mentre facevano sesso []. A un certo punto abbiamo visto che Francesco e S., infastiditi da noi, si sono spostati nel bagno. Ho visto che i due hanno continuato il rapporto dentro il box doccia. S. era appoggiata con le mani alle piastrelle e Francesco stava dietro». La ricostruzione degli spostamenti combacia con quella di altri testimoni, ma per S. tutto sarebbe avvenuto contro la sua volontà. Il verbale prosegue: «Dopo il rapporto ho visto che S. si era rivestita con una maglietta ed è andata a chiacchierare con l' amica che nel frattempo si era svegliata. A quel punto sono andato a dormire, mentre S., Lauria, Capitta e Corsiglia sono usciti in macchina per comprare delle sigarette. Quando sono rientrati Corsiglia mi ha raggiunto in camera, quindi mi sono rialzato e sono andato nel patio a parlare con gli altri ragazzi». È il momento della presunta ubriacatura di S.: «Abbiamo preso una bottiglia con della vodka che avevamo allungato con della limonata. Erano ormai le nove del mattino e S. ha fatto qualche sorso di vodka». In un altro passaggio Ciro precisa: «Personalmente non ho bevuto dalla bottiglia di vodka, ricordo che avevano fatto qualche sorso S., Vittorio e Capitta». L' alcol veniva dopo la droga, in un mix pericoloso: «Abbiamo fatto uso di stupefacenti, per la precisione abbiamo fumato una canna a casa. Le ragazze non hanno fumato». Anche Capitta ha ammesso l' assunzione di droga. Mentre Lauria ha dichiarato: «Io non ho fatto uso di stupefacenti, non so se altri ne abbiano fatto uso. Sicuramente non davanti a me». Dopo spinelli e superalcolici, il clima si surriscalda: «Abbiamo iniziato a parlare in maniera scherzosa del rapporto che aveva avuto con Corsiglia. Nel discorso lasciava intendere che era meglio un rapporto con tre ragazzi piuttosto che con uno. Uno di noi, credo Capitta, a quel punto le ha chiesto di andare a letto e S. ha accettato lasciandoci stupiti perché non ci aspettavamo una situazione simile. A letto si è baciata con Capitta e ha iniziato a toccarmi i genitali e a quel punto mi sono sentito autorizzato a toccarla e a spogliarmi». Quindi, per Ciro, sarebbe stata S. a provocare i tre ragazzi. Con queste conseguenze: «Siamo andati nella stanza con due letti attaccati []. Ci siamo seduti tutti e quattro sul letto. Come già detto, S. ha iniziato a baciare Capitta, Lauria le ha tolto la maglia e a quel punto mi sono sentito autorizzato a toglierle il reggiseno. S. mi ha toccato i genitali e a quel punto mi sono tolto i pantaloni e lei mi ha masturbato». L'indagato giura che per lui quella era una circostanza del tutto inaspettata: «Non avevo mai pensato che si potesse arrivare ad una situazione del genere». Il ragazzo descrive una vera e propria orgia: «Lauria si è posizionato dietro la ragazza mentre Capitta ha ricevuto del sesso orale. Personalmente non ho penetrato la ragazza anche perché non avevo una erezione completa». Forse a causa dell' alcol e della droga. Una scena di sesso goffo e fatto, per dirla con Francesco Guccini, «alla boia d'un giuda», di cui vi risparmiamo ulteriori e più scabrosi particolari. Comunque Grillo junior, nei 20 minuti di consesso amoroso, non avrebbe stabilito un feeling particolare con l' occasionale partner: «Durante il rapporto con me S. non ha detto nulla, né mi ha chiesto di accompagnarla a casa se non il mattino dopo. Non l' ho mai vista piangere». In realtà, pochi giorni prima, la giovane aveva dichiarato ai carabinieri che dopo il primo presunto stupro subito da Corsiglia era andata a piangere vicino al divano dove dormiva l'amica R. e che aveva provato a convincerla a lasciare la casa. Questa è la versione di Ciro dello stesso episodio: «S. è andata a parlare con R. dopo il rapporto sessuale con Francesco, le ho viste insieme nel salotto dove dormiva R.». Nient' altro. I magistrati a questo punto chiedono se qualcuno abbia filmato gli amplessi. Ecco che cosa ha risposto Grillo junior: «Durante il rapporto ho fatto un video con il telefono di Capitta. Proprio dal video si può vedere che S. partecipava attivamente al rapporto. Credo che i video fossero due che sono rimasti nel telefono». In effetti Lauria ha descritto un filmato in cui la ragazza è ripresa di spalle, mentre in un altro breve video la presunta vittima è supina. Ma quelle clip non sarebbero uscite dai cellulari dei ragazzi, i quali, in compenso, si sarebbero vantati con gli amici della loro performance: «Non abbiamo diffuso il video anche perché Vittorio era fidanzato []. Il fatto è stato raccontato da alcuni amici quando sono tornato a Genova []». Durante l' interrogatorio, Grillo junior anticipa ai pm l'esistenza degli scatti osceni che da lì a poco sarebbero stati estrapolati dagli smartphone sequestrati degli indagati: «Ci siamo anche recati nel salotto per infastidire R. alla quale lanciavamo delle caramelle, ma senza svegliarla []. Sono state scattate anche delle foto con i genitali di fuori vicino a R. mentre lei dormiva». Ciro confessa anche che dopo il sesso di gruppo con S. è andato a dormire nella sua stanza: «Mi sono svegliato intorno alle 13 e 30. Ricordo di aver chiesto a Francesco Corsiglia di riaccompagnarle (S. e R., ndr) a casa, ma visto che era lontano gli abbiamo proposto un passaggio ad Arzachena dove avrebbero potuto prendere un taxi. Questo fatto le lasciava contrariate []. Ho notato che le due ragazze hanno cambiato atteggiamento in macchina quando gli abbiamo detto che non le avremmo accompagnate fino a Porto Pollo». In Procura Ciro è sembrato molto sorpreso per la denuncia: «Ricordo che S. era tranquilla con me, non saprei perché mi abbia rivolto queste accuse. Non avrei mai immaginato una cosa del genere anche perché durante i fatti nulla faceva pensare a tutto questo. Mi viene da pensare che tornata a casa si sia accorta di aver fatto qualcosa di più di quello che avrebbe dovuto fare o comunque di essersi pentita. Ricordo di aver saputo da Alex (un compagno di scuola di S. presente al Billionaire, ndr) che era molto disinvolta». Alla fine dell' interrogatorio Enrico Grillo, cugino di Ciro e suo difensore, ha chiesto «di dare atto che sono state effettuate delle verifiche sui profili social di S. rinvenendo delle cosiddette "storie" (sul profilo Instagram della ragazza, ndr) nelle quali vi sono delle fotografie della serata in discoteca, ma soprattutto delle foto del giorno seguente dove nella didascalia dà atto di "essere in buone condizioni" pur avendo bevuto e dormito poco».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 15 maggio 2021. C'è un terzo video del presunto stupro di Arzachena. Dai verbali di interrogatorio di Francesco Corsiglia e Edoardo Capitta (indagati con Ciro Grillo e Vittorio Lauria per violenza carnale di gruppo) emerge chiaramente che agli atti non è stato acquisito solo il filmato di circa 20 secondi che ritrae tre dei giovani sotto inchiesta mentre fanno sesso con la italo-norvegese S.J.. Domenica scorsa La Verità aveva già rivelato che al conto occorreva aggiungere la clip citata nell'avviso di chiusura delle indagini in cui «Grillo e Lauria si facevano riprendere da Capitta mentre si scoprivano i genitali e Grillo, tenendoli in mano, si posizionava» vicino a R. M. dormiente. Ma adesso spunta un terzo filmato. Ne ha parlato Corsiglia il 5 settembre 2019 davanti ai magistrati di Tempio Pausania che investigano sul caso: «I miei amici [] mi hanno mostrato un video che Edoardo aveva nel suo telefono. Nel video si vedeva la ragazza carponi sul letto, Vittorio che la prendeva da dietro e davanti faceva del sesso orale a Ciro e con una mano masturbava Edoardo che riprendeva con il suo telefono. Più avanti mi hanno mostrato un altro video dove la ragazza era sdraiata sul letto, masturbava Edoardo e faceva sesso orale a Ciro». Dunque dell'orgia ci sarebbero due diverse inquadrature. Brevi sequenze che i ragazzi hanno maneggiato come un trofeo: «Abbiamo deciso di fare una copia del video restringendo il campo in modo che non si vedesse Vittorio perché lui era fidanzato, in tal modo avremmo potuto farlo vedere agli amici». Poi l'indagato conferma che in effetti «è stato mostrato». Capitta aggiunge altri particolari: «Quando giravamo i video e in particolare quando S. e Ciro consumavano un rapporto sessuale lei non si è accorta che la stavano filmando e comunque abbiamo fatto a sua insaputa sia i video che le foto. Preciso tuttavia che lei non è mai inquadrata in volto. Sia le foto sia i video non sono mai stati inoltrati a nessuno -forse solo una foto in cui comunque lei non appare in volto- [], ma li ho mostrati al mio gruppo di amici direttamente dal mio telefono. In particolare un unico video, perché nell'altro si vede Vittorio, il quale è fidanzato con una ragazza del gruppo e per ragioni di convenienza non l'ho fatto vedere». Anche sull'utilizzo di droga le testimonianze sembrano concordare. Corsiglia: «A casa io, Edoardo e Ciro abbiamo fumato una canna, mentre le ragazze mi sembra che non abbiano fumato». Capitta coinvolge nel droga-party anche Lauria (che, però, nega di essersi sballato): «Dopo, tornati dalla discoteca, abbiamo fumato due spinelli io, Vittorio, Francesco e Ciro». Sulle ragazze non sa dire se abbiano approfittato dell'«erba». Quanto all'alcol fa, invece, un rapporto dettagliato: «Durante tutta la serata ho bevuto 3-4 bicchieri di vodka lemon prima di andare al Billionaire. In discoteca abbiamo ordinato una bottiglia di champagne e una di vodka che sono costate 600 euro, da consumare in 12 persone. Preciso che non ho bevuto lo champagne, ma solo 1 o 2 bicchieri di vodka. A casa ho bevuto un paio di bicchieri di birra e un paio di sorsi dalla bottiglia di vodka lemon». E S.? «Aveva bevuto quanto avevamo bevuto noi ed era alticcia, ma non barcollava e non biascicava. Ritengo che non fosse ubriaca». Corsiglia, puntando a conquistare S., si sarebbe trattenuto maggiormente: «Tornati a casa dopo la serata al Billionaire non abbiamo bevuto alcolici. Avevo già altre intenzioni con la ragazza e non pensavo al bere». Il flirt con S. era iniziato sul taxi: «Già nel tragitto ho fatto delle avance visive (sguardi e sorrisi) a S. perché era una bella ragazza e lei mi appoggiava un piede tra le gambe». Rientrati a casa (un appartamento adiacente a quello della famiglia Grillo) il corteggiamento è proseguito: «Ci siamo seduti nel patio e abbiamo iniziato a mangiare, quindi ho invitato S. a sedersi in braccio a me per mangiare». Questa scena è citata da diversi testimoni, anche da R.M.. Eppure S. ha raccontato che in quel momento aveva già dovuto respingere con decisione un tentativo di Corsiglia di avere un rapporto sessuale con lei. Ma al tavolo, davanti agli amici, Francesco avrebbe ripreso il corteggiamento senza problemi: «In quel momento ho iniziato a toccarle la gamba e di lì ha poco le ho chiesto di andare in camera per avere un po' di intimità». I due avrebbero iniziato a baciarsi e spogliarsi a vicenda. Corsiglia racconta, però, di un rapporto «interrotto continuamente» dagli amici «che sbirciavano dalla tenda della camera». Per questo avrebbe indossato le mutande e sarebbe andato a chiedere agli altri tre indagati di «smetterla». Poi avrebbe proposto a S. di spostarsi per «continuare il rapporto in bagno per una maggiore privacy». Ma anche sotto la doccia le cose non sarebbero andate meglio «a causa delle continue interruzioni». L'indagato, figlio di un cardiologo, ha ammesso che durante il rapporto con S. non si erano detti «nulla di particolare», se non «qualcosa in ambito sessuale» che il ragazzo aveva esclamato «senza l'intento di offenderla». Al termine Francesco, Vittorio, Edoardo e S. sarebbero andati a comprare delle sigarette. E Corsiglia, per qualche minuto, sarebbe rimasto in auto con la presunta vittima: «Avevo avuto l'impressione che la ragazza non fosse rimasta soddisfatta dalla mia prestazione sessuale [] perché il rapporto sotto la doccia era durato solo tre minuti e io non avevo avuto un'erezione completa», per questo «appena sono rimasto solo con lei, essendo un po' in imbarazzo, le ho chiesto se volesse ascoltare una sua canzone preferita». Tornati dal bar tabacchi Corsiglia sarebbe andato a dormire. Dopo sei ore di sonno, avrebbe ricevuto l'annuncio inaspettato: «Quando mi sono svegliato Ciro mi riferiva testualmente: "Ce la siamo trombata tutti e tre"». Subito dopo gli amici gli avrebbero raccontato l'accaduto: «Mi dicevano che mi avevano un po' preso in giro scherzosamente (insieme con S., ndr) a causa della mia prestazione sessuale. La ragazza a quel punto li invitava ad andare in camera con lei, cosa che li lasciava increduli, anche perché due di loro, Edoardo e Vittorio, erano ancora vergini». In realtà Lauria agli inquirenti ha confessato che per lui quella era la seconda volta. Il resoconto di Capitta è quello di un diciannovenne piuttosto impacciato: «Quando R. chiese di andare a dormire, le chiesi se volesse dormire con me, ma lei rifiutò». Dopo questo primo due di picche, Edoardo si sarebbe attardato a parlare con S.: «In un momento in cui Ciro non era presente ci disse che non era attratta da lui, che non le piaceva», nonostante avesse scambiato un bacio in discoteca con il figlio del fondatore del Movimento 5 stelle. Capitta non sa dire da chi sia partita l'iniziativa e come lui, Ciro e Vittorio si siano trovati in stanza con S.. In ogni caso ha ricordi nitidi dell'amplesso: «Una volta recatici in camera mi sono baciato con S. e lei disse: "Non ho mai avuto un rapporto a quattro"». A quel punto è iniziato il sesso di gruppo. «Io, per pudore, mi preoccupavo del fatto che ci fossero la finestra e le tende aperte e che qualcuno del vicinato ci potesse vedere e in particolare la mamma di Ciro (Parvin Tadjik, ndr), che alloggiava nell'appartamento adiacente». Con i magistrati Edoardo ricostruisce le peripezie erotiche del quartetto, indugiando su posizioni e ruoli. Quindi puntualizza: «S., nel mentre ci faceva delle richieste del tipo [] e aveva un comportamento attivo e prendeva iniziativa». Un atteggiamento propositivo che avrebbe trovato impreparato il giovanotto: «Preciso che prima di allora non ho mai avuto rapporti sessuali di alcun tipo ed era la prima volta che una ragazza mi praticava del sesso orale []. Finito il rapporto siamo andati in camera io e lei da soli». Ma il coito sarebbe durato ben poco: «Dopo pochi minuti io decidevo di non proseguire perché non mi piaceva la situazione e quindi le dicevo che volevo smettere e che volevo andare a dormire. Lei rimaneva sul mio letto e non mi diceva nulla []. Ho saputo in seguito che Ciro e S. hanno avuto un ulteriore rapporto sessuale». Capitta rivela anche che la ragazza era in contatto con loro su Instagram: «Ci segue come follower e il giorno dopo i fatti per cui sono qui lei ha messo un "like" a un video da me postato e che ritrae me e Corsiglia che scherziamo con delle stampelle. Preciso che ieri ho constatato che il "like" è stato rimosso». Sempre il 18 luglio 2019 gli indagati avrebbero incrociato S. per strada: «Noi eravamo in macchina con la madre di Ciro e non ci siamo fermati per ragioni di opportunità». Edoardo fa mettere a verbale la propria l'incredulità per il fatto di trovarsi in Procura: «Non so perché sono stato denunciato []. Non so darmene alcuna spiegazione []. Quando l'ho saputo ero in gommone con dei miei amici []. Ho pensato, all'inizio, che fossi stato convocato perché la sera prima avevamo festeggiato il compleanno di un mio amico e avevamo fatto un po' di confusione». È sorpreso anche Corsiglia: «Mi rendo conto della gravità delle accuse che mi vengono mosse, ma non riesco a spiegarmi il motivo che possa averla spinta a tanto. L'unica cosa che mi viene da pensare è che non abbia gradito il fatto che non era stata riaccompagnata a Porto Pollo». Infatti il ragazzo rammenta che ad Arzachena, dove S. e R. erano state portate a prendere un taxi, l'addio non era stato dei migliori: «Mi salutava con un ciao che lasciava intendere la sua irritazione». L'indagato ribadisce la sua innocenza: «Durante la serata la ragazza non era ubriaca [] avevamo bevuto giusto un paio di bicchieri a testa. Eravamo tutti coscienti di quello che facevamo. Visto l'atteggiamento ho pensato che la ragazza fosse disinvolta, ma non riesco a capire il motivo delle accuse». Infine Francesco riferisce di aver rincontrato in un bar di Porto Cervo il giovane che gli aveva presentato S.: «Gli ho detto che con la sua amica avevo fatto centro». Ma forse si sbagliava.

Matteo Indice per “La Stampa” il 15 maggio 2021. Silvia confidò che Ciro Grillo «non le piaceva» e i video furono girati «all'insaputa della ragazza». Ma «propose» il rapporto di gruppo e uno dei partecipanti riferisce d'essersi allontanato «perché quella situazione non mi piaceva e temevo che la mamma di Ciro ci sentisse». Ancora: «Lei il giorno dopo i rapporti mise un "like" a un nostro post su Instagram, che cancellò successivamente» e comunque «stava bene». E certo, a poche ore dai fatti «Ciro si vantava dicendo "ce la siamo tromb... in tre"». Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia, ventenni genovesi, sono indagati insieme a Ciro Grillo (figlio del fondatore del M5S Beppe) e a Vittorio Lauria per la violenza sulla studentessa italo-norvegese Silvia, avvenuta secondo la Procura di Tempio Pausania tra l'alba e la mattina del 17 luglio 2019 nell'appartamento di Beppe Grillo a Cala di Volpe, in Sardegna. Il resoconto di Capitta: «Durante la serata (prima dell'arrivo a casa Grillo, ndr) ho bevuto 3 o 4 bicchieri di superalcolici, poi ho raggiunto il Billionaire. Lì abbiamo ordinato una bottiglia di champagne e una di Vodka, costate 600 euro». Dopo essere arrivati nel residence "Il Pevero" «Francesco (Corsiglia) e Silvia si sono appartati e hanno iniziato un rapporto... noi li osservavamo da una finestra e allora per avere un po' di privacy sono andati in bagno... io e Vittorio (Lauria, ndr) ridevamo... anche e soprattutto per l'arrabbiatura di Ciro... era infatti molto arrabbiato con Francesco e lo accusava di avergli portato via la ragazza». Nella sua denuncia, Silvia descrive quello di Corsiglia come uno stupro. Capitta aggiunge: «Dopo i rapporti (con Francesco, ndr), io, Vittorio (Lauria), Silvia e lo stesso Francesco siamo andati in macchina a comprare le sigarette. Ero seduto dietro, Silvia si è sdraiata sui sedili appoggiando la testa sulle mie ginocchia». Incalzato dalle domande dei pm, Capitta fornisce invece altre delucidazioni: «Per gioco tiravamo le mentine a Roberta mentre dormiva, si è svegliata e ha chiesto di smettere... chiesi sempre a Roberta se voleva venire a dormire con me, ma rifiutò. Silvia con noi si comportava come se fosse un'amica di lunga data. So però, lo disse in un momento in cui Ciro non era presente, che non era attratta da Ciro e non le piaceva... Non ha mai chiesto aiuto per andare via da casa, né quella sera né la mattina l'ho vista piangere o stare male. Aveva bevuto come noi, era alticcia ma non barcollava e non biascicava. Ritengo che non fosse ubriaca... Il giorno dopo siamo andati in un pub e l'abbiamo vista mentre camminava sola». Il resoconto di Corsiglia è meno compiuto perché durante il rapporto di gruppo dormiva. Dopo il rapporto sessuale descritto dalla studentessa come stupro «avevo l'impressione che lei non fosse stata soddisfatta di me... la mattina dopo invece Ciro si vantava: "Ce la siamo tr... in tre", mentre io nei giorni successivi incontrai un amico di Silvia e gli dissi "con lei abbiamo fatto centro"». Sempre Corsiglia: «Mi rendo conto della gravità delle accuse, ma non riesco a spiegarmi il motivo... forse non ha gradito il fatto che non era stata riaccompagnata a Porto Pollo... ». Ciro Grillo, sul punto, aveva così risposto agli inquirenti: «Mi viene da pensare che tornata a casa si sia accorta di aver fatto qualcosa di più di quello che avrebbe dovuto fare o comunque di essersi pentita».

Spunta quella frase di Ciro Grillo: "Ce la siamo t... in tre". Luca Sablone il 15 Maggio 2021 il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. A raccontare l'esclamazione è un suo amico, che poi si aggrappa alla questione social: "La ragazza il giorno dopo ha meso like a un nostro video, ma poi lo ha rimosso". "Mi ha chiamato un maresciallo, pensavo fosse per il baccano fatto la sera prima. Sono rimasto estremamente sorpreso delle contestazioni. Non so darmene una spiegazione". È questa la premessa che fa Edoardo Capitta, il primo a essere sentito il 5 settembre 2019 dalla procura di Tempio Pausania. Per lui, così come per gli altri tre amici genovesi, è un fulmine a ciel sereno. Un fatto inaspettato, che coglie i ragazzi di sorpresa. Sulla notte passata in compagnia di Ciro Grillo in una villetta a Cala di Volpe occorre ancora fare chiarezza: da una parte Silvia (nome di fantasia) denuncia lo stupro di gruppo; dall'altra i componenti della comitiva ritengono si sia trattato di sesso assolutamente consenziente. Capitta avrebbe consegnato ai pm un dossier di post e stories sui social network in cui la giovane studentessa, dopo le ore in cui racconta di essere stata costretta a rapporti sessuali contro la sua volontà, non sembra dare segnali di rabbia per quanto avvenuto nei giorni precedenti: "La mattina dopo, il 17 luglio, le avevamo detto di seguirci sul nostro gruppo Instagram, che tuttora segue come follower. Lei ha messo anche un like a un video da me postato mentre scherzo con Francesco Corsiglia. Ieri ho constatato che il like è stato rimosso".

Quella frase di Ciro Grillo. Lo stesso giorno viene sentito Francesco Corsiglia. Sarebbe stato proprio lui ad avere il primo rapporto sessuale con Silvia (secondo lui consapevole), interrotto "dagli altri che ci disturbavano" perché Ciro Grillo "era indispettito" visto che l'amico si era appartato con la ragazza. Proprio per questa motivazione il figlio del garante del Movimento 5 Stelle si sarebbe infuriato, tanto da svegliare Roberta (nome di fantasia) mentre dormiva: "Io me la sono portata a casa perché me la volevo scop***, invece se la sta scopa*** lui". Corsiglia aggiunge poi, riporta Il Fatto Quotidiano, di essere stato svegliato da Ciro alle 7.15: "Mi hanno fatto cambiare stanza. Quando mi sono svegliato lui mi ha detto testualmente: 'Ce la siamo trombata tutti e tre'". Ma in tutto questo Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo, ha rivelato di non aver "sentito o visto nulla di anomalo". Quella mattina, racconta, si è svegliata presto ma si è alzata solamente all ore 9 per fare colazione nel patio adiacente la casa. La donna ha riferito un certo clima di tranquillità tra i quattro amici genovesi dopo la notte trascorsa insieme: "Erano tutti tranquilli e non mi è stata fatta alcuna confidenza specifica sulla serata. Se non che avevano conosciuto due ragazze che si erano fermate da loro perché non se la sentivano di rientrare a Porto Pollo e che avevano fatto una spaghettata insieme".

Video hot, sesso e vodka: cosa non torna nel caso Grillo. Luca Sablone il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Le versioni fornite non sempre combaciano perfettamente: ecco quali sono le incongruenze sul racconto di quella notte. Cosa è avvenuto quella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe? I rapporti tra Silvia (nome di fantasia) e i quattro amici genovesi erano consenzienti o si è trattato di stupro? La ragazza ha denunciato di essere stata costretta, mentre Ciro Grillo e i componenti del gruppo sostengono che il sesso fosse consapevole anche da parte della giovane studentessa. Ma le versioni fornite non sempre combaciano perfettamente: Il Fatto Quotidiano ha incrociato le dichiarazioni rese con quelle di Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia. Ecco cosa non torna su quelle ore trascorse tra sesso e alcol.

Video hot. Al momento non ci sono prove in grado di dimostrare la diffusione dei video registrati, forse all'insaputa di Silvia. Anzi, proprio ieri vi abbiamo parlato della chiamata intercettata in cui si sente Capitta rifiutare di girare il filmato a un suo amico: "Dai mandameli..."; "No, non li mando a nessuno"; "Dai, sono l'unico che non li ha visti!"; "No, non posso. Poi ti racconto quando vengo...". Ma sarebbe stato lo stesso Capitta ad ammettere di "aver forse diffuso una foto, dove la ragazza non si vede in volto". Eppure a Non è l'arena diversi giovani hanno fatto sapere di aver preso visione del video relativo a quella notte: "Un sacco di amici l'hanno visto. Con i telefoni gira tutto...". Una conferma che arriverebbe pure dall'amico di Capitta che, insistendo per avere il filmato, tiene a sottolineare: "Dai, sono l'unico che non li ha visti!".

Sesso consenziente o stupro? Capitta rivela che, dopo essere arrivati nell'abitazione, Corsiglia e Silvia si appartano e iniziano un rapporto: "Noi li osservavamo da una finestra e allora per avere un po' di privacy sono andati in bagno". Nel frattempo Capitta e Lauria ridono "anche e soprattutto per l'arrabbiatura di Ciro". Infatti Grillo jr era molto arrabbiato con Corsiglia "e lo accusava di avergli portato via la ragazza". Ma Silvia nella sua denuncia parla di stupro, spinta "di spalle nel box doccia per un rapporto contro volontà". Poco dopo è proprio lei a prendersela con i ragazzi che le chiedono come mai stesse piangendo: "Lo sapete benissimo, Francesco mi ha fatto male e voi non siete intervenuti".

C'è tuttavia un dettaglio non di poco conto. Sono spuntati alcuni sms inviati da uno del gruppo a un amico che voleva maggiori informazioni su quanto accaduto: "All'inizio sembrava che non volesse...". Poi sarebbe stato Ciro Grillo a cercare di chiarire un po' la situazione: "Doveva essere un gioco, poi siamo andati un po' più in là". Senza dimenticare i timori di uno dei ragazzi nelle ore successive: "Ho paura che quella ci ha denunciato".

Vodka. La ragazza era ubriaca? Qui si apre un ulteriore aspetto controverso. Corsiglia ritiene che Silvia non fosse ubriaca: "Eravamo tutti consapevoli di quello che facevamo". Capitta parla comunque di una notevole quantità di alcol: "Durante la serata (prima dell'arrivo a casa Grillo, ndr) ho bevuto 3 o 4 bicchieri di superalcolici, poi ho raggiunto il Billionaire. Lì abbiamo ordinato una bottiglia di champagne e una di vodka, costate 600 euro". E aggiunge: "Era alticcia ma non barcollava e non biascicava". La giovane studentessa ha raccontato di essere stata costretta a bere vodka mente era tenuta per i capelli. Invece un componente del gruppo sostiene che sia stata proprio lei a berla di sua spontanea volontà per sfidare il gruppo: "Per sfida lei ha bevuto la vodka, perché noi non riuscivamo a berla".

Ciro Grillo, Filippo Facci commenta i verbali: "La loro concezione del sesso. E se fossero stupratori a loro insaputa?" Filippo Facci su Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Ne abbiamo letto abbastanza da sapere che non ne sappiamo nulla, ma proprio nulla: il caso «Ciro Grillo» resta rigorosamente mediatico (sinora) e ci ha sbattuto in faccia ogni accusa possibile, difesa possibile, verbale e versione possibile, e ovviamente ha rianimato dibattiti preformati tra femministe e maschilisti a prescindere. Il tutto in quella terra di nessuno tra la chiusura delle indagini (durante le quali i magistrati si sono comportati benissimo, con l'ormai rara segretezza prevista dal Codice) e il vero dibattimento (processo) che non è neanche iniziato e formalmente non è stato neppure richiesto, e deciso, teoricamente potrebbe anche non esserci. Poi ci sarà, lo sappiamo, e personalmente abbiamo anche un'idea di come finirà - le linee guida della Cassazione non concedono troppa discrezionalità ai giudici - ma non prendiamo le parti di nessuno, qui, e al processo mediatico non partecipiamo. Lo ripetiamo: non partecipiamo. Ci permettiamo però di ipotizzare una cosa: che sì, potremmo anche aver letto tutto, giudicato tutto, e tuttavia non sapere assolutamente nulla della generazione di ragazzi che interpretano questa scabrosa vicenda, diversi da noi e dalla nostra mentalità - fatta di principi, esperienze, non ultime leggi - che loro potrebbero neppure aver concepito, così come noi potremmo non concepire nulla di loro come generazione che appartiene a un altro mondo, è un'altra cosa; sono diversi, e lo sono anche da quei trentenni o quasi quarantenni sui quali pure abbiamo già scritto e letto ogni trattato. Ci permettiamo di ipotizzare, dunque, che espressioni dure come «stupratori» o «stuprata» sfuggano e sfuggissero completamente dalle menti di quei giovanissimi attori (praticamente bambini, a guardar le foto) e che quella sera potessero essere tutti colpevoli e tutti consenzienti (già pronta la controaccusa: «Quindi tutti innocenti?») in un mondo a noi sostanzialmente sconosciuto, in cui l'unica dimensione non consenziente si rivela per forza di cose la Legge, cioè il mondo adulto, cioè noi, costretti come siamo a incasellare quei ragazzi in un mondo adulto che ora li costringe a ruoli, ad accuse e difese, a ruoli da vittime e carnefici, a qualcosa che ora li costringe a regolamentare e accettare il «gioco» anche tragico a cui loro pensavano di partecipare.

I VERBALI. C'è una cosa che accomuna tutte le versioni e i verbali d'interrogatorio che possiamo aver letto sulla nostra stampa adulta: sembrano tutte credibili, potrebbero sembrare anche tutte versioni vere (anche quando divergenti) benché restino inamidate e costrette nel linguaggio giuridico di chi accusa o difende i protagonisti. Non c'è da atteggiarsi a sociologi, ma quanto questa generazione soprannominata «youporn» possa essere distante dalle nostre classificazioni morali (e giurisprudenziali) forse non possiamo neanche immaginarlo: è, la loro, la dimensione più amorale (o amoralista) che sia mai esistita, la più lontana dai nostri impulsi categorici e classificatori, lontana dalle ombre e dai riflessi riguardanti evoluzioni del comportamento sessuale che per noi sono già lontane ma ancora si riverberano nella nostra memoria e mentalità, ma che per loro sono fantascienza pura. Loro sono nati e cresciuti in una realtà comunque più facile e benestante (non tutti, ma tanti) il cui sesso non solo non rappresenta un tabù, ma ci sono cresciuti insieme con la spicciata naturalezza di chi fa click sullo smartphone o sul tablet; la sessualità è per loro un tema ancora più sdoganato e accessibile ed esibito di quanto mediamente si ritenga, anche se fingiamo di saperlo, di esserne consapevoli. Ma all'atto pratico non è mai vero, e torniamo sulle nostre: i dibattiti pubblici retrocedono agli anni Settanta o al ruolo della famiglia o alla ridicola educazione sessuale nelle scuole, ma loro sono cresciuti per conto proprio, certi problemi proprio non se li pongono, li lasciano a noi. A quell'età, peraltro, la differenza tra uomini e donne non è un problema sociale: è un problema piacevole. Una ricerca Ipsos vecchia di quattro anni spiegava che il 65 per cento dei ragazzi e il 36 per cento delle ragazze (tra i 15 e 17 anni: oggi avranno l'età dei nostri protagonisti) ha utilizzato materiale erotico, quindi filmati, esperienze per gestire serenamente la bomba ormonale, facilità d'approccio via social. Noi, se apprendiamo che a notte fonda una o due ragazze sono andate a casa di quattro ragazzi, beh, ci scatta subito qualcosa, un'attribuzione di ruoli possibili per uomini e donne, spesso giudizi.

FEMMINISMI. Per loro, uomini o donne che siano, questo problema non esiste: partecipano tutti allo stesso gioco, ed è un gioco dove le differenze di ruolo sessuale tra uomini e donne (non parlateci di parità anche in questo, per favore) sono accettate nei limiti in cui piacciono e basta. Sessualmente, nella loro generazione, non esistono femminismi: e buon per loro, loro donne. Interrogati, i ragazzi e le ragazze - non stiamo neanche a dire chi, apposta - hanno detto che alla fine hanno avuto un rapporto sessuale tutti e quattro, che tra loro erano sconosciuti sino a poche ore prima, che erano decisamente brilli e forse lei ha sfidato i maschi a chi beveva di più, che lei potrebbe (potrebbe) anche aver deciso di fare sesso con tutti e quattro, a più riprese e a turno, perché l'esperienza l'attirava. E noi dobbiamo accettare che la cosa possa essere assolutamente normale, e che l'unico problema, per loro e soprattutto per lei - siamo sempre il Paese del Papa - sia rapportare tutto questo a noi, noi adulti e genitori e insomma, con un'altra testa. Ma questo non è incompatibile col fatto che nell'occasione - di altre non sappiamo e non sapremo mai, giustamente - lei possa essersi pentita e accorta che quell'esperienza aveva passato un segno e si era trasformato nel disagio incancellabile di chi ha subito una violenza. «Ho sbagliato un'altra volta, ho fatto un'altra cazzata». Ha scritto alle amiche. E pone fine al gioco che, si è accorta, quel segno l'ha passato. Non sta bene con se stessa: ed è perché quel gioco, come dicono nel mondo dei grandi, è sfuggito si è trasformato in una violenza sessuale. E, nel pieno diritto di farlo, allora denuncia. Pone un limite al gioco, decide che è finito. Ed entra in un mondo che è costretto a darsi delle regole e a punire chi manifesti «dissenso implicito», o mentre gioca sia sbronza o sotto l'effetto di droghe e quindi in condizioni di inferiorità psichica, annebbiata nelle sue scelte. Chissà quanti milioni di amplessi si sono consumati tra soggetti che avevano alzato il gomito, e l'avevano fatto proprio per quello: ma, oggi, chi il giorno dopo si risveglia e realizza l'accaduto, giudicandolo sgradevole, può andare dai carabinieri e sporgere denuncia. Questo dice la giurisprudenza, punto. Che punisce anche chi magari non partecipa ma assiste: non c'è attenuante. E qui non si giudica la legge, non la stiamo giudicando: ma sappiamo che esiste per motivi precisi, ed è fatta in un certo modo per ragioni precise. «Doveva essere un gioco» ha detto Ciro Grillo agli inquirenti. Magari lo è stato, magari, però, a un certo punto, è diventato un'altra cosa. Probabilmente si chiamerà stupro: e a un giudice, di che generazione sei, non gliene frega niente. Hanno giocato. È andata male a lei. È andata male a loro.

Felice Manti per "il Giornale" il 13 maggio 2021. Non c' è solo il caso del presunto stupro di Ciro Grillo e dei suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria ad agitare il palazzo di giustizia di Tempio Pausania. Se da un lato la vicenda relativa al figlio del fondatore del Movimento Cinque stelle si arricchisce di nuovi particolari e sebbene il processo a carico del ragazzo e dei suoi amici non sia neppure iniziato, nei corridoi del tribunale sardo da settimane si respira una bruttissima aria. Il perché è presto detto. All'inizio erano solo delle voci, poi il sospetto si è trasformato in certezze ed è esploso in tutta la sua gravità. Tra un'importante giudice del tribunale e il presidente Giuseppe Magliulo da tempo sarebbe in corso una battaglia giudiziaria di cui si starebbe occupando sia la Procura di Roma - competente territorialmente sul distretto giudiziario di Tempio Pausania - sia il Consiglio superiore della magistratura, dove sarebbe già aperto un procedimento disciplinare di cui si sarebbe discusso con lo stesso Magliulo alla fine dello scorso mese di aprile. Secondo alcune fonti contattate, il procedimento era stato assegnato prima al sostituto Pg che segue le procedure disciplinari in funzione di accusa Mario Fresa, poi sarebbe stato assegnato a una donna. Ma non si tratterebbe di una semplice schermaglia tra il presidente e una sua giudice, come può succedere in un ufficio giudiziario per incomprensioni o divergenze. L' accusa che riserva a Magliulo un giudice donna, arrivata a Tempio solo qualche anno fa per potenziare l' organico, ingolosita dai vantaggi professionali nello scegliere il tribunale gallurese, considerata sede disagiata, visti gli incentivi previsti (economici, di carriera e pensionistici), ma la cui identità è ancora segreta, sarebbe pesantissima: molestie sessuali. Tanto che la giudice peraltro non sarebbe più residente in Sardegna ma sarebbe tornata nella sua regione di origine già a dicembre, in attesa che la questione si chiarisca. L' indagine penale su Magliulo sarebbe già incardinata, e non è escluso che nei prossimi giorni ci possano essere degli sviluppi, come l' arrivo di un 415bis, vale a dire un avviso all' indagato della conclusione delle indagini preliminari. Ma al netto delle eventuali responsabilità del presidente del tribunale, che dovranno emergere solo da un eventuale procedimento a meno che il pm non decida per l'archiviazione, c'è una questione di opportunità su cui tutti si interrogano: è normale che un tribunale alle prese con un delicatissimo processo, i cui esiti sono imprevedibili sebbene molte delle prove siano di dominio pubblico o quasi (dal video delle presunte molestie ad alcune incongruenze nelle testimonianze rilasciate ai carabinieri e poi ai giornali), sia guidato da un magistrato su cui pende un' accusa gravissima, quella di aver molestato un giudice donna? Questa è la domanda che circola negli ambienti giudiziari galluresi. A complicare il processo è arrivata la deposizione alla Procura di Tempio della madre di Ciro Grillo, Parvin Tadjik, che scagionerebbe il figlio Ciro Grillo e i suoi amici dalle accuse di stupro mosse dalla ragazza. Secondo il racconto fatto dalla donna al procuratore Gregorio Capasso e dal pm Laura Andrea Bassani, nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 la notte di sesso sarebbe avvenuta non nell' appartamento di proprietà di Beppe Grillo ma in una dependance messa a disposizione da un'amica, il cui nome è protetto per la privacy, poco lontano da casa Grillo. Due dependance divise da un patio, è la versione della Tadjik. Per la signora Grillo «i ragazzi erano tutti tranquilli, avevano conosciuto due ragazze che si erano fermate da loro perché non se la sentivano di rientrare a Porto Pollo e che avevano fatto una spaghettata insieme». Nessuno della servitù né la notte né al mattino seguente si sarebbe accorto di nulla, tranne per un particolare: «Mangiavamo insieme tutti i giorni alle 14 ma quel giorno sono arrivati alle 15. Per questo ho chiesto spiegazioni e mi dissero di aver fatto tardi per aver accompagnato le due ragazze ad Arzachena».

Caso Grillo, depositati nuovi atti: cosa può succedere ora. Luca Sablone il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. La mossa della difesa della ragazza: in procura arrivano le interviste rilasciate nelle ultime settimane. E i legali degli indagati chiedono altro tempo. Nuova importante mossa nell'ambito del caso Ciro Grillo. Si arricchisce il fascicolo dell'inchiesta relativa al presunto stupro denunciato da Silvia (nome di fantasia), la giovane studentessa italo-norvegese che tra il 16 e il 17 luglio 2019 ha passato diverse ore in compagnia del figlio di Beppe Grillo e dei suoi tre suoi amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Stando a quanto appreso e riferito dall'Adnkronos, l'avvocato Giulia Bongiorno - che assiste la giovane - nei giorni scorsi avrebbe depositato nuovi atti alla procura di Tempio Pausania che coordina l'indagine. Si tratterebbe di alcune interviste rilasciate nelle scorse settimane sul caso in questione, tra cui quella fatta da alcuni quotidiani all'istruttrice di kitesurf. A questo punto, nei prossimi giorni i legali dei quattro indagati potrebbero chiedere un ulteriore termine per approfondire le nuove carte depositate. L'insegnante di kitesurf a Porto Pollo, intervista dal Corriere della Sera, ricorda bene lo stato in cui si era presentata Silvia a lezione: "Quel giorno era arrivata in semi-hangover, non proprio al massimo della lucidità, diciamo così. Mi è sembrata stonata, di quelle ragazze che arrivano stanche a fare la lezione, di sicuro non lucida, appunto. Del resto succede spesso: è estate, sono posti turistici, la gente si ubriaca e fa le cinque del mattino. Ne vediamo tante di persone così". Eppure a verbale non avrebbe fatto riferimento ai turbamenti della ragazza. Inoltre sarebbe stata depositata anche l'intervista rilasciata da Daniele: il proprietario del bed&breakfast a verbale avrebbe fatto mettere che la giovane dopo essere tornata dalla nottata con Grillo e amici stava bene, mentre ad alcuni giornalisti aveva riferito un notevole cambiamento da parte di Silvia. "Io non posso sapere se è vero o no quello che raccontano le ragazze e che ho sentito in questi giorni, ma so che quella notte di certo qualcosa è successo. Il loro umore ci è sembrato più scuro, diverso. Non erano più serene come il giorno prima, erano silenziose e pensierose, soprattutto la ragazza italo-svedese", è stata la sua dichiarazione nei giorni scorsi. La difesa di Silvia, scrive sempre l'Adnkronos, avrebbe depositato agli atti della procura anche l'intervista rilasciata da un componente del gruppetto a Non è l'arena. Il ragazzo aveva così parlato del video girato quella notte: "Si vede comunque che la ragazza sta benissimo e che comunque noi non costringiamo niente". E sul "nodo vodka" ha rivelato che non sarebbe stata costretta a berla mentre era tenuta per i capelli, ma che l'avrebbe fatto proprio lei di sua spontanea volontà per sfidare il gruppo: "Per sfida lei l'ha bevuta tutta, 'gocciolandola', ma non era tanta, era un quarto di vodka. Non lo so adesso... Però comunque lei, da sola, perché noi non riuscivamo a berla e lei per sfida ha detto 'Dai che ce la faccio' e se l'è bevuta". Agli atti potrebbe esserci anche il video postato da Beppe Grillo sul suo profilo Facebook. Uno sfogo choc in cui ha avanzato dubbi sulla versione della ragazza: "Allora perché non li avete arrestati? Perché vi sete resi conto che non è vero niente che c'è stato lo stupro. Perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa una denuncia vi è sembrato strano. È strano". Il garante del Movimento 5 Stelle ha poi difeso il figlio e i tre amici genovesi dall'accusa di stupro: "Sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello così perché sono quattro cogli***, non quattro stupratori".

Non è l'arena, Ciro Grillo "bulletto". La testimonianza pesantissima del suo prof: "Si sentiva protetto, c'era il peso del padre". Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. "Un bulletto". A Non è l'Arena su La7 Massimo Giletti parla ancora di Ciro Grillo e oltre alle intercettazioni degli amici coinvolti nel presunto stupro di una 19enne, avvenuto nell'estate 2019, su cui sta indagando la procura di Tempio Pausania spicca la pesantissima testimonianza di un insegnante del figlio di Beppe Grillo, utile soprattutto a delineare un (sommario) profilo psicologico del ragazzo. "L'impressione è che sentisse il peso non del comico ma della persona che si affaccia sulla politica", spiega il professore concentrandosi sul rapporto tra padre e figlio. "Tutti lo chiamavano Grillo, Grillo, cioè è un cognome pesante". "Tra le medie e superiori è cambiato tantissimo, lui si era un po' fissato sul fisico, aveva trovato questa MMA (un'arte marziale, ndr), poi lì diventa lavaggio del cervello. O hai questa violenza da tirar fuori, sennò... Magari ti fa sentire troppo superuomo". Quando ha sentito la vicenda, "ho pensato che potesse essere uno di quelli coinvolti in situazioni del genere. Soprattutto alle superiori magari vedi che trasgrediscono le regole. Secondo me non avevano intenzione di abusare - prosegue l'insegnante -, probabilmente hanno approfittato della situazione senza considerare le conseguenze vere". "Questi ragazzi qua hanno tutti dentro qualcosa, sono generazioni deboli. Nel caso poi l'atteggiamento di bullismo, da bulletto mascherava qualcosa. Compagnie sbagliate, atteggiamenti sbagliati e anche l'idea di essere non immune ma protetto tra virgolette uno magari può anche esagerare. Lo stupro? Da un gruppetto come quello non dico che te lo aspettavi, ma pensi potrebbe succedere. Il suo gruppetto di amici era quello che non vengono beccati, erano un pochino più furbi, più sgamati. Però non si pensa mai che possano arrivare a questo, però li vedi, un atteggiamento da ragazzini. O lo interrompi e maturi o se rimani infantile poi può degenerare".

Grillo Jr, l'sms choc: "3 contro 1? Rifacciamo..." Valentina Dardari il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Quella notte sono stati girati “4 video facili facili”. Solo due settimane dopo un’altra festa con altre ragazze. Dopo quella terribile notte estiva in Sardegna, uno dei componenti del gruppetto di amici del presunto stupro, in chat si sarebbe vantato con un altro dei rapporti di gruppo avuti e di come la ragazza ne fosse uscita zoppicando. C’era anche un cameraman che girava i filmati delle loro prodezze e che aveva fatto “4 video facili facili” all’oscuro della vittima. Dopo solo due settimane un’altra festa con altre ragazze. “Dici che ci scappa il 3 vs 1?” e ancora “Poi ti farò vedere”. Chat roventi che sono diventate una delle prove principali a carico del figlio di Beppe Grillo, Ciro, e dei suoi amici: Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Tutti accusati dalla Procura di Tempio Pausania della violenza sessuale che si è verificata la notte del 17 luglio 2019 nella casa del comico genovese in Sardegna, a Cala di Volpe, nei confronti di Silvia, studentessa italo-norvegese.

Le chat roventi. I quattro amici 22enni si sono scambiati messaggini, tra loro e anche con altri conoscenti, ora depositati con la chiusura dell'istruttoria e a disposizione della difesa. Come riportato da La Stampa, uno dei più significativi sarebbe stato inviato proprio il 17 luglio alle 14,15, subito dopo la presunta violenza sessuale. Capitta scrive a un suo amico: “Non puoi capire”. E alla richiesta di spiegazioni, continua con “No non puoi capire 3 vs 1 stanotte lascia stare”. L’amico vuole sapere sempre di più e alla fine Capitta lo liquida con un “No poi ti farò vedere" e qui si capisce che ci sono dei video da mostrare, ma Capitta ha negato di aver inoltrato i file.

"Gira tutto...". Il video della notte a casa di Grillo. Il 22enne confessa di essere stato ubriaco marcio e il suo interlocutore mostra di non fare fatica a crederlo. Abbozza qualche nome e ci becca in pieno con Francesco Corsiglia e Ciro Grillo. Le indagini hanno però portato a svelare che Consiglia ha avuto quella notte un rapporto da solo con la ragazza e che i tre erano invece Grillo, Capitta e Lauria. “Non si può fare 'sta vita poi vi racconterò, ora non si può ancora”, nei messaggi anche insulti nei confronti della presunta vittima. Capitta scrive poi dettagli che per gli inquirenti sarebbero significativi al fine delle indagini. “Comunque c'era il cameraman sai che non me le faccio scappare queste occasioni. 4 video facili ora sono stanco... poi vi farò vedere tutto”. Sarebbero quindi quattro i video, e non 3 come si pensava all’inizio. Spiega all’amico che la ragazza era una tr… e che lui ci avrà parlato sì e no mezz’ora, insomma, una sconosciuta.

Un'altra festa simile 15 giorni dopo. L’amico ha quindi chiesto “Prima chi aveva bocciato di voi?”. Capitta: “Non lo so, ero ubriaco marcio”. Poco prima aveva parlato delle condizioni di Silvia dopo la nottata, definendola fortemente provata, e il suo interlocutore aveva aggiunto: “Poveraccia...”. Poco dopo un’altra chat, sempre Capiitta ma cambia il destinatario dei messaggi: “Abbiamo fatto un casino stanotte”. E ancora a vantarsi: “3 vs 1”. Poi altri messaggi ad amici diversi, sempre uguale “3 vs 1 a Porto Cervo e non ti dico altro frate”. Stesse parole ripetute anche nei giorni seguenti in altre chat. Il 2 agosto, due settimane dopo la folle notte, un dialogo in chat tra Ciro Grillo e Capitta, definito dai pubblici ministeri eloquente. Ciro Grillo: “Ho invitato delle tipe a casa”. Capitta: “Ci parte il 3 vs 1? Impazzisco”. Ciro chiede: “Venite da me stasera? 4 o 5? Ahahaha”.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Spuntano altri tre video. “È uscita zoppicando”, le chat di Ciro Grillo e degli amici il giorno dopo il presunto stupro. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Il presunto stupro di gruppo ai danni della 19enne Silvia (nome di fantasia) è avvenuto soltanto poche ore prima ma Edoardo Capitta non sta più nella pelle, deve raccontare agli amici cosa è accaduto nella villa di Ciro Grillo a Cala di Volpe. Così il giovane, uno dei quattro indagati assieme al figlio del garante del Movimento 5 Stelle, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, alle 14:15 del 17 luglio 2019, appena accompagnate le due ragazze ad ad Arzachena, dove hanno potuto prendere un taxi, inizia a chattare su WhatsApp. Messaggi finiti nell’inchiesta che li vede indagati per stupro di gruppo dalla procura di Tempio Pausania: per i quattro ragazzi e i loro legali, come noto, si sarebbe trattato di sesso consenziente, per la 19enne italo-norvegese di una brutale violenza ai suoi danni. Ma cosa c’è all’interno di quelle chat? Innanzitutto che, a differenza di quanto riferito nell’ormai noto video-sfogo di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro, sarebbero stati girati ben quattro video del rapporto sessuale con la ragazza. Vittima che sarebbe uscita “zoppicando”, dice Capitta a un amico secondo quanto riferisce La Stampa. Più volte Capitta ripete nei messaggi che il rapporto è stato “3 vs 1”, tre contro uno. “No, non puoi capire”, scrive Capitta a un amico. “3 vs 1, stanotte, lascia stare. Che roba…poi ti farò vedere”. L’amico chiede quindi ulteriori dettagli: “Ma con una tipa?”, gli domanda. “E no, eh…ma che ridere ah ah ah. Ero ubriaco marcio. Frate’ te lo giuro”. Capitta aggiunge quini che “alle dieci del mattino ero ubriaco marcio… bevuto beverone alle nove”. “Chi era questa?”, chiede ancora l’amico, ma Edoardo Capitta fa lo gnorri: “Ma che ne so… Poi vi racconterò, ora non si può ancora”. Nei messaggi quindi Capitta ‘copre’ “Vitto”, ovvero Vittorio Lauria, l’unico del gruppo fidanzato. Alla domanda di un amico su chi erano stati i protagonisti del ‘tre contro uno’, se lo stesso Capitta, Corsi (Corsiglia, ndr) e Ciro Grillo, Capitta risponde in maniera generica. In realtà il ragazzo avrebbe dovuto escludere Corsiglia, che dormiva durante il presunto stupro di gruppo dopo aver avuto “un normale rapporto sessuale con Silvia”, come da lui raccontato e smentito invece dalla ragazza, che ha denunciato una violenza nei suoi confronti. Altro passaggio importante secondo gli inquirenti è quando Capitta parla di Silvia con un amico: “Ci ho parlato mezz’ora (con la ragazza, ndr) dal vivo molto più bella di così, poi vi racconterò tutto, non dire niente per ora” Quindi aggiunge: “Ma stavamo morendo, te lo giuro. Perché all’inizio non sembrava che volesse”. Ma anche col passare dei giorni il gruppo torna su quanto accaduto tra il 16 e il 17 luglio nella villa di Cala di Volpe. Il 31 luglio, cinque giorni dopo la presentazione della denuncia ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano da parte di Silvia, Ciro Grillo contatta Capitta. Il figlio del garante del Movimento 5 Stelle chiede all’amico: “Mi mandi quei video? Quelli…”. “Ahhaha, perché li vuoi? Non li mando a nessuno, Cì”. “Li voglio far vedere a due amici e agli altri. Vabbè, come vuoi”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 19 maggio 2021. È il 17 luglio del 2019, ore 14.15. I ragazzi che oggi sono accusati della violenza di gruppo avvenuta a casa di Ciro Grillo hanno appena accompagnato ad Arzachena le due ragazze vittime degli abusi, Silvia e Roberta. Le lasciano lì ad aspettare un taxi e tornano a Cala di Volpe, nella casa dove Roberta dormiva mentre in tre scattavano fotografie oscene accanto a lei e dove Silvia racconta di essere stata stuprata da tutti e quattro (il figlio di Beppe Grillo, appunto, e i suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria). Il tempo di rimanere soli in macchina e i ragazzi cominciano a raccontare agli amici lontani della loro «notte brava». Capitta è il più attivo di tutti con il telefonino. Chat, fotografie, video. Il suo cellulare è stato finora una miniera di informazioni per la Procura di Tempio Pausania che indaga sulla violenza. Alle 14.15 di quel 17 luglio è lui (in una chat di WhatsApp registrato come Capi) che chatta con un amico.  «No, non puoi capire», scrive. «Cosa?» chiede l'altro. «No... 3 vs 1 stanotte, lascia stare». «Spiega meglio» insiste l' amico. «No, no, sì, poi ti farò vedere». « Ma con una tipa?». «Ma no, guarda... ero ubriaco marcio. Frate te lo giuro». «Ma chi eravate? Te, Corsi e Ciro?». Risposta: «3 vs 1, ovvio. Ma io veramente alle dieci del mattino ero ubriaco marcio... bevuto beverone alle nove». «Chi era questa?». «Ma che ne so... Poi vi racconterò, ora non si può ancora». «Mi fai morire» commenta l'amico. «Comunque - risponde Capi - c' era il cameramen. Sai che non me le faccio scappare 'ste occasioni. 4 video facili... Poi vi farò vedere tutto. Se vuoi ti chiamo e ti racconto un po'». «Ti chiamo io dopo» propone l'amico. E Capitta: «Se sono ancora vivo.

Ora sono morto. Siamo andati al Billionaire, tutti 50 hanno messo». «Sei un idolo» risponde l'altro. Seguono particolari che inducono l'amico a scrivere: «Poveraccia». E Capitta: «All'inizio non sembrava che volesse». Leggendo questa conversazione gli inquirenti hanno saputo che erano quattro - non uno - i video girati durante quello che i ragazzi chiamano «sesso consenziente» e che la ragazza chiama invece «violenza sessuale». Alla domanda «Ma chi eravate? Te, Corsi e Ciro?» Capitta risponde volutamente in modo generico. Dovrebbe escludere Corsi, cioè Corsiglia, perché Corsiglia dormiva dopo aver avuto un «normale rapporto sessuale con Silvia», come racconta lui (lei dice invece che lui l'ha violentata per primo). Ma chattando e vantando le prodezze del gruppo Capitta invece lo coinvolge (nel suo «3 vs 1») perché vuole proteggere «Vitto», Vittorio Lauria, che è l' unico del gruppo fidanzato e la sua ragazza - hanno deciso tutti - non deve sospettare di niente.

Altra conversazione via WhatsApp. Sempre «Capi» che parla con un altro amico. «Broc, abbiamo fatto un casino stanotte». «Cioè?». «3 vs 1». «Puede chiamarti? Non credo a quello che leggo. Aspetto maggiori dettagli prima di commentare. Era bella almeno?». «Media». Il 31 luglio risulta una chat fra Ciro jr e Capitta. «Oh, mi mandi quei video? Quelli» chiede Ciro. «Ahaha. Perché li vuoi? Non li mando a nessuno Cì, dai». «Li voglio far vedere a (cita due nomi, ndr ) e agli altri. Vabbé come vuoi». Il 2 agosto altra conversazione Ciro-Capi. «Ho invitato delle tipe a casa» annuncia Ciro. E l' altro: «Ci parte il 3 vs 1? Impazzisco». E poi l'organizzazione di quella serata e delle successive, nella speranza - si intuisce - che si possa ripetere la notte brava a Cala di Volpe. L'espressione «3 vs 1» Capitta la utilizza con tutti. Ne va fiero. Il 19 luglio, cioè due giorni dopo la presunta violenza, scrive al solito amico lontano per dirgli «3 vs 1, ciao ciao». «Tu, corsi e...» chiede l' altro. E lui, che ancora una volta mente per tutelare «Vitto» che è fidanzato, scrive: «Perché sicuro corsi? ahahah. Comunque, sì: io, corsi e Ciro. Vitto si è chiamato fuori, vabbé giusto». Un altro termine che compare praticamente in ogni chat è «scittare» (fumare o prendere in giro). Era una delle regole del gruppo Instagram (ora chiuso) di cui facevano parte i quattro amici genovesi. Il profilo si chiamava Official Mostri. «Mi mancate fratelli scittatori» si scrivono l' un l' altro i ragazzi. È forse la sola frase sentimentale di mille conversazioni. Il resto è tutto un pavoneggiarsi, un descrivere dettagli irripetibili, un intercalare di parolacce e bestemmie. Per le ragazze nemmeno una parola gentile.

Matteo Indice per "la Stampa" il 19 maggio 2021. A poche ore dalla notte folle uno dei componenti del presunto branco si vantava con un amico dei rapporti di gruppo, spiegando che la ragazza era uscita «zoppicando» da quegli incontri. Soprattutto: spiegava che quella notte c' era «il cameraman» e che avevano fatto «4 video facili facili», all' insaputa della vittima come poi rivelato da loro stessi davanti ai magistrati e ai carabinieri che li hanno interrogati. E a distanza di 15 giorni pensavano di preparare un' altra serata simile: «Dici che ci scappa il 3 vs 1?». Le chat sono una delle prove principali a carico di Ciro Grillo (figlio del comico e fondatore del M5S Beppe), Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Sono i quattro studenti genovesi ventiduenni accusati dalla Procura di Tempio Pausania della violenza sessuale di gruppo avvenuta il 17 luglio 2019 nell' abitazione di Grillo a Cala di Volpe, in Sardegna, a danno della studentessa italo-norvegese Silvia. Gli scambi tra gli indagati, e tra alcuni inquisiti e i loro amici, sono stati depositati con la chiusura dell' istruttoria e messi a disposizione dei difensori. Uno dei più rilevanti, agli occhi degli investigatori, va in scena alle 14,15 proprio del 17 luglio, quindi subito dopo i fatti contestati. È Capitta a parlare con un amico, Luca (nome di fantasia). Dice Capitta: «Non puoi capire». Luca: «Cosa?». Il primo rilancia d' acchito con l' espressione che ormai è diventata emblematica di quest' inchiesta, e si scopre oggi che lo fa (quasi) in diretta: «No non puoi capire 3 vs 1 stanotte lascia stare». Luca: «Spiega meglio». Capitta: «No poi ti farò vedere (in questo passaggio secondo gli inquirenti preannuncia di mostrare dei video, circostanza ammessa negli interrogatori, mentre il medesimo Capitta ha negato di aver inoltrato i file ndr)». Luca: «Ma con una tipa?». Capitta: «Ero ubriaco marcio». L amico: «Ma non me lo dire (e scrive una bestemmia, ndr)». Capitta: «Ero ubriaco marcio frate te lo giuro». Luca prova a immaginare chi fossero i partecipanti: «Ma chi eravate, tu, Corsi (Francesco Corsiglia, ndr) e Ciro (Grillo, ndr)?» Capitta: «3 vs 1, ovvio» (in realtà le indagini hanno svelato che Corsiglia ha avuto un rapporto da solo e i tre erano Ciro Grillo, Capitta e Vittorio Lauria, ndr). Di nuovo Capitta: «Non si può fare 'sta vita (seguono insulti nei confronti della ragazza, ndr) poi vi racconterò, ora non si può ancora». Luca: «Mi fai morire». Capitta prosegue con dettagli che risultano «significativi» secondo chi indaga: «Comunque c' era il cameraman sai che non me le faccio scappare queste occasioni. 4 video facili (finora era noto che vi fossero tre spezzoni, ndr) ora sono stanco... poi vi farò vedere tutto». Luca chiede delucidazioni sulla ragazza, Capitta la apostrofa nuovamente «era lei un tr». Poi dice «ci avrò parlato mezz' ora», descrivendola come una sostanziale sconosciuta, e ribadisce: «Poi vi farò vedere tutto». A parte i dettagli irripetibili dell' incontro, Luca chiede: «Prima chi aveva bocciato di voi?». Capitta: «Non lo so, ero ubriaco marcio». In precedenza aveva fatto riferimento alle condizioni di Silvia dopo la nottata, definendola fortemente provata, e l'interlocutore aveva aggiunto: «Poveraccia...». Poco più tardi di nuovo Capitta è in chat con un altro amico, Marco (nome di fantasia). «Abbiamo fatto un casino stanotte». Marco: «Ahahacioè?». Capitta: «3 vs 1». Subito dopo scrive al coetaneo Luigi (nome di fantasia): «3 vs 1 a Porto Cervo e non ti dico altro frate». E sempre la formula «3 vs 1» è ripetuta da Capitta due giorni dopo in ulteriori conversazioni. La preparazione del bis «Eloquente» sempre a parere dei pubblici ministeri è infine il dialogo in chat fra Ciro Grillo e nuovamente Edoardo Capitta il 2 agosto, due settimane dopo la presunta violenza a danno di Silvia. Ciro: «Ho invitato delle tipe a casa». Capitta: «Ci parte il 3 vs 1? Impazzisco». Ciro chiede: «Venite da me stasera? 4 o 5? Ahahaha».

"Chiamo il plug​, facciamo festa". Tra Grillo e amici spunta la droga. Luca Sablone il 21 Maggio 2021 su Il Giornale. Spuntano altre chat tra i componenti del gruppetto: "Fumato come un maiale con gli altri, botta gigante ieri. Chiamo il plug e l'erba arriva in due minuti". Adesso nel caso Ciro Grillo prende grande rilievo il fattore stupefacenti. A cosa si riferiva "1 grammo"? Quell'sms a quale sostanza faceva riferimento? Nelle chat tra il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle e gli altri amici emerge più volte con chiarezza una serie di allusioni all'uso di sostanze. Particolari che sono stati trovati in seguito agli "esami" effettuati sui telefonini di Grillo jr, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro amici genovesi sono finiti sotto la lente di ingrandimento della procura di Tempio Pausania, che dovrà fare luce su quanto avvenuto nelle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019 trascorse in compagnia di Silvia e Roberta (nomi di fantasia).

Gli sms tra Grillo e gli amici. Gli inquirenti, dopo aver provveduto al sequestro degli smartphone degli inquisiti, hanno potuto setacciare i cellulari e andare alla ricerca di possibili messaggi in grado di fornire qualche dettaglio per la ricostruzione della vicenda. Ma gli investigatori hanno voluto prendere in considerazione anche altri sms per capire quanto vada approfondito il filone droga. Nello specifico c'è una chat tra Capitta e l'amico Luca (nome di fantasia) risalente al pomeriggio del 14 luglio. Un'occasione per programmare i prossimi giorni d'estate: "Non ci vediamo fino al 29 (luglio 2019, ndr). Torniamo: canna, 1 grammi per festeggiare". Ci sarebbe poi, secondo La Stampa, uno scambio di messaggi tra Ciro Grillo e Capitta avvenuto il primo agosto: "Sono a Genova bro (abbreviazione dell'inglese 'brother', fratello, ndr). Oggi se vedemo, yes, stecca canne del perlausen chiamo il plug (termine usato per indicare in gergo lo spacciatore, ndr) di Porto Cervo e in due minuti arriva ahahaha preso weed (erba, ndr), ma poi di nuovo scitto (si fa sempre riferimento a tipologie di droga, ndr)". Qualche giorno dopo sarebbe stato lo stesso Grillo jr a rivelare di aver "fumato come un maiale con gli altri", per poi lasciarsi andare in un altro frangente a un "botta gigante ieri".

Le indagini degli inquirenti. Si cercherà di fare chiarezza pure su ulteriori sms relativi all'organizzazione di nuove serate: in almeno un caso ci sarebbe stato un chiaro riferimento a un alloggio di Forte dei Marmi in Toscana come possibile location. E anche in questo caso sarebbe spuntato quell'ormai famoso "3 vs 1". L'intenzione era quella di imbastire nuovamente un rapporto sessuale a tre con una ragazza? Intanto il procuratore capo Gregorio Capasso e la sostituta Laura Bassani hanno inviato un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari: tra pochi giorni si potrebbe decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione del caso.

Matteo Indice per “La Stampa” il 21 maggio 2021. Si cerca di far luce su cosa significhi «1 grammo», a quale sostanza si riferisca quell' espressione. E non v' è dubbio che il consumo di stupefacenti sia uno degli elementi che emerge con più forza dalle chat intercettate al sospetto branco: «Oggi se vedemo, stecca canne del perlausen preso weed ma poi di nuovo scitto fumato come un maiale con gli altri chiamo lo spacciatore di Porto Cervo». Queste (e altre frasi) che fanno con chiarezza riferimento all' uso di droghe, sono state trovate esaminando i telefoni di Ciro Grillo (figlio del fondatore M5S Beppe), Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Sono i quattro studenti genovesi indagati dalla Procura di Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo: secondo l' accusa hanno stuprato la studentessa italo-norvegese Silvia il 17 luglio 2019 nell' appartamento Grillo a Porto Cervo, mentre a Ciro, Capitta e a Lauria è contestato un secondo abuso, ai danni di Roberta, l' amica di Silvia che dormiva su un divano, per una foto oscena che li ritrae come fossero davanti a una preda. Gli inquirenti, dopo aver sequestrato gli smartphone degli inquisiti, li hanno setacciati alla ricerca di messaggi che descrivessero la notte a casa Grillo. E però insieme a una serie di scambi ritenuti «significativi» su questo fronte ve ne sono altri che gli investigatori hanno raggruppato per capire quanto vada approfondito pure il filone droga. In una lunga conversazione fra Edoardo Capitta e l' amico Luca risalente al pomeriggio del 14 luglio, quindi a poche ore dalla sospetta violenza, nella quale si descrive con dovizia di particolari e disprezzo di Silvia ciò che è avvenuto quella notte, vi sono riferimenti alla programmazione delle ferie: «Non ci vediamo fino al 29 (intende luglio 2019, ndr) - ribadisce quindi Capitta all' amico - torniamo: canna, 1 grammi per festeggiare». Sul medesimo fronte, un altro scambio WhatsApp rilevante è quello che si materializza l' 1 agosto fra Ciro Grillo e il solito Capitta, dove rimbalzano queste espressioni: «Sono a Genova bro (abbreviazione dell' inglese «brother», fratello, ndr). Oggi se vedemo, yes, stecca canne del perlausen chiamo il plug (termine usato per indicare in gergo lo spacciatore) di Porto Cervo e in due minuti arriva ahahaha preso weed (erba, ndr), ma poi di nuovo scitto (si fa sempre riferimento a tipologie di droga, ndr)». Poi ancora Grillo a Capitta nei giorni successivi: «Fumato come un maiale con gli altri». Capitta: «Era buona la weed?». Ciro: «Nulla di che», mentre in un altro frangente si lascia andare a un «botta gigante ieri!». Ulteriori messaggi finiti agli atti certificano l' organizzazione di nuove serate fino alla fine dell' estate (in un caso almeno c' è un chiaro riferimento a un alloggio di Forte dei Marmi in Toscana come potenziale location), nelle quali il primario obiettivo era quello d' imbastire un «3 vs 1» come quello del 17 luglio. Eppure, di nuovo in materia di sostanze assortite, non va dimenticato che anche le due ragazze presenti nel residence di Grillo avevano fatto riferimento alla volontà, da parte del gruppetto di consumarne e al fatto che stessero cercando quelle «avanzate». Difficile prevedere quali sviluppi avranno gli accertamenti nel filone stupefacenti e soprattutto i tempi dell' inchiesta sullo stupro di gruppo. Nelle scorse settimane il procuratore capo Gregorio Capasso e la sostituta Laura Bassani hanno inviato un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari, in cui circoscrivono meglio i vari addebiti e soprattutto la scansione temporale dei presunti soprusi. Successivamente Giulia Bongiorno, l' ex ministra che assiste Silvia, ha chiesto che fossero depositate alcune interviste da parte di persone che i pm avevano fatto ascoltare in qualità di testimoni. È possibile che, in tempi relativamente brevi, la Procura chieda comunque il rinvio a giudizio dei ragazzi, nel convincimento che solo un processo possa dirimere la vicenda.

Da corrieredellumbria.corr.it il 22 maggio 2021. A Quarto Grado nuove rivelazioni sul caso di Ciro Grillo e del presunto stupro compiuto da lui e da altri sue tre amici nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 in Costa Smeralda. Sono emerse infatti alcune contraddizioni nelle testimonianze dei ragazzi, rilasciata alle forze dell'ordine in tre diversi momenti ciascuno, dopo la denuncia della ragazza. A non combaciare nella versione dei tre ragazzi è la descrizione della situazione in cui si trovavano i giovani nel momento in cui la 19enne italo-norvegese ha chiesto loro di passargli la bottiglia di vodka (sul patio della villa dei Grillo in Sardegna), nè su chi l'ha passata. Altro tema quello relativo al consumo di marijuana, perché inizialmente avevano detto che nessuno l'aveva consumata, e invece poi due dei ragazzi l'avevano fumata, tra cui Grillo. C'è poi l'altro particolare, tutt'altro che secondario, sui video: Edoardo sembra essere l'unico che non compare, ma di certo gli altri tre sono filmati mentre facevano sesso con la ragazza tutti insieme. Resta quindi da capire se tutti hanno effettivamente consumato un rapporto con lei nel momento in cui sembra che quest'ultimo non fosse consenziente, stando a quello che dice la ragazza. Sui giovani, è bene ricordarlo, pende ancora la possibilità di un rinvio a giudizio, su cui i magistrati dovranno esprimersi a breve. Nella prima parte dei due servizi dedicati a questo caso da parte della produzione di Quarto Grado, è stata presa la testimonianza di Edoardo, che ha spiegato come quella notte - a suo dire - non ci sia stato alcun tipo di coercizione e come sia stata invece la stessa giovane a chiedere di fare un rapporto a quattro, "che non aveva mia provato", dopo aver bevuto "un quarto di bottiglia di vodka". Forse sulla ragazza sarà fatta anche una perizia psicologica, in sede processuale, per asseverare o meno la veridicità della sua testimonianza.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. «Cioè, mi è venuto in mente di urlare, non è che non mi è venuto in mente, ma non riuscivo». La ragazza che parla sta rispondendo alle domande del procuratore capo di tempio Pausania Gregorio Capasso e della sua sostituta Laura Bassani. È il racconto di una violenza sessuale. Non riusciva a urlare, dice. «E perché non riuscivi?» chiedono loro. «Perché, cioè, ero... più concentrata a tirarlo via o comunque... sì, poi c' erano anche gli altri.. ero in una situazione un po' che mi vergognavo... Non lo so... mi sentivo...». «Diciamo che non ce l'hai fatta», deduce il procuratore. Il racconto continua. Il presunto stupratore - annotano gli inquirenti - ha abusato di lei prima in una camera e poi nel bagno. Lei dice che ha provato a scappare ma che davanti alla camera (senza porta) c'erano gli altri tre ragazzi della compagnia che «mi hanno fatto tipo da barriera». Quindi - è il resoconto del verbale - il ragazzo che aveva abusato di lei la trascina in bagno e continua a porta chiusa. Il procuratore torna sul punto: «E anche lì... cioè, non...non sei riuscita a reagire?...Anche richiamando l' attenzione...». «No... c' era una confusione allucinante». Quello che racconta la ragazza è una violenza sessuale di gruppo in Sardegna, a casa di Ciro Grillo, il figlio di Beppe, garante dei Cinque Stelle. La storia che finisce nel verbale dice questo: che lei è stata violentata prima da Francesco Corsiglia e poi - in un secondo momento, dopo un paio d' ore - da Ciro, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, tutti genovesi e amici da sempre. I fatti sono del 17 luglio 2019. In casa c' era anche l' amica di lei, Roberta, che dormiva mentre tutto accadeva. Nella sua prima deposizione la ragazza - Silvia - aveva come disegnato lo sfondo di un quadro. Con il passare dei mesi e delle indagini - ora che è il 17 febbraio 2020 - il procuratore e la pm la risentono e insistono sui punti allora non chiariti. Che poi sono i punti più facilmente attaccabili dalle difese dei quattro ragazzi. Per esempio alcuni comportamenti di lei all' apparenza illogici. Perché non ha reagito, gridato, telefonato? Insomma: perché non ha chiesto aiuto o non è fuggita durante le violenze e, soprattutto, fra il primo e il secondo episodio? E lei a rispondere che «io in quel momento mi sentivo quasi come arresa...quando camminavo non sentivo i piedi per terra». Oppure: non è scappata perché «prendi e te ne vai... sì, ok. Però io avevo sotto la mia responsabilità Roberta, perché era mia ospite in Sardegna, no?». Quando parla del fatto che la costrinsero a bere vodka, per dire («Uno mi ha preso per i capelli e mi hanno messo la bottiglia in bocca») la pm obietta: «E tu le mani dove ce le avevi?». «Le mani ce l' ho giù. No eee... non ho reagito». «Come mai?». «Mi sono lasciata andare... un po' per paura... un po'... perché non ci capivo più niente... non capivo veramente cosa mi stesse succedendo... una serata così confusa non l' ho mai vista. Cioè, non lo so sinceramente. In quel momento mi volevo lasciar andare e... non so, mi sentivo morire... dentro...vuota completamente. In più, cioè ero come... lascia fare quello che vogliono... non ce la faccio più a reagire». In un altro punto del verbale spiega che «poi ero anche terrorizzata, non sapevo cosa stesse succedendo, obiettivamente non te l'aspetti una cosa del genere». I magistrati le fanno notare dettagli che lei ha omesso e che hanno raccontato i suoi amici. Per esempio il bacio con Ciro in discoteca, al Billionaire. «No, non è vero» reagisce Silvia. Poi ammette, «Sì, un flirt». Le chiedono anche di Francesco, il ragazzo che lei dice l'ha violentata per primo. «A tavola dov' eri seduta, te lo ricordi?». «Mi ero messa tipo in braccio a Francesco, un attimo, però». «Ma sai» replica il procuratore, «noi... a volte i maschietti sono un po'...». E lei: «Sì, vabbè, ma ho sempre messo bene in chiaro cosa volessi e cosa no». Alla fine Silvia passa questa specie di «esame», si va verso la richiesta di rinvio a giudizio per i ragazzi, anche se i tempi si allungano perché i difensori di tre di loro hanno chiesto un nuovo interrogatorio. 

"Hai rotto le p...", "Maleducato misogino". Rissa in studio sul caso Grillo. Luca Sablone il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Duro scontro in diretta a Non è l'arena. Filippo Facci attacca Luca Telese: "Non voglio essere interrotto". La replica: "Non puoi fare un comizio di un'ora". Il caso relativo a Ciro Grillo e ai suoi tre amici genovesi continua a tenere banco nel dibattito pubblico. Anche Non è l'arena sta proseguendo nell'analisi e nella ricostruzione di quanto avvenuto tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe. La giovane studentessa Silvia (nome di fantasia) sostiene di essere stata stuprata e costretta a rapporti sessuali contro la sua volontà, mentre i quattro ragazzi ritengono che gli atti sessuali fossero del tutto consenzienti. Il programma condotto da Massimo Giletti, in onda su La7, ospita in studio avvocati ed esperti per tentare di fornire diverse chiavi di lettura e spunti di riflessioni alla luce di quanto emerso dai verbali e dalle testimonianze fornite. Nella serata di ieri è andato in scena uno scontro animato tra Filippo Facci e Luca Telese, protagonisti di una rissa in diretta proprio sulla vicenda che coinvolge anche il figlio di Beppe Grillo. Il primo si è chiesto se i quattro giovani fossero consapevoli e a conoscenza di ciò a cui stessero andando incontro: "A un certo punto capisci che a certi giochi vuoi giocare e poi decidi di non volerlo fare più. La non conoscenza da parte nostra e da parte loro, ovvero dei 20enni, non ha quella divisione secca tra uomo e donna, vittima e carnefice, macho e donnicciuola". A quel punto il secondo si è lasciato andare a un commento: "Ogni parola che dice peggiora...". Un'interruzione che ha mandato su tutte le furie Facci: "Non voglio essere interrotto. C'è un conduttore per stabilire. Hai rotto le palle, non sei più un conduttore, fattene una ragione. Perché io devo chiudere? Perché lo decide lui? Non è dialogo questo". E Telese non ha perso tempo per replicare: "Ma se fai il comizio... Mica ci devi fare un comizio da un'ora". Facci ha così provato a terminare il suo discorso, ribadendo che a suo giudizio forse i ragazzi ignoravano e che vige un codice penale per dividere la violenza da quello che non c'è: "Il codice lo facciamo noi, non i ragazzi, non lo stabilisce una legge universale". Non è tardata ad arrivare la risposta di Telese: "Trovo molto grave sia questo modo di parlare di questa storia sia questo modo di aggredire un interlocutore. Devi chiedere scusa e noi facciamo finta di non aver sentito, sei un maleducato misogino". Facci aveva tirato in ballo l'avvocato Andrea Catizone, dichiarando che fosse in studio grazie al marito Pietro Folena.

Da liberoquotidiano.it il 25 maggio 2021. A Non è l'Arena su La7 si parte dal caso di Ciro Grillo, si parla di giovani e abusi sessuali e si arriva allo scontro personale. Durissimo confronto tra Filippo Facci, in collegamento, e l'avvocato Andrea Catizone, in studio. "Le regole, la giurisprudenza, quello che è violenza o no lo stabilisce la codificazione che facciamo noi e che i giovani devono imparare. Dopodiché si chiamerà violenza da un certo momento in poi", spiega Facci. Ma la Catizone lo interrompe ripetutamente: "Secondo lei ognuno si deve costruire un'idea di fine a che punto è la violenza? Il rispetto altrui non ha nessun valore?". "Io non so neanche chi sta parlando", replica Facci. "L'avvocato esperto di diritto di famiglia", puntualizza Massimo Giletti. "L'avvocato, sì...". E la Catizone si infervora: "Faccia poco lo spiritoso, eh, perché veramente ha stufato con questo spirito da... La deve smettere eh, rispetti le persone". "Bagaglino, Filippo Bagaglino", provoca Luca Telese, anche lui in studio. Giletti si innervosisce: "La prego, avvocato...". E Facci cala il carico: "Lei è seduta qua in quanto moglie di Pietro Folena", ex deputato e storico esponente del Partito comunista italiano, poi Pds, Ds e Rifondazione comunista.  "Ma che stai dicendo? Ma sei 'mbriago stasera?", salta sulla sedia Telese. "Guarda Filippo, io Folena non l'ho neanche mai avuto ospite, credo", mette le mani avanti Giletti. "Lei ha dimostrato la sua idea di autonomia della donna, sono una donna autonoma, ho superato un esame di Stato", replica la Catizone. Ma Facci protesta: "Se lei educatamente mi lasciasse finire di parlare...". "Allora Filippo finisci sennò è uno scontro", prova a chiudere il caso. "Ci sto provando!", alza la voce Facci. "Allora provaci, ma con intenzione", incalza Giletti. 

"Mi ha detto di dargliela", "Gliel'ho passata io". Cosa non torna sul caso Grillo. Luca Sablone il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Le incongruenze dei ragazzi sulle testimonianze. Chi ha passato la vodka alla giovane? Le versioni di Edoardo e Vittorio non combaciano. Resta ancora da stabilire la totale verità sul caso Ciro Grillo. Quelle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019 cosa è accaduto realmente nella villetta a Cala di Volpe? Si è consumato un vero e proprio stupro o è andato in scena solo del sesso consenziente? Ovviamente i racconti forniti dalla studentessa Silvia (nome di fantasia) e dai componenti del gruppetto non combaciano. Da una parte la ragazza ritiene di essere stata costretta a più rapporti sessuali contro la sua volontà; dall'altra la comitiva ritiene che la giovane fosse assolutamente consapevole e addirittura partecipe nel corso degli atti. In realtà c'è qualche dettaglio che non torna neanche tra le versioni dei quattro amici genovesi.

Il giallo sulla vodka. Alcuni particolari di contorno risultano essere dunque non del tutto precisi e simmetrici. Come sottolineato da Quarto grado, programma condotto da Gianluigi Nuzzi in onda su Rete 4, a non combaciare ad esempio sono le testimonianze sulla questione relativa all'alcol bevuto sul patio. Chi l'ha passato a Silvia? Il "nodo vodka" resta ancora da sciogliere. Vittorio dichiara di essere stato lui a passare a Silvia la bottiglia allungando il braccio nella sua direzione: "Lei era seduta alla mia sinistra con una gamba accavallata sulle mie e mi ha detto: 'Dammi che ti faccio vedere che ne bevo di più'". Il racconto di Edoardo è invece diverso: "Vi era una bottiglia di vodka lemon che io stavo bevendo e la ragazza mi ha chiesto di passaglierla e io l'ho fatto e lei ne ha bevuto un quarto di bottiglia". Si tratta di una semplice confusione o di una bugia da parte di uno dei due? Silvia ha sempre riferito che sarebbe stata costretta a bere vodka mentre era tenuta per i capelli. Una narrazione smentita dal gruppetto tanto che uno degli amici genovesi, ai microfoni di Non è l'arena, aveva fatto sapere che lei stessa l'avrebbe bevuta di sua spontanea volontà per sfidare la comitiva: "Nel video si vede che la ragazza comunque sta benissimo e che noi non costringiamo niente. Per sfida lei ha bevuto la vodka, perché noi non riuscivamo a berla". Sul caso Grillo bisognerà far luce pure sulla questione dei video. Nelle chat dopo quella notte si parla di diversi filmini: "Comunque c'era il cameramen. Sai che non me le faccio scappare 'ste occasioni. 4 video facili... Poi vi farò vedere tutto. Se vuoi ti chiamo e ti racconto un po". Per Grillo jr e gli amici si tratta di una prova che potrebbe testimoniare la consensualità di Silvia: "Effettivamente durante il rapporto ho fatto un video con il telefono di Edoardo. Proprio dal video si può vedere che S. partecipa attivamente al rapporto".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri.

Il racconto da incubo: "Violentata a turno, ridevano..." Luca Sablone il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. Il verbale della ragazza che ha denunciato: "Sentivo dolore, il mio corpo era tipo anestetizzato. Ho iniziato a vedere nero, non riuscivo a urlare e sono svenuta". Cosa è realmente accaduto nelle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe? La giovane Silvia (nome di fantasia) è stata stuprata dai quattro amici genovesi o ha preso parte a una serie di rapporti sessuali consenzienti? La versione della studentessa italo-genovese e quella dei componenti del gruppetto di Ciro Grillo ovviamente non combaciano e hanno un'ottica completamente diversa. Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 17 febbraio 2020, quando il procuratore capo di Tempio Pausania vede Silvia per tentare di colmare alcuni vuoti nei racconti e di fare chiarezza su determinati particolari: come mai non è andata via dopo la prima presunta violenza? Come l'avrebbero costretta a bere alcol? Intanto i tempi per un'ipotetica richiesta di rinvio a giudizio slittano ancora: i legali di Grillo jr, Capitta e Lauria hanno chiesto alla procura di sottoporre i tre a un nuovo interrogatorio.

"Non riuscivo a urlare". La giovane racconta di essersi seduta "un attimo" in braccio a Corsiglia dopo la serata al Billionaire, sottolineando però di aver messo fin da subito "bene in chiaro cosa volessi e cosa no". A un certo punto si appartano: Silvia viene invitata a trasferirsi in un'altra stanza per prendere delle coperte: "E lì lui ha provato a baciarmi. L'ho allontanato, mi ha buttato sul letto e provava ad andare avanti... gli dicevo: 'no ascolta, lasciamo andare'". Dopo il primo approccio, i due tornano al gazebo con gli altri. L'amica Roberta (nome di fantasia) decide di andare a dormire e così Silvia chiede una stanza per riposare anche lei da sola. Ma sarebbe stata seguita ancora da Corsiglia: "Mi sono messa sotto le coperte e lui si è infilato nel letto. Mi son girata e ho detto: 'Cosa stai facendo?'". Come mai la ragazza non ha chiesto aiuto a Roberta? Lei si giustifica dicendo di sentirsi "terrorizzata", di non riuscire a tirarsi su con le braccia o a fare altro. Un fatto che Silvia non si aspetta e perciò la fa rimanere di stucco: "Non avevo voce, mi è venuto in mente di urlare, non è che non mi è venuto in mente, ma non riuscivo". Lei è concentrata nel tirarlo via. Si crea dunque una situazione di imbarazzo, di vergogna. A quel punto, si legge nel verbale riportato da La Repubblica, tutti sarebbero entrati in stanza. Silvia riesce a uscire dal letto e tenta di oltrepassare la porta, ma riferisce di essere stata bloccata: "Loro mi hanno fatto tipo barriera e uno mi fa anche: 'beh, cos'è che stai facendo?'". Nel frattempo Corsiglia "mi ha spinto in bagno".

"Mi hanno costretta a bere". Silvia racconta di essere scioccata, di avere divere emozioni dentro e di essere un po' delusa dal comportamento della sua amica, come se l'avesse liquidata. La giovane non si rende conto che Grillo e gli amici stessero andando verso di lei. Così la situazione degenera di nuovo: "Me li son trovati intorno, uno mi ha preso la testa dai capelli, l'altro mi ha messo la bottiglia in bocca". Forse di vodka: "Faceva schifo, sembrava un mix di non so cosa". Secondo la sua versione, sarebbe stata costretta a bere mentre era tenuta per i capelli: "È come se me l'avessero imposto, prendendomi la testa. Non so chi è stato, ho chiuso gli occhi".

"Ridevano e tiravano schiaffi". Poi Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria l'avrebbero portata in camera. Qui, secondo il punto di vista di Silvia, sarebbe avvenuto un rapporto sessuale a quattro contro la sua volontà: "Non sentivo più le braccia e più le gambe, il mio corpo quasi non lo sentivo più: nel primo episodio sentivo dolore, qui era come se il mio corpo fosse anestetizzato". Ribadisce di non aver gridato prima "per paura", poi perché si sentiva "morire... distrutta e congelata". Come riporta da La Stampa, Silvia ha aggiunto un particolare su quegli atti sessuali nella stanza: "Ridevano e mi colpivano con degli schiaffi alla schiena, io ho sofferto, mi sentivo cedere in avanti, la testa all'inizio sentivo dolore, dopo mi girava la testa, ero tipo congelata".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri.

Ciro Grillo, i verbali di Silvia: "Violentata a turno tra le loro risate. E Roberta...", accuse anche all'amica. Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. "Violentata a turno": la presunta vittima di Ciro Grillo e di tre suoi amici fornisce la ricostruzione dell'ipotetico stupro nella villa del figlio di Beppe Grillo in Sardegna due anni fa. Ai magistrati di Tempio Pausania, la Procura che sta indagando sul caso, la ragazza avrebbe raccontato - come riporta il Tpi - di essere stata "picchiata e insultata" e di non essere riuscita a gridare o a telefonare a qualcuno per paura: "Mi sentivo di morire, distrutta e congelata. A un certo punto vedevo nero". Inoltre ha spiegato di non essere riuscita a chiedere aiuto anche perché sentiva che gli altri ragazzi "ridevano, ma non intervenivano". Stando al racconto della giovane, il primo ad abusare di lei sarebbe stato Francesco Corsiglia. Solo dopo un paio di ore ci sarebbe stata la violenza a quattro. "Sentivo che si davano il 'passaggio' e dicevano 'ehi, dai, fai veloce, tocca a me' e cose del genere. Io non riuscivo più a gridare, non sentivo più forza nel corpo. Ero distrutta", avrebbe detto la presunta vittima agli inquirenti. I magistrati, inoltre, parlando con la ragazza, hanno sottolineato alcune omissioni nel suo racconto, dopo aver raccolto le testimonianze di Grillo e degli altri tre accusati. La giovane, ad esempio, non aveva raccontato che, quella notte del 17 luglio 2019, al Billionaire avrebbe baciato proprio Ciro. "No, non è vero – avrebbe detto lei in un primo momento, salvo poi ritrattare - Sì, un flirt". Nei ricordi della presunta vittima c'è anche la totale indifferenza da parte dell'amica, che era presente al momento dell'ipotetica violenza sessuale ma stava dormendo. Stando a una prima ricostruzione, la ragazza avrebbe chiesto: "Possiamo andare a casa?", ma la compagna avrebbe fatto spallucce, tornando a dormire. La giovane ha raccontato nel dettaglio anche l’ormai nota vicenda della vodka: "Per distrarmi mi hanno offerto da bere, mi hanno tenuto la testa e fatto bere metà bottiglia di vodka". 

La mossa di Grillo Jr & Co: così fanno slittare (ancora) il processo. Luca Sablone il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Da oggi sarebbero potute arrivare le richieste di rinvio a giudizio, ma ora i tempi si allungano: in tre hanno chiesto di essere interrogati di nuovo per chiarire. Sembrava che si fosse arrivati a un punto di svolta, ma il caso Ciro Grillo sembra essere destinato a non essere risolto a stretto giro. Le indagini erano state chiuse 20 giorni fa: da oggi sarebbero potute arrivare le richieste di rinvio a giudizio, che però ora slitteranno nuovamente in seguito alla mossa di tre ragazzi. Il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle e due suoi amici - Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - hanno chiesto alla procura di Tempio Pausania di essere interrogati di nuovo per chiarire. La richiesta è stata avanzata nei giorni scorsi attraverso i legali (gli avvocati Vaccaro, Enrico Grillo, Monteverde e Mameli), ma al momento gli incontri non sono stati ancora fissati. Invece Francesco Corsiglia, difeso dagli avvocati da Raimondo e Velle, non sarà interrogato.

Arriva la svolta sul caso Grillo? Si tratta di un'importante novità sulla vicenda che vede coinvolto anche Grillo jr: proprio nei giorni scorsi sono usciti nuovi elementi di indagine, come ad esempio alcuni sms scambiati con gli amici per raccontare quanto accaduto tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe. Nelle chat sono emersi diversi messaggi, in particolare tra Capitta e un amico, che rivelerebbero più di qualche dettaglio relativo a quelle ore: "No, non puoi capire"; "3 vs 1 stanotte, lascia stare"; "Ma no, guarda... ero ubriaco marcio. Frate te lo giuro"; "Broc, abbiamo fatto un casino stanotte"; "Comunque c'era il cameramen. Sai che non me le faccio scappare 'ste occasioni. 4 video facili... Poi vi farò vedere tutto. Se vuoi ti chiamo e ti racconto un po'". Dalle chat è emerso anche il fattore droga. Così nel caso Ciro Grillo prende grande rilievo il fattore stupefacenti. A cosa si riferiva "1 grammo"? Quell'sms a quale sostanza faceva riferimento? Ci sarebbe infatti uno scambio di messaggi tra Capitta e l'amico Luca (nome di fantasia) risalente al pomeriggio del 14 luglio. Probabilmente un'occasione per tentare di programmare i prossimi giorni d'estate: "Non ci vediamo fino al 29 (luglio 2019, ndr). Torniamo: canna, 1 grammi per festeggiare". Ma anche sugli sms tra Grillo jr e Capitta, avvenuti il primo agosto, si vorrebbe far luce: "Sono a Genova bro (abbreviazione dell'inglese 'brother', fratello, ndr). Oggi se vedemo, yes, stecca canne del perlausen chiamo il plug (termine usato per indicare in gergo lo spacciatore, ndr) di Porto Cervo e in due minuti arriva ahahaha preso weed (erba, ndr), ma poi di nuovo scitto (si fa sempre riferimento a tipologie di droga, ndr)".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a…

Giacomo Amadori per “la Verità” il 4 giugno 2021. Il processo al figlio di Beppe Grillo, Ciro, e ai suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo ai danni di S.J., coetanea italo-norvegese, potrebbe diventare un caso diplomatico. Le difese dei quattro ragazzi hanno chiesto alla Procura di Tempio Pausania che investiga sulla vicenda, dopo l'invio del secondo avviso di chiusura delle indagini, di sentire David Enrique Bye Obando, un ventunenne originario del Nicaragua, ma residente in Norvegia. Infatti anche quest' ultimo, nel maggio del 2018, sarebbe stato accusato da S.J. di abusi, ma non sarebbe stato denunciato. Adesso gli avvocati di Ciro e compagni vorrebbero ascoltare la versione del «violentatore» graziato. Il quale, con La Verità, anticipa la sua possibile testimonianza: «Macché stupro, S. mi ha già chiesto scusa per le sue false accuse». A rendere ancora più d' impatto l'istanza dei legali è l'identità del padre di David: si tratta del settantenne Vegard Bye, giornalista, politologo ed ex parlamentare norvegese (dal 1993 al 1997) con il partito della Sinistra socialista. Grande esperto di America Latina, è senior partner di una società che si offre di fornire conoscenze e servizi «per un futuro sostenibile». Dalla sua pagina Wikipedia apprendiamo anche che Bye senior «ha rappresentato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani in Angola e Bolivia, ha scritto molto sull' America Latina ed è un consulente specializzato in diritti umani, democrazia, società conflittuali e postbelliche, nonché energia solare». È praticamente un grillino ante litteram. Adesso lui e Beppe sono accomunati dalle accuse di S.J. alla loro prole. Cercando notizie sulla Rete scopriamo che Bye Obando è cresciuto in un barrio di Managua e si è trasferito a Oslo nel 2017 per studiare e vivere insieme con il padre. David e Vegard hanno scritto a quattro mani, su una rivista che si occupa di cooperazione, un articolo sulla grave situazione politica del Nicaragua, un servizio così presentato: «Un padre e un figlio hanno entrambi, ciascuno a modo suo, vissuto vicino al Nicaragua. Qui raccontano di un movimento (quello sandinista, ndr) iniziato con entusiasmo giovanile e rivoluzionario e finito come un apparato di potere corrotto, violento e oppressivo». David, politologo in erba, nelle foto sui social, appare come un bel giovanotto mulatto dall' atteggiamento sfrontato. I suoi scatti ricordano quelli di Ciro e dei suoi amici. In un'immagine sfoggia una camicia floreale spalancata sul petto, collanona, occhiali da sole e stringe un sigaro tra le dita. Di fianco un uomo più grande, Silvio, esibisce un look simile. Vegard Bye su Facebook, il 15 dicembre 2019, ha commentato scherzosamente l'istantanea: «Entrambi questi boss mafiosi si definiscono miei figli - mi azzardo ad augurare a tutti voi un Buon Natale???».

Ma veniamo alle accuse di S.J.. Nel 2017 ha lasciato Milano e insieme con il padre T. si è trasferita in Norvegia per due anni, dove ha completato gli studi superiori. E qui avrebbe subito il primo stupro della sua vita. Nell' immediatezza dei fatti la ragazza si sarebbe confidata con alcune amiche. E una di loro, A.M., nel 2019, ha riferito la cosa ai carabinieri impegnati nelle indagini sulla notte di follia a casa Grillo. 

Il 17 febbraio 2020, davanti ai pm Gregorio Capasso e Laura Bassani, S.J. conferma la confessione: «Le ho raccontato la vicenda, ma non nei minimi dettagli perché io e A. siamo amiche, ma diciamo che il nostro rapporto di amicizia è nato a distanza, io ero in Norvegia quando nei primi rapporti, lei essendo più esperte e tutto, beh le chiedevo dei consigli». Lo fece anche dopo la presunta aggressione sarda, «per evitare un'eventuale gravidanza».

Capasso e Bassani chiedono a S.J. di riferire quanto avvenuto nel campeggio. È un momento particolarmente drammatico della testimonianza, in cui S.J. sostiene di non ricordare nei dettagli lo stupro di gruppo, avendo avuto come un blackout («Ho visto nero»). I magistrati provano a farle ricordare se durante i rapporti lei avesse avuto un atteggiamento attivo, come risulterebbe dagli spezzoni di video recuperati nei cellulari degli indagati. 

«Tu ti reggevi con le mani oppure le mani le utilizzavi per fare altro?» le domanda la Bassani. Ma di fronte ai pm tutti quei particolari, a distanza di sei mesi, sembrano sfuggire a S.J.: «Non è che non mi ricordo, proprio ero spenta! Io sono sicura di avere visto nero, io non ci vedevo più» esclama. Mostra di essere molto segnata e chiede di non rivedere i filmati di quei rapporti: «No, io non vorrei vedere il video». Verso la fine del verbale il procuratore piazza un quesito forse inaspettato: «Hai mai subito altre violenze, cioè rapporti non consenzienti in cui sei stata costretta?».

La studentessa non esita: «Quando ero in Norvegia. Il mio migliore amico, però era avvenuto in modo diverso. Lì lui non sapeva che stessi dormendo e allora cioè c' era stato un flirt e tutto, eravamo nella stessa tenda soltanto che anche lì avevo messo in chiaro che non volevo nulla e né niente ehm soltanto che io ero crollata dal sonno e lui ha iniziato a fare non so aprendo la mia tuta e io mi sono svegliata e lui stava venendo. Però io in quel momento stavo dormendo». 

Capasso: «Quando è successa questa storia?». S.J.: «A maggio, due anni fa, 2018».

Capasso: «Questo ragazzo è ancora tuo amico?». S.J. : «No». Capasso: «Era italiano». S.J.: «No, del Nicaragua». Il procuratore sembra spiazzato: «E stavate in Norvegia in tenda?». S.J. spiega: «Era tipo un camping che aveva organizzato la scuola». Capasso: «Ah è un compagno di scuola?». S.J.: «Sì, sì, sì». Capasso: «Ah compagno». S.J.: «No, era il mio migliore amico, comunque. Io all' epoca ero fidanzata con un ragazzo che aveva come migliore amica la sua fidanzata, quindi eravamo comunque entrambi fidanzati». 

Capasso chiede alla ragazza come abbia reagito alla presunta violenza. E lei di rimando: «Vabbè, quando l' ho visto che stava facendo, che stava venendo così, sono uscita dalla tenda, sono scappata nel bosco e sono andata in bagno cioè fuori a piangere poi sono tornata al camping che c' era la mia amica che si era svegliata, ho preso le mie cose e me ne sono andata. Sono andata a casa e quando sono arrivata a casa mi sono messa sotto la doccia e ho chiamato il mio migliore amico. Però non sono andata a denunciarlo».

Capasso: «E come mai?». S.J.: «Perché non avevo capito che cosa fosse successo e poi un po' per paura e poi anche per il fatto che era il mio migliore amico [] mi sembrava strano, non lo so». Capasso: «Ne hai parlato con lui di questa cosa cioè ne avete riparlato? Ci sei tornata su con lui?».

S.J.: «No, non l' ho più rivisto perché abbiamo cambiato scuola».

Capasso: «Quindi non avete mai riparlato?».

S.J.: «No. Di questo no, no».

Capasso: «E l' hai confidata questa cosa a qualcuno?».

S.J.: «Sì alla mia migliore amica Sharia. E anche a May. E poi lo sapeva anche Isabel. E niente loro mi sono state vicine e volevano portarmi dai dottori e tutto, ma io non volevo e avevo paura non volevo parlare con nessuno. Infatti a mia mamma l' ho raccontato tipo un anno dopo, al mio compleanno (che cade a novembre, ndr)». 

Il procuratore le chiede se lo abbia rivelato a qualcun altro al ritorno in Italia e S.J. replica: «Eh R. (l'altra presunta vittima del procedimento sardo, ndr) lo sapeva».

Capasso: «E poi?».

S.J.: «E vabbé eeeeeh l'altra R. e A.».

Capasso: «Anche A.?».

S.J.: «Sì, eh». 

Il procuratore sa che anche il maestro di kitesurf della ventunenne italo-norvegese ha dichiarato ai carabinieri di aver ricevuto questa confidenza e allora cerca conferma: «Ricordi se avevi fatto una confidenza anche all' istruttore? Ne hai parlato con lui? Questo Marco».

S.J. conferma: «Di questa cosa? Sì []. Perché lui mi ha raccontato delle cose di quando era piccolo».

Il procuratore insiste: «Con questo ragazzo amico non hai più chiarito?».

S.J.: «No, non l'ho più visto». 

La toga continua: «Ti ha detto qualcosa lui?».

S.J.: «Di prendere la pillola del giorno dopo».

Capasso: «Puree pure questa».

S.J.: «Sì (ride)».

Capasso: «Sì, ma lui si è giustificato?».

«No lui mi ha detto che non sapeva che stessi dormendo, ma me l'ha fatto arrivare attraverso May, la mia migliore amica. Perché è andata lei a parlare con lui. Io non ce la facevo a vedere».

Ieri abbiamo provato a contattare David e Vegard Bye, a cui abbiamo inviato alcuni quesiti. Il primo a rispondere è stato il padre: «Ho appena parlato con David. Dice di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa. Ho insistito affinché parlasse di nuovo con lei per ottenere una dichiarazione formale. Lui nega categoricamente l'accusa. Questo è quello che posso dire». 

Poco dopo David ci ha inviato un messaggio in cui esprimeva giudizi severi su S. J.. Ma ha cancellato il suo sms quasi in tempo reale, dando, successivamente, questa spiegazione: «Ne ho discusso con mio padre e so che lui le ha risposto. Non ho nulla da aggiungere al suo messaggio. Chiederò a S. di fare una dichiarazione formale per confermare le scuse che mi ha fatto».

E quando avrebbe fatto retromarcia? «Lo stesso anno dei fatti». Ma allora perché ha ripetuto le sue accuse ai magistrati italiani nel 2020? «Non lo so. Io non ho idea di chi siano questi ragazzi italiani, né sapevo nulla della loro vicenda giudiziaria fino a quando non me ne ha parlato lei. Ma se la magistratura italiana chiederà la mia deposizione, ovviamente la farò».

Da ansa.it il 4 giugno 2021. La procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo e i suoi tre amici nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza italo norvegese. I fatti risalgono al luglio del 2019 e sarebbero avvenuti nell’abitazione di Grillo a Porto Cervo. La Ragazza allora aveva 19 anni. L’udienza è stata fissata per il 25 giugno. I quattro sono accusati di violenza sessuale di gruppo, e per Ciro Grillo, Lauria e Capitta c'è anche l'accusa di violenza sessuale nei confronti dell'amica della studentessa per una serie di foto oscene scattate mentre lei dormiva. E' stato sentito lunedì scorso Ciro Grillo, il figlio del fondatore del M5s, nell'ambito dell'inchiesta sul presunto stupro di gruppo compiuto su una studentessa italo-norvegese in Sardegna. Il ragazzo si è presentato nella caserma dei carabinieri di Genova dove ha reso spontanee dichiarazioni. Era stato lui stesso, tramite il suo avvocato Enrico Grillo, a chiedere di essere sentito.

L'udienza fissata a l 25 giugno. Caso Ciro Grillo, i 4 amici rinviati a giudizio per il presunto stupro di Porto Cervo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo, figlio del fondatore e garante del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo, e per i tre suoi amici accusati di presunta violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza italo-norvegese per fatti risalenti al luglio 2019. Un episodio accaduto a Porto Cervo, nella villa della famiglia Grillo nell’estate del 2019, luglio. L’udienza è stata fissata dalla Procura di Tempio Pausania per il 25 giugno. Il caso ha tenuto banco negli ultimi mesi dopo un video, controverso, di Beppe Grillo che difendeva il figlio con argomentazioni che sono state molto criticate – tra cui il particolare che la ragazza, all’epoca 19enne, avesse denunciato dopo otto giorni. I quattro accusati sono Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Grillo, Capitta e Lauria sono stati accusati anche di violenza sessuale nei confronti dell’amica della 19enne – i ragazzi si erano conosciuti al Billionaire di Flavio Briatore per poi continuare la nottata alla villa per una spaghettata. Come fanno sapere agenzie e media lo scorso 31 maggio Ciro Grillo è stato sentito dai carabinieri di Genova. Il figlio del comico si è presentato per fornire dichiarazioni spontanee ai militari nell’ambito dell’inchiesta sul presunto stupro. Un colloquio di circa due ore. Le informazioni raccolte verranno trasferite alla procura di Tempio Pausania che si occupa delle indagini. Due dei quattro indagati hanno invece rinunciato all’interrogatorio, chiesto dopo la seconda chiusura delle indagini sul presunto stupro, secondo quanto emerso in giornata. Lauria e Capitta volevano essere ascoltati ma il procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, aveva scelto di delegare il passaggio ai carabinieri di Genova. Quindi la rinuncia dei due. La difesa dei ragazzi starebbe inoltre puntando a far testimoniare David Enrique Bye Obando, 21enne di origini nicaraguensi, residente in Norvegia, e figlio di Vergard Bye, giornalista ed ex parlamentare del Paese scandinavo dal 1993 al 1997 col partito della Sinistra socialista. Non è mai stato denunciato, ma la ragazza ha fatto il suo nome ai magistrati a proposito di una precedente violenza sessuale. Il ragazzo ha detto a La Verità che la ragazza gli ha chiesto scusa per quelle accuse e che con il padre stanno cercando di ottenere delle dichiarazioni formali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da liberoquotidiano.it il 4 giugno 2021. Due dei ragazzi accusati insieme a Ciro Grillo di stupro di gruppo, hanno rinunciato a farsi interrogare di nuovo, nonostante lo avessero chiesto proprio loro. E' un vero e proprio colpo di scena nel caso della presunta violenza sessuale ai danni di una ragazza italo-norvegese di 19 anni che vede indagati il figlio di Beppe Grillo e tre suoi amici, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, tutti 22enni della Genova bene. Secondo quanto riporta il Secolo XIX, Capitta e Lauria hanno infatti deciso di rinunciare al nuovo interrogatorio. I ragazzi avevano chiesto di parlare davanti ai pm di Tempio Pausania, ma quando il procuratore Gregorio Capasso ha scelto di delegare l'audizione ai carabinieri di Genova, allora due dei quattro indagati - Capitta e Lauria appunto - hanno rifiutato di farsi ascoltare perché avrebbero preferito che a farlo fossero i magistrati, in possesso di informazioni più complete. Quella davanti ai carabinieri sarebbe stata invece una semplice audizione. Non è ancora chiaro cosa deciderà di fare Ciro Grillo, se rinuncerà come i suoi due amici o se invece deciderà di incontrarli e parlare. Mentre Corsiglia, spiega il Corriere della Sera, è fuori dalla questione visto che è stato l'unico del gruppo a non chiedere nemmeno di essere risentito. Intanto l'indagine sarebbe alle battute finali. La Procura di Tempio accusa i quattro d'aver violentato una studentessa italo-norvegese di 19 anni; mentre a Grillo jr, Capitta e Lauria è contestato pure un secondo abuso, che sarebbe stato commesso ai danni di una amica, con una foto oscena scattata alla ragazza come se fosse una preda. I fatti contestati sono avvenuti alle prime ore del 17 luglio 2019 nella villa di Beppe Grillo. Secondo la denuncia presentata otto giorni dopo dalla ragazza ai carabinieri di Milano, prima ha abusato di lei Corsiglia da solo e in seguito gli altri tre, contemporaneamente. Gli indagati sostengono che tutti gli incontri siano stati consenzienti. Nei prossimi giorni la procura deciderà sul rinvio a giudizio. Le difese intanto stanno completando il loro approfondimento sulle "celle" agganciate dai telefonini dei ragazzi. I legali vogliono definire con precisione quanto tempo trascorse tra il primo e il secondo rapporto, poiché in quell'intervallo Grillo, Lauria, Capitta e Silvia lasciarono l'alloggio per andare a comprare le sigarette.

I like, le foto, i social: le prove contro Grillo Jr. Rosa Scognamiglio il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. La Procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo e gli amici. Agli atti anche foto, video e intercettazioni ambientali. Le intercettazioni telefoniche ma anche quelle ambientali, i tabulati telefonici, l'acquisizione e l'elaborazione dei dati contenuti nei telefoni cellulari sequestrati, tra cui "sms foto, video e altro". E ancora, "l'acquisizione dei dati informatici di Facebook, Instagram e social network" con "foto, post e like". Sono alcune delle prove acquisite dalla Procura di Tempio Pausania che indagano sul presunto stupro di gruppo nei confronti di una ragazza italo-norvegese di 19 anni avvenuto a Cala di Volpe, in Sardegna, nel luglio del 2019.

La richiesta di rinvio a giudizio. Da indagati a imputati. Ieri pomeriggio, la procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo e i suoi amici, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. La richiesta dell'emissione "del decreto che dispone il giudizio nei confronti" dei quattro giovani genovesi è stata depositata dal Procuratore capo e dal sostituto Laura Andrea Bassani il primo giugno, dopo le dichiarazioni spontanee rese da Ciro Grillo davanti ai Carabinieri di Genova, su delega della Procura sarda. Grillo Jr aveva chiesto, attraverso il suo legale, l'avvocato Enrico Grillo (suo cugino), di essere ascoltato per la terza volta ma il Procuratore ha delegato direttamente i Carabinieri. Altri due imputati, Lauria e Capitta, hanno rinunciato all'interrogatorio.

I capi d'imputazione. I capi di imputazione che i magistrati di Tempio Pausania contestano ai quattro giovani fanno riferimerimento ai fatti del 19 luglio 2019 e riguardano sia la 19enne italo-norvegese che l'amica ospite, quella stessa notte, nella residenza di Grillo jr. "Silvia" - nome di fantasia - ha raccontato durante gli interrogatori di essere stata "stuprata a turno" dal gruppo di ragazzi. Il primo sarebbe stato Francesco Corsiglia poi, poco più tardi, dagli altri tre amici che, in quella specifica circostanza, hanno anche girato un video. Secondo i pm, la ragazza sarebbe stata "Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno, afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka" e "costretta ad avere rapporti di gruppo" dai quattro giovani che "hanno approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica" di quel momento.

Il verbale choc. I dettagli del presunto stupro, sono contenuti in un verbale allegato agli atti in cui la giovane spiega cosa è accaduto."Verso le sei del mattino - scrivono i magistrati - mentre R. M. (l'amica della vittima ndr) dormiva la giovane è stata costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, con uno dei ragazzi". E ancora: "Gli altri tre indagati hanno assistito senza partecipare". Poi un'altra violenza, con la giovane costretta a bere vodka contro la sua volontà. "La ragazza ha poi perso conoscenza fino alle 15 quando è tornata a Palau - precisano i pm - La lucidità della vittima risultava enormemente compromessa quando è stata condotta nella camera matrimoniale dove gli indagati l'avrebbero costretta ad avere cinque o sei rapporti sessuali".

Le foto. La Procura avrebbe a disposizione una serie di fotografie riguardanti l'amica della studentessa che, quella stessa, notte, ha dormito sul divano. Ciro Grillo ha chiesto di essere risentito per "chiarire la sua posizione" spiegando che lui "non c'era su quelle foto con le pose oscene vicino al viso della ragazza che dormiva". Tuttavia, ci sono anche gli orari di foto e video, allegati alla richiesta di processo. Il video è delle 6.25. Le fotografie sono state scattate, invece, alle 6.39 e alle 7.15. Nella foto delle 6.39 il nome di Ciro Grillo non compare nel capo di imputazione.

Agli atti della richiesta di rinvio a giudizio i pm hanno anche allegato, inoltre, "gli interrogatori degli indagati, le consulenze informatiche, la "consulenza psicologica, le dichiarazioni di persone informate sui fatti e parti offese e le informative" dei Carabinieri di Olbia, Porto Cervo e Milano Duomo, oltre all'ispezione dell'appartamento D/37 della località Pevero, residence "Case del Golf" di Arzachena. L'udienza preliminare si terrà il prossimo 25 giugno davanti al gup di Tempio Pausania.

La vodka, il gruppo, la violenza: le colpe del caso Ciro Grillo. Rosa Scognamiglio il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Che relazione c'è tra alcol e violenza sessuale? "L'alcol è responsabile del 60% delle aggressioni sessuali", spiega alla nostra redazione il professor Gianni Testino, presidente della Società Italiana Alcologia. Tutto ruota intorno all'abuso smodato di alcol nel caso del presunto stupro di gruppo che coinvolge Ciro Grillo e i suoi amici ai danni di Silvia, la ragazza di 19 anni che ha denunciato per violenza sessuale il figlio del noto cabarettista genovese. Nella "notte incriminata" a Cala di Volpe, quella del luglio 2019, la comitiva di ragazzi avrebbe consumato una notevole quantità di bevande alcoliche: dapprima una bottiglia di champagne del valore di 600 euro in un locale di Porto Cervo, poi del rum allungato con un drink energizzante. Dopodiché la compagnia si sarebbe spostata nella residenza estiva dei Grillo dove, con anche le due ragazze conosciute in quei giorni, avrebbero mangiato un piatto di pasta sul patio. Ma attorno alle 9 del mattino accade l'irreparabile.

Alcol, video hot e sesso: su cosa si gioca il caso Grillo. Silvia racconta di "essere stata costretta" da Ciro e i suoi amici amici a bere l'ultimo quarto di una bottiglia di vodka con l'intenzione di renderla inerme e poterla sopraffare. I ragazzi sostengono invece che sia stata un'iniziativa della diciannovenne. "Noi non riuscivamo riuscivamo a berla - spiega Vittorio, uno dei 4 genovesi coinvolti nella vicenda - E lei, per sfida, se l'è scolata tutta". Poco dopo avviene quello che la comitiva definisce "sesso di gruppo con lei consenziente", ma che la ragazza denuncia successivamente come uno "stupro". Che importanza ha l'alcol in questa storia? "L'alcol è il protagonista di questa vicenda", spiega a ilGiornale.it il professor Gianni Testino, primario del reparto di patologia delle dipendenze ed epatologia dell'Asl 3 Liguria nonché presidente della Società Italiana Alcologia. Poi aggiunge: "E se il signor Beppe Grillo decidesse di mettere a disposizione la sua notorietà nella battaglia contro questa piaga sociale che in 'troppo pochi' stiamo combattendo?".

Professor Testino, cosa ne pensa del caso di presunto abuso sessuale che coinvolge Ciro Grillo?

"Non entro nel merito del procedimento giudiziario né dell'episodio in sé. Dico solo che il protagonista di questa vicenda è l'alcol".

Cosa intende dire?

"Intendo dire che da un lato l'euforia e dall’altro la riduzione della capacità di reagire possono dar luogo a un combinato disposto, che può creare le condizioni per atti di violenza o comportamenti antisociali. Ovviamente l'alcol non può e non deve diventare una scusante di fronte a un eventuale reato sessuale".

Che relazione c'è tra alcol e violenza sessuale?

"C'è una correlazione tanto elevata e significativa quanto poco percepita dalla popolazione generale. Si tratta di un tema già noto e suffragato da dati scientifici acclarati. Il 40% di casi di violenza trova l'alcol come prima causa. Peraltro l'alcol è responsabile dell'86% degli omicidi, del 37% delle aggressioni e del 60% delle aggressioni sessuali. Sono dati riportati anche dall'Istituto Superiore di Sanità, non c'è invenzione".

Perché quando si assume alcol è possibile che si verifichino episodi di violenza sessuale?

"Per due motivi e il primo riguarda gli uomini. Il maschio, consumando alcol, diventa maggiormente euforico e aggressivo. Tanto, da mettere completamente a tacere la regione orbito-frontale del cervello (quella che ha il controllo delle emozioni, per intenderci). Rimane in piena attività invece la parte centrale - la cosiddetta 'regione mesolimbica' – quella degli istinti, della gratificazione. Dall'altra parte una donna che beve alcol riduce la percezione del rischio diventando sessualmente aggredibile".

Grillo Jr, l'sms choc: "3 contro 1? Rifacciamo..."

Quali sono gli effetti collaterali del binomio violenza/alcol?

"La correlazione violenza/alcol si fonda su aspetti biologici ben definiti e che possono condizionare sia chi violenta, sia chi la subisce quando è in stato di ebbrezza. E sono: maggiore instabilità emotiva e della concentrazione sul presente; diminuita consapevolezza di sé; diminuita capacità di valutare le conseguenze; ridotta capacità di risolvere i problemi; minore autoregolazione".

C'è differenza nella capacità di risposta all'alcol tra uomini e donne? Se sì, qual è?

"A parità di dosaggio la femmina è più danneggiata rispetto al maschio. Il fegato di una donna lavora al 50% rispetto a quello di un uomo per quanto riguarda l'eliminazione dell'etanolo, ovvero di quella molecola che è alla base di tutte le sostanze alcoliche. Il fegato di un adulto maschio (sano) impiega circa 60 minuti per eliminare un'unità alcolica (un birra ad esempio). Per quanto riguarda la femmina, invece, i tempi si allungano del 30-40 %. Nel caso di ragazzi al di sotto dei 20 anni inoltre l'alcol rimane in circolo per molto più tempo. Al di sotto di quell'età, è possibile che bere due o tre bevande possa modificare in modo radicale la percezione di ciò che si ha intorno".

I casi di stupro sono spesso associati al binge drinking. Cos'è?

"Per binge drinking s'intende 'bere molto in poco tempo'. Nello specifico vuol dire bere elevate quantità di alcol in meno di due ore per mandare il cervello in tilt. Fra i 18 e i 24 anni circa il 23% dei maschi e l’11% delle femmine Italiane utilizza l'alcol con questa modalità".

"Cameramen, 4 video facili". Le chat di Grillo Jr

Dopo aver consumato un drink, quanto tempo occorre prima che si verifichi il picco alcolemico?

"Subito. L'effetto dell'alcol è dose-dipendente. Ciò significa, per dirla in maniera spiccia, che più si beve e peggio è. L'etanolo supera la barriera encefalica subito, cioè ha un effetto psicoattivo immediato. Inoltre i picchi di alcolemia tendono a essere molto più alti e a durare molto più tempo quando si beve a stomaco vuoto".

E invece quando diminuiscono gli effetti?

"Mediamente in una persona sana cala dello 0,2 grammi per litro all'ora. Ma nel caso dei giovani è diverso. Da valutazioni scientifiche indirette dei meccanismi di metabolizzazione del fegato, c'è la ragionevole certezza questa riduzione è molto più lenta".

Nei casi di violenza sessuale, quando anche la vittima abbia bevuto o è stata indotta a bere, è giusto parlare di rapporto consensuale?

"Assolutamente no. Poi dipende da quanto si beve ovviamente. Tuttavia a parità di dosaggio la donna è maggiormente danneggiata rispetto a un uomo per le ragioni che abbiamo spiegato prima".

Una donna sotto effetto dell'alcol che abbia subito un'aggressione sessuale, dopo quanto tempo acquisisce consapevolezza di quanto le è accaduto?

"Talvolta chi subisce danno, lo percepisce dopo molto tempo. Ciò accade perché una delle caratteristiche della bevanda alcolica è che nelle ore e nei giorni successivi si trasforma in una sorta di autodifesa. Il soggetto tende proprio a ridurre la percezione degli effetti negativi che ha avuto l'alcol nelle ore precedenti. Nelle ore successive non ha le idee chiare, elabora con più lentezza quello che è successo".

Cosa si può fare per evitare che l'alcol diventi una sorta di catalizzatore di comportamenti aggressivi e antisociali?

"Bisogna educare i giovani. È evidente che le colpe maggiori sono degli adulti e delle famiglie che nei confronti del consumo di bevande alcoliche non danno il buon esempio e quindi si rendono poco credibili agli occhi dei figli. Fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo ma dobbiamo evitare che questa piaga sociale dilaghi. Troppi ragazzi si stanno rovinando la vita per cose che, probabilmente, in condizioni normali non farebbero".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

"Era tutto un gioco". Ma ora Ciro Grillo e gli amici rischiano il processo. Luca Sablone il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Grillo jr ha provato a difendersi fino all'ultimo: "Lei era consenziente, io stavo dormendo". Ma ora spuntano anche dati informatici sui social e le intercettazioni. La svolta era nell'aria ed è arrivata proprio ieri pomeriggio: la procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo e i suoi tre amici, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Ai quattro sono contestati i fatti avvenuti nelle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella villetta a Cala di Volpe: Silvia (nome di fantasia) ha denunciato di essere stata stuprata contro la propria volontà, mentre gli amici genovesi ritengono che la giovane fosse consenziente e partecipe durante i rapporti sessuali. L'udienza preliminare, notificata ieri agli avvocati difensori, si terrà il 25 giugno alle ore 14 davanti alla gup Caterina Interlandi, che sarà chiamata a decidere se mandarli a processo.

Il tentativo di Ciro Grillo. Capitta e Lauria avevano chiesto di essere sentiti di nuovo davanti ai pm di Tempio Pausania, ma alla fine hanno preferito rinunciare una volta venuti a conoscenza che sarebbero stati i carabinieri di Genova a interrogarli. Invece il figlio del garante del Movimento 5 Stelle nei giorni scorsi ha reso delle dichiarazioni spontanee per chiarire alcune circostanze. Stando a quanto appreso e riportato da La Repubblica, Grillo jr - nel tentativo di distinguere la sua posizione - avrebbe tenuto a precisare di non essere lui quello a comparire nelle foto oscene: "Non sono io ad aver fatto quelle cose alla ragazza assopita sul divano, in quel momento io ero andato a dormire". Un'occasione, aggiunge La Stampa, per ribadire che Silvia "era consenziente", che "era tutto un gioco" e che "nessuno l'aveva fatta bere". L'intenzione delle difese è quella di completare il loro approfondimento sulle "celle" agganciate dai telefonini dei ragazzi. In tal modo si vogliono definire con quanta più precisione possibile i tempi visto che - durante quelle ore - Lauria, Capitta e la ragazza avrebbero lasciato l'abitazione per andare a comprare delle sigarette da un tabaccaio.

Dati social e intercettazioni. Le accuse sono pesantissime: stupro di gruppo "per aver costretto Silvia abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psicofisica dovuta all'assunzione di alcolici a compiere atti di natura sessuale" e violenza sessuale (contestata solo a Grillo, Capitta e Lauria) per aver "filmato e scattato video e foto a sfondo erotico all'amica Roberta che si trovava in stato di incoscienza perché dormiva". Un ruolo fondamentale è ricoperto anche da quanto avvenuto nelle chat nei giorni successivi: sono spuntati sms choc in cui si parla di "3 vs 1", in cui si ammette di essere "ubriaco marcio" e di aver "fatto un casino". Tra le fonti di prova con cui è stato chiesto il processo per Ciro Grillo e i quattro amici, ci sono anche "l'acquisizione ed elaborazione dei dati informatici di Facebook, Instagram e social network riguardanti i soggetti coinvolti attraverso foto, post e like". Figurano poi "intercettazioni telefoniche e ambientali", "consulenze informatiche e psicologiche" e "indagini sui telefonini cellulari dei quattro indagati, ma anche di Silvia, parte offesa nel procedimento".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Le ultime indiscrezioni dopo il rinvio a giudizio. Caso Ciro Grillo, i 4 amici pensano al rito abbreviato. Le foto hard? “Una goliardata”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Giugno 2021. “I rapporti di gruppo con Silvia? Eravamo noi in imbarazzo…e per quanto riguarda le foto hard scattate a Roberta, è stato uno scherzo di pessimo gusto, non un abuso sessuale”. Sono queste le parole trapelate dagli interrogatori sostenuti dai quattro indagati il 9 aprile davanti ai magistrati di Tempio di Pausania. I 4 indagati a fine agosto 2019, un mese dopo la denuncia, erano stati convocati nella caserma di Genova Quarto e in quella occasione gli erano stati sequestrati i cellulari. I quattro erano stati fatti accomodare in una saletta dove erano piazzate le microspie che hanno intercettato una conversazione tra i 4 amici preoccupati per i video girati, le foto realizzate quella notte e i messaggi scritti in chat. Sono queste le ultime indiscrezioni riportate da La Stampa emerse dopo che i pm di Tempio hanno chiesto il rinvio a giudizio per gli studenti genovesi Ciro Grillo, figlio di Beppe, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, per la presunta violenza sessuale avvenuta nell’ alloggio del comico a Porto Cervo il 17 luglio 2019. I magistrati accusano i quattro di aver stuprato la diciannovenne dopo averla fatta ubriacare, Capitta singolarmente, e addebitano a Grillo, Capitta e Lauria un secondo abuso: “per aver filmato e scattato video e foto a sfondo erotico all’amica Roberta, incosciente poiché dormiva”. L’ipotesi dei difensori sarebbe quella di chiedere il rito abbreviato che prevede lo sconto di un terzo della pena e che quindi potrebbe scongiurare l’ipotesi del carcere in caso di condanna. I 4 hanno ribadito la loro innocenza e che la vittima fosse in realtà consenziente. Ciro Grillo nella sua autodifesa ha spiegato che “Silvia si trovava perfettamente a suo agio, era consapevole di tutto ciò che si faceva, non è stata forzata né a bere né quando ci sono stati gli incontri sessuali…Quanto al rapporto con noi (ovvero Grillo jr, Capitta e Lauria, ndr) non era stato certo da noi programmato in quel modo, anche perché eravamo tutti diciottenni e addirittura uno non aveva mai avuto rapporti sessuali ci siamo trovati nella situazione anche con un po’ di imbarazzo e non ci sono state forzature”, come riportato da La Stampa citando gli ultimi verbali. Lauria avrebbe mostrato una foto estratta dal telefono di Edoardo Capitta dove si vedono di spalle Silvia e Corsiglia come testimonianza del clima scherzoso del momento. Corsiglia, a cui è contestato di aver stuprato la ragazza in camera da letto e poi sotto la doccia si è difeso dicendo che “ci siamo appartati un’ unica volta, lei era consenziente, non mi ha mai dato calci per allontanarmi (lo aveva dichiarato la ragazza ai pm, ndr)”. Capitta ha rimarcato infine come Silvia avesse bevuto Vodka “volontariamente nel patio (era rimasto poco meno di un quarto di bottiglia, non siamo riusciti a berne di nuovo perché era calda e sgradevole. Al che Silvia, a mo’ di sfida, l’ha ingerita tutta”. Infine tutti hanno ammesso che le foto hard scattate a Roberta che dormiva nella stanza accanto sono state un grave errore: “Era una goliardata e insieme una stupidata, ma in questi ultimi due anni siamo maturati e non lo rifaremmo”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 6 giugno 2021.

Li vogliono a processo. Per i pm sardi ci sono elementi sufficienti a sostenere l' accusa contro Ciro Grillo e i suoi tre amici, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, accusati di violenza sessuale di gruppo contro la 19enne italo-norvegese ospite nella casa in Sardegna di Beppe Grillo, padre di Ciro, a Cala di Volpe la notte tra 16 e 17 luglio 2019, e tranne Corsiglia anche di violenza sessuale nei confronti dell' amica della 19enne per alcune foto oscene scattate dagli altri tre amici mentre la ragazza dormiva. Per le toghe la giovane non era consenziente, e nella richiesta di rinvio a giudizio sulla quale deciderà il gup il 25 giugno hanno messo tutti gli elementi che per gli inquirenti dimostrano il teorema accusatorio. Tra il materiale probatorio il procuratore capo Gregorio Capasso e la sostituta Laura Andrea Bassani hanno messo anche il video che, secondo Beppe, avrebbe invece dimostrato che il clima era complice, che la ragazza era consenziente. Ma in procura a Tempio Pausania la pensano diversamente. E oltre a quel video, girato dagli stessi imputati, hanno allegato alla richiesta anche il resto del materiale prodotto da Ciro e dai suoi amici, altri video e foto che immortalano quella notte, i messaggi scambiati nei giorni seguenti via smartphone e un accurato tracking delle attività dei quattro sui social network dopo quella notte, che registra post, immagini e «like» messi ai contenuti pubblicati sugli account dei quattro o a loro riconducibili su Instagram e Facebook. Il passo indietro di Capitta e Lauria, che hanno rinunciato all' ultimo interrogatorio quando hanno saputo che la procura sarda aveva delegato al compito i carabinieri di Genova, ha fatto sciogliere agli inquirenti le riserve, e il primo giugno, all' indomani dell' unico interrogatorio richiesto dopo l' avviso di conclusioni indagini e poi effettivamente svolto, quello di Ciro Grillo, Capasso e la Bassani hanno depositato la richiesta. L'unico effetto delle dichiarazioni di Grillo jr, che ha sostenuto di non aver partecipato alle foto «oscene» che coinvolgono la seconda ragazza, è che in effetti non gli viene contestata nella richiesta la presenza in una delle due foto collegate a quell' accusa. Allegati alla richiesta ci sono anche i verbali dei vari interrogatori dei quattro ragazzi e delle due ragazze, oltre che dei testimoni, come la madre di Ciro Parvin Tadjik che dormiva sotto lo stesso tetto quella notte o come Daniele Ambrosiani, il titolare del B&B di Palau dove le ragazze alloggiavano e dove, quel 17 luglio, rientrarono solo alle 15. Nel fascicolo pure le trascrizioni dell' intercettazione ambientale fatta in caserma, a Genova, ad agosto 2019, quando i quattro vennero convocati per il sequestro dei cellulari e vennero ascoltati mentre parlavano, preoccupati, proprio per foto, video e messaggistica negli smartphone. Ci sono anche altre intercettazioni, tra cui quelle della Tadjik, e il verbale dell' ispezione svolta nella villa di Cala di Volpe. Poi c' è, ovviamente, la ricostruzione di quanto per i pm accadde quella notte, basata sul racconto della ragazza. La prima violenza, subita da Corsiglia «in camera da letto e nel box del bagno», mentre gli amici guardavano ridendo. Poi il gruppo che la afferra per i capelli e la costringe a finire la bottiglia di vodka, e quindi la seconda violenza, «cinque o sei rapporti sessuali» subiti dagli altri tre ragazzi approfittando «delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica». Una storia contestata dai quattro amici, per i quali la 19enne era consenziente. Ora la parola passa al gup.

"3 contro una tr...". L'analisi delle chat di Grillo. Rosa Scognamiglio il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Caso Ciro Grillo: "Nelle chat dei ragazzi viene utilizzato un linguaggio fortemente sessista", spiega a IlGiornale.it la pedagogista Antonella Gorrino. Chat, fotografie e video. Qualche ora dopo il presunto abuso sessuale ai danni della 18enne italo-svedese, tra Ciro Grillo e gli amici si consuma un fitto scambi di messaggi su WhatsApp a commento di quanto appena accaduto. Il più attivo del gruppo è Edoardo Capitta, uno dei 4 genovesi indagati dalla Procura di Tempio Pausania. "No, non puoi capire..3 vs 1", scrive a un amico alle ore 14.15 di quel 17 luglio. Poi continua: "Poveraccia", dice riferendosi alla vittima. Ma non è tutto. Nelle conversazioni del giorno successivo i ragazzi rivelano di aver filmato "la notte brava" a Cala di Volpe, nella residenza di Grillo Jr. "Ho 4 video facili, c'era anche il cameraman. Lei era una tr...", si pavoneggiano della "prodezza" messa a segno la mattina precedente. "C'è un linguaggio fortemente sessista ancora molto radicato. Quando si vuole insultare una donna, si usano sempre termini che fanno riferimento alla sfera sessuale", spiega alla nostra redazione la pedagogista Antonella Gorrino.

Dottoressa Gorrino, che spunti di riflessione offre questo caso da un punto di vista pedagogico?

"Il caso è emblematico di tantissimi altri che si possono riscontrare nella quotidianità. Le dinamiche di questa vicenda - il ruolo dei genitori nell'educazione dei propri figli e la mancanza di empatia nei giovani - sono più diffuse di quanto non si creda. E questo lo posso affermare per la mia esperienza professionale di pedagogista e formatrice".

Partiamo dalla prima osservazione: il ruolo dei genitori. Come interpreta l'intervento di Grillo nella vicenda? 

"L'intervento di Grillo è l'espressione tipica della cultura familistica italiana, connotata da caratteri fusionali, se non simbiotici: 'Imprigionate me, al posto suo', dice nel 'famoso video'. In generale un genitore che difende il figlio è già un fallimento educativo, al di là della colpevolezza o innocenza, perché non riconosce al figlio lo status di persona autonoma e indipendente, responsabile delle proprie azioni. Se un padre non riconosce questa responsabilità, è molto difficile che lo faccia il ragazzo".

Quando il delirio dei padri inguaia i figli. #stupro

Lei ha parlato di "assenza di empatia nei giovani". Ci spiega cosa vuol dire?

"Un ragazzo che non ha sviluppato empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni dell'altro, farà fatica a 'stare dentro' una relazione. L'empatia è la condizione necessaria per costruire la moralità e, di conseguenza, per imparare ad avere un 'atteggiamento morale' nei confronti di un'altra persona".

Vale anche per i protagonisti di questa storia?

"Non entro nel merito specifico della vicenda, ma appare piuttosto evidente l'assenza totale di empatia verso la ragazza coinvolta nei fatti. Questi giovani hanno vissuto la circostanza quasi come 'un gioco' senza provare, neanche per un attimo, a mettersi nei panni dell'altro".

"C'era il cameraman". E poi, ancora: "Eravamo 3 vs 1", racconta uno dei ragazzi nelle ore successive...

"Queste chat confermano ciò che ho spiegato poc'anzi. Hanno vissuto l'esperienza come fossero sul set di un film o in una sorta di videogioco. Anzi l'espressione '3 Vs 1' è tipica di quei 'videogiochi sparatutto' e, in questo contesto, sembrerebbe sottolineare una situazione di contesa. Non hanno avuto percezione di ciò che stava accadendo, come se avessero mischiato reale e virtuale".

Spunta quella frase di Ciro Grillo: "Ce la siamo t... in tre"

Quindi non erano consapevoli di ciò che stavano facendo?

"Probabilmente no. Ma ciò non depone al loro favore. Una persona, specie se maggiorenne, deve essere responsabile delle proprie azioni".

Nella versione fornita dai 4 ragazzi, si sarebbe trattato di un "rapporto consenziente". Cosa ne pensa?

"Ovviamente non spetta a me dire come sono andate le cose. Una sessualità consapevole necessita di un percorso che coinvolga anche la sfera dell’affettività. Un’esperienza cosi intensa come quella di un rapporto con più persone, non può essere ancora, vista l’età della ragazza, una scelta “consenziente”. Credo che ci sia necessità di educazione sessuale per i giovani e che, la mancanza di questa, venga sostituita da un uso massiccio di pornografia, che coinvolge anche indirettamente le donne".

Il video del presunto abuso è stato immediatamente condiviso nelle chat con gli amici. Perché?

"È una caratteristica della società contemporanea. Si vive tutto nell'immanente, nell'immediatezzae nella condivisione di esperienze condividere sulle chat o i social. Siamo diventati dei consumatori voraci, dimenticando di essere dapprima delle persone. Il punto è che, in questo caso specifico, è stata condivisa con naturalezza la nudità di un corpo, quasi come fosse un oggetto. Ciò si ricollega sempre all'assenza di empatia che, specie nelle ultime generazioni, è condizionata dall'uso massiccio – ma soprattutto inadeguato - dei social media. I giovani non si rendono conto che il virtuale è reale, al punto da non avere comprensione della sofferenza altrui".

"Cameramen, 4 video facili". Le chat di Grillo Jr

Nelle chat Grillo e i suoi amici usano parole sprezzanti nei confronti della ragazza. Cosa dimostra questo "abuso linguistico"?

"Ciò dimostra che certe conquiste sul terreno della parità non sono state ancora raggiunte appieno. C'è un linguaggio fortemente sessista ancora molto radicato. Quando si vuole insultare una donna, si usano sempre termini che fanno riferimento alla sfera sessuale. Molti giovani sono ancora legati alla cultura maschilista, più di quanto potrebbe sembrare".

Vale anche quando si parla di stupro?

"Lo stupro non è l'espressione della carica ormonale maschile dei ragazzi, che impedisce loro di trattenersi, come nei secoli ci hanno fatto credere, ma è essenzialmente un fatto culturale che ha le sue radici nell'educazione famigliare".

Dunque, in definitiva, il problema è l'educazione?

"Sì. Sembra banale ma il problema è proprio l'educazione, sia quella ricevuta in famiglia che a scuola. Occorre educare in particolar modo a sviluppare quelle competenze relazionali necessarie per affrontare i conflitti senza diventare

violenti. Questa capacità si acquisisce da piccoli, a scuola e in famiglia".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

“A processo Ciro Grillo e i tre amici”, la richiesta della procura di Tempio Pausania. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Giugno 2021. La procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo – figlio del garante M5S Beppe – e i suoi tre amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, tutti genovesi di 22 anni, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza italo norvegese. I fatti risalgono al 17 luglio 2019 e sarebbero avvenuti nell’abitazione di Grillo a Porto Cervo. L’udienza preliminare è stata fissata per il 25 giugno. Poco prima, presagendo evidentemente l’epilogo delle indagini, era stato lo stesso figlio di Grillo a richiedere una ennesima occasione per rendere spontanee dichiarazioni ed era stato interrogato dai Carabinieri di Genova. Come confermato all’Adnkronos da ambienti giudiziari, il procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, che coordina l’indagine, ha delegato il locale Comando dell’Arma a raccogliere le dichiarazioni di Ciro Grillo, coimputato di violenza di gruppo con i suoi tre amici. Era stato proprio Ciro, attraverso il suo legale, Enrico Grillo, a chiedere di essere risentito una terza volta. Altri due indagati nel caso della presunta violenza sessuale hanno, invece, rinunciato a essere interrogati ancora una volta, come avevano chiesto alla Procura dopo la chiusura delle indagini. Il tentativo in extremis non ha sortito l’effetto desiderato, ed è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio. Per Grillo, Lauria e Capitta c’è anche l’accusa di violenza sessuale nei confronti dell’amica della studentessa per una serie di foto hard scattate mentre lei dormiva. L’epilogo della vicenda, atteso da settimane, segna ventuno mesi di lungaggini sulle quali già molte sono state le voci polemiche. Le prime indagini vennero svolte dai Carabinieri nel mese di settembre 2019, quando furono anche sequestrati i cellulari degli indagati; il caso è rimasto però fuori dai riflettori fino all’inusitato video con cui Beppe Grillo lo ha rilanciato: «Arrestate me, piuttosto: mio figlio e i suoi amici sono solo quattro coglioni con il pisello di fuori», aveva gridato molto sopra le righe, avventurandosi ad argomentare che la ragazza non avrebbe detto la verità per aver denunciato otto giorni dopo la presunta violenza. Numerose trasmissioni di inchiesta ed approfondimento hanno messo in luce la sommarietà dei primi passaggi investigativi e la lentezza nell’incardinare il procedimento penale. Si attende la reazione del garante dei Cinque Stelle; le fibrillazioni familiari gli hanno sconsigliato, nell’ultimo mese, apparizioni e dichiarazioni pubbliche.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

"Era una tr...". E nel caso Grillo la vittima si ritrova "imputata". Francesca Bernasconi il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. Incolpare la vittima di violenza sessuale per scaricare su di lei la responsabilità dello stupro: così si mette in atto la vittimizzazione secondaria. Il victim blaming anche dietro il caso Grillo. "Era una tr...", si leggerebbe in una delle chat finite al centro delle indagini sul presunto caso di violenza sessuale che ha coinvolto Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, e altri tre ragazzi. Una frase che suona quasi come un "se l'è cercata", che sta alla base del processo di colpevolizzazione delle vittime di un crimine, noto come victim blaming. "Si tende a incolpare la vittima di aver provocato o stimolato la violenza. Così lei si ritrova sul banco degli imputati", ha spiegato a IlGiornale.it la psicologa forense Francesca De Rinaldis.

Che cos'è il victim blaming?"Davanti a fenomeni come quello della violenza sessuale si assiste spesso al processo di colpevolizzazione della vittima, che in termini tecnici prende il nome di vittimizzazione secondaria. Si tratta di un processo a cui viene sottoposta la vittima, per cui si tende a ricercare all'interno delle caratteristiche di personalità, comportamento e stili di vita, tracce di una sua presunta responsabilità o corresponsabilità. Si tende cioè a incolpare la vittima di aver partecipato, provocato o stimolato la violenza sessuale subita. Così facendo la vittima si trova posizionata sul banco degli imputati e il processo viene spostato sulla ricerca di indizi di colpevolezza di chi ha subito violenza, piuttosto che sulle caratteristiche comportamentali o offensive dell'autore del crimine".

La paura di una colpevolizzazione può indurre la vittima a non denunciare?

"Assolutamente sì. Spesso il processo di vittimizzazione secondaria funge da deterrente nella denuncia. La vittima infatti per evitare di trovarsi bersagliata e sottoposta a giudizio, per un senso di protezione, vergogna e paura di un'etichettamento, rinuncia a denunciare, così da non esporre se stessa alle conseguenze di questi atteggiamenti da parte della società".

Quali effetti può avere il victim blaming su una vittima di violenza sessuale?

"Dal punto di vista psicologico spesso assistiamo a una perdita dell'autostima, del valore di sé, e a profondi vissuti di autoaccusa, quindi all'attivazione di un giudizio molto severo nei confronti di se stessi, del proprio comportamento e stile relazione. In contesti più delicati possono attivarsi anche dei vissuti depressivi, di chiusura sociale e relazionale e conseguenze a lungo termine, che spesso determinano anche risvolti psicopatologici abbastanza severi, con ricadute sul piano relazione, affettivo e sulla vita sessuale. La violenza in sé produce effetti negativi e destabilizzanti sul piano della personalità. Ma non è per tutti uguale: la reazione è soggettiva e persone dotate di meno risorse personali e sociali possono attraversare vissuti più traumatizzanti. Non c'è un termine esatto per stabilire quando, come e dove le conseguenze della violenza emergeranno. Spesso lo stereotipo porta a credere solo alla vittima che manifesta le conseguenze della violenza nell'immediato, mentre la persona che denuncia tardivamente e che ha continuato a condurre apparentemente una vita normale rischia di essere giudicata come mendace".

Anche nel caso Grillo il fatto che la ragazza avesse fatto kite surf la mattina dopo ha fatto discutere.

"Questo perché, secondo lo stereotipo sociale, la vittima avrebbe dovuto essere annientata fin da subito. L'idea alla base è la seguente: se tutti notano le conseguenze allora c'è stata violenza, ma se la società ha visto la vittima condurre una vita adattata, allora lei sta mentendo".

Questa idea, inserita anche nel video Beppe Grillo, può essere considerata una forma di victim blaming?

"Senza entrare nel merito della vicenda sotto il profilo investigativo e giuridico, appare proprio come se ci fosse una deresponsabilizzazione del comportamento, uno scarico di responsabilità sulla vittima e quindi una sorta di auto-assoluzione da parte di colui o coloro che la Giustizia stabilirà essere o meno autori del crimine. In questi casi, siccome può apparire che la vittima dopo il fatto si sia comportata in modo apparentemente normale, allora l'offender ritiene di non aver fatto nulla di grave e che lei abbia accettato e normalizzato ciò che è successo".

Quindi la colpevolizzazione può essere una strategia difensiva?

"Dal punto di vista psicologico l’attribuzione di responsabilità alla vittima può rappresentare un meccanismo di difesa che mette in atto l'offender per normalizzare un proprio comportamento. È un meccanismo proiettivo, una difesa psicologica che porta a spostare la responsabilità da sé alla vittima. Quindi si tratta, da una parte, di una deresponsabilizzazione e, dall'altra, di un'attribuzione di responsabilità alla vittima".

Anche la condivisione tra i ragazzi di racconti e video può essere un meccanismo volto alla colpevolizzazione della vittima?

"No, in questo caso subentrano altri due meccanismi. Il primo è la deumanizzazione della vittima, che viene considerata un oggetto, veicolo di soddisfacimento del proprio piacere e, per alcuni aspetti, una prova oggettiva della propria virilità. Il secondo è il bisogno narcisistico di farsi conoscere in modo positivo dal gruppo dei pari attraverso un comportamento di successo e affermazione sessuale. E l'intento non è denigrare la vittima, ma esporre se stessi a un'accettazione sociale e riconoscimento. La divulgazione di foto filmati apre a un'altra riflessione. Nel caso Grillo, come in altre storie, è presente la divulgazione di foto e video ad un numero alto di persone, spesso nemmeno quantificabile, e questo porta la vittima a essere esposta alla violenza in maniera ancora più invasiva che si ripete in modo ciciclo: pensare che un elevato numero di persone abbia visto i video può provocare conseguenze gravi sullo stato di benessere psico-esistenziale della vittima. Basti pensare al fatto che, anche in ragione di ciò, c’è chi è arrivato a compiere gesti suicidiari, soccombendo a questo senso vergogna provocato dalla diffusione di filmati e immagini"

È possibile fare prevenzione in questo senso?

"Temo che ancora oggi siamo ancorati a una visione atavica sui ruoli della sessualità maschile e femminile. Per questo c'è bisogno di un'educazione sul rispetto della sessualità, del proprio corpo e di conseguenza anche di quello dell'altro. Sarebbe opportuno focalizzarsi sull'educazione al rispetto del proprio corpo e sull'educazione emotiva fin dalle scuole elementari, lavorando sul riconoscimento emotivo e sul rispecchiamento empatico".

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

Ciro Grillo e quelle risate in caserma La madre gli diceva: "Taci, stupido". Affari Italiani.it il 12/6/2021. Risate e scherzi. Questo facevano Ciro Grillo e i suoi amici alla stazione dei carabinieri di Quarto mentre erano lì per l'accusa di stupro. Le intercettazioni ambientali dei carabinieri, acquisite dalla procura di Tempio Pausania, rivelano dettagli inediti sui momenti in cui i quattro ragazzi si trovavano in caserma per la denuncia per violenza sessuale. "Sanno già qual è l’accusa tremenda che pende sulle loro teste. Eppure ridono. Trovano la voglia di scherzare. Si fanno il segno delle manette l’un con l’altro, sotto gli occhi delle loro madri che invece di scherzare non hanno affatto voglia", scrive Repubblica. La madre di Ciro Grillo, e moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik era infuriata: "Siete tre bambini, non ho parole". Le faceva eco un'altra delle madri: "Non fare lo stupido, non ridere". Il tutto registrato dai carabinieri con le intercettazioni ambientali. Dialoghi che, scrive sempre Repubblica, "sono interessanti non tanto perché contengano indizi di colpevolezza (in quella sala d’attesa sono tutti consapevoli che i loro dialoghi possano essere registrati), piuttosto perché documentano la superficialità con cui i quattro indagati si sono approcciati a questa storia". “La madre – si legge nei brogliacci agli atti dell’inchiesta – suggerisce di parlare di università e lo zio di Corsiglia discute della partita del Genoa, mentre Ciro dice che andrà a nuotare, poi parlano di libri”. Ma Grillo Jr e gli altri continuano a bisbigliare tra loro e la madre lo rimprovera di nuovo: "Sei veramente uno stupido, stai zitto". Poi vengono captati anche degli altri dialoghi tra le madri. La moglie di Beppe Grillo dice a un'altra madre: "Ho visto il profilo Instagram della ragazza che ha denunciato, mi sono tranquillizzata perché sembra serena" riferendosi ai post di Silvia il pomeriggio dopo il presunto stupro, quando ha partecipato a una lezione di kitesurf. "Ragazzi, dobbiamo stare tranquilli perché noi quelle cose lì non le abbiamo fatte" dice invece uno dei ragazzi quando i carabinieri fanno uscire gli accompagnatori. Pochi secondi dopo inizierà l'interrogatorio.

Giusi Fasano per "il Corriere della Sera" il 12 giugno 2021. Sala d'attesa della caserma dei carabinieri di Genova Quarto, 1 settembre 2019. C'è un ragazzo che parla con sua madre e la donna a un certo punto gli suggerisce di non agitarsi. «Io sono agitato perché non so come andrà a finire», risponde lui. La scena è videoregistrata, il ragazzo è Edoardo Capitta. Nei loro brogliacci i carabinieri scriveranno poi: «Edo dice (alla madre, ndr ) che lui non è normale e non sa come il suo fisico potrebbe reagire a una cosa del genere». La telecamera lo riprende mentre argomenta meglio: «È chiaro che se mi faccio un mese di galera poi esco incazzato come una bestia». I carabinieri annotano il seguente passaggio: «Quando dalla finestra della sala d'attesa la madre ed Edo vedono che sono giunti in caserma anche Ciro Grillo e Francesco Corsiglia, Edo li saluta facendo il gesto delle manette e la madre gli dice di non fare lo stupido e di non ridere». Lui risponde «sappiamo com' è andata». E la donna: «Comunque non fare lo stupido». Eccole, le intercettazioni ambientali del caso Grillo. Ciro Grillo (il figlio del garante del Movimento 5 Stelle) e i suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria sono sotto accusa per la presunta violenza sessuale di gruppo nella casa di vacanza in Sardegna. E quel primo settembre è per tutti la data della prima convocazione in caserma dopo il sequestro dei telefonini, il 29 di agosto. Dai carabinieri arrivano alla spicciolata, accompagnati chi dalla madre chi da uno zio. Quando Ciro entra nella sala d'attesa dice agli altri che «in questi giorni non dobbiamo né vederci né frequentarci anche se non abbiamo nulla da nascondere». A quel punto «la madre suggerisce di parlare di altro», dice il documento che riassume l'intercettazione, «per esempio dell'università». L'uomo che ha accompagnato Corsiglia, suo zio, comincia invece «a parlare della partita del Genoa mentre Ciro dice che andrà a nuotare e poi parlano di libri», sintetizzano i carabinieri. Le conversazioni in caserma adesso sono fra le fonti di prova allegate al fascicolo che la procura di Tempio Pausania ha mandato in tribunale chiedendo il rinvio a giudizio. Quindi il 25 giugno, giorno dell'udienza preliminare, il giudice Caterina Interlandi valuterà fra le altre cose anche il peso di quei dialoghi, compreso il fatto del «parlare d'altro» suggerito dagli adulti. Perché la videoregistrazione di quei minuti lascia intendere che la prudenza nel parlare sia legata al timore di essere registrati e magari dire cose che - vere o no, seriamente o per scherzo - potrebbero risultare accusatorie. Dopo quel «parliamo d'altro» Ciro ritorna alla carica chiacchierando con gli amici e la madre - Parvin Tadjik - gli dice: «Sei veramente uno stupido, stai zitto». Interviene lo zio di Corsiglia che «dice a Ciro di dar retta a sua madre», scrivono i carabinieri, «e a quel punto Ciro sembra cambiare tenore della conversazione con gli amici». Ma poco dopo evidentemente torna sui fatti della Sardegna perché si guadagna un altro rimprovero della madre «che gli dice di uscire dalla sala d'attesa». Il riassunto dell'intercettazione ambientale rivela che «a quel punto lo zio di Corsiglia sussurra qualcosa all'orecchio di Ciro mentre suo nipote dice che hanno tutta la vita per parlarne». Gli sforzi degli adulti, però, non bastano a chiudere il chiacchiericcio fra i ragazzi. Così quando di nuovo «Ciro ride e scherza la madre gli dice: "Sei un deficiente, non ho parole... siete tre bambini e non capite..."». I brogliacci svelano che Parvin Tadjik, «commenta con la madre di Edoardo di aver visto il profilo Instagram della ragazza che ha denunciato». Dice che «mi sono tranquillizzata perché dai post che ha pubblicato dopo l'episodio mi pare serena». Alle 10.42, quando arriva il quarto del gruppo, Vittorio Lauria, i carabinieri con una scusa fanno uscire gli accompagnatori e i ragazzi restano soli. La descrizione della scena è questa: «Ciro con gesti fa cenno agli altri di smettere di parlare e sempre a gesti fa cenno agli altri di rimanere in silenzio portandosi le mani vicino alle orecchie come a lasciar intendere che potrebbero essere ascoltati». E allora è Vittorio che parla: «Siamo indagati ma sappiamo di essere innocenti» e Francesco gli risponde che «non è né il momento né il posto per parlarne». Ciro: «Abbiamo tutta la vita per parlarne». Ma Vittorio insiste: «Stiamo tranquilli perché noi lo sappiamo di non aver fatto quelle cose lì».

"In galera...", "Taci, stupido". Ciro, la madre e gli amici intercettati. Luca Sablone il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. I ragazzi intercettati in caserma: gesto delle manette agli amici. La mamma di Ciro sbotta col figlio: "Sei uno stupido e un deficiente, parlate di altro". Alla lunga serie di prove e testimonianze nell'ambito del caso Ciro Grillo si aggiungono anche le intercettazioni ambientali che risalgono al primo settembre 2019, ovvero la data della prima convocazione in caserma dopo il sequestro dei telefonini. I quattro ragazzi arrivano nella caserma di Genova Quarto, chi accompagnato dalla madre chi da uno zio. Le conversazioni nella sala d'attesa dai carabinieri rappresentano fonti di prova allegate al fascicolo che la procura di Tempio Pausania ha mandato in tribunale chiedendo il rinvio a giudizio per i quattro componenti del gruppetto. Il 25 giugno la gup Caterina Interlandi sarà chiamata a decidere se mandare o meno i giovani a processo, valutando pure il peso di quei dialoghi in caserma.

"Se vado in galera mi inca..." Edoardo Capitta parla con la madre, che gli consiglia di non agitarsi e di mantenere la calma in quegli attimi. Ma il ragazzo teme per i possibili sviluppi della vicenda: "Io sono agitato perché non so come andrà a finire". I carabinieri scrivono nei loro brogliacci che Capitta fa notare inoltre "che lui non è normale e non sa come il suo fisico potrebbe reagire a una cosa del genere". Cosa intende dire? Lo spiega meglio nei passi successivi, immortalati sempre dalla telecamera: "È chiaro che se mi faccio un mese di galera poi esco incazzato come una bestia". I carabinieri annotano anche l'arrivo di Ciro Grillo e Francesco Corsiglia che, una volta giunti in caserma, vengono accolti da Capitta che "li saluta facendo il gesto delle manette". E a quel punto la madre "gli dice di non fare lo stupido e di non ridere". Ma Edoardo è convinto dell'innocenza per i fatti avvenuti tra il 16 e il 17 luglio 2019: "Sappiamo com'è andata". La madre tuttavia vuole giustamente tenere il controllo e chiede nuovamente al figlio di moderare il proprio atteggiamento: "Comunque non fare lo stupido".

"Parliamo d'altro". Grillo jr, stando a quanto riportato dal Corriere della Sera, una volta entrato nella sala d'attesa avrebbe detto agli altri che "in questi giorni non dobbiamo né vederci né frequentarci anche se non abbiamo nulla da nascondere". Nel documento che riassume l'intercettazione si legge che la madre "suggerisce di parlare di altro", per esempio dell'università. Invece lo zio di Corsiglia inizia a "parlare della partita del Genoa mentre Ciro dice che andrà a nuotare e poi parlano di libri". Il giudice Caterina Interlandi prenderà in esame quel "parlare d'altro" suggerito dagli adulti, dietro cui si potrebbe nascondere il timore di essere registrati o di dire cose che potrebbero risultare accusatorie.

"Sei uno stupido, un deficiente". Ciro Grillo però avrebbe poi ripreso a chiacchierare con i suoi amici, con conseguente rimprovero da parte della madre: "Sei veramente uno stupido, stai zitto". Anche lo zio di Corsiglio "dice a Ciro di dar retta a sua madre" e così il tenore della conversazione con i componenti della comitiva sembra cambiare. Poco dopo però arriva un altro richiamo della madre, "che gli dice di uscire dalla sala d'attesa". Nel riassunto dell'intercettazione ambientale viene rivelato che "a quel punto lo zio di Corsiglia sussurra qualcosa all'orecchio di Ciro mentre suo nipote dice che hanno tutta la vita per parlarne". Nonostante tutto, "Ciro ride e scherza" e dunque la madre lo rimprovera per l'ennesima volta: "Sei un deficiente, non ho parole... siete tre bambini e non capite...".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

"Vi spiego perché Grillo & Co hanno filmato tutto". Rosa Scognamiglio l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. "Lo stupro di gruppo è un esercizio della violenza attraverso l'atto sessuale ai danni di una vittima. Il video? Per dimostrare qualcosa a se stessi o agli amici", spiega a ilGiornale.it il professor Fabrizio Quattrini. "Mi è venuto in mente di urlare. Non è che non ci avessi pensato, ma non ci riuscivo…". Chi parla è Silvia (nome di fantasia), la studentessa 19enne che accusa Ciro Grillo, il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, e i suoi amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria di aver abusato di lei dopo una serata in discoteca in Sardegna, nel luglio 2019. Uno presunto stupro di gruppo che, a detta della ragazza, si sarebbe consumato con modalità particolarmente oltraggiose e incalzanti: schiaffi sulla sulle natiche, sulla schiena e molto altro ancora. "Ero terrorizzata, non sentivo più i piedi per terra", ha raccontato al procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e al sostituto Laura Bassani. Ma non è tutto. Ci sarebbero ben quattro video a testimonianza dell'orrore che si sarebbe consumato quella notte d'inizio estate. Lo conferma uno degli indagati, Edoardo Capitta, in una chat con gli amici nel giorno successivo al presunto stupro: "Ho quattro video facili facili", scrive in un messaggio indirizzato al resto della comitiva. Ma perché gli autori di un reato sessuale sovente filmano la vittima? "Credo che sia legato molto a un aspetto di personalità narcisistica. Poi, nella dinamica del gruppo, il filmare diventa un modo per dimostrare agli altri qualcosa", spiega a ilGiornale.it il dottor Fabrizio Quattrini, psicologo, psicoterapeuta e sessuologo clinico nonché docente di Clinica delle Parafilie e della Devianza presso l'Università de L'Aquila.

Il racconto da incubo: "Violentata a turno, ridevano..."

Professor Quattrini, esiste una definizione per lo stupro di gruppo?

"Lo stupro di gruppo è una modalità di 'sexual offending', ovvero di esercizio della violenza attraverso l'atto sessuale ai danni di una vittima, generalmente un adulto ritenuto vulnerabile o un minore".

Quale è il motivo per cui due o più ragazzi giovani danno seguito a una violenza di gruppo?

"I motivi possono essere tanti, purtroppo non c'è una risposta standard. Di base però credo che questi comportamenti siano riconducibili a una matrice comune, ovvero alla totale assenza di rispetto e percezione dell'altro come 'persona diversa da sé'. Ciò si verifica quando, durante le fasi evolutive precedenti alla prima età adulta, non è maturato il concetto di diversità o è mancato un modello educativo in grado di rispondere in maniera adeguata alle curiosità verso situazioni nuove – 'diverse', per l'appunto – nel corso della fanciullezza o dell'adolescenza. Da questi presupposti possono derivare una serie azioni e comportamenti fortemente devianti: su tutti la violenza sessuale".

Il fine ultime di un abuso ordito da un gruppo di coetanei è quello di procurarsi piacere o c'è dell'altro?

"Il piacere è presente in un atto di sadismo sessuale, ma non nel caso di uno stupro o della aggressione sessuale in gruppo. In generale, i sexual offender - gli autori di reato sessuale - intendono umiliare la vittima, ridurla a un oggetto: vogliono farle del male. Non c'è consensualità tra tutte le parti coinvolte, altrimenti non parleremo di stupro ma di parafilie".

Qual è la differenza tra un comportamento sessuale deviante e una parafilia allora?

"La parafilia è modo atipico, non convenzionale, di vivere la sessualità. Un comportamento sessuale deviante discosta dalla normalità al punto da arrecare danno all'altra persona coinvolta nel rapporto".

L'abuso di alcol può indurre a comportamenti sessuali devianti?

"L'alcol è una situazione di concausa che amplifica la dimensione della devianza, un'aggravante. Ma di certo non giustifica né spiega uno stupro. Tutti i sexual offender partono da una condizione di disfunzionalità e disagio al livello personale, familiare o sociale che talvolta manifestano attraverso l'espressione di una sessualità violenta".

Possiamo definire questi soggetti "casi patologici"?

"L'esplicitazione di un comportamento sessuale violento non implica necessariamente una condizione patologica. Per dirla in maniera spiccia, negli autori di reati sessuali c'è qualcosa durante il processo di maturazione che è “andato storto” e che, nelle fasi successive della crescita, può riversarsi in maniera devastante su un'altra persona".

Ritornando allo stupro di gruppo, perché spesso gli offender filmano la vittima durante l'atto violento?

"Credo che sia legato molto a un aspetto di personalità narcisistica. Poi, nella dinamica del gruppo, il filmare diventa un modo per dimostrare agli altri qualcosa".

Dimostrare che cosa e a chi?

"Le risposte possono essere molteplici. Può essere un'azione di rivalsa nei confronti dei genitori o della società, oppure verso se stessi. Poi credo che molto abbia fatto anche la dimensione dei social in questa tendenza a filmare e condividere continuamente ciò che accade durante la giornata. Con questo non intendo demonizzare il web e le varie piattaforme di comunicazione. Anzi ritengo che internet sia una grande risorsa per i giovani. Il problema è che, a furia di 'postare', i contenuti si svuotano completamente del significato. Per cui filmare la propria routine mattutina o un'azione socialmente grave, come nel caso di uno stupro, diventa normale".

Talvolta gli autori di reato sessuale negano la violenza. Perché?

"La negazione è un meccanismo difensivo che avviene a livello intrapsichico. C'è una parte iniziale, cosciente, di difesa e di protezione: 'Nego a me stesso qualunque cosa possa essere successa. La nego talmente bene, e ci credo con tale fermezza, che alla fine mi convinco non sia mai esistita'. La fase successiva invece è totalmente inconsapevole. Ragion per cui, col tempo, l'autore del reato sessuale tende a rimuovere completamente la gravità di ciò che ha commesso".

In questi casi c'è il rischio di reiterazione?

"Dipende dagli individui coinvolti e dalle caratteristiche personali di ciascuno. Tuttavia la casistica ci segnala che il rischio di recidive per i reati sessuali è molto alto".

Le mani "a taglio" e la prossemica: la verità nel video di Grillo. Rosa Scognamiglio il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. L'esperto di comunicazione non verbale e analisi della menzogna spiega cosa c'è dietro il video di Beppe Grillo: "La rabbia è autentica ma ha fatto un autogol". "C'è un video, c'è un video!". Non fa altro che ripeterlo Beppe Grillo nel breve filmato pubblicato sui social lo scorso 19 aprile in difesa del figlio Ciro, indagato con l'ipotesi di reato per presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di Silvia (nome di fantasia) nell'estate del 2019 a Cala di Volpe, in Sardegna. Il leader del Movimento 5 Stelle si scaglia con veemenza contro la giovane difendendo, a torto o ragione della verità, il suo ultimogenito dalla pesantissima accusa di stupro. "Mandate in galera me al posto di mio figlio", grida. E ancora: "Sono quattro co******", dice riferendosi a Ciro e agli amici coinvolti nella vicenda.

"Quel video è un messaggio di sfida ma la rabbia di Grillo è autentica", spiega a ilGiornale.it Francesco Di Fant, esperto di comunicazione non verbale e analisi della menzogna.

Qual è la principale emozione che trapela dal video?

"Da analista del linguaggio del corpo, posso dire che trapela una rabbia vera, esplosiva. Mi riferisco sia alla rabbia facilmente leggibile a chiunque veda il breve filmato, sia da alcuni gesti che sono un po' più tecnici e fanno capire l'inclinazione psicologica di quest'emozione".

Come evolve nel corso del filmato questo sentimento?

"Nei primi minuti del video, Grillo cerca di stare calmo, di controllare la sua verve battagliera. All'inizio del filmato, possiamo dire che è un po' più il personaggio, il “rabbioso Grillo” davanti alla telecamera. Dopo un po' invece gli si accende il fuoco della vera rabbia: cambia la gestualità, cambia l'energia e si colora persino in volto (diventa rosso). Dal momento in cui comincia a urlare e a battere con forza la mano sul tavolo, la rabbia diventa vera. Intendo dire che non è di facciata, non è 'da comizio' ma autentica".

Da cosa scaturisce la rabbia di Grillo?

"La rabbia, a livello di studio emozioni, si innesca da un trigger ('scatto', ndr) quando troviamo un ostacolo sul nostro cammino o un impedimento al raggiungimento del nostro obiettivo. E sicuramente un figlio indagato rappresenta un ostacolo alla serenità familiare."

Ecco cosa c'è dietro il video di Beppe Grillo

Perché ha una gestualità così accentuata?

"Grillo è ipercinetico, ha una gestualità esasperata con scatti violenti. Compie dei gesti energici, quasi violenti. E la maggior parte di questi movimenti, a livello tecnico, ha un significato ben preciso. In primis fa quelle che in gergo tecnico si chiamano “mani ad artiglio”, come se volesse strappare qualcosa. Poi dà questi schiaffi sul tavolo molto forti. Il contatto con gli oggetti, siano schiaffi oppure pugni battenti su un tavolo, rappresentano una forma di 'rabbia deviata', come se stesse direzionando questo sfogo verso un oggetto anziché colpire qualcuno".

In che modo i gesti supportano le sue affermazioni?

"Grillo compie gesti lineari, traccia delle linee nette con le mani che sono “a taglio”, come un'accetta. Questi movimenti sono tipici di uno stato di aggressività. Senza contare che non riesce a stare fermo sulla sedia, avanza con il corpo verso la telecamera. In questo modo diminuisce la distanza prossemica, invade lo spazio altrui".

Qual è il messaggio implicito del video?

"Un messaggio di sfida contro qualcuno. Lui si scaglia con diverse persone: contro la ragazza, contro gli inquirenti e molto probabilmente anche contro i giornalisti che stanno 'pompando' la notizia. È un Grillo contro tutti ma la rabbia è vera".

Quando il delirio dei padri inguaia i figli. #stupro

Perché ricorre ai social?

"Grillo conta a massimizzare la condivisione del breve filmato. L'obiettivo di un abile stratega comunicativo non è solo quello di mandare il messaggio ma metterlo su delle piattaforme che ne consentano la diffusione immediata".

È stata una mossa vincente?

"Per quanto mi riguarda, credo sia stato un autogol. Escludendo il personaggio politico, una persona che difende il figlio potrebbe farlo senza sfidare tutto e tutti. Tant'è che questo video ha avuto una sorta di 'effetto boomerang'. Molti lo hanno aspramente criticato".

Crede non abbia previsto i risvolti eventuali del filmato?

"Non penso, è stato guidato dal cuore: è il padre che parla. Probabilmente crede alla versione del figlio e quindi non ha calcolato questo controeffetto facendo un uso sbagliato - o forzato - del media. Ha perso di vista la strategia comunicativa diventando un padre che fa una difesa accorata del figlio".

Come interpreta la scelta di ricorrere a espressioni colorite per difendere il figlio?

"Grillo prova a minimizzare l'accaduto e soprattutto la presunta colpevolezza del figlio. C'è una sorta di captatio benevolentiae, un tentativo di far passare il figlio come qualcuno che ha fatto una bravata".

Cosa ha sbagliato dal punto di vista della comunicazione?

"Quella di aver tirato in ballo la vittima o presunta tale. È stato uno scivolone comunicativo e umano, un errore clamoroso. Ha forzato l'opinione popolare finendo con l'invalidare il senso del messaggio. Avrebbe potuto difendere il figlio in mille altri modi ma non tirando in ballo la presunta vittima. Ha sbagliato i modi e i tempi".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 24 giugno 2021. C' è una svolta clamorosa nell' inchiesta su Ciro Grillo e i suoi tre amici accusati di stupro di gruppo. Il 24 maggio scorso il procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e la pm Laura Bassani hanno aperto un nuovo fascicolo per violenza carnale, questa volta nei confronti di ignoti, in attesa di identificare con precisione il giovane che avrebbe abusato di S. J. un anno prima dei quattro amici genovesi. Quel ragazzo in realtà è già stato individuato dagli avvocati degli indagati che proprio il 23 maggio avevano chiesto che fosse sentito come testimone per valutare l'attendibilità dell'accusatrice italo-norvegese. Si tratta, come anticipato dalla Verità il 4 giugno scorso, di David Enrique Bye Obando, nato a Managua nel 2000 e residente a Oslo dal 2017 dove si è trasferito per studiare e vivere con il padre Vegard Bye, politologo, giornalista ed ex parlamentare del Partito della sinistra socialista, una formazione ecologista e progressista con qualche affinità con il Movimento 5 stelle. Nell'atto firmato il 24 maggio dagli inquirenti si legge che «il pubblico ministero ha disposto l' iscrizione di un nuovo procedimento a carico di ignoti (cosiddetto modello 44, ndr)» per violenza sessuale aggravata perché «nei confronti di persona che non ha compiuto i diciotto anni (in effetti la ragazza all' epoca aveva 17 anni e mezzo, ndr)» e perché «il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d' ufficio», vale a dire lo stupro che avrebbero commesso il 17 luglio 2019 Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria ad Arzachena. Il nuovo fascicolo, puntualizzano i pm, è stato aperto «viste le dichiarazioni» rese da S.J. nel verbale del 17 febbraio 2020, in cui la stessa «riferiva che nel maggio 2018, mentre si trovava in campeggio in Norvegia, subiva violenza sessuale da parte di un suo amico di nazionalità nicaraguense». Dunque il procedimento è stato avviato 15 mesi dopo le dichiarazioni della ragazza e il giorno successivo alla richiesta da parte degli avvocati di sentire il giovane nicaraguense come testimone. L' inchiesta, quando i magistrati identificheranno ufficialmente David, probabilmente dovrà essere trasferita al Tribunale per i minorenni; infatti il padre di David, Vegard, ieri ci ha comunicato l'età del figlio all' epoca dei fatti: «Nel maggio del 2018 David non aveva ancora compiuto 18 anni, essendo nato il 15 settembre del 2000». Nella loro istanza di un mese fa gli avvocati evidenziano come il caso descritto dal S.J., ma anche da altri tre testimoni, le due amiche R.M. e A.M. e l'istruttore di kitesurf, «consentono di ritenere l'episodio caratterizzato da una suggestiva prossimità temporale con quello prefigurato» nel procedimento contro Ciro Grillo e gli altri tre indagati e «soprattutto da interessanti analogie con esso». I legali, che per la legge italiana non possono effettuare indagini difensive all' estero, ritengono «che acquisire la versione dell'altro protagonista del singolare accadimento [] appare alquanto rilevante [] per una seria valutazione dell'attendibilità» della ragazza, in particolar modo perché i due casi differirebbero in modo significativo «per il diverso elemento, il sonno, che avrebbe viziato il consenso al rapporto sessuale». Di qui l'alcol, di là lo stato di assopimento. La giovane il 17 febbraio 2020 ha raccontato ai magistrati la violenza che avrebbe subito dal suo «migliore amico» (a sua volta fidanzato con «la migliore amica» del suo boyfriend) in «un camping che aveva organizzato la scuola»: «Lì lui non sapeva che stessi dormendo e allora cioè c'era stato un flirt e tutto, eravamo nella stessa tenda soltanto che anche lì avevo messo in chiaro che non volevo nulla e né niente ehm soltanto che io ero crollata dal sonno e lui ha iniziato a fare non so aprendo la mia tuta e io mi sono svegliata e lui stava venendo. Però io in quel momento stavo dormendo». E come avrebbe reagito S.J. alla presunta violenza? Risposta della studentessa: «Quando l'ho visto che stava facendo, che stava venendo così, sono uscita dalla tenda, sono scappata nel bosco e sono andata in bagno cioè fuori a piangere poi sono tornata al camping che c' era la mia amica che si era svegliata, ho preso le mie cose e me ne sono andata. Sono andata a casa e quando sono arrivata a casa mi sono messa sotto la doccia e ho chiamato il mio migliore amico. Però non sono andata a denunciarlo». E come mai? S.J.: «Perché non avevo capito che cosa fosse successo e poi un po' per paura e poi anche per il fatto che era il mio migliore amico [] mi sembrava strano, non lo so». La giovane italo-norvegese ha anche ricordato che quando telefonò a David per chiedergli spiegazioni su quanto accaduto, lui le avrebbe semplicemente consigliato di prendere la pillola del giorno dopo. Il padre del ventenne di Managua, Vegard, a inizio giugno, ci aveva detto: «David sostiene di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa. Ho insistito affinché parlasse di nuovo con lei per ottenere una dichiarazione formale. Lui nega categoricamente la contestazione». E David aveva ribadito: «Chiederò a S. di fare una dichiarazione formale per confermare le scuse che mi ha fatto lo stesso anno dei fatti». Il 23 maggio scorso gli avvocati hanno sollecitato la Procura a emettere un ordine europeo di indagine penale volto all' audizione di David, «al fine di indentificare correttamente tale soggetto e accertare la veridicità o meno, nei rilevanti dettagli, di quanto raccontato dalla denunciante». I magistrati hanno aperto direttamente un'inchiesta. Che adesso si incrocerà con quella principale e trasformerà la vicenda in un caso internazionale.

Grillo jr, Silvia: "Usata e gettata via Sono spazzatura, non valgo niente". Affari Italiani il 6/7/2021. Il caso Ciro Grillo e amici accusati di stupro di gruppo da una ragazza conosciuta in vacanza nell'agosto del 2019, continua a regalare retroscena sui fatti di quella notta nella villa del garante del M5s, in cui erano presenti, oltre al figlio del comico anche tre amici. Emergono delle nuove chat, finite agli atti di Silvia, l'accusatrice, messaggi scambiati con un'amica norvegese poche ore dopo aver lasciato la casa di Ciro. "La verità è che la sola cosa che sento dopo questa esperienza è che io non valgo niente... le persone mi usano soltanto quando e come vogliono e poi mi buttano via come spazzatura. E non parlo solo di sconosciuti ma anche di quelli che considero amici". L'amica - si legge sul Corriere della Sera - insiste su un punto: «Io vorrei davvero che tu ti rivolgessi a un professionista, uno psicologo che ti aiuti a vedere che bella persona sei...». E ancora: «Incolpare te stessa non è una cosa sana ed è sbagliato. Hai bisogno di capire che sei una brava persona». «Va bene - le risponde Silvia - andrò da un terapista, anche se non sono tanto sicura che farà la differenza (...) proprio non ce la faccio più — confida in un passaggio più avanti — sta diventando sempre più difficile capire perché succedono cose come queste e come evitarle... mi sento così frustrata che sto diventando matta». La gup venerdì prossimo dovrà decidere se mandare a processo oppure no i quattro accusati, avrà di fronte per la prima volta tutte le parti in causa ma quasi certamente non gli imputati che non dovrebbero presentarsi.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. «La verità è che la sola cosa che sento dopo questa esperienza è che io non valgo niente... le persone mi usano soltanto quando e come vogliono e poi mi buttano via come spazzatura. E non parlo solo di sconosciuti ma anche di quelli che considero amici». Così scrive Silvia all' amica che vive in Norvegia poche ore dopo i fatti. I fatti sono la violenza sessuale che lei giura di aver subito in Sardegna, la mattina del 17 luglio 2019. Sott' accusa quattro ragazzi conosciuti la sera prima in discoteca che invece giurano che «lei ci stava»: Ciro Grillo (il figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle) e i suoi tre amici, Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia. Venerdì, a Tempio Pausania, la gup Caterina Interlandi - che dovrà decidere se mandare a processo oppure no i quattro accusati - avrà di fronte per la prima volta tutte le parti in causa ma quasi certamente non gli imputati che non dovrebbero presentarsi. Non ci sarà la stessa Silvia né Roberta, l'amica che era con lei e che è parte di questa storia come vittima perché è finita sullo sfondo di fotografie oscene mentre dormiva sul divano. «Mi usano e mi buttano via», scriveva dunque Silvia nei suoi messaggi WhatsApp all' amica. Lunghe conversazioni in inglese depositate fra gli atti che ora il giudice dovrà valutare. Parole che definiscono la fragilità di lei, i suoi sensi di colpa, il suo chiedere aiuto. «Quello che hanno fatto quei ragazzi è pura manipolazione, e hanno approfittato di te», valuta l'amica dopo aver saputo. Ma scrive la sera tardi, un messaggio dopo l'altro. E Silvia non risponde. Li leggerà la mattina dopo. «Non importa se non hai urlato di smettere o roba del genere. Ti hanno manipolato umiliandoti. So che sei un po' insicura e loro hanno fatto leva su questo per usarti. Questo è una colpa e un errore loro, al 100%» è una delle considerazioni dell'amica. Che poi insiste su un punto: «Io vorrei davvero che tu ti rivolgessi a un professionista, uno psicologo che ti aiuti a vedere che bella persona sei...». E ancora: «Incolpare te stessa non è una cosa sana ed è sbagliato. Hai bisogno di capire che sei una brava persona». «Va bene ci andrò» le risponde Silva il mattino dopo, commossa e grata per le parole dell'amica («un sollievo, non hai idea di quanto mi faccia sentire bene saperti dalla mia parte»). «Andrò da un terapista, anche se non sono tanto sicura che farà la differenza (...) proprio non ce la faccio più - confida in un passaggio più avanti - sta diventando sempre più difficile capire perché succedono cose come queste e come evitarle... mi sento così frustrata che sto diventando matta». L' amica la mette in guardia dagli uomini e dalla gente «di m... da cui stare alla larga» e fra le persone da cui guardarsi cita anche Roberta: «non dovresti più circondarti di persone come lei» scrive. Evidentemente si riferisce a ciò che Silvia racconta anche nei suoi interrogatori, e cioè che la sua amica Roberta ha dormito senza accorgersi di nulla e che non ha reagito come avrebbe dovuto dopo che lei, in lacrime, le ha detto «mi hanno violentata tutti». Silvia confida all' amica lontana che «sto accumulando troppe cose, le sto mettendo da parte pensando di poter affrontare tutto, e invece sta tornando tutto indietro ed è un po' opprimente». 

Il figlio di Beppe e i 3 amici a rischio processo. Ciro Grillo, è il giorno dell’udienza preliminare per stupro: si indaga anche per revenge porn. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Luglio 2021. A Tempio Pausania si deciderà oggi l’eventuale rinvio a giudizio nei confronti di Ciro Grillo e dei tre amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, accusati di violenza sessuale nei confronti di Silvia (nome di fantasia, ndr), la 19enne italo-norvegese che sarebbe stata stuprata nella villa del comico genovese in Sardegna, a Cala di Volpe, nella notte tra 16 e 17 luglio 2019. Per tre dei quattro indagati l’accusa è di violenza sessuale di gruppo mentre uno di loro è imputato singolarmente per violenza sessuale. A prendere una decisione, nel pomeriggio, sarà il gup Caterina Interlandi, ma per i legali degli indagati non sarà questa la giornata in cui scoprire le proprie carte. “Si costituiranno le parti e si farà una calendarizzazione delle altre udienze. Non decideremo domani un eventuale rito abbreviato o l’eventuale risarcimento alla seconda ragazza”, annunciano. I quattro amici si sono sempre dichiarati innocenti, sostenendo che la ragazza italo-norvegese era consenziente; tesi opposta a quella della 19enne e del procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e della sostituta Laura Bassani. Ma nell’inchiesta che oggi potrebbe portare i quattro giovani al rinvio a giudizio spunta anche una nuova ipotesi di reato: il revenge porn. Secondo Repubblica riguarderebbe la diffusione via chat internet dei video dal contenuto sessuale che riprendevano Silvia e la sua amica Roberta. Una circostanza, quella della diffusione di materiale online, denunciata a maggio dai genitori di Silvia in una lettera alla loro legale Giulia Bongiorno: “Hanno condiviso pezzi di video con il corpo di nostra figlia come trofeo”, avevano scritto. Fascicolo che attualmente è contro ignoti e si fa ad aggiungere agli altri stralci del filone principale dell’inchiesta: quelli per rivelazione di segreto istruttorio, per diffamazione (contro ignoti) e per l’identificazione del ragazzo di origini sudamericane che avrebbe violentato Silvia nel 2018  un camping norvegese, fatto mai denunciato dalla ragazza.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Ciro Grillo, udienza rinviata e nuove prove ammesse: "Testimoni e un file audio", altro colpo di Giulia Bongiorno. Libero Quotidiano il La gup Caterina Interlandi ha rinviato le udienze in cui deciderà sul rinvio a giudizio per Ciro Grillo e i suoi tre amici, tutti accusati di violenza sessuale di gruppo su una ragazza di vent’anni. La giudice di Tempio Pausania ha ammesso nuove prove, come spiegato con soddisfazione da Giulia Bongiorno, che difende la presunta vittima di stupro. “Siamo stati ammessi come parti civili e sono stati ammessi nuovi elementi per noi rilevanti”, ha dichiarato l’avvocato.  Si tratta di “dichiarazioni rese alla stampa da alcuni testimoni - ha precisato la Bongiorno - e un file audio di una chat tra la mia assistita e una sua amica norvegese. Una denuncia è un grido di dolore, la sede naturale per raccoglierlo è questa udienza, finalmente è arrivato il momento ed è importante che ci sia una verifica giudiziaria”. La gup Interlandi ha fissato le prossime udienze per il 5 e il 12 novembre: in tali date verranno sciolti tutti i dubbi. Entro il 20 ottobre sarà consentito depositare ulteriori elementi probatori individuati tra le carte che da oggi entrano nel fascicolo processuale. L’udienza è durata oltre tre ore e non ha visto la presenza dei quattro imputati: oltre al figlio di Beppe Grillo, sono Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. 

Giacomo Amadori per "la Verità" il 9 luglio 2021. Inizia questa mattina l'udienza preliminare del processo a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, i ventenni genovesi accusati dalla Procura di Tempio Pausania di stupro di gruppo nei confronti della coetanea italo-norvegese S.J. e di abusi anche nei confronti dell'amica di lei, R.M.. Nei prossimi giorni il gup Caterina Interlandi dovrà decidere se accogliere le richieste dei pm Gregorio Capasso e Laura Bassani e rinviare gli imputati a giudizio. Ma intanto il tribunale dei media li ha già condannati. L' unica vulgata possibile per raccontare la storia della presunta violenza sessuale nei confronti di S. è quella della vittima ghermita da quattro predatori famelici. Un racconto che i giornali fanno con il ciclostile. Perfino i titoli sono tutti uguali. Come l'ultimo: Usata e gettata via. Ma a leggere bene le carte si scopre che questa vicenda ha molte più sfumature di quanto non appaia dai resoconti orientati e politicamente corretti, e che la sua protagonista è una diciannovenne tormentata in lotta con i suoi fantasmi, che sì ha paura di essere «usata» dagli uomini, ma che sostiene anche di ricascarci ogni volta e che viene assalita dai rimorsi quando si sente «buttata via». A maggior ragione dopo una notte di sesso di gruppo, alla fine della quale non era stata neppure riaccompagnata dai suoi partner occasionali al bed & breakfast dove soggiornava. E così il giorno dopo, la sera del 18 luglio, si sfoga con un'amica norvegese, Mya, e con lei inizia una dura seduta di autoanalisi culminata con un vocale di 14 minuti e 45 secondi, in cui S. rimugina sulle parole con cui l'interlocutrice ha provato a tirarla su e a convincerla a reagire. Utilizzando messaggi come questi: «Sappi che ciò che quei ragazzi ti hanno fatto è stata pura manipolazione e approfittarsi di te. Non importa che non gli abbia gridato di fermarsi o altro. Ti hanno manipolato, umiliandoti []. Tu sei abbastanza insicura e loro ti hanno usato []. Voglio che tu riconsideri la tua relazione con Nick (il ragazzo con cui S. ha iniziato una relazione nei due anni in cui ha vissuto in Norvegia, tra il 2017 e il 2019, ndr), perché non penso che sia giusto che lui decida quando vuole solo usarti o quando essere dolce [] la ragione per cui non ti tratta bene è al 100 per cento perché lui è uno stronzo [] continui a darti la colpa ed è per questo che voglio che tu veda uno psicologo perché ti prometto che ti aiuterà a vedere che non è colpa tua e non lo è mai stata []. Dovresti iniziare a contornarti di brave persone e bravi uomini». Cosa che evidentemente a giudizio di Mya, S. non fa. E la giovane italo-norvegese risponde a queste considerazioni con il sofferto vocale in inglese, in cui tira fuori la sua anima ferita, senza mascheramenti. Vale la pena di leggere questo sfogo di S. in modo quasi integrale, perché consente di capire come nella notte del 17 luglio 2019 non ci fossero lupi ed agnelli, ma solo cinque ragazzi che hanno avuto la sfortuna di incrociare le proprie strade in quelle ore maledette. Ecco le parole di S.: «Sì, mi sono sentita super usata, non so, è stato bruttissimo, cioè, proprio usata e gettata via, quasi solo per divertimento e, non lo so, sto così male che voglio ricominciare da capo, ma per davvero, e non so cosa fare, come si fa...». Quindi la presunta vittima riprende il discorso sul ragazzo norvegese: «Le cose che dici su Nick sono tutte così vere [] non è giusto andare avanti e mi sento sempre soltanto spazzatura, usata e non sono felice, non lo so, sto davvero male, soprattutto con me stessa». Il problema è che quando Mya le consiglia di trovarsi «un bravo ragazzo» a S. viene in mente la notte precedente, quando l'amica R. non le diede corda e la lasciò sola a subire la presunta violenza carnale: «Era come se non le importasse di me, mi sono incazzata così tanto, e nella mia testa era come se mi dicessi, sì, ha ragione, non merito niente. Sai, pensavo e me lo ripetevo quasi ad alta voce, che non merito niente e che non valgo un cazzo, e qualunque cosa quei ragazzi mi hanno fatto probabilmente me lo merito. Ecco perché ero come fuori di me e probabilmente li ho lasciati fare, ma poi non ho più potuto controllare nulla, perché non ho mai voluto che succedesse nulla e anche il modo in cui lo hanno fatto, non lo so, è terribile. Non ho parole, sono così vuota. Sto male, tu lo sai, non ho rispetto per me stessa». A questo punto S. fa riferimento all' ex compagno di scuola che gli aveva presentato i suoi presunti stupratori la notte tra il 16 e il 17 luglio: «Lo sai, anche Alex che è un mio amico [] quando ero in discoteca era come se stesse sempre cercando di vendermi a ragazzi e a cose che non voglio più, non voglio niente da questi tipi come da chiunque altro. Sento che nella mia vita ci sono proprio poche persone che contano davvero e sono felice che ci siate, probabilmente siete tre o quattro []. R., che pensavo fosse una delle mie più care amiche, si è dimostrata così egoista e stupida su tutto, che le parlo a malapena; tipo adesso sta giocando a pallavolo in spiaggia e io me ne sono tornata a casa a piedi da sola, così, perché non ce la faccio più a stare fuori, mi sento che e mi dispiace ripeterlo ma giuro che ogni volta che ci penso mi viene sempre da piangere, mi odio per quel cazzo che faccio, e sai, probabilmente ho anche mancato di rispetto, tipo a Nick, ma ho così tanta rabbia e dolore dentro». La giovane rivela all' amica le confidenze fatte al suo istruttore di kitesurf anche l'anno prima, quando gli aveva confessato di essere stata stuprata in Norvegia dal suo migliore amico David Enrique Bye Obando: «Non so come risolverla a essere sincera. Non lo so, proprio non so. Tipo oggi ho parlato con il mio insegnante [] è davvero una brava persona e anche lui ha avuto questo tipo di esperienze, diciamo, così, dopo quella volta con David mi aveva detto delle cose che in realtà mi avevano tranquillizzata e che mi avevano fatto stare meglio, ma questa volta invece è come se fosse super dispiaciuto, anzi provava pena per me [] mi ha detto che sono grande, che posso mettere questa vicenda in un cassetto, dimenticarmene e andare avanti con la mia vita, ricominciare, essere meno dura con me stessa, cose così, solo che ora è così difficile...». Durante lo sfogo prova a voltare pagina: «Domenica torno a Milano, ci sto provando, lo farò, quasi non volevo partire, ho quasi cambiato il biglietto, ma ci andrò e mi divertirò lo stesso []. Chissà, magari a settembre verrò comunque in Norvegia magari per salutare qualcuno, non tanto Nick, ma in generale alcune persone a cui lo avevo anche promesso». L' autoanalisi si fa spietata: «Ma perché sono così idiota, perché mi comporto così, perché non dico basta, come se non fosse possibile? Ma anche com' è che in certi momenti non posso neanche fidarmi di chi mi sta intorno, perché alla fine ero quasi con la mia migliore amica, così pare, non lo è di certo, ma comunque con una cara amica e non posso nemmeno fidarmi di lei, e poi anche con questi ragazzi era tutto normale e poi finisce che se ne approfittano di te così. È terribile. Giuro, non lo so». La confessione prosegue: «Quest' ultimo periodo è stato una merda, e non è per loro, ma voglio rimettermi a posto ora, e tipo capire cosa voglio perché mi sento persa, giuro, mi sento così sola qui che non ne hai idea... ora cerco di non pensare a niente [] e sullo psicologo, non lo so, non mi fido di nessuno, ma ci penso, forse dovrei andarci [], ho sempre detto che magari in discoteca a volte esco di testa e finisco proprio per andare a letto con qualcuno. Ok, va bene, cioè non va bene, ovvio, ma alla fine può sembrare che non sia così grave, almeno per me è ok, è successo amen, chi se ne frega. Tipo due sere fa sono andata con uno e, te l'ho sempre detto, andare con uno è una cosa, ma fare sesso non voglio che sia una cosa superficiale o così via, è una cosa che voglio fare con qualcuno che amo, non solo un vendermi, come fanno molte delle mie amiche anche qui in Italia []. Sembra che non sappia portarmi rispetto, sembra che parli in terza persona, perché da una parte dico tutte queste cose, dall' altra non riesco neanche a provarci a rispettarmi, perché non lo so, mi odio, mmm, per tutte queste cose mi sento insicura». Dall' audio emerge pure un rapporto difficile di S. con il corpo, apparentemente così bello (un' amica in un interrogatorio aveva evidenziato la sua eccessiva magrezza): «Per esempio quando non mangio vomito, vomito che mi lascerei morire di fame, quasi mi distruggo come tutti questi lividi che ho, non è che mi prendo cura di me perché ho quello che ho sulle braccia, non li avrei ad esempio se mi prendessi cura di me [] proprio non capisco perché la gente mi veda attraente o bella [] quasi non voglio che mi vedano bella perché poi succedono cose del genere e tutto ricomincia da capo. Non credo di essere depressa, oppure sì lo sono, ma sono soprattutto delusa e a dire il vero è anche peggio della depressione in questo momento. Scusa se parlo così tanto, ma ho davvero bisogno di tirare fuori tutto. È una merda, una merda e io sono così nella merda []». Quindi ritorna sui suoi complicati rapporti con i ragazzi norvegesi: «Lo so che Nick è l'ultimo dei problemi perché, per esempio, la cosa di David gliel' ho detta praticamente subito, ma non ne sono più sicura. Forse merita qualcun' altra, sono così incasinata [] nessuno si merita di finire con una come me, tutte le volte faccio delle cazzate, non lo so, è un casino, uno schifo, io faccio così schifo. Non lo so se è stata colpa mia o meno quella sera, ma giuro che è stato difficile evitarlo [] non riuscivo a fermare nessuno, se no lo avrei fatto, davvero lo avrei fatto. Mi odio perché mi fido della gente così, perché di solito sono aperta e mi fido, sorrido, sai, in modo amichevole, no? [] ma questo è il mio peggior difetto, tipo la peggior parte di me perché tutti ne approfittano e io mi odio perché forse sono troppo buona, non so. Diciamo, non è stata una bella esperienza. Ora devo solo sistemarmi un attimo. Già. Per prima cosa, per esempio, puoi credermi o no, non berrò più perché sono stanca di non essere in uno stato super e di non capire, perché non riesco a prendermi cura di me stessa quando sono sobria, peggio ancora quando [] sono un po' ubriaca. Penso che questo dovrebbe essere il mio primo passo, credo, e tutto quello che viene dopo vedremo». Nei giorni immediatamente successivi a quel vocale S. ha denunciato i suoi quattro presunti aggressori.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 10 luglio 2021. La storia per la prima volta davanti al giudice e la convinzione (di tutti) di avere per le mani «file audio decisivi». È la sintesi dell'udienza di ieri, a Tempio Pausania, sul caso di Grillo junior. Ciro Grillo, il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, e i suoi tre amici - Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta - sono sott' accusa per violenza sessuale di gruppo. Due le ragazze che li hanno denunciati, Silvia e Roberta, che all'epoca dei fatti (17 luglio 2019) avevano, come loro, 19 anni. Silvia ha raccontato di aver subito violenza da tutti, Roberta ha scoperto di essere sullo sfondo di fotografie e di un filmato osceno mentre dormiva sul divano. La giudice dell'udienza preliminare, Caterina Interlandi, ha chiuso la seduta di ieri con la data del prossimo appuntamento, il 5 novembre. Ma prima di quella data, il 20 ottobre, le difese dei ragazzi e le parti civili, le indicheranno quali sono - fra la marea di documenti finiti nel fascicolo - quelli che ciascuno di loro ritiene essenziale. Una sorta di bussola per semplificare il lavoro in Aula e per guidare lei in una quantità mostruosa di atti che riguardano soprattutto il contenuto dei telefonini dei ragazzi e delle presunte vittime (sono un terabyte, cioè più di mille megabyte di materiale). Chat via WhasApp, messaggi da varie piattaforme social, filmati, audio, link, fotografie... Non a caso è proprio sul contenuto di un messaggio audio che si è giocato ieri il primo tempo di questa partita. L'avvocata Giulia Bongiorno, che difende Silvia, annuncia che fra gli «elementi per noi rilevanti» è stato ammesso anche «un file audio di una chat tra la mia assistita e una sua amica norvegese». Ne è stato ammesso anche un secondo ma fra i due il più importante è un messaggio vocale di 14 minuti e 45 secondi spedito al giorno dopo i fatti e che anche le difese dei ragazzi ritengono a loro favore per alcune delle frasi che Silvia invia all'amica. Per esempio: «Perché sono così idiota? Perché mi comporto così? Perché non dico basta, come se non fosse possibile?» oppure: «Qualunque cosa fatta da quei ragazzi me la merito, ero come fuori di me e probabilmente li ho lasciati fare...». Sembrano parole di consenso rispetto a quel che è successo. Ma in quell'audio c'è anche il rovescio della medaglia. Frasi che descrivono quanto quella ragazza si sentisse debole e incapace di reagire o altre considerazioni tipo: «Per me il sesso è una cosa sacra, se possiamo dire così (...) fare sesso per me è qualcosa di, forse... non so, spero che quello che sto dicendo non ti sembri superficiale, ma per me il sesso è qualcosa che voglio fare con qualcuno che amo». In un terabyte di materiale i file che le parti possono ritenere interessanti potrebbero essere moltissimi, e infatti le difese dei ragazzi non escludono di poterne sottoporre al giudice alcuni finora non emersi come rilevanti e (anche se loro non lo confermano) già individuati. L'avvocato di uno dei quattro accusati, Gennaro Velle, dice che «nel telefono delle ragazze ci possono essere elementi molto importanti per le decisioni da assumere» e non si spinge oltre. Lui è il legale di Francesco Corsiglia che nel racconto di Silvia sarebbe stato il primo (e da solo) a violentarla e che invece non compare nel video in cui si vedono gli altri tre con lei: «Facevamo sesso con il suo consenso», hanno sempre sostenuto loro; «Mi stavano violentando», ha sempre giurato lei. Parlando di Silvia, Giulia Bongiorno ha detto che «si può immaginare quanto questa storia l'abbia segnata. Una denuncia è un grido di dolore, la sede naturale per raccoglierlo è questa udienza, finalmente è arrivato il momento». L'avvocato di Roberta, Vinicio Nardo invita tutti «alla cautela e alla riservatezza perché sono coinvolti ragazzi molto giovani sia da una parte sia dall'altra». «Dimostreremo in Aula le ragioni dei nostri assistiti» è la promessa dei legali dei ragazzi, Enrico Grillo (per il cugino Ciro), Sandro Vaccaro (per Lauria), Gennaro Velle e Romano Raimondo (per Corsiglia) ed Ernesto Monteverde e Mariano Mameli (per Edoardo Capitta).

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 10 luglio 2021. Lo aveva predetto Annamaria Bernardini De Pace, avvocato di larga esperienza: il Tribunale di Tempio Pausania è d'ascendenza ellenica, è avvezzo alle calende greche e come tale, lì, tra i giudici attanagliati dalla canicola, le sentenze tendono a galleggiare nell'oblio. E così è stato. Ci sarà pure un motivo se il processo a Ciro Grillo e dei suoi più cari amici -Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria-- accusati di stupro, nel 2019, nei confronti di Silvia ragazza italonorvegese allora 19enne vede l'udienza sul rinvio a giudizio rimandata al prossimo 5 novembre. E ci sarà pure un motivo se le udienze conseguenti potranno tenersi solo il 12 e 26 novembre successivi, secondo calendario della gup Caterina Interlandi. Si attendono, dunque, altri quattro, estenuanti mesi di graticola, per la ragazza, non per i presunti stupratori.

RITMO LENTO Tra l'altro, quella di ieri doveva essere un'udienza di «smistamento», per calendarizzare cioè i prossimi passaggi e in cui difficilmente si deciderà sul rinvio a giudizio degli imputati, sulla possibilità di chiedere il rito abbreviato o risarcire le vittime. Mentre nel resto d'Italia la giustizia accelera, da queste parti continua a vivere su ritmi lenti. Tra le novità emerse oggi nel processo, due spiccano per spessore: esistono nuove immagini che i difensori degli imputati hanno raccolto nelle ultime settimane per sostenere che la vittima dello stupro «non ha trascorso le ore immediatamente successive in uno stato di prostrazione». E pare che la Procura di Tempio abbia anche aperto da poco un nuovo fascicolo, un filone bis sui fatti di due anni fa, ipotizzando il reato direvenge porn -diffusione illecita di immagini sessuali esplicite-. Infatti pare che un ragazzo amico degli imputati abbia rilasciato in tv dichiarazioni inedite in cui ammetteva di «aver visionato frame» della notte della violenza. L'intervista è stata depositata dagli avvocati della vittima -tra cui Giulia Bongiorno- sicchè i pm hanno deciso di procedere per capire quel fosse il vero giro del fumo dei video. Il revenge porn è reato recente, uno di quelli eticamente più disgustosi. La legge italiana - entrata in vigore dopo il 17 luglio 2019 punisce «con la reclusione da uno a sei anni anche chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini e i video stessi, li invia, cede, pubblica, o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento». Ciro Grillo e compagnia hanno sempre negato di essersi resi protagonisti di revenge porn. Ma le suddette esternazioni tv fanno pensare a qualcosa di diverso e i con i nuovi accertamenti si dovrebbero sciogliere dubbi e scuotere coscienze.

REVENGE PORN L'indagine per revenge porn diventa così il terzo fascicolo parallelo a quello sulla violenza avvenuta dopo l'approccio con Silvia e l'amica al Billionarie, insieme ai rilievi sulla violazione del segreto istruttorio per la ripetuta pubblicazione dei verbali; e assieme all'altra branca inerente la rivelazione della stessa Silvia d'aver subito abusi mesi prima, in tenda, da un coetaneo norvegese. La faccenda, insomma resta assai complessa e s' innerva nella storia giudiziaria e del costume d'Italia. Dietro ad essa c'è più di una sentenza di condanna di quattro ragazzi ricchi. Il caso Ciro Grillo s' incrocia con la vita politica stessa del Paese, e con l'ardua e controproducente difesa di Beppe Grillo. E, probabilmente con la sua accettazione, quasi spiazzante, di una riforma della Giustizia - avviata del ministro Cartabia e avversa alla parte contiana del Movimento 5 Stelle - che mai prima d'oggi lo stesso Garante pentastellato avrebbe accolto. La verità? Indirettamente la vita privata e la pesante accusa di stupro del figlio di Grillo hanno inciso sul destino stesso del Movimento; ne hanno reso più debole il Fondatore, hanno creato una breccia nell'inespugnabilità del sogno rivoluzionario... 

Michela Allegri per "il Messaggero" l'8 luglio 2021. Una giovane romana che decide di trascorrere l'estate in Sardegna, lavorando come animatrice in un villaggio turistico. E, una sera, l'incubo: uno stupro di gruppo avvenuto in Sardegna, dopo una serata trascorsa in una discoteca in Costa Smeralda. Un passaggio in macchina, l'arrivo in spiaggia, poi la violenza. Una storia che ricorda quella che ha per protagonisti Ciro Grillo, figlio del garante del M5s, e tre suoi amici. Con una differenza fondamentale: in questo caso la procura di Tempio Pausania, la stessa che ha chiesto il rinvio a giudizio per il figlio del leader grillino, ha avanzato richiesta di archiviazione. Ora la vittima, che ha raccontato di essere stata abusata insieme a un'amica da quattro giovani, ha presentato, assistita dall' avvocato Giovanna Porcu, un'opposizione alla richiesta di archiviazione. La decisione del gip è prevista in settembre. Secondo il legale, «non è opportuno che fatti così gravi non vengano nemmeno valutati in dibattimento». Il difensore di tre dei quattro imputati, l'avvocato Cesare Gesmundo, sostiene invece che «le ragazze sono state smentite da testimoni oculari, che hanno confermato che i rapporti erano consenzienti». Le violenze sarebbero avvenute nella notte tra l'8 e il 9 luglio di due anni fa su una spiaggia di Baja Sardinia, dopo una serata trascorsa in un locale di Porto Cervo. Le animatrici restano in discoteca fino alle 4 del mattino. Incontrano i ragazzi, accettano un passaggio e vanno insieme a loro in spiaggia. A quel punto, secondo i racconti delle giovani, oggi ventiduenni, sarebbe iniziato un incubo durato più di un'ora. Un rapporto di gruppo «consensuale», a dire degli indagati. Un vero e proprio stupro, secondo il racconto delle presunte vittime, che hanno anche dichiarato di essere state spinte più volte sott' acqua.

LE REAZIONI «Hanno fatto casino sul caso di Grillo, giustamente. Invece per gli stessi fatti, i giovani che hanno distrutto l'esistenza di mia figlia, vanno archiviati», dice ora la madre di una delle ventiduenni. Anche la giovane è arrabbiata: «Prendo ansiolitici, soffro di depressione, non dormo». I fatti sono stati denunciati la mattina successiva, ai carabinieri di Budoni. Per la Procura di Tempio Pausania, però, non ci sono gli estremi per chiedere il processo. Nella richiesta di archiviazione si legge che «non sono emersi elementi obiettivi idonei all' incolpazione dei responsabili e nemmeno sufficienti a dimostrare la consumazione del reato in trattazione». Il legale degli indagati menziona anche un video di diversi minuti che smentirebbe la versione delle giovani, mentre l'avvocato Porcu sottolinea che si tratta invece di un breve filmato «che non può assolutamente ricostruire la vicenda». La ventiduenne romana ha ricordato anche la notte in cui è stata sentita in Procura: «La pm continuava a dirmi: Ma sei sicura? Guarda che se non sei sicura devi dirlo. Io ero allibita». Mentre l'altra presunta vittima ha ripercorso i momenti dello stupro: «Hanno iniziato ad abbassare la zip, sentivo mani ovunque. A quel punto mi sono lanciata in acqua». Qui sarebbero iniziati abusi e violenze. «Continuavano a ridere a pronunciare apprezzamenti volgari nei confronti della ragazza», si legge nelle carte. Nella richiesta di archiviazione sono riportate anche le dichiarazioni di uno dei testimoni, quello che ha realizzato il video. Il teste racconta di avere assistito a due rapporti e ha descritto la situazione come «strana», con una delle giovani che sembrava subire quello che le stava accadendo. Poco dopo le due ragazze avevano raggiunto la spiaggia, nude, solo con gli slip, «piangevano e si abbracciavano», ha aggiunto il testimone.

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 9 luglio 2021. Aggredita, abusata e ora anche privata di un giusto processo, Giulia (nome di fantasia), 22 anni, ha scelto di parlare della propria storia. Era con un'amica quando nel luglio del 2019 quattro ragazzi originari della Campania la violentarono su una spiaggia della Sardegna. Il 14 settembre il giudice deciderà sul suo procedimento, la sua avvocatessa, Giovanna Porcu, ha annunciato che si opporrà all' archiviazione proposta dal pubblico ministero.

Giulia, in seguito alla sua denuncia si è aperta un'indagine della Procura di Tempio Pausania. Ha mai avuto il timore di qualche ritorsione?

«Sì, uno dei primi stati d' animo è stato un senso di persecuzione. Temevo che avrebbero potuto reagire, magari mandando qualcuno per farmi del male o venire nella mia abitazione e vendicarsi in qualche modo. Fra l' altro continuavano a chiamare il mio numero di cellulare con l' anonimo, spaventandomi». 

Eppure lei non ha paura di affrontare un processo per il suo stupro?

«Sì, ho paura e ansia: paura di quello che potrebbero dire gli avvocati dei ragazzi, di come cercherebbero di farmi passare, di farci passare agli occhi di un giudice. Ma, allo stesso tempo, si tratta di avere giustizia per una cosa che ha interferito con la mia condizione psicologica e quella della mia amica Maria (altro nome di fantasia, ndr )». 

Ha rielaborato quello che le è accaduto?

«All'inizio è stato quasi impossibile, ho avuto bisogno dell'aiuto di una psichiatra e di una psicoterapeuta e di una terapia farmacologica, medicine che tuttora continuo a prendere per evitare di compiere gesti estremi come è capitato in passato. La violenza è una cosa che un po' elabori e un po' non elaborerai mai, non puoi dimenticarla, non puoi smettere di sentirla o di riviverla tutti i giorni, è una cosa con la quale devi imparare a convivere e devi cercare di non darle il potere di condizionarti la vita...Ma è difficile farlo quando la parentesi giustizia è ancora aperta, e bisogna lottare per cercare di non far cadere tutto nel dimenticatoio... una volta che si sarà concluso il percorso giudiziario proverò a richiudere in qualche modo questa cicatrice». 

Può dirci se, in seguito a quella notte, è cambiato qualcosa nel suo rapporto con gli altri o con se stessa?

«Ho iniziato a chiudermi in me stessa, ero una persona molto socievole e fiduciosa, motivo per il quale avevo deciso di andare a fare l'animatrice turistica, la mia relazione di quel tempo è andata peggiorando perché ero sempre triste, depressa, impaurita». 

Si è colpevolizzata?

«Sì, mi è capitato spesso di pensare a quanto sia stata ingenua ad andare in spiaggia con 4 ragazzi, forse anziché correre in acqua (dove ha cercato una fuga, ndr ) sarei potuta correre per la spiaggia e tentare la salita, abbiamo pensato molto al fatto che avremmo potuto urlare o dire qualcosa, visto che a quanto pare uno stupro è tale solo se urli e chiedi aiuto... Nessuno ha tenuto conto che eravamo paralizzate dalla paura». 

Quali sono i sentimenti che ha provato quando ha saputo che il magistrato aveva intenzione di archiviare?

«Rabbia e delusione. Rabbia perchè siamo state considerate delle ragazze "semplici" che sono andate in discoteca per "rimorchiare". E rabbia perchè tuttora vengono messe in dubbio la credibilità mia e della mia amica. Delusione perché ho avuto l'impressione che non si vedesse l'ora di chiudere il nostro caso chiedendo l'archiviazione in soli 11 mesi, mentre il caso del figlio di Grillo è stato analizzato per quasi 2 anni ed è stato chiesto il processo. Spero solamente che possano dare anche a noi la possibilità di batterci in aula e lasciar decidere a un giudice quello che è successo quella notte». 

Caro Beppe Grillo: essere garantisti significa esserlo sempre e non a convenienza. Andrea Pasini il 3 maggio 2021 su Il Giornale. E fu così che Beppe Grillo scoprì il garantismo. Proprio lui che si era presentato come il braccio armano del giustizialismo e che ha portato i suoi fino in Parlamento al grido di «onestà, onestà». Forse si trattava solo di un lungo siparietto comico che si è, finalmente, concluso – senza risate – con il video pubblicato su Facebook. Il Grillo “manettaro” si è sperticato nel difendere il figlio, accusato insieme a tre amici dello stupro di una ragazza. La vicenda si può riassumere così: nel luglio 2019, Ciro Grillo e i suoi amici si trovano al Billionaire di Briatore. Nel locale incontrano due ragazze con cui trascorrono alcune ore bevendo e divertendosi, prima di tornare tutti e sei a casa Grillo. Lì, una delle due giovani si addormenta mentre l’altra dice di essere stata costretta a un rapporto con uno dei giovani e essere stata poi violentata fino al mattino dagli altri tre. I ragazzi non negano il rapporto di gruppo, ma sostengono che la giovane fosse consenziente e consapevole. La prova? Dopo la prima dichiarata violenza, sarebbero andati tutti insieme a prendere delle sigarette, e solo in un secondo momento avrebbero deciso di fare sesso in gruppo. Per i ragazzi la serata si è conclusa serenamente. Secondo la loro versione le due amiche avrebbero preso un taxi il mattino seguente in un clima di serenità. Inutile dire che il racconto della ragazza è molto diverso. Nel video pubblicato sulla pagina Facebook di Grillo afferma: «Una ragazza che la mattina viene stuprata, il pomeriggio fa kitesurf e 8 giorni dopo fa la denuncia, è strano». Come se ci fosse una data di scadenza per denunciare. Tempi e modi perché una vittima possa essere creduta. E sul fatto che a due anni dall’accaduto, il figlio non sia ancora stato arrestato, il comico sostiene: «Vi sete resi conto che non è vero niente, non c’è stato niente perché chi viene stuprato fa una denuncia dopo 8 giorni vi è sembrato strano. È strano. E poi c’è tutto un video, passaggio per passaggio, in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così perché sono quattro coglioni». Tutta la faccenda, secondo Grillo, potrebbe riassumersi con una frase «So’ ragazzi». I giovani ragazzi come suo figlio non commettono reati, non stuprano le donne, si divertono e basta. «Sono quattro coglioni, non quattro stupratori» e se lo dice il padre di uno di loro c’è da crederci. Se lo dice il braccio armato del giustizialismo, chi siamo noi per pensare diversamente? C’è una frase, attribuita a Giovanni Giolitti, che ben riassume il pensiero grillino: «Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». Figuriamoci se di mezzo ci sono i figli. L’avvocato Bongiorno, incaricato di difendere la giovane, ha già annunciato che porterà il video di Beppe Grillo in Procura. «È una prova a carico che documenta una mentalità, un metodo di sminuire le cose, spesso usato dagli uomini quando imputati». Sempre l’avvocato, durante una partecipazione al programma di La7, L’Aria che Tira, ha affermato di essere rimasta «stupita dal video di Beppe Grillo, che contiene argomenti di circa 20- 30 anni fa, quando gli avvocati dicevano sistematicamente che “la vittima se l’era cercata”. A me questo ridimensionamento della realtà fa paura». La famiglia della giovane si è giustamente detta «distrutta da questo show ripugnante». Spiegando come il comico abbia adottato «una strategia misera» per ridicolizzare il dolore che stanno provando. In silenzio, senza video imbarazzanti su Facebook. Almeno loro credono ancora nella giustizia. La questione è stata portata persino alla Camera dei Deputati dove la Lega e Forza Italia hanno accusato Grillo di essere «garantista a giorni alterni». Per il leader dei Cinque Stelle, «il sabato Salvini è colpevole, il lunedì suo figlio è innocente». Forte anche la reazione della deputata di Fratelli d’Italia Lucaselli che ha chiesto la convocazione immediata della conferenza dei capigruppo sul tema. Dopo una lunga attesa anche l’azzeccagarbugli Giuseppe Conte si è pronunciato sulla vicenda dando, come suo solito, un colpo al cerchio e uno alla botte. «Ho avuto modo di parlare con Beppe Grillo in più occasioni e conosco bene la sua sensibilità su temi particolarmente delicati Comprendo le preoccupazioni e l’angoscia di un padre, ma non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati». Ed in conclusione ci tengo a sottolineare che essere garantisti significa esserlo sempre e non a convenienza. Questa è una notizia di cronaca con dei risvolti politici di fronte alla quale non ci si può girare dall’altra parte. Voglio ricordare che per due anni questo caso è stato chiuso probabilmente in qualche cassetto della procura della Repubblica. E guarda caso è uscito dal cassetto nel momento in cui il partito di Grillo non controlla ne più Palazzo Chigi né il ministero della Giustizia. Sarà una coincidenza?

(ANSA il 29 aprile 2021) "Ho rinunciato al mandato per divergenze col mio assistito sulla condotta extraprocessuale da tenere, specie in processi come questo". Così l'avvocato Paolo Costa che difendeva fino a ieri Vittorio Lauria, uno degli amici di Ciro Grillo accusato dalla procura di Tempio Pausania di violenza di gruppo nei confronti di una studentessa milanese. Il legale ha dismesso il mandato dopo l'intervista rilasciata dal giovane a Non è l'Arena in cui oltre a criticare il video di Beppe Grillo spiegava che la ragazza aveva bevuto la vodka "per sfida" e non perché costretta e che il rapporto era stato consenziente.

Caso Grillo, uno dei legali rimette il mandato. Ignazio Riccio il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. La decisione è stata assunta dopo due giorni di riflessione da parte del legale, in seguito alle affermazioni del suo assistito nel corso della trasmissione di La7 Non è l'Arena. L'avvocato Paolo Costa, che difende Vittorio Lauria, uno dei quattro ragazzi indagati per la violenza sessuale di gruppo nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda, ha rimesso il mandato. La decisione è stata assunta dopo due giorni di riflessione da parte del legale, in seguito alle affermazioni del suo assistito nel corso della trasmissione di La7 Non è l'Arena, condotta da Massimo Giletti. “Vi sono alcune divergenze con il mio assistito – ha detto all'Agi l'avvocato Costa – sulla condotta extra-processuale da tenere sempre, specie in processi come questi”. Il legale ha fatto un passo indietro dopo l'intervista rilasciata domenica 25 aprile dal giovane, nel corso della quale, oltre a criticare il video di Beppe Grillo, spiegava che la ragazza aveva bevuto la vodka "per provocazione" e non perché costretta e che il rapporto era stato consenziente. “Si vede comunque che la ragazza sta, uno, benissimo e, due, che comunque noi non costringiamo niente”, aveva dichiarato. Sempre in riferimento all’assunzione di alcol aveva aggiunto: “É proprio lei che l’ha presa, da sola e per sfida, come noi comunque abbiamo detto ai Pm, perché è stato proprio così. Per sfida lei l’ha bevuta tutta, "gocciandola", ma non era tanta, era un quarto di vodka, non lo so adesso. Però comunque proprio lei da sola perché noi non riuscivamo a berla e lei per sfida ha detto 'dai che ce la faccio' e se l’è bevuta. E poi è andata a dire che io l’ho presa per la gola”. Intanto, si sono aggiunti nuovi dettagli sulla vicenda del presunto stupro di gruppo. Nel fascicolo in possesso della Procura della Repubblica di Tempio Pausania si fa riferimento ad altri particolari riferiti dagli investigatori, compresi gli “schiaffi sulla schiena e sulle natiche” inferti dai quattro protagonisti della vicenda alla vittima. Quest'ultima, una ragazza italo-svedese, ha deciso di denunciare quanto subito solo una volta rientrata a casa dalla Sardegna, più o meno una settimana dopo i fatti avvenuti all'interno della villa di Porto Cervo di proprietà del garante del Movimento 5 Stelle il 17 luglio del 2019. Con le nuove prove di cui è entrata in possesso, la Procura della Repubblica ha deciso di prendere un ulteriore mese di tempo per rivalutare il quadro indiziario: entro il termine prestabilito dovrà essere depositato in cancelleria un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari, con un secondo avviso di garanzia.

Non è l'Arena e caso Ciro Grillo, l'avvocato di Vittorio Lauria lascia la difesa dopo l'intervista da Giletti. Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. L'avvocato di Vittorio Lauria, uno dei tre ragazzi indagati insieme con Ciro Grillo di stupro di gruppo, ha lasciato l'incarico: "Ho rinunciato al mandato per divergenze con il mio assistito sulla condotta extraprocessuale da tenere, specie in processi come questo", ha spiegato Paolo Costa che difendeva fino a ieri Lauria, accusato dalla procura di Tempio Pausania di violenza di gruppo nei confronti di una studentessa milanese. Il legale ha dismesso il mandato dopo l'intervista rilasciata domenica 25 aprile dal giovane a Non è l'Arena, il programma condotto da Massimo Giletti su La7 in cui oltre a criticare il video di Beppe Grillo spiegava che la ragazza aveva bevuto la vodka "per sfida" e non perché costretta e che il rapporto era stato consenziente.  "Si vede comunque che la ragazza sta, uno, benissimo e, due, che comunque noi non costringiamo niente", aveva dichiarato. E ancora, sull'assunzione di alcol: "E' proprio lei che l’ha presa, da sola e per sfida, come noi comunque abbiamo detto ai pm, perché è stato proprio così. Per sfida lei l’ha bevuta tutta, 'gocciandola', ma non era tanta, era un quarto di vodka, non lo so adesso. Però comunque proprio lei da sola perché noi non riuscivamo a berla e lei per sfida ha detto 'dai che ce la faccio' e se l’è bevuta. E poi è andata a dire che io l’ho presa per la gola, ho fatto…". Intanto ci sarebbero nuove prove a carico di Ciro Grillo e dei suoi tre amici, Lauria, appunto, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia. Dei nuovi elementi che sarebbero emersi durante gli interrogatori, tanto che la procura di Tempio Pausania avrebbe riformulato nuove contestazioni a Ciro e agli altri ventenni della Genova bene. In particolare, Corsiglia (figlio di un noto cardiologo) avrebbe confermato che intorno alle 6 del mattino del 17 luglio 2019 avrebbe avuto "un rapporto sessuale consenziente" con la ragazza italo-svedese, "dopo aver fatto sesso, sono andato a dormire". Poi c'è la violenza sessuale ai danni dell'altra ragazza. Ciro, Capitta e Lauria si sono immortalati mentre la oltraggiavano quando dormiva.  

Giuseppe China per “la Verità” il 30 aprile 2021. Si rompe il fronte difensivo degli avvocati coinvolti nel caso di Ciro Grillo: il legale Paolo Costa, che fino a ieri difendeva il giovane Vittorio Lauria, ha rimesso l'incarico. A incrinare il rapporto tra i due le dichiarazioni rilasciate dal ragazzo al programma tv Non è l'Arena. È la scorsa domenica quando la trasmissione di Massimo Giletti divulga gli audio di Lauria sulla vicenda del presunto stupro e sul video di Beppe Grillo. È la prima volta che uno dei quattro ragazzi indagati (oltre a Lauria e Ciro Grillo, sono coinvolti Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia) parla pubblicamente: «Secondo me (il video, ndr) non andava fatto. Non se ne parlava più e ora è riuscito tutto perché ha fatto (Grillo, ndr) sta roba qua. Perché se fossimo stati io e gli altri miei due amici non conosciuti non sarebbe successo niente», dice Lauria nel dialogo mandato in onda. La voce dell'interlocutore del ragazzo, però, non è riconoscibile. L' indagato ha, però, riferito nei giorni scorsi a legale e famigliari che a telefonargli era stato Fabrizio Corona. O meglio, il ragazzo lo avrebbe ricontattato dopo aver trovato sul cellulare un suo messaggio. Vittorio è infatti un grande fan di Corona e avrebbe addirittura la sua mascherina griffata. Il manager quarantasettenne è appena ritornato agli arresti domiciliari, dopo un turbolento rientro in cella, ma non ha perso la sua voglia di lavorare, attività che gli è consentita. La chiacchierata, riferisce ha ascoltato l'audio, è stata molto rilassata e Corona, dopo aver interrotto l'allenamento quotidiano, ha esibito notevoli doti di intervistatore. Nel dialogo fra i due il primo tema affrontato è il video pubblicato dal fondatore del M5s, Beppe Grillo: per Corona si tratta di un «danno clamoroso» a scapito degli indagati. «Clamoroso. [] È da due anni che siamo indagati» e «dicono tutt' altro di quel che è successo. [] Ogni cosa che viene detta a nostro nome, comunque cade su quello. [] Quindi veniamo visti anche da un altro punto di vista, sbagliato. [] Secondo me (il video, ndr) non andava fatto. Più che altro dopo così tanto tempo (dallo scoppio dell'inchiesta, ndr) [] non se ne parlava più. E ora è riuscito tutto», prosegue Lauria, «perché ha fatto questa roba qua. Perché se fossimo stati io e gli altri miei due amici non conosciuti non sarebbe successo niente». A questo punto Lauria prova a dare la sua spiegazione sul perché «Beppe» abbia fatto il video: «Secondo me, nel video, lui voleva specificare come siamo fatti noi, che siamo più dei coglioni, perché comunque le cose bisognava dirle [] ha detto quello che è successo». Eppure: «La cosa che ha detto Beppe del video, la cosa degli otto giorni secondo me non ci stava dirlo []. Dire una roba del genere comunque, davanti poi chissà quanta gente ha visto ormai quel video lì contro una donna, non è giusto perché non c' entra tanto quanto ha aspettato, ma la cosa è che l'ha fatto proprio senza senso». Secondo l'accusa la ragazza è stata «costretta». Per Lauria, invece, sarebbe stata «proprio lei che l'ha presa da sola e per sfida [] l'ha bevuta tutta, "gocciandola", ma non era tanta, era un quarto di vodka [] lei per sfida ha detto "dai che ce la faccio" e se l'è bevuta. E poi è andata a dire che io l'ho presa per la gola, ho fatto», ribatte Lauria. È chiaro che Corona sa fare le interviste come pochi altri giornalisti, che in questi giorni sono rimasti al palo senza riuscire a far spiccicare nemmeno una parola ai ragazzi indagati. Ci sarebbe sempre lui anche dietro ad alcuni scoop collegati a un'altra vicenda scabrosa, quella di Alberto Genovese, l'imprenditore accusato di aver violentato e sequestrato una diciottenne nel corso di una festa a base di droga nel suo superattico «Terrazza sentimento». Ma torniamo all' audio che avrebbe indotto l’avvocato Costa a rimettere l'incarico «per divergenze col mio assistito sulla condotta extraprocessuale da tenere, specie in processi come questo». Corona chiede a Lauria delucidazioni sull' iter dell'inchiesta della Procura della Repubblica di Tempio Pausania. Il ragazzo confida che gli indagati sono stati interrogati «due volte». «La prima volta un mese dopo (il presunto stupro, ndr), la seconda tre settimane fa perché noi volevamo dare delle precisazioni». Per esempio quella inerente un tabacchino: «Lei aveva detto che non c'era, invece, poi abbiamo trovato una foto e lei era in macchina con noi che siamo andati a prendere le sigarette in un posto vicino a un locale []. Mi ricordo che lei aveva detto di non essere venuta e invece c'era una foto che è là con noi». Capitolo relazioni attuali con Ciro Grillo. «Siamo amici da sempre, ci vediamo non tutti i giorni, ma ci vediamo». Corona avrebbe fornito a Lauria anche una serie di consigli, come ad esempio quello di rilasciare un'intervista a un giornale importante o partecipare a una trasmissione tv. Il ragazzo avrebbe scartato con decisone queste ipotesi. Ma la sua chiacchierata con Corona avrebbe comunque incrinato definitivamente i suoi rapporti con l'avvocato Costa. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 aprile 2021. Caro Dago, ti confesso che non c’è nulla che riguardi Grillo padre che mi interessi. Sono forse l’unico italiano che non ha visto la sua sfuriata televisiva da quattro soldi in difesa di suo figlio. Non ho figli, e dunque non ho voce in capitolo per rispondere alla domanda di Marco Travaglio - feroce e dai denti aguzzi contro il mondo tutto, gentile e comprensivo con il pubblico dei lettori del suo bel giornale che io compro ogni mattina -, e cioè “che cosa avreste fatto se vi foste trovati nelle condizioni di Grillo “padre”?”. Non ho alcuna credenziale per rispondere. Così come nessuno di noi ha diritto di giudicare quella serata in cui si fronteggiarono quattro ragazzi e una ragazza molto giovane e inesperta delle durezze della vita, lo giudicheranno i magistrati e anche se la loro è una delle categorie professionali più svilita del nostro tempo. Una cosa è certa che quei quattro ragazzi erano quattro poveri coglioni, come ha ammesso uno di loro. Quattro poveracci da quattro soldi che avevano bisogno di far bere una ragazza pur di avere un contatto reale con lei. Poveri coglioni. Uno di loro fosse stato mio figlio? Premesso che so bene perché non ho ne ho voluti di figli, penso che lo avrei preso a calci in culo fino a farlo spasimare. Un tale coglione, e per giunta figlio mio. Dio santo, non ci posso pensare.

Da la7.it il 28 aprile 2021. Piercamillo Davigo sul video di Beppe Grillo: "Assolutamente inopportuno e un errore dal punto di vista politico".

Da Libero Quotidiano il 28 aprile 2021. Un Piercamillo Davigo scatenato a DiMartedì, su La7. Incalzato da Giovanni Floris, l'ex magistrato di Mani Pulite prima definisce "inopportuno" e "un errore politico" il video di Beppe Grillo con cui il comico ha difeso pubblicamente il figlio Ciro, indagato a Tempio Pausania per (presunta) violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza 19enne, nel luglio 2019. "C'è stata pure una deputata, Maria Elena Boschi, che ha detto: 'Lo vorrei vedere adesso Davigo, il teorizzatore del 'colpevole a prescindere', è stato lui a ispirare la linea sulla giustizia del M5s. Ora che Grillo si comporta come il più feroce dei garantisti, Davigo cosa direbbe?'. Bene Davigo, cosa risponde?". E l'ex pm parte in quarta: "La Boschi farebbe bene ad informarsi prima di parlare a vanvera. Non ho mai detto quello che mi attribuisce". "Ho detto due cose diverse. Una in un contesto preciso, quello degli appalti della metropolitana 3 di Milano dove non potevano esserci innocenti e infatti sono stati condannati tutti". "Non mi parli del dito, parliamo della luna - lo interrompe ironico Floris -. Parliamo della filosofia che c'è dietro". "Rispondendo all'onorevole Costa che parlava di indennizzi per ingiusta carcerazione, parlavo di innocenti e di colpevoli che l'hanno fatta franca per varie ragioni. Tanto per cominciare, la Boschi non sa di cosa parla e dovrebbe stare attenta, soprattutto perché ricopre incarichi istituzionali". "Abbiamo invitato la Boschi - mette le mani avanti il conduttore - che ha preferito non confrontarsi con Davigo. Immagino che la minaccia sia un 'stia attento simbolico'". "No io non minaccio nessuno - precisa Davigo -, però ha anche detto che io sarei 'più vicino' (a Grillo, ndr). Le rispondo: più vicino sarà lei. Ma ai politici non viene mai in mente che un magistrato possa essere neutrale? Perché devono misurare tutti con il loro metro?".

"Dovrebbe stare attenta...". Quell'avvertimento di Davigo alla Boschi. L'ex magistrato Davigo ospite di Giovanni Floris ha risposto a Maria Elena Boschi, che l'ha citato in un'intervista sul caso di Beppe Grillo. Piercamillo Davigo è stato ospite di Giovanni Floris a Dimartedì, il programma di approfondimento politico di La7. L'ex magistrato di Mani pulite ha affrontato il caso di Ciro Grillo o, meglio, quello del video realizzato da Beppe Grillo in difesa di suo figlio. Davigo non ha utilizzato mezzi termini definire "inopportuno" quell'intervento, da lui considerato anche come "un errore politico" del leader del Movimento 5 Stelle. Ma l'attenzione dell'ex magistrato si è poi spostata su Maria Elena Boschi, che in questa vicenda non c'entra nulla, ma che in un'intervista rilasciata a Il Riformista ha menzionato Davigo in un commento sulla nuova linea garantista di Beppe Grillo.

La provocazione della Boschi a Davigo: "Sarebbe interessante oggi però chiedere a Davigo, da sempre vicino alle posizioni del M5S, cosa pensi della vicenda visto che più volte ha teorizzato che 'non ci sono innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti'", diceva qualche giorno fa Maria Elena Boschi parlando del video di Beppe Grillo e delle posizioni garantiste espresse in difesa del figlio in una lunga intervista. E a Piercamillo Davigo, Giovanni Floris ha dato la possibilità di replicare all'esponente di Italia viva. "La Boschi farebbe bene ad informarsi prima di parlare a vanvera. Non ho mai detto quello che mi attribuisce", ha tuonato l'ex magistrato, sentendosi colpito nel vivo della sua professionalità.

La risposta dell'ex magistrato. A quel punto Davigo ha spiegato di aver detto "due cose diverse", facendo cenno alla questione degli appalti della metropolitana 3 di Milano ma Giovanni Floris, capendo che il discorso stava divagando, lo ha invitato a non concentrarsi su fatti precisi ma a esporre il concetto dietro le affermazioni. "Rispondendo all'onorevole Costa che parlava di indennizzi per ingiusta carcerazione, parlavo di innocenti e di colpevoli che l'hanno fatta franca per varie ragioni", ha affermato a quel punto l'ex magistrato.

"Dovrebbe stare attenta". Davigo, poi, ha continuato: "Tanto per cominciare, la Boschi non sa di cosa parla e dovrebbe stare attenta, perché è pericoloso non sapere di cosa si parla, soprattutto se si ricoprono posti di responsabilità". Parole che a Giovanni Florus sono suonate quasi come una "minaccia", subito chiarite Piercamillo Davigo: "Io non minaccio nessuno, però ha anche detto che io sarei “più vicino” . Le rispondo: più vicino sarà lei. Ma ai politici non viene mai in mente che un magistrato possa essere neutrale? Perché devono misurare tutti con il loro metro?".

Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2021. Si infittisce di dettagli e supposizioni la vicenda di Ciro Grillo, figlio di Beppe accusato di stupro di gruppo. Ospite a Non è l'Arena nella puntata di domenica 25 aprile Vittorio Sgarbi ha dato una sua interpretazioni dei fatti, anche politici: "Sono in rapporti molto stretti con i grillini della prima ora a cui Beppe Grillo ha confessato che il suo unico problema era tutelare il figlio". Davanti alle telecamere di La7, di Massimo Giletti, il deputato in corsa per il Campidoglio ha spiegato la necessità del garante M5s di "non agevolare il figlio ma tutelarlo in tutti i modi". Da qui la conclusione: "Quindi il governo Conte 2 nasce per questo". E ancora: "Chi è il nemico del Movimento? Il Pd. E il nemico principale di Grillo? Renzi". Queste le motivazioni per cui Grillo - a detta di Sgarbi - avrebbe "costretto forze politiche diverse" a fare un governo in accordo con Matteo Renzi. Dissociandosi da Peter Gomez, Sgarbi ha continuato: "Con il video in difesa del figlio, Grillo non è più un personaggio pubblico. L'essere potente non serve a nulla. Il magistrato si accanisce di più con i potenti. Il Paese è tutto contro di lui, perfino i suoi. Questa è la fine di una carriera politica e di una dignità umana riconosciuta". A peggiore la situazione il clamoroso dietro front del fondatore pentastellato che "ha chiesto processi per tutti e oggi è garantista per ragioni umane. Vive da due anni con il tormento di un padre che ha sbagliato qualcosa. Si è ritirato dalla politica e si è dedicato a tutelare il figlio". Prima di lui a prendere parola era stato Peter Gomez. Il direttore del Fattoquotidiano.it aveva ammesso: "Fossi stato in Giulia Bongiorno avrei passato la difesa della ragazza ad un altro avvocato, perché avrei tolto l'idea che dietro questo ci fosse una speculazione politica". Riferimento all'accusa mossa dalla grillina Anna Macina contro Matteo Salvini e il legale nonché senatrice della Lega. L'accusa però ha controbattere con una ricostruzione di quella notte ora agli atti. Nei documenti si legge che "i quattro costringevano e comunque inducevano X, abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all'alcol, a subire e compiere atti sessuali…". E ancora, "entravano e uscivano dalla stanza ridendo tra loro e ostruendo il passaggio a Y, quando, divincolatasi, la ragazza tentava di allontanarsi, consentendo in tal modo a Corsiglia di raggiungerla nuovamente, di afferrarla e spingerla nel box doccia del bagno, dove la costringeva a subire un ulteriore rapporto". Ma c'è anche dell'altro, si legge che "la forzavano a bere della vodka, afferrandola per i capelli e tirandole indietro la testa e la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali". Accuse che Grillo padre ha rimandato al mittente descrivendo gli indagati come "cog***" e che se fosse stato davvero stupro, il figlio sarebbe già stato arrestato.

Giusi Fasano per corriere.it il 28 aprile 2021. «Falsità sul conto di nostra figlia», con «frammenti (frammenti!) di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto insieme alle clave». Escono allo scoperto i genitori di Silvia, la ragazza che accusa di stupro il figlio di Beppe Grillo e i suoi tre amici. Lo fanno con un comunicato affidato al loro legale, Giulia Bongiorno, dopo giorni e giorni di silenzio e dopo aver letto e sentito di tutto e di più sul conto della ragazza.

«Non è facile rimanere in silenzio». Dichiarazioni degli indagati, ricostruzioni della notte sott’accusa, dettagli sessuali, ipotesi di tipo giudiziario. «Non è facile rimanere in silenzio», dicono, davanti alle falsità «che si continuano a scrivere e a dire sul conto di nostra figlia aggiungendo dolore al dolore: il nostro e il suo». Il padre norvegese e la madre italiana di Silvia aggiungono che «d’altro canto, sarebbe fin troppo facile smentirle sulla base di numerosi atti processuali che sconfessano certe arbitrarie ricostruzioni e che, per ovvie ragioni, non possono essere resi pubblici». Poi il riferimento a quei «frammenti di video», la fiducia nella giustizia e la promessa di conseguenze per chi «tira al bersaglio». «Confidiamo – scrivono - nel fatto che tutto questo fango sarà spazzato via facendo emergere la verità. In ogni caso, la fiducia nella giustizia e il rispetto per le istituzioni — che ci hanno guidato finora e che continueranno a guidarci in futuro— non significano che siamo spettatori passivi: abbiamo conferito mandato al nostro legale di agire in sede giudiziaria contro tutti coloro che a qualsiasi titolo partecipano e parteciperanno a questo deplorevole tiro al bersaglio».

"Vediamo gli effetti dell'alcol...". I legali di Grillo contro la ragazza. Luca Sablone il Verrà effettuata un'indagine antropometrica forense e verranno visionate le foto per "stabilire altezza, peso, massa grassa e massa magra della ragazza". Quel video pubblicato su Facebook da Beppe Grillo per sfogarsi ha inevitabilmente portato a valutare un cambio di passo nella gestione mediatica della vicenda. Gli avvocati difensori dei quattro ragazzi hanno smentito l'ipotesi di rendere noto il video di quella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, ma comunque qualcosa starebbe cambiando. Adesso ognuno sembra andare per la propria strada: prima uno degli amici di Ciro ha scaricato il comico genovese e ha criticato lo sfogo choc sui social, poi uno degli amici del figlio si è sfilato dall'accusa di stupro dicendo di non sapere cosa sia successo mentre lui dormiva. Nel frattempo è arrivata un'importante novità da Marco Salvi, medico legale genovese.

Ora Grillo fa indagare sulla ragazza che accusa il figlio. L'uomo sarebbe stato incaricato dalle difese dei componenti del gruppetto per redigere una consulenza che faccia luce su quali fossero le reali condizioni psicofisiche della studentessa italo-svedese quella notte. Come riportato da La Stampa, Salvi dovrebbe effettuare un'indagine antropometrica forense: verrà analizzato il filmato della sera in cui la vittima sostiene di essere stata stuprata e verranno inoltre visionate altre fotografie che la ritraggono. L'obiettivo è quello di "stabilire la possibile reazione all'alcol" da parte della ragazza, dopo aver preso in esame "altezza, peso, massa grassa e massa magra".

I dubbi sulla vodka. La ragazza è stata costretta a bere vodka mentre era tenuta per i capelli? Un amico di Ciro Grillo, contattato da Non è l'arena su La7, ha riferito invece che sarebbe stata proprio lei - di sua spontanea volontà - a cercare di sfidare la comitiva: "Nel video si vede che la ragazza comunque sta benissimo e che noi non costringiamo niente. Per sfida lei ha bevuto la vodka, perché noi non riuscivamo a berla". Quello di Salvi sarà un compito piuttosto complicato, che dovrà basarsi sulle carte, sugli atti dell'indagine e sulle eventuali certificazioni sanitarie che avrà a disposizione. Salvi, che in passato si è occupato del serial killer Donato Bilancia e dell'omicidio di Carlo Giuliani durante il G8, avrebbe già visionato insieme ai legali il video di quella notte: "Nel filmato si vede anche la bottiglia di vodka che la ragazza beve, stabiliremo la marca per indicare la precisa gradazione alcolica e gli effetti che può provocare su una giovane con le caratteristiche della vittima". Sulla base dei racconti dei protagonisti si cercherà di scoprire cosa era stato bevuto prima.

"Grillo pronto al rito abbreviato": la strategia per lo sconto di pena. Francesca GaliciSecondo l'agenzia di stampa Ansa, Ciro Grillo e gli altri sarebbero pronti a chiedere il rito abbreviato in caso di rinvio a giudizio per l'accusa di stupro. Si aprono nuovi scenari nel caso Grillo. L'Ansa riferisce che il figlio di Beppe Grillo e i suoi tre amici potrebbero chiedere il rito abbreviato nel caso in cui venissero rinviati a giudizio per l'accusa di stupro mossa dalla procura di Tempio-Pausania. L'agenzia di stampa ha ricevuto quest'informazione da fonti qualificate, sottolineando che in questo modo è possibile ottenere uno sconto di pena fino a un terzo ma non solo. Percorrere questa strada significa celebrare il processo basandosi esclusivamente su quanto raccolto dal pubblico ministero. È una strada che si percorre soprattutto per sfruttare eventuali lacune negli atti di indagine ed evitare in questo modo il dibattimento, che potrebbe portare molte insidie per i soggetti sotto accusa.

L'ipotesi rito abbreviato. Questa fattispecie risulta essere fondamentale per la difesa di Ciro Grillo e dei suoi amici, perché vorrebbe dire andare a processo cristallizzando le prove sull'ormai noto video di 20 secondi presente sul telefono di uno dei ragazzi, che lo stesso Beppe Grillo ha citato nel suo video in difesa del figlio. Per la difesa quella sarebbe la vera prova che in quella villetta della Costa Smeralda non ci fu nessuno stupro ma fu tutto consensuale. Diversa è la tesi portata avanti dalla procura di Tempio Pausania, secondo la quale la presunta vittima sarebbe stata costretta a bere e, quindi, abusata dai ragazzi. Non si conoscono ancora i tempi della decisione della procura sarda ma pare che a breve potrebbe arrivare la decisione del rinvio a giudizio, anche se non è ancora chiaro se sarà un provvedimento che riguarderà tutti i quattro ragazzi sotto accusa o solo alcuni di loro. Uno di loro nelle scorse ore si è già smarcato dai suoi amici, sostenendo di non aver partecipato all'eventuale stupro. "Ho avuto un rapporto consenziente, eravamo solo io e lei, poi mi sono addormentato. Di ciò che è successo dopo io non so niente", ha detto prendendo le distanze da Ciro Grillo e dagli altri.

Il ruolo del consulente della difesa. Intanto gli avvocati difensori si stanno muovendo in vista di un eventuale processo. Il consulente Marco Salvi è stato incaricato di studiare le dichiarazioni della ragazza italo-svedese che per prima ha denunciato lo stupro: "Il mio sarà un lavoro sulle carte, non devo certo periziare la ragazza. Con a disposizione gli atti dell'indagine, la documentazione, le testimonianze ed eventuali certificazioni sanitarie, il mio compito sarà cercare di capire, dal punto di vista medico legale, le sue condizioni psicofisiche al momento del fatto". Queste le parole di Marco Salvi all'Adnkronos, che ci ha tenuto a sottolineare che "bisognerà stabilire quanto ha bevuto e in che modo ha influito sulle sue capacità, occorrerà analizzare se fosse incapace e si possa parlare di minorata difesa".

Le parole di Rocco Casalino. Intanto, raggiunto da Le Iene, Rocco Casalino ha commentato per la prima volta il video di Beppe Grillo, ormai al centro delle cronache da diversi giorni. "Quello che ho visto io è la reazione soprattutto di un padre, perché sono convinto che lui oggi non userebbe le stesse parole, nel senso che è stato istintivo, era molto di pancia secondo me quel video", ha detto l'ex portavoce di Giuseppe Conte, ricalcando di fatto quanto detto dallo stesso ex premier. Tuttavia, Casalino ha precisato che "ovviamente non condivido le cose dette, io non avrei detto quelle cose". Nonostante propenda per la stigmatizzazione dei contenuti, Rocco Casalino cerca di giustificare in qualche modo quel video: "Credo effettivamente che ci sia una visione maschilista in casi come questo, per cui spesso si cerca di dare la colpa alle donne, e questa è una cosa che va superata. Quello era un video in un momento particolare, lo prenderei come un momento di difficoltà". E proprio in merito a quanto detto da Beppe Grillo, l'ex portavoce ha voluto mettere i paletti anche il M5S: "Il Movimento ha preso una posizione chiara. Differenziandosi dalle esternazioni di Grillo, specialmente sul tema delle donne, anche sul tema della giustizia, sull'indipendenza della magistratura".

Beppe Grillo, il video sull'accusa al figlio di stupro e il commento di Casalino. Le Iene News il 27 aprile 2021. Pochi giorni fa Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 Stelle, ha pubblicato un video per difendere il figlio accusato di stupro. Le sue parole hanno suscitato grandi polemiche, e fonti M5S avanzano il sospetto che il fondatore abbia potuto subire delle pressioni e dei condizionamenti legati alla situazione. Roberta Rei e Marco Occhipinti sono andati a parlarne con Rocco Casalino, ex portavoce del Movimento: ecco che cosa ci ha detto. Qualche giorno fa Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 Stelle, ha pubblicato un video per difendere il figlio. Per chi non lo sapesse Ciro Grillo è attualmente indagato insieme a 3 amici per stupro nei confronti di una ragazza di 19 anni: sarebbe avvenuto quasi due anni fa nella casa del comico genovese in Costa Smeralda. Di questo caso ci parlano Roberta Rei e Marco Occhipinti. “Mi hanno stuprata tutti”, ha denunciato una ragazza italo-svedese di 19 anni che era in vacanza in Sardegna con un amico. Il figlio di Grillo e i suoi amici però si dichiarano innocenti e pochi giorni fa è intervenuto il fondatore del Movimento 5 Stelle: “Perché vi siete resi conto che non è vero niente che c’è stato lo stupro, non c’è stato niente. Perché una persona che viene stuprata la mattina al pomeriggio va in kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia, vi è sembrato strano. Beh, vi è sembrato strano, è strano”, ha detto Grillo nel suo video. “C’è tutto il video passaggio per passaggio e si vede che c’è la consenzietità si vede che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande, che sono in mutande e saltellano con il pisello così perché sono quattro co**ioni non quattro stupratori. E io sono stufo che sono due anni, e se dovete arrestare mio figlio perché non ha fatto niente allora arrestate anche me perché ci vado io in galera”, ha aggiunto Grillo. Le parole forti e inaspettato di Beppe Grillo hanno suscitato fortissime polemiche nel mondo politico e nella società civile. In pochi hanno difeso l’entrata a gamba tesa del fondatore del M5S. Tra questi la sottosegretaria alla Giustizia pentastellata e l’ex ministro Danilo Toninelli. “Vada a parlare con la Bongiorno che è senatrice della Lega che difende che difende i genitori, secondo lei non c’è quantomeno un senso di schifosa inopportunità in tutto questo?”, ha detto l’ex titolare del dicastero alle Infrastrutture e trasporti. Insomma, si attacca l’appartenenza politica dell’avvocato della ragazza che denuncia di esser stata stuprata. Proprio la senatrice leghista ha commentato così le parole di Beppe Grillo: “Venti, trenta anni fa quando difendevo le vittime, gli avvocati cercavano sempre sistematicamente di dire ‘qualsiasi cosa succede la vittima in realtà è imputata perché un po’ se l’è cercata un po’ se l’è voluta’, e a me questo fa paura, non si ribaltano i ruoli, noi non ci stiamo”. La strategia degli avvocati degli imputati nei processi per violenza sessuale ricordata dall’avvocato Bongiorno viene ben raccontata da Gian Antonio Stella, che sul Corriere della Sera ricorda il film “Un processo per stupro”. Lo storico documentario di 40 anni fa mostra come sono sempre messe sotto accusa le donne che hanno subito violenza. Il film è stato trasmesso solo due volte per motivi legali, prima di sparire per sempre da ogni palinsesto tv. Nel 1978 una ragazza di 18 anni trova il coraggio di denunciare i suoi aggressori ed ecco le parole della madre di uno dei quattro imputati per quella violenza: “Quello è mio figlio, se no sa quanto me ne fregava a me. E non ha fatto niente di male, non l’ha ammazzata sta ragazza. C’è andato a divertirsi, certo che piaceva pure a lei andare a divertirsi, se no non c’andava con mio figlio. Mio figlio, che aveva moglie e un figlio e lei lo sapeva…”. Questo era il clima nel 1978. Nel suo video Beppe Grillo dice: Si vede che c’è la consenzientità si vede che c’è il gruppo che ride che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande, con il pisello così perché sono quattro coglioni non quattro stupratori”.

Nel 1978, ecco come si difendevano gli imputati di stupro: “Non c’è niente, c’ha solo rovinato e basta, ci sta rovinando non capisco manco il motivo insomma”, dice uno. “È una ragazza seria lei che esce alle 4 di notte con due uomini, entra in macchina, è lei la ragazza seria?”, aggiunge un altro. Si cerca insomma di spostare l’attenzione sui comportamenti della vittima. Beppe Grillo nel suo video dice: Non è vero niente che c’è stato lo stupro, non c’è stato niente. Perché una persona che viene stuprata la mattina al pomeriggio va in kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia, vi è sembrato strano”. Fa un certo effetto ascoltare le parole dell’avvocato di uno degli imputati in quel processo del 1978: “Tutte le donne sono puttane, tranne mia moglie mia sorella e mia mamma. Signori una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto, passa immediatamente la voglia a chiunque di continuare, e l’atto è incompatibile con l’ipotesi della violenza” sostiene questo legale. “Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro, il possesso è stato esercitato dalla femmina sui maschi, è lei la parte attiva sono loro passivi, inermi, abbandonati nelle fauci avide di costei. Ma la signorina si fa praticare il cunnilingus! Quindi che cosa è il cunnilingus? Tende al piacere della femmina. E chi la pratica? Il violentatore?”. E purtroppo il peggio deve ancora arrivare: “Avete voluto la parità di diritti? Avete cominciato a scimmiottare l’uomo, voi portavate la veste perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire perché io alle 9 di sera debbo stare a casa e allora purtroppo ognuna raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, non si sarebbe verificato niente. Restano indimenticabili, per fortuna in positivo, le parole di risposta di Tina Lagostena Bassi, la celebre avvocatessa della ragazza: “Io mi chiedo perché, se l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza. La vera imputata è la donna, se si fa così è solidarietà maschilista perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Secondo me è umiliare una donna venire qui a dire non è né una puttana né niente: una donna ha diritto di essere quello che vuole e senza bisogno di difensori”.

Parole che avrebbero dovuto insegnare molto, ma torniamo al caso a noi contemporaneo. Ovviamente solo la giustizia potrà stabilire se si tratta davvero di uno stupro oppure no. Resta una domanda: perché all’improvviso Grillo se n’è uscito con un video che ha suscitato così tante critiche? Una fonte autorevole all’interno del M5S ci ha confidato il sospetto che il fondatore abbia potuto subire delle pressioni e dei condizionamenti legati alla situazione del figlio. C’è chi pone l’attenzione sui tempi così lunghi delle indagini - circa un anno e nove mesi - e su cosa sarebbe successo nel frattempo nel mondo della politica italiana. È il caso del famoso giornalista Paolo Mieli, che ospite a Cartabianca su Rai3 dice: “La cosa strana ripeto, è che la cosa arriva un anno e mezzo dopo, durante i quali lui prima è stato decisivo per fare il governo Conte Bis, quell’estate stessa, e poi il Governo Draghi”. E Mieli aggiunge: “Dico che qualcuno l’ha indotto a credere che comportandosi bene la cosa non sarebbe mai arrivata davanti a un giudice”. Beppe Grillo nell’ultimo anno e nove mesi si è davvero sentito condizionato da questa tragedia familiare come ipotizzato da qualcuno? Roberta Rei è andato a chiedere queste cose direttamente a Rocco Casalino, l’ex portavoce storico del Movimento 5 Stelle. La Iena ribatte che fonti del Movimento ci hanno detto che in realtà ci sarebbero state delle pressioni/rassicurazioni, a te risulta? Perché questo video è uscito adesso? “No, no. Credo davvero che le ragioni siano da comprendere nell’istinto naturale di un padre nel voler proteggere il proprio figlio. Non credo in nessun’altra dietrologia”. Un anno e nove mesi sono tanti, quindi avrebbero lasciato intendere probabilmente una rassicurazione per cui poi c’è stato questo exploit di rabbia: “Io onestamente non ho elementi per poter sostenere questa tesi. Perché non l’ha fatto prima allora? “Forse vedere quel video gli ha provocato una reazione d’istinto, e il risultato è stato quello. Sottolineo il fatto che, ovviamente, non condivido le cose dette. Io non avrei detto quelle cose”. Cos’è che ha sbagliato, secondo te? “Voi volete farmi entrare dentro, eh?”. Però è giusto che si commenti questa cosa, perché dire ‘il ruggito ferito di un padre’… però non è giustificabile questo ruggito: “Ragazzi, io non vorrei fare l’intervista. Mi fate mangiare un panino?”. In cosa ha sbagliato Grillo? Anche nei confronti di questa presunta vittima si crea un dibattito spiacevole… “Behil Movimento ha preso una posizione chiara, differenziandosi dalle esternazioni di Grillo, specialmente sul tema delle donne, anche sul tema della giustizia, sull’indipendenza della magistratura”, ribatte Casalino. Ma non c’è stato un accenno alla ragazza, umanamente: Io non avrei fatto così. Ragazzi dovete anche capire che succede a qualsiasi essere umano di essere coinvolto sentimentalmente da una vicenda e in quel momento si può perdere diciamo in razionalità. Se lo vedi quel video si vede che non è razionale”. Visto che non ci hai parlato con Beppe, cosa gli vuoi dire? “Eh forza, perché immagino sia un momento difficile quindi gli faccio un grandissimo in bocca al lupo e… e basta!” lo facciamo anche alla ragazza? “Assolutamente!”. In questa storia orribile, al di là di quello che ne sarà... “Assolutamente, il vero dramma è questo no? Tutte le parti, stanno soffrendo tutti in questa situazione…”.  Le donne che denunciano poi durante il processo diventano imputate, cioè questa colpevolizzazione delle vittime, cosa ne pensi? “Allora, credo effettivamente che ci sia una visione maschilista in casi come questo per cui spesso si cerca di dare la colpa alle donne, e questa è una cosa che va superata. Quello era un video in un momento particolare, lo prenderei come un momento di difficoltà”. Il danno è fatto però…  “Eh lo so, succede, però succede quando ti fai travolgere dalle emozioni”. Un discorso del genere porta al classico meccanismo di colpevolizzazione della vittima soprattutto donna … “Ma questo è un errore, lui avrà modo di chiarirsi secondo me”.

Anticipazione da “Le Iene” " il 27 aprile 2021. “La Bongiorno? Io il dubbio me lo porrei, se sei avvocato di un partito mi sembra un intreccio che forse andrebbe evitato”. Rocco Casalino, che non si era ancora espresso in nessun modo sullo sfogo pubblico del comico genovese, commenta il caso Grillo nel servizio de “Le Iene” di Roberta Rei e Marco Occhipinti in onda stasera, 27 aprile, in prima serata, su Italia1. Roberta Rei ha cercato l’ex storico capo della comunicazione dei pentastellati, per chiedergli cosa ne pensasse del video shock pubblicato da Beppe Grillo qualche giorno fa sul caso di cronaca che vede coinvolto suo figlio Ciro e tre suoi amici, denunciati da una ragazza italo svedese di 19 anni, per violenza sessuale. Grillo, dopo aver commentato il comportamento della presunta vittima della violenza, ha parlato anche di suo figlio, dei suoi amici (che si dichiarano innocenti, ndr.) e di un filmato girato la sera in cui si sarebbe consumato l’abuso. Quelle del politico sono state parole forti, inaspettate che nella politica hanno generato moltissime polemiche e anche la senatrice Giulia Bongiorno, avvocato della ragazza che ha denunciato, è stata attaccata. Casalino: Non mi fate esprimere nulla, intanto massima comprensione per il dolore di un padre che sta vivendo sicuramente una situazione difficile, poi nel merito ovviamente non avrei usato quelle parole ma non mi far esporre…

Rei: Fonti del Movimento ci hanno detto che in realtà ci sarebbero state delle pressioni/rassicurazioni. A te risulta? Cioè, perché questo video è uscito ora?

Casalino: Credo davvero che le ragioni siano da comprendere nell’istinto naturale di un padre nel voler proteggere il proprio figlio, non credo in nessun’altra dietrologia insomma…

Rei: Perché un anno e nove mesi sono tanti, è stato detto un po’ ovunque, quindi avrebbero lasciato intendere probabilmente una rassicurazione per cui poi c’è stato questo exploit di rabbia…

Casalino: Io onestamente non ho elementi da poter sostenere questa tesi.

Rei: Cioè un anno e nove mesi non sono tanti secondo te?

Casalino: Quello che ho visto io è la reazione soprattutto di un padre, perché sono convinto che lui oggi non userebbe le stesse parole, nel senso che è stato, istintivo, era molto di pancia secondo me quel video no?

Rei: Eh però perché non l’ha fatto prima allora scusa?

Casalino: No appunto, forse vedere il video, quel video, gli ha provocato una reazione di istinto e il risultato è stato quello. Sottolineo il fatto che ovviamente non condivido le cose dette, io non avrei detto quelle cose.

Rei: Cos’è che ha sbagliato secondo te?

Casalino: No secondo me… tu mi vuoi far entrare dentro, no?

Rei: È giusto che si commenti questa cosa, cioè, perché dire “il ruggito ferito di un papà”, non è giustificabile questo ruggito.

Casalino: Ragazzi, io non vorrei fare le interviste, mi fate mangiare un panino?

Rei: In cosa ha sbagliato? Anche nei confronti di questa presunta vittima che è un dibattito spiacevole.

Casalino: Beh il Movimento ha preso una posizione chiara. Differenziandosi dalle esternazioni di Grillo, specialmente sul tema delle donne, anche sul tema della giustizia, sull’indipendenza della Magistratura.

Rei: Ma non c’è stato un accenno alla ragazza… questo umanamente, visto che tu hai un ruolo politico…

Casalino: Io non avrei fatto così… io… ragazzi dovete anche capire che succede a qualsiasi essere umano di essere coinvolto sentimentalmente da una vicenda e in quel momento si può perdere, diciamo, in razionalità… se lo vedi quel video si vede che non è razionale no?

Rei: No, no, io capisco il dolore del padre ma perché lo devi esternare in questo modo?

Casalino: Pensava di difendere così suo figlio, no?

Rei: Grave questo però no? Perché la difesa si fa in tribunale…

Casalino: …ma un padre che difende il proprio figlio, credo che sia normale, lo fanno tutti i genitori che hanno i propri figli con problemi giudiziari.

Rei: Ha leso al Movimento però questa esternazione

Casalino: Eh, questa è una valutazione che… non la voglio fare io, ma perché mi... io voglio mangiare il panino!

Rei: Vabbè il panino si sta cuocendo quindi possiamo aspettare!

Casalino: No, non l’ho ancora ordinato!

Rei: Ci ricordiamo le frasi che sono state usate dal Movimento nei confronti delle donne? Cito un nome, Boldrini. Persino la Montalcini che è stata chiamata p*****a.

Casalino: Nahhhh! No no no!

Rei: Ti prego, da chi sono venute queste parole?

Casalino: Non fate questo giochino, non fate questo giochino!

Rei: No ma da chi sono venute?

Casalino: Non sono mai venute da nessun esponente del Movimento 5 stelle.

Rei: non sono mai venute? Boldrini, tutte quelle cose…

Casalino: Mai, mai.

Rei: Mai?

Casalino: Tu non troverai mai...

Rei: Visto che non ci hai parlato con Beppe gli vuoi dire qualcosa? Cosa gli diresti se potessi parlarci?

Casalino: Eh, forza! Perché immagino sia un momento difficile quindi gli faccio un grandissimo in bocca al lupo e… e basta! Però lasciatemi stare!

Rei: Lo facciamo anche alla ragazza perché vuoi o non vuoi?

Casalino: Assolutamente!!!

Rei: Sono coinvolte anche delle ragazze in questa storia orribile, al di là di quello che ne sarà.

Casalino: Assolutamente, il vero dramma è questo, no? Tutte le parti, stanno soffrendo tutti in questa situazione.

Rei: Questa questione che la Bongiorno sia anche della Lega.

Casalino: Beh, io il dubbio me lo porrei, cioè se sei avvocato di un partito, è stato ministro di quel partito, mi sembra un intreccio che forse andrebbe evitato, però…

Rei: Secondo te doveva evitare di accettare?

Casalino: Mah, è un tema questo, è un tema sicuramente in cui… io vorrei non entrare, cioè voglio starne fuori.

Rei: Speriamo che almeno in quanto a comunicazione, qualche suggerimento potresti darlo visto che i toni sono stati eccessivi…

Casalino: Tu comunque sei terribile, ti conoscevo, sei terribile… dai ragazzi dai vi voglio bene, vi voglio bene!

Rei: Le donne che denunciano e durante il processo diventano poi imputate, di questa colpevolizzazione delle vittime, cosa ne pensi?

Casalino: Allora, credo effettivamente che ci sia una visione maschilista in casi come questo per cui spesso si cerca di dare la colpa alle donne, e questa è una cosa che va superata. Quello era un video in un momento particolare, lo prenderei come un momento di difficoltà.

Rei: Il danno è fatto però.

Casalino: Eh lo so, succede, però succede quando ti fai travolgere dalle emozioni, succede a tutti gli esseri umani di sbagliare in un momento emotivo particolare, no?

Rei: No, avrebbe potuto anche chiedere scusa ora, perché comunque, un discorso del genere porta al classico meccanismo di colpevolizzazione della vittima, soprattutto una donna.

Casalino: Ma questo è un errore.

Rei: Io ti dico che non si fa.

Casalino: Lui avrà modo di chiarirsi secondo me… va bene? Chiaramente solo un eventuale processo potrà stabilire se quello che è avvenuto in casa del comico fu stupro oppure una serata tra ragazzi in cerca di divertimento con il consenso della ragazza, ma la domanda che pone l’inviata è: com’è che Grillo all’improvviso se n’è uscito con un video che ha suscitato così tante critiche? Fonti autorevoli dentro al Movimento 5 Stelle avanzerebbero il sospetto che il fondatore abbia potuto subire delle pressioni e dei condizionamenti legate alla situazione del figlio. C’è chi pone l’attenzione sui tempi così lunghi delle indagini, circa un anno e 9 mesi, e su cosa sia successo, nel frattempo, nel mondo della politica italiana. Beppe Grillo nell’ultimo anno e nove mesi si è davvero sentito sotto ricatto o condizionato da questa tragedia familiare come ipotizzato da qualcuno?  Cosa lo ha portato a esplodere così in un video? È solo il dolore di un padre che vuole difendere il figlio o c’è dell’altro?

Dritto e Rovescio, Matteo Salvini contro Toninelli in difesa del video di Beppe Grillo: "Fuori dal mondo, una vergogna". Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Si parla ancora, e non potrebbe essere altrimenti, del video di Beppe Grillo in difesa del figlio. Se ne parla ancora a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 29 aprile. Ospite in collegamento c'è Matteo Salvini, al quale vengono proposte le deliranti affermazioni di Danilo Toninelli in difesa del comico M5s, insomma in difesa del suo capo. Quando Toninelli chiedevano se Grillo l'avesse sparata grossa, rispondeva: "No, no, vi sbagliate". "Ma come... ha detto che è strano denunciare dopo otto giorni", gli faceva notare l'intervistatore. E dunque l'ex ministro e reginetto di gaffe: "Lei commette un errore enorme. Lei mi estrapola quella frase da un discorso generale che non viene ricordato, neppure da lei. Sa perché Grillo ha fatto questo video? Da giorni, ormai su tutti i giornali, di fianco alla foto del figlio di Grillo c'era scritto stupratore. La sentenza mediatica era già stata data", sparacchia Toninelli. Senza vergogna. Senza rispetto per la ragazza di fatto accusata dal comico. "Non c'è solo la rabbia e la sofferenza del presunto accusatore - riprende Toninelli -, ma anche quella della persona che magari viene ingiustamente accusata. Quasi tutti i garantisti, contro Beppe Grillo si sono trasformati in giustizialisti", conclude. Parole che mettono i brividi. Dunque, si torna in studio e viene chiesto un commento a Salvini su quanto visto. E il leghista non fa sconti: "Toninelli? Simpatico ma un po' confuso. I grillini per anni hanno invocato galera per chiunque passeggiasse per strada e fosse sospettato di qualcosa... ma se ad essere indagato è il figlio del loro capo, allora no. Bisogna aspettare, non si può giudicare...", rimarca. "Da padre non commento lo sfogo di un padre. Ma commento il politico, il signor Grillo è il capo politico di quel partito, che sostanzialmente mette sul banco degli imputati la ragazza che ha denunciato lo stupro perché lo ha fatto in ritardo. Questa è una roba che da genitore mi fa schifo, mi fa ribrezzo. Difendi tuo figlio come vuoi ma non tirare in ballo una povera ragazza che ha denunciato una violenza. E che Toninelli difenda una roba del genere è fuori dal mondo", conclude Salvini.

Quel silenzio assordante dei 5S su Grillo. Daniele Dell'Orco il 29 Aprile 2021 su Il Giornale.  Il leader leghista torna a commentare la video-difesa del fondatore del M5S per scagionare il figlio Ciro, accusato di stupro. E le esponenti grilline sono sempre più costrette alle piroette. "Grillo? Vergognoso il silenzio di donne e uomini 5stelle". Ci va giù pesante Matteo Salvini, che sui social torna a commentare le accuse di stupro a carico di Ciro Grillo, ma soprattutto l'arringa social in difesa del figlio da parte del comico genovese. Grillo, di fatto, per smontare le tesi accusatorie, ricorre ai tipici cliché che vengono utilizzati in casi del genere per minimizzare la posizione dell'accusato e, addirittura, addossare le colpe sull'accusatrice. Ma mentre dalla Procura di Tempio Pausania sarebbero emersi nuovi elementi contro il gruppo di ragazzi accusati di violenza sessuale tali da far slittare ancora l'eventuale rinvio a giudizio, il leader leghista si concentra sulla polemica politica scatenata dal video di Grillo: "Il padre Beppe Grillo non lo commento, il politico Beppe Grillo invece sì: vergogna!", tuona. Il riferimento è al silenzio, davvero assordante, degli ambienti grillini e paragrillini, da sempre giustizialisti, da sempre manettari, da sempre pronti ad alimentare la cultura del sospetto contro chiunque. Stavolta, invece, tacciono quando va bene, si inerpicano in ricostruzioni fantasiose quando va male. È accaduto alla sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che in un'intervista al Corriere della Sera aveva addirittura rigirato la frittata insinuando che proprio Salvini avesse visto il video incriminato tramite Giulia Bongiorno, senatrice della Lega ma soprattutto avvocato difensore della ragazza che ha denunciato la violenza. Drammatica anche la posizione di Federica Daga, deputata pentastellata a sua volta vittima in passato di una relazione violenta. Dopo aver risposto alle interviste dei giornalisti raccontando la sua brutta storia personale, la Daga si è dovuta "giustificare" sui suoi social dalle accuse dei commentatori di parte, troppo impegnati a difendere l'Elevato Beppe: "Io non ho commentato le parole di Grillo - rettifica la Daga -. Quando sono stata contattata dai giornalisti per commentare le sue parole (lo fanno continuamente) io ho preferito raccontare la mia storia personale, di quanto sia stato difficile arrivare a denunciare, perché ci ho messo quasi 6 mesi a trovare la forza di farlo. È tutto qui. Il resto non mi interessa!" Poco dopo, chiarisce ancor di più la linea: "Ci hanno chiamato per creare polemica". Insomma, il problema non sono le posizioni di Grillo, bensì l'interesse, legittimo, di osservatori, giornalisti, commentatori e semplici cittadini che si chiedono come mai di fronte a frasi così gravi esponenti politici sia uomini che donne del M5S facciano così tanta fatica a dissociarsi. Silenzio totale sulla vicenda, ad esempio, dal sindaco di Torino Chiara Appendino, che pure lo scorso 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, diceva: "La violenza sulle donne è un dramma che abbiamo il dovere di ricordare e combattere con tutte le nostre forze". E silenzio pure dal sindaco di Roma, Virginia Raggi, che nella stessa occasione inaugurò un nuovo Centro Antiviolenza nel Municipio XV. della Capitale al grido di: "Nessuna donna è sola". Ma la lista è lunghissima. Più salomonica Maria Elena Spadoni, vicepresidente della Camera: "Io aspetto le sentenze. Personalmente ritengo che ogni donna debba poter denunciare in qualsiasi momento". Addirittura in versione garantista, invece, la vicepresidente del Senato Paola Taverna, la stessa che due anni fa plaudiva al codice rosso di Bonafede augurandosi "Tolleranza zero verso chi commette violenza sulle donne". Stavolta invece dice: "La magistratura è al lavoro, perciò auspico che giornali e talk show lascino che questa vicenda si risolva, come giusto che sia, in tribunale. Serve rispetto: no a speculazioni da sciacalli". Una lettura interessante e ben più basilare per motivare il silenzio pentastellato la offre Piernicola Pedicini, eurodeputato eletto nel Movimento Cinque Stelle e ora nei Verdi: "E chi si permette di dire qualcosa contro Beppe Grillo? Nessuno lo fa, sapendo che il rischio è di non essere più candidati", dice all'AdnKronos. La parola d'ordine, insomma, sarebbe sempre quella: salvare la poltrona.

Quel sospetto sul caso Grillo: ecco perché la sinistra ha taciuto. Giuseppe De Lorenzo i Il silenzio tombale delle femministe sulle accuse a Grillo e il dubbio che le tormenta sull'alleanza M5S-Pd contro il centrodestra. All'inizio era solo un dubbio, un'idea, un caso di scuola giuridico. Ora la questione sta emergendo anche come una sorta di senso di colpa del mondo femminista. I piani sono diversi, ma il principio di fondo appare identico, come le facce di una stessa medaglia fatta di due pesi e due misure. Il primo a lanciare il sasso nello stagno era stato il direttore di questo Giornale il giorno successivo alla sparata di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro. Alessandro Sallusti si accorse di una “anomalia” in particolare, ovvero il fatto che “un’inchiesta per stupro che coinvolge il figlio di un leader di governo sia stata tenuta nel cassetto a differenza di qualsiasi altra” e che l’accelerazione sia arrivata “poche settimane dopo che i grillini hanno perso il controllo del ministero della Giustizia”. Possibile? Sarebbe giuridicamente gravissimo, e per ora resta solo un'ipotesi. Ma questo usare i guanti bianchi nei confronti dei Grillo si è sicuramente registrato nel mondo dei media, dei commentatori e delle indignate di professione. Il vicedirettore Nicola Porro fece infatti notare che la “gogna mediatica” contro il figlio - denunciata dal comico in quel filmato - in realtà non ci sia mai stata. Anzi: “Della vicenda ne hanno parlato in pochissimi, tutti gli altri si sono mossi in punta di piedi, per non disturbare l’inciucione tra pentastellati, Pd, Matteo Renzi e Leu”. Altrimenti che dovrebbe dire “Fausto Brizzi, vittima di accuse montate, ma linciato e sputtanato in men che non si dica”? Il terzo indizio, e chissà se fa una prova, lo confeziona oggi la scrittrice Camilla Baresani su Domani. Già, perché dopo il video dell’Elevato si sono sollevate tante voci di protesta, anche dal mondo femminista di sinistra, ma prima dello sfogo in poche avevano provato lo stesso “stimolo ad intervenire”. Perché? “La lunghezza dell’iter investigativo mi sembrava anomala - scrive Baresani -, l’oblio che avvolgeva il caso mi stupiva e la vicenda toccava profondamente il mio senso di ingiustizia”. Come mai allora starsene zitte, "quando invece sulla vicenda di Alberto Genovese e su tanti altri presunti stupri non ancora arrivati al rinvio a giudizio siamo state ben più loquaci”? Smanettando un po’ online il divario appare in tutta la sua sproporzione. Dopo le notizie su Genovese, per dire, il movimento “Non una di meno” protestò sotto gli uffici dello “stupratore” a Milano. Non appaiono invece iniziative simili a Genova quando emerse per la prima volta l'indagine ai danni di Grillo. Perché cotanto silenzio? Ora, da garantisti viene da dire che la retta via sarebbe proprio questa: attendere la fine del processo prima di condannare chicchessia alla gogna mediatica. Sarebbe sintomo di civiltà giuridica raggiunta, anche perché la colpa dei padri non può mai ricadere sui figli. Figuriamoci il contrario. Ma il problema in questo caso sono i due pesi e le due misure utilizzate. Nel caso di Genovese (che poi tanto diverso da quello di Ciro Grillo non è) l'indignazione fu unanime e la solerzia della procura immediata. E non è che il fondatore di Facile.it fosse più “famoso” del figlio dell’Elevato grillino. No. Anche sul presunto stupro in Sardegna “c’era ogni possibile elemento per avviare una riflessione e quantomeno fare notizia”. C’erano l’isola festaiola, la compagnia di ragazzi benestanti, le ragazze milanesi, il padre politico col vizio di fare il moralista con le vicende giudiziarie degli altri. Insomma: tutte le carte in regola per sentire la voce sdegnata di femminismi e “#senonoraquando” di turno. E invece? Invece abbiamo registrato solo una “cappa di silenzio”, una “soffusa indifferenza”. Perché? Ipotizza Baresani: “Abbiamo forse temuto che, parlandone, potessero incrinarsi le basi dell'alleanza di governo tra Cinque stelle e Pd, dando così un contributo al ritorno del centrodestra al governo?” La domanda è legittima. E la riflessione tragica. Perché se fosse davvero questo il motivo, minerebbe alla base la credibilità di un movimento che si strilla sempre tranne quando c'è il rischio di coinvolgere interessi di parte, solitamente dalla parte sinistra. Che poi in fondo è il solito, stranoto, giochino che da tempo si manifesta sulle violenze contro le donne: se la vittima è un ministro di centrodestra o una leader di Fratelli d'Italia, anche l'odio è lecito. Doppiopesismo à la gauche.

Ora Grillo fa indagare sulla ragazza che accusa il figlio. Rosa Scognamiglio il Beppe Grillo avrebbe avviato un'indagine privata su Silva, la ragazza diciannovenne che accusa il figlio Ciro e gli amici di violenza sessuale. Non è bastato a Beppe Grillo il videomessaggio social a difesa del figlio, accusato di stupro, per sedare le polemiche di questi giorni ed evitare la gogna mediatica. E allora, meglio rivolgersi a un pool di esperti per scagionare Ciro dalla pesantissima taccia di violenza sessuale. Stando a quanto si apprende dal quotidiano La Repubblica, infatti, il leader del Movimento Cinque Stelle, avrebbe deciso di avviare una "indagine privata" sulla ragazza italo-svedese che ha denunciato il presunto abuso consumatosi la notte del 17 luglio 2019, a Porto Cervo.

L'indagine privata sulla ragazza. Non intende darsi per vinto Beppe Grillo, costi quel costi. E dunque chiama in causa il medico legale Marco Salvi, che in passato si è occupato del serial killer Donato Bilancia e dell'omicidio di Carlo Giuliani durante il G8. Non il primo capitato a tiro, insomma. Al professionista spetterà l'arduo compito di scandagliare filmati e foto della ragazza 19enne che accusa il figlio del Guru pentastellato di stupro al fine di ricostruire, in maniera dettagliata, la condotta della vittima nei giorni successivi alla presunta violenza sessuale. L'intento sembrerebbe quello di "inchiodare" Silvia: era consenziente quella notte, aveva bevuto? L'ex comico punta tutto su qualche frame video col rischio di finire nuovamente alla gogna mediatica dopo la sortita choc dei giorni scorsi. Insomma, a diritto o a torto, l'effetto boomerang sembra inevitabile.

Intanto, mentre la Procura di Tempio Pausania sta decidendo se chiedere il rinvio a giudizio per Ciro, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - o solo per qualcuno di loro - la seconda notizia arriva dal fronte dei legali che difendono i quattro ragazzi genovesi. "Quando saranno chiarite alcune cose, qualcuno si toglierà il sassolino dalla scarpa", aveva detto uno dei sei avvocati che difendono i quattro giovani quando ha visto il video (non concordato) sul blog di Beppe. E ieri lo ha ripetuto per l'ennesima volta. Tempo al tempo, verrebbe da dire.

La confessione dell'amico di grillo: "lei era consenziente". Dopo settimane di silenzio, Vittorio Lauria - uno dei 4 ragazzi sospettati di stupro - ha deciso di fornire la sua (personalissima) versione dei fatti. Lo ha fatto ieri sera, nel salotto di Massimo Giletti, con dichiarazioni a dir poco sconcertanti. "Sì, abbiamo fatto sesso tutti e quattro con la ragazza", ha ammesso pubblicamente. Poi si è difeso: "Nel video si vede che la ragazza comunque sta benissimo e che noi non costringiamo niente", ha raccontato il giovane. La sua tesi è che Silvia abbia "bevuto la vodka per sfida, perché noi non riuscivamo a berla. E poi è andata a dire che l'ho presa per la gola". Insomma, un tentativo di far passare la vittima come una che ben sapeva cosa stesse accadendo. Quasi al lasciar intendere una sorta di mènage à quatre in cui tutti i partecipanti sarebbero stati consenzienti. In buona sostanza, una narrazione in scia con il video di Beppe Grillo. Anche se Lauria condanna il filmato del leader pentastellato: "Secondo me non andava fatto". Dal racconto del ragazzo sembrerebbe che il rapporto sessuale in gruppo sia avvenuto dopo la bevuta. Vi avrebbero partecipato Ciro, Capitta e Lauria. Il quarto indagato, Corsiglia (figlio di un noto cardiologo), invece, con Silvia avrebbe avuto un rapporto consenziente e di coppia, durante la notte. "Poi - ha concluso Lauria - sono andato a dormire, di quello che è successo dopo non so nulla".

Travaglio smemorato nasconde il condannato Grillo. Giuseppe De Lorenzo il Il direttore del Fatto all'attacco di Forza Italia, Lega e Italia Viva. Ma si scorda il suo neonato "garantismo" e la sentenza su Grillo.  No ma deve essere sicuramente una dimenticanza. Di più: per farlo entrare nelle poche battute richieste da un editoriale, un redattore guascone deve aver tagliato il pezzo senza dirlo a Sua Maestà. Non può essere altrimenti. Perché il professionista del rigore, il contabile dei guai giudiziari altrui, non può mica essersi perso un dettaglio così. Ormai da giorni il direttore del Fatto Quotidiano vive un Travaglio di quelli che lasciano il segno. Il problema non è tanto l’indagine su Ciro Grillo: quelli sono fattacci del pargolo. A corrodere l’animo del giornalista è la sguaiata reazione di babbo Beppe. Il quale dopo aver cavalcato l’onda forcaiola a suon di “vaffa” e avvisi di garanzia scambiati per sentenze della Cassazione, adesso ha scoperto le magagne del processo mediatico che non ti lascia respirare un attimo quando finisci nelle mani della magistratura. Travaglio una settimana fa ha preso le sue difese, trasformandosi nel più convinto dei garantisti: Grillo “non ha sbagliato a difendere il figlio” perché sarà il Gup a decidere se Ciro va processato o meno, anche se tutti “parlano come se lo stupro fosse già certo, senza non dico una sentenza, ma neppure un rinvio a giudizio”. Lui, capite? Il Re de manettari. E già questa doppia capriola carpiata era apparsa imbarazzante se non sospetta. Ma l’acme del favoritismo a senso unico l’ha raggiunto solo oggi. Nel giudicare l’intervista di ieri al ministro Cartabia sulla Stampa, Travaglio si lascia andare ad un commento sulla composizione dell’esecutivo Draghi. Scrive: “Un governo con un partito guidato da un pregiudicato (Fi), uno da un imputato (Lega) e uno da un indagato (Iv) meno si avvicina alla giustizia e meglio è per tutti”. Ma come: ma non aveva detto che prima di emettere un responso sarebbe meglio attendere “non dico una sentenza, ma almeno un rinvio a giudizio”? Se lo è dimenticato? Renzi è “indagato” tanto quanto Ciro Grillo. E Salvini “imputato” al pari di tanti altri che poi risultano innocenti. E infine, scusi direttore, ma forse le è sfuggito un piccolo, piccolissimo dettaglio. Perché deve sapere che all’attuale governo partecipa anche un altro partito, il M5S, fondato nientepopodimenoche da un condannato in Appello e in Cassazione. Lo stesso (ex) leader per cui oggi Travaglio si spertica in pericolose altalene di coscienza. Direttore: come mai Grillo in quell'elenco non c’è? Sarà stata sicuramente una svista. O un taglio non voluto del pezzo. Vero?

L'ex ministro non è mai intervenuto. Ciro Grillo, inchiesta al ralenti: Procura in affanno ma Bonafede voltò le spalle. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Aprile 2021. Il caso Ciro Grillo, indagato per violenza sessuale a Porto Cervo del luglio di due anni fa, arriva tra pochi giorni al rinvio a giudizio. Nella migliore delle ipotesi, saranno trascorsi ventidue mesi dal fatto: un arco temporale lungo, soprattutto dopo l’introduzione del codice rosso che indica priorità massima per i reati a sfondo sessuale.
«Indagini complesse possono portare via molto tempo anche nella fase preliminare», chiariscono gli organi della magistratura che abbiamo sentito. Beninteso che la complessità è a sua volta affrontata diversamente dalla dotazione organica, dagli uomini e dai mezzi disponibili. E qui si apre un dossier assai spinoso: la Procura di Tempio Pausania, malgrado avesse avvertito della gravità del caso – il figlio del leader del primo partito politico italiano accusato di stupro, un fatto unico nella storia – è stata tenuta sotto al minimo dell’organico necessario per il regolare funzionamento degli uffici. L’11 maggio 2018 arriva a Tempio Pausania il nuovo Procuratore capo, Gregorio Capasso, da Latina. Era già stato a Crotone, altra frontiera. Ma rispetto ad altre situazioni, quella gallurese sembra essere stata a lungo considerata, e certo a torto, una frontiera di serie B. Eppure ha un territorio vasto e particolarissimo: poco popolata durante l’anno, diventa tra le principali mete turistiche nella stagione estiva. E se il dato della popolazione residente la incolla a una irrisoria dotazione di personale giudiziario, la Procura gallurese deve far fronte durante quattro mesi l’anno ad un numero impressionante di reati, civili e penali. Risse, accoltellamenti, ubriachezza molesta sono all’ordine del giorno. Usura, armi. E tanta droga. La quantità di stupefacenti sequestrata in Costa Smeralda è la seconda in Italia, dopo la Campania. Al Procuratore capo Gregorio Capasso si tributa il merito della buona volontà: «Fa il massimo del possibile, che è molto poco data la situazione», ci dicono dalla redazione de La Nuova Sardegna i colleghi della giudiziaria. Insediatosi solo l’anno prima, avviando le indagini su Ciro Grillo le premesse erano più che energiche: «L’inchiesta è secretata – aveva detto all’Ansa il procuratore capo a fine agosto – Posso solo dire che daremo una forte accelerata alle indagini per arrivare alle conclusioni il prima possibile, nel rispetto della tutela della vittima e degli indagati». Il prima possibile è diventato 22 mesi. E non per caso. La situazione di carenza nell’organico e nelle dotazioni è diventata dal luglio 2019 insostenibile, la Procura è stata letteralmente azzoppata. Ad inizio indagini, il dottor Capasso aveva firmato l’ordine di sequestro dei cellulari degli indagati. I Carabinieri avevano raggiunto Ciro Grillo il 29 Agosto, in Versilia, mentre in contemporanea scattavano le perquisizioni a carico degli altri indagati. Sottoposti all’esame del perito incaricato dalla Procura, i cellulari avevano restituito il loro carico di messaggi, foto e altri elementi utili alle indagini, fra cui – presumibilmente – l’ormai famigerato video girato durante lo stupro. Poi, la Costa Smeralda si è trasformata nel porto delle nebbie. I tempi lunghi, come a voler concedere una speranza ad una diversa conclusione della vicenda. A un ripensamento, forse, o a una diversa presa di posizione delle parti. Cristallizzato lo stato dei fatti al luglio 2019, siamo arrivati ormai al maggio 2021. «Abbiamo denunciato l’incredibile paralisi degli uffici giudiziari di Tempio, dove si rasenta l’interruzione di pubblico servizio», ci dice Carlo Selis, presidente dell’ordine degli avvocati di Tempio Pausania. «È un momento di gravissima crisi per il tribunale di Tempio. Abbiamo parlato più volte di denegata giustizia, il tribunale non riesce a lavorare. Segue un territorio vasto e importante, sotto dotato rispetto alle esigenze. Siamo sottodimensionati, mancano magistrati, procuratori, dipendenti amministrativi. Il dottor Capasso non ha un sostituto». Ed è stato chiesto, in questi due anni, a gran voce. Da parte dell’Anm e da parte degli avvocati. «Al ministro Bonafede in questi ultimi due anni abbiamo mandato ogni tipo di sollecitazione. Noi avvocati nel 2020 abbiamo fatto sei mesi di astensione dal lavoro; abbiamo protestato perché c’è chi tiene bloccata questa Procura. E sa cosa ha fatto il Ministero? Anziché parlare con noi, ci ha comminato 20.000 euro di sanzione». Le regole sull’astensione dal lavoro degli avvocati sono rigide, ma lasciarli del tutto inascoltati è stato ingeneroso. «Più volte negli ultimi due anni abbiamo fatto presente l’inadeguatezza della struttura, anche in virtù del delicatissimo svolgimento delle indagini su Ciro Grillo. Da Bonafede nessuna replica. Anzi. La situazione è andata peggiorando, con l’avvitamento del carico pendente, il 72% di magistrati chiede subito di andare via, il turn over più alto d’Italia. Perché chi viene qui si rende conto che non ci sono le condizioni», si sfoga Selis. «Abbiamo chiesto l’intervento della politica, ma Bonafede non è mai venuto qui», aggiunge. Guarda caso. «Capasso è un magistrato che si è dato da fare, nei limiti dell’organizzazione possibile. Ma senza un sostituto, cosa può fare da solo? Questo tribunale gestisce interessi economici molto grandi. Moltissimi processi per stupefacenti, perché Olbia è un centro di traffico». E il caso Grillo. «Manca chi smaltisce il lavoro – prosegue l’avvocato Selis – e basta un dato del penale per capirci: abbiamo un tasso di prescrizione del 80%, otto processi su dieci non si concludono con una sentenza di merito, ma con la prescrizione. La media italiana è la metà, 40%».

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Non è l'arena, Alessandro Sallusti e "l'anomalia Ciro Grillo": "Se al suo posto ci fosse stato il figlio di Berlusconi o della Meloni..." Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Sul caso di Ciro Grillo "c'è un'anomalia grande come una casa". Alessandro Sallusti, in collegamento con Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 punta il dito sulle implicazioni politiche dell'inchiesta per stupro che vede accusati il figlio di Beppe Grillo e tre suoi amici a Tempio Pausania, in Sardegna. "Il dottore Palamara mi ha raccontato che quando ci sono di mezzo dei politici, le inchieste possono essere accelerate, ritardate, imboscate, depistate in base alla convenienza che il sistema ha rispetto a quel politico. In questa vicenda c'è di mezzo il capo del partito che all'epoca dei fatti era l'azionista di maggioranza di governo e che esprimeva il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede". "Non credo sia stata una coincidenza - suggerisce il direttore di Libero - che finché il M5s era l'azionista di maggioranza e Bonafede ministro questa inchiesta sia rimasta nel cassetto della Procura sostanzialmente insabbiata. I verbali che oggi leggiamo sui giornali non sono di oggi, ma di anni fa. Io stesso - aggiunge Sallusti - ho mandato per due volte un mio bravissimo cronista, Luca Fazzo (del Giornale, ndr) alla Procura di Tempio Pausania e per due volte è tornato con le pive nel sacco dicendo da lì non esce nulla. Figuratevi se al posto del figlio di Beppe Grillo con Bonafede ministro ci fosse stato il figlio di Silvio Berlusconi o il figlio di Giorgia Meloni: dopo 2 minuti quei verbali sarebbero stati su tutti i giornali. Il sistema non è solo quello della giustizia, ma anche del giornalismo". Di fronte alle rimostranze di Luca Telese, Sallusti risponde con un esempio noto a tutti: "I verbali del caso Ruby uscivano in tempo reale. Finito l'interrogatorio un''ora dopo erano su tutti i giornali. I verbali del caso Grillo sono usciti dolo quando il Movimento 5 Stelle non era più azionista di maggioranza del governo". 

DiMartedì, Pietro Senaldi e il sospetto su Grillo e l'inchiesta sul figlio: "Perché è rimasta sotto 2 anni". Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Il video di Beppe Grillo in difesa del figlio Ciro, accusato di stupro, sta dividendo M5s e Pd e Pietro Senaldi, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7, dà una lettura politica alla vicenda, ma soprattutto allo scandalo mediatico. "Se c'è stata violenza o no, forse lo sa solo chi ha visto il video girato in quella stanza - premette il direttore di Libero -. A me ha colpito molto quando lui parla del figlio che ha atteso 2 anni. Ma questa è la giustizia che piace a Grillo. Perché non ritira il disegno di legge che abolisce la prescrizione, che lascia tutti a friggere fino al giorno della morte? E non dimentico che per 2 anni questo processo è rimasto sotto perché il premier era un grillino e il ministro della Giustizia era un grillino. Forse ora che c'è un tecnico a Palazzo Chigi i magistrati di Tempio Pausania hanno detto 'non possiamo fare una figuraccia'?". "Un episodio infelice sotto tutti i punti di vista - è il commento di Elsa Fornero, ex ministra del Welfare -. Faccio uno sforzo a parlare di questo episodio in maniera pacata. Se accusano tuo figlio di stupro, non ti metti sulla pubblica piazza ad urlare. E poi la ragazza... Questa esibizione di tutto il peggio del maschilismo bieco, per cui alla fine è sempre la ragazza che se l'è cercata. Questo non possiamo accettarlo. Mi aspetto che il Pd non lasci sole le donne a censurare questo episodio, indipendentemente dalle alleanze politiche". Senaldi replica anche alla Fornero e quando Floris chiede conto di un possibile "effetto boomerang della gogna mediatica lanciata dai 5 Stelle", puntualizza: "Forse qui c'è tanta gente che ripone troppa fiducia nel Pd. Questo video abbiamo scoperto che Grillo è una persona aggressiva, assolutista, che fa quello che vuole? Noi sapevamo che era così. Lui dice 'mio figlio è un cog***e'. Io so da chi ha preso... Quando Grillo nel video dice 'mio figlio è un cog***e', io so da chi ha preso. Lui è così e il Pd non può fare la verginella e dire che non rispetta le istituzioni. Il suo partito è quello del vaffa".

Beppe Grillo e il figlio, "cosa non torna sull'inchiesta". Pietro Senaldi: una vergogna di Pd e magistrati? Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 23 aprile 2021. Signora mia, com’è sgraziato Beppe Grillo. Urla come un invasato, gli vengono gli occhi piccoli, afferma mostruosità giuridiche e non ha nessun rispetto per le donne; ma qui non c’è discriminazione sessuale: lui non rispetta gli esseri umani in generale. Scandalizza le anime belle il video nel quale il tragicomico difende il figlio Ciro dall’accusa di stupro, ottenendo l'effetto opposto, perché chi guarda pensa: con un papà così, crescere delinquente non sarebbe una colpa bensì una conseguenza... E così, caso strano nel momento in cui il partito è in grande difficoltà, tutti a dare addosso al leader di M5S, secondo l'intramontabile pratica italiana del calcio dell'asino. Da sinistra Beppe Grillo, che in un video diffuso sui social, ha difeso con toni esagitati il figlio Ciro, al centro nella foto. Il ragazzo è accusato di violenza sessuale di gruppo perché, con tre amici, nell'estate del 2019, avrebbe abusato di una ragazza in Sardegna. A destra il leader della Lega Salvini, rinviato a giudizio per il caso Open Arms A parte un imbarazzato e altrettanto tragicomico Conte - ma c'è da capirlo, l'avvocato vorrebbe tenere partito -, per Beppe padre disperato pietà l'è morta. Matteo Salvini ha definito «disgustosa e da Medioevo» l'arringa del manettaro ligure convertitosi lunedì al garantismo dalle disavventure della prole sulla via della procura di Tempo Pausania. C'è da capirlo, il guru di M5S vorrebbe incarcerare per 15 anni il leghista per sequestro di persona ed è sempre stato più sgradevole che caustico verso l'ex ragazzo del Lorenteggio, nato solo perché purtroppo quella sera la signora Salvini non prese la pillola (copyright dell'istrione quando ancora non si era rattristato). Un filo più ipocrite le reprimende verso l'alleato venute dai compagni di merende del Pd, che studiano da tempo un'alleanza strutturale con i discepoli di Grillo. Pur di consolidare il progetto, i dem hanno ingurgitato le idee più balzane dei Cinquestelle in tema di giustizia, lavoro, welfare, fanno le verginelle. Biasimano i toni e i concetti del guru pentastellato fingendo di aver appreso solo dal video sul figlio con chi si accompagnano. Eppure, che il comico genovese fosse un leader aggressivo, antidemocratico, auto-riferito e violento è cosa di dominio pubblico almeno da quando Beppe ha fondato un movimento che come programma politico ha unicamente il "vaffa", indirizzato soprattutto ai dem. Che squallore i sinistri, attaccano il compagno di viaggio dove è più fragile e innocuo, sul piano personale, e ne avallano le mostruosità politiche. Troppo facile, cari signori. Affermare che Grillo è maschilista e sprezzante delle istituzioni è considerazione da bar. Chi fa comunistella con il comico nel Palazzo, non può limitarsi alla critica da social, che per quanto violenta si consuma in un giorno, ma ha il dovere di trasformare in azione critiche e opinioni. Il Pd è in Parlamento. Se il capo di M5S lo scandalizza, agisca di conseguenza. Non si parla di far cadere il governo cacciando i grillini perché hanno un capo rozzo. La pandemia è ottima scusa per richiamare tutti a calma e responsabilità nell'attesa di tempi più consoni. Però qualcosa si potrebbe fare, a livello politico e non di chiacchiere. Papà Beppe si è accorto, a spese di suo figlio, che la giustizia è ingiusta e la legge non regge, visto che Ciro è indagato da due anni, tenuto a friggere alla mercé di un pm. C'è chi sostiene che in questo tempo l'inchiesta non sia andata avanti perché il ministro della Giustizia era grillino. e così pure il premier. e che ora abbia un'accelerata perché, con un Guardasigilli e un presidente del Consiglio tecnici, sia saltato il tappo politico che inibiva i pm. Non si può sapere, anche se fa strano che venga lamentata la lentezza della procedura dal padre dell'imputato, dopo che la difesa ha chiesto sei mesi di indagine aggiuntiva. Comunque sia, il Pd approfitti della resipiscenza del guru, non sarà eterna, e lo sfidi sui fatti e nell'aula, non sui giornali e a parole. Giace un'orripilante legge di matrice pentastellata che abolisce la prescrizione, sancendo che chiunque può restare a vita sotto scacco della magistratura. Ebbene, i dem raccolgano il grido di dolore di Beppe per i due anni di Ciro nel limbo e ne approfittino per imporre a M5S il ritiro della norma. Se non ora, quando? La cosa non risolverebbe la vicenda dello stupro e neppure trasformerebbe in un gentleman il leader di Cinquestelle, ma risparmierebbe sofferenze ingiuste a decine di migliaia di persone e sarebbe la prova che anche dal male può nascere il bene. Infine, ben si capisce che un'accusa di stupro al figlio dell'Elevato è argomento pruriginoso . Ma è avvilente come esso sia in grado di paralizzare la politica per giorni. Si tratta di vicenda grave, ma privata, non suscettibile di minare le fondamenta delle istituzioni. La reazione migliore per disinnescarla è il silenzio. Assolutamente da non archiviare invece, perché devastante per la nostra democrazia, è la richiesta di processo per Salvini, sulla quale è stato messo il silenziatore. Se la medesima azione è un atto politico quando governi e un reato se passi all'opposizione, se un diritto a Catania diventa un crimine a Palermo, se in due hanno la responsabilità di una decisione ma alla sbarra ci va solo uno, siamo in presenza di una giustizia indegna di un Paese che voglia ancora dirsi civile. Non è un particolare poi che il giustizialista gridi al complotto e provi a condizionare la magistratura quando gli tocca la sbarra, comportandosi come se la Procura dovesse rispondergli, mentre il garantista, per non peggiorare la propria situazione, è costretto dall'avvocato a fare dichiarazioni di fiducia a chi lo incrimina.

Inchiesta su Grillo Jr top secret? Quel riserbo sul presunto stupro. Francesca Bernasconi il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. Nei giorni scorsi sarebbero stati sentiti in procura gli amici di Ciro Grillo, accusati di presunta violenza sessuale di gruppo. Riserbo, invece, intorno all'interrogatorio del figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle. Interrogatori blindati. In procura a Tempio, nei giorni scorsi, sarebbero stati sentiti i coetanei di Criro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, tutti accusati di violenza sessuale in concorso. E ora dovrebbe essere il turno del figlio di Beppe Grillo. Ma attorno alla vicenda sembra essersi alzata una nube densa, che lascia filtrare poco. La vicenda risale al 2019, quando una 20enne italo-norvegese denunciò un presunto stupro avvenuto nella casa della famiglia Grillo in Costa Smeralda. La ragazza, stando al racconto, sarebbe stata portata nell'abitazione a notte fonda, dopo una serata al Billionarie, e lì sarebbe stata violentata. Successivamente era spuntata un'altra presunta ragazza abusata. Nelle pagine delle contestazioni vennero descritti gli atti svolti ai danni della 20enne italo-norvegese che, stando a quanto riportato, sarebbe stata costretta "a subire e compiere atti di natura sessuale". Uno degli amici di Ciro Grillo avrebbe chiesto alla studentessa milanese di accompagnarlo nella camera e poi l'avrebbe a afferrata per le braccia e "scaraventata sul letto". Il tutto sarebbe continuato "nel tentativo d'avere un rapporto sessuale, mettendosi nuovamente sopra di lei e allargandole le gambe, ma S. J. riusciva a divincolarsi e a uscire dalla stanza". Altre violenze sarebbero state riservate a un'altra ragazza presente nella villa, che sarebbe stata costretta "a subire un rapporto orale" e successivamente "un rapporto vaginale". Ciro Grillo è stato accusato, insieme ai tre amici presenti nella villa quella sera (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria), di violenza sessuale di gruppo. E ora, dopo gli interrogatori dei tre amici che, stando a quanto riportato dall'Unione sarda avrebbero negato ancora una volta le accuse, dovrebbe essere il turno di Ciro Grillo. Sulla vicenda, già da tempo vige il massimo riserbo, tanto che anche il giorno dell'interrogatorio sembra essere segreto. Già nel settembre 2019, a pochi mesi di distanza dalla vicenda, si vociferava circa a una presunta inchiesta oscurata. Il presunto stupro, infatti, sarebbe avvenuto il 16 luglio e denunciato 10 giorni dopo, il 26 luglio 2019. La notizia dell'inchiesta, però, arrivò solo molto più tardi, il 6 settembre 2019. Un ritardo che al tempo era apparso strano, dato il presunto coinvolgimento di un personaggio noto, e che aveva scatenato la curiosità degli utenti social e la tesi di un voluto riserbo. E ora che anche la fase successiva alla conslusione delle indagini sembra avvolta nella più totale riservatezza, torna la sensazione di un'inchiesta top secret tenuta lontana dai riflettori.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 12 febbraio 2021. Giambattista Vico, filosofo napoletano, era certo che la Storia si ripetesse ciclicamente, con regressioni nella barbarie e ripartenze. Dopo 300 anni, possiamo affermare che anche la cronaca ha i suoi corsi e ricorsi. Quando un governo a maggioranza pentastellata cade, contemporaneamente l'inchiesta per violenza sessuale di gruppo contro Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5 stelle, vive frangenti particolarmente caldi. Allora eravamo in fase di perquisizioni e indagini, adesso nel bel mezzo dei fatidici venti giorni in cui, dopo aver ricevuto tutti gli atti dell'inchiesta, le difese degli indagati potranno presentare memorie o far interrogare i propri assistiti e il procuratore Gregorio Capasso dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio per Ciro e i suoi tre amici. E così questo Beppe, che dal suo blog invita i poveri umarell del fu Movimento 5 stelle a votare a favore del banchiere che più banchiere non si può in cambio del ministero della Transizione che non gli era venuto in mente nei precedenti due governi a guida grillina, ci fa tornare in mente i giorni caldissimi della formazione del gabinetto giallorosso. Eravamo tra l'agosto e il settembre del 2019 e i carabinieri si erano presentati a casa Grillo per sequestrare i dispositivi elettronici di Ciro, uno dei quattro figli dell'Elevato. Lì dentro e nei cellulari di altri tre coetanei avrebbero trovato foto e video di un presunto stupro consumato nell'appartamento costasmeraldino dell'ideologo di Sant' Ilario. Mentre sudava freddo sotto la canicola estiva, Beppe concionava in video per far concludere l'accordo tra 5 stelle e dem per un governo sino a un mese prima impensabile. Si rivolse «alla base dei ragazzi del Pd»: «È il vostro momento. Abbiamo un'occasione unica, Dio mio unica, non si riproporrà più un'altra occasione così. Allora cerchiamo di compattare i pensieri, di sognare a 10 anni». Chiuse il collegamento sfiancato: «Basta, sono esausto». I maliziosi videro in quell'indaffararsi del guru i segni della preoccupazione paterna, arrivando a ipotizzare che l'inventore del Vaffaday, mentre estraeva dal blog insospettate e insospettabili doti da mediatore, stesse pensando anche a quel terribile procedimento giudiziario che avrebbe messo a dura prova la serenità della sua famiglia. È possibile che nella mente dell'Elevato abbia iniziato a frullare il dubbio amletico: meglio assaggiare la sbarra del Tribunale controllando il ministero della Giustizia o farlo da privato cittadino, fondatore di un movimento ritornato a fare dirette streaming dal tinello? Alla fine vinse lui, il governo nacque e la notizia dell'inchiesta e degli interrogatori dei quattro giovanotti sospettati di aver abusato di due ragazze stordite dall'alcol è uscita sui giornali meno di 24 ore dopo il giuramento del governo Conte 2. Mentre Giuseppi sfilava al Quirinale abbacinato dai flash, i presunti violentatori si presentavano dai pm senza neanche un fotografo ad attenderli. C'è voluto più di un anno perché la Procura di Tempio Pausania (Olbia-Tempio), dopo ripetute proroghe, dichiarasse concluse le indagini e, lo scorso 6 novembre, avvisasse della fine delle investigazioni i quattro rampolli sotto inchiesta. I quali sognavano una richiesta di archiviazione che non è arrivata. Sono passati tre mesi e a quanto ci consta non è ancora partita l'istanza di rinvio a giudizio, nonostante il codice di procedura penale conceda, come detto, 20 giorni alle parti per presentare memorie e farsi interrogare. In realtà i difensori hanno ottenuto diverse proroghe per poter esaminare tutti gli atti messi a disposizione dagli inquirenti. Infatti i legali sino a metà della scorsa settimana non erano riusciti a decrittare il contenuto del cd depositato dalla Procura e contenente chat e immagini estratte dai telefonini. Oggi gli avvocati degli indagati dovrebbero incontrarsi per confrontarsi su quanto è piovuto sulle loro scrivanie. Materiale che non promette nulla di buono. Nel fascicolo ci sono foto e filmati di quella nottata di bisboccia che, a parere di chi li ha visti, sarebbero inequivocabili. Grazie a questa produzione da B-movie gli inquirenti hanno ricostruito le scene di sesso avvenute il 17 luglio 2019. «Mediante violenza, costringevano e comunque inducevano S. J., abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all'assunzione di alcol, a subire e compiere atti di natura sessuale» si legge nell'avviso di chiusura delle indagini. Per i pm Ciro Grillo avrebbe commentato con gli amici Edoardo Capitta e Vittorio Lauria l'amplesso di Francesco Corsiglia nel box doccia con una delle malcapitate. I quattro avrebbero poi costretto la ragazza a trangugiare vodka tirandola per i capelli per poi costringerla a ripetuti rapporti orali e vaginali. Atti di violenza sarebbero stati perpetrati anche a danno di R. M., amica della studentessa milanese più volte abusata: «In particolare Grillo, alla presenza di Capitta che scattava fotografie per immortalarlo e di Lauria, appoggiava i propri genitali sul capo di R. M., la quale, in stato di incoscienza perché addormentata, era costretta a subire tale atto sessuale» hanno scritto i pm. Destino vuole che il papà di R. M. sia un importante banchiere, che probabilmente conosce personalmente Mario Draghi. Con questo quadro davanti, ecco che salta di nuovo un governo e bisogna farne un altro ed ecco che di nuovo compare Grillo. Questa volta non deve più convincere i pentastellati che il partito di Bibbiano è il partito perfetto per fare un'alleanza, no, questa volta deve raccontargli che Draghi è uno di loro: «Mi aspettavo il banchiere di Dio invece mi sono trovato davanti un grillino». Già pronto per uno show comico: «Mi chiama elevato io lo chiamo supremo, ha anche il senso dell'umorismo, non me lo aspettavo». Resta solo da trovare un Guardasigilli un po' più capace di Alfonso Bonafede di far sentire la propria voce al di là del Tirreno, dove il procuratore Capasso, look da rocker e chat di ordinanza con Palamara, ha mostrato di avere la schiena dritta. Certo per sistemare il puzzle Beppe e il nipote avvocato Enrico dovranno faticare, anche perché una delle ragazze che accusa Ciro di violenza è difesa da Giulia Bongiorno, in odore di ministero in quota Lega nel nascente governo. Anche per questo, Grillo forse accetterà la pace con il partito di Matteo Salvini. O forse no, temendo di dover trovare una sintesi anche processuale. Che purtroppo non si può trovare: una violenza c'è o non c'è. Tertium non datur. Ma Grillo alla logica aristotelico-scolastica preferisce l'ammucchiata. Rigorosamente partitica.

LA STRANO TRASFERIMENTO DEL MAGISTRATO DEL CASO “GRILLO” DALLA PROCURA DI TEMPIO DI PAUSANIA. Il Corriere del Giorno il 12 Agosto 2021. Alcuni giorni fa la pm Laura Bassani che ha coordinato, con il procuratore capo Gregorio Capasso, l’inchiesta sulle presunte violenze sessuali in Costa Smeralda, è stata trasferita dalla Procura di Tempio Pausania alla Procura dei Minori di Sassari. L’indagine su Ciro Grillo e i suoi tre amici si è conclusa e adesso il procedimento pende dinnanzi al giudice per le udienze preliminari Caterina Interlandi, che entro l’anno dovrà decidere se rinviare a giudizio Ciro Grillo, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, come richiesto dalla Procura. Sta accadendo qualcosa di strano sull’inchiesta su Ciro Grillo, figlio del comico Beppe garante del M5S, e i suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo nei confronti di due ragazze. Un’inchiesta finita sotto i riflettori soprattutto per il nome di uno dei protagonisti, figlio del fondatore del M5S. Alcuni giorni fa la pm Laura Bassani che ha coordinato, con il procuratore capo Gregorio Capasso, l’inchiesta sulle presunte violenze sessuali in Costa Smeralda, è stata trasferita dalla Procura di Tempio Pausania alla Procura dei Minori di Sassari. L’indagine su Ciro Grillo e i suoi tre amici si è conclusa e adesso il procedimento pende dinnanzi al giudice per le udienze preliminari Caterina Interlandi, che entro l’anno dovrà decidere se rinviare a giudizio Ciro Grillo, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, come richiesto dalla Procura. I fatti sono relativi a quanto accaduto due anni fa, secondo il racconto di una delle due ragazze denuncianti, quando dopo una serata in un locale di Porto Cervo in Costa Smeralda, a casa del figlio di Beppe Grillo, dove era stata invitata, avrebbe subito delle violenze sessuali. Lo stupro avrebbe riguardato solo lei, mentre all’amica, come emergerebbe da alcune fotografie e da un video, i quattro avrebbero soltanto appoggiato i propri organi genitali sul suo viso, mentre la ragazza dormiva. I magistrati inquirenti dopo avere chiuso l’indagine una prima volta, nel novembre 2020, un anno e mezzo dopo la denuncia, hanno poi riaperto l’inchiesta e chiusa dopo poche settimane con la richiesta di rinvio a giudizio per violenza sessuale di gruppo. Accuse sempre respinte dagli imputati che parlano di “sesso consenziente”. Adesso, nell’udienza preliminare, il procuratore Capasso in persona sarà costretto a presentarsi da solo in aula, davanti alla gup Caterina Interlandi. I magistrati nella richiesta di rinvio a giudizio per i quattro giovani genovesi hanno ripercorso tutte le tappe della vicenda. Come si legge nei documenti della Procura “il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato” dalla giovane ragazza ed “è riconducibile a Beppe Grillo”. Le indagini sono state chiuse per due volte, una prima volta a novembre e una seconda volta a inizio maggio, dopo i nuovi interrogatori dei giovani. E Ciro Grillo è stato riascoltato ma non dal Procuratore, come era accaduto le prime due volte, bensì dai Carabinieri di Genova, su delega del magistrato. Dichiarazioni spontanee per dare “ulteriori elementi” a favore degli indagati. A partire dal racconto della giovane. “Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno”, “afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka” e “costretta ad avere rapporti di gruppo” dai quattro giovani indagati che hanno “approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica” di quel momento. Sono soltanto alcune delle accuse della Procura di Tempio Pausania (Sassari) a carico dei quattro ragazzi della Genova bene. Pagine su pagine di orrori raccontati dalla giovane studentessa italo-norvegese S.J, di appena 19 anni, che avrebbe subito, quel 17 luglio. Il decreto ministeriale di trasferimento della pm Laura Bassani è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso e comunicato alla Procura di Tempio Pausania il 3 agosto scorso. La magistrata, all’indomani, il 4 agosto, ha dovuto prendere già possesso del suo nuovo ufficio giudiziario a Sassari. “Per noi è una perdita importante sotto il profilo umano e professionale anche se auguro alla collega tutto il bene possibile”, ha commentato all’Adnkronos il Procuratore capo di Tempio Gregorio Capasso che ha firmato con la pm Bassani la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro giovani. Laura Bassani ha affiancato il procuratore Capasso anche in un’altra inchiesta importante, quella alla movida 2020 in Costa Smeralda e i contagi Covid. Come e da chi sarà sostituita la pm Bassani in questi due procedimenti? “Non è questo il punto – dice il procuratore capo Capasso – la Procura di Tempio ha un carico di lavoro enorme e molti processi impegnativi. Il vero problema è che l’intero “ruolo”, così come i turni di reperibilità e le udienze della collega Bassani, andranno ora redistribuiti tra i pochi magistrati rimasti in servizio. Non mi piace guardarmi indietro e rievocare vicende che hanno messo a dura prova il nostro Ufficio e che sono note a tutti”. Sono oltre mille i fascicoli rimasti aperti. E Capasso aggiunge: “Subito dopo il mio insediamento, circa tre anni fa, avevo immediatamente trasmesso ai competenti organi del Ministero, al Csm e alla Procura Generale di riferimento una serie interminabile di relazioni riguardanti la situazione, a dir poco precaria, del mio ufficio giudiziario con specifico riferimento ai magistrati in servizio, al personale amministrativo – attualmente 13 unità in servizio rispetto ai 21 previsti dalla già modestissima dotazione organica – e all’immobile sede dell’ufficio. E oggi devo rilevare, purtroppo, che, in riferimento ai magistrati in servizio, così come per il personale amministrativo, la situazione non è in alcun modo cambiata. Anzi”. Ma su quanti magistrati in servizio può contare oggi la Procura di Tempio Pausania? “Oltre al sottoscritto che, tuttavia, al di là nell’organizzazione dell’ufficio e dell’attività giudiziaria in senso stretto, è costretto ad occuparsi in prima persona anche della gestione di tutti i servizi penali e amministrativi per le gravi carenze sopra evidenziate e soprattutto per la totale assenza di figure amministrative dirigenziali, come il dirigente, il direttore amministrativo e funzionari giudiziari, sono in servizio, sui 6 sostituti previsti in pianta organica, solo 2 giovani colleghi di prima nomina, di cui uno ha preso possesso dell’ufficio poco più di 9 mesi fa, nel novembre scorso… Mentre un terzo magistrato, proveniente dalla Procura di Verona ed applicato dal Csm al nostro ufficio, terminerà la sua esperienza a Tempio nel novembre prossimo”. “Attualmente dunque i magistrati in servizio sono 3 con una scopertura pari al 50 % anche se di fatto i magistrati in organico effettivo sono solo in 2 – aggiunge ancora il procuratore Capasso – un terzo si trova in congedo per maternità dal febbraio scorso. In tale, insostenibile situazione dal settembre prossimo sarà difficile persino garantire la partecipazione del pm alle udienze, tenuto conto che anche i magistrati onorari che partecipano alle udienze sono solo in 3, sui 7 previsti nella proposta ministeriale di rideterminazione degli organici della magistratura onoraria”. Alla luce di “queste emergenze” il Procuratore Capasso aveva richiesto formalmente il “posticipato possesso” della collega Bassani presso il suo nuovo ufficio di Sassari “in modo da consentire alla collega di definire almeno una parte del carico di procedimenti a lei assegnato e di provare a chiudere i processi più importanti da lei trattati”. Ma il Csm al cui interno siedono nel plenum due consiglieri laici nominati dal M5S non ha concesso il posticipato possesso. E il 31 luglio scorso è arrivato il provvedimento. “Per quanto riguarda il carico effettivo della Procura di Tempio Pausania, malgrado la situazione emergenziale Covid, il nostro ufficio” dice Capasso “nel corso dell’ultimo anno giudiziario ha incamerato la bellezza di 4.133 procedimenti a carico di noti. Il dato è sostanzialmente in linea con le valutazioni espresse dal Ministero della Giustizia che, nella proposta di rideterminazione degli organici dei magistrati, aveva evidenziato che nel Distretto di Cagliari ‘si registra ovunque un calo delle iscrizioni ad eccezione della Procura di Tempio che ha registrato un aumento del 16 %; in tale ufficio le iscrizioni pro capite ammontano a circa 922 e sono quindi superiori (addirittura) alla media nazionale (pari a 623)’. Ma occorrere “entrare” nel dato statistico per comprenderne la reale ed effettiva incidenza…”. Il procuratore spiega ed argomenta all’ ADN Kronos: “Prescindendo dalla qualità delle inchieste e dall’incidenza di alcune fenomenologie criminali di grosso impatto, quali lo spaccio di stupefacenti che come saprete, soprattutto nel periodo estivo, ha comportato lo scorso anno sequestri di ingenti quantitativi, in particolare di cocaina, presso i due scali portuali di Olbia e Golfo Aranci, e i reati del cosiddetto gruppo “Economia” (fallimentari, finanziari, riciclaggio etc.), evidentemente connessi agli spaventosi interessi economici del territorio di competenza, è sufficiente analizzare i dati dei due settori statisticamente più significativi e cioè quelli riferiti al cosiddetto Codice Rosso e al settore “Urbanistica e Ambiente”. “Quanto al Codice Rosso, nel corso dell’anno 2020, sono stati iscritti solo a carico di noti ben 208 procedimenti per reati riguardanti la violenza di genere ed in danno di minori (maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, stalking, lesioni aggravate …); in particolare, per il “Codice Rosso”, l’ufficio è stato direttamente e pesantemente impegnato, attesa la specificità tecnica delle relative fattispecie e l’urgenza richiesta che, com’è noto, impone, in alcuni casi, indagini serrate e provvedimenti urgenti” continua il procuratore Capasso “Quanto al settore Urbanistica-Ambiente, è stato effettuato, da me personalmente, un capillare monitoraggio del territorio, con particolare riferimento alla fascia costiera di competenza (da Porto Taverna Sud e sino a Badesi) al fine di individuare le situazioni di maggiore criticità, attività che ha poi comportato l’adozione di alcune significative e complesse misure cautelari reali (in 55 diversi procedimenti nel solo 2020 e in ben 95 diversi procedimenti nell’ultimo biennio)”. “Ma ciò che mi preme di più sottolineare è che il “carico” complessivo dei procedimenti, a cui vanno aggiunte le udienze e i turni di reperibilità, anche notturni, è gravato quasi esclusivamente su giovanissime colleghe di prima nomina, alcuni delle quali mamme di bambini di età inferiore ai tre anni” aggiunge “”In questo senso mi piace richiamare le valutazioni espresse lo scorso anno dal Procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario, peraltro esattamente coincidenti con quelle dell’anno precedente, laddove rilevava che ‘a Tempio Pausania si registra una forte pressione lavorativa sul singolo, pressione che in alcuni casi è inconciliabile con una sana e corretta gestione dei ruoli'”. “E aggiungerei le udienze e i turni di reperibilità h 24…“, dice Capasso che quest’anno non andrà in ferie. Oggi è in ufficio, come è stato tutti i giorni di agosto, e lo sarà fino a fine mese. “Sapete che non è possibile entrare nel dettaglio di inchieste in corso. E per i processi parlano le sentenze – dice il Procuratore- In realtà, dal mio punto di vista, gli esempi da voi citati non fanno altro che confermare che il nostro “giovane” Ufficio è sottoposto a pressioni elevatissime che, evidentemente, non possono essere “lette” solo attraverso l’analisi dei dati statistici”. “In ogni caso l’unica possibile soluzione, allo stato, è rappresentata dalle applicazioni distrettuali ed extradistrettuali”, dice e conclude il procuratore Capasso. “In tal senso provvederò immediatamente a richiedere applicazioni distrettuali ed extra distrettuali funzionali quantomeno a garantire una sana e corretta gestione dei ruoli, oltre ai turni di reperibilità e alle udienze e sono convinto che sia il Procuratore Generale e soprattutto il Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno sempre mostrato attenzione alla situazione della Procura di Tempio, daranno corso alle nostre richieste”. Il territorio gallurese è stato ed è al centro di inchieste delicate ed importanti, anche a livello nazionale, a partire dall’indagine per stupro di gruppo su Ciro Grillo alla vicenda degli yacht di lusso a quella sul noto complesso del Geovillage, da quella sul canile di Olbia a quella sui cavalli morti dopo essere stati trasportati su un traghetto con tratta Civitavecchia-Olbia. E, ancora, dalla vicenda del bimbo maltrattato e segregato in casa, al processo conclusosi a maggio 2020 in Corte d’Assise per il femminicidio di Arzachena per non parlare dei sequestri di ingenti quantitativi di stupefacente, in particolare cocaina presso gli scali portuali ed aeroportuali di Olbia. E delle indagini di cui si è detto e di rilevanza nazionale quale l’indagine Covid sulla movida estiva in Costa Smeralda e la vicenda “Grillo”…Legittimo chiedersi, viste le difficoltà d’organico della procura di Tempio Pausania, e il trasferimento della pm Bassani che ha condotto le indagini, cosa succederà adesso al procedimento giudiziario nel quale è indagato il figlio di Beppe Grillo?

  La denuncia del procuratore: "Abbiamo oltre mille fascicoli aperti". Ciro Grillo, trasferita la pm dell’inchiesta: “A rischio il processo, c’è carenza di organico”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Un nuovo colpo di scena nell’inchiesta che coinvolge Ciro Grillo e i suoi tre amici accusati di stupro di gruppo su due ragazze in Costa Smeralda. Laura Bassani, la pm che ha coordinato l’inchiesta con il procuratore capo Gregorio Capasso, è stata trasferita dalla procura di tempio di Pausania alla Procura dei Minori di Sassari. A darne notizia è l’AdnKronos che precisa che l’indagine si è conclusa e ora il fascicolo è davanti al giudice per le udienze preliminari, che entro l’anno dovrà decidere se rinviare a giudizio il figlio di Beppe Grillo Ciro, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, come chiesto dalla Procura. Adesso il procuratore sarà costretto a presentarsi da solo all’udienza preliminare davanti alla Gup Caterina Interlandi. Il procuratore Capasso, che ha firmato con la pm la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro giovani, lamenta la carenza di organici che potrebbe mettere a rischio anche il processo a Ciro Grillo e ai suoi amici. “Come sarà sostituita Bassani nei procedimenti in corso? Non è questo il punto – dice Capasso – la Procura di Tempio ha un carico di lavoro enorme e molti processi impegnativi. Il vero problema è che l’intero ruolo, cosi come i turni di reperibilità e le udienze della collega Bassani, andranno ora redistribuiti tra i pochi magistrati rimasti in servizio. Non mi piace guardarmi indietro e rievocare vicende che hanno messo a dura prova il nostro Ufficio e che sono note a tutti, ma i fascicoli rimasti aperti sono oltre mille”. Le accuse mosse contro Ciro Grillo e i suoi amici risalgono a fatti avvenuti 2 anni fa in Costa Smeralda. A denunciare è stata una ragazza che, secondo il suo racconto, avrebbe passato la serata con un’amica a casa Grillo in Costa Smeralda. Il gruppo si sarebbe ritrovato in un locale a Porto Cervo per poi andare insieme nella villa dei Grillo. Ed è lì che il gruppo di amici avrebbe violentato la ragazza che poi li ha denunciati. Con lei c’era un’amica ritratta in foto e video a sfondo sessuale dai 4 amici mentre dormiva. I pm, dopo avere chiuso l’indagine una prima volta, nel novembre 2020, un anno e mezzo dopo la denuncia, hanno poi riaperto l’inchiesta e chiusa dopo poche settimane con la richiesta di rinvio a giudizio per violenza sessuale di gruppo e revenge porn. Accuse sempre respinte dagli imputati che parlano di “sesso consenziente”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Elvira Terranova per adnkronos.com il 12 agosto 2021. L'inchiesta su Ciro Grillo e i suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo nei confronti di due ragazze, perde pezzi. Pochi giorni fa, come apprende l'Adnkronos, è stata trasferita dalla Procura di Tempio Pausania alla Procura dei Minori di Sassari Laura Bassani, la pm che ha coordinato, con il procuratore Gregorio Capasso, l'inchiesta sulle presunte violenze sessuali in Costa Smeralda. L'indagine si è conclusa e adesso il fascicolo è davanti al giudice per le udienze preliminari, che entro l'anno dovrà decidere se rinviare a giudizio Ciro Grillo, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, come chiesto dalla Procura. Un'inchiesta finita sotto i riflettori soprattutto per il nome di uno dei protagonisti, Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S. I fatti risalgono a due anni fa, in Costa Smeralda quando, secondo il racconto di una delle due ragazze, dopo una serata in un locale di Porto Cervo, a casa del figlio di Beppe Grillo, dove fu invitata, sarebbe stata violentata. Lo stupro avrebbe riguardato solo lei, mentre all’amica, come emergerebbe da alcune fotografie e da un video, i quattro avrebbero appoggiato i genitali sul viso, mentre la ragazza dormiva. I pm, dopo avere chiuso l’indagine una prima volta, nel novembre 2020, un anno e mezzo dopo la denuncia, hanno poi riaperto l’inchiesta e chiusa dopo poche settimane con la richiesta di rinvio a giudizio per violenza sessuale di gruppo. Accuse sempre respinte dagli imputati che parlano di "sesso consenziente". Adesso, nell'udienza preliminare, il procuratore in persona sarà costretto a presentarsi da solo in aula, davanti alla gup Caterina Interlandi. Il decreto ministeriale di trasferimento della pm Laura Bassani è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso e comunicato alla Procura di Tempio Pausania il 3 agosto scorso. La magistrata, all'indomani, il 4 agosto, ha preso già possesso del suo nuovo ufficio di Sassari. "Per noi è una perdita importante sotto il profilo umano e professionale anche se auguro alla collega tutto il bene possibile", dice all'Adnkronos il Procuratore capo di Tempio Gregorio Capasso che ha firmato con la pm la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro giovani. Laura Bassani ha affiancato Capasso anche in un'altra inchiesta importante, quella alla movida 2020 in Costa Smeralda e i contagi Covid. Come sarà sostituita in questi due procedimenti? "Non è questo il punto - dice Capasso - la Procura di Tempio ha un carico di lavoro enorme e molti processi impegnativi. Il vero problema è che l’intero “ruolo”, cosi come i turni di reperibilità e le udienze della collega Bassani, andranno ora redistribuiti tra i pochi magistrati rimasti in servizio. Non mi piace guardarmi indietro e rievocare vicende che hanno messo a dura prova il nostro Ufficio e che sono note a tutti". Sono oltre mille i fascicoli rimasti aperti. E Capasso aggiunge: "Subito dopo il mio insediamento, circa tre anni fa, avevo immediatamente trasmesso ai competenti organi del Ministero, al Csm e alla Procura Generale di riferimento una serie interminabile di relazioni riguardanti la situazione, a dir poco precaria, del mio ufficio giudiziario con specifico riferimento ai magistrati in servizio, al personale amministrativo - attualmente 13 unità in servizio rispetto ai 21 previsti dalla già modestissima dotazione organica - e all’immobile sede dell’ufficio. E oggi devo rilevare, purtroppo, che, in riferimento ai magistrati in servizio, così come per il personale amministrativo, la situazione non è in alcun modo cambiata. Anzi". Ma su quanti magistrati in servizio può contare oggi la Procura di Tempio Pausania? "Oltre al sottoscritto che, tuttavia, al di là nell’organizzazione dell’ufficio e dell’attività giudiziaria in senso stretto, è costretto ad occuparsi in prima persona anche della gestione di tutti i servizi penali e amministrativi per le gravi carenze sopra evidenziate e soprattutto per la totale assenza di figure amministrative dirigenziali, come il dirigente, il direttore amministrativo e funzionari giudiziari, sono in servizio, sui sei sostituti previsti in pianta organica, solo due giovani colleghi di prima nomina, di cui uno ha preso possesso dell’ufficio poco più di 9 mesi fa, nel novembre scorso… Mentre un terzo magistrato, proveniente dalla Procura di Verona ed applicato dal Csm al nostro ufficio, terminerà la sua esperienza a Tempio nel novembre prossimo". "Attualmente dunque i magistrati in servizio sono tre con una scopertura pari al 50 % anche se di fatto i magistrati in organico effettivo sono solo in due - dice ancora Capasso - un terzo si trova in congedo per maternità dal febbraio scorso. In tale, insostenibile situazione dal settembre prossimo sarà difficile persino garantire la partecipazione del pm alle udienze, tenuto conto che anche i magistrati onorari che partecipano alle udienze sono solo in tre, sui sette previsti nella proposta ministeriale di rideterminazione degli organici della magistratura onoraria". Alla luce di "queste emergenze" il Procuratore Capassi aveva richiesto formalmente il “posticipato possesso” della collega Bassani presso il suo nuovo ufficio di Sassari "in modo da consentire alla collega di definire almeno una parte del carico di procedimenti a lei assegnato e di provare a chiudere i processi più importanti da lei trattati". Ma il Csm non ha concesso il posticipato possesso. E il 31 luglio è arrivato il provvedimento. Per quanto riguarda il carico effettivo della Procura di Tempio Pausania, "malgrado la situazione emergenziale Covid, il nostro ufficio, nel corso dell’ultimo anno giudiziario ha incamerato la bellezza di 4.133 procedimenti a carico di noti", dice Capasso. "Il dato è sostanzialmente in linea con le valutazioni espresse dal Ministero della Giustizia che, nella proposta di rideterminazione degli organici dei magistrati, aveva evidenziato che nel Distretto di Cagliari "si registra ovunque un calo delle iscrizioni ad eccezione della Procura di Tempio che ha registrato un aumento del 16 %; in tale ufficio le iscrizioni pro capite ammontano a circa 922 e sono quindi superiori (addirittura) alla media nazionale (pari a 623)". Ma occorrere “entrare” nel dato statistico per comprenderne la reale ed effettiva incidenza…". E spiega: "Prescindendo dalla qualità delle inchieste e dall’incidenza di alcune fenomenologie criminali di grosso impatto, quali lo spaccio di stupefacenti che come saprete, soprattutto nel periodo estivo, ha comportato lo scorso anno sequestri di ingenti quantitativi, in particolare di cocaina, presso i due scali portuali di Olbia e Golfo Aranci, e i reati del cosiddetto gruppo “Economia” (fallimentari, finanziari, riciclaggio etc.), evidentemente connessi agli spaventosi interessi economici del territorio di competenza, è sufficiente analizzare i dati dei due settori statisticamente più significativi e cioè quelli riferiti al cosiddetto Codice Rosso e al settore “Urbanistica e Ambiente”. Quanto al Codice Rosso, nel corso dell’anno 2020, sono stati iscritti solo a carico di noti ben 208 procedimenti per reati riguardanti la violenza di genere ed in danno di minori (maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, stalking, lesioni aggravate …); in particolare, per il “Codice Rosso”, l’ufficio è stato direttamente e pesantemente impegnato, attesa la specificità tecnica delle relative fattispecie e l’urgenza richiesta che, com’è noto, impone, in alcuni casi, indagini serrate e provvedimenti urgenti. Quanto al settore Urbanistica-Ambiente, è stato effettuato, da me personalmente, un capillare monitoraggio del territorio, con particolare riferimento alla fascia costiera di competenza (da Porto Taverna Sud e sino a Badesi) al fine di individuare le situazioni di maggiore criticità, attività che ha poi comportato l’adozione di alcune significative e complesse misure cautelari reali (in 55 diversi procedimenti nel solo 2020 e in ben 95 diversi procedimenti nell’ultimo biennio)". Ma per il Procuratore "ciò che mi preme di più sottolineare è che il “carico” complessivo dei procedimenti, a cui vanno aggiunte le udienze e i turni di reperibilità, anche notturni, è gravato quasi esclusivamente su giovanissime colleghe di prima nomina, alcuni delle quali mamme di bambini di età inferiore ai tre anni". "In questo senso mi piace richiamare le valutazioni espresse lo scorso anno dal Procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario, peraltro esattamente coincidenti con quelle dell’anno precedente, laddove rilevava che 'a Tempio Pausania si registra una forte pressione lavorativa sul singolo, pressione che in alcuni casi è inconciliabile con una sana e corretta gestione dei ruoli'". Il territorio gallurese è stato ed è al centro di inchieste delicate ed importanti, anche a livello nazionale, a partire dall'indagine per stupro di gruppo su Ciro Grillo alla vicenda degli yacht di lusso a quella sul noto complesso del Geovillage, da quella sul canile di Olbia a quella sui cavalli morti dopo essere stati trasportati su un traghetto con tratta Civitavecchia-Olbia. E, ancora, dalla vicenda del bimbo maltrattato e segregato in casa, al processo conclusosi a maggio 2020 in Corte d’Assise per il femminicidio di Arzachena per non parlare dei sequestri di ingenti quantitativi di stupefacente, in particolare cocaina presso gli scali portuali ed aeroportuali di Olbia. E delle indagini di cui si è detto e di rilevanza nazionale quale l’indagine Covid sulla movida estiva in Costa Smeralda e la vicenda “Grillo”… "E aggiungerei le udienze e i turni di reperibilità h 24…", dice Capasso. Che quest'anno non andrà in ferie. Oggi è in ufficio, come è stato tutti i giorni di agosto, e lo sarà fino a fine mese. "Sapete che non è possibile entrare nel dettaglio di inchieste in corso. E per i processi parlano le sentenze - dice il Procuratore-In realtà, dal mio punto di vista, gli esempi da voi citati non fanno altro che confermare che il nostro “giovane” Ufficio è sottoposto a pressioni elevatissime che, evidentemente, non possono essere “lette” solo attraverso l’analisi dei dati statistici". "In ogni caso l’unica possibile soluzione, allo stato, è rappresentata dalle applicazioni distrettuali ed extradistrettuali", dice ancora Capasso. "In tal senso provvederò immediatamente a richiedere applicazioni distrettuali ed extra distrettuali funzionali quantomeno a garantire “una sana e corretta gestione dei ruoli”, oltre ai turni di reperibilità e alle udienze - fa sapere -e sono convinto che sia il Procuratore Generale e soprattutto il Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno sempre mostrato attenzione alla situazione della Procura di Tempio, daranno corso alle nostre richieste". 

Grillo Jr, processo a rischio: «Sono rimasti solo due pm…». La denuncia del procuratore di Tempio Pausania: «Trasferita la collega che si occupava del caso». Il M5S, intanto, chiede di traslocare il tribunale a Olbia. Simona Musco su Il Dubbio il 13 agosto 2021. L’inchiesta su Ciro Grillo e i suoi tre amici, accusati di stupro di gruppo nei confronti di due ragazze, rischia di rallentare clamorosamente. E ciò a causa del trasferimento dalla procura di Tempio Pausania alla procura dei minori di Sassari di Laura Bassani, la pm che ha coordinato, insieme al procuratore Gregorio Capasso, l’inchiesta sulle presunte violenze sessuali in Costa Smeralda. A riportarlo è l’AdnKronos, che ha raccolto lo sfogo del procuratore Capasso, che ha evidenziato anche le forti «pressioni» sul suo ufficio, non solo in termini statistici, ma anche mediatici. L’organico, a Tempio Pausania, è il primo problema: su un fabbisogno di sei sostituti procuratori, sono soltanto due i pm “attivi” attualmente e ciò nonostante la procura abbia registrato numeri altissimi, con 4.133 i procedimenti a carico di noti incamerati nell’ultimo anno. Ma alla situazione già disastrosa relativa alla pianta organica si aggiunge un altro fatto: il 19 luglio la senatrice grillina Elvira Lucia Evangelista – vice presidente della commissione Giustizia al Senato, nonché avvocato del Foro di Nuoro – ha proposto il trasferimento del tribunale di Tempio a Olbia, con la trasformazione del primo in un ufficio di prossimità. Il testo del disegno di legge non è ancora disponibile sul sito del Senato, ma l’iniziativa ha destato non poca preoccupazione nel mondo dell’avvocatura.

Grillo jr e gli altri a rischio processo. Il sospetto, infatti, è che il trasferimento del tribunale possa rallentare molti dei procedimenti giudiziari in corso, in alcuni casi fino alla prescrizione, compreso, appunto, quello relativo al caso Grillo. Il giudice per le udienze preliminari dovrà decidere entro l’anno se rinviare a giudizio Ciro Grillo, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, come chiesto dalla procura. Era stato soprattutto il video di Beppe Grillo in difesa del figlio a far aumentare a dismisura l’attenzione sulla vicenda, scatenando un’ondata di indignazione per i toni usati dall’ex comico, convinto che il giovane non abbia «fatto niente», riconoscendo al massimo la colpevolezza per il reato di “coglionaggine”. Ma a colpire fu soprattutto il trattamento riservato alla presunta vittima – e assieme ad essa a tutte le presunte vittime -, secondo Grillo certamente consenziente «perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia. È strano».

Adesso a rappresentare l’accusa davanti al gup Caterina Interlandi sarà il solo procuratore . Il decreto ministeriale di trasferimento della pm Bassani è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso e comunicato alla procura il 3 agosto. La magistrata ha dunque preso servizio a Sassari già il 4 agosto. «Per noi è una perdita importante sotto il profilo umano e professionale anche se auguro alla collega tutto il bene possibile – ha affermato all’Adnkronos il procuratore Capasso -. La Procura di Tempio ha un carico di lavoro enorme e molti processi impegnativi. Il vero problema è che l’intero “ruolo”, così come i turni di reperibilità e le udienze della collega Bassani, andranno ora redistribuiti tra i pochi magistrati rimasti in servizio». Un problema non nuovo a Tempio: subito dopo il suo insediamento tre anni fa, Capasso aveva trasmesso a ministero, Csm e procura generale delle relazioni riguardanti la situazione precaria dell’ufficio, «con specifico riferimento ai magistrati in servizio, al personale amministrativo – attualmente 13 unità in servizio rispetto ai 21 previsti dalla già modestissima dotazione organica – e all’immobile sede dell’ufficio». Ma la situazione non è affatto cambiata: oggi sono solo due i pm disponibili, entrambi di prima nomina, uno dei quali ha preso possesso dell’ufficio a novembre scorso, mentre un terzo, proveniente dalla Procura di Verona ed applicato dal Csm a Tempio, andrà via a novembre. «Attualmente dunque i magistrati in servizio sono tre con una scopertura pari al 50% anche se di fatto i magistrati in organico effettivo sono solo in due – dice ancora Capasso – un terzo si trova in congedo per maternità dal febbraio scorso. In tale, insostenibile situazione dal settembre prossimo sarà difficile persino garantire la partecipazione del pm alle udienze, tenuto conto che anche i magistrati onorari che partecipano alle udienze sono solo in tre, sui sette previsti nella proposta ministeriale di rideterminazione degli organici della magistratura onoraria». Proprio per tale motivo Capasso aveva richiesto formalmente il «posticipato possesso» di Bassani presso il suo nuovo ufficio di Sassari, per consentire di definire almeno una parte dei procedimenti a lei assegnati. Ma nulla da fare, nonostante la procura di Tempio abbia registrato un aumento del 16% delle iscrizioni, ovvero 922 pro capite, «superiori (addirittura) alla media nazionale (pari a 623)». L’unica possibile soluzione, allo stato, è dunque rappresentata dalle applicazioni distrettuali ed extradistrettuali. «Per noi non cambia nulla – ha commentato l’avvocato Gennaro Velle, difensore di uno dei quattro indagati -. Sapevamo che la dottoressa Bassani doveva prendere servizio al minorile, quindi non c’è nulla di nuovo. Il fascicolo, tra l’altro, è sempre stato seguito dal procuratore Gregorio Capasso».

Beppe Grillo, trasferita la pm che indagava sul figlio? Avete notato che subito dopo... una "stranissima coincidenza". Armando Moro su Libero Quotidiano il 13 agosto 2021. Il processo al figlio Ciro da ieri fa un po' meno paura a Beppe Grillo. L'umore del comico è molto lontano da quello dello scorso aprile, quando si sfogò registrando un video in cui, urlando, chiedeva ai magistrati, riferendosi a suo figlio e ai suoi amici accusati di violenza sessuale, «perché non li avete arrestati?». E polemicamente si rispondeva: «Perché vi sete resi conto che non è vero niente, non c'è stato niente, perché vi è sembrato strano che chi viene stuprato fa una denuncia dopo otto giorni...». Lontano quello stato d'animo, lontane le polemiche che quelle sue parole all'epoca avevano suscitato. Ora il fondatore del Movimento Cinque Stelle può dedicare le sue attenzioni ad altro e impiega il suo tempo rispolverando temi storicamente cari ai pentastellati. L'ecologia. Il reddito di cittadinanza. Altro che le beghe giudiziarie. Ieri, per esempio, mentre le agenzie battevano la notizia del trasferimento della pm che aveva coordinato l'indagine sul presunto stupro, Grillo rilanciava su Twitter un articolo (pubblicato sul suo blog) di Jayati Ghosh, che si occupa di riscaldamento climatico e che inizia con le poco rassicuranti parole: «L'Apocalisse è adesso». Nel commentare l'articolo, il fondatore dei Cinquestelle sceglieva comunque la via dell'ottimismo della volontà: «L'umanità ha ancora la possibilità di fare un passo indietro dal baratro cui siamo diretti. Che lo faccia, o le specie future si chiederanno perché abbiamo scelto di partecipare attivamente alla nostra stessa distruzione». È un ritorno in grande stile alle battaglie tradizionali del Movimento, quelle che ne hanno accompagnato la crescita dei primi anni, quando l'ipotesi di alleanza con Lega o Pd apparteneva al dominio della fantapolitica. Del resto, il giorno prima Grillo aveva ripreso un altro cavallo di battaglia: il reddito di cittadinanza. Ma non il compromesso al quale il M5S ha dovuto piegarsi in Parlamento. Grillo pensa in grande e propugna addirittura la tesi di un «reddito di base universale» che «può creare una società migliore e una vita migliore per tutti». «L'unica sfida», riconosce il comico, «è il finanziamento». E anche qui il rimando è a un articolo del suo blog, firmato da Shigheito Sasaki e ricco di alate citazioni di Martin Luther King. Come appaiono lontane, viste da quassù, le aule giudiziarie. 

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 13 agosto 2021. A ormai tre anni dai fatti il processo a Ciro Grillo, figlio del leader Cinque Stelle, rischia di insabbiarsi nei meandri della giustizia. Una dei pm che conduceva le indagini è stata infatti trasferita ad altro incarico e il suo capo, il procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, mette le mani avanti: non abbiamo le forze - sostiene - per garantire il regolare sviluppo dell'attività giudiziaria. Può essere, ma può essere anche che questo processo non s' abbia da fare, almeno non fino a che i Cinque Stelle saranno la lunga mano della magistratura dentro il governo. Intendo dire: la magistratura ha trovato la forza e le risorse per braccare a tempo di record Silvio Berlusconi per le sue cosiddette "cene eleganti" dove nessuna violenza o scorrettezza è mai stata provata, tanto che il Cavaliere è stato assolto per non aver commesso il fatto e sostiene di non trovare il tempo in tre anni per processare il figlio di Beppe Grillo per una violenza cristalizzata in video e nel racconto dettagliato della vittima? Ma chi vogliono prendere in giro questi magistrati che poi sono gli stessi che negano il problema dei tempi della giustizia? Io non so se Ciro Grillo è colpevole o innocente. So che lui e noi abbiamo diritto di sapere una verità in tempi certi che evidentemente non coincidono con quelli dell'opportunità politica. Siamo in un periodo in cui si spendono fiumi di parole - a volte anche a vanvera - sulla sacralità e le libertà delle donne e poi si fa finta di niente se una ragazza violentata deve attendere anni per avere giustizia solo perché il presunto violentatore è figlio di un importante leader politico? Dove è in queste ore la politica, dove sono in queste ore i giornali e i giornalisti che si autoproclamano "cani da guardia" contro gli abusi di potere? Cosa c'è di più scandaloso- molto più del ridicolo caso Durigon - di una ragazza a cui il sistema giustizia-politica nega un giusto processo? La verità è che i "cani da guardia" sono dei chihuahua di Conte, Grillo e della magistratura. Bravi solo a riportare l'osso ai padroni in cambio di un biscottino. E questo è un Fatto quotidiano e incontestabile.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2021. (…) A proposito di credibilità. Sallusti, noto giurista di scuola Palamara, ci insulta ("chihuahua di Conte e Grillo") perché il Csm ha trasferito una dei pm che indagava sul presunto stupro (che lui, garantista alle vongole, dà già per certo) di Grillo jr &C., per insabbiare il caso a fini politici. Non sa, il poveretto, che i magistrati sono inamovibili e trasferibili solo se lo chiedono (è il caso della pm Bassani) o se vengono puniti (non è il caso della pm Bassani); l'inchiesta è chiusa da tempo e l'udienza preliminare si terrà nella data fissata del 5 novembre col procuratore capo nei panni dell'accusa;

se la legge Cartabia fosse passata nella prima versione cara a Sallusti, il processo sarebbe morto in appello dopo 2 anni, mentre le modifiche seguite alla campagna del Fatto e la blocca-prescrizione Bonafede lo rendono inestinguibile; un solo governo tentò di trasferire un giudice per insabbiare un processo: il governo B. nel 2002 col giudice Brambilla nel processo Sme-Ariosto. Queste cose le sanno persino i chihuahua. I somari no. 

Ciro Grillo, chi c'è dietro trasferimento della pm del caso: "Una procedura informale". Giovanni M. Jacobazzi su Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Una procedura di trasferimento "informale". Il cambio di sede della pm Laura Bassani, dalla Procura di Tempio Pausania a quella dei Minori di Sassari, sarebbe avvenuto sulla base di interlocuzioni colloquiali. La ex titolare del fascicolo per violenza sessuale di gruppo ai danni di una diciannovenne, aperto nei confronti di Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5stelle, e di suoi tre amici, lo scorso 30 marzo aveva fatto domanda per essere trasferita a Sassari. Il Consiglio superiore della magistratura, nel Plenum del 19 giugno, aveva dato il via libera, essendo peraltro la magistrata l'unica aspirante per quel posto. La "presa possesso" era poi avvenuta il 4 agosto, rispettando i tempi ordinari che sono di circa 40 giorni dopo la delibera di Palazzo dei Marescialli. Il trasferimento della magistrata nella nuova sede aveva subito scatenato la dura reazione del suo ex capo, il procuratore Gregorio Capasso. La pm Bassani, infatti, aveva lasciato Tempio Pausania nel pieno della complessa fase dell'udienza preliminare, iniziata il 25 giugno e che si concluderà il prossimo 5 novembre, in cui si dovrà decidere se processare o meno Ciro Grillo ed i suoi amici. Gli accertamenti erano stati lunghi e difficili: la Procura di Tempio Pausania aveva inizialmente chiuso l'indagine nel novembre 2020, un anno e mezzo dopo la denuncia da parte della ragazza, per poi modificare la scorsa primavera il capo d'imputazione. Se le accuse erano sempre state respinte dagli imputati che avevano parlato di «sesso consenziente», i tempi dell'inchiesta avevano suscitato più di una perplessità. Da quanto è stato possibile ricostruire, al ministero della Giustizia, competente per le tempistiche dei trasferimenti dei magistrati con la pubblicazione sul "bollettino ufficiale", non sarebbe però stata presentata alcuna formale richiesta di posticipato possesso della pm Bassani. Nei giorni scorsi, invece, il procuratore Capasso aveva dichiarato alle agenzie di aver richiesto formalmente il «posticipato possesso» della magistrata presso il nuovo ufficio di Sassari, «in modo da consentire alla collega di definire almeno una parte del carico di procedimenti a lei assegnato e di provare a chiudere i processi più importanti da lei trattati». Ad iniziare, appunto, da quello nei confronti di Grillo junior. Le circolari prevedono che un procuratore se ha esigenze oggettive di non privarsi di un suo pm debba fare richiesta a via Arenula di posticiparne il trasferimento nella nuova sede. Il ministero della Giustizia, invece, avrebbe appreso solo «in via indiretta», attraverso informazioni della Procura generale di Cagliari, dell'esistenza di due richieste contrapposte: quella di posticipato possesso di Tempio Pausania e quella di anticipato possesso che era stata presentata dalla capa della Procura dei Minori di Sassari, Luisella Fenu, che premeva per l'immediato arrivo della pm. La Procura generale di Cagliari, da circa otto mesi senza una guida e a cui - evidentemente - avevano rivolto le istanze sia Capasso che Fenu, non avrebbe preso alcuna posizione a favore di Tempio Pausania o di Sassari. E a fronte di richieste "contrapposte" il ministero della Giustizia non aveva potuto far altro che disporre il trasferimento della magistrata con i tempi normali. A questo punto, per coadiuvare il procuratore Capasso, che come dichiarato ha un carico di mille fascicoli lasciati in eredità, la Procura generale di Cagliari potrebbe sempre decidere di "applicare", quindi prestare a tempo, la pm Bassani per il processo contro Grillo junior ed i suoi amici, essendo ella a conoscenza di tutti gli atti e avendo diretto personalmente le indagini. In caso contrario Capasso, oltre ad andare personalmente in udienza il prossimo 5 novembre, dovrà organizzarsi in qualche modo. La Procura di Tempio Pausania è ora rimasta con solo tre pm sui sei in pianta organica: il più "anziano" ha cinque anni di servizio, il più giovane dieci mesi. 

Antonio Rapisarda per “Libero quotidiano” il 13 agosto 2021. Come decifrare il trasferimento della pm Laura Bassani a pochi "metri" dal pronunciamento del Gup sul rinvio a giudizio? Lo abbiamo chiesto ad Emmanuela Bertucci, esperto avvocato penalista di Firenze. 

La sua impressione a caldo qual è?

«Da ciò che emerge, ha l'aria di un trasferimento ordinario. Chiesto dalla stessa pm alla Procura minorile di Sassari. Non sembra trattarsi, come si potrebbe immaginare, di un trasferimento d'imperio, magari con qualche connotazione politica». 

Il Procuratore Capasso ha parlato di una «perdita importante» in vista dell'eventuale processo...

«Il colpo, seguendo il ragionamento di Capasso, non è al processo Grillo ma "ai processi" della Procura, perché al momento ci sono in organico soltanto due sostituti su sei: una situazione emergenziale. Questo è sicuramente un tema importante per Tempio Pausania come per tutte le altre Procure: la carenza di organico». 

Quali i rischi?

 «In una situazione del genere se si arriva a una archiviazione o una prescrizione in fase di indagini possiamo dare la colpa ai magistrati? Nel momento in cui si ritrovano la propria scrivania piena di fascicoli dovranno dare una priorità che, certo, verrà data dall'ufficio in base alla gravità della vicenda. Necessariamente, però, la coperta è corta».

Nel caso specifico di Grillo?

 «In teoria non ci sono rischi. Se non quello del carico del lavoro: perché questo caso particolare era stato seguito dal Procuratore affiancato dalla dottoressa Bassani. Quindi il processo continua. Non ci saranno rallentamenti: l'udienza si terrà, ci sarà il procuratore o un altro sostituto ma non si rischia di far saltare le udienze. Però di fare salti mortali per gestire tutte le udienze, compresa quella Grillo, decisamente sì». 

Si parla tanto di "codice rosso" a tutela di donne e soggetti deboli. In questo caso, però, la corsia preferenziale non sembra procedere spedita.

«Questo è un tema che ho sentito trattare da diversi Procure della Repubblica: ben venga il codice rosso ma abbiamo il capitale umano per gestire bene tutti questi processi e gestirli con la velocità che il caso e la legge richiedono? 

È propagandistico mettere giù il codice rosso e i casi di violenza sulle donne se già a monte il governo ha la consapevolezza di non aver dispiegato uomini, mezzi e denaro sufficienti». 

Il trasferimento può diventare una carta a favore della difesa?

«Dipende. Se il trasferimento fosse stato imposto e ci fossero state motivazioni esplicitate, potevamo argomentare se si trattava di un punto a favore della difesa o no. Un trasferimento del genere invece, più che dare un punto alla difesa, apre a questa la speranza che il pm che verrà, se l'indagine non sarà più seguita da Capasso, possa dare un'altra interpretazione dei fatti. Capasso e Bassani hanno costruito un impianto accusatorio, basandosi su determinanti elementi, un altro pm potrebbe ravvedere altri elementi che potrebbero portare a valutazioni diverse». 

Ciro Grillo, ecco perché adesso il processo rischia di essere insabbiato: la strana mossa in procura. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 14 agosto 2021. Perché il ministro della Giustizia Marta Cartabia non ha disposto il "posticipato" possesso nei confronti della pm Laura Andrea Bassani? Che cosa ha impedito di differirne il cambio di sede, almeno fino alla fine dell'udienza preliminare? Si tinge di giallo il trasferimento, dalla scorsa settimana, della pm di Tempio Pausania alla Procura presso il Tribunale dei minori di Sassari. La dottoressa Bassani, come si ricorderà, era la titolare delle indagini sulla violenza sessuale di gruppo che sarebbe stata commessa da Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento Cinque stelle, e da tre suoi amici genovesi, Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia ed Edoardo Capitta, nei confronti di una diciannovenne italo-norvegese. La violenza, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sarebbe avvenuta la sera del 17 luglio del 2019 nella villa di Porto Cervo di Beppe Grillo. A riscontro di quanto denunciato dalla ragazza, una chat denominata "Official Mostri", estrapolata dai cellulari dei quattro, al cui interno, fra bestemmie e parolacce, erano descritti con dovizia di particolari i dettagli irripetibili di quanto accaduto quella sera d'estate.

LA DOMANDA - Lo scorso maggio era stato notificato agli indagati l'avviso di conclusione delle indagini. La prima udienza si era celebrata il 25 giugno davanti al gup Caterina Interlandi che aveva poi rinviato per la decisione al 5 novembre. La pm Bassani, lo scorso aprile, quindi ben prima della richiesta di rinvio a giudizio, aveva deciso di presentare domanda di trasferimento per la Procura dei minori di Sassari. Il Consiglio superiore della magistratura aveva pubblicato il posto a marzo e l'unica aspirante, come si può leggere nella proposta, era proprio lei. Il trasferimento, per la cronaca, era stato votato all'unanimità nel Plenum del 19 giugno. Relatore della pratica il togato, ex Unicost, Carmelo Celentano.

La pubblicazione sul "bollettone" ministeriale che ufficializza il cambio di sede, come previsto dalle circolari, era quindi avvenuta la scorsa settimana. Con il trasferimento della dottoressa Bassani la Procura di Tempio Pausania è rimasta a metà organico. «La Procura di Tempio ha un carico di lavoro enorme e molti processi impegnativi», e ora «l'intero ruolo, cosi come i turni di reperibilità e le udienze, andrà redistribuito tra i pochi magistrati rimasti in servizio», ha commentato ieri il procuratore Gregorio Capasso. Il nostro «giovane ufficio», ricorda il capo della Procura sarda, «è sottoposto a pressioni elevatissime che, evidentemente, non possono essere lette solo attraverso l'analisi dei dati statistici». Una Procura, quella di Tempio Pausania, molto sfortunata. Capasso, a settembre del 2018, era addirittura rimasto con un solo sostituto e implorava «una applicazione extradistrettuale e una pubblicazione straordinaria dei posti vacanti», all'allora potente consigliere del Csm Luca Palamara. Al momento, a Tempio Pausania - ricorda ancora Capasso - «oltre al sottoscritto sono in servizio, sui sei sostituti previsti in pianta organica, solo due giovani colleghi di prima nomina, di cui uno ha preso possesso dell'ufficio poco più di nove mesi fa, mentre un terzo magistrato terminerà la sua esperienza a Tempio nel novembre prossimo. Attualmente, dunque, i magistrati in servizio sono tre, con una scopertura pari al 50 per cento anche se di fatto i magistrati in organico effettivo sono solo in due. In tale, insostenibile situazione dal settembre prossimo sarà difficile persino garantire la partecipazione del pm alle udienze», avverte minaccioso Capasso.

SOLO DUE MAGISTRATI - C'e da domandarsi, allora, perché il ministero della Giustizia davanti ad un quadro di questo genere non abbia disposto il differimento del trasferimento della pm Bassani che conosce tutta l'indagine. La Procura dei Minori di Sassari, va ricordato, è un "micro ufficio": oltre al procuratore ci sono solo due sostituti, uno dei quali, appunto, è dall'altro giorno la ex pm dell'indagine sul figlio di Grillo. Il procuratore Capasso dovrà ora necessariamente coassegnare il fascicolo ad un altro sostituto. Sperando che nel frattempo non succeda qualcos'altro. 

Il trasferimento di Tempio Pausania? A pensar male si fa peccato ma…Il processo al giovane Grillo rischia di saltare? Francesco Damato su Il Dubbio il 14 agosto 2021. Lucifero è arrivato a Tempio Pausania, l’antica Capitale della Gallura, prima che in tutto il resto della Sardegna. Vi è arrivato non con le correnti d’aria calda che ne hanno portato il nome in questa torrida estate, ma con una coincidenza diabolica fra i tempi di un trasferimento e quelli del procedimento giudiziario riguardante il figlio di Beppe Grillo e gli amici sospettati di stupro per una notte da “coglioncelli” – parola del fondatore e garante del Movimento 5 Stelle- trascorsa con due ragazze il 19 luglio di due anni fa in un appartamento della Costa Smeralda confinante con quello in cui dormiva la moglie del comico genovese. Il trasferimento è quello della sostituta procuratrice Laura Bassani, che ha condotto col capo della Procura Gregorio Capasso le indagini su quella notte e dal 4 agosto lavora invece nel tribunale non lontano di Sassari, dove si occupa di minorenni. Il suo ormai ex superiore, come ha raccontato lui stesso ad un’agenzia di stampa, ha inutilmente cercato di ritardarne il trasloco con una richiesta tecnicamente chiamata di “posticipato possesso”, trovandosi il suo ufficio già da molto tempo sotto organico e dovendo affrontare, a questo punto con un solo sostituto a disposizione nella gestione di oltre quattromila procedimenti, il passaggio dell’udienza preliminare del 5 novembre proprio sul caso Grillo. Il povero Capasso è stato letteralmente travolto dalla fretta con la quale in alto – molto più in alto di lui, temo- è stata voluta l’esecuzione del trasferimento ordinato il 19 luglio, in casuale – per carità- ma sfortunatissima coincidenza col secondo anniversario del fattaccio, chiamiamolo così, che ha moltiplicato, quanto meno, l’esposizione mediatica del tribunale di Pausania. Non parliamo poi del carico da novanta di quel furioso video nel quale Grillo in persona il 19 aprile – anche lui di 19- si scagliò contro gli inquirenti, in qualche modo sfidandoli a prendersela direttamente con lui in manette. Ma al massimo, ammettiamolo, la colpa di Grillo, come quella di tanti padri al suo posto, poteva e potrebbe essere quella di non avere avuto pazienza o fortuna abbastanza per proteggere il figlio dai rischi della “coglioneria” adolescenziale. Per la fiducia che merita la ministra della Giustizia Marta Cartabia con la sua autorevolezza e competenza professionale, tanto più apprezzabili quanto più sono state contestata recentemente da magistrati abituati ad una forte esposizione politica e agli incoraggiamenti del solito Fatto Quotidiano, spero che lei sia stata la prima a sorprendersi quando ha saputo di quel trasferimento così rapidamente non dico disposto ma eseguito. Uno degli avvocati dei giovani a rischio di processo per stupro ha detto che della possibile partenza da Tempo Pausania della sostituta procuratrice Bassani si parlava già da tempo negli ambienti giudiziari della località gallurese. Oso pensare che, peraltro impegnata proprio attorno al 19 luglio nelle faticose trattative con i grillini sulla riforma del processo penale, comprensiva della prescrizione tagliata con l’accetta dal suo predecessore pentastellato all’esaurimento del primo grado di giudizio, la ministra Cartabia avrebbe saputo mettere al riparo il trasferimento della sostituta procuratrice di Tempio da cattive interpretazioni. Che sono puntualmente arrivate con quel titolone di prima pagina di Libero sulla “Giustizia amica dei grillini” in rosso e quel “Provano a insabbiare il processo a Grillo jr” in nero. Ad alimentare i sospetti ha contribuito anche un’altra diabolica coincidenza: l’iniziativa presa proprio in questi tempi dalla vice presidente pentastellata della Commissione Giustizia del Senato, Elvira Lucia Evangelista, di rilanciare un vecchio progetto di trasferire ad Olbia l’intero tribunale di Tempio Pausania, che diventerebbe così un semplice “ufficio di prossimità”. Si sa che in queste operazioni, specie in assenza di detenuti, con imputati in libertà, i tempi processuali sono i primi a subirne gli effetti negativi. Si, lo so, a pensare male, come hanno fatto i colleghi di Libero, si fa peccato ma si azzecca, diceva un po’ in romanesco la buonanima di Giulio Andreotti. Il cui figlio Stefano ha appena assicurato in una intervista di non avere trovato, fra le carte del padre, traccia di questa famosa licenza attribuita per decenni allo storico leader democristiano e da questi mai smentita in vita: peraltro neppure originale per essere altri risaliti addirittura a Sant’Agostino come primo e indubitabile autore. Non tutti d’altronde possiamo aspirare al più antico ordine cavalleresco dell’Inghilterra: quello medievale della Giarrettiera. Che ripete nel motto francese le parole opposte dal re a chi ne guardò con sospetto la premura di raccogliere la giarrettiera, appunto, perduta da una contessa e di fargliela reindossare: Honi soit qui mal y pense. Sia vituperato chi ne pensa male. Ho un certo disagio a parlare di ordini cavallereschi, di dame e di re a proposito di vicende da cronache giudiziarie miste a cronache politiche dei nostri dannatissimi tempi. Ma sono gli inconvenienti del mestiere.

Domenico Pecile per corriere.it il 13 agosto 2021. «Adesso la cosa più grande, la più importante è il silenzio perché il dolore è troppo. È vero, non ci ho pensato su due volte e sono partito come un missile verso quell’appartamento. Non ricordo quel tratto di strada tanta era la rabbia che provavo. Ho bussato, ho suonato. Niente. E allora ho sfondato la porta a spallate. Volevo vederli in faccia. Uno a uno. Si sono chiusi a chiave in una stanza. Li sentivo piagnucolare... Conigli. Poi hanno gridato aiuto, sì, pazzesco, loro chiedevano di essere aiutati dopo quello che avevano fatto a mia figlia. Le loro grida hanno richiamato alcuni condomini. Ho desistito, distrutto, vinto, incredulo». A parlare è Mario (nome di fantasia, ndr) il padre della ragazza 18enne che martedì pomeriggio sarebbe stata violentata in un appartamento di Lignano Sabbiadoro da cinque ragazzi italiani, di cui uno minorenne, tutti senza precedenti, ma che adesso sono indagati per violenza sessuale. La collera, il rancore, il livore, il desiderio di vendetta hanno lasciato il posto alla tristezza, alla mestizia, all’incredulità. Mario scuote la testa, poi aggiunge: «Mia figlia? Non lo so, ma credo stia metabolizzando quello che ha subito. Ci ha parlato, ci ha riferito. Non è stato facile per lei. Ci vorrà tempo, lo so. Per lei soprattutto, ma anche per noi. E so già che qualcuno azzarderà commenti improvvidi. Vede, la verità è che il lupo è sempre in agguato. Ed è davvero folle pensare che le ragazzine se la vanno a cercare. Si fidano, sono giovani. Erano le tre del pomeriggio o giù di lì. Cose impensabili ai nostri tempi. Io confido nella giustizia». Già, Mario confida nella giustizia, eccome. «Anche se — aggiunge — sono consapevole che potrei essere denunciato perché ho violato la proprietà privata. Ma non mi preoccupo di questo. Non è nemmeno vero che avrei voluto farmi giustizia da solo. Mia figlia mi aveva raggiunto in spiaggia. Era stravolta. Mi ha raccontato, avrei voluto chiamare la polizia, ma ero senza il cellulare. Quando sono arrivate le forze dell’ordine un poliziotto mi si è avvicinato. Ero stravolto, fuori di me, disperato. Lui si è avvicinato e ha detto «mi metto nei suoi panni, capisco». Mi sono sentito meno solo, meno triste. Voglio soltanto che mia figlia... lei parla, ci parla, ma cerchiamo di non crearle ansia. Sì, confido nella giustizia». Intanto ieri, il vice questore di Udine Massimiliano Ortolan, che coordina le indagini, ha chiesto al pm un nuovo interrogatorio della ragazza alla presenza di una psicologa. «La nostra richiesta — precisa — è motivata dal fatto che a nostro avviso la giovane è parsa molto provata, vulnerabile, sofferente». Lo stesso Ortolan ha fatto sapere che i cellulari dei cinque ragazzi, ma anche le lenzuola, sono stati posti sotto sequestro. Gli effetti personali serviranno per un confronto di tracce di Dna con quello degli indagati. Loro hanno sostenuto che la ragazza fosse consenziente e sono andati via da Lignano. Non sono state emesse misure cautelari e non hanno vincoli di permanenza in Friuli-Venezia Giulia: sono tornati in Veneto, Lombardia e Piemonte.

Ergastolo ostativo, Meloni chiama a raccolta. Ma risponde il Pd: «Basta propaganda». Si apre lo scontro Pd-FdI. La senatrice dem Rossomando: «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra». Il Dubbio il 18 aprile 2021. «Fratelli d’Italia rivolge un appello a tutte le forze politiche: difendiamo insieme la legittimità dell’ergastolo ostativo, una norma sacrosanta e fondamentale per combattere la criminalità organizzata. Siamo già al lavoro per presentare una proposta di legge, senza escludere la possibilità di una modifica costituzionale, per mantenere intatto uno dei pilastri della normativa antimafia, da sempre combattuto e osteggiato dai boss. Il Parlamento deve parlare con una voce sola e condurre unito questa battaglia di legalità e civiltà». A lanciare l’appello è la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dopo la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato «illegittimo» l’ergastolo ostativo e ha dato dato tempo un anno al Parlamento per legiferare. «Non possiamo cedere e consegnare alla mafia la vittoria su quella che da sempre considera la madre di tutte le battaglie che consentirebbe ai peggiori boss di usufruire di diversi benefici penitenziari o di uscire di prigione. Sarebbe la resa totale dello Stato», ha aggiunto Meloni. «Le forze politiche raccolgano l’appello di Giorgia Meloni affinché l’ergastolo ostativo non sia cancellato dal nostro Ordinamento», scrivono in una nota il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato e componente della Commissione Antimafia, Luca Ciriani, il capogruppo di FdI in Commissione Antimafia, Antonio Iannone e il segretario della Commissione Antimafia, Wanda Ferro, deputato di FdI. «La recente decisione della Consulta impone al Parlamento di intervenire ma questo va fatto rispettando quei tantissimi servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia. Infatti, l’ergastolo ostativo è un baluardo nell’azione di contrasto alla mafia, uno strumento decisivo nelle mani dei magistrati e adesso sarebbe assurdo e inaccettabile che questo fosse messo da parte. Senza considerare che rappresenterebbe un pessimo segnale, se non di resa ma senza dubbio di minore intensità, nell’azione di contrasto alla mafia. Una mafia, e i recenti arresti lo confermano, che continua ad essere una minaccia per la nostra Nazione. Per questo non si può rimanere a guardare, l’istituto dell’ergastolo ostativo va sostenuto e difeso nella sua legittimità», concludono i deputati di FdI. «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra. Su ergastolo ostativo assicuriamo a Giorgia Meloni che il Parlamento sarà in grado di difendere la legalità ma coerentemente con i principi costituzionali», replica su Twitter la senatrice Pd e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando. «La proposta della Meloni è irricevibile. Per noi non devono essere contrapposti il rispetto dei principi costituzionali e la lotta alla mafia», aggiunge il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori dem e capogruppo del Pd nella Commissione Antimafia. «La stessa Corte Costituzionale invita il Parlamento a pensare a una nuova norma, che escluda la possibilità per i mafiosi condannati di tornare ad avere rapporti con le organizzazioni criminali, senza violare i principi costituzionali sulle finalità delle pene. È possibile farlo e il Parlamento deve impegnarsi per questo», scrive Mirabelli. «Meloni – conclude il senatore – preferisce fare propaganda e addirittura prefigurare pericolose modifiche costituzionali, ma non è così che troveremo le soluzioni per continuare a combattere le mafie». «Quando la Corte Costituzionale accerta l’illegittimità del carcere ostativo e la ministra della Giustizia riconduce alla Costituzione i principi di giustizia e brevità della funzione giurisdizionale, i tempi sono maturi per fare un passo avanti verso una società orizzontale in cui lo Stato garantisce diritti, doveri e libertà di tutti», scrivono invece Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali Italiani. «A chi, spesso fregiandosi del tricolore, rivendica il fine pena mai e l’assoggettabilità a indagini e processi sempiterni, rispondiamo con i principi che da sempre fanno parte del nostro patrimonio costituzionale. È arrivato il momento di rompere gli indugi e rendere vivi quei principi. Lo Stato che uccide di carcere colpisce una persona diversa da quella che ha commesso un reato e quindi è anch’esso un omicida. Lo Stato che non si preoccupa di conformare l’amministrazione della giustizia al concetto di giustizia tratta i suoi cittadini da sudditi. Uno Stato così deve essere cambiato. Bisogna farlo oggi in un momento in cui gli equilibri sociali sono tanto instabili. È necessario edificare sui valori di una società più giusta in cui chi nessuno è perduto per sempre e la divisione tra buoni e cattivi è una semplificazione irresponsabile che prima o poi colpisce tutti. Siamo con Cartabia se avrà il coraggio di andare fino in fondo», concludono i Radicali.

Risorto l’asse giallo-verde. L’ergastolo ostativo riunisce Salvini e 5 Stelle. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Lega e Movimento 5 Stelle tornano a marciare insieme contro la modifica della norma. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 aprile 2021. La Consulta spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Almeno su un tema, quello dell’ergastolo ostativo, su cui la Corte costituzionale ha concesso al Parlamento un anno di tempo per rimettere mano alle norme in vigore, considerate incostituzionali. E così, nel governo di tutti e di nessuno i partiti si posizionano liberamente sull’argomento in base alle proprie sensibilità: sull’ergastolo ostativo non c’è ragionamento di opportunità politica che tenga. L’alleanza tra Pd e M5S, ad esempio, può anche andare in malora, la differenza tra dem e grillini su argomenti legati alla giustizia è troppo profonda per essere colmata in pochi mesi: convinti della necessità di assecondare la Corte i primi, mossi dalla fede nella pena severa i secondi. Così, potere della Consulta, risbocciano all’improvviso vecchi amori che il rancore sembrava aver sepolto, come quello tra Lega e Movimento, i coniugi del primo governo Conte finiti a scagliarsi l’argenteria addosso dopo il “tradimento” del Papeete. L’ergastolo ostativo potrebbe ridistendere gli animi. O così sembra ad ascoltare il punto di vista intransigente dei vecchi alleati. Anche se con sfumature e toni diversi, salviniani e contiani si schierano sulla stessa parte della barricata: l’ergastolo ostativo non si tocca. «La nostra legislazione antimafia è la migliore al mondo, ed è stata scritta con il contributo di persone che hanno sacrificato la loro vita per servire il Paese», dice l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, prima di annunciare: «Subito dopo il deposito delle motivazioni della decisione della Corte costituzionale, il Movimento cinque stelle presenterà una proposta di legge per proteggere e salvaguardare quell’impianto normativo che ha consentito di fare passi avanti enormi nella lotta alle mafie». Bonafede è sicuro che in Parlamento il M5S riuscirà a trovare ampia convergenza sulla proposta pentastellata «in quanto la battaglia contro la criminalità organizzata di stampo mafioso è patrimonio comune a tutte le forze politiche». L’ampia convergenza auspicata dall’ex Guardasigilli, al momento si esaurisce però alle forze della destra. E neanche tutta, visto che Forza Italia esprime una posizione molto diversa dagli alleati. Salvini in compenso è perentorio: «Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si toca, dicano quello che vogliono. E basta», twitta senza giri di parole il leader della Lega. La Corte costituzionale, in altre parole, può dire ciò che vuole, con chi non collabora bisogna buttare la chiave, è il messaggio neanche troppo velato dei sostenitori della galera fino alla morte. «Le indicazioni della Consulta vanno tenute nel doveroso conto ma con altrettanta chiarezza va riaffermato che la lotta senza quartiere a mafie e criminalità organizzate non può tradire incertezze o passi indietro», scrivono in una nota i parlamentari in commissione Antimafia del Carroccio. «Chi sceglie la via dell’illegalità e non sente alcuna necessità di pentimento, non può vedersi riconosciuti benefici», aggiungono, assicurando il contributo della Lega per rispondere alla Consulta, senza però mettere in discussione le proprie convinzioni: nessuno «spazio o ambiguità verso chi delinque impunemente». Parole che sembrano rubate di bocca ai colleghi del Movimento impegnati in commissione Giustizia alla Camera, che a loro volta scrivono: «L’unico modo che il mafioso ha per ravvedersi è collaborare con la giustizia». Dare invece «la possibilità di accedere a benefici penitenziari e liberazione condizionale, in assenza di collaborazione, significa indebolire principi e capisaldi nella lotta alle mafie voluti, tra gli altri, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». L’intransigenza pentastellata si scontra però con l’atteggiamento “laico” del Pd, convinto che non si possano ignorare le indicazioni della Corte costituzionale su un tema così delicato. «Il Parlamento non può rimanere ostaggio di chi pensa di dovere affrontare una questione così delicata con frasi superficiali del tipo “l’ergastolo non si tocca” o “la sentenza è una vergoga”», dice il deputato dem Carmelo Miceli, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia. Bisogna invece trovare il «giusto bilanciamento tra la funzione emendativa della pena e l’aspettativa di giustizia delle vittime, tra la tutela del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e la necessità di interrompere la pericolosità sociale che deriva dal carattere permanente del vincolo associativo mafioso», aggiunge Miceli. Tutto questo si può fare, concluce l’esponente Pd, «basta avere il coraggio e la determinazione di affrontare il dibattito senza cedere alla demagogia spicciola e al populismo sconsiderato».

Le polemiche. Salvini "forcaiolo" contro il vaccino ai detenuti del Lazio, ma dimentica che nella "sua" Lombardia accade da marzo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Aprile 2021. “Roba da matti”, dice Matteo Salvini riferendo alla campagna vaccinale per i detenuti, col leader leghista che accusa “Lazio e Campania” di voler vaccinare gli ospiti delle carceri italiane “prima anziani e persone disabili”. È l’ultima boutade manettare e populista dell’ex ministro dell’Interno, che su Twitter si scaglia contro la scelta del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti di somministrare le prime dosi del vaccino Jansenn, l’azienda del gruppo Johnson & Johnson, ai detenuti. Parole contestate da più parti. In primis l’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato: “Che un ex Ministro degli Interni definisca "roba da matti" la vaccinazione degli agenti della penitenziaria e dei detenuti è un’azione da maramaldo. Il Lazio è tra le prime Regioni italiane per copertura vaccinale agli anziani e in generale per livello di somministrazioni. Su queste questioni – conclude D’Amato – serve serietà, in Lombardia e Veneto sono iniziate a marzo le vaccinazioni nelle carceri”. E sulla stessa lunghezza d’onda è anche Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio: “A Salvini non far sapere che in Lombardia e Veneto le vaccinazioni Covid 19 in carcere sono iniziate a marzo”, scrive in un tweet. Ma è tra i commenti al tweet di Salvini che si ricorda al leader leghista che chi è ristretto in un carcere gode degli stessi diritti alla salute di un cittadino ‘libero’. Non solo: nelle carceri, Salvini lo dimentica, lavora anche personale amministrativo e polizia penitenziaria. C’è quindi chi ricorda all’ex ministro che, causa spazi angusti e sovraffollamento, sono stati e sono ancora oggi numerosi i focolai: “In carcere ci si infetta e si infetta anche chi lavora. Come mio fratello, agente penitenziario che si è preso il covid a lavoro, una settimana prima del suo appuntamento per il vaccino. E guardi un po’, mio fratello ha infettato tutto il suo nucleo familiare”, è una delle testimonianze tra le risposte al leader della Lega.

Il saggio. “L’altra metà di Dio”, il confine tra vendetta e giustizia nel segno di Sciascia. Filippo La Porta su Il Riformista il 28 Marzo 2021. Il presupposto di ogni pensiero critico è dimostrare che la nostra società non è né “naturale” né “necessaria”. Poco più di un anno fa Ginevra Bompiani ha intrapreso un viaggio nel cuore di tenebra della nostra stessa civiltà: L’altra metà di Dio (Feltrinelli 2019), un saggio notevole di storia delle idee, mitografia, antropologia, psicanalisi, critica dell’economia politica, a partire da un rovello personale: la nostra civiltà, caratterizzata dal dominio maschile, dallo sfruttamento intensivo della natura, da un’ansia distruttiva e autodistruttiva, non è un destino. Esplorazioni archeologiche hanno scoperto le tracce di una civiltà matriarcale pacifica ed egualitaria che risale al paleolitico e che poi è stata cancellata. Ma in questa occasione mi interessa la seconda parte, dedicata alla punizione. Abbiamo già visto che Sciascia nelle sue innumerevoli riflessioni sulla giustizia e i giudici ha sempre in mente che la vendetta è la forma primitiva della giustizia. Seguiamo allora il filo del ragionamento della Bompiani, di esplicita ispirazione foucaultiana. In particolare la scrittrice insiste su un punto: «La vendetta porta allo scoperto il piacere di fare del male impunemente», così come – del resto – avviene in guerra (e gli uomini quando hanno licenza di uccidere sembra proprio che tendano ad esagerare, annotava Simone Weil durante la Guerra Civile spagnola). Si pensi anche al conte di Montecristo, dopo la vendetta dovrebbe ricompensare chi gli ha fatto del bene, eppure indugia: «L’abitudine alla vendetta gli ha preso la mano?». Per questo motivo, continua Ginevra Bompiani «la Legge cerca di allontanare la vendetta dalla punizione, moltiplicando gli intermediari», separando l’offeso dal colpevole e consegnandolo a figure diverse, indifferenti, inemotive, quasi per farci dimenticare quella origine, quel gusto impuro della vendetta di cui perfino un dio prova rimorso. Il punto è che «nella vendetta c’è sempre un resto», dato che chi infligge un supplizio non riesce mai a trovare pace , nessuna punizione annulla il fatto compiuto. La vendetta è la negazione di ogni misura, e inutilmente la giustizia umana tenta di simulare questa misura. La bilancia non si raddrizza mai, neanche nella legge del taglione: «La mano tagliata al ladro non ha soltanto rubato. Con lei vengono soppressi anche i gesti quotidiani, le abitudini, le carezze, le abilità». La legge è solo ripetizione, però “lecita”, dello stesso atto trasgressivo. Come sottolinea san Tommaso, sempre «si cerca una vendetta maggiore di quella dovuta». In un certo senso con la vendetta ci imbattiamo nel nucleo più intimo, misterioso e perverso, dell’ira umana. Secondo Gregorio Magno l’ira deriva dall’invidia, da quello stesso rodimento interiore, da quella ipertrofia dell’immaginazione: l’iracondo cercando ossessivamente un colpevole, che incarna la causa dell’ingiustizia subita ( e può esservi anche una ira giusta: Achille nell’Iliade), non lo trova mai veramente, dato che questi si svela come un fantasma, come il tentativo di trasferire il male fuori di noi. L’ira finisce nei sette vizi capitali del Purgatorio dantesco in quanto, benché nata dalla convinzione di un torto subito, diventa subito, come tutti gli altri, un sentimento dispotico e autodistruttivo, una ossessione che ci assorbe completamente. Se nessuna pena può ricondurre allo stato precedente può farlo però – osserva Ginevra Bompiani – la cura del medico, che riporta il paziente allo stato di salute precedente, o anche la punizione come cura: Socrate nel Gorgia invita chi commette ingiustizia ad andare spontaneamente dal giudice, come si va dal medico: «La giusta pena è una cura a cui il colpevole si espone spontaneamente per essere guarito». E anche se questo stesso ragionamento porta san Tommaso a teorizzare la pena di morte in nome del bene comune: la cura è sempre volontaria e però anche obbligatoria. Infine, conclude Bompiani: l’unica perfezione perfetta sarebbe quella del capro espiatorio, il quale veniva scelto a caso (la colpa gli era addossata ritualmente), e il caso non fa errori, al contrario di qualsiasi scelta: in tal caso «il rapporto tra colpa e punizione diventa puro», innocente e, saltando ogni possibile legame tra castigato e castigatore, a quel punto si dissolve anche la ansia di vendetta. Ora, se davvero la vendetta, mascherata da giustizia “oggettiva”, sempre ci prende la mano, come dimostra almeno un racconto stupendo di Kleis, Michele Kolaas, che fare? Dobbiamo eliminare la giustizia? No, certo, ma occorre sempre ricordare quella sua origine perversa,, maledetta e fuori controllo, perché solo tale memoria può imporci una qualche misura. E soprattutto, come osservò Sciascia, la giustizia deve essere amministrata non solo con equilibrio ma con una capacità di empatia, con uno spirito di immedesimazione. In una lettera a Pertini, alla quale non fu mai data risposta, Sciascia propose di far trascorrere a ogni futuro giudice tre giorni dentro un carcere! Il luogo più adatto per ricordarsi del nesso tra giustizia e vendetta.

ENNESIMO AUTOGOL DELLA LEGA PUGLIA: TROPPO SPAZIO AGLI INDAGATI E IMPUTATI. Il Corriere del Giorno il 28 Marzo 2021. Se il 2020 è stato un anno difficile per Matteo Salvini, che guida la Lega dal nuovo spirito nazionalista, ancora prima nei sondaggi ma in forte calo rispetto alle elezioni europee del 2019, Il “Capitano” nel 2021 sta mostrando tutta la sua fragilità politica dell’uomo “solo” al comando, con la macchina della propaganda, che costa cara, inceppata e con le procure che hanno fatto luce su alcuni “misteri” delle casse leghiste. Salvini non prende mai sul serio le grane giudiziarie degli uomini a lui più vicini, dirigenti di partito che ha scelto e ha nominato. Fino a quando? Il leader della Lega Matteo Salvini non deve aver molto chiare le idee sulla sua rappresentanza politica in Puglia che alle scorse elezioni regionali del settembre 2020 ha perso il 16% delle preferenze degli elettori, ad un anno del boom elettorale in occasione delle Elezioni Europee di giugno 2019 . Ma la “crisi” della Lega non soltanto sul versante politico, ma sopratutto dal punto di vista giudiziario. Come ben noto a tutti il senatore leghista Roberto Marti, recentemente “nominato” segretario regionale della Lega in Puglia(dopo un disastro elettorale in Basilicata !) risulta attualmente indagato dalla Procura di Lecce per risponde delle accuse di tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato, in concorso con altri imputati “eccellenti”. La posizione di Roberto Marti risultava “stralciata”. Sotto la lente d’ingrandimento della Procura era finita la vicenda del pagamento dell’alloggio presso un B&B e poi l’assegnazione di un immobile confiscato alla mafia. Destinatario di questo “trattamento di favore” il fratello di un boss. Una vicenda sulla quale incombe l’ombra della prescrizione, poiché son passati oltre 5 anni dai fatti contestati dalla Procura. Occorre ricordare che, nei mesi scorsi, si erano tenute numerose sedute alla Camera per determinare la competenza sul nodo intercettazioni. In precedenza, il gip Giovanni Gallo del Tribunale di Lecce aveva accolto l’istanza della Procura salentina chiedendo l’autorizzazione alla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera poichè all’epoca dei fatti, Marti era Deputato della Repubblica. La richiesta riguardava non solo le intercettazioni confluite nell’ordinanza, ma anche altre otto, contenute nella richiesta di autorizzazione dei pubblici ministeri Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Dopo le sollecitazioni del gip di Lecce, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha esaminato la domanda di autorizzazione all’utilizzo di intercettazioni di conversazioni telefoniche del senatore leghista Roberto Marti, che proviene da uno stralcio dell’inchiesta sulle Case Popolari. La Giunta ha approvato, all’unanimità, la richiesta di un’integrazione istruttoria. L’istanza è stata proposta dal senatore Pietro Grasso ex Presidente del Senato, al fine di acquisire l’elenco delle intercettazioni citato nella parte conclusiva dell’ordinanza del gip, ma non allegato al fascicolo nonché informazioni in ordine al procedimento penale, del quale quello oggetto dei lavori della Giunta costituisce uno stralcio, da avanzare al Tribunale di Lecce per il tramite della Presidenza del Senato. L’esame è stato quindi rinviato. Dopodichè è il turno della limitata lungimiranza dell’avvocato martinese Gianfranco Chiarelli, ex deputato eletto nelle liste di Forza Italia “trombato” dagli elettori alle elezioni Politiche del 2018, e riciclatosi dell’estate 2019 della Lega di cui è vicesegretario regionale, il quale per sua fortuna non ha problemi con la giustizia, ma si è auto-ridicolizzato in occasione delle regionali quanto ha candidato a Taranto un suo adepto, tale Giovanni Ungaro che alle precedenti elezioni regionali del 2015 si era candidato nel centrosinistra con Michele Emiliano, e che attualmente si trova sotto processo per “truffa” ai danni dell’ Amministrazione Comunale di Taranto. L’ultima figuraccia è stata la nomina di Pasquale Vespa come segretario del sottosegretario all’istruzione Rossano Sasso durato meno di 48 ore. Infatti il ministro Patrizio Bianchi ha deciso di revocargli l’incarico dopo che l’ex ministra Lucia Azzolina aveva reso noto di aver denunciato Vespa con un procedimento penale in cui è “imputato in per diffamazione reiterata a mezzo stampa e minacce gravi”. Nonostante ciò il sottosegretario leghista pugliese Sasso ha continuato a difendere la presenza di Vespa nel suo staff come quella di “un conoscitore del mondo del precariato” facendo sapere, pochi minuti prima della sua revoca, che lo avrebbe limitato a un ruolo “tecnico“. Vespa sul suo profilo Facebook si definisce “Ingegnere, Giornalista, Sindacalista, Docente Precario, Direttore di NapoliTime, Coordinatore UIL Scuola Precari Campania, Presidente Associazione Nazionale Docenti per i Diritti dei Lavoratori #AnDDL. Presidente Ass. Ecomuseo del Mare e della Pesca”. Ecco come l’on. Rossano Sasso difendeva il suo collaboratore Vespa: “l’onorevole Azzolina non è nuova ad attacchi nei confronti di insegnanti e dirigenti scolastici che hanno manifestato dissenso nei confronti delle sue politiche: basti pensare al recente caso di Alfonso D’Ambrosio, il preside di Vo’ che proprio nelle scorse ore ha visto archiviato il procedimento disciplinare che gli era stato intentato in modo assolutamente strumentale. Il professor Pasquale Vespa, sindacalista e leader nazionale del movimento dei docenti precari, ha sempre rappresentato una spina nel fianco per l’onorevole Azzolina e per le politiche ostili nei confronti del mondo del precariato. Un simbolo dei diritti dei lavoratori più deboli, che ha condotto battaglie evidentemente dure e scomode, che adesso si vorrebbe fare passare come uno stalker e come un molestatore“. Una difesa d’ufficio a dir poco imbarazzante, che non è bastata, e quindi poco dopo è arrivata la decisione del ministro Bianchi. che evidentemente non la pensa come il suo sottosegretario. In una nota del Ministero dell’Istruzione, si legge che il ministro Patrizio Bianchi, “pur riconoscendo l’autonomia dei sottosegretari nella nomina del loro staff, alla luce di quanto emerso da notizie di stampa, ha chiesto al sottosegretario Rossano Sasso di valutare attentamente e rapidamente l’opportunità della nomina del professor Pasquale Vespa”. La nota così continua : “Il ministro ha quindi ricevuto dal sottosegretario la disponibilità del professor Vespa a sospendersi dal suo incarico, in attesa del chiarimento della sua posizione. Di conseguenza, il Ministro ha dato mandato all’amministrazione di procedere alla revoca dell’incarico assegnato al professor Vespa. Il ministro esprime inoltre la massima stima nei confronti dell’ex ministra Lucia Azzolina”. “Ringrazio il ministro, ha fatto la cosa giusta”, ha commentato l’ex ministra Azzolina con un post su Facebook. “Permettere al sottosegretario Sasso, con delega al cyberbullismo, di assumere al Ministero dell’Istruzione la persona che mi ha minacciato per anni – e che per questo è a processo – sarebbe stato un segnale terribile per la stessa comunità scolastica”. “In queste ore ho ricevuto affetto e solidarietà da tutto il M5S, ma anche da Pd e Leu, che ringrazio. Dispiace invece che il sottosegretario Sasso non abbia compreso la gravità della cosa e si ostini a difendere l’indifendibile”. Il processo penale nei confronti del professor Vespa (imputato) inizierà a Napoli il prossimo 9 aprile. Vespa, raccontava ai giornalisti l’ex-ministro Azzolina “ha portato avanti una campagna quotidiana contro di me. È un sindacalista e un precario che però non vuole il concorso, ma chiede quella sanatoria per cui da tempo i leghisti si battono. Tanto che non ha voluto partecipare nemmeno a quello straordinario riservato proprio ai precari”.

Se questa è la Lega Puglia, adesso si capisce come mai Michele Emiliano abbia vinto le Regionali lo scorso 20 settembre e sia rimasto saldamente al suo posto di presidente della Regione Puglia.

Costituzione vs Repubblica Giudiziaria. Salvini, Travaglio e Di Matteo: la strana alleanza che fa carta straccia della Costituzione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Noi avevamo preparato già il titolo: “Ergastolo addio, da oggi l’Italia è migliore”. Eravamo abbastanza certi del fatto che la Corte Costituzionale avrebbe posto fine all’ergastolo ostativo, ristabilendo i principi della Costituzione repubblicana, soprattutto dopo che l’avvocatura dello Stato aveva dichiarato di non opporsi alla decisione. E stavamo ragionando sul fatto che questo era il primo segnale (forse) di presenza di una nuova cultura liberale: quella della nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che dopo molti anni (forse) riporta il Diritto – o almeno l’idea del Diritto – a via Arenula e pone fine a una lunga stagione di giustizialismo più temperato (Severino, Orlando, per esempio) o assolutamente esagitato (Bonafede). E invece…Invece proprio nella serata di ieri, dopo che si è avuta notizia della presa di posizione dell’avvocatura dello Stato, è scattata una feroce controffensiva, guidata dal Fatto di Travaglio, che ha colpito subito nel segno. La punta di diamante di questa offensiva è stato un esponente del Csm, e cioè Nino Di Matteo, ex davighiano e oggi battitore libero che dispone di larghissimi appoggi nel mondo dell’informazione (come del resto tutti gli esponenti del partito dei Pm). Di Matteo, per la verità, non è esponente di quel partito, perché lavora in proprio, su questo dimostrando anche una certa indipendenza. E però, di solito, viene usato dal partito dei Pm proprio come fromboliere, perché questo, spesso, è il ruolo degli irregolari: fare e dire cose che gli altri magari non possono dire o fare per ragioni istituzionali. Non è infatti cosa del tutto usuale che un membro del Csm, togato, intervenga nel dibattito della Corte Costituzionale mentre essa è riunita per decidere. Del resto, ormai, anche le buone creanze istituzionali, e persino le norme della Costituzione, sono, spesso, allegramente ignorate dalla magistratura. Basta pensare al caso recente di un Pm che mentre è in corso il processo nel quale lui rappresenta l’accusa si presenta in Tv, senza contraddittorio, e sostiene pubblicamente l’accusa mediatica e la gogna, spalleggiato e applaudito dal conduttore. In Tv? Diciamo pure nella Tv di Stato, quella che in genere si chiama servizio pubblico. Capite bene che di fronte a questo galateo istituzionale, la forzatura di Di Matteo diventa quasi un’inezia. Un’inezia dal punto di vista formale, ma con conseguenze pratiche immediate e pesanti. La Corte stava per emettere la sua sentenza ma, in modo evidente, si è un poco intimorita di fronte all’annuncio di tempesta, e ha deciso di rinviare. Di Matteo, Il Fatto e il partito dei Pm hanno annunciato guerra in caso di decisione favorevole alla parziale abolizione dell’ergastolo ostativo. Hanno spiegato che loro grideranno che la Corte Costituzionale sta scarcerando i mafiosi, costringendo alla mercé del potere criminale il Mezzogiorno, completando la trattativa stato-mafia, iniziata 30 anni fa e nella quale lo Stato si era sempre dimenticato di pagare il prezzo (l’esito di quella singolare trattativa fu la violazione della Costituzione da parte dello Stato e la stabilizzazione del carcere duro per i sospetti o i condannati di reati legati alla mafia). Per altro ieri mattina, in soccorso al partito dei Pm e a Di Matteo e a Travaglio, si è presentato un vecchio alleato: Matteo Salvini. Il quale è giustamente ostile ai magistrati di sinistra che lo inseguono o per chiedergli 49 misteriosi milioni oppure per accusarlo di sequestro di persona con motivazioni davvero scombiccherate, ma poi è pronto a sguainare la spada a difesa di qualunque magistrato reazionario voglia perseguire qualche suo nemico politico o chieda di blindare le carceri, buttare le chiavi delle celle, bastonare i detenuti non leghisti (che sono parecchi), calpestare la Costituzione e le norme internazionali. Naturalmente questa circostanza è molto grave. Il potere di questo partito giustizialista è ben superiore al potere della sua pur cospicua rappresentanza parlamentare, perché è fondato sul quasi totale controllo sulla stampa e dell’informazione. È un potere spaventosamente invasivo. Determina gli orientamenti della giurisdizione, l’andamento delle inchieste e dei processi, le sentenze, e addirittura l’ordinamento, il funzionamento dello Stato, i meccanismi della giustizia, le limitazioni della libertà. Lo fa violando in modo aperto e incontrollabile anche la Costituzione. La battaglia che è aperta sulla questione dell’ergastolo ostativo è una battaglia gigantesca perché la posta in gioco non è solo il destino di alcune centinaia di prigionieri. Che sono esseri umani, non sono carne per macellare. Ma è la sopravvivenza della Costituzione come legge fondamentale. Il partito dei Pm vuole che questa eventualità sia cancellata, e si stabilisca che la legge fondamentale è l’emergenza e la lotta alla criminalità, e la Costituzione è una subordinata. Lo scontro è questo. Si svolge tra una maggioranza “eticista” e una piccola minoranza costituzionalista e militante per lo Stato di diritto. Il partito dei Pm, che vuole che l’ergastolo ostativo non sia abolito, è un partito che – in modo forse paradossale, ma non tanto – chiede che sia negata l’indipendenza della magistratura. E afferma che lo Stato non può fidarsi della magistratura, in particolare della magistratura di sorveglianza. Mi spiego meglio. La legge prevede che gli ergastolani possano accedere ai benefici penitenziari dopo 26 anni di prigione. Non prevede che questi benefici siano automatici, ma affida alla magistratura di sorveglianza il compito di accertare l’eventuale pericolosità dell’ergastolano, e dunque l’opportunità di concedergli o no questi benefici. Nel regime attuale, che è un regime di emergenza, ai magistrati – ai quali non è riconosciuta indipendenza – è sottratta questa possibilità. Si stabilisce che per alcuni reati (quelli, appunto cosiddetti ostativi, legati a mafia e terrorismo) funzioni una legislazione di emergenza che esclude il ruolo della magistratura e rende automatica la non liberazione. Il partito dei Pm e del Fatto e di Salvini chiede che la Corte Costituzionale riconosca che l’Italia vive in una emergenza mafiosa, perché lo Stato rischia di soccombere all’attacco stragista e mafioso in corso, e che quindi si possa sospendere la Costituzione e anche l’indipendenza della magistratura, e mantenere l’ergastolo ostativo. Ora, dico io, qualcuno sa dirmi dov’è l’emergenza mafiosa? Mi raccontano che il processo alla ‘ndrangheta di Gratteri, sia il più grande processo antimafia degli ultimi 30 anni. Facciamo che ci credo. Benissimo. Chiedo: come mai non si svolge in Corte d’Assise? Rispondono: perché non ci sono né omicidi né ferimenti. Ah. Dunque nei grandi delitti di mafia degli ultimi 30 anni, a sentire Gratteri, non si è versata una goccia di sangue? Ohibò, e dov’è l’emergenza? Ecco, questa è la scelta che dovrà compiere la Corte. Dovrà dirci: viviamo in una democrazia d’emergenza o in uno stato di diritto? Speriamo bene.

Finalmente qualcuno pone il problema. Ermini e Di Pietro contro Gratteri: “Si indaga per scoprire il colpevole non il reato”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Brutta aria per il procuratore Nicola Gratteri, e per tutti quelli come lui, cacciatori bravi a sparare ma che poi nel carniere portano poca roba a casa, se dovesse passare la proposta del vicepresidente del Csm. David Ermini è un avvocato del Pd ed è anche uno che la sa lunga, quindi non ignora che lanciare la sfida ai pubblici ministeri perché dimostrino le proprie capacità anche ottenendo le condanne definitive di coloro che hanno accusato e arrestato, è una vera bomba, qualcosa di rivoluzionario. Nessun magistrato, e men che meno quello dell’accusa, oggi risponde mai delle proprie azioni. Perché in realtà le regole per valutare l’attività delle toghe ci sono già, anche se le “assoluzioni” da parte del Csm sfiorano sempre il 100%. Ma nessuno è mai andato a guardare i risultati dei processi. Basterebbe cominciare a dare una sbirciatina ai provvedimenti di custodia cautelare. Se un procuratore, che è capo della polizia giudiziaria, fa catturare cento persone, e magari illustra il suo blitz in una bella conferenza stampa, ma poco dopo tra gip, tribunale del riesame e cassazione gliene scarcerano 50, cioè la metà, quel pm è stato professionale o fallimentare? E soprattutto: con le regole di oggi, a chi risponde delle proprie azioni quel pubblico ministero? Assolutamente a nessuno. Può fare lo sceriffo, come in Usa, dove però il district attorney viene eletto e cacciato se non porta a casa risultati e fa spendere inutilmente denaro pubblico. O può essere solo notaio, come il pm inglese, inesistente fino a poco tempo fa, e che si limita a raccogliere le prove che gli porta la polizia. E neppure riveste un ruolo politico come è in Francia, dove la pubblica accusa deve render conto al proprio capo gerarchico, cioè il ministro di giustizia. Il pm italiano può fare ciò che vuole. La proposta di Ermini si infila diritta nel filone culturale aperto dalla ministra Marta Cartabia la quale, nella sua relazione alla commissione giustizia della Camera, aveva insistito molto sulla preparazione giuridica dei magistrati e sulla loro formazione, non solo rispetto ai giovani praticanti, ma anche a chi ambisce a cariche direttive. Va anche detto però che il vero “eroe” del momento non è tanto Ermini quanto Antonio Di Pietro, che non è un omonimo, ma proprio lui, quello di Mani Pulite e Tangentopoli. Nell’attesa di un suo libro-pentimento che faccia concorrenza per copie vendute al Sistema di Palamara e Sallusti, ci accontentiamo (e non è poco) di quanto dichiarato in un’intervista al Giornale. È stato nei giorni in cui le clamorose assoluzioni al processo Eni a Milano hanno suscitato una valanga di critiche nei confronti di chi, il pm De Pasquale, aveva svolto le indagini. Di Pietro critica quell’inchiesta, anche se “salva” l’ex collega. Ma coglie l’occasione per affermare qualcosa di clamoroso. «Dal primo momento – dice – proprio perché conosco il modello di indagine posto in essere da una parte dei pm della Procura della repubblica, l’inchiesta mi ha lasciato molto perplesso». In che cosa consiste questo “modello” di indagine alla milanese (non solo) di cui parla Di Pietro? «..si tratta di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta di un colpevole di un reato certo, avvenuto». Come a dire, per esempio, che quando Ilda Boccassini faceva controllare chiunque di sera entrasse nella villa di Berlusconi per partecipare alle famose “cene eleganti”, la pm non aveva ancora scoperto il reato da perseguire ma aveva solo individuato il presunto reo da colpire, Silvio Berlusconi. Cose così, insomma. Alla faccia della famosa obbligatorietà dell’azione penale (che tra l’altro non esiste in nessun Paese occidentale), da sempre invocata ogni volta che qualcuno osa criticare certi metodi d’indagine. Oggi più che mai, se è importante sapere come va a finire l’inchiesta, come chiede Ermini, forse lo è di più capire come e perché è cominciata, come suggerisce Di Pietro.

Da liberoquotidiano.it l'11 marzo 2021. Piercamillo Davigo, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, su La7, attacca Silvio Berlusconi: "Si teneva Vittorio Mangano, uomo d'onore, a casa sua". A quel punto il conduttore sottolinea che "non è un reato" e Davigo ribatte: "Non è una bella cosa tenersi i mafiosi in casa...". Davigo non è voluto però entrare nel merito dell'inchiesta della procura fiorentina su Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sulle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano, aperta e chiusa più volte a partire dagli anni Novanta. Le nuove indagini sono partite circa un anno fa, dopo che Giuseppe Graviano, capo del mandamento di Brancaccio di Palermo, ha parlato davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria nel cosiddetto processo alla "’Ndrangheta stragista" dove è stato condannato all’ergastolo. Graviano ha accusato il leader di Forza Italia di aver fatto affari con suo nonno, che avrebbe consegnato a Berlusconi 20 miliardi di lire per investirli nel campo immobiliare. Sul caso Palamara, il magistrato annuncia: "Ho querelato Palamara per le insinuazioni su di me sul suo libro (scritto da Alessandro Sallusti, ndr). Risponderà davanti al giudice penale delle cose che ha scritto. E' stato cacciato dalla  magistratura perché discuteva con due parlamentari. Voglio sapere perché i partiti di cui fanno parte non dicono nulla su di loro. Se un magistrato fa delle porcherie viene cacciato se le fa un politico non accade nulla". Davigo, durante il talk show andato in onda ieri sera 9 marzo, è sembrato poi scettico sul governo di Mario Draghi. Il magistrato infatti è convinto che "il sostegno largo di solito rende difficili riforme incisive poiché è difficile trovare un'intesa". Per esempio "sulla giustizia". E conclude: "Vedremo...".

I 5S: «Palamara in Antimafia? No alle influenze dei media, ci interessano le “scarcerazioni”» Per i componenti grillini della commissione Antimafia la priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”: il caso mediatico per eccellenza. Damiano Aliprandi su Il Dubbio mercoledì 3 marzo 2021. «Riteniamo che non ci si debba far trascinare nel vortice mediatico portando in audizione qualcuno soltanto perché va di moda o qualche giornale lo richiede». Il riferimento è al caso Palamara e lo dicono i commissari del Movimento5 stelle della commissione Antimafia. Parole sagge quelle dei grillini, conosciuti per non seguire gli umori e sondaggi del momento, che non assecondano le indignazioni popolari scaturite dalla propaganda mediatica che insinua complotti e retropensieri. Sì, certo. Infatti nel loro comunicato, subito dopo dicono con toni autorevoli che hanno ben altro da seguire. L’audizione di Luca Palamara non è una priorità per loro, perché, dichiarano «abbiamo in sospeso tante altre audizioni urgenti che non richiamano l’attenzione dei media». Quali? Per caso l’esposto al Csm di Fiammetta Borsellino in merito all’indagine irrituale svolta dai magistrati di allora che si sono fatti passare sotto il naso il depistaggio sulle indagini di Via D’Amelio? Oppure i rapporti tra Stato e mafia, l’interessamento di Paolo Borsellino su mafia-appalti, tanto che alla sua ultima riunione alla procura di Palermo del 14 luglio 1992 ne chiese conto e ragione? Tutte questioni che i mass media non riportano con la giusta enfasi e per questo sconosciute all’opinione pubblica. No, nulla di tutto questo. Per i grillini della commissione Antimafia, la loro priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”.Parliamo esattamente del caso mediatico per eccellenza. Chi non è a digiuno di diritto penitenziario sa che il tema del differimento pena per gravi problemi di salute, soprattutto durante il periodo pandemico, non è qualcosa di oscuro o indicibile, ma la messa in pratica della Costituzione italiana. La commissione Antimafia ha svolto numerose audizioni, molte incentrate sul discorso della famosa nota circolare che tanto ha destato scandalo grazie ai tanti giornalisti che sono a digiuno delle regole penitenziarie. Forse non è bastata nemmeno la voce autorevole del Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, che ha ritenuto utile e doverosa la “famigerata” nota del 21 marzo 2020 del Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ha sottolineato che il contenuto della circolare è coerente con le disposizioni di legge e regolamentari in materia e peraltro anticipato dalle indicazioni di alcuni presidenti dei tribunali di sorveglianza, inoltre «risulta finalizzato a far prontamente conoscere ai giudici le situazioni di vulnerabilità, suscettibili delle loro indipendenti determinazioni». Ma i media non ne hanno parlato, quindi per i commissari grillini – i quali dicono però di essere immuni dalle propagande mediatiche – non è degno di nota. Ribadiscono che convocare Palamara non è una priorità: «L’Antimafia deve essere improntata ad un lavoro meticoloso, pianificato, finalizzato al raggiungimento degli obiettivi che ci si è prefissati e non dettata da improvvisazione». La commissione è stata così meticolosa che ancora non si è accorta che i tre reclusi al 41 bis “scarcerati” e poi rientrati dopo il decreto ad hoc dell’allora ministro Bonafede, in realtà erano e sono davvero gravemente malati. Due di loro, tra l’altro, sono prossimi alla fine della pena. Uno invece, come rilevato da Il Dubbio, ha gravi patologie psicofisiche. Eppure, al contrario di ciò che dicono, i grillini preferiscono seguire l’agenda dettata dai mass media.

Giustizialismo vuol dire odio: la lezione della Corte dei Conti. Errico Novi su Il Dubbio il 27 Feb 2021. All’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione del Lazio, la lezione del presidente della Corte Tommaso Miele: «Oggi prevale un giustizialismo alimentato da odio e voglia di vendetta». Sono vent’anni che il Paese è lacerato dalle divisioni attorno alla giustizia. E forse si è sempre sottovalutato il contributo che la magistratura può offrire sul piano culturale, in termini positivi, per superare una simile frattura. Ebbene ieri, all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione Lazio della Corte dei Conti, si è avuto uno straordinario esempio di quanto sia prezioso il messaggio positivo dei magistrati. In particolare da parte del presidente Tommaso Miele, che su tutti ha voluto scolpire un principio: «Siamo noi magistrati a dover affermare la cultura delle garanzie». Un intervento lucidissimo, davvero esemplare. Partito da una constatazione: «Oggi la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che si sta quasi affermando come fine ultimo della giustizia, e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra Carta costituzionale». Una Costituzione che «non a caso si pone, per questa parte, fra le più avanzate del mondo», ha detto Miele. E ancora: «Oggi sembrano essersi smarriti quei sacri principi quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui  onus probandi incumbit ei qui dicit" e non viceversa: l’esercizio della funzione giurisdizionale», ha scandito il presidente della sezione, «deve essere finalizzato all’affermazione della giustizia e all’accertamento della verità, e non alla vendetta; al diritto del cittadino a una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta; al diritto a un giusto processo, al diritto a una ragionevole durata del processo». E quindi quel passaggio sulla responsabilità, sull’onere persino pedagogico che ricade sui magistrati: «Soprattutto noi giudici dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa cultura del diritto e della giustizia», quella cioè che intende l’accertamento giudiziario come vendetta, «e dobbiamo», appunto, «impegnarci a riaffermare con forza la cultura delle garanzie, dei diritti del cittadino che i nostri padri costituenti hanno voluto scrivere con tanta chiarezza. Oggi più che mai», ha aggiunto Miele, «occorre riaffermare una giustizia dal volto umano. Impegnarsi per la riaffermazione di una giustizia giusta, che è riconciliazione. Il giudice deve essere fedele interprete dei principi sopra richiamati, sforzandosi di declinarli realizzando e assicurando il pieno ed effettivo contraddittorio e l’assoluta parità tra le parti, la terzietà e l’imparzialità, e, soprattutto, la ragionevole durata del processo». Miele è un magistrato contabile. Ma è evidente l’attualità delle sue parole a proposito delle tensioni che anche nella nuova fase politica dividono la maggioranza sul processo penale, in particolare sulla prescrizione e sul rischio che la durata dei giudizi sia infinita, anziché ragionevole. «Il buon giudice», ha continuato il presidente della sezione Lazio della Corte dei Conti, «non solo deve essere terzo e imparziale, ma deve anche apparire tale: mai deve far venire meno nel cittadino la fiducia in una giustizia giusta». E un processo giusto, ricorda Miele, «va declinato e integrato con il diritto del cittadino a essere giudicato da un giudice sereno, equilibrato, che ispira fiducia e che non abbia altra finalità che quella dell’accertamento della verità». E poi un altro passaggio esemplare sulla pena costituita già dal fatto di essere sottoposti alla giustizia, che si tratti di quella penale o di quella contabile: serve un giudice consapevole del fatto che «per il convenuto già l’essere sottoposto a un processo costituisce una pena. E un giudizio troppo lungo», ha ricordato Miele, «diventa un anticipo di pena, anche se l’imputato, o il convenuto nel caso del nostro giudizio, non è ancora stato condannato. Di qui l’impegno a rendere una giustizia rapida, efficace, serena, che rassicuri e ispiri fiducia, che sappia conciliare il diritto dello Stato ad affermare il proprio potere, nel nostro caso a perseguire il danno erariale, con i diritti del cittadino a una giustizia giusta». Fino a un’altra considerazione sacrosanta sul peso della giustizia mediatica: «Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti a un processo viene comunque strumentalizzato attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network». Un discorso che sarebbe bello sentir ripetere a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario. Il presidente Miele non ha mancato di soffermarsi sul tradizionale consuntivo dell’attività svolta dal suo ufficio nell’anno precedente: «Nel corso del 2020 la sezione ha definito 97 giudizi di responsabilità ed emesso 18 ordinanze istruttorie». Quanto alla durata dei giudizi di responsabilità, si è riusciti a definirli «in tempi assolutamente ragionevoli e certamente inusuali rispetto al corso della giustizia ordinaria nel nostro Paese, vale a dire in una media di circa 18 mesi». Ed è difficile dubitare che, oltre ai tempi brevi, siano state assicurate anche tutte le garanzie costituzionale evocate da Miele nel suo intervento.

Cartabia fa dimenticare la vergogna di aver avuto un ministro medievale come Bonafede. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Non so se Marta Cartabia riuscirà nei prossimi giorni o mesi a riformare alcuni dei pasticci orrendi combinati dal povero Bonafede nei tre anni passati a far guai a via Arenula. Non so se riuscirà a reintrodurre in fretta il principio sacrosanto e garantista e costituzionale della prescrizione. Non so se riuscirà a cancellare la “spazzacorrotti” (meglio dire la “spazzadiritti”), cioè la legge che stabilisce che prendere (o essere sospettati di aver preso) o dare una bustarella è reato assai più grave dello stupro. Non so se riuscirà a eliminare le leggi sulle intercettazioni e sui trojan che fanno assomigliare oggi l’Italia molto più alla vecchia Germania comunista che non alla Gran Bretagna liberale. Però… Però, ecco, quando parla Marta Cartabia ci fa dimenticare la vergogna di avere avuto ministri della giustizia ( e partiti di governo) medievali. Ieri la ministra ha tenuto un discorso al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine, e ha pronunciato parole che hanno fatto immaginare a tutti che l’Italia sia ancora la patria del diritto, e non la patria delle gogne a 5 stelle. Immagino che il partito dei Pm inorridirà, se leggerà quel che ha detto la ministra, e il fatto che il partito dei Pm inorridisca non è una cosa che ci rattrista. Vediamo solo due frasi pronunciate dalla Cartabia. La prima è relativa alla necessità di non concepire la pena come una vendetta e di considerare anche il carcere un luogo di speranza e non di disperazione e di terrore, e di privilegiare l’azione che favorisce il reinserimento piuttosto che l’azione punitiva. Ha citato a questo proposito anche le statistiche – facendo probabilmente infuriare Travaglio, che ha dedicato nel tempo decine di pagine del suo giornale a sostenere il contrario – secondo le quali “a fronte di un trattamento dei detenuti più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva”. La seconda frase che ha pronunciato la ministra, e che ha un valore immenso e rivoluzionario, è stata il richiamo alle “Mandela Rules”, e cioè alle regole sul trattamento in carcere che l’Onu approvò un po’ più di cinque anni fa e che furono dedicate al vecchio combattente sudafricano, che passò quasi la metà della sua vita in cella. In Italia le Mandela rules non le ha mai invocate nessuno, se non i radicali. Non sono neanche conosciute. E pure il nome di Nelson Mandela, di solito, è trattato con seppur gentile sospetto. Non è mai piaciuto il tipo di giustizia che Mandela impose al suo paese, dopo essere uscito di prigione e dopo aver preso il potere: il rifiuto o la riduzione ai minimi termini della pena e del suo valore. Bene, cosa dicono le “Mandela Rules”? Tante cose molto importanti ma soprattutto, dal nostro punto di vista, parlano del 41 bis e mostrano orrore nei confronti di una regola così inumana e feroce. I paragrafi 43, 44 e 45 prevedono espressamente la possibilità di usare l’isolamento del prigioniero ( e quindi una situazione simile a quella del nostro 41 bis) per non più di 15 giorni. Leggete qui.

Regola 43: “In nessun caso possono aversi restrizioni o sanzioni…inumane o degradanti, in particolare sono vietate le seguenti pratiche:

a) indefinito isolamento,

b) isolamento prolungato”

Regola 44: “Ai fini di queste regole, l’isolamento si riferisce al confinamento dei detenuti per 22 ore o più al giorno senza significativo contatto umano. L’isolamento prolungato si riferisce all’isolamento per un periodo superiore ai 15 giorni consecutivi”.

Regola 45. “L’isolamento deve essere utilizzato solo in casi eccezionali, per il tempo più breve possibile, e sottoposto a una revisione indipendente. Non può essere utilizzato nei confronti di persone malate”.

Avete capito bene: isolamento al massimo per 15 giorni. In Italia, chi sta al 41 bis può restare in isolamento totale anche per 25 anni. Anni. E i giudici di sorveglianza lo lasciano lì anche se è in agonia. Anche se ha l’Alzheimer. E la politica, e la stampa, di solito battono le mani. Ecco, dal momento che la ministra Cartabia fa parte di quel piccolo nucleo di persone, e di intellettuali, che le Mandela Rules le conosce bene, è da escludere che, citandole, non pensasse al 41 bis. E stavolta siamo noi a batterle le mani.

E subito dopo osserviamo che mentre il Ministro si pronuncia contro l’infamia del carcere duro, il capo del Dap (dipartimento carceri) Bernardo Petralia, annuncia , con una certa soddisfazione, “abbiamo costituito una nuova sezione di 41 bis a Cagliari”. Lo ha fatto parlando in commissione antimafia, in parlamento. Non risulta che nessuno gli abbia letto le Mandela Rules e gli abbia spiegato che il carcere duro è una roba dell’ottocento. Adesso non ci resta che aspettare: il governo Draghi andrà avanti con lo spirito di Cartabia o con quello di Pm?

Noi non sentiremo la sua mancanza. Addio dj Fofò: avvocato spione che non verrà rimpianto neanche da Davigo, Di Matteo e Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Bye bye Fofò, indimenticabile vocalist dell’Extasy di Mazara del Vallo. Bye bye Alfonso, piccolo avvocato spione con la telecamerina al Comune di Firenze. Bye bye Bonafede, ministro di giustizia accovacciato sotto le toghe. Non ti rimpiangeremo. Ma piangeranno gli uomini che indossavano le toghe che lui baciava e che gli passavano il compito sotto il banco? Vediamo. Non lo rimpiangerà Nino De Matteo, il pubblico ministero più scortato d’Italia, che gli rimprovera di avergli promesso il ruolo di capo di tutte le carceri, un posticino molto ben remunerato e di grande potere, e di averlo poi bidonato mettendo al suo posto una “nullità” come Franco Basentini. Ma non emetterà neanche un sospiro di rimpianto lo stesso Piercamillo Davigo, la fonte cui Bonafede si abbeverava quando diceva: beh, il processo è fatto così, accusa e difesa dicono la loro e poi il giudice emette la sentenza di condanna. L’assoluzione non è prevista, se non per quei furbastri che riescono a farla franca, benché colpevoli. Del resto, ha detto in un‘altra occasione, “gli innocenti non vanno in carcere”, facendo spallucce alla notizia che nel frattempo 27.000 cittadini messi ingiustamente in ceppi, erano stati risarciti dallo Stato. Davigo è anche lui deluso, perché il ministro si è lasciato infilzare, nelle trasmissioni di Giletti della domenica sera, proprio da quel Di Matteo che ha osato votare a favore del suo allontanamento definitivo dal Csm, diventando così suo nemico. Fofò ha incassato le accuse di chi senza mezzi termini lo accusava di essersi asservito ai mafiosi detenuti, i quali non volevano Di Matteo a occuparsi delle carceri. Ha incassato e non ha neanche querelato. Ma l’uomo non è fatto così, non è certo un lottatore. Matteo Renzi ricorda ancora, eravamo nel 2012 e lui era sindaco di Firenze, questo ragazzo smilzo e il sorriso furbino che gli tendeva piccoli agguati nella toilette di palazzo Vecchio, e che registrava le sedute del consiglio comunale, ignorando il fatto che erano trasmesse in streaming sul sito del Comune. Era avvocato, ma già militante e con l’amore del piccolo colpo alle spalle, il piccolo agguato. Forse oggi Renzi ride e Bonafede piange. In quale toga potrà asciugare le lacrime? Certamente non in quelle dei giudici di sorveglianza. Che saranno quelli, tra tutti, che più di altri tireranno un sospiro di sollievo. Tirati per la toga da tutte le parti, sospettati di aver scarcerato i boss mafiosi, con una campagna di stampa violenta e mai vista prima nei confronti di magistrati, prima sollecitati al senso di umanità nei confronti dei detenuti, poi umiliati con l’invito a sottomettersi, per le loro decisioni, ai pm “antimafia”. Non singhiozzeranno, chini sulle carte provenienti dal Ministero, i giudici della corte costituzionale, costretti già almeno una volta a stracciare almeno un brandello di una sua legge. Si trattava di quella del 2019, un vero fiore all’occhiello, quella che bastonava i politici, dopo aver fustigato per bene gli ex con il taglio dei vitalizi, considerati tutti corrotti. E stabilendo che la corruzione è una specie di attentato allo Stato, essendo equiparata al terrorismo e alla mafia. La legge, partorita sicuramente da un appoggio esterno (più che un concorso), è stata chiamata “spazzacorrotti” per dare la sensazione che spetti alla magistratura far pulizia. Un po’ come rivoltare l’Italia come un calzino o smontarla per poi ricostruirla come un Lego. È la filosofia delle toghe preferite da Bonafede. Come il procuratore Gratteri, che lui è andato a onorare all’inaugurazione dell’anno giudiziario, irritualmente celebrato nell’aula bunker di Lametia invece che al tribunale di Catanzaro. Lo stesso Gratteri che non ha speso una parola di rimpianto per un ministro così fedele, quando si è reso conto che i giorni di Fofò volgevano al termine, tanto da costringerlo a scappare dal Parlamento senza aver potuto recitare la propria relazione annuale sulla giustizia perché sulle sue spoglie sarebbe caduto l’intero governo. Non piange Di Matteo, non piange Davigo e non piange Gratteri. I giudici della Corte Costituzionale hanno addirittura dovuto impartire una lezione al ministro, anche se la legge portava addosso le impronte digitali di qualche toga. Bocciato proprio sul suo (e altrui) spirito vendicativo. Lo stesso che lo ha spinto a un’altra violazione della norma costituzionale, quella che ha reso eterno il processo a condannati e assolti in primo grado, imponendo a loro, e non a pubblici ministeri e giudici, il rispetto del giusto processo. Non ti rimpiangeremo, ministro accovacciato sotto le toghe. Ma il bello è che non sentiranno la tua mancanza neppure loro.

Il garantismo a dondolo. Manifesto e Fatto rimpiangono Bonafede, i due giornali orfani di Fofò. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Rimpiangere Fofò. Che tristezza vedere il manifesto, il quotidiano comunista che il prossimo 28 aprile compirà cinquant’anni, andare sotto braccio al Fatto quotidiano e alla magistratura militante nella difesa della casta togata e del suo diritto a schiacciare il cittadino sotto il tallone. Un piccolo quotidiano corsaro nato per la difesa dei diritti, che il primo maggio del 1971 osò scrivere “contro il lavoro”, cioè contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che seppe difendere i diritti di “nemici” politici come Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, oggi accomunato al quotidiano nato apposta per sparare contro i diritti del soggetto processuale debole, l’indagato, il processato, il condannato. Sono gli orfani del ministro Fofò, guardasigilli del primo e del secondo governo Conte, la cui fine piange ogni giorno il piccolo Marco Travaglio, più stucchevole e noioso del solito. Ma che è rimpianto anche dal quotidiano comunista, quello che un anno fa si beccò anche una tirata d’orecchi da Piero Sansonetti, che sconcertato, aveva scritto: «Tutto potevo aspettarmi dalla politica, tranne che un appello del manifesto per difendere il governo dai critici e dai sovversivi. E per di più il governo più forcaiolo della storia della repubblica, guidato dal partito più qualunquista della storia della repubblica». Quell’appello non fu un episodio, e il manifesto ha continuato a sostenere con convinzione il secondo governo Conte, la sua attività, i suoi ministri, Fofò compreso. Con la sola lodevole eccezione di qualche buon articolo in difesa dei diritti dei detenuti. Diritti che però, sganciati da ciò che viene prima della detenzione, cioè il processo, rischiano di presentarsi come puro assistenzialismo in favore dei poveretti. Problema che comunque non sfiora mai la fronte pensosa del piccolo Travaglio, che si batte impavido perché si costruiscano più carceri e possibilmente perché si passi rapidamente dall’apertura delle indagini all’applicazione della pena. Che deve essere implacabile anche nei confronti di malati e moribondi, come si è visto nell’impegno del Fatto contro i giudici di sorveglianza che, nel pieno della prima fase dell’epidemia, cercavano di sfollare le carceri onde evitare che il contagio tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria si trasformasse nella bomba atomica. Oggi di carcere non si parla quasi più, nonostante la morte per Covid di tre agenti penitenziari. Il timore, neanche tanto sottaciuto, è che la nuova maggioranza – che paradossalmente comprende anche le maggioranze dei due governi Conte – e soprattutto la nuova ministra di giustizia Marta Cartabia, prima o poi mettano mano alle controriforme “dell’avvocato del popolo”. Il Fatto, che ne sa sempre una più del diavolo, ha già tirato la gonna alla guardasigilli, dandole della “furbina”, quasi la presidente emerita della Corte Costituzionale stesse facendo il gioco del gatto con il topo nei confronti del Movimento cinque stelle, non modificando oggi la legge “spazzacorrotti” e in particolare l’abolizione della prescrizione, per farlo in un secondo tempo, contando su un’ampia maggioranza in Parlamento. Sull’argomento si sono espressi nei giorni scorsi diversi nomi prestigiosi di ex magistrati come Giancarlo Caselli e Piercamillo Davigo, collaboratori fissi del Fatto quotidiano insieme a un altro ex collega illustre, Antonio Esposito. La magistratura militante per ora sta abbastanza acquattata, salvo esercitarsi a sparare a palle incatenate, come fa l’ex leader di Magistratura democratica Nello Rossi, su Matteo Renzi e le sue scabrose interviste. Anche il manifesto appare in surplace. Ma è improvvisamente riapparso nei commenti, un paio di settimane fa, il fantasma del garantismo in un’intervista al professor Luigi Ferrajoli in occasione del trentesimo compleanno dell’associazione Antigone. Se il direttore Sansonetti fu stupito un anno fa di vedere Norma Rangeri che difendeva Conte e Fofò, ancor più lo sono io, che al manifesto sono stata vent’anni, per le parole di un vero garantista come Luigi Ferrajoli, che ho conosciuto bene, e che oggi vuol distinguere tra garantismo e garantismo, tra imputato e imputato, tra carcerato e carcerato. Qualche significativa avvisaglia c’era già stata in redazione nel corso degli anni e ormai dei decenni. Garantisti con i compagni del processo 7 aprile, molto meno nei confronti degli imputati per reati di mafia, pur se espressioni del sottoproletariato del sud. Ma la precipitazione nel forcaiolismo estremo si è avverata negli anni di tangentopoli, quasi come se una furibonda necessità di lotta di classe avesse surclassato ogni utopia da Stato di diritto. Luigi Ferrajoli, chissà perché, forse per giustificare la metamorfosi spaventosa che ha subito negli anni il quotidiano comunista, sente oggi il bisogno di ripercorrere quel cammino all’indietro. Ferrajoli ricorda «le degenerazioni indotte dall’emergenza del terrorismo e manifestatesi nelle leggi eccezionali e in taluni grandi processi di stampo inquisitorio, a cominciare dal quello del 7 aprile contro l’Autonomia operaia». E guarda con nostalgia a quando noi del manifesto (c’ero anch’io, e soprattutto io, Luigi) con uno sparuto gruppo di toghe di Magistratura democratica e qualche docente di giurisprudenza facevamo «una battaglia in difesa delle garanzie penali e processuali proprie dello Stato di diritto». Ma non ricordo che queste battaglie le facessimo solo per i nostri amici. Certamente non lo erano Mambro e Fioravanti e neanche, in un certo senso, Adriano Sofri (il manifesto e Lotta Continua non erano proprio fratelli siamesi), rispetto al quale mi sono sempre battuta perché si difendessero, prima della sua innocenza, i suoi diritti. Lui lo aveva capito benissimo, tanto che si era battuto per essere giudicato in cassazione, come era suo diritto, dalla prima sezione presieduta da Corrado Carnevale, il magistrato rispettoso delle forme e non “ammazzasentenze” di mafiosi. È giusto e sacrosanto parlare di «legge della ragione» e di «legge del più debole», «che, se nel momento del delitto è la parte offesa, nel momento del processo è l’imputato e nel momento della pena è il condannato». È ineccepibile. Ma perché poi pare che non tutti gli imputati e i condannati siano uguali? E neanche le leggi speciali. Ferrajoli infatti sembra aver fermato l’orologio agli anni Settanta. Infatti non parla di quel che è successo in Italia dopo le stragi di mafia del 1992, nulla dice delle leggi speciali inaugurate con il decreto Scotti-Martelli e la creazione dei reati ostativi. E neanche ricorda il fatto che, nello Stato di diritto, non dovrebbero neanche esistere i reati associativi su cui si fondano i maxiprocessi e le leggi speciali. E che vogliamo dire del carcere? Non siamo più lettori di Foucault? Poi c’è un discorso, veramente stucchevole, sul “garantismo di destra”, quello che vorrebbe solo l’impunità per Berlusconi e una serie di altri malfattori che non vanno mai in galera, perché lì ci vanno solo i poveri e i tossicodipendenti. Che le prigioni siano piene di emarginati è vero, ed è anche per questo che io vorrei abolirle del tutto, tranne che per alcune ben precise situazioni. Ma non è vero che i politici non ci vadano, e potrei citare tanti casi, da Formigoni a Verdini, e potrei ricordare i 41 suicidi prodotti da Tangentopoli, ma mi limiterò a qualche numero, che il manifesto non ha mai citato e probabilmente mai citerà, purtroppo. Quando nel 1994 fu varato il famoso decreto Biondi (Biondi-Maroni, per la precisione) del governo Berlusconi, che fu chiamato “salvaladri”, ma si limitava a ridurre i casi di custodia cautelare, questi furono i numeri: scarcerati 2750, di cui solo 43 per reati contro la pubblica amministrazione. Gli altri erano solo i soggetti deboli che ogni giorno vengono sbattuti in galera, spesso senza prove e senza rispetto per la loro dignità. A proposito, quando il decreto fu ritirato, meno del dieci per cento fu ricondotto in carcere. Forse non era stato così indispensabile averli sbattuti dentro. Questi sono i ragionamenti che avrebbe fatto Rossana Rossanda, ma anche Valentino Parlato e Luigi Pintor. Naturalmente tutti sono liberi di scegliere i propri compagni di strada, anche il piccolo Travaglio, e anche la magistratura militante. Che però non è più quella di Misiani e Saraceni. Ma quella di Davigo, amico di Fofò come Il Fatto e il manifesto.

«La balla odiosa dell’avvocato complice dell’indagato: noi difendiamo i diritti…». Intervista all'avvocato Tullio Padovani, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa e componente dell'Accademia dei Lincei. Valentina Stella su Il Dubbio il 2 marzo 2021. Diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis». L’assimilazione tra l’avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo dell’avvocato nella società. Citiamo Verges perché lo fa per primo in questa colta intervista l’avvocato Tullio Padovani, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e componente dell’Accademia dei Lincei, con cui abbiamo commentato gli stereotipi che investono molto spesso la figura dell’avvocato visto come un azzeccagarbugli e come qualcuno che non rende un servizio essenziale alla comunità.

Professor Padovani, Ettore Randazzo in “L’avvocato e la verità” scriveva: «Secondo i più, gli avvocati sono spregiudicati, arruffoni, intrufolati, di riffa o di raffa, in tutti i centri di potere, e comunque – servili od arroganti – sempre inaffidabili, ma sventuratamente insostituibili nel sistema giudiziario». È una giusta sintesi?

«Questa percezione per cui gli avvocati siano personaggi poco raccomandabili, quando non addirittura come scrive Randazzo “spregiudicati” o ambigui sotto il profilo etico e forse anche giuridico, è universale, non riguarda solo l’Italia. Vorrei leggerle quanto ha scritto il noto avvocato statunitense e già professore ad Harvard Alan Dershowitz nel libro “Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson”: “c’è un motivo di carattere generale per il quale i prosecutors sono più amati degli avvocati difensori e una ragione specifica per la quale ciò era specialmente vero nel caso Simpson. Generalmente i prosecutors cavalcano il cavallo bianco, sono i paladini della legge e dell’ordine, rappresentano le vittime, il popolo o lo Stato; mettono sotto accusa i colpevoli, almeno il più delle volte, svolgono un servizio pubblico, sempre dalla parte della verità e degli angeli. Gli avvocati difensori all’opposto generalmente rappresentano imputati colpevoli”».

E per fortuna!

«E grazie al cielo che è così: chi vorrebbe vivere in un Paese dove la maggior parte degli imputati è innocente? Forse in Iran o in Cina la maggior parte delle persone accusate di un crimine è innocente. Ma non è così negli Stati Uniti e in Italia: è lo zelo degli avvocati difensori, insieme ad altri fattori, che fa sì che sia così. Nei Paesi dove gli avvocati non sono liberi, come in Turchia, si processano anche gli innocenti con maggiore estensione e nel solo interesse del regime».

Quindi gli avvocati sono una cartina di tornasole della democrazia di un Paese.

«L’avvocato è un termometro della libertà. Gli avvocati purtroppo vengono percepiti come degli ostacoli alla giustizia, che invocano privilegi, diritti e tecnicismi per escludere prove importanti, per nascondere la verità, e per trarre profitto, ma in realtà hanno una immensa funzione sociale. Infatti, nonostante questa rappresentazione negativa, l’etimologia latina della parola avvocato, ossia “advocatus” ha l’equivalente greco in “paraclito”, che indica anche lo Spirito Santo. Nel vangelo di Giovanni, Gesù tranquillizza più volte i suoi discepoli dicendo che manderà loro il “paraclito”, il consolatore. Questo dà l’idea di ciò che l’avvocato rappresenta effettivamente da un punto di vista sostanziale».

Nonostante questo, perdura la cattiva reputazione degli avvocati nell’immaginario collettivo.

«Una quindicina di anni fa è stato ripubblicato, con l’introduzione di Giuseppe Frigo, “L’avvocatura – Discorsi” di Giuseppe Zanardelli. In quest’opera l’ex ministro della Giustizia scriveva: “Gli avvocati sono rappresentati come aridi adoratori dei testi che sacrificano la sostanza alla forma, il diritto alla procedura, che hanno il proprio interesse in opposizione all’interesse generale. Di essi si biasima la spregevole e funesta ricerca del cavillo, per sfigurare la verità e far trionfare la menzogna”. In realtà, prosegue Zanardelli, “l’avvocatura può dirsi essere non soltanto una professione, ma una istituzione, che si lega con vincoli invisibili a tutto l’organismo politico e sociale. L’avvocato senza avere pubblica veste, senza essere magistrato, è strettamente interessato all’osservanza delle leggi, veglia sulla sicurezza dei cittadini, sulla conservazione delle libertà civiche, porta la sua attenzione su tutti gli interessi, tiene gli occhi aperti su tutti gli abusi ed è chiamato a segnalarli senza usurpare i diritti delle autorità. Un eminente magistrato ebbe ottimamente a scrivere che l’avvocato deve essere il primo giudice di tutte le contestazioni giudiziari”».

Molto spesso l’avvocato rappresenta davvero l’unica speranza per gli indagati o gli imputati.

«L’avvocato nei momenti drammatici è il consolatore di colui che è schiacciato dal peso dell’accusa ed è solo: spesso ad un accusato resta solo l’avvocato, come ho potuto appurare in 40 anni di carriera. È in quei momenti che allora si scopre la funzione dell’avvocato e la scoprono persino i magistrati, quando si trovano nello scomodo ruolo degli imputati. Mi sono spesso sentito dire: «Avvocato non avevo capito niente, ora so cosa significhi essere un imputato, so cosa significhi fare l’avvocato»».

Sono proprio i magistrati a non rispettare delle volte il ruolo del difensore.

«È vero: i magistrati non sempre rispettano il ruolo dell’avvocato. Purtroppo questo accade perché l’avvocato è un uomo che non ha potere, mentre i magistrati spesso abusano del loro. Chi tratta male un avvocato non è un degno magistrato. Ma quando gli capita di stare dall’altra parte, di essere loro gli accusati, cambiano la loro opinione su noi avvocati e sul nostro lavoro. Bisogna ammettere che in generale ci sono dei magistrati che hanno ben percepito il ruolo dell’avvocato».

Per esempio?

«Consiglio a tutti un bellissimo libro “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore” scritto da un signor pubblico ministero che si chiama Paolo Borgna. Nessuno come lui ha interpretato in modo pieno, cordiale, simpatetico, rispettoso e caloroso il ruolo dell’avvocato. Un ex magistrato che ha saputo interpretare perfettamente la figura tipica dell’avvocato è Gianrico Carofiglio: è impressionante il modo in cui ha dato corpo e voce ad un avvocato. Il suo personaggio, l’avvocato Guerrieri, a mio giudizio rappresenta la quintessenza della rappresentazione vera dell’avvocato, in tutte le sue caratteristiche positive e meno positive. Di Carofiglio ricordo un suo contributo sul Sole 24ore nel 2007 che faceva il ritratto di Jacques Verges, un noto avvocato francese che ha difeso i peggiori criminali, e che fu definito da qualcuno l’avvocato del diavolo».

Più è grande il crimine, più è complicato il rapporto tra avvocato e verità.

«In rapporto alla verità, l’avvocato non ha la posizione né del giudice né del pubblico ministero: non è gravato dal dovere di ricercare la verità. Il suo contributo alla verità è nel battersi affinché il metodo della ricerca sia rispettato scrupolosamente perché il risultato che si ottiene sia davvero la verità in base a quanto stabilito dalla legge. Il suo ruolo è quello di guardiano vigile e intransigente del metodo. Questo lo comprende chiunque».

Non credo professore.

«Chiunque abbia intelligenza. Torniamo a Carofiglio che nel 2007 scriveva: “se il difensore di un imputato sicuramente colpevole di reati gravi individua un elemento, una nullità processuale, che può condurre con certezza all’assoluzione è sicuramente obbligato a farla emergere senza porsi il problema delle conseguenze ulteriori”. E ci mancherebbe che non lo facesse perché il suo dovere è assistere l’imputato. Questo dovere è simmetricamente contrario a quello del pubblico ministero che deve preoccuparsi di ottenere la condanna se la persona è colpevole. Ognuno deve rispettare il proprio ruolo: se l’avvocato si sostituisse al pm diventerebbe un collaborazionista. Per cui anche quella vecchia distinzione che un tempo veniva propalata come verità assoluta secondo cui sarebbe disdicevole difendersi dal processo perché ci si difende nel processo è un grande abbaglio: ci si difende prima di tutto dal processo e poi anche nel processo. Questo insegnamento non è dell’avvocaticchio che cerca espedienti, è di Francesco Carrara, il più grande criminalista dell’ ‘800, e di Henri-Benjamin Constant de Rebecque quando scriveva le note a “La scienza della legislazione”: lì si insegna che la prima difesa è “dal processo”».

Come si capovolge la narrazione negativa dell’avvocato?

«Le questioni di cui abbiamo discusso sono antiche ma purtroppo ancora attuali. Sul fronte delle soluzioni il discorso si fa complesso: purtroppo manca una coscienza sociale del significato delle garanzie della persona, oggi viviamo il tempo delle esecuzioni sommarie prima che sia iniziato il processo, e combattiamo contro le degenerazioni del circuito mediatico giudiziario. Le ricette sono dunque difficili da elaborare, soprattutto se pensiamo che la professione dell’avvocato si è andata proletarizzando. Gli avvocati, sia perché sono numerosi, sia perché vivono in una situazione economica molto difficile, campano alla giornata. Eppure, se pensiamo ad esempio a coloro che assistono gli immigrati ci accorgiamo che ricoprono un ruolo fondamentale e che danno lustro alla professione nella salvaguardia di valori essenziali».

Insulti e minacce all’avvocata, aggressione fuori dall’aula. Monica Musso su Il Dubbio il 13 febbraio 2021. La professionista “colpevole” di aver difeso uno degli imputati. La solidarietà e la condanna del Cnf: «Fatti figli di una visione demagogica della giustizia». Aggredita verbalmente, insultata, minacciata. è quanto è capitato a Eleonora Rea, avvocato del foro di Cassino, attaccata perché stava svolgendo il proprio lavoro. Ovvero rappresentare il proprio cliente. Tutto è successo al termine di un’udienza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cassino, dove Rea si trovava per un’opposizione alla richiesta di archiviazione per una vicenda medica, in rappresentanza di uno degli indagati. Quando la professionista si stava allontanando dall’aula, la parte offesa si è scagliata contro di lei, aggredendola prima verbalmente, poi offendendola con frasi ingiuriose e minacciose, impedendole anche fisicamente di scendere le scale, in quanto colpevole, a suo modo di vedere, di essere d’ostacolo alla sua domanda di giustizia, ma, di fatto, principalmente di svolgere il proprio lavoro. A denunciare l’aggressione è il presidente del Coa di Cassino, Gianluca Giannichedda. «Siamo profondamente indignati per quanto accaduto ed esprimiamo la piena solidarietà all’avvocato Eleonora Rea, cui ci lega una profonda stima personale e professionale, oltre che l’impegno istituzionale nel nostro Consiglio dell’Ordine, di cui la stessa è consigliere ha evidenziato Giannichedda -. Il fatto verificatosi è gravissimo perché offende L’avvocato Eleonora Rea e questo già di per sé merita fermezza nella denuncia, nella solidarietà e nella presa di posizione del nostro Foro. Quanto accaduto è gravissimo anche perché offende l’intera categoria e ancor di più perché attacca la nostra funzione costituzionale, il nostro ruolo sociale, la sacralità della nostra professione. L’avvocato non si tocca. La nostra funzione non si tocca. Mai! Difendiamo con onore anche l’essere umano più miserabile, più solo, più debole, perché il diritto di difesa è assoluto e non può tollerare eccezioni o differenze di trattamento». Giannichedda ha evidenziato come non si tratti di un caso isolato, bensì di una triste consuetudine, agevolata dal crescente populismo giudiziario. «Da molto tempo, purtroppo, percepiamo e denunciamo una visione populistica della Giustizia da parte di molti politici e spesso degli stessi mass media e post pubblicati sui social – ha aggiunto -, ciò rischia di travolgere il nostro illuminato sistema liberale, pensato e strutturato da chi ha contribuito a gettare le fondamenta della nostra Repubblica». Ma ciò non fermerà l’azione dell’avvocatura, ha sottolineato Giannichedda, che si ergerà sempre «a ultimo baluardo dello Stato di diritto e lo farà in ogni sede. Nel nostro piccolo continueremo il percorso di formazione dei colleghi, di informazione anche con l’ausilio della stampa e di educazione nelle scuole, evidenziando ai ragazzi il rispetto della legalità e del supremo principio di Giustizia. Un abbraccio ad Eleonora da parte del Foro del nostro circondario». Solidarietà anche da parte del Consiglio nazionale forense, che ieri, attraverso la presidente facente funzione Maria Masi, si è schierata dalla parte della professionista. «Apprendiamo con grande preoccupazione quanto riferito dall’Ordine degli avvocati di Cassino riguardo all’intimidazione verbale e fisica di cui è stata vittima, nel corso di un processo al Tribunale di Cassino, l’avvocata Eleonora Rea, aggredita dalla parte offesa perché responsabile di assolvere al proprio dovere nella difesa dell’indagato – ha sottolineato Masi -. Esprimiamo piena solidarietà alla collega e all’Ordine forense di Cassino stigmatizzando ancora una volta i gravi atti subiti dagli avvocati, in ragione di una visione demagogica della giustizia, spesso identificati con i loro assistiti e di fatto ostacolati nell’esercitare, nella pienezza delle loro funzioni, la giurisdizione a tutela di tutti cittadini. Il Cnf ribadisce il proprio impegno a tutela della libertà e dell’indipendenza dell’avvocatura la cui funzione costituzionale non può subire alcuna sorta di limitazione».

«Io, aggredita perché avvocata, dico: difenderò sempre lo Stato di diritto». Simona Musco su Il Dubbio il 15 febbraio 2021. Intervista a Eleonora Rea, aggredita dopo un’udienza al Tribunale di Cassino: «Un attacco alla funzione, ma chiunque ha diritto alla difesa». «Mi hanno augurato cose terribili. L’impressione è che mi abbiano fatto una specie di agguato: mi hanno attesa fuori dall’aula, cercando di impedirmi di andare via per insultarmi». Eleonora Rea è solo uno dei tanti avvocati aggrediti mentre svolgono il proprio lavoro. Anzi, aggrediti proprio in quanto avvocati, identificati, come ormai troppo spesso avviene anche a causa di una narrazione distorta ad opera di politica e media, con i reati commessi dai propri assistiti. Quindi guai ad agire in loro difesa, comunque vadano le cose: per certe azioni, di fronte a certi dolori, la difesa non dovrebbe essere ammessa in nessun caso. E a maggior ragione, se l’avvocato è anche donna, scendere a “patti” con il mostro, agli occhi di chi di quei reati – o presunti tali, fino a prova contraria – è vittima è ancora peggio. Rea è stata aggredita giovedì scorso a Cassino, dopo aver pronunciato la propria arringa davanti al giudice. Colpevole di non aver rispettato, agli occhi dei suoi aggressori, il dolore profondo che porta con sé la perdita di un familiare.

Avvocato, cos’è successo quel giorno?

«Difendo un medico in un processo per colpa medica, che coinvolge otto sanitari ritenuti responsabili, dalla controparte – marito e moglie -, di un decesso. Per me era la prima volta che li incontravo. La loro rabbia è scaturita dal fatto che nella loro mentalità, nonostante si tratti di due professionisti, nessuno avrebbe dovuto accettare il mandato difensivo di quei medici. Questa cosa, ovviamente, non riesco a giustificarla nemmeno di fronte al grande dolore che vivono e del quale preferisco non parlare, dato che si tratta di una storia delicata. Questa pretesa è in conflitto con il ruolo stesso del difensore: nessuno può imporre ad un avvocato chi difendere».

In che fase si trova il processo?

«Il pubblico ministero ha avanzato richiesta di archiviazione, sulla base di quattro perizie: l’esame autoptico, l’esame istologico, la perizia cardiologica e quella genetica, esame svolto per non lasciare nulla di intentato e capire che cosa fosse avvenuto. Alla fine, tutti i medici consultati dal pubblico ministero hanno evidenziato che si è trattato di una fatalità, una sindrome che non dà allarmi ed è quindi imprevedibile. Anche per il pm, dunque, la condotta dei medici è stata connaturata dall’ossequio di tutte le norme. Non avrebbero potuto fare nulla. La controparte si è dunque opposta, ritenendo che la vittima dovesse essere trasferita in una struttura di secondo livello. Ma ribadisco, secondo le perizie non c’erano elementi tali da giustificare un trasferimento, perché tecnicamente stava bene».

Cos’è successo durante l’udienza?

«Quando ho iniziato a parlare, i due hanno protestato, manifestando in maniera plateale il loro dissenso. Il clima che si è creato non era dei migliori, ma nonostante ciò sono andata avanti. Il giudice, invece, li ha ripresi, intimando loro di mantenere la calma o li avrebbe allontanati dall’aula. A quel punto, uno dei due si è rivolto a me, fissandomi in maniera insistente durante tutta l’arringa per intimorirmi, ma senza riuscirci. Al termine della discussione hanno cominciato ad urlare entrambi, inveendo contro la giustizia. Uno sfogo, in quel momento, non rivolto a me. A quel punto è intervenuto il carabiniere d’udienza, che ha cercato di riportare la calma».

E una volta finita l’udienza?

«Ho pensato di aspettare qualche minuto in aula, proprio per evitare di incontrarli. Così, dopo circa un quarto d’ora, ho chiesto alla praticante del mio studio di verificare che sul pianerottolo non ci fosse nessuno, dopodiché siamo uscite. Quando ho varcato la soglia, la donna è spuntata da dietro la porta, dove si trovava assieme al suo avvocato, urlandomi contro di vergognarmi e augurandomi un lutto doloroso quanto il suo. E quindi mi ha ripetuto che non avrei dovuto accettare l’incarico o che avrei dovuto rinunciarci».

Come ha reagito?

«Ho risposto dicendo che mi dispiace per quello che hanno vissuto, ma che sto facendo solo il mio lavoro. A quel punto ho iniziato a scendere le scale e mi si è parato davanti il marito della donna, mentre lei era ancora alle mie spalle. Lui aveva le braccia allargate per impedirmi di passare. Mi ha dato della prostituta e mi ha accusata di essermi venduta per mille euro ai poteri forti, ribadendomi che non avrei dovuto difendere quel medico. Aveva gli occhi iniettati di sangue. Sono riuscita ad approfittare di un momento in cui era sbilanciato per superarlo e correre via. Una volta scese le scale ho incontrato il presidente del Consiglio dell’ordine e l’ho abbracciato forte, in barba a ogni norma Covid».

È finita qui?

«Il giorno dopo, nel commentare un articolo sui social, la donna ha rivendicato quanto fatto il giorno precedente, affermando che ho calpestato il loro dolore per fare un po’ di soldi e sostenendo che non fossi adeguatamente documentata. Ma non è così, seguo questo caso da quattro anni e l’ho studiato nei minimi dettagli».

Sporgerà denuncia?

«Per il momento non credo. In ogni caso mi ha dato più fastidio il post che l’aggressione, perché non si può, a mente fredda, continuare a dire di aver fatto bene. Io faccio il mio lavoro per passione, perché ci credo, faccio solo penale da tanti anni. Ho difeso anche pedofili, figuriamoci se non difendo un medico che risponde di un reato colposo».

Ritiene che sia un attacco alla professione, come hanno sottolineato il presidente dell’Ordine e il Cnf?

«Certo, un attacco anche dettato dal populismo di questi anni. Mi era già capitato di essere insultata, magari con qualche parolina pronunciata alle spalle e qualche brontolio, però mai mi era capitata di essere bloccata fisicamente per non sottrarmi agli insulti. La mia sensazione, anche se ovviamente non posso esserne certa, è che si sia trattato di un agguato, perché mi stavano aspettando».

Il loro avvocato è intervenuto?

«Si è messo ad urlare, nel tentativo di fermarli, ma non c’era nulla da fare: non lo ascoltavano. Per questo ho evitato di aggiungere altro, seppure, ripeto, durante la mia arringa non ho detto niente di illecito o di lesivo della loro situazione, anzi sono stata ben attenta nel cercare di essere il più tecnica possibile. Ho fatto solo il mio dovere. Si tratta di un attacco ingiustificato alla mia persona. Ma nessuno può farmi stare zitta. Sono fatta così, altrimenti non farei quello che faccio».

È impaurita?

«In tribunale ci sono tornata lo stesso giorno, perché avevo un altro processo. Certo, ho bevuto un po’ d’acqua e ho fatto una passeggiata per rilassare i nervi, perché di certo non è stata una cosa piacevole, ma vado avanti».

Come pensa che si possano evitare episodi del genere?

«Serve una sorta di educazione alla giustizia e ai diritti. Spesso vengono fatti coincidere gli errori commessi dall’imputato con la persona dell’avvocato. Ma se io difendo un rapinatore non vuol dire che sono un delinquente. Noi dobbiamo garantire il giusto processo, anche al peggiore dei delinquenti. Anche Totò Riina aveva un difensore ed è sacrosanto che l’avesse. Perché è il principio base dello Stato di diritto. Né è accettabile che colleghi, per farsi pubblicità, rendano noto di non voler difendere qualcuno perché è contrario alla loro morale e alla loro etica. Questo è sbagliato, perché così passa il messaggio che chi accetta quel mandato sia immorale. E questo non ci fa bene».

«Giustizialismo radicato tra i cittadini, ora è inutile una linea iper garantista». Errico Novi su Il Dubbio il 9 Febbraio 2021. Parla Gaetano Pecorella, ex presidente della commissione Giustizia alla Camera: “L’intelligenza spinge Draghi a tenere da parte un tema divisivo come la prescrizione. Cartabia? sarebbe un ottimo guardasigilli”. «Da persona di grande intelligenza Mario Draghi cerca di non mettere sul tavolo argomenti troppo divisivi. La prescrizione è il più divisivo di tutti. Eppure credo che alcune riforme razionali siano possibili anche in materia penale. Serve un modo diverso di presentarle ai cittadini». Gaetano Pecorella non ha difficoltà ad ammettere di essere stato segnato, nella propria vicenda politica, dalla vicinanza a Silvio Berlusconi. «Mi si è attribuito, senza motivo, un uso strumentale di alcune proposte di legge». Ma una figura come la sua, che rappresenta perfettamente il nobile contributo offerto dall’avvocatura penale italiana alla democrazia, ha oggi la lucidità di non chiamare i garantisti alla battaglia. Piuttosto invita a comprendere che, visto l’orientamento dell’opinione pubblica, si deve trovare un compromesso fra garanzie e visioni giustizialiste prevalenti. Pecorella è una figura chiave nella storia dell’Unione Camere penali italiane. Ne è stato presidente dal 1994 al 1998 e ancora oggi, ai congressi nazionali, il banco di presidenza gli spetta di diritto, insieme con Gustavo Pansini. Non c’è neppure bisogno di una norma statutaria che lo spieghi: è semplicemente chiaro a tutti che deve essere così.

Insomma, Draghi fa bene a tenere la giustizia penale un po’ ai margini delle consultazioni.

«L’intelligenza gli suggerisce di evitare motivi di rottura. D’altra parte ci sono altri temi così urgenti che l’opinione pubblica non comprenderebbe un’eccessiva enfasi sulla prescrizione o altre questioni del genere. Le risposte immediatamente necessarie riguardano il superamento, che sia il più celere possibile, delle restrizioni e la ripresa dell’economia».

La giustizia resterà sempre un tema così caldo da restarne scottati?

«A dimostrare quanto sia difficile parlarne basta la chiusura opposta da Renzi al cosiddetto lodo Orlando: mi pare emblematico dell’impossibilità di aprire discussioni».

Draghi se ne terrà lontano. Ma le scorie delle probabili tensioni in Parlamento potranno ostacolare anche lui?

«Molto dipenderà dal nome del guardasigilli. Mi pare che, per fortuna, si guardi a figure orientate assai più verso la tutela delle garanzie che al giustizialismo, come Marta Cartabia e la stessa Paola Severino. Credo che ministri della Giustizia della loro levatura sapranno distinguere i temi praticabili da quelli che non lo sono».

Quali sono i praticabili?

«Le modalità processuali da remoto, per esempio: c’era il rischio che sopravvivessero all’emergenza, che la norma eccezionale sia normalizzata come se nulla fosse. Penso alla discussione orale in appello prevista solo su richiesta del difensore. Con Bonafede c’era qualche serio pericolo che uno schema simile si cristallizzasse. Con Cartabia o Severino non ci sarebbe. Sulla prescrizione servirà una particolare abilità nel proporre soluzioni tecniche adeguate».

Ad esempio?

«Intanto mi pare che la norma Bonafede sia considerata incivile da tutti, anche dal Pd. Incivile e disfunzionale, perché, col regime pregresso, in primo grado si cercava, almeno, di far presto. Ora si approfitterà del termine lasciato a disposizione di quella fase del processo. Un giudizio per bancarotta si prescrive in circa vent’anni: un testimone finirà per essere sentito anche dopo dieci anni, tanto che cambia? Peccato che così l’oralità e la parità delle parti nella formazione della prova vadano a farsi benedire. Una cosa incivile, appunto. Il che non vuol dire che la situazione precedente fosse perfetta. A volte, per il giudizio in Cassazione, restavano dieci giorni. La soluzione più sensata è la prescrizione per fasi, un limite massimo per ciascuna fase del procedimento».

I cinquestelle diranno che la vecchia prescrizione uscita dalla porta rientra per la finestra. A torto, perché non ci sarebbe più il rischio di reati che si estinguono solo perché scoperti troppo tardi.

«L’alternativa è accelerare davvero i processi. Ma non con soluzioni utopistiche. Basta guardare al sistema americano. Lì, per il patteggiamento, non esistono le preclusioni previste da noi. Niente premi, sconti, ma applicazione di una pena compresa nei limiti minimi e massimi già fissati».

Presidente, seppure nella nuova fase politica ci fosse una maggioranza garantista, sconterebbe l’eccessivo giustizialismo diffuso ormai tra i cittadini?

«Il nodo esiste. Avere un nemico aiuta, Vale per i partiti, vale anche per l’opinione pubblica, che identifica il nemico con l’autore di reati anche a bassa offensività. Non si può essere giustizialisti, ma temo ci si debba anche rendere conto che nel condurre le battaglie garantiste la realtà vada tenuta presente. Serve un altro linguaggio, un pragmatismo che arrivi a chiunque. Basterebbe spiegare che rispetto a un ergastolo inflitto dopo un processo di quindici o vent’anni, è assai meglio una condanna a trent’anni che però arriva più rapidamente. Serve anche a evitare l’innocente stritolato da un giudizio che ha solo la sua morte come limite invalicabile. Da noi è tutto distorto: il patteggiamento non funziona perché è precluso per i reati più gravi, mentre per quelli puniti con condanne meno pesanti i tempi troppo lunghi rendono preferibile attendere che il reato si prescriva».

Ma c’è tempo sufficiente per una riforma del processo efficace?

«Una persona della levatura di Marta Cartabia, che sarebbe un eccellente guardasigilli, si renderebbe conto di come, anche senza riforme epocali, ci sia la possibilità di realizzare pochi ma efficaci interventi. Il patteggiamento senza limiti né sconti, riportare in tribunale i magistrati disseminati nei ministeri, fare in modo che negli uffici giudiziari non vi sia il deserto, una volta superate le ore 14».

In Italia sui garantisti pesa il pregiudizio Berlusconi?

«Parte dell’opinione pubblica è diventata anti garantista in quanto anti berlusconiana. Io so bene che alcune leggi furono pensate e introdotte perché rientravano nella logica di una lotta politica fra il centrodestra e i magistrati di sinistra. Dopodiché qualcuno ha additato come legge ad personam persino quella da me proposta per impedire l’appello del pm sulle assoluzioni in primo grado».

All’epoca Berlusconi, in primo grado, non veniva assolto mai…

«Appunto. Ma il caso è emblematico. La percezione diffusa del garantismo ne ha risentito. D’altronde alcune leggi erano necessarie sul piano politico: qualcuno vicino a Berlusconi ha voluto ammantarle di garantismo ma, ripeto, erano strumenti di lotta politica. Non c’erano alternative a un governo di centrodestra, se non il caos, puntualmente arrivato. Oggi dobbiamo sgombrare l’orizzonte del Paese da quel conflitto e restituire alle garanzie il loro valore universale».

È possibile?

«A volte credo che la stessa espressione “garantismo” sia impropria. È semplicemente il diritto naturale, evocato dalla prima dichiarazione universale, da Voltaire, Beccaria. Diritti universali e necessari per vivere meglio. La Carta di uno Stato americano, precedente alla Costituzione, diceva che ha diritto di governare chi è capace di rendere gli altri felici. Ecco, la giustizia deve rispondere a un principio semplice: evitare di rendere gli altri infelici».

Il processo "Decollo ter-money". Il fallimento di Gratteri e Lombardo: su 27 imputati solo 2 condannati (non per mafia…) Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Ancora un “flop” della procura di Nicola Gratteri. Non erano mafiosi. E 25 su 27 sono stati assolti, mentre in due sono stati condannati in primo grado per riciclaggio ma senza l’aggravante mafiosa ipotizzata dall’accusa. Parliamo del processo che si è celebrato a Vibo Valentia denominato “Decollo Ter-Money”, nato dalla fusione di due inchieste, una sul narcotraffico internazionale che dal Sudamerica sfociava in Calabria e l’altra sul riciclaggio e un tentativo di scalata di una banca di San Marino. La prima considerazione da fare è solo apparentemente formale, e riguarda i “soprannomi” che qualche graduato delle forze dell’ordine se non addirittura i pm “antimafia” danno alle inchieste. Proprio pochi giorni fa, con il recepimento definitivo in Senato della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, si è detto “basta” a ogni orpello che presenti indagati e imputati come colpevoli. Basta dunque – come esplicitato nell’emendamento del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa– al processo mediatico, alle conferenze stampa dei pm, alle intercettazioni spiattellate sui giornali e anche ai nomignoli con cui vengono battezzate le inchieste, che alludono esplicitamente alla colpevolezza delle persone coinvolte nei blitz. “Money” vuol dire denaro. Quindi battezzare un’inchiesta con questo nome vuol dire alludere non tanto al più ricco dei paperi, quel Paperone nei cui occhi era rappresentato il dollaro, ma alle grandi quantità di danaro dei traffici della mafia. Però questa inchiesta, secondo le giudici Chiara Sapia (presidente), Giorgia Ricotti e Anna Moricca del tribunale di Vibo Valentia che hanno emesso la sentenza, non ha nulla a che fare con la mafia. Al massimo, ma la condanna riguarda solo due persone su 27, si è trattato di riciclaggio. Il che ha comportato due condanne a tre anni e quattro mesi. Una sproporzione rispetto alla valanga di anni di carcere richiesta dagli uffici del procuratore Gratteri che per alcuni si spingevano fino a 20 anni di reclusione. Ma è giusto come sempre dare al dottor Gratteri solo quel che gli compete. L’inchiesta nasce tra il 2010 e il 2011, quando il capo della Dda di Catanzaro si chiamava Vincenzo Antonio Lombardo. Il processo è iniziato sette anni fa, il procuratore Gratteri l’ha quindi ereditato solo nel 2016 quando è subentrato al suo predecessore. Tutto vero, però le richieste a condanne che andavano da tre a vent’anni le ha fatte il suo ufficio. Il “flop” lo può quindi condividere con il dottor Lombardo, oneri e onori compresi. Le indagini su un narcotraffico internazionale tra Venezuela Spagna Colombia con destinazione finale la Calabria aveva radici antiche, fin dal 2004, con un primo processo che aveva portato a un certo numero di condanne. Da lì era scaturita l’inchiesta del 2011, con un probabile abbaglio preso dai carabinieri del Ros coordinati dalla procura antimafia di Catanzaro, che hanno attribuito alla ’ndrangheta quella che era una semplice operazione di riciclaggio limitata a due persone, un calabrese, Giorgio Galiano, genero di un narcotrafficante legato alla cosca Mancuso di Limbiati, e Walter Vendemini all’epoca, tra il 2010 e il 2011, direttore generale del Credito sammarinese. Il progetto dei due, ricostruito dalla sentenza di condanna, era quello di dare la scalata all’Istituto di credito, che versava in cattive acque, attraverso l’acquisizione di quote di capitele fino ad assumerne il totale controllo. Un piano che comportava la possibilità di accedere a una consistente disponibilità di denaro liquido proveniente dal narcotraffico. Ma il problema è che tutto questo nulla aveva a che fare con un’associazione mafiosa. Ciò nonostante la Dda di Catanzaro ha pensato bene di coinvolgere nell’inchiesta con un processo lungo sette anni, il presidente del Credito sammarinese Lucio Amati e altri dirigenti della banca. Tutti mafiosi secondo l’accusa. Tutti innocenti per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, secondo i giudici. Ed è proprio questo il motivo dei tanti “flop” delle inchiesta del procuratore Gratteri. Continuando a distribuire le patenti di mafiosità, si rischia di fare il lavoro opposto a quell’intenzione di smontare e ricostruire come un lego la Calabria di cui l’alto magistrato si era vantato il giorno del suo insediamento a Catanzaro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Nicola Gratteri, 20 anni di fallimenti: blitz, arresti e show ma poi tutti assolti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Domani la corte d’appello di Catanzaro deciderà in camera di consiglio sulla clamorosa ricusazione che la Dda presieduta da Nicola Gratteri ha avanzato nei confronti del magistrato Tiziana Macrì, che dovrebbe presiedere il prossimo 13 gennaio la prima udienza del Maxi “Rinascita Scott”. Dalla decisione uscirà anche un verdetto in senso lato “politico” sul potere del magistrato più popolare d’Italia. Di cui ricostruiamo, attraverso tante sentenze che sconfessano le sua inchieste, un po’ di storia. Dalla retata di Platì del 2003 fino a “Rinascita Scott” e “Imponimento” del 2019-2020. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri agisce sempre in grande, fin da quando era ancora un semplice sostituto. Luminosa scenografia e tante, tante manette. Poi la montagna si sgretola, e tanti giudici, quello delle indagini preliminari, quelli del riesame, infine la cassazione, bocciano le speranze di colui che volle diventare il Falcone di Calabria. Di fallimento in fallimento, fino alla totale assoluzione, di Mario Oliverio, l’ex presidente della Regione Calabria che Gratteri voleva arrestare, che fu spedito al confino e indagato per due anni, che perse il suo incarico per niente, perché il fatto non sussiste, ha stabilito il giudice. E la formula più ampia di assoluzione prevista dal codice. Cioè chi aveva avanzato l’accusa aveva preso lucciole per lanterne, aveva visto un reato dove non c’era neanche il fatto. Le buone abitudini, il dottor Gratteri le aveva imparate da piccolo. Erano le tre del mattino del 12 novembre 2003 a Platì, quando l’intero paesino della Locride fu svegliato dall’arrivo di centinaia di uomini in divisa i quali, in diretta televisiva, assaltarono, perquisirono a arrestarono 150 persone accusate di associazione mafiosa. Tra di loro c’erano due ex sindaci, dodici ex assessori comunali, due ex segretari comunali, due tecnici, il comandante della polizia municipale e un vigile urbano. La richiesta portava la firma di un certo dottor Nicola Gratteri, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria. Il quale riteneva con questa operazione, che sarà chiamata “Marine”, di aver distrutto il clan della famiglia Barbaro la quale, agendo da egemone sul territorio, avrebbe acquisito il monopolio totale sugli appalti pubblici. Con la complicità di una bella fetta della popolazione di un paese di tremila persone e delle istituzioni locali. I reati, dal voto di scambio all’estorsione, al falso e all’abuso d’ufficio, erano tenuti insieme dall’associazione di stampo mafioso. Fu il suo primo blitz scenografico in quel territorio. E anche il suo primo scivolone nella zona. Dopo undici anni che cosa resterà di quella montagna di accuse? Solo un risultato politico, perché il paese di Platì resterà sempre più abbandonato ai commissari governativi e sempre più impossibilitato a essere amministrato. Per una radicata presenza mafiosa che i blitz scenografici possonosolo rafforzare. Se qualcuno ha la curiosità di sapere la fine della storia, eccola: nessuno condannato per mafia, tutti assolti tranne otto (di cui cinque per reati di lieve entità). Otto su centocinquanta, chiaro? Si potrà pensare che possa capitare di sbagliare (ma giocando con la vita e la libertà dei cittadini?), anche se va ricordato che quando sbagliamo noi che siamo senza toga, veniamo processati, e se per caso siamo recidivi scattano le aggravanti. Che aggravante vogliamo contestare a chi ripete sempre lo stesso “errore” giudiziario? Perché, se la notte di Platì era stata una sorta di prima esibizione del sostituto Gratteri nella sua veste di sostituto procuratore di Reggio, la sua azione non era stata da meno, negli anni novanta, quando aveva rivestito lo stesso ruolo a Locri. Indimenticabile, purtroppo, l’operazione Stilaro. Quando partì un’indagine nei confronti di 102 persone e in una gelida notte di febbraio furono portati in carcere 62 cittadini di Camini (40 indagati a piede libero), piccolo centro jonico. Finirono in manette il sindaco professor Giuseppe Romeo, persona stimatissima da tutti, l’intera giunta e gran parte del consiglio comunale. Tutti mafiosi? A quanto pare no, visto che risultarono tutti estranei a qualunque contiguità con la ‘ndrangheta. «Sappia la società civile – aveva detto in conferenza stampa il responsabile provinciale della Dda – che non ci fermeremo davanti a nessun santuario…». Il “santuario” era fatto di persone per bene, che furono trascinate in ceppi nel cuore della notte davanti ai bambini in lacrime e un intero paese che assisteva sgomento. Tutti assolti all’udienza preliminare, meno di un anno dopo gli arresti. Tutta la storia giudiziaria della Locride nei primi anni novanta è punteggiata dalle inchieste-bufala, cui si accompagnano arresti in diretta televisiva e spumeggianti conferenze stampa in cui ogni capitombolo del procuratore è trasformato in successo. Voglio dimostrarvi, disse una volta il dottor Gratteri in un’intervista, che io sono capace anche di far scattare le manette ai polsi di cinquecento persone in una sola volta. Lo ha anche fatto, nei confronti di amministratori e funzionari dei comuni della Locride. Tutti assolti. Come nelle inchieste “Circolo Formato”, “Ionica agrumi” e “Asl Siderno”. Lo stile è l’uomo, disse qualcuno. E quello che è servito quasi da esercitazione di un sostituto procuratore, ha la stessa impronta del presente e delle inchieste avviate, con la stessa scenografia, dal capo della procura antimafia di Catanzaro. E alla stessa maniera in gran parte fallite. Nicola Gratteri è nominato all’alta carica il 21 aprile del 2016, ma il suo impegno maggiore lo vedrà protagonista soprattutto tra il 2018 e il 2019. È in questi anni che ogni blitz, ogni inchiesta è sempre la più importante, quella decisiva e definitiva per l’azzeramento della ‘ndrangheta in Calabria. Nel 2018 è l’operazione “Stige”, che vedrà all’alba del 9 gennaio più di mille carabinieri impegnati nella provincia di Crotone a mettere le manette ai polsi di 170 persone. Naturalmente si tratta della «più grande operazione degli ultimi 23 anni». Anche se il primo risultato, nel processo abbreviato, non darà risultati brillanti. L’accusa porta a casa 66 condanne, ma anche 38 assoluzioni. Si attende la sentenza, dopo le richieste del pm (che ha già chiesto altre 18 assoluzioni), per gli altri imputati che vengono giudicati con il rito ordinario. Il 2019 è l’anno del grande blitz del 19 dicembre, «la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxiprocesso di Palermo». Ci risiamo con le conferenze stampa-show. Si chiama “Rinascita Scott”, parte con una richiesta di 334 ordini di cattura, poi decimata dal gip, dal riesame e dalla cassazione, quindi l’inchiesta viene “rabboccata” con il blitz dal nome “Imponimento”, che porta a casa altri 158 indagati, di cui 75 subito in manette. E alla fine il procuratore Gratteri riuscirà a portare a termine solo in parte il proprio sogno di far celebrare il suo Maxi, che vedrà giudicati nell’aula della tensostruttura regalata dalla Regione Calabria 355 imputati, mentre altri ottantanove saranno davanti al gup per il processo abbreviato il 27 dello stesso mese.

Nel frattempo sono state però notti insonni per le ambizioni del procuratore. Vogliamo ricordare per esempio l’inchiesta “Nemea”, un ramo cadetto di “Rinascita Scott” sulla mafia nel vibonese, in cui con la sentenza dell’ottobre scorso, su 15 imputati, 8 sono stati assolti e gli altri 7 hanno avuto le pena dimezzate? Oppure della sentenza clamorosa sull’inchiesta “Borderland” con 20 rinviati a giudizio di cui 13 assolti, tra i quali spicca il nome di Francesco Greco, ex vicesindaco di Cropani, messo agli arresti domiciliari nel 2016 e dichiarato innocente ben quattro anni dopo “perché il fatto non sussiste”?. Si arriva quindi a tempi più recenti, con la decisione del tribunale del riesame di annullare la misura cautelare nei confronti dell’ex presidente del consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, messo ai domiciliari come indagato nell’inchiesta “Farmabusiness”. E poi l’assoluzione nei confronti di Mario Oliveiro e il non luogo a procedere per Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio nell’inchiesta “Lande desolate”. È solo un breve riassunto, probabilmente lacunoso. Cui andrebbero aggiunte considerazioni politiche e anche i comportamenti e le reazioni dei diversi partiti rispetto alle operazioni di certi pubblici ministeri. E anche, perché no, l’atteggiamento degli altri magistrati, a partire dalla gravità del trasferimento del procuratore Otello Lupacchini, e del Csm nei confronti di questa “anomalia” calabrese. Per esempio, nessuno ha ridire sul fatto che la Dda di Catanzaro presieduta dal dotto Gratteri, abbia chiesto la ricusazione del presidente Tiziana Macrì che dovrebbe condurre il processo “Rinascita Scott” del prossimo 13 gennaio? La decisione sarà presa dalla corte d’appello di Catanzaro in camera di consiglio proprio domani 8 gennaio.

Nessun ricorso in Cassazione, a pezzi l'inchiesta Cpl Concordia. Ferrandino assolto dopo la gogna, la Procura si arrende: “Accanimento assurdo, un trauma infinito”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'11 Luglio 2021. “Una valanga di fango su di me e sulla mia famiglia” e oggi che “la giustizia ha ristabilito la verità, restituendomi l’integrità so che non ne parlerà nessuno, giornali o tv”. E’ lo sfogo di Giosi Ferrandino, europarlamentare del Partito democratico ed ex sindaco di Ischia, assolto definitivamente dall’inchiesta della Procura di Napoli sulla Cpl Concordia, scoppiata a marzo 2015 e relativa agli appalti per la metanizzazione dell’isola conclusasi con una raffica di assoluzioni dopo il solito clamore iniziale. Anni di gogna per Ferrandino. “Un trauma che mi porterò sempre dietro”. L’europarlamentare venne arrestato con l’accusa di aver intascato una tangente nell’ambito di un piano di metanizzazione. In carcere restò 22 giorni, poi passò a domiciliari. La Procura (indagini condotte dai pm Henry John Woodcock, Celestina Carrano e Giuseppina Loreto, insieme al capitano del Noe Gianpaolo Scafarto) aveva chiesto 6 anni e 4 mesi ma sia in primo grado che in Appello l’ex sindaco di Ischia è stato assolto con la formula secondo cui “il fatto non sussiste”. L’accusa ha alzato bandiera bianca e non ha presentato ricorso con la sentenza che è definitivamente passata in giudicato. Secondo i giudici sono inutilizzabili le intercettazioni su cui si erano basate le fasi iniziali dell’indagine, partita nel 2014. All’epoca Ferrandino era sindaco di Ischia e fu costretto a dimettersi. Venne anche sospeso dal suo partito, il Pd. I pm erano convinti che dietro la convenzione tra la Cpl Concordia e un albergo di Ischia ci fosse il primo cittadino (“Non sono né socio, né gestore” si difese all’epoca). Non contente, basandosi su una intercettazione, accusarono sempre Ferrandino di aver viaggiato in Tunisia a spese della società cooperativa emiliana. Anche in quella circostanza si difese: “Non ho mai messo piede in vita mia nel paese nordafricano”. “Molti anni, molta sofferenza. Dura, per alcuni aspetti indimenticabile. Le misure cautelari, le offese, le dita puntate. Un accanimento giudiziario assurdo” commenta Ferrandino che aggiunge: “Una valanga di fango che si abbatté non solo su di me, ma sulla mia famiglia, la mia amministrazione, il mio partito, il partito democratico. Oggi l’ultima tappa di un percorso durato anni. Sentenza passata in giudicato dopo due assoluzioni “perché il fatto non sussiste” nel primo e nel secondo grado di giudizio”. Poi lo sfogo contro la gogna mediatica: “All’epoca la vicenda finì in prima su tutti i giornali, andò in tv, ci dedicarono ore ed ore di parole. Ed ovviamente furono parole di condanna. Io non ho mai creduto in un errore giudiziario ed anche per questo ho insistito per andare fino in fondo, nonostante le proposte che mi furono avanzate per chiuderla velocemente. Il senatore del Pd Gianni Pittella aggiunge: “Diviene definitiva l’assoluzione per l’ex sindaco di Ischia ed europarlamentare Giosi Ferrandino per il quale finisce un incubo di anni. Ancora una volta nessuno pagherà questo errore marchiano. A Giosi un abbraccio e un impegno: la battaglia per una giustizia giusta non si ferma”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Si sgonfia l’indagine. Inchiesta Pegaso, flop di Woodcock: per il Gip “Non ci fu corruzione”. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Ricordate l’inchiesta Pegaso? Era l’indagine sui vertici della famosa università telematica, inchiesta presentata come il terremoto giudiziario del momento che sfociò, in febbraio, in perquisizioni e sequestri di atti e pc sui quali il Tribunale del Riesame si pronunciò poi accogliendo le istanze difensive e commentando in maniera molto critica le scelte del pm. Ebbene, tanto rumore per nulla verrebbe da dire ora alla notizia che il giudice per le indagini preliminari Tommaso Perrella ha firmato il decreto di archiviazione. Che non vi fossero elementi per continuare a sostenere le accuse di corruzione deve averlo pensato anche il pm Henry John Woodcock che, dopo la bocciatura dell’inchiesta da parte del Riesame, ha fatto richiesta di archiviazione. L’indagine è quella che a febbraio scorso si abbatté sui vertici dell’università telematica Pegaso per una serie di sospetti di corruzione in relazione all’iter di un emendamento alla legge di Bilancio 2020 (l’emendamento che al comma 721 cambiava il regime fiscale nei confronti degli atenei privati, quindi anche della Pegaso) e sulla trasformazione dell’università in società per azioni. L’archiviazione allontana quindi ogni accusa dall’operato del patron Danilo Iervolino, del direttore generale dell’ateneo Elio Pariota, del capo dell’ufficio marketing Maria Rosaria Andria, del vice prefetto Biagio Del Prete, del professor Francesco Fimmanò, avvocato, docente di Diritto commerciale e componente del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, del professor Giuseppe Fioroni, dei magistrati del Consiglio di Stato Claudio Zucchelli e Paolo Carpentieri. «Non sussistono i presupposti per procedere a un vaglio dibattimentale delle due ipotesi delittuose formulate dal pm», scrive il gip nel disporre l’archiviazione. «In particolare – aggiunge – quanto alla cosiddetta vicenda Fioroni, non emergono profili di rilevanza penale nelle condotte dei soggetti coinvolti». Il perché è spiegato così: «Dal 2018 Fioroni non riveste più alcuna carica pubblica né esercita alcun ufficio pubblico, ragion per cui l’attività di intermediazione dallo stesso posta in essere nel 2019 in favore della Pegaso, nell’ambito di una manovra di espansione economico-patrimoniale finalizzata all’acquisizione dell’università privata Link Campus University, risulta sottratta all’applicazione dello statuto penale della pubblica amministrazione». E lo stesso vale per la vicenda relativa all’iter che ha condotto il Parlamento all’emanazione del cosiddetto “comma Pegaso” in base al quale anche le università non statali sono escluse dalla tassazione ordinaria prevista dal Testo unico delle imposte sui redditi. Tutto questo ha fatto vacillare l’ipotesi accusatoria sulle presunte corruzioni legate alla gestione del gruppo universitario Pegaso. «Iervolino, Fimmanò e gli altri presunti corruttori non hanno posto in essere alcuna condotta illecita ai fini dell’ottenimento dell’ormai famoso parere del Consiglio di Stato del 14 maggio 2019», sottolinea il gip nel decreto con cui mette un punto all’inchiesta, la sgonfia, la chiude, scagionando tutti gli indagati. Accolte, dunque, le tesi degli avvocati Vincenzo Maiello e Giuseppe Saccone e di tutti i penalisti del collegio di difesa che avevano contestato le ipotesi accusatorie. Ora il caso è chiuso, l’inchiesta archiviata.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Tutti i flop di Woodcock: dal Vipgate in poi, storia dei fallimenti del Pm che non ne indovina una. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Ci risiamo. La nuova maxi inchiesta da prima pagina del pm napoletano Henry John Woodcock si è già sciolta come neve al sole. Era un po’, a dire il vero, che non si avevano notizie di indagini da parte del pm anglo-napoletano. Questi, comunque, i fatti. Secondo la procura di Napoli, i vertici dell’università telematica Pegaso, nata nel 2006 e forte attualmente di centomila iscritti e ben seicento enti convenzionati, fra cui l’Arma dei carabinieri, sarebbero riusciti a far votare un emendamento nella scorsa legge di Bilancio che cambiava il regime fiscale nei confronti degli atenei privati. Il motivo? La successiva vendita del 50 percento delle quote societarie ad un fondo americano. Il reato ipotizzato è quello di corruzione, un reato “passpartout”, come l’abuso d’ufficio, e ultimamente anche il traffico d’influenze, che non si nega a nessuno. I vertici dell’ateneo telematico avrebbero trovato per il loro disegno criminoso una sponda a Roma. Oltre che al Miur, anche al Consiglio di Stato, chiamato a dare un parere consultivo sulla norma poi approvata dal Parlamento. Fra gli indagati eccellenti, il presidente della Pegaso, Danilo Iervolino, difeso dagli avvocati Vincenzo Maiello e Giuseppe Saccone, il direttore generale Elio Pariota, anch’egli difeso dall’avvocato Saccone, il capo ufficio marketing Maria Rosaria Andria, il vice prefetto Biagio Del Preto, all’epoca dei fatti capo segreteria del Miur, e alcuni professionisti. Indagato anche il professore Francesco Fimmanò, che ha avuto la sfortuna, di rappresentare l’università nel procedimento innanzi al Consiglio di Stato sezione consultiva. Non noto il nome del giudice del Consiglio di Stato che avrebbe avallato il parere “pro Pegaso”. Il prezzo della corruzione sarebbe consistito in un weekend nella ridente località montana di Pescocostanzo e nella partecipazione al Comitato scientifico di un master dell’università. Le indagini sono state condotte dalla guardia di finanza per oltre un anno con l’utilizzo massiccio di intercettazioni di ogni tipo. Volevano ad ogni costo sapere se davvero quei brutti ceffi erano stati a Pescocostanzo e se si erano divertiti e quanto si erano divertiti. Nei giorni scorsi, però, il Riesame di Napoli, presidente Alfonso Sabella, ha annullato tutti i sequestri dei cellulari e dei tablet che erano stati eseguiti dagli inquirenti, ritenuto assente il cosiddetto “fumus”. Va detto che è molto inusuale che venga annullato un decreto sequestro probatorio che, per sua natura, si fonda su ipotesi indiziarie minime. Ciò lascia capire, come dichiarato da uno dei difensori degli indagati, il «contesto di sconcertante debolezza» dell’impianto accusatorio. In attesa di conoscere le mosse della procura, gli indagati hanno chiesto lo spostamento del fascicolo a Roma. «Non v’è una sola circostanza della ipotesi di reato che potesse essere potenzialmente commessa nel circondario del Tribunale di Napoli. Il Parlamento italiano è a Roma, come pure il Miur e ogni altro Ministero, come pure il Consiglio di Stato, come pure le Commissioni parlamentari e come pure per il ruolo era Del Prete», si legge in una nota. Sul fronte delle indagini condotte da Woodcock vale la pena a questo punto ricordare il numero incredibile di assoluzioni e proscioglimenti. Fra i casi più eclatanti, il cosiddetto “Vipgate”: un’inchiesta partita nel 2003 che coinvolse a vario titolo settantotto persone tra cui i politici Franco Marini, recentemente scomparso, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv Anna La Rosa. Le accuse terribili (associazione per delinquere per la turbativa di appalti, corruzione, estorsione e tante altre) vennero archiviate dal Tribunale di Roma, a cui l’inchiesta era stata trasferita per competenza. Poi “Iene 2” che nel 2004 ipotizzò un sodalizio tra esponenti politici lucani e criminalità organizzata e finì con cinquantuno arresti respinti. Quindi il mitico “Savoiagate” con l’arresto fra gli altri del figlio del re Umberto di Savoia, Vittorio Emanuele, per associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione e alla concussione. Approdata l’inchiesta a Como, vennero tutti assolti perché il fatto non sussisteva. Ma vedi un po’. Segue “Vallettopoli”, un giro di ricatti nel mondo dello spettacolo. Fra gli indagati, Elisabetta Gregoraci, il portavoce del presidente Gianfranco Fini Salvatore Sottile, Lele Mora, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio. L’inchiesta, come si ricorderà, arrivò al Tribunale dei ministri di Roma e venne chiusa con archiviazioni di massa. Voi dite: beh, poi basta. Macché, c’è ancora l’indagine sulla super loggia segreta P4, quella massoneria lucana e, da ultimo, il procedimento Consip. Questa inchiesta costò un procedimento disciplinare al Csm da cui Woodcock è stato completamente assolto e una citazione nel libro di Luca Palamara. Abbastanza inquietante la citazione, perché riguarda anche il vicepresidente del Csm Legnini, e una intercettazione fantasma, e il rischio che questa intercettazione facesse scandalo, e la decisione di chiudere tutto in fretta. Un must, considerando il successo clamoroso del libro, giunto alla terza ristampa e con l’edizione in lingua inglese e la docuserie in pista di lancio.

Ego te absolvo. Marco Travaglio archivia l’honestà e "assolve" Chiara Appendino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Mettere la parola “onestà” al posto di “innocenza”. E tutto quadra. Si potrebbe persino modificare l’articolo 27 della Costituzione (che in realtà parla di non colpevolezza, non di “innocenza”), nel mondo di Marco Travaglio e dei suoi cari. Che in realtà non credono nella giustizia. Nel mondo in cui Chiara Appendino dovrebbe essere ricandidata a sindaco di Torino, secondo il direttore del Fatto, «non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Schiuma di rabbia, il povero Marcolino, quasi qualcuno gli avesse disobbedito, facendo deporre la fascia tricolore al sindaco di Torino. Che Chiara Appendino sia una persona per bene, un sindaco “normale”, e che non abbia fatto disastri come la sua collega Virginia Raggi a Roma, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. È sotto gli occhi di tutti. Ma in questi quattro anni la prima importante sindaca grillina, pur appoggiata inizialmente dal mondo produttivo torinese, non è riuscita a scrollarsi di dosso il suo mondo d’origine, quello dei No-Tav e della purezza da decrescita più o meno felice che l’ha portata a rinunciare alle Olimpiadi della neve e a perdere il salone dell’auto, oltre che a chinare la testa di fronte alla più combattiva Milano, concorrenziale su grandi mostre e salone del libro. Motivi politici, e difficoltà d’incontro dei due mondi – quello grillino con il ditino alzato e i grandi rifiuti, e quello della tradizione di sinistra, da Mirafiori fino all’intellighenzia snob con la puzza sotto il naso – prima ancora che la “questione di coerenza” per motivi giudiziari, hanno portato la sindaca al passo di lato. Così lei stessa ha definito il suo abbandono della fascia tricolore. Il che toglie un bel po’ di castagne dal fuoco all’alleanza rossogialla. Per lo meno a Torino, viste le difficoltà nella città di Roma con la ricandidature spontanea di Virginia Raggi. Nel mondo “normale”, come avrebbe potuto essere quello di un sindaco normale come Appendino, non peserebbe più di una piuma quella condanna a sei mesi per falso ideologico che accomuna il primo cittadino di Torino a quello di Milano Beppe Sala e a tanti altri sparsi per l’Italia. Sono gli assurdi “incidenti sul lavoro” dei pubblici amministratori. Quegli stessi soggetti che la piccola sub-cultura di Marcolino e del suo amico Bonafede ha voluto, per esempio con la legge “spazzacorrotti”, equiparare agli assassini mafiosi e ai trafficanti internazionali di droghe. Ma nel mondo di onestà-onestà ogni sospiro, ogni piccolo gesto di attenzione di un pubblico ministero conta più di un premio Nobel. A volte, e in questo il Fatto quotidiano è insuperabile maestro, gli uffici della procura vengono addirittura sollecitati. È il caso dell’assessore lombardo alle politiche sociali Giulio Gallera, per sua fortuna non sottoposto a nessuna indagine giudiziaria, ma il cui cognome viene ogni giorno storpiato con la cancellazione di una “L” in modo da evocare e sollecitare le manette. Ovvio che, nel piccolo mondo di Marcolino, quella condanna in primo grado di Chiara Appendino bruci come una bestemmia in chiesa. Un affronto. Ma anche una realtà che cozza con le strampalate regole del grillismo e del travaglismo. Basterebbe rileggere quell’accozzaglia di insulti che ogni giorno viene stampata sul colonnino laterale destro nella prima pagina del Fatto. Quel che è stato sparato, con la forza di pallottole, per esempio nei confronti del sindaco milanese Sala o del governatore lombardo Fontana. Amministratori “normali” proprio come Appendino. Di cui però Marcolino non auspicherebbe mai la ricandidatura, soprattutto per motivi giudiziari. Ecco perché non riesce a ingoiare la rinuncia della sindaca di Torino al secondo mandato. Se la prende con il partito di Grillo e Di Maio perché non aggiorna immediatamente il Codice etico, «ancora troppo rigido e dunque inefficace». Poi inciampa, ricordando come sia giusto allontanare i condannati, specie se per reati gravi come il falso. Però l’ultima parola, suggerisce, andrebbe ai probiviri. Sembra quasi dire che non conta tanto la decisione della magistratura quanto quella del partito. Complimenti per il doppiopesismo, Marcolino! Per uno che è campato sulle vicende giudiziarie di Roberto Formigoni non è male come giravolta. Che cosa dice di Chiara Appendino? «Non ha rubato, “mafiato”, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali». Sai, Marcolino quanti esempi di pubblici amministratori, da Tangentopoli in avanti, potremmo farti, anche di persone che si sono suicidate per la vergogna di insinuazioni ingiuste fatte da persone come te? Persone per bene che, proprio come Chiara Appendino, non avevano rubato o truffato o “mafiato” e hanno dovuto subire magari il carcere e la gogna quotidiana sparsa a piene mani dalla sub-cultura che a te è sempre piaciuta finché le condanne non hanno colpito i tuoi cari. Non stupisce il finale del tuo colonnino laterale destro di ieri. Uso volutamente il termine “laterale destro”, con cui viene definito, nei tribunali, il giudice più anziano che siede alla destra del presidente. Perché tu oggi hai emesso una sentenza. Hai stabilito che non ti importa niente della giustizia. Tu invochi il Movimento Cinque Stelle, cioè un partito, in favore di Chiara Appendino: «Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza». Ed ecco lo squillo di trombe, la vera anima del giacobino che in realtà non crede nelle decisioni dei giudici (del resto ha sempre preferito i pubblici ministeri): «Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Ego te absolvo.

La memoria corta di Salvini. Il garantismo a targhe alterne di Salvini: voleva abolire l’abuso di ufficio ma attacca Zingaretti indagato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Gennaio 2021. Il garantismo per Matteo Salvini? Solo quando conviene al leader della Lega. L’ultima capriola del segretario del Carroccio arriva a seguito della notizia dell’indagine che coinvolge il presidente della Regione Lazio (nonché segretario del Partito Democratico) Nicola Zingaretti e l’Assessore alla Sanità laziale Alessio D’Amato. La procura di Roma, come emerso venerdì, contesta ai due esponenti del Pd il reato di abuso d’ufficio in relazione a delle nomine ai vertici delle Asl laziali. Salvini ha immediatamente utilizzato l’inchiesta per attaccare Zingaretti, impegnato in queste ore nelle trattative per garantire una maggioranza solida al governo Conte: “I cittadini meritano chiarezza e rapidità – scrive su Twitter Salvini – anche per le eventuali ricadute sul governo: i guai del leader Pd complicano il reclutamento di voltagabbana o per il M5S i politici indagati non sono più un problema?”. Prorogate indagini su Zingaretti per le nomine Asl in Lazio. I cittadini meritano chiarezza e rapidità, anche per le eventuali ricadute sul governo: i guai del leader Pd complicano il reclutamento di voltagabbana o per il M5S i politici indagati non sono più un problema? Lo stesso Salvini, sia sui social che in televisione, mostrava idee ben diverse sull’abuso d’ufficio. Nel giugno dello scorso anno, condividendo un appello del presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, Salvini parlava di abuso d’ufficio come di “un reato fantasma che blocca la pubblica amministrazione e rallenta tutto, va abolito”. E ancora: “Su 7.000 procedimenti aperti nel 2018, più di 6.000 archiviati, e le condanne sono state meno di 100. Per ripartire l’Italia ha bisogno di velocità ed efficienza, di gru e cantieri e ovunque: spazziamo via la burocrazia inutile e quello che la frena”. L’abuso d’ufficio, un reato “fantasma” che blocca la Pubblica Amministrazione e rallenta tutto, va abolito. Lo chiede Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali, lo chiedo da tempo anche io. Anche nel maggio 2019, quando Salvini era ministro dell’Interno nel primo governo Conte, a Porta a Porta pronunciò parole simili: “Io abolirei l’abuso d’ufficio o lo abolirei, perché non posso bloccare 8mila sindaci per la paura che uno possa essere indagato – diceva il leader della Lega -. Ci sono sindaci che non firmano niente per paura di essere indagati”. Un reato "giusto" solo se ad essere indagato è l’avversario politico.

Gli attacchi del Fatto al giudice della trattativa. Marco Travaglio chieda a Pippo Ciuro chi è il giudice Alfonso Giordano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano se la prende con l’ex giudice Alfonso Giordano il quale, in una intervista al Riformista, ha espresso tutto il suo scetticismo sull’ipotesi che ci sia stata nei primi anni Novanta una trattativa Stato-Mafia, e ha citato Giovanni Falcone a sostegno della propria idea. Travaglio si chiede come possa, Falcone, aver smentito una trattativa che iniziò solo dopo la sua morte. A parte il fatto che le date di questa trattativa ballano un po’ troppo, anche perché la tesi di fondo è che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto la trattativa (che quindi, se iniziò dopo la morte di Falcone, fu una trattativa lampo…) il punto è un altro: Giordano non sostiene che Falcone negò la trattativa, semplicemente che indagò (lui indagava davvero: non lavorava sulle congetture) e affermò che non esisteva il terzo livello della mafia (cioè la politica) e considerò del tutto inattendibili i testimoni intervistati da Report nella recente trasmissione molto pasticciata della settimana scorsa. Voi sapete che vagliare bene la credibilità dei pentiti è fondamentale nelle indagini antimafia. Sennò si rischia di fare un tonfo (come lo fece Di Matteo, uno dei Pm chiave nelle indagini su Stato-Mafia, che credette al pentito fasullo Scarantino e mandò a monte le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino). Ma perché Travaglio se la prende con Alfonso Giordano? Immagina che sia uno poco preparato? Giordano, insieme a Peppino Di Lello e Giuseppe Ayala, è l’unico sopravvissuto di quel drappello di magistrati che sventrano Cosa Nostra tra gli anni 80 e 90, e poi furono lasciati soli, accusati di “cedimentismo” dai professionisti dell’antimafia di allora. Giordano è stato il presidente della Corte che realizzò il famoso maxiprocesso alla mafia. Magari Travaglio non lo sapeva. È giovane. È giustificato. Però potrebbe chiedere informazioni a Giuseppe Ciuro, il poliziotto con il quale andava in vacanza nei primi anno del 2000, e che poi fu condannato a 4 anni e mezzo per aver passato ad alcuni imputati per mafia i segreti della Dda della quale faceva parte. Chieda a Ciuro chi è Giordano: vedrà che lui lo sa.

L'iniziativa del Fatto Quotidiano. Travaglio ossessionato da Renzi, Salvini e Berlusconi: pubblica il calendario dei processi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Come sarà il 2021? Non chiediamolo a Nostradamus, meglio rivolgersi ai pubblici ministeri e ai giudici. Ce lo suggerisce il Fatto quotidiano, con quattro pagine e un folto gruppo di cronisti d’assalto a ricordarci che sul banco degli imputati ci saranno ancora Renzi e Salvini e Berlusconi. E poi Palamara e Descalzi. E questo è il vero e unico, per loro, calendario dell’anno in corso. All’inizio dell’anno si rinnova il calendario. In gran parte del mondo, come in Italia, si usa il calendario gregoriano, che si fonda sull’anno solare. Ma c’è poi il Calendario cinese, che è lunisolare, quindi alterna anni di dodici mesi con anni di tredici, proprio come il Calendario ebraico. Mentre il Calendario islamico è un calendario lunare e si basa sulla durata del mese lunare, mentre il Calendario indiano è di dodici mesi, cui si aggiunge un giorno quando l’anno è bisestile. Queste sono le tipologie di calendari che regolano la nostra vita. Ma arriva comunque per tutti, tra poco anche per i cinesi, un momento in cui si fanno i conti con il recente passato e si fa il punto sull’anno che verrà. Che governo avremo? Quali progetti per l’economia il lavoro la scuola l’ambiente la giustizia? E per la salute, a che punto saremo nella lotta al tremendo Coronavirus che sta distruggendo tante nostre speranze, oltre a molte vite umane? Ci vogliono veramente delle menti ossessionate e ossessive per proporre ai propri lettori (che immaginiamo non siano proprio tutti così paranoici) un calendario fatto tutto quanto solo di imputati. Il titolo è promettente: “Un 2021 di indagini e processi”, con un bel panorama, composto solo da “nemici”, politici o imprenditori, degli estensori e di chi li dirige. Il quale direttore, purtroppo per noi che siamo suoi affezionati estimatori, da quando si è autoproclamato come addetto stampa del signor Giuseppe Conte (che casualmente fa il presidente del consiglio) purtroppo non si occupa più di giustizia. Ma ogni giorno, dalla solita colonnina di destra della prima pagina, tira sciabolate a tutti i quotidiani e i giornalisti non allineati con lui e con l’Amor Suo. Ma i suoi cronisti d’assalto non gli sono da meno. I protagonisti politici sul banco degli imputati sono i soliti tre: Berlusconi, Salvini, Renzi. Solo quest’ultimo merita la prima pagina, con sua foto insieme a Maria Elena Boschi e una domanda ficcante, “Chi vuole piazzare 2 indagati al governo?”, che pare aprire il calendario processuale del 2021. Dal punto di vista dell’accusa, naturalmente, nel solito circo mediatico-giudiziario d’antan. Matteo Renzi è indagato a Firenze per una vicenda che si sta un po’ trascinando e che riguarda finanziamenti privati alla Fondazione Open, che un pubblico ministero definito dal segretario di Italia Viva come “ossessionato” dalla sua persona, ritiene essere la cassaforte del partito, che sarebbe stata riempita sotto banco per far confluire i soldi direttamente e fuori bilancio a Iv. La difesa non è riuscita a far spostare la competenza territoriale, sulla base dei luoghi dove erano avvenuti i primi versamenti. Niente da fare. Ma una qualche soddisfazione era arrivata nel settembre dell’anno scorso da un’ordinanza della sesta sezione della cassazione che annulla vari sequestri di computer e telefonini disposti nei confronti di tutti i componenti della famiglia che gestiva la multinazionale farmaceutica di Firenze Menarini. Naturalmente il Fatto non ne parla, ma nel testo del provvedimento si legge che «Il sequestro sulla Fondazione Open fu invasivo e sproporzionato», oltre che «onnivoro e invasivo». L’ordinanza della Suprema Corte dice esplicitamente che chi indagava per i finanziamenti alla Fondazione Open cercava di usare i sequestri per individuare altre notizie di reato. Se questo era lo stile, cioè individuare il “reo” prima di aver trovato il reato, forse non aveva tutti i torti Matteo Renzi quando diceva che un certo magistrato era “ossessionato” dalla sua persona. Ma non è il solo. Certe patologie riguardano anche la stampa, o almeno una sua parte. Se Renzi è il numero uno delle ossessioni travagliesche, sicuramente Salvini, con annessi e connessi della Lega, a partire dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, è il numero due. Sono quattro i servizi dedicati a lui e ai suoi amici. Il primo, “Salvini in aula per i sequestri degli immigrati” non teme il ridicolo. Non un’ombra di dubbio sfiora il cronista, mentre racconta, con il tono virtuoso del bravo cronista, la storia di Open Arms. Neanche un accenno alla testimonianza dell’ex ministro Toninelli e dei suoi 42 “non ricordo”. Neppure un dubbio sul fatto che per esempio anche quando ormai c’era il governo Conte due e il ministro dell’interno era già Luciana Lamorgese, un’altra nave fu tenuta a lungo ferma in porto con i suoi passeggeri “sequestrati”. Magari perché si era in campagna elettorale. Gli altri articoli su persone legate alla Lega servono solo a uno scopo: cercare di dimostrare – dimenticando il piccolo principio costituzionale che afferma essere la responsabilità penale personale – che tutto fa brodo e tutto va ricondotto al finanziamento illecito al Carroccio. Si rispolvera persino (un invito al magistrato?) l’episodio dell’hotel Metropol di Mosca, di cui non si sa più niente, forse perché non esiste il reato e l’inchiesta potrebbe essere finita su un binario morto, come si fa quando non si ha la forza di archiviare. Il terzo politico preso di mira non potrebbe che essere Silvio Berlusconi. Ci sono tre tronconi sparsi per l’Italia del processo “Ruby ter” in cui il leader di Forza Italia è a giudizio perché accusato di aver corrotto testimoni delle due precedenti cause. Anche qui una ruga di dubbio non solca mai la fronte del cronista. Questi testimoni dovrebbero dire la “verità” su quel che succedeva nelle cene di Arcore. Ma nulla dello svolgimento di quelle serate costituisce reato, come ha stabilito una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Che bisogno c’era quindi di corrompere testimoni che nulla avrebbero potuto dire oltre a quel che è stato sancito da una sentenza definitiva? Gli altri casi giudiziari che avranno sviluppi nel 2021 riguardano l’ex magistrato Palamara e il suo processo di Perugia e anche quello sul crollo del ponte di Genova dopo la perizia che ha appurato la mancanza di manutenzione nel corso degli anni. E infine la vicenda Eni e la presunta maxitangente nigeriana per la quale viene processato l’amministratore delegato Claudio Descalzi per corruzione. Come dimenticare l’arringa del pm milanese De Pasquale che ha chiesto otto anni di carcere il 20 luglio scorso, nella stessa data tragica del suicidio nel carcere di San Vittore nel 1993 di un altro presidente Eni, Gabriele Cagliari, da lui indagato e “imbrogliato” sulla concessione della libertà? E come dimenticare il fatto che in un’inchiesta gemella, ma che riguardava l’Algeria, lo stesso preside te Descalzi è stato assolto dalla corte d’appello di Milano? I cronisti del Fatto non ricordano. Ricordano solo che il loro calendario non è né lunisolare né lunare, ma giudiziario. Anzi giustizialista.

E’ giornalismo, questo? Il tritacarne di Travaglio contro Oliverio: 15 prime pagine di accuse, una breve a pagina 13 per l’assoluzione…Redazione su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. L’assalto giudiziario del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri contro l’allora presidente della regione Mario Oliverio fu raccontato ed esaltato dal Fatto Quotidiano almeno 15 volte in prima pagina. Sapete – no? – come si chiama questa pratica, in gergo: è la gogna mediatica. Si prendono le accuse di un Pm, si trasformano in sentenze per magia, e si usano per demolire una persona. Molti articoli, molti titoli, molti editoriali di Marco Travaglio in persona. Poi un bel giorno succede che il Gup debba emettere una sentenza sulle accuse di Nicola Gratteri a Oliverio. E la sentenza è semplice, secca e veloce: il fatto non sussiste. Cosa sussiste? Solo il Fatto Quotidiano. Il quale ripara alla sua travolgente e sconsiderata campagna di stampa con un gesto molto onesto: dà notizia ai suoi lettori della assoluzione. In pagina 1? no. In pagina 2 ? No. In pagina tre, quattro, cinque, sei… no, no, no. In pagina 13. Proprio in fondo alla pagina. Una “breve” (si chiama così, sempre in gergo giornalistico, spesso viene usata per annunciare feste di paese, di piccolo paese, o lotterie, o riffe) di 18 righe esatte, con un titolo a una colonna. Nelle 18 righe non trova spazio la parola Gratteri. Cioè il nome del magistrato che ha collezionato il suo ennesimo flop, dopo aver terremotato la regione e spinto al cambio di maggioranza. E’ giornalismo, questo? Diciamo che se per giornalismo intendiamo l’attività di chi fa informazione, beh, no: non è giornalismo. Se invece ci riferiamo solo al giornalismo italiano, allora sì: è giornalismo di prim’ordine…

Ira Davigo: troppi appelli. Ma non se riguardano lui. Annunciazione, annunciazione. "La prescrizione in Italia è unica al mondo". Svolgimento a cura di Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano. Felice Manti, Giovedì 14/01/2021 su Il Giornale. L'ormai ex magistrato, dismessa la toga, torna da cronista a disquisire di giustizia e dintorni: la prescrizione dei reati è «ragionevole» ma le modalità con cui viene applicata in Italia la rende dannosa. La fine è nota: secondo Davigo la colpa della sentenza sulla strage di Viareggio non è legata al fatto che il processo si è istruito quattro anni dopo la strage, ma è tutta da addebitare alla prescrizione, che ha «in parte vanificato le attese di giustizia delle vittime e dell'opinione pubblica» pur essendo «un istituto ragionevole» perché «se passa troppo tempo cessa l'interesse a ricostruire i fatti, a stabilire torti e ragioni, nel diritto penale a punire (tranne per delitti di estrema gravità che sono imprescrittibili)». Certo, Davigo arriva persino a riabilitare la famigerata legge firmata da Edmondo Cirielli che aveva «meritoriamente proposto di sterilizzare in parte aggravanti e attenuanti per il computo della prescrizione». Poi però la norma fu stravolta (verissimo) e qui la penna di Davigo torna a intingersi nell'inchiostro forcaiolo: «Una sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione non è una sentenza di assoluzione, anzi se interviene nei gradi di appello e Cassazione, talvolta conferma le statuizioni civili, cioè la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni a favore delle vittime e ultimamente in talune ipotesi la confisca», meccanismo su cui si fonda la riforma Pd-M5s che blocca la prescrizione dopo il primo grado e condanna la giustizia e gli innocenti (ci sono, dottor Davigo, ci sono) finiti per sbaglio alla sbarra al «fine processo (e pena) mai». In cauda venenum, il veleno alla fine. Davigo affonda il colpo contro chi impugna le sentenze: «Gli appelli servono a differire l'esecuzione della pena e confidare nel sopraggiungere della prescrizione e riducono il tempo che i giudici possono dedicare a ciascun processo». Verissimo. Dovrebbe dirselo allo specchio, visto che contro la sua cacciata al Csm decisa dai suoi ex colleghi lo stesso Davigo ha presentato più di un appello (prima al Tar poi al Consiglio di Stato) perché non accetta di finire ai giardinetti. La risposta ai suoi «appelli» è stata la stessa: rivolgiti al giudice ordinario. Così, tanto per ingolfare la giustizia.

Dalla toga alla penna. Davigo entra nella squadra del Fatto Quotidiano, Travaglio esulta. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Gennaio 2021. Piercamillo Davigo trova spazio, e forse anche sfogo, consolazione, sicuramente voce sulle pagine dell’amico, e in certo senso discepolo, Marco Travaglio. Fresco fresco della bocciatura del Consiglio di Stato per il suo ricorso contro la delibera del Csm che lo aveva dichiarato decaduto come consigliere dopo il pensionamento, Davigo è ufficialmente diventato una firma de Il Fatto Quotidiano. Il mercato di gennaio si apre con un vero e proprio colpo, un top player del giustizialismo, per la squadra di Travaglio. Un’attività incompatibile, questa, come ha ricordato Libero, con la carica all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura – e questo qualcosa suggerisce. Lascia la toga per la penna, l’ex magistrato considerato il dottor Sottile del pool di Mani Pulite. Che quindi si darà all’editoriale e che potrà continuare a esternare le sue osservazioni contro la prescrizione, contro gli avvocati, contro il diritto di difesa dalle colonne dello stesso quotidiano. Un unico cambiamento: da firma e non più da toga. Poco male. L’esordio assoluto il 7 gennaio. Il primo articolo sul presunto sovraffollamento delle carceri italiane. Appena 92 detenuti ogni 100mila abitanti, ha scritto. A ogni detenuto è garantito lo spazio vitale di 9 metri quadrati che diventano 5 dal secondo ospite. “Lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili”, ha concluso l’ex pm. La cella come una casa – è il decreto ministeriale del 5 luglio 1975 a stabilire che la superficie delle celle singole non può essere inferiore a 9 metri quadrati, più 5 metri quadrati per ogni altro detenuto. Altro che “presunto” sovraffollamento: a dicembre 2020 in galera ci sono 53mila persone su 47mila posti, e, come faceva notare Rita Bernardini su questo giornale, “le stanze detentive inutilizzabili sono 1.755. A queste si aggiungono 999 posti indisponibili. Ed ecco che il tasso di sovraffollamento nazionale passa dal 105,5% al 114,5%”. Non una novità però, tutto questo: nel 2018, mentre su 50.615 posti c’erano 58.569 persone dietro le sbarre, Davigo affermava che “la storia del sovraffollamento delle carceri è una balla”. Una fake news insomma. L’intervista era per Il Fatto Quotidiano. L’intervistatore Marco Travaglio.

Caro Davigo, sulle carceri sovraffollate attento alle fake e ai veri dati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 gennaio 2021. L’ex magistrato ha riesumato la fake news dell’amministrazione penitenziaria precedente quando parlava di “sovraffollamento virtuale”. Salutiamo calorosamente anche noi l’inizio di collaborazione dell’ex magistrato Piercamillo Davigo con il Fatto Quotidiano. Il suo esordio è sulla questione carceraria, ma è giusto fargli presente che – senza accorgersene – ha di fatto riesumato la vecchia fake news dell’amministrazione penitenziaria precedente quando parlava di “sovraffollamento virtuale” e che addirittura avanzassero posti in cella. Nell’epoca dei movimenti tipo QAnon dove la teoria del complotto si alimenta anche delle fake news dei giornali, la responsabilità di riportare correttamente le notizie si fa sempre più pressante. D’altronde, lo stesso direttore del Fatto Quotidiano, fino a qualche tempo fa negava il sovraffollamento e addirittura pubblicò un editoriale sostenendo l’esistenza di ulteriori posti disponibili. Ora però bisogna dargli assolutamente atto che, per replicare a Saviano, ha ritrattato ammettendo che «non c’è dubbio» sul fatto che «le strutture siano affollate e in parte fatiscenti». Possibile che Travaglio non abbia avvertito Davigo? Allora ci permettiamo di farlo noi.

I CONTI DI DAVIGO NON TORNANO. Davigo scrive: «Cominciamo dai fatti: secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2020 nelle carceri italiane erano detenuti 53.364 uomini e 2.255 donne per un totale di 55.619 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 50.562 posti». Poi aggiunge: «Una nota ricorda però che i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per il primo detenuto più 5 mq per gli altri ( lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili; una superficie più elevata della media europea)». Ebbene sì, cominciamo dai fatti. La capienza regolamentare che riporta il Dap è quello che effettivamente risulta sulla carta, ma – come ha recentemente ribadito il garante nazionale Mauro Palma – i posti effettivamente disponibili si aggirano attorno ai 47.000. Ed ecco il primo sbaglio di Davigo. Il dato, invece, dimostra che il sovraffollamento persiste. Un problema già in una situazione normale, figuriamoci ai tempi odierni di pandemia dove risulta difficile prevedere l’isolamento dei detenuti che devono essere poste in quarantena o in isolamento precauzionale. Questo è un fatto, e non è colpa di Davigo se ha sbagliato a snocciolare i dati: che ne poteva sapere visto che non riguarda il suo campo? È facilissimo prendere abbagli quando non si conosce a fondo il complesso sistema penitenziario. Ora passiamo al calcolo dei posti sulla base dei 9 mq come sottolinea Davigo. Detta così sembra che effettivamente il sovraffollamento sia dovuto dal fatto che i detenuti stanno troppo larghi in cella. Allora altro che costruire nuove carceri come Davigo suggerisce più avanti nel suo articolo! Visto che lo spazio accettabile per il detenuto è di 4 mq, teoricamente avanzerebbe tanto di quello spazio nelle celle che potrebbero metterci tutti quei detenuti in eccesso. Qualcosa non torna, quindi cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Il parametro dei 9 mq è solo sulla carta. Non si può fare un discorso puramente geometrico, perché in questo modo astrattamente potremmo mettere diversi detenuti in una unica cella e ciò non è possibile farlo concretamente, a meno che non si abbattano le mura per fare un enorme camerone. Per capire meglio, bisogna comprendere che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano ( è accaduto con la sentenza Torreggiani) e non la si può considerare uno standard. In Italia, il parametro di riferimento è di 9 metri quadrati che vale per il primo arrivato in una cella, più 5 metri per ogni nuovo detenuto e in celle che prevedono al massimo 4 posti. Questo parametro, che per altro è quello di abitabilità delle abitazioni civili, è chiaramente eccessivo. Basterebbe applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 7 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Anzi, ultimamente si calcola che 6 metri quadrati, più 4 quindi, e quindi in 14 metri quadrati ci possono vivere 4 persone. Ma bisogna appunto essere molto rigidi e controllare lo standard: non si può dire che abbiamo un parametro così alto di 9 mq, ma poi non lo si rispetta. Senza contare che anche dentro uno stesso carcere convivono tipologie di sezioni che presentano punte maggiori di sovraffollamento tra di loro. Anche questo è un fatto che però l’ex magistrato evidentemente non conosce. C’è una complessità di situazioni che devono essere considerate.

«COSTRUIAMO NUOVE CARCERI!». Ma Davigo, giustamente, non si fossilizza troppo sul dato effettivo del sovraffollamento. Ammesso che ci sia, dice, non si capacita sul fatto del perché non si chiede l’aumento dei posti disponibili, anziché di “liberare” i detenuti. Anche qui, in soldoni, rispolvera l’antico slogan reazionario «Costruiamo nuove carceri!». Eppure, dal dopoguerra in poi, i numeri degli istituti sono aumentati, con il risultato di essere riempiti nuovamente tutti. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché «gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria». Viceversa, «gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione». Davigo forse non sa che c’è un numero consistente di detenuti senza fissa dimora o che non hanno la possibilità e strumenti per accedere ai benefici. A questo si aggiunge il fattore culturale: si tende a criminalizzare le misure alternative e la magistratura tende a darle di meno. Ma a Davigo interessa un po’ prendersela con chi ha intrapreso lo sciopero della fame per chiedere misure deflattive più incisive. Non fa il nome, ma è Rita Bernardini del Partito Radicale e i giuristi che la sostengono. Il senso del suo discorso è: ma mica è come Gandhi che aveva motivi seri per digiunare! Eppure parliamo di vite umane a rischio, solo in questa seconda ondata sono morte già una decina, perfino alcuni al 41 bis. Non solo. A causa della mancanza di spazi, non è stata possibile una gestione sanitaria da evitare grossi focolai com’è accaduto recentemente a Tolmezzo. E poi ci sono i problemi irrisolti di sempre: suicidi, disagi psichici, incompatibilità con il carcere. Non sono motivi seri per digiunare? Ma non interessa, Davigo ha voluto invece riflettere sul «buon senso». Quale? Applicare la repressione come fanno tutti gli Stati del mondo. A parte che sarebbe bello analizzare caso per caso gli altri Paesi, il buon senso dovrebbe essere il dubbio, interrogarsi sul crescente ricorso alla detenzione come strumento di gestione delle molte contraddizioni che abitano le nostre società. Magari riflettere sull’uso smodato del ricorso in carcere. Il susseguirsi di leggi più repressive, di “spazzacorrotti” che allargano la preclusione dei benefici penitenziari ad altri tipi di reato. Una bulimia carcerocentrica che poi a forza di tirare la corda, si arriva al punto che scoppia la rabbia, si scatenano le rivolte, ne conseguono le 14 morti e presunti pestaggi come reazione. Oltre al fatto che i tribunali si intasano. Chiaro che non reggerà il sistema. A quel punto lo stesso Davigo stesso, da persona corretta, reclamerà sulle pagine de Il Fatto l’urgenza di un’amnistia.

«Prima di rieducare i reclusi, dovremmo educare chi sta fuori al rispetto dei diritti». Errico Novi su Il Dubbio l'8 gennaio 2021. Riccardo Polidoro, responsabile Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali: Davigo quasi ridicolizza quell’allarme sovraffollamento per il quale Rita Bernardini mette a rischio la propria vita.

Ma non è che Davigo andrebbe ringraziato, visto che le sue considerazioni confermano come la visione del carcere sia basata, quasi sempre, sulla mancata conoscenza di quella realtà?

«Non so che esperienza concreta abbia Davigo del carcere, se abbia mai visitato istituti con indice altissimo di sovraffollamento, se abbia visto le vergognose e direi drammatiche condizioni della maggior parte delle camere di pernottamento dei detenuti nel nostro Paese. Se ha mai detto o scritto, perché certamente lo sa, che in quelle stanze, comunemente definite celle, i detenuti dovrebbero solo dormire, passando il resto della giornata in attività cosiddette rieducative, come è previsto dalla nostra Costituzione. Leggere quanto riportato nel suo articolo non mi ha meravigliato, conoscendo altre sue dichiarazioni, come quella sulla presunzione di “colpevolezza” anziché di innocenza degli indagati o addirittura dei cittadini, anch’essa a mio avviso contraria ai principi costituzionali. Il suo articolo è offensivo non solo verso Rita Bernardini e tutti coloro che stanno praticando lo sciopero della fame a staffetta, e l’Osservatorio carcere Ucpi è tra questi, ma anche verso chi da sempre, e oggi più che mai, si preoccupa della salute dei detenuti. I detenuti possono essere privati della libertà, ma devono scontare la pena, secondo quanto previsto dalla legge e preservando la loro dignità. Tutto questo non avviene nella maggior parte degli istituti di pena del nostro Paese».

Davigo ha citato quasi come un lusso l’obbligo di prevedere 9 metri quadri per ogni detenuto.

«Sui 9 metri quadri poi c’è da chiarire che questo parametro, indicato dal ministero della Giustizia, non può essere applicato al carcere, perché è un valore che interessa le private abitazioni per il requisito di abitabilità. Come si può pensare che la stanza dove vivono più persone, spesso 22 ore al giorno, possa essere paragonata a un appartamento? Voglio ricordare che per la Corte europea dei Diritti dell’Uomo lo spazio vitale è quello di tre metri quadri. Lo ha stabilito con la sentenza Sulejmanovic e lo ha confermato con la Torreggiani, con cui ha condannato l’Italia per sovraffollamento delle carceri, stabilendo il limite fra la detenzione umana e quella degradante».

Il tema della reale conoscenza della realtà carceraria è caro all’Ucpi e a lei in particolare. Anni fa organizzò a Napoli la simulazione di una cella, per aiutre i cittadini a capire: come andò quell’esperienza?

«Fu bellissima. Portammo, devo dire con la collaborazione del Garante dei detenuti e del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, un prefabbricato, identico a una stanza di pernottamento, nel cosiddetto salotto di Napoli, cioè Piazza dei Martiri. Nella stanza c’era una clessidra e le persone restavano rinchiuse per un minuto. L’iniziativa prese appunto il nome “Detenuto per un minuto” ed ebbe grande successo, c’era la fila per entrare. Avemmo la sensazione che, finalmente, le pene del carcere, quelle non previste dalla legge, ma inflitte contro di essa, arrivavano all’opinione pubblica. Ecco, quello che davvero manca è un carcere trasparente, per far conoscere a tutti quello che avviene dentro le mura. Mi chiedo sempre perché il cittadino si preoccupi che gli ospedali e le scuole funzionino ma ignora o dimentica le condizioni delle carceri, che pure rispondono a un’esigenza collettiva, che non deve essere solo quella di punire, ma anche di rieducare come previsto dalla nostra Costituzione».

Ha visto dei passi in avanti, nella consapevolezza collettiva sul carcere, grazie alle battaglie condotte in questi anni dall’avvocatura?

«Passi in avanti ce ne sono stati. Ragionerei al contrario, però: cosa sarebbe ora il carcere senza le battaglie dell’avvocatura, dei Radicali, delle associazioni. Senza i volontari che quotidianamente si occupano di quelle poche attività che si svolgono in carcere. Gli interventi della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte costituzionale, sono dovuti alle battaglie di coloro che credono nei valori della Costituzione e non intendono tradirla. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, le commissioni ministeriali per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, sono stati passi importanti. Ma il loro cammino è stato bruscamente interrotto da una politica cieca e interessata solo al consenso popolare, di cittadini che, spiace dirlo, sono distratti da una voluta diseducazione di massa. Credo che prima di rieducare i detenuti, secondo quanto prevede la Costituzione, vadano educate le persone».

Torniamo a Davigo: la sua analisi pare una semplificazione liquidatoria. Dietro ci può essere anche un rifiuto della realtà? Certe tesi derivano anche dal timore che immergersi troppo nel dato reale ce ne farebbe scoprire la complessità?

«Il carcere è un mondo certamente complesso. Ma ripeto, non più della scuola o della sanità. Il problema non è Davigo. Certo, va evidenziato come di questa complessità si occupi poco la magistratura associata, che interviene raramente sul tema. La preoccupazione è che abbiamo una Carta che è del 1948, un Ordinamento penitenziario del 1975, eppure le loro norme non trovano concreta applicazione nell’esecuzione delle pene. In proposito vorrei ricordare che la Costituzione si riferisce alle “pene” per i condannati: ciò sta a significare che il carcere non è l’unica pena che può essere scontata, ma ve ne sono anche altre, tra cui le stesse misure alternative, che sono esse stesse delle pene e alle quali andrebbe mutato il nome da misure a “pene alternative”. Sarebbe utile a chiarire meglio il concetto a chi, in maniera impropria, cita il principio di certezza della pena: non sta a significare che questa certezza debba essere solo il carcere».

Perché non ci si rende conto che, in tempo di covid, il sovraffollamento è un’offesa al principio di umanità, un’assurda illegalità compiuta dallo Stato?

«I detenuti, come tutte le persone che entrano ed escono dal carcere per ragioni di lavoro, gli stessi familiari, dovrebbero essere tra le categorie privilegiate rispetto ai tempi del vaccino. Andrebbe garantita la priorità che viene indicata giustamente per medici, personale sanitario e anziani in case di riposo. Non si tratta di tutelare solo loro, ma tutto il Paese, in quanto il carcere è un luogo in cui il virus si propaga, viste le già precarie condizioni igieniche e di promiscuità, e può poi uscire all’esterno. Come Osservatorio Ucpi abbiamo continuamente notizie di contagi, tra detenuti e personale dell’Amministrazione penitenziaria. Mi lasci dire che mai come in questo momento storico, e mi riferisco a quanto di grave è accaduto a Washington al Capitol Hill, i principi costituzionali devono essere il faro per illuminare la democrazia di un Paese. E ciò vale anche per il carcere».

La mossa della DDA. Rinascita Scott, colpo di scena prima del processo: a Gratteri non piace il giudice Macrì e chiede la ricusazione. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Il processo Rinascita-Scott non è ancora formalmente iniziato ma già vede un primo colpo di scena. La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata dal procuratore capo Nicola Gratteri ha chiesto infatti la ricusazione di Tiziana Macrì, presidente di sezione del Tribunale di Vibo Valentia e giudice del collegio giudicante del ‘maxi processo’ imbastito da Gratteri. A motivare la ricusazione ci sarebbe il fatto che Macrì anni fa, come Gip del tribunale di Catanzaro, nella fase di indagini preliminari di Rinascita-Scott, aveva autorizzato un’intercettazione richiamando nelle motivazioni l’associazione mafiosa che investe tutto il maxi-procedimento. La decisione finale spetterà ovviamente la Corte d’Appello di Catanzaro, col processo che partirà il prossimo 13 gennaio nella nuova aula bunker di Lamezia Terme ‘inaugurata’ il 15 dicembre scorso dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede assieme al presidente della Corte d’Appello di Catanzaro Domenico Introcaso, il Procuratore generale (facente funzioni, dopo la defenestrazione del titolare Otello Lupacchini) Beniamino Calabrese e allo stesso Gratteri. A rispondere a vario titolo dei reati di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, detenzione illegale di armi ed esplosivo, ricettazione, traffico di influenze illecite, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio aggravato e traffico di droga sono 355 imputati. Come ricordato da Tiziana Maiolo su questo giornale, dell’inchiesta “Rinascita Scott” iniziata il 19 dicembre di un anno fa e in seguito rafforzata da una seconda raffica di arresti (“Imponimento”), una serie di piccole slavine stanno piano piano erodendo la sua pretesa di base, cioè quella di tenere insieme le imputazioni per reati di mafia con quelle per gli abusi d’ufficio o il traffico di influenze. Il tutto legato dal reato associativo, associazione mafiosa piuttosto che concorso esterno. “Prendiamo il caso dell’esponente della sinistra calabrese ed ex deputato del Pd Nicola Adamo – scrive Maiolo -. Per lui il procuratore Gratteri aveva richiesto il divieto di dimora in tutta la Calabria, sconfessato immediatamente dal giudice per le indagini preliminari. E oggi, caduta anche l’aggravante mafiosa, Adamo esce dal “Rinascita Scott” e sarà processato a Cosenza per traffico di influenze illecite. Che cosa c’entra con le associazioni mafiose di cui si strombazzò nei giorni del blitz di un anno fa? Per non parlare dell’uso della custodia cautelare. Come dimenticare che per esempio l’ex sindaco di Pizzo Calabro e presidente dell’Anci Calabria, Gianluca Callipo e il colonnello dei carabinieri Giancarlo Naselli hanno dovuto aspettare la cassazione per essere scarcerati dopo otto mesi e sentirsi dire (la beffa dopo il danno) che mai avrebbero dovuto essere messi in catene? E che dire dell’avvocato Giancarlo Pittelli ridotto al lumicino e del collega Francesco Stilo, rimasto in carcere per quasi un anno in gravissime condizioni di salute da cui non si è ancora ripreso? Se qualcuno sperava nel giudice delle indagini preliminari Claudio Paris, ha fatto male i suoi conti. Il gup non si è discostato particolarmente dalle ipotesi dell’accusa. Ha lavorato nell’aula bunker del carcere di Rebibbia per tre mesi, e pare difficile per chiunque riuscire ad approfondire casi così numerosi e così diversi tra loro. Al termine delle udienze, sono 355 gli imputati che si ritroveranno nell’aula bunker il prossimo 13 gennaio. Ma moltissime sono le richieste di rito abbreviato, cioè quello che si celebra e si conclude davanti a un giudice senza poi arrivare all’aula del dibattimento. E accogliendo le 89 richieste di rito abbreviato, il gup ha di fatto contribuito all’attività delle piccole slavine, anche perché nel frattempo tanti piccoli processi hanno già minato l’unicità del processo principale. Anche gli ottantanove saranno giudicati nell’aula bunker, ma il 27 gennaio, a breve distanza quindi dai 355 il cui processo inizierà il 13.  Strana sorte infine quella dell’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, dell’imprenditore Mario Lo Riggio, l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo e l’avvocato Giulio Calabretta. I quattro avevano chiesto il rito immediato per essere processati subito, saltando la fase dell’udienza preliminare”.

Gli ha smontato il processo Nemea. Processo Rinascita Scott, Gratteri contro la giudice Macrì: “Ricusatela, è una che assolve…” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Il procuratore Nicola Gratteri ricusa il suo giudice, cioè la dottoressa Tiziana Macrì, che dovrebbe presiedere il prossimo 13 gennaio il processo “Rinascita Scott” a Lametia Terme. Dire che il fatto, oltre che insolito, è clamoroso è poco, persino in tempi in cui il corpo a corpo “toga- contro- toga” sta diventando quotidianità. La possibile incompatibilità della presidente Macrì aleggiava tra le righe anche nelle parole di qualche avvocato, nella fase delle indagini preliminari. Qualcuno aveva ricordato che il magistrato, prima di essere chiamato a presiedere il tribunale di Lametia, aveva svolto il ruolo di giudice delle indagini preliminari a Catanzaro e in quella veste aveva autorizzato un’intercettazione che riguardava un imputato di associazione mafiosa all’interno del processo “Rinascita Scott”. Ma nessun avvocato aveva posto formalmente la questione dell’incompatibilità. Che spunta all’improvviso, anche nella malizia di qualche organo di stampa non sgradito al procuratore Gratteri, all’indomani della sentenza sul processo “Nemea”, il ramo cadetto del Maxi che sta tanto a cuore alla Dda, e che avrebbe dovuto svolgere il ruolo di antipasto rispetto al processo principale. Nulla di ciò è accaduto. Il tribunale presieduto dalla giudice Macrì, composto interamente da donne con le due laterali Brigida Cavassino e Gilda Danilo Romano, aveva ampiamente deluso le aspettative. Diciamo che l’impianto dell’accusa ne era uscito con le ossa rotte: su quindici imputati rinviati a giudizio, otto assolti e sette condannati ma con le pene dimezzate. Toghe amiche dei mafiosi o garantiste “pelose” come le definirebbe Marco Travaglio? Quel che si sa con certezza è che la giudice Tiziana Macrì è tutt’altro che tenera o propensa a chiudere un occhio davanti alla commissione di gravi reati. Ma ha reputazione di un magistrato attento alle procedure, oltre che alla sostanza, puntigliosa e rigorosa. Se la prova non c’è si assolve, insomma. Il processo “Nemea” era nato da un blitz di qualche mese prima (marzo 2019) rispetto a quello di “Rinascita Scott” del 19 dicembre dello stesso anno, ma con medesime modalità, arresti e grande tensione mediatica. Elemento unificante il reato di associazione mafiosa. Un collante già in parte sbriciolato. Così come l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, che nel processo “Nemea” è stata riqualificata, addirittura nella requisitoria della pm Annamaria Frustaci, in traffico di stupefacenti, con l’aggravante di essere gestita da più di dieci persone, ma senza il reato associativo. Una bella lezione di diritto. Che finora non ha trovato cittadinanza nelle fasi iniziali dell’inchiesta “Rinascita Scott”, che si avvia alla prima udienza del 13 gennaio con 345 imputati e l’inserimento dei tre imputati, l’avvocato Giancarlo Pittelli, l’imprenditore Mario Lo Riggio, l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo e l’avvocato Giulio Calabretta che avevano richiesto il giudizio immediato forse proprio per non finire nel calderone in cui saranno giudicati insieme a tutti gli altri, compresi quelli che con la ‘ndrangheta non c’entrano niente. Come la famosa “zona grigia”. Come nel caso di Nicola Adamo, importante esponente calabrese del Pd, il cui coinvolgimento nell’inchiesta aveva suscitato tante polemiche. Per lui il procuratore aveva chiesto il divieto di dimora in tutta la Regione, una sorta di confino politico. Ma era stato lo stesso giudice delle indagini preliminari a sconfessare l’esponente dell’accusa, annullando il provvedimento. Adamo è così, essendo caduta anche l’aggravante mafiosa, uscito dalle grinfie del Maxi. Sarà processato a Cosenza, ma solo per traffico di influenze illecite. E se fosse alla fine assolto, che cosa resterebbe, visto che era un boccone grosso, nelle mani della Dda sulla famosa “zona grigia”? Se escludiamo dal Maxi del 13 gennaio anche gli 86 imputati che hanno scelto il rito abbreviato, non resterà molto nelle mani della presidente Tiziana Macrì. Sempre che il prossimo 8 gennaio, quando si riunirà in camera di consiglio, la corte d’appello di Catanzaro non ne decida l’incompatibilità. Sarebbe veramente un peccato. E riteniamo che lo stesso procuratore che ne ha chiesto la ricusazione avrebbe interesse a vedersi magari confermata la sua ipotesi d’accusa da un giudice ritenuto competente e inflessibile. O magari correre anche il rischio che, come è capitato nel processo “Nemea”, il castello delle accuse venga invece in tutto o in parte demolito. Magari proprio in quella “zona grigia” in cui il dottor Gratteri crede così tanto.

·        I Garantisti.

Garantisti alle vongole. Casi Morisi e Lucano, spuntano strumentalizzazioni e opportunismo. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Commentando gli affari di cronaca politico- giudiziaria, ovvero i casi Morisi e Lucano, su questo giornale Sansonetti commentava sconsolatamente il fatto che i garantisti veri, in Italia, si contano sulla punta delle dita di una sola mano, tanto da ipotizzare di poterli invitare tutti a casa sua per cena. Vedendo l’elenco degli illustri invitati, redazione del Riformista a parte, ho dapprima constatato con un sorriso amaro che tra gli eletti non figurava neppure un avvocato penalista, salvo poi considerare che il direttore probabilmente si riferiva a quelli che sono garantisti per indole e non per professione. Poi però, a rifletterci bene, la cosa mi è parsa naturale, perché tutto sta a definirlo il garantismo: il termine ed il concetto. Ed allora partirei da una prima considerazione provocatoria: fosse per me, e lo dico da tempo, la parola la cancellerei dal vocabolario politico perché è ormai priva di senso, usurpata spesso ma soprattutto svuotata di contenuto. In ogni caso, e su questo Sansonetti ha ragione, non si può attagliare a coloro i quali pencolano tra il preteso garantismo ed il più sfrenato forcaiolismo, a seconda dell’oggetto del contendere, meglio del soggetto del contendere. Quelli sono solo opportunisti e rischiano di far del male all’idea anche solo appropriandosene strumentalmente. Chi invoca, giustamente, il rispetto della presunzione di non colpevolezza per Morisi, e poi taglia la testa in piazza di Lucano, condannato solo in primo grado e ancora non colpevole per la nostra Costituzione, appartiene a questa specie, in Italia molto prolifica e resistente, e dunque a casa Sansonetti merita di non essere invitato. La stessa fine meritano quelli che fanno l’esatto opposto. Non solo quelli, per capirci, che a proposito di i Moris discutono di un reato che non esiste ma anche quelli che prima recitano il predicozzo ”io sono garantista, aspetto che la magistratura etc etc” , poi dicono l’ovvio, e cioè che il medesimo era un bell’esempio di incoerenza tra stile di vita e pubbliche fatwe, ma infine, con un salto carpiato logico, applicano la proprietà transitiva al suo dante causa e capo politico, Salvini, accusando quest’ultimo di essere in contraddizione con se stesso. Ora, fin qui nessuno ha ipotizzato che il suddetto Salvini fosse a conoscenza delle privatissime frequentazioni del suo collaboratore, dunque tutti i commenti fondati su questo praticano uno sport antigarantista: quello di far diventare un giudizio “politico” null’altro che un pregiudizio fondato sulla sapiente fuoriuscita di notizie giudiziarie. Un pregiudizio che si fonda sulla scimmiottatura di modi di fare appartenenti a quei sistemi politici, e quei complessi informativi, che scovano vizi privati anche dei collaboratori dei politici per costruire un sistema di responsabilità, per cui se si sceglie uno che poi a casa sua fa le porcherie il capo ne risponde comunque. Categoria politica, se vogliamo, ma che nulla ha a che fare con quelle del diritto cui pure il garantismo dovrebbe appartenere. Un terreno peraltro minato, che ha permesso inenarrabili ingiustizie sommarie consumate a mezzo stampa anche a prezzo di una incoerenza di fondo che forse è il caso di rappresentare. Qualcuno ricorderà la vicenda Martelli di qualche decennio fa, quello dei supposti spinelli fumati dal suddetto in Kenia, a Malindi. All’epoca, con singolare schizofrenia, il giornale della intellighenzia colta di sinistra, ovvero l’Espresso, fece una vera e propria campagna di stampa contro il malcapitato, con trasferta di inviati speciali dove il terribile misfatto s’era verificato. Essendo molto giovane ma già affetto dal virus del garantismo, chiesi ad un amico mio carissimo, che all’Espresso ha passato una vita, che diavolo di campagna fosse mai quella che metteva in croce uno per aver fatto, se l’aveva fatto, quel che non solo non era un reato ma che, nella loro privatissima esistenza, facevano in molti a via Po 32, dai piani alti ai piani bassi. Soprattutto un comportamento che per esplicita linea editoriale dello stesso giornale, allora schiettamente antiproibizionista, non era un peccato, né dal punto di vista penale né da quello etico morale e neppure, se la politica deve riflettere in pubblico i comportamenti privati, francamente politico. Allora la risposta, schietta, fu che il povero Martelli, che non aveva caldeggiato politiche proibizioniste, pagava il conto in nome di Craxi, cui si doveva, invece, non tanto una diversa idea in tema di consumo personale di stupefacenti quanto una dichiarata avversione politica. Ragionamento cinico, spregiudicato, e per quanto detto decisamente antigarantista. Soprattutto un modo di fare profondamente incoerente visto che si attaccava un politico per aver, in ipotesi, praticato ciò quello stesso giornale proponeva di lasciar fare senza seccature giudiziarie e tutti cittadini. Oggi che il caso Morisi va verso l’archiviazione, forse è il caso di riflettere anche sulla sua evidente strumentalizzazione sul piano extrapenale. Un terreno al cui limitare si affacciano storture assai più moderne, come molti dei processi e delle campagne stampa del mee too. E allora stabiliamo un corollario obbligatorio, chi è affetto dal virus antico delle doppie morali certo a casa Sansonetti non ha motivo di andare perché la patente di garantista implica la coerenza in questa virtù. Fin qui mi meriterei un invito anche io, penso. Ciò posto, a guardare bene, ma proprio bene, non è che molti dei commentatori della sentenza Lucano siano esenti da questo vizio. Partiamo dai dati di fatto, prescindendo dal giudizio di responsabilità sul quale è legittimo avere opinioni diverse visto che le motivazioni non le conosciamo: la pena che hanno applicato a Lucano è esorbitante, ma non perché sia illegale, ovvero politicamente orientata, o chissà che, semplicemente perché è molto alta, questo è l’unico dato certo che abbiamo. E allora, sulla scorta delle informazioni note, è troppo alta innanzitutto perché diversi gruppi di reati per i quali è intervenuta condanna, come si desume dalla lettura del dispositivo, non sono stati uniti dal vincolo della continuazione. Scelta tecnica, e di fatto, che potremo criticare quando capiremo come verrà motivata. Per ora ci dobbiamo arrestare al fatto che secondo i giudici, che pure la continuazione l’hanno riconosciuta per gruppi imputazioni, tra una serie di reati, quelli contro la pa da un lato, ed alcuni di quelli contro la fede pubblica dall’altro, non risultava l’esistenza di un “medesimo disegno criminoso” che avrebbe permesso il temperamento della sanzione complessiva in nome del favor rei. Un principio, se vogliamo, caro ai garantisti ed indigeribile ai Travaglio, che però presuppone l’accertamento di dati di fatto che nessuno ha fin qui discusso. Questo ha meritato al povero Lucano un trattamento sanzionatorio, quello del cumulo materiale delle pene, certamente più severo. Decisione non criticabile secondo l’orrendo leit motiv per il quale le sentenze “si accettano”? Ma manco per idea, solo che per criticare una cosa del genere prima devi vedere come è motivata, altrimenti mica sei garantista, straparli. Altra questione, la pena è troppo elevata e i suoi effetti perversi, perché in questo modo si è tolto di mezzo un personaggio politico che incarnava le virtù dell’accoglienza contro la barbarie di quelli che gli immigrati li vorrebbero accogliere con le cannoniere. Ergo strali contro la pena ingiustamente alta ed anche, visto che ci siamo, contro il particolare che per il solo fatto di essere irrogata in un processo in primo grado, produce la eventuale sospensione dell’eletto secondo la legge Severino. Terreno minato anche questo, dove si chiederebbe un minimo di coerenza ai garantisti di ritorno, giacché non è possibile scandalizzarsi contro una legge che molti dei fan odierni di Lucano, fuori o dentro la magistratura, avevano sostenuto con forza in nome di campagne moralisteggianti sullo cui sfondo si intravedeva la silhouette del signor B… Eh sì che alcuni, garantisti veri, tra i cachinni di chi voleva in ceppi quello che etichettavano come il puttaniere/plurievasore, lo avevano detto a suo tempo. Chi condivise, tra i garantisti odierni, il bel pezzo apparso sul Corriere della sera a firma di due luminari del diritto come Marcello Gallo e Gaetano Insolera che spiegavano quanto perversa fosse l’applicazione retroattiva di quella normativa, ed anche la sua dubbia costituzionalità per il fatto di determinare in alcuni casi la sospensione al momento di una condanna non definitiva? Ed a proposito di pena, e della sua commisurazione, chi si ricorda, in quella che un tempo era la sinistra giudiziaria, gli accorati appelli di quei garantisti che all’epoca dicevano che le continue rincorse al rialzo del minimo della pena, in particolare per i reati contro la pa – che oggi si attesta a quattro anni per il peculato contestato a Lucano che pure comprende fattispecie concrete diversissime tra loro anche quanto a disvalore – era una follia che avremmo pagato caro? Eccola la follia: Lucano, ma quanti altri hanno già pagato il conto? E non si dica che la cattiveria dei giudici di Locri è dimostrata dal fatto che a Lucano non hanno riconosciuto in questo caso la speciale attenuante, che pure la legge prevede per i reati di quel tipo, per fatti di “speciale tenuità”, perché i giudici italiani non lo fanno mai per somme come quelle contestate in questo caso. Anzi la negano, con giurisprudenza costante, anche per somme molto ma molto inferiori, anche qualche decina di euro; solo che di norma la negano “ai malfattori”, politici ed amministratori, e non ai Robin Hood e allora tutti sono contenti. Stesso discorso per l’attenuante del “particolare valore morale e sociale” della condotta che non è stata concessa, la cui applicazione si conta sulle dita di una sola mano, un po’ come i garantisti a casa del direttore. Non per personalizzare, ma se io penso – come in effetti penso – che la pena esemplare inflitta a Lucano sia ingiusta perché troppo alta, lo faccio perché dico anche, da una vita, che ingiusta è la legge che ne permette l’irrogazione minima in termini parossistici; ma quelli che la legge l’hanno voluta e scritta negli anditi ministeriali dovrebbero prendersela con se stessi. Altra questione: chi ha abituato la pubblica opinione a dire che i giudici, e i pm, hanno sempre ragione, salvo distinguere in base al politically correct del momento, non dovresti trovarlo a muovere critiche feroci contro un dispositivo, però poi scopri che le stesse critiche sui dispositivi, e gli stessi appelli alla obbligatorietà di un verdetto in linea col pensiero comune, in genere le fanno contro le sentenze di assoluzione o di annullamento in Cassazione. Quelle che fanno titolare sui giornali oggi “garantisti” che una vicenda è rimasta “senza colpevoli”, come fosse un fallimento un processo senza condanne. Il garantismo non si misura sulle assoluzioni o le condanne, ma prima di tutto sulla costruzione di regole garantiste ed il loro rispetto, ed i cultori del doppio binario che strepitano oggi per “Mimmo”, come qualche pm calabrese, sembrano farlo in nome di un terzo binario che risiederebbe nella necessaria “accettazione sociale” delle sentenze che fa a cazzotti con l’autonomia e l’indipendenza di chi giudica. Se proprio si sono svegliati garantisti comincino a riflettere sulle brutture del doppio binario. E lo facciano assieme a quelli, politici, magistrati e giornalisti, che smascheri subito come garantisti fasulli, perché ripetono la solfa dei tredici anni che non si danno “neppure per mafia”, che non solo è un ragionamento assurdo ma anche, statisticamente, una balla. Il populismo giudiziario, quello che qualcuno ha dato anzitempo per morto nell’era Cartabia, sta anche in questo. Ultima questione, legge e morale. Una sentenza immorale, s’è detto, anche da parte di autorevoli giuristi senza ancora poterne leggere la motivazione. Noi poveri garantisti per mestiere, e per cultura, sappiamo che se c’è un terreno minato è proprio quello che confonde l’una cosa con l’altra, lo studiamo nelle prime dieci pagine dei manuali all’università. Sappiamo anche che la pericolosa commistione tra l’uno e l’altro concetto produce un diritto penale mobile, quello preferito dai regimi, che per prima cosa liquida il principio di stretta legalità, quello sì concetto garantista da qualche secolo. Lo si fa in nome di nobili principi e delle magnifiche e progressive sorti per il popolo, in genere, contro un nemico cui non si riconosce il diritto a difendersi da un fatto determinato e con regole certe. Magari si arriva al risultato partendo da una condanna “moralmente” ingiusta o, a contrario, da un comportamento privato riprovevole per la maggioranza dei cittadini ma non considerato reato dalla legge, poi alla fine si arriva allo stesso punto, lo Stato Etico, ed è una jattura. Valerio Spigarelli

Il dietrofront dell’eurodeputato di Forza Italia. Martusciello sbaglia, il garantismo non può essere a targhe alterne. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Ancora una volta, da cittadini che in qualche modo si sforzano di capire dove ci porterà la politica nostrana, siamo in debito di gratitudine con la stampa, forse oggi uno degli ultimi baluardi della libertà (quanto meno di pensiero) e della democrazia. È grazie al Corriere del Mezzogiorno, infatti, che ieri abbiamo avuto modo e possibilità di chiarirci un po’ tutti, una volta e per tutte, le idee su chi sia veramente Fulvio Martusciello. Dalle colonne del quotidiano cittadino, l’eurodeputato e coordinatore napoletano di Forza Italia ha chiarito come il partito debba «recuperare lo spirito delle origini» e presentarsi come la casa dei liberali e dei garantisti. Martusciello ha così tentato di sdoganare la pratica del garantismo del giorno dopo. Quello a scoppio ritardato. Beneficiario, nel caso di specie, è stato Armando Cesaro, lo stesso per il quale Martusciello tanto si adoperò perché fosse cacciato dalle liste regionali di Forza Italia per una vicenda giudiziaria dalla quale, alla fine, è uscito immacolato. Lo stesso, per intenderci, che mai e poi mai il candidato sindaco di Napoli sostenuto da Martusciello, cioè Catello Maresca, vorrebbe con sé su un palco. Ora, c’è qualcuno davvero disposto a credere ai salti di gioia di Martusciello alla notizia dell’assoluzione di Armando Cesaro e di suo padre Luigi? Non credo. Ma comunque, visto che parliamo di garantismo a giorni alterni, suggerirei alla “sua” Forza Italia di adottare la soluzione delle targhe alterne, di cui proprio Napoli fu capofila in Italia per contenere il traffico in città. In questo modo ci aiuterebbe a capire in quali giorni il partito di Martusciello è garantista e in quali non lo è. Così, giusto per regolarci. Ma di che predica questo signore che poi razzola male? Viste le durissime conseguenze del manettarismo di casa nostra – e lo scrive chi le ha sperimentate sulla propria pelle perché indagato – ci saremmo attesi ben altro contegno politico. Possibilmente non di facciata, sicuramente non del giorno dopo. Ma qual è il garantismo di Martusciello? Quello che si tributa esclusivamente al leader della propria forza politica? Mi chiedo davvero cosa se ne faccia Silvio Berlusconi, padre nobile del garantismo italiano e forse europeo, di un partito che non esita a lasciare nella solitudine più disperata quei compagni di viaggio che loro malgrado, il più delle volte innocenti, finiscono nel cruento e spietato tritacarne mediatico-giudiziario. Sarebbe questa, questa Forza Italia, la casa dei garantisti italiani?  Se davvero avessero voluto mostrarsi tali, se davvero avessero voluto dare una lezione di garantismo ai forcaioli di casa nostra, non avrebbero mai dovuto accettare il passo di lato di Armando Cesaro e avrebbero dovuto imporgli la candidatura alle scorse regionali. E invece giù a dar corda ai tintinnii di manette, ai veti di Matteo Salvini e al divieto di salire sul palco di Maresca. Quanta pochezza, quanta miseria politica! E allora la domanda è: qual è la vera Forza Italia? Quella del Cavaliere del garantismo o del Martusciello oggi giustizialista e domani garantista? Non credo che i posteri dovranno faticare granché per una così poco ardua sentenza. Amedeo Laboccetta

Erano giustizialisti convinti oggi sono convertiti al garantismo. Dall’ex grillino De Vito a Palamara, da Vendola a Gherardo Colombo fino all’assessore fiorentino Graziano Cioni, parlamentare Pci, in carcere per 8 anni da innocente. Valentina Stella su Il Dubbio il 20 settembre 2021. «Quando si parla di carcere, “bisogna aver visto”, come ci ricordano le celebri parole di Piero Calamandrei» ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia in visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. E lo stesso vale per la gogna mediatica o per le indagini che ti distruggono vita personale e politica. Quando capita a te o a chi ti è vicino, la visione che fino ad allora avevi della giustizia cambia e ti ritrovi a doverti spesso confrontare con quei principi manettari che ti avevano contraddistinto fino a quel momento. Lo abbiamo visto con l’ex grillino Marcello De Vito che prima ha portato le arance a Ignazio Marino per lo scandalo Mafia Capitale, poi, quando lui stesso finisce in carcere per corruzione, ammette l’errore politico di stampo giustizialista e comincia ad occuparsi di carcere nell’attuale campagna elettorale con Forza Italia. Ma ci sono altri esempi di catarsi garantiste o pseudo tali. Prima tra tutte quelle di Beppe Grillo che, con il figlio indagato per violenza sessuale, in un folle video si scaglia contro il circo mediatico- giudiziario. E che dire di Luca Palamara, ex pm, ex presidente dell’Anm, ora caduto in disgrazia perché radiato dalla magistratura per lo scandalo delle correnti? Ha firmato i referendum proposti da Partito Radicale e Lega, tranne quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, ma dal nostro giornale, in una lettera al direttore, ha tenuto a precisare che «sul tema del garantismo sono in totale coerenza rispetto alle mie posizioni del passato». Nella stessa missiva al nostro giornale diceva «..non scorderò mai la faccia di un imputato in stato di custodia cautelare che a Regina Coeli, durante un interrogatorio di garanzia di fronte al Gip, piangeva a dirotto invocando la sua innocenza. I fatti poi gli hanno dato ragione: era innocente. Quell’episodio mi ha segnato per sempre. Da quel giorno ho ritenuto e ritengo che quando si priva un individuo della propria libertà personale è sempre meglio pensarci un attimo in più che un attimo in meno». «Da quel giorno, dice… e il giorno prima? – gli ricorda il professor Aldo Berlinguer – È proprio necessario dover assistere alla disperazione di qualcuno per accorgersi dell’importanza del garantismo? ». E poi il compagno Nichi Vendola; è bastata una condanna a tre anni e mezzo per concorso in concussione aggravata, per spingere l’ex presidente della Puglia a dire: «Io mi ribello a una giustizia malata che calpesta la verità. Noi appelleremo questa sentenza, ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Nel caso Ilva c’è stata una malevola torsione dell’inchiesta verso una deriva che è quella del mainstream giustizialista». Nel 2012 era lo stesso Vendola però ad esortare la classe dirigente a «evitare l’irruzione a gamba tesa nel recinto in cui la magistratura esercita le proprie funzioni». Forse non tutti ricorderanno Graziano Cioni, deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci-Pds-Ds, poi assessore a Firenze che, in una intervista al Foglio, disse: «Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili». A proposito di sinistra, come non parlare dell’ex magistrato Luciano Violante, che si è convertito non per sfortunate vicende giudiziarie ma forse per una maturata saggezza. Per tre decenni è stato in Parlamento il portabandiera delle toghe rosse. Francesco Cossiga, come ricorda il ritratto fatto dal Giornale, «lo chiamava “piccolo Vishinsky”, come l’aguzzino delle purghe staliniane, considerandolo l’istigatore dei processi politici degli anni Novanta (Andreotti, ecc)». Lui però si è sempre difeso: «Quando ero presidente della Commissione Antimafia, scrivevo che c’era uno sfrenato giustizialismo all’epoca e che nessuna società ha tollerato troppo a lungo un governo dei giudici. E ancora: «Quando Berlusconi nel 1994 ricevette la comunicazione giudiziaria per tangenti, al contrario di molti, io dissi che non si doveva dimettere». Un’altra mutazione senile è quella di Gherardo Colombo, l’ex pm di Mani Pulite: all’epoca difendeva l’uso della custodia cautelare e spiegava, numeri alla mano, che non c’erano abusi perché in 1000 giorni insieme ai suoi colleghi aveva chiesto la carcerazione preventiva per circa 600 persone e per un centinaio il gip aveva respinto la richiesta: «Utilizzare l’ordine di arresto è un passo doloroso anche per coloro che lo applicano. Ma in alcuni casi non se ne può fare a meno». Per far confessare e non per reali esigenze cautelari, diranno alcuni commentatori ricordando quel periodo. Ma tornando a Colombo, ad esempio, del 41 bis diceva che serviva a difenderci «nei confronti di chi, anche dal carcere, può influire sugli atteggiamenti criminosi di persone che stanno fuori». Nel 2013 la svolta con il libro ‘ Il perdono responsabile: Perché il carcere non serve a nulla’ e nel 2017: «Il 41 bis, così come è fatto, è difficilmente in corrispondenza con l’articolo 27 della Costituzione. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

Il Gramsci cronista che fustigava i magistrati: «Sono soltanto dei carcerieri». Siamo nel 1916 quando Antonio Gramsci, allora giovane cronista dell'Avanti!, si scaglia contro i pm che "senza nessuna responsabilità" sentono il dovere "di condannare sempre". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 agosto 2021. «La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il pubblico ministero che, secondo i sacri principi dell’ 89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione». Sono le parole tratte da l’articolo di un giovane cronista dell’Avanti! Parliamo del 1916 e l’autore è Antonio Gramsci. Ebbene, il titolo dell’articolo è “Pregiudicati!”. Ce l’ha con questa terminologia che piace tanto a Marco Travaglio e poi entrata nel lessico comune di una certa politica prono ai poteri. Dai cinque stelle, fino a una parte consistente della sinistra che ha, snaturando il pensiero libertario, abbracciato in toto tutto il potere giudiziario. Ecco l’articolo completo di Gramsci: Non abbiamo molta simpatia per il romanticismo francese. Le gonfiezze, le prediche sociali di Victor Hugo ci lasciano discretamente indifferenti. Sterili diatribe, esse distruggono, ma non costruiscono neppure dell’arte. Prodotto di un feticismo sentimentale per il «popolo» non lasciano solco nelle coscienze, non lasciano stimoli alla fantasia creatrice. Eppure, caduti per caso nell’aula di un tribunale, ripensiamo alle enormi, titaniche sfuriate del romantico francese contro la giustizia dei suoi tempi, e vorremmo avere i suoi robusti polmoni per soffiare contro queste montagne di carta stampata che lasciano sulla fronte dei pazienti, che sfilano alla sbarra, il marchio che li manda per sempre alla geenna dei bassifondi: pregiudicato! Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all’ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell’ 89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione. E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà più che all’ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall’ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell’antropologia criminale. Non abbiamo simpatia per il romanticismo francese. Eppure desidereremmo che uno di quei grandi retori, di quei feticisti del «popolo» inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività possa davvero essere difesa da loro. Perché pensiamo che noi non possiamo subito dare una sanzione punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice memoria. E allora ci basterebbe che per effetto del libro romantico, essi fossero inseguiti, vociati per le vie come i gesuiti dai lunghi cappelli a tegola delle vecchie incisioni. Perché, persuasi che una giustizia veramente possa esistere, la nostra irritazione morale potesse trovare sfogo contro queste parodie che alle menti leggere sembra dover essere tutta la giustizia, la sola giustizia possibile. Antonio Gramsci, 2 agosto 1916

In un articolo pubblicato il 10 settembre 1917 Gramsci commentava la proposta comparsa sul Corriere della Sera di affiancare alla tessera annonaria per il pane una “tessera per la libertà”. Il pensatore sardo, allora giornalista dell’Avanti, riteneva che la tessera avrebbe dovuto garantire dei diritti fondamentali. Quei diritti che oggi vengono criticate da tutte le correnti della magistratura. In particolare proprio quella di sinistra, dove teoricamente Gramsci dovrebbe essere un faro. Riportiamo integralmente l’articolo. La tessera per il pane non basta – sostiene il «Corriere della Sera» – è necessario introdurre anche la tessera della libertà. È geniale, non è vero? Tanto geniale che ci rendiamo subito solidali con la proposta, rendendola subito concreta. La tessera potrebbe consistere in una legge che affermasse: 1) Un cittadino italiano che venga arrestato, non può per più di dieci giorni essere tenuto all’oscuro sulle cause del suo arresto, ma deve entro dieci giorni essere condotto dinanzi al suo giudice naturale, e riottenere la sua libertà anche se provvisoria. 2) L’arresto preventivo è mantenuto solo per gli accusati di colpe gravissime – quando gli indizi della colpevolezza siano tali da fare apparire probabilissima la condanna – e non deve mere prolungato per un termine superiore alla misura minima della condanna. 3) Gli agenti, i giudici, i carcerieri, per colpa dei quali un cittadino viene arbitrariamente privato della libertà, sono tenuti a pagare al malcapitato una indennità in solido ciascuno di lire diecimila, da scontarsi in tanti, giorni di prigione in caso di insolvibilità, con iscrizione nella fedina penale, rimozione dall’impiego e perdita dei diritti civili per cinque anni. La tessera importa una limitazione, ma deve anche importare una garanzia sicura e concreta del minimo di libertà accordato. La tessera non deve essere solo per i cittadini comuni, deve anche essere per i cittadini tutori. E rigorosa, per gli uni, ma specialmente per gli altri. Non deve capitare come per lo zucchero. La libertà, come il pane, deve essere garantita: la tessera della libertà, come questa da noi invocata, esiste da quasi tre secoli in Inghilterra, paese alleato, che combatte anch’essa la guerra per la libertà e la giustizia. La introduca anche il governo italiano, e sia pure per decreto luogotenenziale. Ma l’Italia del «Corriere della Sera», che ammira l’Inghilterra per i suoi miliardi, intende tessera… italiana; per lo zucchero, senza zucchero; per il pane, senza pane; per la libertà, con Bava Beccaris e con gli stati d’assedio.

Quei garantisti sedotti da Palamara…L'ex magistrato si presenta come il castigatore della magistratura. Ma lui è l'artefice del Sistema di potere delle procure. Qualcuno lo ha scordato...Davide Varì su Il Dubbio il 9 agosto 2021. E’ addirittura commovente il trasporto emotivo con cui una fetta dell’ala garantista della nostra politica e intellettualità ha accolto la decisione di Luca Palamara di fondare un proprio movimento politico. Ed è sorprendente la speranza che ripongono nell’uomo, (l’ex) magistrato, che ha scoperchiato il Sistema, certo, ma che, per sua stessa ammissione, prima ha contribuito a crearlo fino a diventarne punto di riferimento, mente, “mandante” e terminale. E quando parliamo del Sistema ci riferiamo al controllo sulle nomine delle procure più importanti del Paese, al condizionamento delle toghe in politica, pianificato e perseguito in modo mirato: i 39 processi a Silvio Berlusconi dicono qualcosa? E i 19 ad Antonio Bassolino? Per non parlare dell’agguato a Clemente Mastella quando era ministro della giustizia o alle centinaia di governatori e sindaci indagati, massacrati mediaticamente e poi assolti. Insomma, la lista degli orrori sarebbe davvero troppo, troppo lunga. Ma ora c’è chi pensa seriamente di affidare la battaglia garantista a uno degli artefici di quel massacro. Intendiamoci, Palamara ha tutto il diritto di entrare in politica e di raccontare che lo fa per il bene della giustizia, perché ha scoperto che i processi sono troppo lunghi, che il potere delle procure è eccessivo e che il sistema delle correnti genera mostri. Tutto vero: solo che noi lo sostenevamo quando lui era dall’altra parte della barricata… 

“Io, Luca Palamara, vi dico: ero garantista anche quando indossavo la toga”. La replica di Palamara al corsivo del Dubbio: "Vidi quell'imputato piangere disperato. Risultò innocente e questa cosa mi cambiò per sempre". Il Dubbio il 10 agosto 2021. La replica di Luca Palamara al corsivo del direttore del Dubbio, Davide Varì. Egregio direttore, mi pregio rappresentarLe che sul tema del garantismo sono in totale coerenza rispetto alle mie posizioni del passato, che intendo ribadire con ancora più forza e passione. Nella mia esperienza venticinquennale di pubblico ministero, dapprima presso la Procura di Reggio Calabria e poi di Roma, mi sono sempre ispirato a due principi: quello del giusto processo diventato principio della nostra Costituzione dal 2001; quello della necessità che anche nella fase delle indagini preliminari dovessero essere ricercati elementi a favore dell’imputato, così come scrive la norma di legge art.358 del Codice di Procedura Penale. Per queste ragioni non mi sono mai voluto appiattire sulle informative della polizia giudiziaria, nemmeno durante i c.d. “turni arrestati”, o sui generici racconti di chi denunziava fatti di reato, ma ho voluto sempre approfondire al fine di riscontrare probatoriamente quanto mi veniva riportato. Anche con riferimento all’istituto della custodia cautelare in carcere, ho sempre ritenuto che essa dovesse essere maneggiata con cura, in quanto tale misura costituisce – così come scrive il nostro codice di rito – una extrema ratio e come tale non deve trasformarsi in una anticipazione della condanna definitiva, perché – come insegna l’art.27 della Costituzione – è solo il passaggio in giudicato della sentenza che segna la parola fine su qualsiasi vicenda penale, salvi i casi ovviamente in cui può essere impugnato il giudicato. Questo anche nell’ottica di evitare che lo Stato italiano debba essere condannato a risarcire ingenti somme di denaro nei confronti di chi è stato ingiustamente detenuto. Dico questo non scordando mai la faccia di un imputato in stato di custodia cautelare che a Regina Coeli, durante un interrogatorio di garanzia di fronte al Gip, piangeva a dirotto invocando la sua innocenza. I fatti poi gli hanno dato ragione: era innocente. Quell’episodio mi ha segnato per sempre. Da quel giorno ho ritenuto e ritengo che quando si priva un individuo della propria libertà personale è sempre meglio pensarci un attimo in più che un attimo in meno. Questo mio convincimento mi ha portato sempre ad avere una schietta e leale collaborazione con la polizia giudiziaria, a non appiattirmi sui “teoremi” accusatori ma mi ha portato anche a serrati confronti nella consapevolezza che bisognasse assicurare alla giustizia non degli, ma imputati nei confronti dei quali fosse sostenibile l’accusa in giudizio, anche perché più le indagini erano fatte bene, maggiore possibilità ci sarebbe stata di ricorrere ai riti alternativi. Non ho mai pensato di avere di fronte a me presunti colpevoli, ma mi sono ispirato sempre alla necessità di andare a verificare fino in fondo se i fatti effettivamente si fossero svolti nel modo che mi veniva rappresentato. Ricostruire i fatti, verificarli, dimostrarli per me rappresentano l’essenza dello spirito garantista. Questa e’ la funzione che dal mio punto di vista deve svolgere il processo penale, facendo sì che lo stesso possa avere un proprio e riconosciuto carattere di autonomia e non debba svolgere una funzione servente ad altri fini. Nel 1993 il Parlamento decise di abolire l’autorizzazione a procedere facendo venir meno la linea di confine tracciata dai nostri Costituenti tra politica e magistratura. Conseguentemente, a partire da Tangentopoli, è accaduto che le doverose e – sottolineo doverose – indagini della magistratura nei confronti del potere politico venissero strumentalizzate, trascinando la magistratura stessa su un terreno di contrapposizione politica che evidentemente non le può appartenere. Sono stato, sono e sarò sempre fermamente convinto della necessità che i poteri dello Stato debbano svolgere la loro funzione senza travalicare i loro limiti. Applicherò i principi che le ho detto anche alla mia vicenda. Il tempismo perfetto del deposito della decisione delle Sezioni Unite nel giorno in cui la sezione disciplinare del CSM sconfessava la Procura generale della Cassazione sulle vicende milanesi, mi ha convinto ancor di più a portare il tema delle garanzie violate in Europa, al fine di verificare le ragioni per cui: non mi è stato concesso di ascoltare i testimoni a mia discolpa; sono state utilizzate intercettazioni ricavate da altri procedimenti con accertamenti su un server occulto tuttora in corso; non sono stato giudicato da un organo terzo ed imparziale visto che alcuni componenti della sezione disciplinare non si sono volontariamente astenuti. So di essere innocente e per questo porterò la mia vicenda dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per tutti questi motivi mi candido alle Elezioni Suppletive per il Collegio Uninominale Camera di Roma Primavalle, non solo per essere testimone civile della battaglia garantista, che è propria di tantissimi pubblici ministeri in Italia, ma anche per recuperare un rapporto diretto con i cittadini sui quesiti referendari che rappresentano linfa vitale per pungolare il legislatore a procedere con la riforma della Giustizia. Sono sicuro che le mie ragioni saranno le ragioni di molti, senza pregiudizi, che spero almeno in questa vicenda vengano messi da parte in nome di una giustizia giusta.

L’articolo 27 e il garantismo: due elementi troppo spesso dimenticati. Luigi Camilloni su Il Riformista il 14 Giugno 2021. Vale la pena ogni tanto rileggere la nostra Costituzione perché le soluzioni ai tanti problemi italici risiedono proprio in questa grande Carta fondamentale ed in questo caso l’articolo 27 C. Oggi, nonostante l’articolo 27 della Costituzione stabilisca che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» assistiamo a dei messaggi ‘diseducativi’ provenienti conferenze stampa ‘show’ da parte dei Pubblici ministeri dove viene calpestato il principio di non colpevolezza dell’imputato. E bene ha fatto la Corte Costituzionale ad intervenire al riguardo. Altro aspetto che è oggetto di dibattito in Italia è sempre contenuto nell’art. 27 C co. 3 dove recita che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al seno di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Nell’articolo 27 Costituzione sono contenuti due principi fondamentali del nostro ordinamento penale: la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Il concetto di pena è uno dei concetti chiave del diritto penale e della criminologia ma quello che più è sbalorditivo è che oggi in Italia, la più afflittiva, la più punitiva delle pene, è quella detentiva.

RIEDUCAZIONE E FUNZIONE DELLA PENA

Non si può parlare di rieducazione e di funzione rieducativa della pena senza parlare di pena detentiva, cioè senza parlare di carcere. Il carcere resta tuttora, in Italia, la forma di pena più diffusa, con tutte le problematiche ad esso collegate: sovraffollamento, carenza di personale, mancanza di fondi per le attività, assenza di risposte concrete, ecc. Oggi il carcere è visto per l’opinione pubblica come un luogo di sofferenza, mentre di fatto è il ‘parcheggio’ dei delinquenti se non addirittura un’Università della delinquenza. Ecco perché il reinserimento sociale non può che avvenire tramite il lavoro anche per risarcire le vittime dei loro reati. L’applicazione della pena intesa come lavoro, trasformerebbe l’attuale sistema carcerario da ‘pozzo senza fondò in una sorgente di guadagno per lo Stato e quindi per la collettività, fermo restando il diritto delle vittime ad essere risarcite. Ricordiamoci che il lavoro carcerario non deve avere carattere afflittivo, deve essere previsto in modo da tenere il detenuto attivamente impiegato per una normale giornata lavorativa e dovrebbe conservare o incrementare la capacità del detenuto di guadagnarsi onestamente la vita dopo la scarcerazione con un’organizzazione e con metodi del lavoro negli istituti uguali a quelli fuori.

VALORIZZARE LE ATTIVITA’

Ecco perché è necessario valorizzare dunque sempre di più le varie attività da svolgere all’interno dell’istituto penitenziario, prima tra queste quella di stampo lavorativo professionale. Serve un nuovo approccio sulla questione della pena rieducativa, cioè quello di una visione del lavoro in carcere che è un diritto dei detenuti: un diritto vero e proprio e non come una concessione di favore.

Luigi Camilloni.  Direttore dell'Agenzia Agenparl

Dagospia il 25 giugno 2021. Da "Belve". Protagonisti della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 25 giugno), alle 22.55 su Rai2 - sono il sindaco di Roma Virginia Raggi e l’ex premier Matteo Renzi. Virginia Raggi: dopo il processo sono diventata meno manichea, ho chiesto scusa a Marino e ci sentiamo e confrontiamo su molti temi. I colpi bassi dal movimento. Della Lombardi non me ne frega nulla…I colpi bassi li ha ricevuti più dall’esterno del Movimento o più dall’interno? chiede Francesca Fagnani a Virginia Raggi, ospite di Belve. “Devo rispondere per forza?”. Sia sincera. “Dico equamente”. Con Roberta Lombardi c’è un’inimicizia storica, incalza Fagnani. “Acqua passata”, replica raggi. Acqua passata? Siete amiche? “No, acqua passata nel senso che non me ne frega niente. A me, figuriamoci agli altri. Non me ne importa nulla”. Una telefonata di Roberta Lombardi non le è arrivata nemmeno quando il processo a suo carico si è concluso positivamente per lei. Che valutazione le dà? “Nessuna, nessuna proprio”. Però Lombardi è una voce importante, una che rispetto alla sua ricandidatura a Roma ha detto: per me la Raggi non è una vincente. “È la sua opinione...”, chiude caustica Virginia Raggi. Poi Fagnani ricorda a Raggi quando, nel 2015, portò le arance in Campidoglio per dileggiare l’allora sindaco di Roma investito da un’inchiesta giudiziaria. Lei è stata rinviata a giudizio però è finita bene. Ha ripensato a quando voi chiamavate la presunzione di innocenza la “presunzione di indecenza”? “Beh, non è un caso che io abbia chiesto scusa a Ignazio Marino per la vicenda delle arance. Sicuramente prima ero molto più manichea, ma a un certo punto mi sono resa conto che i processi si celebrano nelle aule giudiziarie”. Ha chiesto scusa personalmente a Marino, lo ha chiamato? “Sì, adesso ci sentiamo…”. C’è un buon rapporto? “Sì, assolutamente”. La consiglia ogni tanto? “Beh, sicuramente ci confrontiamo su una serie di temi”. Questo è un  grande ripensamento. “Questo è uno scoop!”, commenta ridendo Virginia Raggi. Poi a Francesca Fagnani il sindaco Raggi confessa di non avere “Piani B” in caso di mancata rielezione a sindaco, ricorda i momenti più duri al Campidoglio, parla delle buche di Roma, dei consigli di Maurizio Costanzo e liste civiche a suo sostegno già pronte, svela alcuni dettagli segreti del rapporto politico con Beppe Grillo, critica apertamente il Codice degli appalti, che un tempo rappresentava un totem per il moVimento 5 Stelle. Davanti alla conduttrice di Belve la sindaca non si risparmia nemmeno sugli aspetti privati della sua vita. Ricorda il titolo del quotidiano Libero sulla “Patata bollente”, le gratuite allusioni sessuali su di lei (“Non ho nemmeno il tempo per avere tutti questi amanti”) e rivendica i 27 anni trascorsi accanto al marito, con il quale è tornato a stare dopo una crisi. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie, alle 22.55 i protagonisti di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze delle protagoniste. Feroci e fragili, al tempo stesso.

L'appoggio ai referendum. Separazione delle carriere, in piazza ci sono tutti tranne il Pd…Angela Stella su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Ieri in piazza Cavour a Roma per la battaglia per la separazione delle carriere c’erano forze di maggioranza e opposizione. Assenti il M5s e il Partito Democratico: questo è il primo dato politico che emerge dalla manifestazione organizzata dall’Unione delle Camere Penali. Il caldo non ha fermato avvocati da tutti Italia e numerosi esponenti politici riunitisi per affermare la necessità di una riforma dell’ordinamento giudiziario separando magistratura requirente e giudicante. Ad aprire la manifestazione dei penalisti il loro presidente, Gian Domenico Caiazza: «È il momento di accelerare sulla separazione delle carriere. Per questo chiediamo alla politica di affrontare con coraggio questo tema, di riprendere il percorso di discussione della nostra proposta di legge di iniziativa popolare. Non vale la pena dire che il quadro degli equilibri parlamentari fa presumere che il percorso non possa avere successo. Se le battaglie politiche si facessero con la certezza di vincerle prima di iniziare a combattere non ne faremmo nessuna». Il secondo dato politico di rilievo è la stretta di mano virtuale tra l’UCPI e la Lega per rafforzare le reciproche lotte. Salvini, che fu tra i primi a sottoscrivere la pdl dell’Ucpi, ha assicurato: «Insisterò affinché il Parlamento riprenda l’esame di una proposta sacrosanta che è arrivata da migliaia di cittadini. Noi alimenteremo questa fiammella per la separazione delle carriere che è una scelta di civiltà. E se arrivano un milione di firme per i referendum promossi con il Partito Radicale questo aiuterà il Parlamento che deve fare le riforme». Caiazza ha quindi benedetto i referendum: «Abbiamo 131 camere penali in tutta Italia. Mi auguro che, ferma l’idea centrale della riforma costituzionale della separazione delle carriere, i penalisti italiani sappiano dare il loro contributo per raggiungere l’obiettivo delle firme necessarie per votare poi i quesiti referendari. Non si deve e non si può fallire questo obiettivo, a maggior ragione dopo la presa di posizione dell’Anm». Per Italia viva è intervenuta l’onorevole Maria Elena Boschi: «Italia viva è accanto ai penalisti, perché non solo condividiamo la battaglia per la separazione delle carriere, ma pensiamo che sia urgente una riforma complessiva della giustizia. Siamo passati da Conte e Bonafede a Draghi e Cartabia, e possiamo finalmente dire che il garantismo torna ad avere dignità nel dibattito pubblico». Il deputato di +Europa Riccardo Magi ha precisato: «Con questa nuova situazione politica cosa si aspetta a riavviare l’iter della norma? Con il collega di Azione Enrico Costa una decina di giorni fa abbiamo scritto al Presidente della Commissione affinché ripartisse l’Iter. Però nell’ufficio di presidenza di due giorni fa sono stato l’unico a chiedere che questo avvenisse. Mi auguro che a partire da oggi tutti i partiti si impegneranno per fare lo stesso». Presente anche il sottosegretario alla Giustizia e deputato di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto: «Ho avuto l’onore di essere il relatore della pdl che aveva la caratteristica di chiarire che chi accusa non può essere colui che giudica. Nella riforma dell’ordinamento vi è un passaggio che è viatico per la separazione: la riduzione delle ipotesi dei passaggi di funzioni. È vero: bisogna riattivare il percorso di discussione della pdl ma spetta al Parlamento». Per Fratelli d’Italia è intervenuto il senatore Alberto Balboni: «Siamo qui perché la separazione delle carriere è la riforma fondamentale per garantire il compimento dell’articolo 111 della Costituzione, non ci può essere un giusto processo senza una parità assoluta tra accusa e difesa». Invece, raggiunta dal Riformista la senatrice Rossomando del Pd ha spiegato così l’assenza: «Il passaggio da una funzione all’altra già oggi è estremamente difficile e le misure in discussione alla Camera lo limiteranno ulteriormente. Isolare i pm in un loro Csm non è la risposta aggiornata a questioni che sono sul tavolo delle riforme in via di approvazione. Presunzione di non colpevolezza, parità tra accusa e difesa, tutela del contraddittorio, stop alla gogna mediatica, sconfiggere il correntismo. Sono le nostre proposte e nei prossimi giorni voteremo in Parlamento e su questo il confronto prezioso con l’Ucpi c’è sempre stato e proseguirà. A differenza di altri però non facciamo due parti in commedia». L’avvocato Caiazza dalla piazza si era augurato tuttavia che «per il futuro si partecipi ad una manifestazione anche se non si condivide l’impostazione: siamo persone accoglienti e amicali». Angela Stella

La manifestazione sotto la Corte di Cassazione. Separazione delle carriere, tutti in piazza con i penalisti. Da Calenda alla Boschi: “Sì al garantismo”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Matteo Salvini e Gian Domenico Caiazza alla manifestazione per separazione delle carriere nella magistratura in Piazza Cavour, Roma. In una piazza Cavour, a Roma, assolata si è riunita l’Unione delle Camere Penali italiane per una manifestazione proclamata per rilanciare il tema della separazione delle carriere nella magistratura. Il grande caldo ha accompagnato per tutta la mattina gli interventi: nonostante i 34 gradi adesione altissima. A fare gli onori di casa, sotto l’imponente “Palazzaccio”, Gian Domenico Caiazza, Presidente Ucpi. Poi sono arrivati politici di diversi schieramenti, da Italia Viva rappresentata da Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera e il leader di Azione e candidato sindaco di Roma, Carlo Calenda su tutti. È anche arrivato con il solito seguito di telecamere il leader della Lega Matteo Salvini. I penalisti erano in piazza per rivendicare l’importanza “della indispensabile (termine usato in tutti gli interventi, ndr) riforma per rispondere in modo efficace e credibile alla grave crisi della magistratura italiana”. Parole di apertura e di benvenuto del presidente Ucpi, che chiede di concerto a tutte le forze politiche e parlamentari di far riprendere con forza l’iter della proposta di legge costituzionale della separazione delle carriere e depositata ad inizio legislatura insieme alle firme di 75mila cittadini.

CARLO CALENDA

“Ora non c’è più tempo. La posizione dei 5Stelle è la causa della degenerazione del rapporto tra politica, magistratura e cittadini. Vanno cancellati politicamente. E se la Cartabia (Ministro della giustizia, ed ex presidente della Corte Costituzionale) non farà quello che ha detto allora firmeremo i referendum”. Esordisce così il leader di Azione candidato a sindaco di Roma che sulla riforma della giustizia ha avvertito: “Dobbiamo evitare lo scontro ideologico. Siamo contrari al referendum, non è un metodo che porta ad una riforma, ma se Cartabia, ministra seria e preparata, non dovesse mantenere la parola saremo in prima fila per usare questo strumento della democrazia diretta”, e continua sul Pd: “Dobbiamo stanare il Partito Democratico, che deve decidere da che parte stare, se sta con la democrazia liberale o col populismo, e questo accadrà con la riforma del processo penale. Aspettiamo il governo alla prova della riforma della giustizia”.

MARIA ELENA BOSCHI

“Italia Viva è di nuovo in piazza accanto all’Unione delle camere penali come a dicembre del 2019 e a Montecitorio nel 2020. Condividiamo la battaglia per la separazione delle carriere e pensiamo serva una riforma complessiva della giustizia che con il precedente governo dei due avvocati Conte e Bonafede era impossibile”. “Noi, – dice Boschi, intervenendo alla manifestazione – assieme ad altri colleghi abbiamo sempre favorito la discussione sulla proposta della separazione delle carriere proprio perché rimanesse acceso il dibattito anche in Aula. Ci siamo sempre stati non solo con le parole ma con i fatti, unico argine con la forza delle nostre idee e i nostri numeri in parlamento anche a costo di restare soli in quella maggioranza. Siamo stati i soli a dire no al Pnrr presentato da Conte che nella parte sulla riforma della giustizia penale prevedeva il giudice unico in appello, per noi giustizialismo e garantismo – ha sottolineato – non sono due facce della stessa medaglia. Oggi, siamo passati da Conte e Bonafede a Draghi e Cartabia un vero cambio di passo, e possiamo finalmente dire che il garantismo torna ad avere dignità nel dibattito pubblico. Siamo tutti d’accordo per accelerare i tempi dei processi, ma diciamo no a un baratto con le garanzie costituzionali. Solo una giustizia giusta può far sentire al sicuro i cittadini», ha concluso.

MATTEO SALVINI

“Una proposta sacrosanta che è arrivata dall’Unione delle camere penale e dai cittadini” Esordisce il leader della Lega e prosegue: “E per fare un quadro a disposizione anche di chi ha l’età di mio figlio, visto che siamo in tempi di Europei di calcio, basti dire che se uno per anni gioca con la maglietta della Roma o della Lazio se poi dopo dieci anni decide di mettere la casacca dell’arbitro c’è qualcosa che non funziona perché non è esattamente super-partes. Se vuoi fare il calciatore fai il calciatore, se vuoi fare l’arbitro fai l’arbitro. Se vuoi far parte della squadra inquirente fai parte di quella squadra però poi non puoi andare a braccetto con la parte giudicante soprattutto la tua carriera e le tue promozioni non possono dipendere dal parere di coloro che sono dall’altra parte”, poi Salvini continua con una indiscrezione sui suoi colloqui con Conte e confessa: “Non l’ho mai detto ma quando parlai di questo tema con l’ex Presidente del Consiglio, un vostro collega avvocato, mi disse ‘Salvini lavoriamo su tutto ma non su quello’, chi tocca la separazione delle carriere in questo Paese si fa male. Io sono a processo il 15 settembre, non per questo ma con assoluto orgoglio”. E conclude: “La separazione delle carriere è una scelta di civiltà così come la responsabilità civile dei magistrati e la liberazione degli stessi da logiche spartitorie delle correnti. A dimostrazione del fatto, un libro come quello di Sallusti e Palamara in periodo come questo di uscita dal covid abbia superato le 300mila copie significa che il tema è caldo”. Riccardo Annibali

Lo spettro del referendum. Salvini è un estremista di sinistra, l’ultima trovata di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Oggi ci sarà una manifestazione a Roma, davanti alla Cassazione, per la separazione delle carriere dei magistrati. Promossa dalle Camere penali. Nei prossimi giorni inizierà la raccolta delle firme organizzata da radicali e Lega. La campagna per il referendum sulla giustizia inizia il suo cammino e prima ancora di iniziare semina il panico sia dentro alcuni partiti (parecchi partiti, seppure in forme diverse) sia tra i magistrati (non tutti i magistrati) sia, soprattutto, in quella parte del giornalismo e dell’intellettualità che una volta avremmo definito “la maggioranza silenziosa” (speriamo però che non siano maggioranza). Magari non tutti sanno a cosa mi riferisco con questa definizione: la maggioranza silenziosa (che in realtà non era maggioranza) era un movimento che si formò ed ebbe un discreto peso nella politica italiana all’inizio degli anni Settanta, in contrapposizione con il disordine e l’anarchia del Sessantotto. Lo guidava un avvocato milanese, ex partigiano, monarchico, che si chiamava Adamo Degli Occhi. La parola d’ordine era “Ordine e Disciplina”. La natura del movimento era classicamente qualunquista. Assomigliava parecchio al movimento Cinque Stelle, anche se non riuscì mai a conquistare il Parlamento. Le sue posizioni erano molto simili a quelle dello schieramento giustizialista di oggi. Ieri il Fatto Quotidiano, che si è posto alla testa del fronte, ampio, che si oppone ai referendum, anche probabilmente su ispirazione dell’Anm (cioè del partito dei Pm che si è espresso recentemente con il proclama del suo presidente Santalucia) si è scagliato contro Matteo Salvini (che ha schierato il suo partito al fianco dei referendum radicali), accusandolo, in sostanza, di essere un estremista di sinistra. Il titolo principale della prima pagina del giornale di Travaglio espone questo concetto, che poi è sviluppato nelle pagine interne dall’editorialista di punta del Fatto, e cioè Piercamillo Davigo (a proposito: ma è arrivato o no l’avviso di garanzia a Davigo per la scomparsa del dossier Amara?). Davigo nel suo articolo si pronuncia soprattutto contro il referendum che riduce la possibilità per i Pm di usare la custodia cautelare come strumento di indagine. In effetti l’uso molto spavaldo della custodia cautelare fu la bandiera del pool Mani pulite che all’inizio degli anni Novanta spazzò via la Prima repubblica e i sogni di grandezza dell’Italia del centrosinistra storico. E da allora è diventato un po’ il deus ex machina della giustizia italiana. Oggi circa un terzo dei detenuti è in carcerazione preventiva, cioè sconta una pena molto dura prima di essere condannato dai giudici, avendo, in pratica, ricevuto la condanna dei Pm che dispongono (se hanno un Gip compiacente, e nel 95 per cento dei casi ce l’hanno) di un potere incontrollato su tutta la popolazione e sul potere politico. Davigo rimprovera a Salvini di essere un traditore della destra, perché Davigo, e il Fatto, considerano la destra custode del valore della repressione e della disciplina. In particolare il giornale di Travaglio paventa l’invasione degli immigrati clandestini, che rischierebbero di essere liberati da una eventuale vittoria del referendum, andando a aumentare notevolmente il numero degli irregolari. Probabilmente Salvini non si aspettava un attacco da destra. Travaglio e Davigo invece hanno pensato – probabilmente a ragione – che sia quello il suo lato più scoperto. Del resto il Fatto, insieme al partito dei Cinque Stelle, in passato ha affiancato Salvini proprio nella campagna contro i taxi del mare e l’invasione dei clandestini. Purtroppo Adamo Degli Occhi, che oggi avrebbe più di cent’anni, non c’è più. Altrimenti avrebbe apprezzato le battaglie di Travaglio. In realtà Travaglio si è sempre considerato un allievo di Montanelli (anche se non sappiamo con certezza che Montanelli ne fosse consapevole) e Montanelli fu tra i giornalisti quello che più appoggiò il Movimento della Maggioranza Silenziosa che a sua volta aveva come principale bersaglio della propria contestazione il Corriere della Sera prima di Spadolini e poi di Piero Ottone. Il referendum sta destabilizzando tutto il mondo politico. In particolare il Pd, che non sa bene su che sponda buttarsi. Goffredo Bettini, che del Pd è uno dei padri nobili, ha detto che firmerà i referendum. Ma Letta e altri esponenti della maggioranza si sono dichiarati tutt’altro che convinti. Per il Pd la scelta è molto importante: accodarsi ai 5 stelle o compiere finalmente una svolta pienamente liberale? Il tentennamento del Pd i ricorda un po’ il tentennamento che mezzo secolo fa ebbe il Pci. Eravamo più o meno nel 1973. I cattolici volevano un referendum per abolire il divorzio. Pannella si buttò a pesce, perché pensò che quel referendum poteva far fare un salto all’Italia civile e laica. Il Pci invece aveva paura del referendum. Sia perché il divorzio gli piaceva, sì, ma mica tanto; sia perché non voleva rotture con la Dc e il Vaticano; sia perché questa cosa della democrazia diretta non lo esaltava. Alla fine Berlinguer si convinse e gettò tutta la forza del suo partito nella battaglia referendaria. Stravinse. Fu la vittoria sua e di Pannella. La rovina di Fanfani. Beh, ora Letta… Sì, certo: Letta non è Berlinguer.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Ho fatto il repressore per 33 anni, poi ho capito che il carcere è inumano». Il Dubbio il 9 maggio 2021. L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo a colloquio con Vittorio Occorsio, nipote del magistrato omonimo vittima dei terroristi di Ordine Nuovo nel 1976. «Ho fatto il repressore per 33 anni, e mi sono dimesso anche perché finalmente ho compreso che questo sistema carcerario è contrario all’umanità, oltre ad essere inutile». L’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo non ha alcun dubbio sul fatto che il carcere come strumento di repressione e rieducazione sia superato, e ribadisce il suo pensiero in un dialogo a due voci – di cui è pubblicata un’anticipazione sulle pagine del Corriere della Sera – con Vittorio Occorsio, nipote del magistrato omonimo vittima dei terroristi di Ordine Nuovo nel 1976. Il dialogo integrale sarà trasmesso nell’ambito del Festival della Giustizia Penale, in programma dal 21 al 23 maggio e dedicato quest’anno al tema delle vittime di reato. «Mi sono convinto che il carcere, così com’è, non aiuta chi lo subisce a reintegrarsi positivamente nella società e non ci aiuta ad essere più tutelati. La mia opinione è che chi è pericoloso sta da un’altra parte, con tutti i diritti costituzionali che non confliggono con la sicurezza, e ci sta fin tanto che è pericoloso; per gli altri, il carcere non serve. E la Costituzione — che, agli articoli 3 e 27, assicura pari dignità a tutte le persone — a imporre che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, la funzione rieducativa della pena significa che l’aver commesso un delitto non necessariamente richiede, per rieducarsi, il carcere», spiega l’ex magistrato Colombo.  Da parte sua, Occorsio mette al centro «il punto di vista delle vittime», convinto «che la privazione della libertà per i criminali sia un sacrificio imposto a garanzia dei cittadini. Anche quando la condanna arriva a molti anni dal reato». Secondo Colombo invece è l’attuale sistema «a non interessarsi delle vittime. Nella giustizia riparativa, invece, la vittima è un interprete principale, attraverso la ricucitura della relazione che il reato ha troncato. Il male consiste in quello: nella negazione della relazione sociale, nel rifiuto dell’altro e conseguentemente nel calpestarlo». «Perché chiedere al familiari delle vittime di doversi far parte attiva, oltreché della memoria — che già richiede alto senso di responsabilità per tornare sul dolore patito — anche di questo processo di riconciliazione con i carnefici?», chiede Occorsio, precisando che in lui «non c’è nessun desiderio di vendetta. Mio padre ha anche scritto un libro, in forma di lettera a me, “Non dimenticare, non odiare”. Il mio coinvolgimento non deriva da essere nipote di mio nonno. Direi le stesse cose comunque». «Occorre separare le conseguenze della trasgressione dalla vendetta. È ben più faticoso compiere un percorso di mediazione, di giustizia riparativa, che essere costretto a starsene 20 ore al giorno sulla brandina della cella», replica Colombo.

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 9 maggio 2021. Anche io mi chiedevo come mai non si fosse accesa nessuna discussione sull'ergastolo ai due giovani americani giudicati per l' uccisione del sottufficiale dei carabinieri Mario Cerciello Rega. Una discussione aperta, immaginavo, sul senso di condannare a vita due persone di vent' anni rispetto a quel che indica la Costituzione all' articolo 27: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Poi ho letto sul Foglio Adriano Sofri, che accantona "considerazioni azzardate" sull'ipotesi che la Corte sia stata drastica "per risarcire la vittima e con lei l'Arma dalle ombre sollevate sulla vicenda". O per dissipare il dubbio di qualche compiacenza verso due cittadini americani. O che abbia deciso per una sentenza esemplare in prima istanza, perché tanto l'appello provvederà a smussarla. Escluse queste eventualità, bisogna concludere che lo Stato non ha nessuna fiducia che due ventenni, negli almeno sessanta successivi di aspettativa media di vita, possano attraverso il carcere essere "rieducati". Dato che è ancora questa, giusto?, in uno stato di diritto che non contempla la pena di morte, la finalità della condanna. Pensavo a una discussione che non entra nel merito del reato commesso, non giudica la corte che giudica, non riesamina le vite dei condannati, quella della vittima o, per dire, di Sofri. Niente di tutto questo. Solo, in teoria: a cosa serve il carcere. Perché se serve a punire, certo, e insieme a rieducare ci sarebbe da chiedersi in che senso si possano rieducare due ventenni (uno dei due all'epoca appena maggiorenne) chiudendoli in una cella a vita. È solo una domanda, non contiene risposte. Pensavo di chiedere in giro, ma può darsi che sia meglio di no.

Dal “Corriere della Sera” il 9 maggio 2021. Il carcere come strumento di rieducazione e repressione è superato? Ne è convinto un ex pm eccellente, Gherardo Colombo: in questo incontro con Vittorio Occorsio, il cui nonno, omonimo, fu ucciso dai terroristi di Ordine Nuovo nel 1976, spiega perché. Il dialogo (di cui qui pubblichiamo un’anticipazione) sarà trasmesso in occasione di un dibattito organizzato dalla Fondazione Occorsio all’interno del Festival della Giustizia Penale che si terrà in modalità mista (web e presenza) dal 21 al 23 maggio.

OCCORSIO: «Lei è un convinto assertore dell'inutilità del carcere sul piano della rieducazione del condannato».

COLOMBO: «Mi sono convinto che il carcere, così com' è, non aiuta chi lo subisce a reintegrarsi positivamente nella società e non ci aiuta ad essere più tutelati. La mia opinione è che chi è pericoloso sta da un'altra parte, con tutti i diritti costituzionali che non confliggono con la sicurezza, e ci sta fin tanto che è pericoloso; per gli altri, il carcere non serve. È la Costituzione - che, agli articoli 3 e 27, assicura pari dignità a tutte le persone - a imporre che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, la funzione rieducativa della pena significa che l'aver commesso un delitto non necessariamente richiede, per rieducarsi, il carcere».

O: «L'articolo 27 della Costituzione viene a volte, non da lei, invocato in maniera piuttosto vaga. La norma non dice che la pena serve solo alla rieducazione del condannato. Ma che deve "tendere" alla rieducazione. Quest' ultima non esaurisce la funzione della pena. Nessuno qui vuole dire che la pena debba comportare violenza o soprusi. Ed anzi sono convinto che la sicurezza nelle carceri, così come un'edilizia più accogliente, siano elementi su cui valutare il grado di civiltà di una nazione. Ma sono altrettanto convinto che la privazione della libertà per i criminali sia un sacrificio imposto a garanzia dei cittadini. Anche quando la condanna arriva a molti anni dal reato».

C: «Vogliamo guardare ai risultati? L'alto numero di recidive fa sì che vi siano nuovi reati, che la collettività ne continui a soffrire».

O: «Però, mi consenta, occorre anche rispettare il punto di vista delle vittime, o no?»

C: «Ma è proprio l'attuale sistema a non interessarsi delle vittime. Nella giustizia riparativa, invece, la vittima è un interprete principale, attraverso la ricucitura della relazione che il reato ha troncato. Il male consiste in quello: nella negazione della relazione sociale, nel rifiuto dell'altro e conseguentemente nel calpestarlo».

O: «Perché chiedere ai familiari delle vittime di doversi far parte attiva, oltreché della memoria - che già richiede alto senso di responsabilità per tornare sul dolore patito - anche di questo processo di riconciliazione con i carnefici?»

C: «La giustizia riparativa è su base volontaria, nessuno può esservi costretto. Ma torniamo alla pena. In alcuni Stati degli Stati Uniti c'è ancora la pena di morte, eppure lì si uccide circa 8 volte più che da noi. Non è che la pena di morte educhi all'omicidio? Occhio per occhio rende il mondo cieco, diceva Gandhi. Occorre separare le conseguenze della trasgressione dalla vendetta. È ben più faticoso compiere un percorso di mediazione, di giustizia riparativa, che essere costretto a starsene 20 ore al giorno sulla brandina della cella».

O: «Non c'è nessun desiderio di vendetta. Mio padre ha anche scritto un libro, in forma di lettera a me, "Non dimenticare, non odiare". Il mio coinvolgimento non deriva da essere nipote di mio nonno. Direi le stesse cose comunque. Qui si discute di quale sistema assicura al meglio l'incolumità propria, dei propri cari, dei propri beni. Sono le alternative al sistema penale attuale che mi preoccupano».

C: «La giustizia riparativa viene praticata in molti Paesi con successo, ci si deve misurare con la realtà. Gli studi parlano di una decrescita della recidiva del 25%».

O: «Sperando che non vi sia, in questa statistica, una base maggiore di reati...».

C: «Non è così. Ho fatto il repressore per 33 anni, e mi sono dimesso anche perché finalmente ho compreso che questo sistema carcerario è contrario all'umanità, oltre ad essere inutile».

O: «Ma non possiamo semplicemente migliorare le carceri e sperimentare nuove forme di rieducazione? La Fondazione intitolata a mio nonno svolge anche iniziative nelle carceri, specialmente nelle scuole dei detenuti. Umanità del carcere e sistema repressivo vanno di pari passo».

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 30 marzo 2021. Sarà forse una piccola rivoluzione per le abitudini italiane. La giustizia deve abituarsi ad avere un approccio più garantista. Ce lo chiede l'Europa da cinque anni e ora sta per diventare obbligo di legge. Con emendamento del governo, oggi verrà recepita una Direttiva europea del 2016 («Sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali»). Spetterà poi al ministero della Giustizia elaborare le norme di applicazione, ma la ministra Marta Cartabia si è impegnata con i partiti di maggioranza a fare presto. Non dovrebbe accadere, insomma, quel che successe ai tempi del governo Gentiloni, quando la medesima norma fu votata dal Parlamento, salvo poi decadere perché non arrivarono mai gli allegati tecnici. Il problema può sembra neutro, invece è esplosivo. Come considerare, infatti, le conferenze stampa che le procure tengono al termine di complicate inchieste con arresti? I giornalisti potranno ancora dare conto delle intercettazioni, che sono citate nelle ordinanze di un Gip? Secondo un approccio british, questa è informazione di parte, non garantista, che dà conto solo delle posizioni dell'accusa e prefigura un giudizio mediatico inappellabile. Le indicazioni della Direttiva sono esplicite: «La presunzione di innocenza - si legge - sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l'indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l'idea che una persona sia colpevole». Ma allora, come raccontare gli arresti? E se non si potranno più citare le intercettazioni inserite in un'ordinanza che oggi è pubblica e pubblicabile, non sarà un bavaglio alla libera informazione? Sono temi che fanno accapigliare i partiti da anni. La Cartabia per il momento ha ottenuto una tregua anche su questa partita. E d'altra parte era ben difficile per qualsiasi partito opporsi a una Direttiva, dato il carattere europeista del governo Draghi. «È un bel segnale politico, questo nostro compromesso», ha detto nei giorni scorsi ai rappresentanti dei partiti di maggioranza. I problemi politici però sono soltanto spostati un po' più in là. E ci sarà sicuramente una gran battaglia. La ministra ha dovuto mostrare buona capacità di navigazione per sminare una grana di prima grandezza. Si stavano moltiplicando le spinte dei garantisti - non soltanto Enrico Costa (Azione) o Riccardo Magi (Radicali), ma anche Forza Italia e Italia Viva - e di contro si stavano irrigidendo le posizioni di Cinquestelle e parte del Pd. «Il garantismo - dice Enrico Costa, che conduce una battaglia su questo tema - cioè il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, è iscritto nella nostra Costituzione. Le pratiche però sono spesso diverse. Diffondere spezzoni di intercettazioni, con virgolettati, video o audio, senza che ci sia stato un vaglio al dibattimento, non è più ammissibile».

Presunzione d’innocenza, la Camera approva la direttiva garantista. La direttiva Ue che vieta gli abusi mediatici dei pm recepita col voto compatto della maggioranza. Forza Italia e Azione: «È cambiato tutto». Errico Novi su Il Dubbio il 31 marzo 2021. Niente è cambiato? Così fa credere il gioco di prestigio della comunicazione politica. Ma il voto con cui ieri la Camera, e la maggioranza tutta, hanno recepito la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza nella legge di delegazione europea può essere sottovalutato solo per comodità. Dal punto di vista del Movimento 5 Stelle conviene non enfatizzare il cambio di passo garantista sulla giustizia. Ma in fondo persino chi come Forza Italia, Azione e Italia viva si batteva da mesi per l’accoglimento del testo comunitario, non è che avesse chissà quale convenienza, a spiegare davvero cosa potrebbe derivarne per il processo mediatico all’italiana. A strombazzare la realtà si correva il rischio di irrigidire oltremodo la posizione contraria dei pentastellati. Eppure basterà poco per verificare il peso del via libera compatto ( 427 favorevoli, Fratelli d’Italia compresa, un solo contrario e 11 astenuti) arrivato ieri a Montecitorio. Aderire alla direttiva europea 343 del 2016 rischia di avere conseguenze concrete notevolissime sul comportamento delle Procure. Il testo è fin troppo esplicito: all’articolo 4 comma 1 vincola gli «Stati membri» ad assicurare che «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole».

ALTRO CHE PASSAGGIO SCONTATO E INNOCUO. Adesso, molti, nel Movimento 5 stelle, ripetono: la presunzione d’innocenza è già all’articolo 27 della Costituzione. Vero: eppure finora i pm non hanno mai avuto l’impressione di violare una legge dello Stato, quando hanno detto in conferenza stampa di aver «sgominato una cricca» o «scovato i colpevoli». D’ora in poi sarà diverso: una legge ordinaria li obbliga a cambiare linguaggio. A parlare di “presunti colpevoli” e di “ ipotesi di reato”. Altrimenti violano quella legge. Il che, per un magistrato e per un procedimento penale, può avere conseguenze imprevedibili. Certo è che Marta Cartabia, con la soave fermezza di chi ha la Costituzione alle spalle, ha impresso alla maggioranza del governo Draghi una direzione completamente diversa da quella dei due esecutivi guidati da Conte. Tra chi tiene a farlo notare c’è il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, secondo il quale «il metodo Cartabia funziona: coniuga dialogo e decisione politica. Il governo delle competenze», dice Sisto al Dubbio, dimostra di saper essere anche il governo dell’efficienza». Che il voto di ieri ( a cui dovrà seguire a breve un altro passaggio dell’intero ddl europeo a Palazzo Madama) non sia privo di senso politico lo ricorda pure un altro azzurro, Pierantonio Zanettin: «C’è stata una battaglia a tratti anche aspra in commissione Giustizia ma stavolta il parere di governo e relatore sul nostro emendamento è favorevole». E poi: «Vogliamo ringraziare la ministra, siamo dinanzi a una svolta, a quel famoso punto di discontinuità rispetto al giustizialismo manettaro che noi abbiamo contrastato in questi primi tre anni di legislatura». Zanettin rivendica per Forza Italia anche il merito di aver «sollevato per prima il problema del recepimento della direttiva europea con un emendamento» . Chi prova a leggere il caso in ottica più pacificatoria è il Pd, con i capigruppo nelle due commissioni coinvolte, Alfredo Bazoli alla Giustizia e Piero De Luca agli Esteri: «Un grande spirito unitario ha caratterizzato il confronto». Ma neppure nascondono il «passo avanti deciso verso l’affermazione di princìpi europei di civiltà e garanzia giuridica, di cui la presunzione di innocenza costituisce un cardine imprescindibile».

LA LETTURA ALTERNATIVA DEL MOVIMENTO 5 STELLE. Sono i 5 stelle a offrire una lettura diversa. Lo fa innanzitutto la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina: «Il recepimento secco della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza nulla toglie e nulla aggiunge. È stato un passaggio scontato, che si limita a registrare la condivisione di un principio costituzionale già ben declinato nel nostro ordinamento». Macina esprime «soddisfazione per il risultato, reso possibile dal ritiro di quegli emendamenti estranei alla discussione che avrebbero rappresentato una spiacevole forzatura». Si riferisce soprattutto al capogruppo di Azione in commissione Giustizia Enrico Costa, che in alternativa al “recepimento secco” aveva proposto la declinazione puntuale delle implicazioni contenute nella direttiva, fino a una sanzione per le Procure non rispettose del principio. In casi estremi il procedimento sarebbe stato trasferito dinanzi a un Tribunale diverso. Va detto che ieri Fratelli d’Italia ha riesibito la tattica dell’opposizione ultragarantista già adottata con gli ordini del giorno sulla prescrizione: ha proposto in altri emendamenti le sanzioni per gli inquirenti che favoriscono fughe di notizie. Il no della maggioranza sembrerebbe avvalorare l’analisi pentastellata, anche quella di Mario Perantoni, che della commissione Giustizia è presidente: parla di «saggia mediazione» della guardasigilli che «ha riportato il tema entro i confini corretti, facendo sì che si eliminassero forzature o interpretazioni unilaterali». Con un’ulteriore nota, i componenti cinquestelle della commissione parlano di «recepimento senza forzature: abbiamo disinnescato tentativi di inserire, sotto le mentite spoglie della direttiva, norme che impedirebbero ai cittadini di avere una corretta informazione sulle inchieste in corso» . A meno che non si volesse intendere che sarebbe corretto dare per colpevole una persona solo indagata, si tratta, come si è visto, di un’interpretazione un po’ evasiva: i limiti ai pm scatteranno eccome, anche se Costa non è riuscito a inserirli in uno specifico richiamo.

COSTA PERFIDO: «ECCO COSA AVETE DAVVERO VOTATO…» Non a caso proprio il deputato di Azione, festeggiatissimo dal suo leader Carlo Calenda, una volta incassato il via libera dell’Aula diffonde un comunicato della serie “mo’ vi spiego cosa avete votato, cari 5 stelle”: «L’approvazione unanime dell’emendamento di Azione e + Europa sulla presunzione d’innocenza è un grande risultato: uno stop forte e chiaro al processo mediatico, alle conferenze stampa dei pm, ai video degli atti di indagine, ai nomi con cui si battezzano le inchieste, alle intercettazioni spiattellate sui giornali». Basterà poco per rendersi conto che così è. Certo, tutto lascia credere che i garantisti da prima linea come Zanettin, Costa e Lucia Annibali ci riproveranno di qui a qualche giorno, con gli emendamenti al ddl sul processo penale. C’è chi quasi lo confessa, come il deputato radicale di Più Europa Riccardo Magi: «Auspichiamo che il governo sappia cogliere questa occasione per rafforzare le norme a garanzia della presunzione di innocenza, che a parole viene riconosciuta e enunciata da tutti, ma nei fatti viene spesso travolta, e con essa la vita e la dignità di troppi cittadini». Più che il governo, finirà per agire la maggioranza. O meglio, una sua parte. Non sarà un tentativo indolore. Ma non importa se avrà successo. Perché solo una comprensibile ma impropria lettura minimalista può pretendere che il vento sulla giustizia non sia cambiato.

Chissà a quanti pubblici ministeri saranno fischiate le orecchie...Non solo Gratteri, dopo Cartabia anche l’Europa dice: “Basta arresti show”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Chissà a quanti pubblici ministeri saranno fischiate le orecchie, ieri pomeriggio, mentre la Camera dei deputati discuteva, votava e decideva di far propria, con un ritardo di cinque anni, la Direttiva europea del 2016 sulla presunzione di innocenza. Quella che diffida la magistratura dal presentare l’indagato o l’imputato come colpevole. E che ha trovato un tale consenso nell’aula di Montecitorio da far sperare in un improvviso capovolgimento di cultura in chiave garantistica nella nostra classe politica. Ovviamente non è così, ed è merito non solo dei deputati Enrico Costa e Riccardo Magi che con caparbietà hanno tenuto ferma la barra sul proprio emendamento, ma anche della ministra Cartabia che ha saputo governare con fermezza i dissensi, smussando e correggendo, ma senza mai derogare al principio di fondo. Si potrebbe pensare che dovrebbe essere sufficiente l’articolo 27 della nostra Costituzione, per stabilire il fatto che nessuno debba essere considerato colpevole se non dopo una sentenza passata in giudicato. Non è così purtroppo. Prima di tutto perché quello strumento nato come tutela dell’indagato che si chiama “informazione di garanzia” (e non “avviso” come in genere si dice, quasi fosse una minaccia) è ormai diventata una sorta di condanna, e anche, nella cultura inquisitoria, una colpa. Come non ricordare le manifestazioni del partito dei forcaioli, quel Movimento cinque stelle che oggi è al governo ed è obbligato a “recepire” anche questo boccone indigesto, quando inveivano contro “il Parlamento degli inquisiti”? Naturalmente il termine era ai loro occhi poco meno di una bestemmia, fino a quando non è toccato anche a loro. Solo allora sono iniziati i distinguo. E oggi sono persino costretti a discutere di presunzione di innocenza. Una faticaccia. Già hanno il problema del secondo mandato…Ma il punto focale della Direttiva europea è diretto, prima ancora che all’opinione pubblica o alle forze politiche, proprio alla magistratura, proprio a comportamenti pubblici che paiono portare le impronte digitali dei tanti procuratori abituati, dopo l’ennesimo blitz, a gonfiare il petto davanti alle telecamere. Ecco il punto: «La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole». Un po’ ripetitivo, ma chiarissimo. Possiamo dimenticare quel giorno di dicembre del 2019, quando il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri illustrava l’inchiesta “Rinascita Scott” come la più grande indagine della storia contro la mafia, equiparabile solo al maxiprocesso di Falcone contro Cosa Nostra? E quando insisteva sulla famosa “zona grigia” rappresentata da indagati delle istituzioni, già presentati come colpevoli in quanto cerniera con i boss della ‘ndrangheta? Ma non è tutto. Qualche tempo dopo quel giorno, lo stesso procuratore lamentava sui propri profili social il fatto che i principali quotidiani nazionali avessero dato scarso risalto alla sua maxi-operazione. Sentite che cosa scriveva: «’Ndrangheta, la maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali: niente su Stampa e Repubblica, un box sul Corriere». E poi ha elogiato il Fatto quotidiano. Quello dove la presunzione di innocenza è un oggetto sconosciuto. E di recente l’inchiesta “Rinascita Scott” è stata celebrata in una trasmissione televisiva sul servizio pubblico della Rai, con la partecipazione, in diversi spezzoni di intervista, dello stesso dottor Gratteri. Ma sarebbe ingiusto circoscrivere al solo procuratore di Catanzaro la violazione di principi che dovrebbero essere cuciti addosso a qualunque cittadino, e prima di tutto alla toga che ogni magistrato indossa. Fin dai tempi di tangentopoli, un gruppo di pubblici ministeri che aveva osato definire le proprie mani come “pulite”, quasi come se il resto del mondo avesse infilato le proprie nella melma, non si è mai sottratto alle telecamere. Anche per minacciare la propria astensione dal lavoro (un po’ come i vertici del sindacato delle toghe nei giorni scorsi) se un certo decreto fosse stato convertito in legge. E il Parlamento aveva obbedito. E mai abbiamo sentito sulla bocca di alcuno di loro la pronuncia del termine “presunto”. Avevano un grande potere, allora. Oggi…La Direttiva europea è molto chiara sul concetto di gogna mediatica e sul problema dell’oblio. Quando sei indagato, e poi tenuto sulla graticola per anni, quando i tuoi vicini di casa guardano male la tua famiglia, e i tuoi figli subiscono sberleffi a scuola, chi ti toglierà di dosso quel marchio infame, anche dopo che ( ma quanto tempo dopo?) sarai stato assolto? E le intercettazioni, spesso mal capite o distorte, come ha ricordato Enrico Costa, depositate in edicola prima ancora che in cancelleria? Il problema è che nel frattempo è stato celebrato un vero processo mediatico, che ti si appiccica addosso e di cui non ti liberi più. Ecco che subentra il diritto all’oblio, cosa oggi, con la diffusione dei social, estremamente difficile. Quante volte ci capita di leggere che qualcuno era stato coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi il suo caso era stato archiviato? Che cosa resta nella memoria del lettore? Resta il coinvolgimento, e il sospetto che, se i magistrati si sono occupati di lui, se addirittura quel tale era stato arrestato, qualcosa avrà fatto. E che, se poi è stato prosciolto o assolto, magari il suo avvocato avrà trovato un “cavillo” o magari una “stradina” con il giudice. Faceva impressione, ieri pomeriggio, sentire i rappresentanti dei diversi partiti di maggioranza, tutti virtuosi, tutti garantisti, tutti grandi estimatori dell’articolo 27 della Costituzione. Un cenno di perplessità è venuto da un breve intervento di Roberto Giachetti, radicale al di sopra di ogni sospetto, dopo una serie di interventi dei deputati dell’unico partito d’opposizione, Fratelli d’Italia. E in effetti, senza andare troppo indietro con la memoria, vien da dire soltanto “benvenuti nel club”, sperando che la presenza duri. Così come da tempo abbiamo dato il benvenuto a Matteo Renzi (senza sospetti sulla brava Lucia Annibali, intervenuta in aula) e agli altri parlamentari di Italia Viva. Ma anche senza dimenticare la loro provenienza politica, la stessa di coloro che oggi militano nel Pd. Di cui non si possono dimenticare le autorizzazioni all’arresto votate anche nei confronti dei propri colleghi e compagni, senza tenere in nessun conto la presunzione di innocenza. Intanto ti sbatto in galera, era la logica, poi ti espello dal partito, infine, se proprio sarai assolto, ne riparleremo. Lasciando perdere la squadra dei grillini quindi, su cui ci sono poche speranze, e lasciamo da parte Forza Italia che ha sempre mantenuto coerenza ai principi garantistici, e singoli come Enrico Costa e Riccardo Magi piuttosto che Roberto Giachetti o Alessandro Colucci (sempre di provenienza Forza Italia), possiamo sperare che il voto di ieri abbia segnato una svolta culturale nel Parlamento? Per esempio il fatto che chi chiede la “certezza della pena” la intenda alla maniera di Marta Cartabia, e cioè che certezza della pena non vuol dire certezza del carcere? Se è così, la svolta c’è. Se no, vuol dire che ce ne sono ancora troppi che devono mangiare ancora un po’ di minestra prima di dimostrare di credere davvero nella presunzione di innocenza.

Il confronto tra Usa e Italia. Società violente e meno sicure con il modello "Law and Order". Porzia Addabbo su il Riformista il 12 Marzo 2021. L’eccesso di durezza di un sistema giudiziario e penitenziario non solo non funziona, nel senso che non rende la società più sicura, ma è anche controproducente, nel senso che contribuisce a mantenere un livello di violenza diffusa che è molto superiore a quello dei sistemi meno “giustizialisti”. Invitata per conto di Nessuno tocchi Caino a un convegno a Cascina il 2 marzo scorso, ho presentato una scheda comparativa tra USA e Italia che evidenzia il “paradosso” di un sistema di giustizia penale che invece di ridurre il crimine lo alimenta. Il convegno dal titolo “La storia di Greg” era dedicato a Gregory Summers, un detenuto che è stato giustiziato in Texas il 25 ottobre 2006 ma aveva chiesto di essere sepolto in Toscana, il primo Stato (come Granducato) che nel 1786, per la prima volta in Europa, ha abolito tortura e pena di morte. Il confronto tra Stati Uniti e Italia mostra delle differenze molto significative: gli USA hanno 330 milioni di abitanti, l’Italia 60 (loro sono 5 volte e mezza più popolosi di noi); gli USA hanno 2.100.000 persone in carcere, l’Italia 53.000 (se noi fossimo quanti gli statunitensi, avremmo 291.000 persone in carcere, ne abbiamo invece 7,2 volte di meno); negli USA si verificano ogni anno una media di 16.500 omicidi, in Italia 315 (è come se l’Italia, in proporzione, avesse 3.000 omicidi, invece ne abbiamo 9,5 volte di meno); negli USA oltre 203.000 persone stanno scontando l’ergastolo, in Italia 1.784 (è come se l’Italia, a parità di popolazione, avesse 36.900 ergastolani, invece ne abbiamo più di 20 volte di meno). Negli Stati Uniti la polizia uccide in media, ogni anno, circa 1.800 cittadini, e in media altri 400 omicidi, compiuti da cittadini, non vengono perseguiti perché considerati “giustificati” ai sensi delle leggi sulla legittima difesa. Sebbene in Italia manchi trasparenza su questa categoria di uccisioni, è probabile però che si tratti comunque di cifre basse, che non dovrebbero superare, di media, i 20 casi l’anno. Seguendo la proporzione statunitense, la polizia dovrebbe uccidere in media 330 persone l’anno, e 70 dovrebbero essere i casi di “legittima difesa”. Se diamo per buona la cifra complessiva desunta di 20, in Italia le “uccisioni giustificate” sono in proporzione 16,5 volte di meno che negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti in media il 40% degli omicidi rimane irrisolto. Alcune contee “iconiche”, in stati mantenitori, hanno statistiche particolari. La Miami-Dade County, quella dove sono ambientati i telefilm “CSI Miami”, con “Orazio” e i suoi elegantissimi colleghi che risolvono brillantemente tutti i casi, ha avuto nel 2019 il 51% degli omicidi irrisolti. In Italia, nel 2019, sono rimasti irrisolti il 24% degli omicidi. Quindi la polizia statunitense, più numerosa, più armata, meglio pagata, e con potere di vita e di morte quasi illimitato sui cittadini non è affatto più efficiente di quella europea, continente in cui, in alcune nazioni, la polizia gira disarmata, e per poter estrarre un’arma conservata in un vano corazzato nel portabagagli dell’auto di servizio deve prima chiedere via radio il permesso, e ottenere dalla centrale un codice numerico di sblocco. Gli Stati Uniti uccidono in media 20 persone l’anno attraverso esecuzioni “legali”, ossia dopo una serie di processi, mentre in Italia l’ultima esecuzione risale all’immediato dopoguerra, al 1947. Anche il fatto che in 28 dei 50 stati sia in vigore la pena di morte non sembra dare agli USA nessun vantaggio rispetto all’Europa, dove la pena di morte è in vigore nella sola Bielorussia, nazione dell’ex blocco sovietico che appartiene “geograficamente” all’Europa, ma “politicamente” non fa parte né dell’Unione Europea né del Consiglio d’Europa. Per quanto sia considerata in ambito internazionale una dittatura “de facto”, la Bielorussia fa un uso “moderato” della pena di morte, con una media di 2 esecuzioni l’anno negli ultimi 10 anni. C’è da dire che il tasso di criminalità violenta di USA e Bielorussia sono molto simili, in media oltre il quadruplo rispetto alla “Vecchia Europa”. Detto tutto questo, ossia che l’Italia tiene in carcere, in proporzione, 7 volte meno cittadini degli USA, che ne condanna all’ergastolo 20 volte di meno, che le nostre forze dell’ordine uccidono “senza processo” almeno 20 volte meno di quelle USA, che noi non giustiziamo nessuno da 74 anni, detto tutto questo, noi abbiamo un tasso di omicidi che è 10 volte più basso di quello statunitense. Cifre in media con quelle italiane le hanno gli altri grandi paesi europei che per popolazione possono essere paragonati all’Italia: la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, e la Spagna. Alla luce di questi semplici dati, si può dire che la tradizione europea di “garantismo” e di un uso complessivamente “moderato” della repressione e della punizione sembra funzionare nel tenere basso il livello di violenza e/o criminalità, mentre il modello statunitense “law and order” non sembra avere nessun effetto migliorativo sulla società su cui insiste.

La Cassazione ribadisce il no alla custodia cautelare in carcere per i reati entro i tre anni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 febbraio 2021. Per la Cassazione la custodia cautelare in carcere va sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, ma anche nell’esecuzione. La Cassazione, disponendo l’immediata scarcerazione di un detenuto immigrato accusato di piccoli reati, ha evidenziato che la custodia cautelare in carcere va sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, quando il giudice prognostica come infratriennale la futura condanna, ma anche quando durante l’esecuzione intervenga condanna – anche non definitiva – inferiore a tre anni. Parliamo della sentenza n. 4948 del 2021, relativa al ricorso del detenuto contro l’ordinanza del 10 ottobre scorso del tribunale del riesame de L’Aquila. Questa ordinanza ha confermato quella del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Chieti che aveva applicato al ragazzo la misura della custodia cautelare in carcere per più episodi di tentato furto aggravato di autovetture.

La Cassazione ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa. Com’è detto, il ricorso non solo è dichiarato fondato, ma per l’effetto, l’ordinanza impugnata viene annullata senza rinvio quanto all’applicazione della custodia cautelare in carcere, con conseguente scarcerazione del ricorrente se non detenuto in carcere per altra causa e collocazione del medesimo agli arresti domiciliari. La Cassazione, quindi, ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa che espressamente esclude – per le esigenze cautelari – l’applicazione della misura maggiormente afflittiva del carcere solo nella fase applicativa, cioè quando la prognosi del giudice sulla futura condanna si assesti entro i tre anni. La vicenda prende le mosse da due errori dei giudici di merito in questo caso. Il primo l’assenza di tale giudizio prognostico che non può assolutamente mai mancare al fine di applicare o escludere la misura cautelare. Il secondo la non presa in considerazione dell’intervenuta condanna, non superiore a tre anni, per quanto non definitiva. Spiega, infatti, la Cassazione che se è vero che il comma 2 bis dell’articolo 275 del Codice penale prescrive esplicitamente tale obbligo prognostico da parte del giudice solo al momento di decidere, ciò non azzera la previsione dell’articolo 299 dello stesso Codice, che impone al giudice di valutare adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà personale, anche nelle fasi successive all’irrogazione. Quindi anche nella seconda fase, cioè dopo l’applicazione, che la Cassazione definisce “dinamica”, si impone appunto di provvedere a sostituire con misura meno afflittiva del carcere il rispetto delle esigenze cautelari, nel caso in cui sia intervenuta condanna inferiore a tre anni anche se non ancora definitiva. Quindi si rafforza un importante principio. Ovvero che il carcere va sostituito con misure cautelari meno afflittive per condanne inferiori ai tre anni.

La ministra alla Commissione Giustizia della Camera. Schiaffo di Cartabia a Gratteri e co.: “Basta fughe di notizie, avvio indagini va fatto con riserbo”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Marzo 2021. «Certezza della pena non è certezza del carcere». Bisogna risalire ai tempi di Filippo Mancuso, quello che fu sfiduciato dal Pds perché troppo garantista, per sentire un (anzi una) guardasigilli che non vuole costruire nuove prigioni ma anzi vorrebbe abbattere quelle esistenti. Qualche ceffone e tante carezze. La ministra Marta Cartabia ha presentato il suo programma alla Commissione giustizia della Camera. Un colpetto pare diretto su una guancia del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, e riguarda «la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo», per «la tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del dettato costituzionale». Se mettiamo insieme (in modo arbitrario) questo concetto con la proposta della guardasigilli di rafforzare all’interno del ministero l’ufficio dell’ispettorato, si può far ben sperare che, quanto meno da parte del ministro, ci sarà attenzione nei confronti di quei pm che depositano le carte processuali in edicola e delle conferenze stampa dopo ogni apertura di indagini e blitz delle forze dell’ordine. La casta dei magistrati in generale porta a casa qualche livido, dopo l’audizione di ieri, con quell’accento continuo che la ministra pone sul tema della formazione. Come se avesse detto che non basta aver vinto un concorso per indossare la toga, e soprattutto che non basta la raccomandazione di Palamara per accedere a un ufficio direttivo. Come hanno fatto carriera per esempio tanti che oggi sono procuratori capo? In teoria avrebbero dovuto avere già fatto un’esperienza dirigendo una procura più piccola. Nella realtà non è così, e Cartabia tira le orecchie a qualcuno: fatevi prima formare, poi andate a farvi le ossa per quattro anni in un centro piccolo, e solo in seguito andrete a Milano o a Roma. Chi deve intendere, intenda. Lo stesso per il Csm, dopo le «vicende non commendevoli» esplose con la storia di Luca Palamara, che ovviamente lei non cita per nome e cognome, ma il nome è lì, nell’aria. Nessuna legge cambierà mai le teste e le culture, dice la ministra. Ma intanto sta esaminando tutte le proposte di riforma sulla composizione e sul sistema elettorale del Consiglio Superiore, e butta lì una piccola bomba: ogni due anni mandare a casa metà Csm. Si attendono commenti. Certo, è impossibile poter piacere ai due estremi in tema di giustizia, cioè a Forza Italia e al Movimento cinque stelle, passando per tutti gli altri partiti che formano la maggioranza di questo governo, però alcuni punti sono fermi nella testa del ministro Cartabia, e sono prima di tutto gli articoli 111 e 27 della Costituzione. Cioè due pilastri della convivenza civile. Ogni cittadino ha diritto a un processo equo e veloce. Chiunque abbia rotto il patto della convivenza, va aiutato a ricucire, anche insieme alle vittime, con l’aiuto di un soggetto terzo. E questo è il piatto forte della giornata. Se dire che certezza della pena non è necessariamente certezza del carcere, non significa abolizione delle prigioni, che cosa è? Qualcosa che ci va molto vicino. Del resto Cartabia non sarebbe l’unico ministro a pensarla così. Ricordo ancora la presentazione, nella stessa aula della commissione giustizia della Camera, molti anni fa, del ministro Mancuso, che era stato scelto dal capo dello Stato Oscar Maria Scalfaro e la pensava in modo opposto al suo. Lo aveva detto chiaramente, senza foglietti in mano e parlando a braccio che il carcere dovrebbe essere uno strumento eccezionale. Che lui avrebbe proprio voluto trovare il modo di abolirlo. La neo-ministra si è anche detta molto favorevole all’ampliamento dell’istituto della sospensione della pena, cioè proprio quella disposta un anno fa dalle tante ordinanze dei giudici di sorveglianza, mentre la canea urlava contro “i boss scarcerati”. Giustizia riparativa, è la sua parola d’ordine, che è l’opposto della carcerazione a tutti i costi. Guardare a tutti gli abitanti delle prigioni, detenuti, agenti e personale amministrativo, pensando prima di tutto alla loro qualità di vita. Ma soprattutto dare prospettive, alternative alle manette, riportare nella comunità chi ne sia uscito, impedire che strappi di nuovo, nell’interesse di tutti. Se qualcuno aspettava che la ministra “dimenticasse” il tema che più di tutti fa venire l’orticaria agli avvocati (e non solo a loro) e cioè la prescrizione, non ha capito quanto sia di fibra forte la spina dorsale di Marta Cartabia. Non si è sottratta. Il suo discorso non ha suggellato la continuità, anzi, una cambiamento ci sarà, impossibile restare fermi alla contro-riforma Bonafede. Dall’elenco di possibilità sciorinate, si capisce che una riflessione seria è in corso. E che il suo gruppo costituto al ministero ci sta già lavorando. Il rigore e l’impegno mostrato in questa relazione, indicano che il cammino di una morbida rivoluzione è già avviato.

L'audizione anche su prescrizione, Csm e riforma. Cartabia cancella la giustizia forcaiola di Bonafede: “Presunzione d’innocenza un diritto, carcere come extrema ratio”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Marzo 2021. Una nuova stagione per la giustizia italiana, in netta discontinuità rispetto alla gestione dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Marta Cartabia, neo ministro della Giustizia, nel corso di un’audizione di fronte alla commissione Giustizia della Camera sulle linee programmatiche del dicastero, ha annunciato il cambio di passo rispetto alla linea turbo-giustizialista tenuta dall’ex ministro pentastellato.

RIFORMA IMPRATICABILE, SI A EMENDAMENTI – L’ex presidente della Consulta, come era facile pronosticare vista la larga ed eterogenea maggioranza a sostegno del presidente del Consiglio Mario Draghi, ha chiarito che una riforma di sistema “non è praticabile” perché “nelle condizioni date la riforma dovrà puntare a interventi mirati”.  

La prossima settimana verranno dunque presentati “emendamenti ai testi già incardinati”, perché la titolare del dicastero di via Arenula almeno in parte salva l’operato dell’esecutivo Conte 2 sul tema della giustizia: “Bisogna verificare il lascito del precedente Governo, verificando quel che va salvato o modificato e implementato. Il lavoro svolto non va vanificato ma rimodulato e arricchito anche alla luce di questa maggioranza di governo così ampia”, ha chiarito in audizione la Cartabia.

PRESUNZIONE DI INNOCENZA UN DIRITTO – Ma sui temi di fondo è netto il cambio di passo con Alfonso Bonafede. La ministra ribadisce infatti che vanno messi in campo “tutti gli sforzi tesi ad assicurare una più compiuta attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Sempre a proposito della presunzione di innocenza, un principio ormai cestinato in Italia da giornali e politici, Cartabia ha puntato l’indice anche sulla “necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale”.

VALORIZZARE ALTERNATIVE AL CARCERE – Altro punto di discontinuità da parte della Guardasigilli riguarda l’uso, o per meglio dire l’abuso, che si fa in Italia dello strumento della carcerazione. Per Marta Cartabia infatti è “opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale che, assecondando una linea di pensiero che sempre più si sta facendo strada a livello internazionale, ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”. Con un parallelo il Guardasigilli ricorda in audizione al Senato che “la certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali. Un impegno che intendo assumere è di intraprendere ogni azione utile per restituire effettività alle pene pecuniarie, che in larga parte oggi, quando vengono inflitte, non sono eseguite. In prospettiva di riforma sarà opportuno dedicare una riflessione anche alle misure sospensive e di probation, nonché alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, che pure scontano ampi margini di ineffettività, con l’eccezione del lavoro di pubblica utilità”.

IL CAOS AL CSM – La ministra è quindi intervenuta, discutendo delle linee programmatiche del dicastero, sul caos interno al Csm dopo il divampare del Palamaragate. Una soluzione proposta dal Guardasigilli “potrebbe essere quella del rinnovo parziale del Consiglio Superiore della Magistratura come già avviene per altri organi costituzionali: ad esempio, ogni due anni potrebbero essere rinnovati la metà dei laici e la metà dei togati. Una tale previsione potrebbe rivelarsi utile sia ad assicurare una maggiore continuità dell’istituzione, sia a non disperdere le competenze acquisite dai consiglieri in carica, sia a scoraggiare logiche spartitorie che poco si addicono alla natura di organo di garanzia che la Costituzione attribuisce al Csm”. Resta il dubbio dal punto di vista costituzionale, ha aggiunto Cartabia, se tale obiettivo “obbiettivo sia alla portata di una legge ordinaria, cioè se sia possibile interpretare i “quattro anni” di cui al penultimo comma dell’art. 104 Cost. come riferiti ai membri singolarmente considerati e non all’organo nel suo complesso”. Le vicende “non commendevoli”, le definisce Cartabia, che hanno riguardato la magistratura col caso Palamara “rendono improcrastinabile un intervento di riforma di alcuni profili del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario, anche per rispondere alle giuste attese dei cittadini verso un ordine giudiziario che recuperi prestigio e credibilità”.

IL NODO PRESCRIZIONE – Quanto al nodo sulla prescrizione, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, per il Guardasigilli la soluzione sarebbe quella di "aggirare" il problema: “Un processo dalla durata ragionevole risolverebbe il nodo della prescrizione, relegandola a evento eccezionale”.